Questi apparati hanno fatto passare come necessità oggettive scelte che da un lato hanno avuto un forte impatto redistributivo verso l’alto, dall’altro hanno disegnato un nuovo ordine continentale asimmetrico a vantaggio dei centri forti dell’economia europea.
All’interno dei singoli paesi si è determinato un ingente spostamento di risorse dal salario – reale e differito – al capitale, e un’ulteriore concentrazione del potere nelle mani delle élites oligarchiche a scapito del controllo democratico. Su scala continentale si è giunti al contempo a una configurazione gerarchica dell’Unione europea, con una divisione del lavoro sostanzialmente duale, sul modello di quella che ha condotto all’esplosione, nel nostro Paese, della questione meridionale. Le forze popolari e progressiste hanno il compito di smascherare l’artificio retorico attorno al quale le classi dominanti hanno costruito la narrazione della crisi: un’operazione indispensabile per il rilancio di un disegno contro-egemonico su scala continentale.
È stata la haute finance a trarre beneficio dalle dinamiche della crisi, lucrando sulla “scarsità” di risorse da essa stessa prodotta con la complicità dei governi. Nel caso della Grecia i cosiddetti “salvataggi” non sono stati altro in realtà che uno strumento per garantire la rendita finanziaria, alimentando il potere di ricatto delle élites del denaro. Le banche europee, a cominciare da quelle tedesche, hanno sin qui prestato denaro ad Atene, che, privata della libertà di indirizzare questi fondi verso reali politiche espansive, si è trovata costretta ad ulteriormente indebitarsi. I provvedimenti imposti dalla Trojka hanno quindi realizzato, mediante una partita di giro, un rafforzamento delle banche private, favorendo al contempo un colossale spostamento di risorse dal welfare alla rendita finanziaria.
Le condizioni imposte per il “salvataggio” della Grecia hanno riproposto uno schema universalizzato, dove al primo posto, immancabile, si è collocata la raccomandazione di varare un ampio piano di privatizzazioni. Queste ultime hanno portato con sé due conseguenze. Da un lato, la svendita al capitale metropolitano di asset pregiati delle periferie sconvolte dalla crisi (è di questi giorni la notizia che il gruppo tedesco Fraport si è accaparrato la gestione quarantennale di 14 aeroporti greci). Dall’altro, specie in realtà in cui il capitalismo nazionale dimostra tendenze secolari verso la trasformazione in rendita, una deindustrializzazione funzionale alla riconfigurazione in senso gerarchico della divisione continentale del lavoro.
Alle privatizzazioni hanno poi fatto seguito un po’ ovunque le “riforme del lavoro”. Lungi dall’aver determinato una ripresa dell’occupazione, attraverso di esse si è stabilizzato un enorme esercito industriale di riserva, tra le file del quale pescare manodopera dequalificata e a basso costo per la produzione di semi-lavorati, destinati ad essere assemblati dai grandi gruppi industriali metropolitani. Con l’artificio retorico dell’invecchiamento della popolazione, infine, i governi nazionali sono stati costretti a varare “riforme delle pensioni” che hanno prolungato nel tempo la condizione di sfruttamento della forza-lavoro, garantendo allo stesso tempo lauti dividendi ai grandi gruppi assicurativi privati.
Senza una netta inversione di tendenza, questa serie di misure è destinata ad avere un impatto di lunghissimo periodo e a trasformare in profondità lo spazio economico continentale. La crisi modella la costruzione dell’Europa gerarchica, mentre lo strumento del memorandum, moderna Magna Charta, la “costituzionalizza”.
Dopo la Grecia è lecito supporre l’aggressione del grande capitale europeo ad altri anelli deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in questa direzione si hanno già. Si pensi alla crescita dei colossi finanziari tedeschi, Allianz e Deutsche Bank, i quali stanno acquisendo anche in paesi come il nostro quote crescenti di mercato, al punto che Allianz è il secondo operatore in Italia nel campo delle assicurazioni. Anche per quanto riguarda il nostro mercato finanziario si pone quindi un problema di subalternità al gigante tedesco. Ma l’aspetto determinante per il dispiegarsi dell’egemonia tedesca è la deindustrializzazione del sud Europa, una delle emergenze che andrebbero affrontate nella prospettiva di un’alternativa.
Chi pensa che il futuro della Grecia o dell’Italia possa essere trainato dall’agricoltura o dal turismo, se non è in mala fede, rischia comunque di prendere un abbaglio. Non farebbe male ogni tanto rispolverare il pensiero dei nostri grandi statisti del passato. Riprendendo una valutazione di Cavour, all’inizio del Novecento Francesco Saverio Nitti affermava che «l’industria dei forestieri, l’industria degli alberghi sono grandi industrie: ma non possono considerarsi come la base del reddito nazionale. Inoltre un paese che vive dei forestieri tende in certa guisa ad abbassare il suo carattere: tende à un esprit d’astuce et de servilisme funeste au caractère national. L’industria dei forestieri invece è benefica invece in un paese già industriale che può trattare i forestieri su le pied d’une parfaite égalité».
Rispetto alla situazione in atto un’inversione di tendenza coinciderà solo con un ribaltamento degli attuali equilibri. Il nodo di fondo da affrontare è sempre lo stesso, il rapporto fra Stato e mercato: il primo deve tornare come in passato ad avere l’ultima parola sulla decisione su cosa, come e per chi produrre, cominciando con il recuperare quella che Beveridge avrebbe chiamato una “signoria sul denaro”, ossia una sottomissione della finanza al controllo democratico. Soltanto così sarà possibile perseguire politiche espansive e rilanciare la produzione industriale e terziaria in tutte le aree d’Europa.
L’accentramento dei poteri decisionali in mano ad organismi democraticamente irresponsabili ed un’asimmetrica divisione continentale del lavoro hanno proceduto fin qui di pari passo nella costruzione dell’Europa gerarchica. Solo un processo coordinato di ricostruzione dell’apparato produttivo della periferia continentale potrà innescare un processo opposto e virtuoso di riconfigurazione democratica dell’Europa.
La Repubblica, 24 agosto 2015, con postilla
CONSIDERO l’Europa una comunità di valori di cui possiamo andar fieri, ma raramente lo siamo. In Europa vantiamo i massimi standard mondiali di accoglienza dei profughi, mai rifiuteremmo asilo a chi necessita della nostra tutela, lo stabiliscono le nostre leggi e gli accordi stipulati. Mi preoccupa però il fatto che l’accoglienza sia sempre meno radicata nei nostri animi.
Quando parliamo di migrazioni parliamo di esseri umani, come noi, solo che queste persone non possono vivere come noi perché non hanno avuto la fortuna di essere nati in una delle regioni più ricche e più stabili del mondo. Parliamo di persone costrette a fuggire dalla guerra in Siria, dal terrore dell’Is in Libia, o dalla dittatura in Eritrea.
Mi preoccupa vedere che una parte della popolazione le respinge. Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Non è questa l’Europa.
Mi preoccupa quando i politici di estrema destra e di estrema sinistra alimentano un populismo che produce astio soltanto e nessuna soluzione. Discorsi pieni di odio e esternazioni avventate che mettono a rischio una delle nostre maggiori conquiste – la libertà di circolazione nell’area Schengen e il superamento delle frontiere al suo interno. Non è questa l’Europa.
La questione dei confini
C’è però fortunatamente anche l’Europa dei pensionati di Calais che mettono a disposizione i generatori così che i profughi possano ascoltare un po’ di musica e ricaricare i cellulari. L’Europa degli studenti di Sigen che hanno aperto il campus della loro università ai richiedenti asilo. L’Europa del fornaio di Kos che ha distribuito pane alla gente affamata e spossata. Questa è l’Europa in cui voglio vivere. Naturalmente non esiste una risposta unica e tantomeno semplice al problema dei flussi migratori. Come sarebbe poco realistico pensare di aprire semplicemente i confini dell’Europa a tutti i vicini, è altrettanto fuori dalla realtà credere di poter chiudere le frontiere di fronte al bisogno, alla paura e alla miseria.
È però chiara una cosa: non esistono soluzioni nazionali efficaci. Nessuno stato membro può regolare le migrazioni efficacemente per suo conto. L’approccio deve essere più europeo e non c’è tempo da perdere. Per questo la Commissione Europea sotto la mia presidenza ha avanzato, già nel maggio scorso, proposte dettagliate per una politica comune nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.
Solidarietà con i paesi vicini
Abbiamo triplicato la nostra presenza nel Mediterraneo per contribuire a salvare vite e a catturare gli scafisti. Sosteniamo gli stati membri inviando nelle regioni più interessate dal fenomeno squadre della Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne) dell’Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e della Polizia europea.
Le nostre squadre aiutano le autorità locali, spesso oberate, a stabilire l’identità dei profughi, a registrarli e prelevarne le impronte digitali, nonché ad accelerare il disbrigo burocratico delle richieste di asilo. Interveniamo contro le reti dei trafficanti stroncando poco a poco la loro spietata attività commerciale.
Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi da paesi extraeuropei. Collaboriamo con i paesi di provenienza o attraversati dai profughi. In questo modo intendiamo aprire vie legali, sicure e controllabili per i migranti.
Concludiamo accordi di rimpatrio che agevolano il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di re- stare in Europa. E insistiamo perché sia posto in atto il sistema comune di asilo europeo deliberato recentemente da tutti gli stati membri – a partire dalle condizioni di accoglienza e dalla procedura di asilo fino all’obbligo di prelevare le impronte digitali dei profughi al loro arrivo in Europa.
La distribuzione dei migranti
La Commissione vuole “distribuire equamente” 40.000 migranti. In maggio la Commissione ha proposto un sistema per distribuire equamente in seno all’Ue una parte delle persone che arrivano in Italia e in Grecia e necessitano di tutela. Era intenzione della Commissione smistarne 40mila, gli stati membri sono già stati in grado di accettarne più di 32mila. Vogliamo essere ancor più incisivi creando un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia necessità.
L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare al loro destino i paesi membri che si trovano in prima linea, bensì di affrontare le sfide delle migrazioni con spirito di solidarietà. Alcune delle misure proposte dalla Commissione hanno già trovato sostegno. Tutte le altre devono essere affrontate con urgenza dai 28 stati membri, anche da quelli che finora si sono rifiutati. I drammatici avvenimenti di quest’estate ci hanno dimostrato che ormai dobbiamo mettere in atto senza indugio la politica comune europea nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.
Non servono solo i vertici straordinari dei capi di Stato e di governo. Si è già tenuto un vertice sulle migrazioni, a novembre ci rincontreremo a Malta. Dobbiamo far si che tutti gli stati dell’Ue approvino subito le norme europee necessarie, dando loro immediata attuazione.
L'ingresso nella UE
I paesi balcanici aspirano all’ingresso nella UE, ma non devono essere sicuri? Già nove anni fa la Commissione ha proposto una lista dei paesi di provenienza sicuri. Gran parte dei governi all’epoca bocciò l’iniziativa considerandola un’ingerenza nella propria sfera di competenza . Non è logico però che i paesi membri approvino la candidatura all’ingresso nella Ue dei paesi dei Balcani occidentali se al contempo non li classificano come sicuri. Quindi a settembre la Commissione degli stati membri presenterà una lista comune dei paesi di provenienza sicuri.
Ciò di cui abbiamo bisogno e ancora ci manca è il coraggio collettivo di adempiere alle norme del diritto europeo e ai nostri obblighi nei confronti degli individui anche se farlo non è semplice e certo spesso impopolare.
Invece vedo che si punta il dito contro gli altri in un gioco a scaricabarile che può forse servire a guadagnare attenzione e voti ma non risolve i problemi.
La cancelliera tedesca recentemente mi ha segnalato come in Germania certi Länder e comuni considerino le norme europee sull’assegnazione di appalti pubblici di ostacolo alla pronta realizzazione di alloggi per i profughi.
L'Europa è un continente resistente
Abbiamo subito controllato e abbiamo potuto stabilire che non è esatto. L’Europa contribuisce alla sistemazione dei profughi e io sono pronto, a inviare i miei collaboratori a Berlino e nei vari Länder se dovessero insorgere problemi concreti.
L’Europa fallisce se la paura prende il sopravvento. L’Europa fallisce quando gli egoismi hanno più voce della solidarietà presente in ampie porzioni della nostra società. L’Europa ha successo quando superiamo in maniera pragmatica e non burocratica le sfide del nostro tempo.
Spero che assieme – gli stati membri, le istituzioni e le agenzie Ue, le organizzazioni internazionali e i nostri vicini – riusciamo a dimostrare che siamo all’altezza delle sfide. Sono convinto che possiamo farcela.
La nostra storia comune lo dimostra: l’Europa è un continente resistente, che di fronte alla minaccia di essere spaccato finisce per unirsi. Questo dovrebbe esserci di incoraggiamento per le prossime settimane e mesi.
Traduzione di Emilia Benghi
postilla
Chissà se Juncker si rende conto di quattro fatti che solo a un sordo, cieco e muto possono sfuggire:
(1) Il problema non è adoperasi di fare un po’ di beneficienza per qualche decina di migliaia di disgraziati, facendo sgocciolare giù un po’ delle ricchezze dei benestanti, ma è quello di consentire condizioni umane di vita a milioni di profughi provenienti da un’area che comprende un intero continente (l’Africa) e un bel pezzo d’un altro continente (l’Asia). Non si tratta di mitigare le conseguenze di una calamità naturale, ma di governare un “esodo biblico”.
(2) i profughi (chiamiamoli quello che sono, non distinguiamoli sulla base di tassonomie insensate) fuggono dalle guerre e dalle carestie derivate dallo sfruttamento rapace variamente esercitato nei secoli di dominio dai governi (e dai popoli) del mondo Nordatlantico, un mondo di cui l’Europa fa parte da mezzo millennio.
(3) Lo sfruttamento di una parte dell’umanità da parte di un’altra si è fortemente accentuato nella fase, per ora terminale, del capitalismo, la cui ideologia e le cui pratiche sono variamente definite (chiamiamole, se volete, neoliberistiche).
(4) L’Unione Europea, di cui Junker è uno dei leader, è tenacemente abbarbicata, nella sua stragrande maggioranza, a quella ideologia e alle sue pratiche, come è finalmente chiaro a tutti grazie alla ferocia con cui Juncker, i suoi complici e i loro succubi ai si sono opposti ai ragionevoli sforzi della Grecia di Tsipras per indicare la direzione in cui muoversi per iniziare la costruzione di un’Altra Europa.
Predicatori complici di ingiustificabili assassini, ma i giovani che cascano nella loro rete «vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib».
La Repubblica, 23 agosto 2015
ORMAI tutti i più importanti stati europei sono multietnici: alcuni più, altri meno; alcuni di buon grado, altri malvolentieri. Dalla piccola Irlanda a Occidente, che ha acconsentito ad aumentare la propria quota di migranti all’altrettanto piccola Estonia a Est, che ne ha accolti pochi ma è sotto pressione per accoglierne di più; dalla Germania nel centro d’Europa che ha aperto le porte e continua a farlo per decine di migliaia di migranti, alla Grecia e all’Italia nel Meridione, che hanno afflussi enormi di disperati in arrivo e in transito nelle loro città. E sempre più spesso, i nuovi europei sono musulmani in arrivo da Medio Oriente, Africa, Pakistan e India.
La minaccia jihadista, germogliata in casa, proviene per lo più dall’interno di queste comunità musulmane, la stragrande maggioranza delle quali è pacifica. Un numero significativo di immigrati musulmani è ben integrato nella cultura del paese che ha scelto; una piccola élite occupa posti influenti e di potere nel mondo degli affari, della cultura, della politica.
Ma un gruppetto di donne e uomini, per lo più giovani, è diventato jihadista: a centinaia si sono uniti allo Stato Islamico, e già in cinquecento hanno lasciato il Regno Unito per combattere a fianco dell’Is in Siria. Alcuni, come il britannico Jihadi John – il cui vero nome è Mohammed Emwazi – sono diventati famigerati assassini. Emwazi – tra molti quello che gode della peggior fama – ha decapitato almeno otto ostaggi occidentali l’anno scorso: in un filmato con audio ottenuto dal Mail on Sunday , si vanta del fatto che tornerà nel Regno Unito per uccidere ancora.
Le gesta di Jihadi John e dei suoi compagni sono concepite per seminare il terrore, ma anche la diffidenza. Per coloro che hanno abbracciato il terrorismo e lo impugnano come un’arma contro tutti gli infedeli – e spesso i musulmani che credono in “modo sbagliato” sono le loro prime vittime – le pacifiche società multietniche e multireligiose sono un abominio. Nel migliore dei casi, nella visione del mondo dei jihadisti le altre religioni quali il Cristianesimo, l’Induismo, l’Ebraismo e il Buddismo devono essere sottomesse alla legge musulmana. Nel peggiore, devono essere costrette a convertirsi all’Islam con la forza. Non devono convivere in armonia, perché l’armonia non è tollerata.
Per quale motivo giovani donne e giovani uomini che vivono in società confortevoli come quelle dell’Europa occidentale – dove le loro famiglie hanno trovato casa e lavoro, dove possono praticare liberamente la loro fede, dove sono in vigore leggi che vietano di discriminarli – si interessano a un gruppo violento ed estremista come l’Is e in qualche caso arrivano a scagliarsi contro i loro stessi concittadini nei paesi d’adozione? Ciascun individuo è unico: ma alcuni hanno caratteristiche comuni.
L’Is, come Al Qaeda e altri gruppi terroristici, ha imparato bene come sfruttare la Rete, e i contenuti che trasmette riescono a essere persuasivi. Più di ogni altra cosa, il messaggio lanciato sottolinea sempre una medesima cosa: che il vero Islam è sotto attacco da parte dei crudeli infedeli – americani, britannici, francesi, altri ancora – che aspirano a massacrare i musulmani e a distruggere l’Islam.
Coloro che si collegano a questi siti vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib. Le immagini e il commento sonoro sono ingegnosamente concepiti per risvegliare l’odio nelle menti dei giovani che potrebbero sentirsi estraniati dalle società che li ospitano e anche dai loro genitori, e che considerano i militanti dell’Is una legione di soldati puri e coraggiosi, dediti alla creazione di uno stato divino. Ecco perchè alcuni giovani musulmani si abbandonano all’odio e in alcuni casi si lanciano nella violenza attiva. E così, le comunità in senso più ampio iniziano a temere il nemico che hanno dentro di sé. E così, un numero crescente di cittadini chiede che si ponga fine all’immigrazione, che potrebbe far arrivare altri jihadisti. Il virus dell’odio inter-etnico in questo modo attecchisce e cresce, e le società iniziano a disintegrarsi. L’Is così potrebbe vincere, a meno di essere fermato.
«Voglio allora dirlo nel modo più netto possibile: io credo che la decisione di andare a elezioni anticipate da parte del Governo di sinistra greco sia un esempio di "Grande politica"» Il problema è «come rendere più forte la nostra iniziativa, in Italia e in Europa, in modo da non lasciare più a lungo Atene sola».
Il manifesto, 23 agosto 2015
Credo che chi la pensa così in realtà ignori del tutto il contesto in cui la partita si gioca (quello europeo, segnato da un feroce rapporto di forza), la dimensione dinamica di essa (non c’è una mossa definitiva, fine a se stessa, in cui si vince o si perde tutto, ma un quadro in movimento in cui la mossa di ognuno influisce sulle posizioni degli altri), la natura dei protagonisti in campo (si pensa davvero che Alexis Tsipras da eroe omerico sia diventato di colpo un rinunciatario o addirittura un «traditore»?).
Voglio allora dirlo nel modo più netto possibile: io credo che la decisione di andare a elezioni anticipate da parte del Governo di sinistra greco sia un esempio di «Grande politica». Anziché perdersi in alambicchi e campagne acquisti per rosicchiare consensi tra le componenti di Syriza (comprese quelle che hanno rifiutato il Congresso puntando alla scissione), Tsipras ha scelto di tagliare i nodi e di rivolgersi all’elettorato greco come «sovrano», con una prova di spirito democratico assente in tutte le altre classi politiche europee, e insieme di coraggio. Non si è dimesso perché «ha perso», ma perché «vuole vincere».
La ragione non solo tattica ma strategica delle dimissioni non è la «fine della sua maggioranza» — che probabilmente avrebbe potuto raggranellare in qualche modo — ma al contrario il bisogno di una più chiara e più forte maggioranza: la volontà di essere pronto, nelle migliori condizioni possibili (cioè con una «propria» maggioranza, coesa e determinata) per le sfide d’autunno, che saranno dure e alte: la questione del debito in Europa — messa in agenda globale grazie alla sua politica -, la gestione della crisi sociale in Grecia, la necessità di allargare il fronte dell’opposizione al neoliberismo e all’austerità nello spazio europeo, fuori da ogni tentazione sovranista o nazionalista, con una politica intelligente, pragmatica ed efficace (l’opposto dello schematismo ideologico dei suoi critici, di destra e di sinistra).
Lungi dall’arretrare o «ritirarsi» a me sembra che passi all’offensiva, alzando la posta e quindi, di conseguenza, cercando di portare la propria forza politica all’altezza di essa.
In autunno si giocheranno molte sfide in Europa e non solo. E si potranno produrre molti cambiamenti: nel Regno Unito, dove Corbyn promette di seppellire definitivamente la desolante eredità blairiana, negli stessi Stati Uniti dove una candidatura socialista minaccia da vicino la strapotenza dei Clinton, in Spagna naturalmente e in Portogallo… I critici di Tsipras farebbero bene a riflettere meglio piuttosto che sulle debolezze della sinistra greca, sulle contraddizioni, ben più potenzialmente esplosive, dell’establishment europeo, apparentemente onnipotente in realtà dai piedi d’argilla (a cominciare dalla Germania, tanto più dopo la «sindrome cinese»).
«Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora».
La Repubblica, 23 agosto 2015
Venti giorni fa, a Calais, un padre disperato, dopo chissà quanti tentativi ricacciati, aveva spinto la propria bambina oltre il reticolato, verso una salvezza di orfana. Da due giorni, alla frontiera greco- macedone di Gevgeljia, altri padri tendevano i loro piccoli verso le guardie macedoni, e ieri hanno infranto la barriera, in una esasperata Schengen alla rovescia, andando contro lacrimogeni e bombe assordanti. Che cosa volete che siano le bombe assordanti per chi viene dalla Siria dei barili esplosivi sganciati dal cielo e delle bombe chimiche. E i poliziotti macedoni, descritti come impassibili da qualche cronaca- “Sono gli ordini” - hanno sperimentato anche loro la differenza fra “il problema della migrazione” e una faccia di bambina spaventata che piange. Una storia del progresso umano dovrà tenere in gran conto l’invenzione del filo spinato (1874) e la sua evoluzione nel filo a lama di rasoio, quello attraverso il quale vedete insinuarsi i bambini nelle fotografie di ieri.
Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora. Gli annegati nel Mare Nostro sono già più di 2.300, in nemmeno 8 mesi. Gli arrivati, più di 255mila – 105mila in Italia, quasi 150mila in Grecia. Perfino il record delle vacanze estive sulle nostre località balneari va annotato nello stesso registro di entrate e uscite, avvantaggiato com’è dal crollo del turismo tunisino (la metà dei posti perduti), dalle paure per l’Egitto, dalle incertezze greche...
Le Monde) Inizia la campagna politica europea dell'ex ministro di Tsipras. L’ex ministro è convinto e, insieme a Tsipras, ha fatto capire a tutti: «Schäuble e i creditori non vogliono salvarci, la Grecia è un laboratorio, poi attaccheranno lo Stato sociale europeo». La Repubblica, 23 agosto 2015
Le elezioni rischiano di slittare al 27 settembre, una settimana dopo a quanto preventivato da Alexis Tsipras. Né Nuova Democrazia (il secondo gruppo parlamentare) né Unità Popolare (terzo come numero, appena nato da una scissione di Syriza) rinunceranno ai tre giorni di mandato esplorativo concesso dalla Costituzione. Oggi scade il tempo per Nd. Il premier uscente ha commentato la fuoriscita da Syriza spiegando che «non è un atto rivoluzionario spaccare un partito per collocarsi all’opposizione». La replica: «Tsipras confonde la dittatura del memorandum con il funzionamento democratico». Schermaglie elettorali, di sfondo resta l’Europa con, Klaus Regling capo dell’Esm, che ricorda: «Il denaro sarà erogato solo dopo l’attuazione delle riforme»
ATENE . Provocatorio, idealista, arrogante. Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze greco, è tanto affascinante quanto fastidioso. Il terzo piano di aiuti alla Grecia, che lui definisce come una “capitolazione” di fronte ai creditori, porterà il suo paese nel baratro, spiega. Denuncia l’opacità dell’Eurogruppo, che, secondo lui, prende le decisioni più importanti per il futuro della zona euro senza che i cittadini ne siano informati.
Arnaud Montebourg l’ha invitata alla Fête de la Rose, (parlerà oggi ndr ). A che punto è la sinistra europea?
«Ha un grande lavoro davanti a sé. L’unione monetaria, costruita in origine per unire i popoli europei, li ha invece divisi, mettendoli gli uni contro gli altri. C’è un urgente bisogno di ridare vita al dialogo democratico. In questo senso, mi sembra essenziale creare una rete europea dei progressisti, al di là delle divisioni politiche tradizionali e dei confini, pronta a perseguire un obiettivo radicale: democratizzare l’euro e le sue istituzioni, con tutti coloro che sono convinti che nulla di buono può venire dai tecnocrati di Francoforte o di Bruxelles che depoliticizzano la moneta».
Chi potrebbe dirigere questo movimento?Lei?
«Non si tratta di sapere chi lo potrebbe dirigere, è una decisione che non può venire dall’alto, né può essere ridotta a un leader, chiunque sia».
La Francia è stata un’alleata del governo di Alexis Tsipras nel corso dei negoziati con i partner della Grecia?
«La maggior parte degli europei immagina che negli ultimi mesi la Grecia abbia negoziato con i suoi partner della zona euro. Non è così. Durante i cinque mesi in cui sono stato coinvolto, i miei omologhi mi rimandavano sistematicamente ai rappresentanti di Commissione, Bce e Fmi. Non ho mai negoziato direttamente con Michel Sapin. Né con Wolfgang Schaeuble, che mi assicurava di non poter fare nulla per me. Anche quando Schaeuble ed io abbiamo finalmente aperto un dialogo, poco prima del mio ritiro, era chiaro che qualsiasi grado di convergenza tra noi non poteva essere espresso formalmente».
Rimprovera al governo greco di aver firmato il terzo piano di aiuti?
«Ho votato contro questo programma. Purtroppo, il primo Ministro alla fine ha accettato ciò che lui stesso ha definito non buono. L’Europa intera ne uscirà perdente».
Eppure ha evitato il “Grexit”
«Questo è il modo in cui la stampa presenta le cose, ma io non condivido. Se la Grecia tenta, a dispetto del buon senso e delle leggi elementari dell’economia, di applicare questo memorandum e le riforme che lo accompagnano, corre dritta verso il Grexit. Perché questo programma è stato concepito per affondare la nostra economia. Risultato: non potremo mantenere i nostri impegni, e Schaeuble potrà puntare il dito contro di noi e tagliare gli aiuti al nostro paese. L’obiettivo che persegue è molto chiaramente il Grexit».
Lei sostiene che il ministro Schaeuble vuole spingere la Grecia fuori dall’euro. Per quale motivo?
«Per colpire la Francia. Lo stato sociale francese, il suo diritto del lavoro, le sue imprese nazionali sono il vero obiettivo del ministro delle finanze tedesco. Egli considera la Grecia come un laboratorio di austerità, dove sperimentare il memorandum prima di esportarlo. La paura del Grexit mira a far crollare le resistenze francesi, né più né meno».
Lei chiede di creare nuove istituzioni nella zona euro, di dare più potere al Parlamento europeo?
«Ritengo che non abbiamo un Parlamento europeo. L’istituzione di oggi non compie la sua missione. È un insieme di interessi nazionali che insulta il concetto stesso di democrazia ».
Se potesse tornare indietro, al mese di gennaio, quando Syriza è andato al potere ed è stato nominato ministro delle Finanze, che cosa cambierebbe?
«Molte cose. Ma soprattutto una. Il 20 febbraio, avevamo raggiunto un accordo importante con i creditori. Non menzionava più il memorandum, ma spiegava che il governo greco avrebbe presentato un elenco di riforme, convalidate dai partner che lo avrebbe sostituito. Solo che, due giorni dopo, i dirigenti delle istituzioni, Pierre Moscovici, per la Commissione, Christine Lagarde, per il Fmi e Mario Draghi, per la Bce, hanno reintrodotto il riferimento al memorandum durante una conferenza telefonica. A quel punto, avremmo dovuto rifiutare di continuare la discussione ».
Nei sei mesi in cui è stato a capo del ministero delle Finanze, non ha preso alcuna decisione per lottare contro la corruzione e gli oligarchi, che denuncia con vigore.
«Questo è un ottimo esempio della disinformazione contro cui mi batto. Abbiamo preso, nonostante tutto, dei provvedimenti, in particolare sull’evasione fiscale, uno dei principali mali del paese. Uno di essi consiste nell’uso di un software con un algoritmo che consente di confrontare i trasferimenti di denaro tra conti bancari degli ultimi venti anni con le dichiarazioni dei redditi. Si tratta di un progetto notevole. Tanto più tenendo conto che la troika non ci ha facilitato le cose. Ma ci siamo riusciti. Se tutto va bene, più di seicentomila evasori fiscali verranno identificati grazie a questo algoritmo a settembre o ottobre. Sarebbe un grande successo».
Perché la “troika” non vi ha aiutato?
«Il suo vero obiettivo non è mai stato quello di riformare il nostro paese, né di recuperare il denaro prestato alla Grecia. Altrimenti, avrebbe accettato le nostre proposte, vale a dire di ridurre il debito pubblico, di istituire una struttura di riscatto per gestire i crediti in sofferenza, e lanciare una banca d’investimento in grado di rafforzare l’economia e la crescita potenziale. Al contrario, ha preferito imporci delle condizioni che garantiscono che non saremo mai in grado di ripagarlo».
Ma a quale scopo?
«Perché la Grecia è solo una battaglia in una guerra molto più ampia per il controllo dell’unione monetaria. Nel 2010, il primo piano di aiuti aveva come obiettivo salvare le banche francesi e tedesche. Oggi, i creditori cercano semplicemente di controllare il governo greco, per neutralizzare gli altri paesi che potrebbero sfidare l’ordine costituito, questo è il progetto di Schaeuble».
In queste circostanze, la Grecia deve malgrado tutto rimanere nell’euro?
«Alexis Tspiras mi ha nominato ministro delle Finanze perché sono e sono sempre stato convinto che, nonostante i difetti iniziali dell’unione monetaria, non è possibile né opportuno uscirne. Dobbiamo cercare, invece, di risolvere ciò che non funziona al suo interno.
Non sono, d’altra parte, un feticista dell’euro, né della dracma. Le monete, come i mercati finanziari, sono degli strumenti al servizio di un obiettivo: migliorare la vita dei cittadini. Ma negli ultimi vent’anni, abbiamo avuto la tendenza a dimenticarlo. I mercati, come l’euro, sono diventati delle religioni».
Continuerà a impegnarsi nella vita politica greca?
Assolutamente sì. Quando, dopo una lunga riflessione, sono sceso nell’arena politica, l’ho fatto per restarci. Voglio rappresentare i greci che hanno votato per me e lottare per loro con tutti i mezzi possibili. La missione che sento di dover compiere oggi è quella di rendere pubblico a livello internazionale ciò che è accaduto in Grecia negli ultimi mesi».
Lei ha dato il suo sostegno a Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che cerca di far svelare il trattato di libero scambio transatlantico. Renderebbe pubblici anche dei documenti dell’ Eurogruppo?
«Il mio rapporto con Julian Assange va oltre le pure questioni europee. La mia esperienza dell’Eurogruppo, dove si prendono decisioni importanti senza che i cittadini ne siano informati, senza documentazione scritta, riecheggia la guerra di Wikileaks, contro un mondo in cui i potenti dispongono di tutte le informazioni e i cittadini non hanno nulla».
copyright Le Monde traduzione di Luis E. Moriones
Crede che Syriza possa porsi come obiettivo la maggioranza assoluta, come dicono molti suoi compagni di partito? E su cosa basate il vostro ottimismo?
«Il periodo difficile delle trattative si è concluso con il nuovo accordo e con la riscossione della prima tranche del nuovo prestito. A conclusione di questo periodo si sono esauriti anche i termini del mandato popolare che abbiamo ricevuto il 25 gennaio. Poiché crediamo fermamente nelle procedure democratiche e abbiamo piena fiducia nel giudizio del popolo, facciamo di nuovo ricorso ad esso, perché possa dire se abbiamo rappresentato correttamente il nostro paese, se abbiamo dato la giusta risonanza alla dimensione europea e mondiale della questione, se l’accordo raggiunto offre le precondizioni affinché si possano superare le vie senza uscita in cui ci si trova oggi, e — infine — chi e in che modo può guidare il paese nel futuro.
«Abbiamo la coscienza a posto e siamo fieri della battaglia che abbiamo condotto, e sono ottimista, prevedo che i cittadini sceglieranno nuovamente Syriza. L’insistenza, la sincerità e la determinazione con la quale abbiamo trattato, come anche le prove date con le nostre iniziative politiche, riguardo a molte questioni su cui abbiamo legiferato sul piano interno, verranno giudicate, io credo, positivamente. È quello che mostrano, poi, anche le più recenti indagini demoscopiche. Non stiamo più vivendo, inoltre, nel clima di allarmismo sul quale si era basata la polemica creata contro di noi, alle elezioni di gennaio. I cittadini non hanno motivo di essere titubanti nel dare nuovamente a Syriza il mandato chiaro, necessario a governare. Sanno che gestirà nel miglior modo possibile il programma concordato con i creditori, che è indubbiamente difficile, e al tempo stesso garantirà importanti cambiamenti e un vero rinnovamento, basati, principalmente, sulla giustizia e i diritti sociali».
Le forze di opposizione metteranno sicuramente l’accento sul fatto che a gennaio vi eravate schierati contro i memorandum, mentre la settimana scorsa avete firmato un nuovo compromesso, un nuovo memorandum. Cosa rispondete?
«Abbiamo esaurito tutto lo spazio di una trattativa dura e dolorosa, arrivando anche a delle situazioni –limite. Davanti al ricatto e al pericolo immediato di una catastrofe senza precedenti, per il paese e prima di tutto per le classi più deboli, abbiamo scelto il miglior compromesso che potevamo ottenere. Ora chiediamo nuovamente la legittimazione popolare per poter gestire questo accordo, per ridurre al minimo le conseguenze negative di questo accordo e usare al meglio le fratture che abbiamo creato nel campo dell’«armata dell’austerità» in Europa».
Cosa prova, sul piano politico e personale, riguardo alla scissione di Syriza? Comprende una parte delle posizioni dell’ex Piattaforma di Sinistra, o i vostri approcci sono, ormai, totalmente differenti?
«Una scissione costituisce sempre un processo doloroso. Spero che la nostra esperienza comune di eventi traumatici del passato e il percorso comune fatto assieme, sino ad ora, aiutino ad evitare gli aspetti peggiori che potrebbero esserci, riguardo ad eventuali sviluppi. Devo confessare, tuttavia, che non comprendo l’approccio degli ex compagni, visto che l’esperienza della trattativa ha mostrato i limiti oggettivi dello scontro. Ci siamo trovati, realmente, sull’orlo del precipizio e credo che questo avrebbe dovuto aiutare, tutti noi, a comprendere l’ambito nel quale dobbiamo portare avanti le nostre rivendicazioni. La soluzione alternativa dell’uscita dall’ Europa — dalla moneta comune o anche dalla stessa Unione europea– non è, in nessun caso, un progetto politico sostenibile».
Alexis Tsipras continua a godere di grande popolarità, anche dopo la firma dell’accordo con i creditori. Lei che collabora con lui quotidianamente, a cosa lo attribuisce?
«Indubbiamente, il primo ministro greco gode di una grande popolarità che supera anche i confini del paese. Credo che sia evidente anche in Italia e tra i lettori del vostro giornale, dal momento che una grande parte della sinistra italiana ha mostrato di trovare ispirazione nello sforzo di Alexis Tsipras e di Syriza. Alexis Tsipras ispira i cittadini, in Grecia e anche all’estero, e credo che questo sia dovuto alla sincerità del suo agire politico, al fatto che metta in risalto i valori della sinistra, al suo fortissimo impegno nella lotta contro la corruzione, gli intrecci tra la politica e gli interessi economici consolidati, e alla sua azione contro le politiche che hanno portato al vicolo cieco in cui siamo finiti».
È ministro dell’economia, uno dei principali conoscitori e responsabili del settore. Quanto negativamente influiranno sull’economia reale e la vita delle famiglie le misure del nuovo memorandum? Esiste una possibilità reale di sostenere le classi sociali più deboli?
«Non intendo certo risponderle che si tratta di un accordo privo di problemi. Offre, tuttavia, una base di stabilità per fare in modo che ci sia la ripresa, dal momento che la dinamica di sviluppo dell’economia, in passato, è stata sempre frenata. Il poter riuscire a far sviluppare, appunto, questa dinamica, l’alleggerimento del debito (che è già iniziato per quel che riguarda le scadenze immediate e continuerà per quelle a più lungo termine), assieme alle risorse per gli investimenti che arriveranno nel prossimo periodo (dai fondi comunitari, dai finanziamenti da banche di investimenti e piano Juncker) e riforme-base (dal sistema fiscale sino allo stato sociale) possono creare le condizioni per il sostegno di chi è più in difficoltà. Chiediamo il mandato popolare esattamente per realizzare queste condizioni».
Syriza continua ad essere un partito della sinistra o potrebbe trasformarsi in una forza di centrosinistra, in un «Pasok 2.0»? Lotta ancora contro l’onnipresente finanza e il predominio tedesco in Europa?
«Syriza era e rimane un partito di sinistra, che lotta per gli interessi dei più deboli, e definisce se stessa con chiarezza nei confronti della socialdemocrazia. Siamo riusciti a creare delle crepe nel fronte europeo dell’austerità. Dopo le elezioni, con la forza che ci darà il popolo greco, continueremo a lottare affinché queste crepe diventino una frattura, e in una rottura definitiva con le politiche che hanno portato alle vie senza uscita in cui si è trovata la Grecia ma anche tutta l’Europa».
«L'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta.».
Huffington post, 22 agosto 2015
Aveva di fronte due scelte: o accettare l'invito di Schauble a una Grexit che in realtà avrebbe significato l'uscita definitiva della Grecia dall'euro o compiere parecchie rinunce pur di rilanciare la discussione sul debito greco nel suo complesso.
Ha scelto questa seconda strada. L'accordo è tutt'altro che bello e gli spazi per resistere ai suoi lati peggiori e più invasivi sono davvero stretti. Ma questo la leadership greca, eccezione si può dire unica rispetto alla retorica dominante dei governi europei, non lo ha nascosto né al popolo né al parlamento.
Il prezzo pagato è probabilmente quello di una scissione di Syriza, tutt'altro che indispensabile e auspicabile. Proprio nel momento in cui il fronte avversario si divideva, con il Fmi a sostenere che è necessario un taglio nominale del debito greco altrimenti insostenibile (tesi affermata dai greci fin dall'inizio); con Olanda e Finlandia che da falchi si son fatte colombe (almeno per ora); con le preoccupazioni tedesche ed europee che si spostano, o dovrebbero farlo, assai più sulle conseguenze della tripla svalutazione della divisa monetaria cinese (basta vedere che l'auto tedesca già esporta un 30% in meno in Cina).
Ma ha ragione Tsipras: una fase si è chiusa, se ne apre un'altra e il governo ha bisogno di un mandato popolare forte e rinnovato. In autunno il punto sarà l'apertura della trattativa sulla ristrutturazione /riduzione del debito. E' una questione che non riguarda solo la Grecia ma i debiti sovrani di tutti paesi europei. Anche il nostro, se avessimo un governo all'altezza.
Ha ragione, tra l'altro, il governo greco a chiedere una presenza nella trattativa del Parlamento europeo in quanto tale, unica istituzione effettivamente elettiva della Ue.
Ma una trattativa di questo genere, come la resistenza agli aspetti più odiosi dell'accordo che ha sbloccato gli 86 miliardi (che in gran parte tornano ai creditori istituzionali), non si può fare senza un popolo e un paese coesi. Tsipras lo sa bene, perché lì è sempre stata la sua forza. Un conto è aprire e reggere una divergenza con Varoufakis - che peraltro, a quanto si sa, non ha voluto fare parte del nuovo schieramento che si sta formando contro Tsipras - nel pieno rispetto delle opinioni di ognuno, un altro è caricarsi sulle spalle un paese e traghettarlo oltre la peggiore crisi economica e sociale della su storia. Per questa ragione il passaggio elettorale era ed è ineludibile.
Del resto questo è il modo migliore e più inequivocabile per rispondere a chi tentava di delegittimare la leadership di Tsipras, mettendone in dubbio la effettiva rappresentatività - come le élite europee che hanno cercato in ogni modo di "farlo fuori" - e nello stesso tempo di replicare nei fatti a chi - all'interno stesso di Syiriza - avanzava accuse di cedimento se non di tradimento.
Ora ognuna e ognuno è di fronte alle proprie responsabilità. Anche la sinistra europea. Non certo la socialdemocrazia che, come nel caso tedesco, ha fatto a gara ad essere più realista del re nel bastonare il debitore greco. Non certo il partito di Renzi che nella sostanza e al dunque ha sempre appoggiato la Merkel. Ma quella che si è venuta raccogliendo attorno alle nuove esperienze di verticalizzazione politica di movimenti sociali che tornano a tormentare i sonni delle oligarchie di governo, dalla Spagna all'Inghilterra, pur con diverso peso e incidenza politico-sociale.
Se l'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta. Se vuole vincere nelle prossime prove nei rispettivi paesi, cambiando così il volto politico e sociale dell'Europa stessa e salvandola da una sua implosione.
Tutto vero, tutto giusto. Parole condivisibili, gioielli in un mare di chiacchiere. Ma un risvolto rivelatore d'una situazione drammatica: per combattere l'antistato non si fa ricorso alla laicità della politica e all'autorità di chi abbiamo eletto, ma alla religione e all'autorità del papa. L
a Repubblica, 22 agosto 2015
Non bisogna farsi illusioni. La partecipazione di quella piccola folla nella periferia romana è stata sincera, non è stata costretta né spinta dalla curiosità per la morte di una celebrità o dalla voglia di partecipare a un evento. Si va ad omaggiare don Vittorio Casamonica perché don Vittorio anzi Zio Vittorio ha saputo “governare” il suo regno nascosto, è stato presente nelle vite di chi lo va a salutare.
Le organizzazioni criminali sono strutture serie in grado di organizzare il consenso, mantenere la parola, distribuire ricchezze, intervenire nel momento in cui non solo gli affiliati ma il proprio territorio ha necessità. Nel vuoto dello Stato esiste un anti-Stato criminale che riesce a generare consenso tra la sua gente anche se il suo “governo” vuol dire estorsioni, usura, droga, violenza. È un anti-Stato in grado di portare soldi, e molti, ai capi ma anche diffusione di benessere e controllo del territorio. È paradossale dirlo, ma è vero: se domani l’economia criminale sparisse da questo Paese, il Paese ne avrebbe un contraccolpo non solo economico ma organizzativo. La classe dirigente mafiosa in Italia ha una sua terribile efficienza.
Ecco perché il funerale di un capo-clan non è semplicemente una messa in scena, un’ostentazione kitsch di opulenza e dominio. Tutt’altro: i Casamonica sono una mafia emergente, emergente non perché sono dei novizi ma perché dopo decenni di crimine subalterno e gangsteristico hanno cercato di strutturarsi in regole e gerarchie e hanno quindi costruito una cultura ed un’economia mafiosa attorno al proprio sangue e al proprio gruppo. L’ambiguità di criminali di piccolo cabotaggio ma tutto sommato in grado di farsi ascoltare in borgata li ha resi interlocutori della politica (la cena con Poletti e le foto con Alemanno) al punto da potersi permettere di sedersi al tavolo stesso del Palazzo come borderline tra la strada — il carcere e il (finto) impegno sociale. Quindi i Casamonica come tutti i gruppo neo-mafiosi hanno bisogno come ossigeno di queste celebrazioni. Anche la musica del Padrino è il riferimento più chiaro a chi vuole in tutti modi mostrare che è uscito dal marciapiede e dai campi e si è eletto a gruppo mafioso.
La chiesa di papa Francesco ha scomunicato i mafiosi, ha spinto ‘ndranghetisti in carcere a non presentarsi alla messa temendo che il solo partecipare potesse significare agli occhi dei vertici dell’organizzazione una dichiarazione di distanza dalle cosche. Ora la chiesa di Francesco deve fare un nuovo passo: commissariare la chiesa di San Giovanni Bosco. Non so se le regole vaticane prevedono misure simili, non so se è il termine adatto, non mi riferisco al diritto canonico. Sarebbe però un gesto in grado di interrompere il legame tra sacramenti religiosi e sacramenti mafiosi. Il sacramento mafioso è l’utilizzo dei rituale religioso per avere un’investitura pubblica, per trovare uno spazio legittimo per manifestare se stessi e la propria forza e autorità. Don Peppino Diana ne fece la sua battaglia: quella di impedire che battesimi, comunioni, cresime divenissero occasioni di autocelebrazione criminale. Fu proprio questa sua scelta che lo condannò a morte.
Il parroco che ha celebrato il funerale di Vittorio Casamonica, don Giancarlo Mattei, risponde nel più classico dei modi: «Non sapevo chi fosse». E ha aggiunto: «Il perdono c’è per tutti. La chiesa non discrimina, io l’assoluzione la do a tutti». Strano: la stessa chiesa che ha spalancato le porte al clan Casamonica le ha chiuse invece a Welby “colpevole” di aver scelto di lasciare una vita diventata per lui insopportabile. Questa volta il sacerdote ha deciso invece di celebrare il funerale. Bene. Ma avrebbe dovuto rifiutarsi di farlo quando si è trovato di fronte ad un teatro del genere. La scomunica di papa Francesco non è contro l’uomo, non si rivolge all’individuo. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Ieri quel funerale è apparso come pura prassi mafiosa. L’assoluzione che doveva andare all’uomo è stata estesa, di fatto, al suo sistema di potere criminale.
Roma è una città impreparata. La trasformazione è accaduta raccontandosi la menzogna di essere territorio immune, semplicemente “invaso” da rubagalline e bande. La stessa favola che vede piangere miseria le donne dei Casamonica nella perfetta tradizione mafiosa, nella quale i grandi capi risultavano essere dipendenti di fruttivendoli, si dichiaravano semplici contadini con una giovinezza di rubamacchine. Roma ha sempre creduto di essere estranea alle dinamiche mafiose. Del resto il suo gruppo più forte si chiamava appunto “Banda della Magliana”, banda è qualcosa di molto diverso da una cosca mafiosa. Ma l’inchiesta su Mafia capitale ha obbligato la città a un brusco risveglio. I funerali di giovedì sono una allarmante conferma di cosa rischia di diventare la prima città d’Italia. Anzi di cosa è già: terra di mafia.
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Se domani l’economia criminale sparisse l’Italia accuserebbe il colpo
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Ora la Chiesa di Francesco deve occuparsi della chiesa romana di Don Bosco
Atene. La Prossima Settimana s'insedia, Venire Prevede la Procedura costituzionale, il Governo elettorale Affidato alla presidente della Corte di Cassazione. Nuova Democrazia Tenta un'azione di Disturbo per allungare i Tempi. Anche Lafazanis sfrutterà la Consultazione per ritardare la delle Elezioni Dati. Per ora resta Quella del 20 settembre
Le consultazioni del Presidente della Repubblica, Prokopis Pavlopoulos, Sono Già iniziate. Alexis Tsipras ha rinunciato. Ovviamente, provare UN UN Formare un nuovo Governo, per iniziare Lontano, invece, il prima possibile, la campagna elettorale. Il presidente di Nuova Democrazia, tuttavia, Vanghelis Meimarakis, ha Scelto di Fare l'Esatto contrario e di Tenere l'Incarico per Tutti e tre giorni Previsti, Anche sino a domenica.
Meimarakis sta provando, per Quanto Gli Possa riuscire, un Mettere Tsipras in difficolta, Conscio del fatto che la compagine dei Conservatori non ha nessuna reale possibilita di Vincere le Elezioni.
Ha incontrato, quindi, Zoì Konsantopoulou, (la presidente del parlamento Che ha espresso la ferma contrarietà SUA all'accordo con i creditori), «per esplorare Vai Vai EVENTUALI vie Che portino alla Formazione di un nuovo Governo, senza dover Tornare alle urne». Ha parlato con il responsabile del nuovo Partito Anche centrista, Il Fiume, Stavros Theodorakis, e domani si Incontrera con i Socialisti e il capo della nuova Formazione di Sinistra, Unità Popolare, di Panajotis Lafazanis.
Un'azione di Disturbo, quindi, priva di reali possibilita i Successo, ma finalizzata al Tentativo di gran lunga Guadagnare un po 'di Visibilità Una Nuova Democrazia, priva di una leadership carismatica Una Una e collegata, nell'immaginario collettivo, in un fallimentare Gestione della Crisi economica. «Inviterò Tsipras nel mio ufficio e Gli chiederò Perché, alla fine, non ha Seguito la via del voto di Fiducia, e cosa intenda la cavano DOPO EVENTUALI Le Elezioni anticipare», Così Meimarakis ÅI giornalisti.
E Evidente Che anche Lafazanis, sfrutterà L'occasione e accetterà l'Incarico Che, Secondo quanto Prevede la Costituzione, Gli dovra Essere conferito dal presidente greco. Unità Popolare, infatti, conta Venticinque Deputati, e Il terzo gruppo Parlamentare e ha diritto Una Ricevere l'Incarico, dal Momento Che la Costituzione greca Prevede Che Passano provare un Formare un nuovo Governo i leader di di delle tre Principali Forze Politiche del paese.
Con La nascita di Laiki Enotita - Unità Popolare, rimangono fuori Dai giochi SIA Il Fiume, SIA i neonazisti di Alba Dorata, che contano, entrambi, diciassette Deputati. Fonti Vicine al primo ministro greco, ritengono comunque possibile Ancora Andare al voto il 20 settembre, con La Creazione, Entro La Prossima Settimana, di un Governo elettorale, presieduto Dalla presidente della Corte di Cassazione.
Per Quel che riguarda La strategia di Syriza, Alexis Tsipras ha Preso parte, ieri, alla Riunione della segreteria politica del Partito, nel corso della quale ha sottolineato che sì DEVE puntare ad un nuovo, profondo rapporto con la Società, Utenti privatizzazione il video Silla forza dell 'ideologia della sinistra radicale, ma senza Coltivare volutamente delle illusioni.
«Essere rivoluzionari non significa ignorare o negare la Realtà, ma APRIRE Nuove strade in cui non esistono», ha Detto Tsipras. Insiste, cioè, nel Voler coniugare realismo ed Azione La politica di Sinistra, per cercare di cambiare Gli equilibri in Europa, "dall'Interno", senza rinunciare alla Responsabilità Ed alla sfida di Governo. E Syriza Mantiene i Suoi strettissimi legami con Podemos.
Il numero uno causa della Formazione della Sinistra spagnola, Íñigo Errejón, in Una Conferenza stampa convocata per commentare la decisione del premier greco di Andare annuncio Elezioni anticipare, ha ribadito il Che «Alexis Tsipras ha data Una lezione di coraggio, Responsabilità e Fiducia al Suo popolo », Anche se ha Definito Una« cattiva notizia », la scissione all'interno della Coalizione della Sinistra radicale Ellenica.
D'altronde, Gia Pablo Iglesias, Nei giorni scorsi, AVEVA ribadito l'appoggio ad Alexis Tsipras, DOPO Che parte della stampa greca AVEVA scritto Che il trentaseienne politico spagnolo, DOPO il compromesso della Grecia con i creditori, avrebbe DECISO di TOGLIERE dal Suo Profilo Twitter, Una SUA foto con il primo ministro greco.
La comunanza di intenti ed il forte rapporto con Podemos, sta un confermare la Volontà di Syriza di non perdere le Caratteristiche Di Una forza radicale, Che continuerà Una Tariffa tutto il possibile per Combattere il predominio della Finanza e l'Europa un predominio Tedesco.
La questione, tuttavia, vieni Fanno Notare stretti collaboratori del capo del Greco E Essere Capaci di creare- giorno per giorno- le Condizioni Perché questo Possa avvenire Realmente, e non Voler Giocare Il Ruolo della Vittima sacrificale, da solista per difendere la propria purezza ideologica .
La Domanda del Giorno e infatti con chi staranno Varoufakis e Un'altra protagonista dei Mesi di Governo Syriza: La Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou. Nella lista dei 25 Deputati finiti nel nuovo gruppo Messo in Piedi Dalla Piattaforma di Sinistra spiccano infatti le Loro assenze. Vuol dire Che rimarranno dentro Syriza, pur su POSIZIONI contrarie ad Alexis Tsipras? Non proprio. Konstantopoulou E bloccata dal Suo Ruolo istituzionale, ma difficilmente rimarra al Seguito del primo ministro, con il quale e entrata Più Volte in rotta di collisione.
Diverso Il discorso per Varoufakis: l'ex ministro delle Finanze Non è mai Stato Vicino Alle POSIZIONI DEGLI anti-europeisti e non ha Fatto mistero di Voler Lavorare alla costruzione di Una Sinistra Europea anti-austerità (e non nazionale), Venire Dimostra la Partecipazione Al meeting francese. Anche se alla multa le POSIZIONI potrebbero Anche convergere, Visto Quanto Varoufakis ha detto ieri in un'intervista Pubblicata ieri dal Nouvel Observateur (ma probabilmente rilasciata quando il Governo Tsipras epoca Ancora in sella). «ABBIAMO tradito la grande Maggioranza del popolo greco. Non potrei Lontano parte di un Governo e di un Partito Che chiedono un Mandato popolare per applicare l'Accordo del 13 luglio », ha Detto con la consueta chiarezza.
Una Prospettiva Diversa da Quella enunciata da Lafazanis. L'ex ministro dell'Energia, annunciando ieri la scissione da Syriza e La nascita di Unità Popolare, ha Annunciato esplicitamente Che «per sbarazzarci del Memorandum siamo pronti anche annuncio Uscire dall'euro in maniera controllata» e per Loro Che «non c ' E L'inferno fuori dall'Eurozona ». Poi ha Fatto appello al popolo del no («non Sarà Orfano in QUESTE Elezioni») e alle Altre Forze Politiche anti-Memorandum, Dai Comunisti del Kke alla piccola Formazione della Sinistra antagonista Antarsya, per Entrare un Lontano parte del fronte anti-Memorandum costruzione . Un appello Già respinto al mittente Dai primi e il Che con OGNI Probabilità Sarà Raccolto Dai Secondi.
Ma il vero Fatto negativo per le sinistre europee Il Il Rinascenti E L'esplosione di Syriza. Oltre ai 25 di Deputati finiti in Unità Popolare e AI Dubbi su Konstantopoulou e Varoufakis, Altri quattro Parlamentari ieri si Sono dichiarati Indipendenti (TRA QUESTI l'ex viceministro Nadia Valavani), MENTRE L'emorragia si diffonde ora Agli organi dirigenti del Partito e inevitabilmente si allargherà alla base: già ieri si Sono dimessi tre Esponenti del Comitato centrale in quota Piattaforma di Sinistra. Ho Mal di pancia, anche nell'era Quella Che la Maggioranza di Syriza, Sono MOLTI: si imputa un Tsipras Il Fatto di non Aver voluto Incontrare Gli organi dirigenti di Syriza DOPO L'Accordo di luglio e di Aver DECISO in autonomia, con un ristretto Personale, la strada da SEGUIRE. E la decisione di Andare alle urne Azzera puro il Previsto congresso, il Che però difficilmente sarebbe riuscito a Portare indietro le lancette degli orologi.
Del resto, era lo Stato Stesso premier alla multa di luglio un dichiarare esaurito Il Progetto della Coalizione della Sinistra radicale, «pluralista e polifonico», radio un'intervista Kokkino, Nella quale AVEVA sostenuto Che «Syriza Non E Fatta per Governare» e anticipando Così la SUA Evoluzione in forza di Governo. Comunque vada a finire, il RISULTATO Che ci consegna questa prova di forza agostano e La Probabile multa del "modello Syriza" venire l'ABBIAMO conosciuto finora, un Esempio vincente di Ricostruzione Di Una Sinistra dal basso (le lotte Sociali, le Esperienze di Mutuo Soccorso, il radicamento territoriale) e Che riesce a farsi forza delle Diversità. Un esperimento COSTRUITO NEGLI anni della Crisi e Guardato con interesse nel resto d'Europa, Ma che sì E sciolto vengono Sole Neve al nel Pochi mesi di Governo. Debutta Un'altra stagione, e siamo Assolo Agli Inizi.
Dopo le critiche di un prelato alla politica dei nostri anni, ecco una voce ragionevole da una stanza del Palazzo. Maria Cristina Carratù intervista Enrico Rossi.
La Repubblica, 22 agosto 2015
FIRENZE. «Trovo stupefacente la reazione della politica alle osservazioni di monsignor Galantino, neanche le avesse fatto un esorcismo... Invece il segretario della Cei l’ha semplicemente richiamata al suo compito alto e nobile, fuori dal teatrino di tutti i giorni». Enrico Rossi, governatore della Toscana, è una delle poche voci che in questi giorni hanno difeso il segretario dei vescovi italiani, attaccato da destra e da sinistra per le sue critiche all’attuale modo di fare politica (“un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi”) e che ieri ha battuto un altro colpo al Meeting di Rimini. E ci tiene a sottolinearlo: «Non sono cattolico, non sono mai stato un democristiano, ma vengo da una tradizione comunista, e sarà forse per questo che col mondo cattolico sono capace di dialogare senza demonizzarlo». Cosa che, dice Rossi, «dovrebbe fare anche una sinistra a cui stesse davvero a cuore il cambiamento».
Le parole di Galantino sono state lette anche come un attacco al governo guidato Renzi.«Reagire come se tutto fosse riducibile a una questione di lesa maestà non ha senso. Non a caso Renzi, giustamente, ha taciuto».
E allora quale significato hanno le “stoccate” del segretario della Cei?
«Basta leggere tutto il discorso su De Gasperi per capire che non ce l’aveva affatto con la politica in sé, ma con la politica ridotta a ricerca del consenso, a marketing, puro pragmatismo. E che, anzi, proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società, l’ha invitata a rimettere al centro il bene comune, ritrovare una forte dimensione ideale ed etica, che è poi quello che chiede la gente, e direi anche gran parte degli elettori del Pd. E’ una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo o a una parte politica».
Molti hanno però avvertito una ingerenza dei vescovi, con un cambio di rotta rispetto allo stile “neutralista” di papa Francesco.
«Una vera bestialità. La Chiesa ha tutto il diritto di dire la sua, anche quando si attesta su posizioni arretrate, e di ricevere risposte di merito, anziché di annientamento dell’avversario, come invece è avvenuto. La destra è stata sguaiata. Ma anche dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece riconoscere che Galantino ha ragione: la politica non ha più una prospettiva ideale, pensa solo a difendere se stessa. Vogliamo accusare i vescovi di ingerenza anche quando parlano di immigrazione, lavoro, ambiente? Al contrario, se la sinistra non si misurerà con questi temi proprio nel senso indicato dalla Chiesa, è destinata ad assomigliare sempre più alla destra».
Articoli di Teodoro Syngellakis e Angelo Mastrandrea sulla crisi di Syriza e le dimissioni di Tsipras. le divisioni sono il prezzo che tutte le sinistre sembrano dover pagare tutte peri loro ritardi storici.
Il manifesto, 21 agosto 2015
Provaci ancora. Un’altra svolta, dopo il summit con ministri e Syriza. Dimissioni da premier e urne aperte il 20 settembre. La «transizione» a una donna magistrato. Sette mesi dopo il voto che lo ha portato al governo e a un mese dal referendum, il leader greco incassa i prestiti e chiede al paese di rinnovargli il mandato per governare
Alexis Tsipras ha voluto seguire con decisione la via che porta alle elezioni anticipate, il prossimo 20 settembre. Alla riunione in cui si è deciso il ricorso anticipato alle urne hanno preso parte tutti i più stretti collaboratori del premier greco: il ministro alla presidenza Nikos Pappàs, il capogruppo di Syriza alla camera, Nikos Filis, il ministro per il riassetto produttivo Panos Skourletis.
«Non si tratta dell’accordo che avremmo voluto, ma senza il sostegno e la resistenza dimostrata dal popolo greco, i creditori ci avrebbero portato alla catastrofe, o avrebbero imposto totalmente la loro linea», ha sottolineato Tsipras, nel suo discorso di quattordici minuti, trasmesso ieri sera dalla televisione pubblica Ert.
Secondo il leader greco, il paese sta iniziando ad uscire da una situazione molto difficile, e «lotterà per ridurre al minimo gli effetti negativi del compromesso, dirà no a tagli lineari, alle barbarie nella legislazione sul lavoro, compiendo ogni sforzo per riconquistare pienamente la propria sovranità nazionale». Una forte stoccata è anche arrivata all’indirizzo della minoranza interna del partito, che non ha sostenuto, in parlamento, l’accordo con le istituzioni creditrici: «Con il voto giudicherete anche chi vorrebbe dei prestiti passando alla dracma e, con incoerenza, ha trasformato un governo eletto pochi mesi fa, in una minoranza parlamentare».
Tsipras, infine, ha ricordato gran parte delle misure adottate in questi sette mesi di governo. Dalla riapertura della televisione pubblica Ert, alla possibilità, per i cittadini, di saldare in cento rate mensili i debiti verso lo stato, fino alla legge che dà la cittadinanza greca ai figli degli immigrati.
Nel suo complesso, la strategia è chiara: giocare l’effetto sorpresa, potersi giovare del vasto appoggio popolare di cui continua a godere Tsipras, ritenuto da gran parte dei greci un politico onesto, che cerca di fare del suo meglio per uscire da una situazione al limite della disperazione Una situazione in cui il paese si è venuto a trovare, principalmente, per responsabilità del centrodestra di Nuova Democrazia, ma anche dei socialisti del Pasok, che si sono alternati al governo per quarant’anni. Ovviamente, la scelta di dimettersi per andare, così, ad elezioni anticipate, secondo molti osservatori, è condizionata anche dal altri due elementi : cercare di ridurre la possibilità della minoranza interna di Syriza– della Piattaforma di Sinistra– di potersi organizzare in vista delle elezioni e cogliere di sorpresa, per quanto possibile, anche tutti i partiti dell’opposizione.
Secondo quanto filtra dall’ambiente dell’ex ministro Panajotis Lafazanis, la Piattaforma di Sinistra ha già avviato, comunque, molti contatti per la formazione delle liste di un movimento autonomo, il quale dovrebbe avere come punto cardine l’opposizione alle politiche di austerità e dei memorandum di intesa con i creditori. Bisognerà vedere, ovviamente, quali spazi politici possono venirsi a creare, nello spazio tra Syriza e il partito comunista “ortodosso” Kke, per una nuova formazione come questa.
Secondo quanto riportano molti analisti greci, Alexis Tsipras avrebbe voluto andare ad elezioni anche il 13 settembre, ma, dopo una breve verifica, si è constatato che non ci sarebbero stati i tempi tecnici necessari. Lunedì dovrebbe giurare un governo presieduto, molto probabilmente, dalla presidente della Corte di Cassazione, che porterà il paese alle urne, come prevede la costituzione greca. Va inoltre ricordato un altro elemento di primaria importanza: in caso di elezioni legislative anticipate, convocate entro diciotto mesi dall’ultima tornata elettorale, i trecento deputati del parlamento greco non si eleggono con le preferenze, ma con delle liste preparate dai partiti. È chiaro, quindi, che i dissidenti che dovessero decidere, al momento, di non uscire da Syriza, avrebbero, comunque, ben poche possibilità di venire ricandidati. Tutti gli esponenti vicini a Tsipras, nelle ultime ore hanno fatto sentire il loro sostegno, riguardo alla necessità di andare nuovamente alle urne. «Ci vuole una nuova legittimazione popolare», secondo il ministro dell’interno Nikos Voutsis, mentre anche il responsabile del dicastero per la riorganizzazione produttiva, Skourletis, ha ricordato che la fiducia popolare deve essere rinnovata, dal momento che «Syriza, in questa fase, è chiamata ad attuare un programma per il quale non è stata eletta».
Quanto al fronte dell’opposizione, il centrodestra di Nuova Democrazia ed i socialisti del Pasok potrebbero cercare di individuare alcuni punti programmatici da su cui insistere di comune accordo, ma è stata esclusa a priori qualunque forma di collaborazione a livello di liste e candidati, dal momento che, secondo quanto dispone la legge elettorale greca, non potrebbero, comunque, giovarsi del premio di maggioranza.
Si torna alle urne, quindi, dopo la vittoria di Syriza del 25 gennaio scorso, con il 36,3% dei voti e 149 seggi. Dopo una trattativa di quasi sette mesi, interrotta perché si potesse tenere il referendum del 5 luglio scorso, quando il 61,3% dei greci ha chiesto la fine delle politiche di austerità. Ora Tsipras chiede ai greci di rinnovargli la fiducia, «perché i giorni migliori non li abbiamo ancora vissuti».
Grecia. Lafazanis durissimo contro Tsipras. L’incognita Konstantopoulou e Varoufakis. Non ci sarà neppure un congresso. Da oggi gruppi separati, nascerà un «Fronte anti-Memorandum»
Il primo passo dei dissidenti sarà l’uscita dai ranghi di Syriza e la formazione di un autonomo gruppo parlamentare. Parallelamente vedrà la luce, nei tempi rapidi indotti dal precipitare della crisi di governo, quel fronte anti-Memorandum al quale avevano fatto appello, appena una settimana fa, dodici personaggi di altrettante organizzazioni della sinistra istituzionale ed extraparlamentare. Sarà il «nuovo inizio» del quale ha parlato l’altro ieri il leader della Piattaforma di sinistra Panaiotis Lafazanis, una forza politica «di sinistra e patriottica» che si rivolgerà a tutto il popolo che ha votato «no» al referendum. Le parole durissime dell’ex ministro dell’Energia hanno rappresentato forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso per Alexis Tsipras, inducendolo a rompere gli indugi e spiazzare tutti indicendo elezioni anticipate subito dopo aver rimborsato 3,2 miliardi di euro alla Bce e aver ricapitalizzato le banche per dieci miliardi, mettendo in sicurezza la Grecia. «Il governo ha voltato le spalle ai principi e alle lotte di migliaia di membri e funzionari di Syriza, nonché alle speranze del mondo democratico progressista», aveva detto Lafazanis.
Una rottura che era nell’aria, che spacca trasversalmente Syriza e provocherà lacerazioni umane forti e problemi pratici di non poco conto, per un partito all’antica, composto di sezioni e militanti, molto radicato nei quartieri così come nelle organizzazioni sociali (basti pensare alle decine di ambulatori e farmacie autorganizzate nate negli anni della crisi). Non è solo una forza politica che va in crisi, ma un modello vincente sia sul piano interno che per le riemergenti sinistre europee: una coalizione «polifonica e contraddittoria» come amavano definirla, capace in pochi anni di diventare il primo partito della Grecia.
A poco è servito l’appello del novantaduenne ex partigiano Manolis Glezos, che pur criticando radicalmente le decisioni della dirigenza aveva invitato il partito a «rinsavire» e discutere, convinto che un punto di mediazione si sarebbe trovato. Con chi si schiererà ora l’uomo che tirò giù la bandiera nazista dal Partenone? Cosa faranno la Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou e l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, ipercritici con il Memorandum firmato? Nomi pesanti che potrebbero fare la differenza, se schierati dall’una o dall’altra parte.
Chi non si dichiara sorpreso è l’inossidabile Kke: anche il segretario del partito comunista Koutsoubias ha detto che un voto a così breve termine serve per non far organizzare gli avversari, ma loro si dicono «pronti in qualsiasi momento». D’altronde sono stati tra i pochi a non andare in vacanza neppure un giorno: i suoi militanti affiliati al sindacato Pame sono scesi in piazza sia nel giorno del voto del primo accordo, a luglio, che in quello di ferragosto sul Memorandum.
Ma a preoccupare lo staff di Tsipras, e forse a spingerlo a forzare i tempi, sono soprattutto i sondaggi: l’ormai ex premier è ancora forte, ma i consensi sarebbero un po’ in calo e l’applicazione delle
misure più dure del Memorandum rischierebbe solo di nuocergli. Da qui la decisione di giocare d’anticipo e chiedere ai greci un consenso pieno.
Terminata la prima fase dell'avventura della Grecia si Tsipras di aprire un varco nell'Europa della finanza e svelarne il volto. Il seguito non può essere lasciato alla Grecia. Articoli di Valentina Conte ed Ettore Livini.
La Repubblica, 21 agosto 2015
Il tempo, a volte, è tutto. E Alexis Tsipras, per evitare ai ribelli di Syriza (Yanis Varoufakis e Zoe Konstantopoulou compresi) e al centrodestra di organizzarsi, ha deciso di rompere gli indugi e portare la Grecia alle urne. A Bruxelles e Berlino in molti storcono il naso. Atene si era impegnata ad approvare entro ottobre un pacchetto di riforme pesanti, dalle pensioni ai tagli al welfare. E le elezioni accorciano i tempi a disposizione per l’ok e rendono più incerto il sì alle misure.
Il premier però aveva poche alternative. Il governo si è dissolto il 10 luglio, quando 39 deputati dell’ala radicale del suo partito hanno detto “no” al memorandum obbligandolo ad affidarsi a Pasok, Nea Demokratia e To Potami (da allora è successo a ogni voto) per ottenere il via libera in aula. La Ue e parte dell’esecutivo spingevano per tirare avanti così per qualche settimana, contando sull’appoggio dell’opposizione e formalizzando più avanti la scissione della sinistra con un congresso straordinario. Obiettivo: varare i primi provvedimenti d’austerità, superare lo scoglio della verifica con la Troika a ottobre e avviare i negoziati per la riduzione del debito, in modo da presentarsi poi alle urne forti dell’impegno dei creditori al taglio dell’esposizione.
Alla fine però, Tsipras ha preferito sparigliare le carte. L’arrivo dei primi 23 miliardi di aiuti mette il paese in sicurezza per qualche tempo. E gli uomini del suo cerchio magico l’hanno convinto che le elezioni a settembre, malgrado i mal di pancia di Schaeuble & c., sono la scelta giusta per capitalizzare sulla sua (presunta) popolarità prima che i greci sentano sulla loro pelle il peso dell’austerità targata Syriza.
Le incognite delle prossime settimane sono tante e il primo ministro - questa è la sua vera forza - è l’unico ad avere l’idee chiare: si presenterà ai cittadini dicendo che ha combattuto come poteva (cosa che sotto il Partenone gli riconoscono tutti) e che è stato costretto ad accettare un’intesa che non condivide. Promettendo che il giorno dopo le elezioni lotterà per ammorbidire l’austerità e combattere contro evasori e oligarchi per far pagare la crisi della Grecia a chi finora non ha sborsato un centesimo di tasca sua.
Gli crederanno i suoi concittadini? Gli ultimi sondaggi che risalgono a inizio luglio, dicono di sì: Syriza viaggia oltre il 30% dei consensi, a un soffio dalla maggioranza assoluta, Nea Demokratia è seconda ma al 18%. Numeri figli del carisma del presidente del Consiglio, più forte in apparenza delle promesse elettorali tradite e di una strategia negoziale suicida che ha ripiombato Atene in recessione.
I suoi avversari viaggiano in ordine sparso. I dissidenti della Piattaforma di sinistra guidati da Panagiotis Lafazanis avranno pochissimo tempo per organizzarsi. Difficile si arrivi a una pace tra le due anime di Syriza. Anche perchè la Costituzione consente a Tsipras di scegliere i candidati in lista, tagliando così fuori - se vuole - tutta l’opposizione interna. La probabile scissione darà vita così a un nuovo soggetto politico che per alcuni sondaggi informali è attorno al 5%. Varoufakis e Konstantopoulou, i due più carismatici rivali del pemier, hanno pochi punti di contatto con Lafazanis e potrebbero decidere di corre- re in proprio.
Nel caos è anche l’opposizione, che non è stata in grado di mettere sul piatto un leader alternativo. Nea Demokratia, spaccata in un conflitto generazionale e di correnti, ha affidato il dopo-Samaras a un reggente -Evangelis Meimarakis- affabile ma di scarso appeal elettorale. Stesso discorso per il Pasok, ridotto a percentuali da prefisso telefonico e guidato da Fofi Gennimata, che non pare essere riuscita a invertire la tendenza al ribasso dei consensi. To Potami, il partito riformista di centro di Stavros Theodorakis, naviga in terza posizione nei sondaggi ma senza troppo sprint. Mentre Alba Dorata, senza contributi pubblici e con i leader sotto processo, non dovrebbe riuscire questa volta (sperano tutti) a guadagnare dai fallimenti altrui.
La somma di queste debolezze è il motivo per cui, malgrado tutto, Tsipras potrebbe riuscire a far saltare il banco nelle urne. Dando vita a quel punto a un governo molto più compatto in grado di far passare il memorandum nella speranza che la stabilità faccia ripartire l’economia. L’unico vero rischio è che l’opposizione - conscia di partire battuta - unisca le forze in un fronte pro-Europa riunito sotto un unico simbolo. Konstantinos Mitsotsakis, uno degli uomini forti di Nd, ha già buttato là l’idea. Che di sicuro non dispiace nemmeno alla Troika. Il problema è uno solo: la legge elettorale greca attribuisce il premio di maggioranza di 50 seggi al partito (e non alla coalizione) vincitore alle elezioni. Per ottenerlo, dunque, il centrodestra, Pasok e To Potami dovrebbero sciogliersi per dare vita a una nuova formazione con un suo statuto. Missione quasi impossibile se al voto si andrà il 20 settembre.
Il vero nodo è se la Grecia, alle prese pure con l’emergenza immigrati, sarà in grado di assorbire un mese di campagna elettorale. Il Pil, previsto al rialzo del 2,5% a inizio anno, viaggia ora verso un -2,3% nel 2015. E il rischio Grexit uscito dalla porta rischia di rientrare dalla finestra se dalle urne non uscirà un quadro chiaro.
Le ragioni dell'urgenza di uscire dalla "crisi della sinistra e della necessaria centralità della questione del lavoro. Ma è sufficiente oggi ragionare dall'interno della logica del capitalismo e della sua concezione del lavoro?
Il manifesto, 21 agosto 2015
La sinistra è in una crisi storica e, direi, mondiale. Su questo tema è in corso sul manifesto (che si definisce ancora “quotidiano comunista”) un’utile ricerca, «C’è vita a sinistra ?», avviata in luglio e che dovrebbe portarci almeno all’abbozzo di una conclusione sulla base degli interventi pubblicati e in arrivo.
Sappiamo bene che da una crisi, specie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peggio sono forti. Già con Renzi prevale la politica di destra: la prospettiva è che o resiste accrescendo il suo potere personale o sarà scavalcato da un’avanzata delle forze dichiaratamente di destra. Le crisi sono una cosa seria.
Non si ricorda mai abbastanza che dopo la rivoluzione russa del 1917 e le grandi lotte operaie in tutta Europa, ci fu una risposta reazionaria con il fascismo e il nazismo che acquistarono forza con la crisi del l929 e maturarono le condizioni per la Seconda Guerra Mondiale.
Nel secondo dopoguerra ci fu un grande sviluppo economico anche in Italia ( il famoso miracolo italiano) accompagnato da un’avanzata della sinistra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comincia a maturare l’attuale gravissima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della politica, e, direi anche della cultura.
Per tentare una ripresa della sinistra, ci vuole una buona analisi dell’attuale crisi; senza una seria diagnosi non si cura una malattia. E bisogna anche chiedersi perché con la forte disoccupazione, soprattutto giovanile, non ci siano lotte e proteste, i sindacati sono indeboliti e anche la buona iniziativa di Landini fa fatica a decollare. Senza contare che oggi, il ruolo ammortizzatore delle famiglie si sta esaurendo.
L’attuale pesantissima crisi ha cause strutturali da ricercare, come sostengono importanti economisti, nella globalizzazione e nel progresso tecnico. La globalizzazione, con la rapida crescita della comunicazione comporta l’ingresso sul mercato di industrie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente svalutazione riduce i prezzi del suo prodotto, attira gli investimenti dei paesi industrializzati (da leggere un altro editoriale di Romano Prodi sul Messaggero del 15 agosto). Il progresso tecnico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e produce disoccupazione.
Due effetti assai forti che colpiscono soprattutto il lavoro vivo e, quindi, anche la soggettività stessa dei lavoratori, e che mettono in evidenza come il progresso tecnico che in regime socialista (o non capitalista) migliorerebbe le condizioni di tutti, in regime capitalistico provoca disoccupazione, marginalizzazione e miseria da una parte e concentrazione del potere e della ricchezza in un ristretto e potente gruppo di capitalisti finanziari dall’altra.
Questa del progresso tecnologico nemico strutturale del lavoro vivo è storia antica e non possiamo dimenticare che l’avvio dell’industrializzazione capitalistica in Inghilterra diede vita al movimento luddista che contestava l’introduzione delle macchine. Allora il luddismo fu travolto dallo sviluppo e dalla crescita della produttività. Ma fu battuto anche dalle lotte operaie per il miglioramento delle condizioni di lavoro e, soprattutto, dalle progressive riduzioni dell’orario (va ricordata la conquista delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).
Oggi di fronte alla attuale gravissima crisi e alla disoccupazione in crescita, bisogna rimettere al primo posto ( ma per alcuni è un controsenso) la riduzione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mercato globale è sottopagato, con orari ottocenteschi e contrasta con questa rivendicazione. Si tratta ora di rovesciare l’uso che il capitalismo fa del progresso tecnico ma ricordare anche che le progressive riduzioni dell’orario hanno contribuito alla crescita dei consumi e dello stesso mercato. Oggi una riduzione dell’orario di lavoro penso che gioverebbe anche ai capitalisti che con la finanza si arricchiscono, ma rischiano di affogarvi.
La riduzione del tempo impegnato nel lavoro dipendente accrescerebbe il cosiddetto “tempo libero”, che oltre a migliorare le condizioni di vita darebbe spazio a nuovi consumi, a nuove spese diventando così anche un fattore di crescita del mercato e della società. Anche i capitalisti dovrebbero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglioreranno. Ma i capitalisti temono da sempre che la crescita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi automaticamente il proprio potere politico ed economico.
Ma vogliamo aspettare che siano i capitalisti a proporre la riduzione dell’orario di lavoro? Oggi, anche perché la disoccupazione cresce e nel mondo del lavoro cresce non solo la domanda di salario, ma anche quella di libertà e di cultura, la riduzione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, questo immenso spazio da conquistare e organizzare, dovrebbe diventare l’obiettivo storico della classe operaia, dei suoi sindacati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.
Già ad agosto, sulla pagina sportiva di
Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva...(continua la lettura)
Senza dire che il merito è, per definizione, di pochi, sia perché non si può premiare tutti, col rischio di cadere nell'egalitarismo, sia perché occorre creare degli idoli, piccoli o grandi che siano, cui la massa deve aspirare per poter sopportare meglio il proprio anonimato, la propria mediocrità quotidiana. Il calcio, infatti, costituisce un universo divistico paradigmatico, ma non è certo il solo.
I media hanno trasferito un fenomeno che in origine, nel XX secolo, era nato con il cinema, all'intera società. Provate, entrando in una qualunque edicola, a guardarvi intorno mentre comprate i vostri giornali. E' come trovarsi in un santuario di paese costellato di immagini votive, il luogo di culto di arcaiche superstizioni. Dalle copertine dei rotocalchi, dei magazine, dei quotidiani, dei libri, dei video, ecc,centinaia di volti e di corpi vi sorridono e vi guardano desiderosi di essere comprati. E' cosi anche all'interno dei quotidiani, che cercano di competere con la TV e vi offrono foto giganti di manager e finanzieri, scrittori, attori, uomini politici, capi di stato.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
«Il terrorismo alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa i germi di una terza guerra mondiale». Sergio Mattarella invia agli organizzatori del Meeting di Rimini che parte oggi, dedicato al dialogo frale religioni, un messaggio tutt’altro che formale. Il capo dello Stato, infatti, interviene nel vivo del dibattito di questi giorni su guerra, immigrazione e accoglienza dei profughi.
Mattarella, dopo avere lanciato l’allarme sullo scontro armato, scrive infatti che «dalla capacità di dialogo, di comprensione reciproca, di collaborazione tra le religioni monoteiste dipenderà la pace nel mondo». E in questo processo, prosegue il presidente della Repubblica, «sta a noi prosciugare l’odio, far crescere la fiducia e la cooperazione, mostrare i vantaggi della pace». E in Europa «può svilupparsi ildalogo fra le religioni monoteiste già all’interno delle nostre società, divenute plurali e multietniche».
CACCIARI:«UN'IPOTESI REALE»
intervista di Giovanna Casadio a Massimo Cacciari
«Dire che una terza guerra mondiale possa derivare dal terrorismo è una affermazione ridicola». Massimo Cacciari, il filosofo ex sindaco di Venezia, affronta la questione da un’altra angolatura. Aggiunge che la chiusura davanti ai flussi di migranti invocata da Salvini, è prima di tutto «irrealistica».
«L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando.» Nella cultura e nella politica dell'estrema destra degli stati europei il rovesciamento dell'ispirazione cosmopolita e universalista dell'Europa dei nostri sogni.
La Repubblica, 19 agosto 2015 (testo integrale)
L’Europa sta diventando un continente blindato con filo spinato e muri di respingimento. Lo é già nelle sue frontiere a Nord e a Est – il Mediterraneo impedisce di fare altrettanto al Sud. A Calais, da dove i migranti cercano passare il Canale della Manica per raggiungere la Gran Bretagna, si assiste quotidianamente a scene di caos e deportazioni che il governo conservatore di David Cameron benedice come sacrosante se il paese vuole “difendersi dall’invasione” dei migranti, invertendo la politica liberale e umanitaria dei precedenti governi labouristi. L’Inghilterra ha solcato tutti i mari del mondo per invadere terre e rapinare risorse. E ora si sente oltraggiata dal viaggio all’incontrario dei colonizzati.
Il paradosso del quale é oggi urgente occuparsi e preoccupasi é dunque questo: da anti-europei che erano, i movimenti e le ideologie dei partiti di estrema destra sono diventati i più radicali europeisti. L’Europa che difendono (difendendo le frontiere dei loro paesi con le quali spesso quelle del continente coincidono) é esattamente opposta a quella della tradizione universalista e cosmopolita sulla quale l’Unione europea é nata. Ci può essere un euronazionalismo che traduce in chiave continentale quella cultura comunitaria e proprietaria che ha caratterizzato l’ideologia reazionaria dal tempo della Rivoluzione francese. Allora, la reazione contro l’universalismo dei diritti e l’ideale cosmopolita di cooperazione tra i popoli veniva fatta nel nome delle nazioni e le loro ataviche tradizioni, delle identità linguistiche e dei costumi morali e religiosi dei singoli paesi. Edmund Burke diceva in polemica con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino di non aver mai incontrato “uomini” ma solo tedeschi, francesi, inglesi e italiani. Per la nuova destra, l’europeo si appresta a diventare l’alternativa all’uomo in generale.
L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando. Non più italiani o francesi o ungheresi contro Bruxelles, dunque, ma tutti loro contro quella che essi rappresentano come un’espropriazione dell’Europa da parte dei migranti, con l’avvallo dalla cultura europea dei diritti, laica e religiosa. Alla quale questa Europa nazionalista dovrebbe opporre una politica sistematica di espulsione di tutti coloro che non sono cittadini. L’Europa di destra contro l’Europa che avevano proposto Spinelli e Schumann: é questa oggi la sfida culturale e politica più radicale. Destra e sinistra passano di qui, da due visioni di Europa e di cittadinanza, due visioni del diritto, due visioni dello spazio politico continentale: una che é consapevole delle difficoltà che l’immigrazione pone al modello occidentale di vita e che tuttavia non rinuncia a cercare soluzioni (in Europa e nei paesi d’origine dei migranti) che siano coerenti con i principi del diritto e di quella che Habermas ha chiamato cultura democratica cosmopolita; e un’altra che adatta al continente il nazionalismo xenofobo praticato da generazioni nei singoli paesi.
Tale papa Bergoglio tale cardinale Galantino. Parole sante sulla politica d'oggi, e tutto l'arco costituzionale s'arrabbia. La cronaca di Silvio Buzzanca. e un commento di Francesco Bei e Paolo Rodari. La Repubblica, 19 agosto 2015
GALANTINO ACCUSA TUTTI
“POLITICAHAREM DI FURBI
I POPULISMI UN CRIMINE”
di Silvio Buzzanca
Il segretario Cei: voglio evitare di esasperare il clima Ma poi la relazione su De Gasperi scatena la bufera
Monsignor Nunzio Galantino ha pensato, soppesato, valutato, e alla fine, per evitare nuove polemiche con il mondo politico, ha deciso di disertare l’appuntamento trentino di Pieve Tesino. Doveva tenere una lectio magistralis su Alcide De Gasperi, ma il segretario della Cei ha optato per il passo indietro.
Ha spiegato agli organizzatori di volere evitare «con la mia sola presenza, di contribuire a rafforzare polemiche o anche semplicemente di allontanare il momento del rasserenamento di un clima invano esasperato». Così ha deciso di affidare l’intervento che aveva preparato alla lettura del professore Giuseppe Tognon. Ma quando in sala si è ascoltato il passo dove monsigno Galantino scrive che politica di De Gasperi «non è quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi», la strategia della distensione è andata in frantumi. Ancor di più quando il prelato ha spiegato che «il popolo da solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia».
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Galantino ha maturato la scelta di non presentarsi a Trento da solo. Non ha chiesto il placet del Vaticano e nemmeno della presidenza della Cei. E l’ha fatto proprio per essere fedele alla linea del Papa. Dal suo punto di vista, infatti, se fosse andato a Trento non si sarebbe potuto sottrarre alle domande dei media presenti e il contenuto di una lectio studiata a tavolino da giorni avrebbe corso il rischio di passare in secondo piano. Il messaggio è chiaro: per la Cei la politica, tutta la politica, non ha a cuore gli interessi del popolo, ma soltanto i propri. Una condotta che deve avere una fine.
Certo, a parlare in questo modo c’è il rischio di farsi non pochi nemici. Ma così fu anche per De Gasperi, indicato ieri da Galantino come un «modello» da seguire. Patì l’incomprensione di Pio XII che, nel 1952, non capì l’opposizione netta dello statista all’idea di don Luigi Sturzo di un’ampia alleanza elettorale che coinvolgesse, oltre ai quattro partiti governativi, anche il Movimento Sociale Italiano e il Partito Nazionale Monarchico. Soffrì per l’ostracismo pontificio, ma rimase fermo sulle sue idee.
La bomba sganciata ieri da Galantino ha comunque prodotto scosse che sono arrivate fino a Roma. Anche se Renzi ha impartito ordine di non replicare, preferendo mantenere il governo fuori dalla polemica, il malumore nel Pd è palpabile per un giudizio considerato «ingeneroso » e soprattutto espresso in maniera grossolana, senza fare distinzioni.
«Costituzione. Per venire fuori dal pantano della riforma, il governo prepara una "mediazione" che peggiora ancora il nuovo bicameralismo. E imbroglia sulle bocciature dei professori. ».
Il manifesto, 19 agosto 2015 (m.p.r.)
Senatori eletti dal popolo o scelti da (e tra) il personale politico di seconda fascia - come sono i consiglieri regionali rispetto ai parlamentari? A settembre la commissione affari costituzionali del senato riprenderà a lavorare sul disegno di legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi e dovrà imboccare una delle due strade. Quindici mesi fa la stessa commissione, all’epoca del primo passaggio in parlamento della riforma, aveva scelto l’elezione diretta, approvando un ordine del giorno del leghista Calderoli. Ma il governo non era d’accordo. E così il lavoro del senato è andato avanti ignorando quell’ordine del giorno e mettendo le basi per la riforma com’è oggi, con i senatori scelti all’interno dei consigli regionali. Un precedente utile da ricordare a chi oggi, quando si chiede l’elezione diretta, risponde che non si può ripartire sempre da capo.
Allora i leghisti strillarono che non si poteva ignorare l’ordine del giorno per l’elezione diretta, chiamarono in causa la giunta per il regolamento del senato. E lo stesso fece il senatore Mauro quando, immediatamente dopo quel voto, fu sostituito nella commissione da un altro senatore del suo gruppo, ma favorevole alla riforma. Identica sorte toccò a due senatori della minoranza Pd, che però non si opposero alla rimozione. In ogni caso la giunta non decise, lo strappo fu sanato con il silenzio. E siamo a oggi, quando davanti alla commissione di palazzo Madama c’è il testo nel frattempo modificato dalla camera, ma non nel punto della composizione del senato — se non in una parola che può servire come cavallo di Troia per ammettere modifiche sostanziali. Il punto è ancora quello: futuri senatori eletti dal popolo oppure no?
«Contaminare», non far eleggere direttamente i senatori, perché Renzi e Boschi (insieme) non intendono cedere fino a riportare in mano ai cittadini la possibilità di scegliere i senatori. Grande sponsor della decisione è la Conferenza delle regioni (presidente Sergio Chiamparino) che ha sostituito l’associazione dei comuni nel ruolo di guardia del corpo della riforma (all’inizio Renzi aveva pensato a un senato composto interamente da sindaci, ora ne restano 21). In più il presidente del Consiglio ha bisogno di un argomento semplice con il quale condurre la campagna per il referendum confermativo che si terrà alla fine del prossimo anno (al più presto) e che certo non potrà ruotare attorno a questioni complicate come il bilanciamento dei poteri o la procedura di formazione delle leggi. «Senatori non più eletti sì o no?» Slogan che può ulteriormente semplificarsi in «Senatori senza stipendio sì o no?», come ha fatto intendere di voler chiedere agli italiani Renzi. Intanto, previdente, ha già scelto lo slogan della prossima festa nazionale dell’Unità: «C’è chi dice sì».
Ha scritto a Repubblica Giorgio Napolitano, padre nobile della costituzione Renzi-Boschi, che non si può tornare (restare) all’elezione diretta dei senatori perché a quel punto sarebbe «insostenibile» sottrarre al senato il potere di dare la fiducia al governo e si ricadrebbe nel bicameralismo paritario. Un argomento identico ha usato uno dei cavalieri del renzismo, il capogruppo dei deputati Ettore Rosato: «Tornare all’elezione diretta comporterebbe, come ci dicono praticamente tutti i costituzionalisti interpretati, la necessità di reintrodurre il voto di fiducia anche al senato». L’affermazione è interessante, perché il circolo stretto renziano non cita mai a suo favore i costituzionalisti, anzi usa disprezzarli chiamandoli «professoroni». Infatti è falsa. Il dibattito costituzionale è evidentemente assai variegato, ma di 32 esperti ascoltati dalla prima commissione del senato tra la fine di luglio e l’inizio di agosto (non tutti, ma quasi, costituzionalisti), la tesi così come esposta da Rosato è stata sostenuta solo da tre professori (Falcon, Luciani e Tondi della Mura). E ciò nonostante anche loro, come «praticamente tutti», hanno evidenziato la stranezza del nuovo senato immaginato da Renzi e Boschi, che si propone come «rappresentativo delle istituzioni territoriali» (articolo 2) ma è disegnato in modo da far «prevalere il circuito politico partitico» (con queste parole Cerrone). Un senato di non eletti che ha tra i suoi poteri quello di partecipare alla procedura di revisione costituzionale è, per citare alcuni dei giudizi negativi ascoltati in commissione, «incoerente», «ibrido», «anfibio».
Massimo Luciani, professore della Sapienza non ostile al disegno di Renzi, ha spiegato che meglio sarebbe un’elezione diretta dei senatori da parte dei cittadini in concomitanza con l’elezione dei consiglieri regionali -i senatori a quel punto potrebbero essere consiglieri regionali a tutti gli effetti ma anche no. Carlo Fusaro, professore a Firenze tra i più convinti sostenitori della riforma, giudica «balzana» l’idea di delegare alla legge di attuazione il criterio con il quale «semi-affidare» la scelta dei senatori-consiglieri al voto popolare, «contaminare» direbbe Quagliariello. Eppure è precisamente questa l’intenzione del governo, che non vuole toccare il principio dell’elezione di secondo grado per non riaprire il capitolo della composizione del senato nel prossimo, inevitabile, ritorno del disegno di legge alla camera.
La soluzione preferita nei ragionamenti agostani della maggioranza è quella del vecchio «listino», cioè un elenco di consiglieri regionali «speciali» che una volta eletti (e se eletti) avrebbero diritto a essere nominati in secondo grado tra i senatori. Il che avrebbe un vantaggio per i partiti: poter scegliere i nomi del listino, e dunque i possibili senatori, anche affidandoli formalmente alla selezione popolare. Del resto sul punto sono in pochi a poter vantare assoluta coerenza. Anche il senatore Gotor che oggi è tra i più in vista nel fronte dei 28 Pd favorevoli all’elezione diretta, un anno fa nel corso del primo passaggio sostenne questa soluzione, definendola «un secondo grado rafforzato e qualificato». Ma allora l’Italicum, la nuova legge elettorale, era solo una minaccia.
Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola “margine”. Si tratta di Al margine, di Francesco Magris (Bompiani) e di Margini d’Italia, di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene, possono riserbare delle sorprese.
In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell’ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell’immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.
Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud; i Manicomi; i Campi nomadi. Se si esclude l’ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.
Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).
Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l’espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano. La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un’esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi. Faccio un solo esempio, ma rilevante: l’Italia. L’Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).
Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l’Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall’innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.
È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.
Mi piacerebbe davvero discuterne, se avessi la forza di farlo. Soprattutto su due questioni: l'una teorica, l'altra pratica. (1) Se non ci si rinchiude in una logica capitalistica è giusto ridurre il concetto di "lavoro" a quello di "lavoro operaio"?. A me sembra di no. Se avessi ragione occorrerebbe poi domandarsi: (2) Se la crescente marginalizzazione della classe operaia fosse inarrestabile, non esistono altri "margini" suscettibili (ove acquistino coscienza di sé) di svolgere nel XXI secolo il ruolo svolto nei secoli precedenti dalla classe operaia? (e.s.)
Ecco perché sono insensati, iniqui e controproducenti i respingimenti e le invasioni militari, e perché invece l'unica proposta ragionevole è un'ospitalità completa, utile per l'oggi e soprattutto per il domani.
Ilmanifesto, 18 agosto 2015 (versione integrale, con postilla)
Profughi e migranti sono due categorie di persone che oggi distingue solo chi vorrebbe ributtarne in mare almeno la metà: fanno la stessa strada, salgono sulle stesse imbarcazioni che sanno già destinate ad affondare, hanno attraversato gli stessi deserti, si sono sottratte alle stesse minacce: morte, miseria, fame, schiavitù sapendo bene che con quel viaggio, che spesso dura anche diversi anni, avrebbero continuato a rischiare la vita e la loro integrità.
Ma coloro che propongono un intervento militare in Libia, o mettono al centro del “problema profughi” la lotta agli scafisti,non sanno bene che cosa fare. Tra l’altro, bloccare le partenzedalla Libia non farebbe che riversarne quel flusso sugli altri paesi della costa sud del Mediterraneo, tra cui la Tunisia, redendo anche lì ancora più instabile la situazione. Ma soprattutto non dicono – e forse non pensano: il pensiero non è il loro forte – che cosa ci si propone con interventi del genere. Ma capirlo non è difficile: si tratta di respingere o trattenere quel popolo dolente, composto ormai da milioni di persone, in quei deserti che sono una via obbligata delle loro fughe, e che hanno già inghiottitomolte più vittime di più di quante non ne abbia annegato il Mediterraneo; magari appoggiandosi, come si è cominciato a fare con il cosiddetto processo di Khartum, a qualche feroce dittatura subsahariana perché si incarichi lei di farle scomparire. E’ il risvolto micidiale, ma già in atto, dell’ipocrisia che corre da tempo in bocca ai nemici giurati dei profughi: “aiutiamoli a casa loro”.
Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa comune che dobbiamo costruire insieme a loro. Non c’è alternativa al loro sterminio, diretto o per interposta dittatura, o per entrambe le cose. Il primo passo da compiere è prenderne atto. Smettere di sottovalutare il problema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in parte anche la chiesa, pensando così di combattere o neutralizzare l’allarmismo di cui si alimentano le destre.
L’Unione europea, in mano all’alta finanza e agli interessi commerciali del grande capitale tedesco ha concentrato le sue politiche e i suoi impegni nel far quadrare i bilanci degli Stati membri a spese della popolazione e nel garantire che le sue grandi banche uscissero comunque indenni dalla crisi. Così, anno dopo anno, ha permesso o concorso a far sì che ai suoi confini si creassero situazioni di guerra, di caos permanente, di dissoluzione dei poteri statali, di conflitti per bande di cui l’ondata di profughi e di migranti, senza più futuro nei loro paesi,è la prima e più diretta conseguenza. Non saranno altre guerre, e meno che mai una politica feroce quanto vana di respingimenti, a mettere fine a questo stato di cose che le istituzioni dell’Unionenon riescono più a governare né all’esterno né all’interno dei suoi confini.
Bisogna “accoglierli tutti”, come ha raccomandato più di un anno fa Luigi Manconi in un libretto che ne condensa l’esperienza di combattente per i diritti umani; dare a tutti di che vivere: cibo, un tetto decente, la possibilità di autogestire la propria vita, di andare a scuola, di curarsi, di lavorare e di guadagnare.
Così il problema creato dai profughi, non previsto e non affrontato dalla governance dell’Unione, perché o non ha né posto né soluzione nel quadro delle sue politiche attuali, può diventare una potente leva per scardinarle a favore del progetto di un grande piano per creare lavoro per tutti e per realizzare la conversione ecologica dell’economia: due obiettivi che in una prospettiva di invarianza del quadro attuale non hanno alcuna possibilità di essere realizzati. E’ a noi italiani, e ai greci, che tocca dare inizio a questo movimento. Perché siamo i più esposti: le vittime designate del disinteresse europeo.
postilla
Il testo integrale, che qui pubblichiamo alle ore 19,00 del 18 agosto 2015, è consistentemente più ampio di quello pubblicato sul manifesto, e che abbiamo ripreso stamattina: 8900 battute invece di 3600. La riduzione del testo nell'edizione del manifesto è dovuta evidentemente alle ovvie ragioni di spazio che un quotidiano cartaceo ha e che eddyburg non ha. Lo pubblichiamo integrale anche perché ci sembra di grande interesse per altri temi che ci stanno particolarmente a cuore, cui l'articolo direttamente o indirettamente rinvia, quali il New Deal del XXI secolo, e la nuova concezione del lavoro che è necessario introdurre nella nostra società.
«Parla Marco Revelli, intellettuale de L’Altra Europa con Tsipras: l’Europa o cambia o muore. E da novembre una nuova “casa” della sinistra in Italia». un'intervista di Luigi Pandolfi.
Linkiesta, giornale online, 15 agosto 2015
Intervista a Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”, promotore, insieme ad altri intellettuali, alle scorse elezioni europee della lista L’Altra Europa con Tsipras, di cui oggi è tra gli esponenti di maggiore spicco, parliamo di ciò che si muove alla sinistra del PD e delle prospettive di una nuova sinistra in Italia.
Professor Revelli, in molti Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale. A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?«È vero. Mentre in altri Paesi mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di "sinistre nuove" a vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo, dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi, appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma preponderante il quadro politico: non solo il populismo nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e "guardiano" di Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo "di governo" di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di innovazione - nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e nelle idee - e di forza».
Viste le esperienze del passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare radicalità e ambizione di governo?
«Sufficiente sicuramente no. Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare. L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento sociale - le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure riuscire a combattere - ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia oggi, come ho detto, una condizione necessaria - tanto necessaria da richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili - ma non sufficiente per fare ciò che la crisi ci richiede di fare.
«Necessaria perché la frammentazione rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma non sufficiente perché senza un segnale chiaro di "nuovo inizio", senza un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente facendola sentire "la propria gente", con cui si condivide sofferenza e destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che chiamiamo il "processo costituente" fallirebbe in partenza. Non farebbe che riproporre l’immagine di una "sinistra senza popolo" circondata da "populismi senza sinistra"».
Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
«Non sottovaluto il ruolo della leadership. Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si chiamava "la formazione del gruppo dirigente". Ma anche di quella individuale: l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà difficile trovare le figure che lo rappresentan»o.
L’esito della trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione per la sinistra?
«La notte tra il 13 e il 14 luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea. Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea - questa Unione Europea - è purtroppo incompatibile con la democrazia e con l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus" germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza economici la chiave del’ordine politico. Più che di una "questione greca" la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una enorme "questione europea" e, dentro a questa, di una gigantesca "questione tedesca"».
Perché vede una “questione europea”?
«Perché l’Europa così come si è rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive.
«Vorrei dire di più: senza una dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza, militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo, con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata, colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati, capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo».
In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Mi ripeto. L’Europa rivelatasi nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi (contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa – l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o muore».
«Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa. Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario? Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si potrebbe giocare una bella partita».
Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
«Qualcosa è successo, nelle ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un embrione di road map.
«Già all’inizio di settembre sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa: che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200 incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente sia un mero assemblaggio “dall’alto”.
«Gruppi di lavoro sono già previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”… Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia».
Risposta a Sergio Staino. «Dobbiamo occuparci soprattutto della parte principale del problema: quella che si chiama Matteo Renzi. Perché questa Sinistra Dem ci stia "scassando i coglioni", come scrivi tu: ma Renzi e il suo governo ci stanno scassando il Paese». La Repubblica, blog "Articolo 9",15 agosto 2015
Carissimo Sergio,
E' sempre più chiaro: non si supera il ferreo neoliberismo europeo di Merkel e dei suoi alleati o succubi se ci si affida a un solo paese. L'impegno non deve essere volto a criticare Tsipras perchè non ha voluto salvare i greci dalla catastrofe ,ma a far sì che si sveglino anche gli sfruttati degli altri paesi.
La Repubblica, 16 agosto 2015
«Il piano approvato con tanta fanfara è una vergogna per l’Europa e per l’intera comunità internazionale ». L’irritazione di James Galbraith, economista dell’università del Texas, supera ogni immaginazione. «Leggete il documento approvato. E’ una menzogna fin dalla prima riga: “La Grecia – c’è scritto – ha chiesto aiuto ai suoi partner europei per risolvere i suoi problemi“. Niente di più falso. La Grecia è stata ricattata, spinta alla disperazione e poi costretta ad approvare un piano del genere, che va contro il volere del suo popolo espresso col referendum».
Professore, non le sembrano un po’ forti, per usare un eufemismo, questi giudizi?
«Macché. Lo scopo, quasi dichiarato, della Germania e del potere costituito in Europa, era dimostrare che non c’è alternativa alla linea politico- economica prevalente, e che nessun Paese si può permettere di deviare perché viene schiacciato. Era sbarazzarsi di Syriza, e forse ci sono riusciti. Ma, la prego, continui a scorrere con me il documento...».
Andiamo avanti, allora.
«Stiamo sempre sulle prime righe. C’è scritto che l’accordo servirà per ritrovare la crescita, per creare posti di lavoro, per ridurre le disuguaglianze e scongiurare i pericolo di instabilità finanziaria. Sono sconcertato. I risultati saranno esattamente l’opposto. Rilegga punto per punto e s’immagini il risultato opposto. La crescita sarà abbattuta, il lavoro diminuirà, le diseguaglianze si accentueranno, eccetera ».
Però come negare che l’instabilità della Grecia costituisca un problema?
«Ma certo. Però il modo per risolverlo era tutt’altro. Lo sanno tutti: andava finanziato un grande piano di investimenti in Grecia senza inseguire una solidità fiscale che comunque era perduta, solo allora si poteva pensare alla crescita. Ora tutto diventa più difficile. Ma l’ha letto il paragrafo successivo?
Ancora?
«Legga con me. Il successo del piano richiederà “ ownership” delle misure da parte del governo greco. Vuol dire che Atene sarà padrona delle sue azioni e le deciderà liberamente. “Il governo perciò è pronto a prendere tutte le misure che riterrà opportune a seconda delle circostanze”. Quale menzogna. Per colmo d’ironia poche righe più sotto c’è scritto: “Il governo si impegna a consultarsi e concordare con l’Ue, l’Fmi e la Bce tutte le azioni rilevanti”. Eccola qui, la verità: a comandare sarà la Troika».
Perché Tsipras ha accettato?
«Perché non aveva scelta. Voleva tenere la Grecia nell’euro ma era ricattato dalla Bce che minacciava di confiscare tutti i risparmi bancari e lasciare il Paese sul lastrico».