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Grecia docet. Privatizzazioni, riforme del lavoro, riforme delle pensioni, accentramento dei poteri deci­sio­nali in mano ad orga­ni­smi demo­cra­ti­ca­mente irre­spon­sa­bili: questi gli strumenti con i quali vogliono imporre la prevalenza del potere finanziario su quello dei popoli. Il manifesto, 25 agosto 2015
Il capo­la­voro reto­rico delle classi diri­genti tra­di­zio­nali, dall’inizio della crisi, è stato quello di tra­sfi­gu­rare nel senso comune una crisi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio in una crisi del debito pub­blico. Ne è deri­vato che non sono tanto le éli­tes a dover rispon­dere della loro dis­sen­nata gestione del potere, ma sono i popoli a essere messi sul banco degli impu­tati per aver vis­suto “al di sopra delle pro­prie pos­si­bi­lità”. Su que­sta nar­ra­zione fit­ti­zia sono state costruite poli­ti­che reali, la cui natura è stata ben nasco­sta dagli appa­rati ege­mo­nici del capitalismo.

Que­sti appa­rati hanno fatto pas­sare come neces­sità ogget­tive scelte che da un lato hanno avuto un forte impatto redi­stri­bu­tivo verso l’alto, dall’altro hanno dise­gnato un nuovo ordine con­ti­nen­tale asim­me­trico a van­tag­gio dei cen­tri forti dell’economia euro­pea.

All’interno dei sin­goli paesi si è deter­mi­nato un ingente spo­sta­mento di risorse dal sala­rio – reale e dif­fe­rito – al capi­tale, e un’ulteriore con­cen­tra­zione del potere nelle mani delle éli­tes oli­gar­chi­che a sca­pito del con­trollo demo­cra­tico. Su scala con­ti­nen­tale si è giunti al con­tempo a una con­fi­gu­ra­zione gerar­chica dell’Unione euro­pea, con una divi­sione del lavoro sostan­zial­mente duale, sul modello di quella che ha con­dotto all’esplosione, nel nostro Paese, della que­stione meri­dio­nale. Le forze popo­lari e pro­gres­si­ste hanno il com­pito di sma­sche­rare l’artificio reto­rico attorno al quale le classi domi­nanti hanno costruito la nar­ra­zione della crisi: un’operazione indi­spen­sa­bile per il rilan­cio di un dise­gno contro-egemonico su scala con­ti­nen­tale.

È stata la haute finance a trarre bene­fi­cio dalle dina­mi­che della crisi, lucrando sulla “scar­sità” di risorse da essa stessa pro­dotta con la com­pli­cità dei governi. Nel caso della Gre­cia i cosid­detti “sal­va­taggi” non sono stati altro in realtà che uno stru­mento per garan­tire la ren­dita finan­zia­ria, ali­men­tando il potere di ricatto delle éli­tes del denaro. Le ban­che euro­pee, a comin­ciare da quelle tede­sche, hanno sin qui pre­stato denaro ad Atene, che, pri­vata della libertà di indi­riz­zare que­sti fondi verso reali poli­ti­che espan­sive, si è tro­vata costretta ad ulte­rior­mente inde­bi­tarsi. I prov­ve­di­menti impo­sti dalla Tro­jka hanno quindi rea­liz­zato, mediante una par­tita di giro, un raf­for­za­mento delle ban­che pri­vate, favo­rendo al con­tempo un colos­sale spo­sta­mento di risorse dal wel­fare alla ren­dita finan­zia­ria.

Le con­di­zioni impo­ste per il “sal­va­tag­gio” della Gre­cia hanno ripro­po­sto uno schema uni­ver­sa­liz­zato, dove al primo posto, imman­ca­bile, si è col­lo­cata la rac­co­man­da­zione di varare un ampio piano di pri­va­tiz­za­zioni. Que­ste ultime hanno por­tato con sé due con­se­guenze. Da un lato, la sven­dita al capi­tale metro­po­li­tano di asset pre­giati delle peri­fe­rie scon­volte dalla crisi (è di que­sti giorni la noti­zia che il gruppo tede­sco Fra­port si è acca­par­rato la gestione qua­ran­ten­nale di 14 aero­porti greci). Dall’altro, spe­cie in realtà in cui il capi­ta­li­smo nazio­nale dimo­stra ten­denze seco­lari verso la tra­sfor­ma­zione in ren­dita, una dein­du­stria­liz­za­zione fun­zio­nale alla ricon­fi­gu­ra­zione in senso gerar­chico della divi­sione con­ti­nen­tale del lavoro.

Alle pri­va­tiz­za­zioni hanno poi fatto seguito un po’ ovun­que le “riforme del lavoro”. Lungi dall’aver deter­mi­nato una ripresa dell’occupazione, attra­verso di esse si è sta­bi­liz­zato un enorme eser­cito indu­striale di riserva, tra le file del quale pescare mano­do­pera dequa­li­fi­cata e a basso costo per la pro­du­zione di semi-lavorati, desti­nati ad essere assem­blati dai grandi gruppi indu­striali metro­po­li­tani. Con l’artificio reto­rico dell’invecchiamento della popo­la­zione, infine, i governi nazio­nali sono stati costretti a varare “riforme delle pen­sioni” che hanno pro­lun­gato nel tempo la con­di­zione di sfrut­ta­mento della forza-lavoro, garan­tendo allo stesso tempo lauti divi­dendi ai grandi gruppi assi­cu­ra­tivi pri­vati.

Senza una netta inver­sione di ten­denza, que­sta serie di misure è desti­nata ad avere un impatto di lun­ghis­simo periodo e a tra­sfor­mare in pro­fon­dità lo spa­zio eco­no­mico con­ti­nen­tale. La crisi modella la costru­zione dell’Europa gerar­chica, men­tre lo stru­mento del memo­ran­dum, moderna Magna Charta, la “costi­tu­zio­na­lizza”.

Dopo la Gre­cia è lecito sup­porre l’aggressione del grande capi­tale euro­peo ad altri anelli deboli dell’eurozona. Alcuni segnali in que­sta dire­zione si hanno già. Si pensi alla cre­scita dei colossi finan­ziari tede­schi, Allianz e Deu­tsche Bank, i quali stanno acqui­sendo anche in paesi come il nostro quote cre­scenti di mer­cato, al punto che Allianz è il secondo ope­ra­tore in Ita­lia nel campo delle assi­cu­ra­zioni. Anche per quanto riguarda il nostro mer­cato finan­zia­rio si pone quindi un pro­blema di subal­ter­nità al gigante tede­sco. Ma l’aspetto deter­mi­nante per il dispie­garsi dell’egemonia tede­sca è la dein­du­stria­liz­za­zione del sud Europa, una delle emer­genze che andreb­bero affron­tate nella pro­spet­tiva di un’alternativa.

Chi pensa che il futuro della Gre­cia o dell’Italia possa essere trai­nato dall’agricoltura o dal turi­smo, se non è in mala fede, rischia comun­que di pren­dere un abba­glio. Non farebbe male ogni tanto rispol­ve­rare il pen­siero dei nostri grandi sta­ti­sti del pas­sato. Ripren­dendo una valu­ta­zione di Cavour, all’inizio del Nove­cento Fran­ce­sco Save­rio Nitti affer­mava che «l’industria dei fore­stieri, l’industria degli alber­ghi sono grandi indu­strie: ma non pos­sono con­si­de­rarsi come la base del red­dito nazio­nale. Inol­tre un paese che vive dei fore­stieri tende in certa guisa ad abbas­sare il suo carat­tere: tende à un esprit d’astuce et de ser­vi­li­sme fune­ste au carac­tère natio­nal. L’industria dei fore­stieri invece è bene­fica invece in un paese già indu­striale che può trat­tare i fore­stieri su le pied d’une par­faite éga­lité».

Rispetto alla situa­zione in atto un’inversione di ten­denza coin­ci­derà solo con un ribal­ta­mento degli attuali equi­li­bri. Il nodo di fondo da affron­tare è sem­pre lo stesso, il rap­porto fra Stato e mer­cato: il primo deve tor­nare come in pas­sato ad avere l’ultima parola sulla deci­sione su cosa, come e per chi pro­durre, comin­ciando con il recu­pe­rare quella che Beve­ridge avrebbe chia­mato una “signo­ria sul denaro”, ossia una sot­to­mis­sione della finanza al con­trollo demo­cra­tico. Sol­tanto così sarà pos­si­bile per­se­guire poli­ti­che espan­sive e rilan­ciare la pro­du­zione indu­striale e ter­zia­ria in tutte le aree d’Europa.

L’accentramento dei poteri deci­sio­nali in mano ad orga­ni­smi demo­cra­ti­ca­mente irre­spon­sa­bili ed un’asimmetrica divi­sione con­ti­nen­tale del lavoro hanno pro­ce­duto fin qui di pari passo nella costru­zione dell’Europa gerar­chica. Solo un pro­cesso coor­di­nato di rico­stru­zione dell’apparato pro­dut­tivo della peri­fe­ria con­ti­nen­tale potrà inne­scare un pro­cesso oppo­sto e vir­tuoso di ricon­fi­gu­ra­zione demo­cra­tica dell’Europa.

La Repubblica, 24 agosto 2015, con postilla

CONSIDERO l’Europa una comunità di valori di cui possiamo andar fieri, ma raramente lo siamo. In Europa vantiamo i massimi standard mondiali di accoglienza dei profughi, mai rifiuteremmo asilo a chi necessita della nostra tutela, lo stabiliscono le nostre leggi e gli accordi stipulati. Mi preoccupa però il fatto che l’accoglienza sia sempre meno radicata nei nostri animi.

Quando parliamo di migrazioni parliamo di esseri umani, come noi, solo che queste persone non possono vivere come noi perché non hanno avuto la fortuna di essere nati in una delle regioni più ricche e più stabili del mondo. Parliamo di persone costrette a fuggire dalla guerra in Siria, dal terrore dell’Is in Libia, o dalla dittatura in Eritrea.

Mi preoccupa vedere che una parte della popolazione le respinge. Campi profughi dati alle fiamme, barconi rimandati indietro, violenze contro i richiedenti asilo o semplicemente l’indifferenza di fronte alla miseria e al bisogno. Non è questa l’Europa.

Mi preoccupa quando i politici di estrema destra e di estrema sinistra alimentano un populismo che produce astio soltanto e nessuna soluzione. Discorsi pieni di odio e esternazioni avventate che mettono a rischio una delle nostre maggiori conquiste – la libertà di circolazione nell’area Schengen e il superamento delle frontiere al suo interno. Non è questa l’Europa.

La questione dei confini

C’è però fortunatamente anche l’Europa dei pensionati di Calais che mettono a disposizione i generatori così che i profughi possano ascoltare un po’ di musica e ricaricare i cellulari. L’Europa degli studenti di Sigen che hanno aperto il campus della loro università ai richiedenti asilo. L’Europa del fornaio di Kos che ha distribuito pane alla gente affamata e spossata. Questa è l’Europa in cui voglio vivere. Naturalmente non esiste una risposta unica e tantomeno semplice al problema dei flussi migratori. Come sarebbe poco realistico pensare di aprire semplicemente i confini dell’Europa a tutti i vicini, è altrettanto fuori dalla realtà credere di poter chiudere le frontiere di fronte al bisogno, alla paura e alla miseria.

È però chiara una cosa: non esistono soluzioni nazionali efficaci. Nessuno stato membro può regolare le migrazioni efficacemente per suo conto. L’approccio deve essere più europeo e non c’è tempo da perdere. Per questo la Commissione Europea sotto la mia presidenza ha avanzato, già nel maggio scorso, proposte dettagliate per una politica comune nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.

Solidarietà con i paesi vicini

Abbiamo triplicato la nostra presenza nel Mediterraneo per contribuire a salvare vite e a catturare gli scafisti. Sosteniamo gli stati membri inviando nelle regioni più interessate dal fenomeno squadre della Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne) dell’Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e della Polizia europea.

Le nostre squadre aiutano le autorità locali, spesso oberate, a stabilire l’identità dei profughi, a registrarli e prelevarne le impronte digitali, nonché ad accelerare il disbrigo burocratico delle richieste di asilo. Interveniamo contro le reti dei trafficanti stroncando poco a poco la loro spietata attività commerciale.

Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi da paesi extraeuropei. Collaboriamo con i paesi di provenienza o attraversati dai profughi. In questo modo intendiamo aprire vie legali, sicure e controllabili per i migranti.

Concludiamo accordi di rimpatrio che agevolano il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di re- stare in Europa. E insistiamo perché sia posto in atto il sistema comune di asilo europeo deliberato recentemente da tutti gli stati membri – a partire dalle condizioni di accoglienza e dalla procedura di asilo fino all’obbligo di prelevare le impronte digitali dei profughi al loro arrivo in Europa.

La distribuzione dei migranti

La Commissione vuole “distribuire equamente” 40.000 migranti. In maggio la Commissione ha proposto un sistema per distribuire equamente in seno all’Ue una parte delle persone che arrivano in Italia e in Grecia e necessitano di tutela. Era intenzione della Commissione smistarne 40mila, gli stati membri sono già stati in grado di accettarne più di 32mila. Vogliamo essere ancor più incisivi creando un meccanismo stabile, che in situazioni di emergenza possa entrare in funzione in automatico ogni volta che uno stato membro ne abbia necessità.

L’esistenza di confini esterni comuni ci impone di non abbandonare al loro destino i paesi membri che si trovano in prima linea, bensì di affrontare le sfide delle migrazioni con spirito di solidarietà. Alcune delle misure proposte dalla Commissione hanno già trovato sostegno. Tutte le altre devono essere affrontate con urgenza dai 28 stati membri, anche da quelli che finora si sono rifiutati. I drammatici avvenimenti di quest’estate ci hanno dimostrato che ormai dobbiamo mettere in atto senza indugio la politica comune europea nei confronti dei profughi e dei richiedenti asilo.

Non servono solo i vertici straordinari dei capi di Stato e di governo. Si è già tenuto un vertice sulle migrazioni, a novembre ci rincontreremo a Malta. Dobbiamo far si che tutti gli stati dell’Ue approvino subito le norme europee necessarie, dando loro immediata attuazione.

L'ingresso nella UE

I paesi balcanici aspirano all’ingresso nella UE, ma non devono essere sicuri? Già nove anni fa la Commissione ha proposto una lista dei paesi di provenienza sicuri. Gran parte dei governi all’epoca bocciò l’iniziativa considerandola un’ingerenza nella propria sfera di competenza . Non è logico però che i paesi membri approvino la candidatura all’ingresso nella Ue dei paesi dei Balcani occidentali se al contempo non li classificano come sicuri. Quindi a settembre la Commissione degli stati membri presenterà una lista comune dei paesi di provenienza sicuri.

Ciò di cui abbiamo bisogno e ancora ci manca è il coraggio collettivo di adempiere alle norme del diritto europeo e ai nostri obblighi nei confronti degli individui anche se farlo non è semplice e certo spesso impopolare.

Invece vedo che si punta il dito contro gli altri in un gioco a scaricabarile che può forse servire a guadagnare attenzione e voti ma non risolve i problemi.

La cancelliera tedesca recentemente mi ha segnalato come in Germania certi Länder e comuni considerino le norme europee sull’assegnazione di appalti pubblici di ostacolo alla pronta realizzazione di alloggi per i profughi.

L'Europa è un continente resistente

Abbiamo subito controllato e abbiamo potuto stabilire che non è esatto. L’Europa contribuisce alla sistemazione dei profughi e io sono pronto, a inviare i miei collaboratori a Berlino e nei vari Länder se dovessero insorgere problemi concreti.

L’Europa fallisce se la paura prende il sopravvento. L’Europa fallisce quando gli egoismi hanno più voce della solidarietà presente in ampie porzioni della nostra società. L’Europa ha successo quando superiamo in maniera pragmatica e non burocratica le sfide del nostro tempo.

Spero che assieme – gli stati membri, le istituzioni e le agenzie Ue, le organizzazioni internazionali e i nostri vicini – riusciamo a dimostrare che siamo all’altezza delle sfide. Sono convinto che possiamo farcela.

La nostra storia comune lo dimostra: l’Europa è un continente resistente, che di fronte alla minaccia di essere spaccato finisce per unirsi. Questo dovrebbe esserci di incoraggiamento per le prossime settimane e mesi.
Traduzione di Emilia Benghi

postilla

Chissà se Juncker si rende conto di quattro fatti che solo a un sordo, cieco e muto possono sfuggire:
(1) Il problema non è adoperasi di fare un po’ di beneficienza per qualche decina di migliaia di disgraziati, facendo sgocciolare giù un po’ delle ricchezze dei benestanti, ma è quello di consentire condizioni umane di vita a milioni di profughi provenienti da un’area che comprende un intero continente (l’Africa) e un bel pezzo d’un altro continente (l’Asia). Non si tratta di mitigare le conseguenze di una calamità naturale, ma di governare un “esodo biblico”.
(2) i profughi (chiamiamoli quello che sono, non distinguiamoli sulla base di tassonomie insensate) fuggono dalle guerre e dalle carestie derivate dallo sfruttamento rapace variamente esercitato nei secoli di dominio dai governi (e dai popoli) del mondo Nordatlantico, un mondo di cui l’Europa fa parte da mezzo millennio.
(3) Lo sfruttamento di una parte dell’umanità da parte di un’altra si è fortemente accentuato nella fase, per ora terminale, del capitalismo, la cui ideologia e le cui pratiche sono variamente definite (chiamiamole, se volete, neoliberistiche).
(4) L’Unione Europea, di cui Junker è uno dei leader, è tenacemente abbarbicata, nella sua stragrande maggioranza, a quella ideologia e alle sue pratiche, come è finalmente chiaro a tutti grazie alla ferocia con cui Juncker, i suoi complici e i loro succubi ai si sono opposti ai ragionevoli sforzi della Grecia di Tsipras per indicare la direzione in cui muoversi per iniziare la costruzione di un’Altra Europa.

Predicatori complici di ingiustificabili assassini, ma i giovani che cascano nella loro rete «vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib».

La Repubblica, 23 agosto 2015

ORMAI tutti i più importanti stati europei sono multietnici: alcuni più, altri meno; alcuni di buon grado, altri malvolentieri. Dalla piccola Irlanda a Occidente, che ha acconsentito ad aumentare la propria quota di migranti all’altrettanto piccola Estonia a Est, che ne ha accolti pochi ma è sotto pressione per accoglierne di più; dalla Germania nel centro d’Europa che ha aperto le porte e continua a farlo per decine di migliaia di migranti, alla Grecia e all’Italia nel Meridione, che hanno afflussi enormi di disperati in arrivo e in transito nelle loro città. E sempre più spesso, i nuovi europei sono musulmani in arrivo da Medio Oriente, Africa, Pakistan e India.

La minaccia jihadista, germogliata in casa, proviene per lo più dall’interno di queste comunità musulmane, la stragrande maggioranza delle quali è pacifica. Un numero significativo di immigrati musulmani è ben integrato nella cultura del paese che ha scelto; una piccola élite occupa posti influenti e di potere nel mondo degli affari, della cultura, della politica.

Ma un gruppetto di donne e uomini, per lo più giovani, è diventato jihadista: a centinaia si sono uniti allo Stato Islamico, e già in cinquecento hanno lasciato il Regno Unito per combattere a fianco dell’Is in Siria. Alcuni, come il britannico Jihadi John – il cui vero nome è Mohammed Emwazi – sono diventati famigerati assassini. Emwazi – tra molti quello che gode della peggior fama – ha decapitato almeno otto ostaggi occidentali l’anno scorso: in un filmato con audio ottenuto dal Mail on Sunday , si vanta del fatto che tornerà nel Regno Unito per uccidere ancora.

Le gesta di Jihadi John e dei suoi compagni sono concepite per seminare il terrore, ma anche la diffidenza. Per coloro che hanno abbracciato il terrorismo e lo impugnano come un’arma contro tutti gli infedeli – e spesso i musulmani che credono in “modo sbagliato” sono le loro prime vittime – le pacifiche società multietniche e multireligiose sono un abominio. Nel migliore dei casi, nella visione del mondo dei jihadisti le altre religioni quali il Cristianesimo, l’Induismo, l’Ebraismo e il Buddismo devono essere sottomesse alla legge musulmana. Nel peggiore, devono essere costrette a convertirsi all’Islam con la forza. Non devono convivere in armonia, perché l’armonia non è tollerata.

Per quale motivo giovani donne e giovani uomini che vivono in società confortevoli come quelle dell’Europa occidentale – dove le loro famiglie hanno trovato casa e lavoro, dove possono praticare liberamente la loro fede, dove sono in vigore leggi che vietano di discriminarli – si interessano a un gruppo violento ed estremista come l’Is e in qualche caso arrivano a scagliarsi contro i loro stessi concittadini nei paesi d’adozione? Ciascun individuo è unico: ma alcuni hanno caratteristiche comuni.

L’Is, come Al Qaeda e altri gruppi terroristici, ha imparato bene come sfruttare la Rete, e i contenuti che trasmette riescono a essere persuasivi. Più di ogni altra cosa, il messaggio lanciato sottolinea sempre una medesima cosa: che il vero Islam è sotto attacco da parte dei crudeli infedeli – americani, britannici, francesi, altri ancora – che aspirano a massacrare i musulmani e a distruggere l’Islam.

Coloro che si collegano a questi siti vedono immagini – per lo più autentiche – di uomini, donne e bambini orribilmente straziati o uccisi da droni o bombardamenti, oppure umiliati a Guantanamo o Abu Ghraib. Le immagini e il commento sonoro sono ingegnosamente concepiti per risvegliare l’odio nelle menti dei giovani che potrebbero sentirsi estraniati dalle società che li ospitano e anche dai loro genitori, e che considerano i militanti dell’Is una legione di soldati puri e coraggiosi, dediti alla creazione di uno stato divino. Ecco perchè alcuni giovani musulmani si abbandonano all’odio e in alcuni casi si lanciano nella violenza attiva. E così, le comunità in senso più ampio iniziano a temere il nemico che hanno dentro di sé. E così, un numero crescente di cittadini chiede che si ponga fine all’immigrazione, che potrebbe far arrivare altri jihadisti. Il virus dell’odio inter-etnico in questo modo attecchisce e cresce, e le società iniziano a disintegrarsi. L’Is così potrebbe vincere, a meno di essere fermato.

(Traduzione di Anna Bissanti)
«Voglio allora dirlo nel modo più netto pos­si­bile: io credo che la deci­sione di andare a ele­zioni anti­ci­pate da parte del Governo di sini­stra greco sia un esem­pio di "Grande poli­tica"» Il problema è «come ren­dere più forte la nostra ini­zia­tiva, in Ita­lia e in Europa, in modo da non lasciare più a lungo Atene sola».

Il manifesto, 23 agosto 2015

Mi stu­pi­sce che i media main­stream, a comin­ciare da Repub­blica e com­preso il Fatto quo­ti­diano, pre­sen­tino la deci­sione del Governo Tsi­pras di andare alle ele­zioni come una scon­fitta o addi­rit­tura la fine di quella espe­rienza. Non fanno che aspet­tar­selo da gen­naio e di dirlo in ogni occa­sione. Mi col­pi­sce piut­to­sto che tra di noi qual­cuno la pensi così, per lamen­tare un’esperienza finita o per get­tare la croce sul cedi­mento di luglio. Due posi­zioni che mi sem­brano entrambe orfane della politica.

Credo che chi la pensa così in realtà ignori del tutto il con­te­sto in cui la par­tita si gioca (quello euro­peo, segnato da un feroce rap­porto di forza), la dimen­sione dina­mica di essa (non c’è una mossa defi­ni­tiva, fine a se stessa, in cui si vince o si perde tutto, ma un qua­dro in movi­mento in cui la mossa di ognuno influi­sce sulle posi­zioni degli altri), la natura dei pro­ta­go­ni­sti in campo (si pensa dav­vero che Ale­xis Tsi­pras da eroe ome­rico sia diven­tato di colpo un rinun­cia­ta­rio o addi­rit­tura un «traditore»?).

Voglio allora dirlo nel modo più netto pos­si­bile: io credo che la deci­sione di andare a ele­zioni anti­ci­pate da parte del Governo di sini­stra greco sia un esem­pio di «Grande poli­tica». Anzi­ché per­dersi in alam­bic­chi e cam­pa­gne acqui­sti per rosic­chiare con­sensi tra le com­po­nenti di Syriza (com­prese quelle che hanno rifiu­tato il Con­gresso pun­tando alla scis­sione), Tsi­pras ha scelto di tagliare i nodi e di rivol­gersi all’elettorato greco come «sovrano», con una prova di spi­rito demo­cra­tico assente in tutte le altre classi poli­ti­che euro­pee, e insieme di corag­gio. Non si è dimesso per­ché «ha perso», ma per­ché «vuole vincere».

La ragione non solo tat­tica ma stra­te­gica delle dimis­sioni non è la «fine della sua mag­gio­ranza» — che pro­ba­bil­mente avrebbe potuto rag­gra­nel­lare in qual­che modo — ma al con­tra­rio il biso­gno di una più chiara e più forte mag­gio­ranza: la volontà di essere pronto, nelle migliori con­di­zioni pos­si­bili (cioè con una «pro­pria» mag­gio­ranza, coesa e deter­mi­nata) per le sfide d’autunno, che saranno dure e alte: la que­stione del debito in Europa — messa in agenda glo­bale gra­zie alla sua poli­tica -, la gestione della crisi sociale in Gre­cia, la neces­sità di allar­gare il fronte dell’opposizione al neo­li­be­ri­smo e all’austerità nello spa­zio euro­peo, fuori da ogni ten­ta­zione sovra­ni­sta o nazio­na­li­sta, con una poli­tica intel­li­gente, prag­ma­tica ed effi­cace (l’opposto dello sche­ma­ti­smo ideo­lo­gico dei suoi cri­tici, di destra e di sini­stra).

Lungi dall’arretrare o «riti­rarsi» a me sem­bra che passi all’offensiva, alzando la posta e quindi, di con­se­guenza, cer­cando di por­tare la pro­pria forza poli­tica all’altezza di essa.

In autunno si gio­che­ranno molte sfide in Europa e non solo. E si potranno pro­durre molti cam­bia­menti: nel Regno Unito, dove Cor­byn pro­mette di sep­pel­lire defi­ni­ti­va­mente la deso­lante ere­dità blai­riana, negli stessi Stati Uniti dove una can­di­da­tura socia­li­sta minac­cia da vicino la stra­po­tenza dei Clin­ton, in Spa­gna natu­ral­mente e in Por­to­gallo… I cri­tici di Tsi­pras fareb­bero bene a riflet­tere meglio piut­to­sto che sulle debo­lezze della sini­stra greca, sulle con­trad­di­zioni, ben più poten­zial­mente esplo­sive, dell’establishment euro­peo, appa­ren­te­mente onni­po­tente in realtà dai piedi d’argilla (a comin­ciare dalla Ger­ma­nia, tanto più dopo la «sin­drome cinese»).

E magari anche a capire, anzi­ché come ren­dere più acida la dam­na­tio memo­riae dell’esperienza greca, a come ren­dere più forte la nostra ini­zia­tiva, in Ita­lia e in Europa, in modo da non lasciare più a lungo Atene sola (tanto sola quanto fu lasciata Praga nel ’68, come è stato giu­sta­mente scritto).
«Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora».

La Repubblica, 23 agosto 2015

Gli annegati nel Mare Nostro sono già più di 2.300, in nemmeno 8 mesi. Gli arrivati, più di 255mila – Un bellissimo sabato d’estate al mare, pieno di barche. Il numero cresce di ora in ora: mentre scrivo sono 23, fra barconi e gommoni, e circa 3mila esseri umani, ad aver chiesto aiuto, e una dozzina i bastimenti, fra navi della Guardia Costiera e della Marina italiana e norvegese, motovedette, imbarcazioni della Guardia di Finanza e di associazioni di buona volontà, e qualche volonteroso mezzo di diporto, ad aver risposto.
Questo sulla rotta per le nostre coste. Appena più in là, si è guadagnata il primato la rotta fra Turchia e Grecia, favorita dalla vicinanza delle isole, dove sono i siriani i più numerosi. Fra gli sbarcati, le baruffe e a volte le risse di Kos si sono trasferite negli scontri al confine con la polizia macedone. A Kos e nelle altre isole delle vacanze, gli iracheni scappati da Anbar si fingono siriani invidiando la loro precedenza – anche gli afgani, ma li beccano subito. Lì il tragitto è breve: neanche mezz’ora con una barca normale. I migranti ci mettono anche una notte nei gommoni da strapazzo, e all’arrivo si sbrigano a forarli, per non essere rimandati indietro: la versione aggiornata del bruciarsi le navi alle spalle. Hanno lasciato tutto e per sempre, alle spalle.

Venti giorni fa, a Calais, un padre disperato, dopo chissà quanti tentativi ricacciati, aveva spinto la propria bambina oltre il reticolato, verso una salvezza di orfana. Da due giorni, alla frontiera greco- macedone di Gevgeljia, altri padri tendevano i loro piccoli verso le guardie macedoni, e ieri hanno infranto la barriera, in una esasperata Schengen alla rovescia, andando contro lacrimogeni e bombe assordanti. Che cosa volete che siano le bombe assordanti per chi viene dalla Siria dei barili esplosivi sganciati dal cielo e delle bombe chimiche. E i poliziotti macedoni, descritti come impassibili da qualche cronaca- “Sono gli ordini” - hanno sperimentato anche loro la differenza fra “il problema della migrazione” e una faccia di bambina spaventata che piange. Una storia del progresso umano dovrà tenere in gran conto l’invenzione del filo spinato (1874) e la sua evoluzione nel filo a lama di rasoio, quello attraverso il quale vedete insinuarsi i bambini nelle fotografie di ieri.

Nel momento in cui i piazzisti politici europei hanno deciso, più o meno all’unisono, di fare la voce grossissima contro i migranti, decretando che la misura è colma, “e ora basta!”, ci si accorge, in un solo sabato, che la misura non fa che crescere, e che tutti i record sono destinati a essere aggiornati di ora in ora. Gli annegati nel Mare Nostro sono già più di 2.300, in nemmeno 8 mesi. Gli arrivati, più di 255mila – 105mila in Italia, quasi 150mila in Grecia. Perfino il record delle vacanze estive sulle nostre località balneari va annotato nello stesso registro di entrate e uscite, avvantaggiato com’è dal crollo del turismo tunisino (la metà dei posti perduti), dalle paure per l’Egitto, dalle incertezze greche...

Siamo agli inizi: e come potrebbe essere diversamente, se la guerra in Siria, dopo 4 anni, infuria come la più tragica e incurata delle pesti? Come si può pensare che i due milioni di profughi siriani in Turchia pazientino nel fango e nell’umiliazione dei campi in attesa di tornare alle loro case, quando quelle case non esistono più, né le città? Al contrario, crescono i luoghi ai quali non si farà ritorno: i cristiani di Ninive hanno già contato 14 mesi dalla conquista del califfato nero. I cittadini europei, in quello che hanno di responsabile, dovranno presto smetterla di illudere e illudersi sulla possibilità di metter fine all’avvento, o anche solo di arginarlo – di arginare il mare. La Grecia, dannata a fare i conti, li fa ora con la sua cifra spropositata di fuggiaschi, e la signora Merkel, titolare del Paese finora più aperto verso rifugiati e stranieri (con la Svezia, mentre i meriti dell’Italia riguardano il soccorso e non l’accoglienza), ha ragione di dirsi preoccupata dalla migrazione ben più che dalla Grecia. Anche la Germania profonda rumoreggia, e ha i suoi piazzisti, benché offra anche degli esempi luminosi, come la decisione congiunta di alcune università di offrire corsi di studio gratuiti a richiedenti asilo destinati a diventarne cittadini.

Le Monde) Inizia la campagna politica europea dell'ex ministro di Tsipras. L’ex ministro è convinto e, insieme a Tsipras, ha fatto capire a tutti: «Schäuble e i creditori non vogliono salvarci, la Grecia è un laboratorio, poi attaccheranno lo Stato sociale europeo». La Repubblica, 23 agosto 2015

Le elezioni rischiano di slittare al 27 settembre, una settimana dopo a quanto preventivato da Alexis Tsipras. Né Nuova Democrazia (il secondo gruppo parlamentare) né Unità Popolare (terzo come numero, appena nato da una scissione di Syriza) rinunceranno ai tre giorni di mandato esplorativo concesso dalla Costituzione. Oggi scade il tempo per Nd. Il premier uscente ha commentato la fuoriscita da Syriza spiegando che «non è un atto rivoluzionario spaccare un partito per collocarsi all’opposizione». La replica: «Tsipras confonde la dittatura del memorandum con il funzionamento democratico». Schermaglie elettorali, di sfondo resta l’Europa con, Klaus Regling capo dell’Esm, che ricorda: «Il denaro sarà erogato solo dopo l’attuazione delle riforme»

ATENE . Provocatorio, idealista, arrogante. Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze greco, è tanto affascinante quanto fastidioso. Il terzo piano di aiuti alla Grecia, che lui definisce come una “capitolazione” di fronte ai creditori, porterà il suo paese nel baratro, spiega. Denuncia l’opacità dell’Eurogruppo, che, secondo lui, prende le decisioni più importanti per il futuro della zona euro senza che i cittadini ne siano informati.

Arnaud Montebourg l’ha invitata alla Fête de la Rose, (parlerà oggi ndr ). A che punto è la sinistra europea?
«Ha un grande lavoro davanti a sé. L’unione monetaria, costruita in origine per unire i popoli europei, li ha invece divisi, mettendoli gli uni contro gli altri. C’è un urgente bisogno di ridare vita al dialogo democratico. In questo senso, mi sembra essenziale creare una rete europea dei progressisti, al di là delle divisioni politiche tradizionali e dei confini, pronta a perseguire un obiettivo radicale: democratizzare l’euro e le sue istituzioni, con tutti coloro che sono convinti che nulla di buono può venire dai tecnocrati di Francoforte o di Bruxelles che depoliticizzano la moneta».

Chi potrebbe dirigere questo movimento?Lei?
«Non si tratta di sapere chi lo potrebbe dirigere, è una decisione che non può venire dall’alto, né può essere ridotta a un leader, chiunque sia».

La Francia è stata un’alleata del governo di Alexis Tsipras nel corso dei negoziati con i partner della Grecia?
«La maggior parte degli europei immagina che negli ultimi mesi la Grecia abbia negoziato con i suoi partner della zona euro. Non è così. Durante i cinque mesi in cui sono stato coinvolto, i miei omologhi mi rimandavano sistematicamente ai rappresentanti di Commissione, Bce e Fmi. Non ho mai negoziato direttamente con Michel Sapin. Né con Wolfgang Schaeuble, che mi assicurava di non poter fare nulla per me. Anche quando Schaeuble ed io abbiamo finalmente aperto un dialogo, poco prima del mio ritiro, era chiaro che qualsiasi grado di convergenza tra noi non poteva essere espresso formalmente».

Rimprovera al governo greco di aver firmato il terzo piano di aiuti?
«Ho votato contro questo programma. Purtroppo, il primo Ministro alla fine ha accettato ciò che lui stesso ha definito non buono. L’Europa intera ne uscirà perdente».

Eppure ha evitato il “Grexit”
«Questo è il modo in cui la stampa presenta le cose, ma io non condivido. Se la Grecia tenta, a dispetto del buon senso e delle leggi elementari dell’economia, di applicare questo memorandum e le riforme che lo accompagnano, corre dritta verso il Grexit. Perché questo programma è stato concepito per affondare la nostra economia. Risultato: non potremo mantenere i nostri impegni, e Schaeuble potrà puntare il dito contro di noi e tagliare gli aiuti al nostro paese. L’obiettivo che persegue è molto chiaramente il Grexit».

Lei sostiene che il ministro Schaeuble vuole spingere la Grecia fuori dall’euro. Per quale motivo?
«Per colpire la Francia. Lo stato sociale francese, il suo diritto del lavoro, le sue imprese nazionali sono il vero obiettivo del ministro delle finanze tedesco. Egli considera la Grecia come un laboratorio di austerità, dove sperimentare il memorandum prima di esportarlo. La paura del Grexit mira a far crollare le resistenze francesi, né più né meno».

Lei chiede di creare nuove istituzioni nella zona euro, di dare più potere al Parlamento europeo?
«Ritengo che non abbiamo un Parlamento europeo. L’istituzione di oggi non compie la sua missione. È un insieme di interessi nazionali che insulta il concetto stesso di democrazia ».

Se potesse tornare indietro, al mese di gennaio, quando Syriza è andato al potere ed è stato nominato ministro delle Finanze, che cosa cambierebbe?
«Molte cose. Ma soprattutto una. Il 20 febbraio, avevamo raggiunto un accordo importante con i creditori. Non menzionava più il memorandum, ma spiegava che il governo greco avrebbe presentato un elenco di riforme, convalidate dai partner che lo avrebbe sostituito. Solo che, due giorni dopo, i dirigenti delle istituzioni, Pierre Moscovici, per la Commissione, Christine Lagarde, per il Fmi e Mario Draghi, per la Bce, hanno reintrodotto il riferimento al memorandum durante una conferenza telefonica. A quel punto, avremmo dovuto rifiutare di continuare la discussione ».

Nei sei mesi in cui è stato a capo del ministero delle Finanze, non ha preso alcuna decisione per lottare contro la corruzione e gli oligarchi, che denuncia con vigore.
«Questo è un ottimo esempio della disinformazione contro cui mi batto. Abbiamo preso, nonostante tutto, dei provvedimenti, in particolare sull’evasione fiscale, uno dei principali mali del paese. Uno di essi consiste nell’uso di un software con un algoritmo che consente di confrontare i trasferimenti di denaro tra conti bancari degli ultimi venti anni con le dichiarazioni dei redditi. Si tratta di un progetto notevole. Tanto più tenendo conto che la troika non ci ha facilitato le cose. Ma ci siamo riusciti. Se tutto va bene, più di seicentomila evasori fiscali verranno identificati grazie a questo algoritmo a settembre o ottobre. Sarebbe un grande successo».

Perché la “troika” non vi ha aiutato?
«Il suo vero obiettivo non è mai stato quello di riformare il nostro paese, né di recuperare il denaro prestato alla Grecia. Altrimenti, avrebbe accettato le nostre proposte, vale a dire di ridurre il debito pubblico, di istituire una struttura di riscatto per gestire i crediti in sofferenza, e lanciare una banca d’investimento in grado di rafforzare l’economia e la crescita potenziale. Al contrario, ha preferito imporci delle condizioni che garantiscono che non saremo mai in grado di ripagarlo».

Ma a quale scopo?
«Perché la Grecia è solo una battaglia in una guerra molto più ampia per il controllo dell’unione monetaria. Nel 2010, il primo piano di aiuti aveva come obiettivo salvare le banche francesi e tedesche. Oggi, i creditori cercano semplicemente di controllare il governo greco, per neutralizzare gli altri paesi che potrebbero sfidare l’ordine costituito, questo è il progetto di Schaeuble».

In queste circostanze, la Grecia deve malgrado tutto rimanere nell’euro?
«Alexis Tspiras mi ha nominato ministro delle Finanze perché sono e sono sempre stato convinto che, nonostante i difetti iniziali dell’unione monetaria, non è possibile né opportuno uscirne. Dobbiamo cercare, invece, di risolvere ciò che non funziona al suo interno.

Non sono, d’altra parte, un feticista dell’euro, né della dracma. Le monete, come i mercati finanziari, sono degli strumenti al servizio di un obiettivo: migliorare la vita dei cittadini. Ma negli ultimi vent’anni, abbiamo avuto la tendenza a dimenticarlo. I mercati, come l’euro, sono diventati delle religioni».

Continuerà a impegnarsi nella vita politica greca?
Assolutamente sì. Quando, dopo una lunga riflessione, sono sceso nell’arena politica, l’ho fatto per restarci. Voglio rappresentare i greci che hanno votato per me e lottare per loro con tutti i mezzi possibili. La missione che sento di dover compiere oggi è quella di rendere pubblico a livello internazionale ciò che è accaduto in Grecia negli ultimi mesi».

Lei ha dato il suo sostegno a Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che cerca di far svelare il trattato di libero scambio transatlantico. Renderebbe pubblici anche dei documenti dell’ Eurogruppo?
«Il mio rapporto con Julian Assange va oltre le pure questioni europee. La mia esperienza dell’Eurogruppo, dove si prendono decisioni importanti senza che i cittadini ne siano informati, senza documentazione scritta, riecheggia la guerra di Wikileaks, contro un mondo in cui i potenti dispongono di tutte le informazioni e i cittadini non hanno nulla».

copyright Le Monde traduzione di Luis E. Moriones

Jorgos Stathakis, ministro uscente dell’economia: «L’alleggerimento del debito insieme alle risorse per investimenti e welfare potranno consentirci di sostenere i cittadini più deboli. Il popolo greco ci darà un mandato chiaro». Ilmanifesto, 23agosto 2015

«Syriza è e rimane una forza di sini­stra», dice con forza al mani­fe­sto Jor­gos Sta­tha­kis, mini­stro dell’economia uscente del governo Tsi­pras, tra i prin­ci­pali rap­pre­sen­tanti della Gre­cia alle trat­ta­tive con i cre­di­tori. Chiede un nuovo man­dato popo­lare per poter ridurre, il più pos­si­bile, gli effetti nega­tivi del memo­ran­dum, le con­se­guenze di un accordo che «crea pro­blemi, ma ha sal­vato il paese dal pre­ci­pi­zio». Quanto ad Ale­xis Tsi­pras, ritiene che la sua popo­la­rità, anche ora, sia dovuta alla sin­ce­rità dell’agire poli­tico e pro­mette che Syriza con­ti­nuerà a lot­tare per­ché si arrivi alla rot­tura defi­ni­tiva con le poli­ti­che di auste­rità impo­ste all’Europa.

Crede che Syriza possa porsi come obiet­tivo la mag­gio­ranza asso­luta, come dicono molti suoi com­pa­gni di par­tito? E su cosa basate il vostro ottimismo?

«Il periodo dif­fi­cile delle trat­ta­tive si è con­cluso con il nuovo accordo e con la riscos­sione della prima tran­che del nuovo pre­stito. A con­clu­sione di que­sto periodo si sono esau­riti anche i ter­mini del man­dato popo­lare che abbiamo rice­vuto il 25 gen­naio. Poi­ché cre­diamo fer­ma­mente nelle pro­ce­dure demo­cra­ti­che e abbiamo piena fidu­cia nel giu­di­zio del popolo, fac­ciamo di nuovo ricorso ad esso, per­ché possa dire se abbiamo rap­pre­sen­tato cor­ret­ta­mente il nostro paese, se abbiamo dato la giu­sta riso­nanza alla dimen­sione euro­pea e mon­diale della que­stione, se l’accordo rag­giunto offre le pre­con­di­zioni affin­ché si pos­sano supe­rare le vie senza uscita in cui ci si trova oggi, e — infine — chi e in che modo può gui­dare il paese nel futuro.

«Abbiamo la coscienza a posto e siamo fieri della bat­ta­glia che abbiamo con­dotto, e sono otti­mi­sta, pre­vedo che i cit­ta­dini sce­glie­ranno nuo­va­mente Syriza. L’insistenza, la sin­ce­rità e la deter­mi­na­zione con la quale abbiamo trat­tato, come anche le prove date con le nostre ini­zia­tive poli­ti­che, riguardo a molte que­stioni su cui abbiamo legi­fe­rato sul piano interno, ver­ranno giu­di­cate, io credo, posi­ti­va­mente. È quello che mostrano, poi, anche le più recenti inda­gini demo­sco­pi­che. Non stiamo più vivendo, inol­tre, nel clima di allar­mi­smo sul quale si era basata la pole­mica creata con­tro di noi, alle ele­zioni di gen­naio. I cit­ta­dini non hanno motivo di essere titu­banti nel dare nuo­va­mente a Syriza il man­dato chiaro, neces­sa­rio a gover­nare. Sanno che gestirà nel miglior modo pos­si­bile il pro­gramma con­cor­dato con i cre­di­tori, che è indub­bia­mente dif­fi­cile, e al tempo stesso garan­tirà impor­tanti cam­bia­menti e un vero rin­no­va­mento, basati, prin­ci­pal­mente, sulla giu­sti­zia e i diritti sociali».

Le forze di oppo­si­zione met­te­ranno sicu­ra­mente l’accento sul fatto che a gen­naio vi era­vate schie­rati con­tro i memo­ran­dum, men­tre la set­ti­mana scorsa avete fir­mato un nuovo com­pro­messo, un nuovo memo­ran­dum. Cosa rispondete?

«Abbiamo esau­rito tutto lo spa­zio di una trat­ta­tiva dura e dolo­rosa, arri­vando anche a delle situa­zioni –limite. Davanti al ricatto e al peri­colo imme­diato di una cata­strofe senza pre­ce­denti, per il paese e prima di tutto per le classi più deboli, abbiamo scelto il miglior com­pro­messo che pote­vamo otte­nere. Ora chie­diamo nuo­va­mente la legit­ti­ma­zione popo­lare per poter gestire que­sto accordo, per ridurre al minimo le con­se­guenze nega­tive di que­sto accordo e usare al meglio le frat­ture che abbiamo creato nel campo dell’«armata dell’austerità» in Europa».

Cosa prova, sul piano poli­tico e per­so­nale, riguardo alla scis­sione di Syriza? Com­prende una parte delle posi­zioni dell’ex Piat­ta­forma di Sini­stra, o i vostri approcci sono, ormai, total­mente differenti?

«Una scis­sione costi­tui­sce sem­pre un pro­cesso dolo­roso. Spero che la nostra espe­rienza comune di eventi trau­ma­tici del pas­sato e il per­corso comune fatto assieme, sino ad ora, aiu­tino ad evi­tare gli aspetti peg­giori che potreb­bero esserci, riguardo ad even­tuali svi­luppi. Devo con­fes­sare, tut­ta­via, che non com­prendo l’approccio degli ex com­pa­gni, visto che l’esperienza della trat­ta­tiva ha mostrato i limiti ogget­tivi dello scon­tro. Ci siamo tro­vati, real­mente, sull’orlo del pre­ci­pi­zio e credo che que­sto avrebbe dovuto aiu­tare, tutti noi, a com­pren­dere l’ambito nel quale dob­biamo por­tare avanti le nostre riven­di­ca­zioni. La solu­zione alter­na­tiva dell’uscita dall’ Europa — dalla moneta comune o anche dalla stessa Unione euro­pea– non è, in nes­sun caso, un pro­getto poli­tico sostenibile».

Ale­xis Tsi­pras con­ti­nua a godere di grande popo­la­rità, anche dopo la firma dell’accordo con i cre­di­tori. Lei che col­la­bora con lui quo­ti­dia­na­mente, a cosa lo attribuisce?

«Indub­bia­mente, il primo mini­stro greco gode di una grande popo­la­rità che supera anche i con­fini del paese. Credo che sia evi­dente anche in Ita­lia e tra i let­tori del vostro gior­nale, dal momento che una grande parte della sini­stra ita­liana ha mostrato di tro­vare ispi­ra­zione nello sforzo di Ale­xis Tsi­pras e di Syriza. Ale­xis Tsi­pras ispira i cit­ta­dini, in Gre­cia e anche all’estero, e credo che que­sto sia dovuto alla sin­ce­rità del suo agire poli­tico, al fatto che metta in risalto i valori della sini­stra, al suo for­tis­simo impe­gno nella lotta con­tro la cor­ru­zione, gli intrecci tra la poli­tica e gli inte­ressi eco­no­mici con­so­li­dati, e alla sua azione con­tro le poli­ti­che che hanno por­tato al vicolo cieco in cui siamo finiti».

È mini­stro dell’economia, uno dei prin­ci­pali cono­sci­tori e respon­sa­bili del set­tore. Quanto nega­ti­va­mente influi­ranno sull’economia reale e la vita delle fami­glie le misure del nuovo memo­ran­dum? Esi­ste una pos­si­bi­lità reale di soste­nere le classi sociali più deboli?

«Non intendo certo rispon­derle che si tratta di un accordo privo di pro­blemi. Offre, tut­ta­via, una base di sta­bi­lità per fare in modo che ci sia la ripresa, dal momento che la dina­mica di svi­luppo dell’economia, in pas­sato, è stata sem­pre fre­nata. Il poter riu­scire a far svi­lup­pare, appunto, que­sta dina­mica, l’alleggerimento del debito (che è già ini­ziato per quel che riguarda le sca­denze imme­diate e con­ti­nuerà per quelle a più lungo ter­mine), assieme alle risorse per gli inve­sti­menti che arri­ve­ranno nel pros­simo periodo (dai fondi comu­ni­tari, dai finan­zia­menti da ban­che di inve­sti­menti e piano Junc­ker) e riforme-base (dal sistema fiscale sino allo stato sociale) pos­sono creare le con­di­zioni per il soste­gno di chi è più in dif­fi­coltà. Chie­diamo il man­dato popo­lare esat­ta­mente per rea­liz­zare que­ste condizioni».

Syriza con­ti­nua ad essere un par­tito della sini­stra o potrebbe tra­sfor­marsi in una forza di cen­tro­si­ni­stra, in un «Pasok 2.0»? Lotta ancora con­tro l’onnipresente finanza e il pre­do­mi­nio tede­sco in Europa?

«Syriza era e rimane un par­tito di sini­stra, che lotta per gli inte­ressi dei più deboli, e defi­ni­sce se stessa con chia­rezza nei con­fronti della social­de­mo­cra­zia. Siamo riu­sciti a creare delle crepe nel fronte euro­peo dell’austerità. Dopo le ele­zioni, con la forza che ci darà il popolo greco, con­ti­nue­remo a lot­tare affin­ché que­ste crepe diven­tino una frat­tura, e in una rot­tura defi­ni­tiva con le poli­ti­che che hanno por­tato alle vie senza uscita in cui si è tro­vata la Gre­cia ma anche tutta l’Europa».

«L'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta.».

Huffington post, 22 agosto 2015

La decisione di Alexis Tsipras di dimettersi e di andare alle elezioni anticipate fa parecchio discutere e qualcuno dice di essere stato colto di sorpresa. Non c'è da stupirsi che questo accada in un continente come il nostro così disabituato ormai a frequenti pronunciamenti popolari diretti. Eppure Tsipras non aveva mai nascosto la probabilità di una soluzione del genere.

Aveva di fronte due scelte: o accettare l'invito di Schauble a una Grexit che in realtà avrebbe significato l'uscita definitiva della Grecia dall'euro o compiere parecchie rinunce pur di rilanciare la discussione sul debito greco nel suo complesso.

Ha scelto questa seconda strada. L'accordo è tutt'altro che bello e gli spazi per resistere ai suoi lati peggiori e più invasivi sono davvero stretti. Ma questo la leadership greca, eccezione si può dire unica rispetto alla retorica dominante dei governi europei, non lo ha nascosto né al popolo né al parlamento.

Il prezzo pagato è probabilmente quello di una scissione di Syriza, tutt'altro che indispensabile e auspicabile. Proprio nel momento in cui il fronte avversario si divideva, con il Fmi a sostenere che è necessario un taglio nominale del debito greco altrimenti insostenibile (tesi affermata dai greci fin dall'inizio); con Olanda e Finlandia che da falchi si son fatte colombe (almeno per ora); con le preoccupazioni tedesche ed europee che si spostano, o dovrebbero farlo, assai più sulle conseguenze della tripla svalutazione della divisa monetaria cinese (basta vedere che l'auto tedesca già esporta un 30% in meno in Cina).

Ma ha ragione Tsipras: una fase si è chiusa, se ne apre un'altra e il governo ha bisogno di un mandato popolare forte e rinnovato. In autunno il punto sarà l'apertura della trattativa sulla ristrutturazione /riduzione del debito. E' una questione che non riguarda solo la Grecia ma i debiti sovrani di tutti paesi europei. Anche il nostro, se avessimo un governo all'altezza.

Ha ragione, tra l'altro, il governo greco a chiedere una presenza nella trattativa del Parlamento europeo in quanto tale, unica istituzione effettivamente elettiva della Ue.

Ma una trattativa di questo genere, come la resistenza agli aspetti più odiosi dell'accordo che ha sbloccato gli 86 miliardi (che in gran parte tornano ai creditori istituzionali), non si può fare senza un popolo e un paese coesi. Tsipras lo sa bene, perché lì è sempre stata la sua forza. Un conto è aprire e reggere una divergenza con Varoufakis - che peraltro, a quanto si sa, non ha voluto fare parte del nuovo schieramento che si sta formando contro Tsipras - nel pieno rispetto delle opinioni di ognuno, un altro è caricarsi sulle spalle un paese e traghettarlo oltre la peggiore crisi economica e sociale della su storia. Per questa ragione il passaggio elettorale era ed è ineludibile.

Del resto questo è il modo migliore e più inequivocabile per rispondere a chi tentava di delegittimare la leadership di Tsipras, mettendone in dubbio la effettiva rappresentatività - come le élite europee che hanno cercato in ogni modo di "farlo fuori" - e nello stesso tempo di replicare nei fatti a chi - all'interno stesso di Syiriza - avanzava accuse di cedimento se non di tradimento.

Ora ognuna e ognuno è di fronte alle proprie responsabilità. Anche la sinistra europea. Non certo la socialdemocrazia che, come nel caso tedesco, ha fatto a gara ad essere più realista del re nel bastonare il debitore greco. Non certo il partito di Renzi che nella sostanza e al dunque ha sempre appoggiato la Merkel. Ma quella che si è venuta raccogliendo attorno alle nuove esperienze di verticalizzazione politica di movimenti sociali che tornano a tormentare i sonni delle oligarchie di governo, dalla Spagna all'Inghilterra, pur con diverso peso e incidenza politico-sociale.

Se l'impresa di Tsipras può non apparire e non essere disperata dipende anche e molto dalla capacità di rompere quell'isolamento internazionale che nella trattativa l'ha vista fronteggiare da sola 18 avversari. I quali non sono più uniti come prima. A maggiore ragione l'altra Europa deve stringersi attorno a Tsipras, o meglio a quello che rappresenta. Se vuole vincere nelle prossime prove nei rispettivi paesi, cambiando così il volto politico e sociale dell'Europa stessa e salvandola da una sua implosione.

Tutto vero, tutto giusto. Parole condivisibili, gioielli in un mare di chiacchiere. Ma un risvolto rivelatore d'una situazione drammatica: per combattere l'antistato non si fa ricorso alla laicità della politica e all'autorità di chi abbiamo eletto, ma alla religione e all'autorità del papa. L

a Repubblica, 22 agosto 2015

GRAN rumore per il funerale di Vittorio Casamonica. Ma sono scene che non dovrebbero sorprendere. Stupore per cosa? Perché un boss viene celebrato come un re? Perché il rito del funerale si trasforma in una oscena manifestazione di potere?

Non bisogna farsi illusioni. La partecipazione di quella piccola folla nella periferia romana è stata sincera, non è stata costretta né spinta dalla curiosità per la morte di una celebrità o dalla voglia di partecipare a un evento. Si va ad omaggiare don Vittorio Casamonica perché don Vittorio anzi Zio Vittorio ha saputo “governare” il suo regno nascosto, è stato presente nelle vite di chi lo va a salutare.

Le organizzazioni criminali sono strutture serie in grado di organizzare il consenso, mantenere la parola, distribuire ricchezze, intervenire nel momento in cui non solo gli affiliati ma il proprio territorio ha necessità. Nel vuoto dello Stato esiste un anti-Stato criminale che riesce a generare consenso tra la sua gente anche se il suo “governo” vuol dire estorsioni, usura, droga, violenza. È un anti-Stato in grado di portare soldi, e molti, ai capi ma anche diffusione di benessere e controllo del territorio. È paradossale dirlo, ma è vero: se domani l’economia criminale sparisse da questo Paese, il Paese ne avrebbe un contraccolpo non solo economico ma organizzativo. La classe dirigente mafiosa in Italia ha una sua terribile efficienza.

Ecco perché il funerale di un capo-clan non è semplicemente una messa in scena, un’ostentazione kitsch di opulenza e dominio. Tutt’altro: i Casamonica sono una mafia emergente, emergente non perché sono dei novizi ma perché dopo decenni di crimine subalterno e gangsteristico hanno cercato di strutturarsi in regole e gerarchie e hanno quindi costruito una cultura ed un’economia mafiosa attorno al proprio sangue e al proprio gruppo. L’ambiguità di criminali di piccolo cabotaggio ma tutto sommato in grado di farsi ascoltare in borgata li ha resi interlocutori della politica (la cena con Poletti e le foto con Alemanno) al punto da potersi permettere di sedersi al tavolo stesso del Palazzo come borderline tra la strada — il carcere e il (finto) impegno sociale. Quindi i Casamonica come tutti i gruppo neo-mafiosi hanno bisogno come ossigeno di queste celebrazioni. Anche la musica del Padrino è il riferimento più chiaro a chi vuole in tutti modi mostrare che è uscito dal marciapiede e dai campi e si è eletto a gruppo mafioso.

La chiesa di papa Francesco ha scomunicato i mafiosi, ha spinto ‘ndranghetisti in carcere a non presentarsi alla messa temendo che il solo partecipare potesse significare agli occhi dei vertici dell’organizzazione una dichiarazione di distanza dalle cosche. Ora la chiesa di Francesco deve fare un nuovo passo: commissariare la chiesa di San Giovanni Bosco. Non so se le regole vaticane prevedono misure simili, non so se è il termine adatto, non mi riferisco al diritto canonico. Sarebbe però un gesto in grado di interrompere il legame tra sacramenti religiosi e sacramenti mafiosi. Il sacramento mafioso è l’utilizzo dei rituale religioso per avere un’investitura pubblica, per trovare uno spazio legittimo per manifestare se stessi e la propria forza e autorità. Don Peppino Diana ne fece la sua battaglia: quella di impedire che battesimi, comunioni, cresime divenissero occasioni di autocelebrazione criminale. Fu proprio questa sua scelta che lo condannò a morte.

Il parroco che ha celebrato il funerale di Vittorio Casamonica, don Giancarlo Mattei, risponde nel più classico dei modi: «Non sapevo chi fosse». E ha aggiunto: «Il perdono c’è per tutti. La chiesa non discrimina, io l’assoluzione la do a tutti». Strano: la stessa chiesa che ha spalancato le porte al clan Casamonica le ha chiuse invece a Welby “colpevole” di aver scelto di lasciare una vita diventata per lui insopportabile. Questa volta il sacerdote ha deciso invece di celebrare il funerale. Bene. Ma avrebbe dovuto rifiutarsi di farlo quando si è trovato di fronte ad un teatro del genere. La scomunica di papa Francesco non è contro l’uomo, non si rivolge all’individuo. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.

Ieri quel funerale è apparso come pura prassi mafiosa. L’assoluzione che doveva andare all’uomo è stata estesa, di fatto, al suo sistema di potere criminale.

Roma è una città impreparata. La trasformazione è accaduta raccontandosi la menzogna di essere territorio immune, semplicemente “invaso” da rubagalline e bande. La stessa favola che vede piangere miseria le donne dei Casamonica nella perfetta tradizione mafiosa, nella quale i grandi capi risultavano essere dipendenti di fruttivendoli, si dichiaravano semplici contadini con una giovinezza di rubamacchine. Roma ha sempre creduto di essere estranea alle dinamiche mafiose. Del resto il suo gruppo più forte si chiamava appunto “Banda della Magliana”, banda è qualcosa di molto diverso da una cosca mafiosa. Ma l’inchiesta su Mafia capitale ha obbligato la città a un brusco risveglio. I funerali di giovedì sono una allarmante conferma di cosa rischia di diventare la prima città d’Italia. Anzi di cosa è già: terra di mafia.

Se domani l’economia criminale sparisse l’Italia accuserebbe il colpo

Ora la Chiesa di Francesco deve occuparsi della chiesa romana di Don Bosco

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Tsipras: «realisti E rivoluzionari»
di Teodoro Andreadis Syngellakis

Atene. La Prossima Settimana s'insedia, Venire Prevede la Procedura costituzionale, il Governo elettorale Affidato alla presidente della Corte di Cassazione. Nuova Democrazia Tenta un'azione di Disturbo per allungare i Tempi. Anche Lafazanis sfrutterà la Consultazione per ritardare la delle Elezioni Dati. Per ora resta Quella del 20 settembre

Le consultazioni del Presidente della Repubblica, Prokopis Pavlopoulos, Sono Già iniziate. Alexis Tsipras ha rinunciato. Ovviamente, provare UN UN Formare un nuovo Governo, per iniziare Lontano, invece, il prima possibile, la campagna elettorale. Il presidente di Nuova Democrazia, tuttavia, Vanghelis Meimarakis, ha Scelto di Fare l'Esatto contrario e di Tenere l'Incarico per Tutti e tre giorni Previsti, Anche sino a domenica.

Meimarakis sta provando, per Quanto Gli Possa riuscire, un Mettere Tsipras in difficolta, Conscio del fatto che la compagine dei Conservatori non ha nessuna reale possibilita di Vincere le Elezioni.

Ha incontrato, quindi, Zoì Konsantopoulou, (la presidente del parlamento Che ha espresso la ferma contrarietà SUA all'accordo con i creditori), «per esplorare Vai Vai EVENTUALI vie Che portino alla Formazione di un nuovo Governo, senza dover Tornare alle urne». Ha parlato con il responsabile del nuovo Partito Anche centrista, Il Fiume, Stavros Theodorakis, e domani si Incontrera con i Socialisti e il capo della nuova Formazione di Sinistra, Unità Popolare, di Panajotis Lafazanis.

Un'azione di Disturbo, quindi, priva di reali possibilita i Successo, ma finalizzata al Tentativo di gran lunga Guadagnare un po 'di Visibilità Una Nuova Democrazia, priva di una leadership carismatica Una Una e collegata, nell'immaginario collettivo, in un fallimentare Gestione della Crisi economica. «Inviterò Tsipras nel mio ufficio e Gli chiederò Perché, alla fine, non ha Seguito la via del voto di Fiducia, e cosa intenda la cavano DOPO EVENTUALI Le Elezioni anticipare», Così Meimarakis ÅI giornalisti.

E Evidente Che anche Lafazanis, sfrutterà L'occasione e accetterà l'Incarico Che, Secondo quanto Prevede la Costituzione, Gli dovra Essere conferito dal presidente greco. Unità Popolare, infatti, conta Venticinque Deputati, e Il terzo gruppo Parlamentare e ha diritto Una Ricevere l'Incarico, dal Momento Che la Costituzione greca Prevede Che Passano provare un Formare un nuovo Governo i leader di di delle tre Principali Forze Politiche del paese.

Con La nascita di Laiki Enotita - Unità Popolare, rimangono fuori Dai giochi SIA Il Fiume, SIA i neonazisti di Alba Dorata, che contano, entrambi, diciassette Deputati. Fonti Vicine al primo ministro greco, ritengono comunque possibile Ancora Andare al voto il 20 settembre, con La Creazione, Entro La Prossima Settimana, di un Governo elettorale, presieduto Dalla presidente della Corte di Cassazione.

Per Quel che riguarda La strategia di Syriza, Alexis Tsipras ha Preso parte, ieri, alla Riunione della segreteria politica del Partito, nel corso della quale ha sottolineato che sì DEVE puntare ad un nuovo, profondo rapporto con la Società, Utenti privatizzazione il video Silla forza dell 'ideologia della sinistra radicale, ma senza Coltivare volutamente delle illusioni.

«Essere rivoluzionari non significa ignorare o negare la Realtà, ma APRIRE Nuove strade in cui non esistono», ha Detto Tsipras. Insiste, cioè, nel Voler coniugare realismo ed Azione La politica di Sinistra, per cercare di cambiare Gli equilibri in Europa, "dall'Interno", senza rinunciare alla Responsabilità Ed alla sfida di Governo. E Syriza Mantiene i Suoi strettissimi legami con Podemos.

Il numero uno causa della Formazione della Sinistra spagnola, Íñigo Errejón, in Una Conferenza stampa convocata per commentare la decisione del premier greco di Andare annuncio Elezioni anticipare, ha ribadito il Che «Alexis Tsipras ha data Una lezione di coraggio, Responsabilità e Fiducia al Suo popolo », Anche se ha Definito Una« cattiva notizia », la scissione all'interno della Coalizione della Sinistra radicale Ellenica.

D'altronde, Gia Pablo Iglesias, Nei giorni scorsi, AVEVA ribadito l'appoggio ad Alexis Tsipras, DOPO Che parte della stampa greca AVEVA scritto Che il trentaseienne politico spagnolo, DOPO il compromesso della Grecia con i creditori, avrebbe DECISO di TOGLIERE dal Suo Profilo Twitter, Una SUA foto con il primo ministro greco.

La comunanza di intenti ed il forte rapporto con Podemos, sta un confermare la Volontà di Syriza di non perdere le Caratteristiche Di Una forza radicale, Che continuerà Una Tariffa tutto il possibile per Combattere il predominio della Finanza e l'Europa un predominio Tedesco.

La questione, tuttavia, vieni Fanno Notare stretti collaboratori del capo del Greco E Essere Capaci di creare- giorno per giorno- le Condizioni Perché questo Possa avvenire Realmente, e non Voler Giocare Il Ruolo della Vittima sacrificale, da solista per difendere la propria purezza ideologica .



VAROUFAKIS: «NON Staro CON SYRIZA,
LAVORO A UNA SINISTRA EUROPEA ANTI-MEMORANDUM»
di Andrea Mastrandrea
Grecia. 25 Deputati con Unità popolare di Lafazanis: pronti Anche un Uscire dall'euro. Sono la terza forza in Parlamento
Nel giorno in cui da Una costola di Syriza nasce la terza forza Parlamentare della Grecia, Yanis Varoufakis se ne va Una tessere la tela SUA politica in Francia, alla tradizionale festa estiva del Partito socialista a Frangy-en-Bresse. A invitarlo e La Sinistra anti-austerità capeggiata dall'ex ministro dell'Economia Arnauld Montebourg, Che Vuole Tariffa la guerra all'ala liberale del premier Manuel Valls. Dichiarazione d'intenti Una, forse, che parla un Valls Perché Tsipras intenda, ma forse pure alla neonata Unione popolare di Panagiotis Lafazanis, più Apertamente antieuropeista.

La Domanda del Giorno e infatti con chi staranno Varoufakis e Un'altra protagonista dei Mesi di Governo Syriza: La Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou. Nella lista dei 25 Deputati finiti nel nuovo gruppo Messo in Piedi Dalla Piattaforma di Sinistra spiccano infatti le Loro assenze. Vuol dire Che rimarranno dentro Syriza, pur su POSIZIONI contrarie ad Alexis Tsipras? Non proprio. Konstantopoulou E bloccata dal Suo Ruolo istituzionale, ma difficilmente rimarra al Seguito del primo ministro, con il quale e entrata Più Volte in rotta di collisione.

Diverso Il discorso per Varoufakis: l'ex ministro delle Finanze Non è mai Stato Vicino Alle POSIZIONI DEGLI anti-europeisti e non ha Fatto mistero di Voler Lavorare alla costruzione di Una Sinistra Europea anti-austerità (e non nazionale), Venire Dimostra la Partecipazione Al meeting francese. Anche se alla multa le POSIZIONI potrebbero Anche convergere, Visto Quanto Varoufakis ha detto ieri in un'intervista Pubblicata ieri dal Nouvel Observateur (ma probabilmente rilasciata quando il Governo Tsipras epoca Ancora in sella). «ABBIAMO tradito la grande Maggioranza del popolo greco. Non potrei Lontano parte di un Governo e di un Partito Che chiedono un Mandato popolare per applicare l'Accordo del 13 luglio », ha Detto con la consueta chiarezza.

Per Quel che riguarda il Suo impegno politico, invece, l'economista greco ha spiegato: «Rimarrò Attivo politicamente Perché le Questioni del Debito e dell'austerità devono Essere pensate al Livello Europeo. Se Non C'è un Movimento Europeo per democratizzare la zona euro, Nessun popolo Europeo Vedrà giorni Migliori. Ci Rimane da Combattere Una battaglia Fondamentale ».

Una Prospettiva Diversa da Quella enunciata da Lafazanis. L'ex ministro dell'Energia, annunciando ieri la scissione da Syriza e La nascita di Unità Popolare, ha Annunciato esplicitamente Che «per sbarazzarci del Memorandum siamo pronti anche annuncio Uscire dall'euro in maniera controllata» e per Loro Che «non c ' E L'inferno fuori dall'Eurozona ». Poi ha Fatto appello al popolo del no («non Sarà Orfano in QUESTE Elezioni») e alle Altre Forze Politiche anti-Memorandum, Dai Comunisti del Kke alla piccola Formazione della Sinistra antagonista Antarsya, per Entrare un Lontano parte del fronte anti-Memorandum costruzione . Un appello Già respinto al mittente Dai primi e il Che con OGNI Probabilità Sarà Raccolto Dai Secondi.

Ma il vero Fatto negativo per le sinistre europee Il Il Rinascenti E L'esplosione di Syriza. Oltre ai 25 di Deputati finiti in Unità Popolare e AI Dubbi su Konstantopoulou e Varoufakis, Altri quattro Parlamentari ieri si Sono dichiarati Indipendenti (TRA QUESTI l'ex viceministro Nadia Valavani), MENTRE L'emorragia si diffonde ora Agli organi dirigenti del Partito e inevitabilmente si allargherà alla base: già ieri si Sono dimessi tre Esponenti del Comitato centrale in quota Piattaforma di Sinistra. Ho Mal di pancia, anche nell'era Quella Che la Maggioranza di Syriza, Sono MOLTI: si imputa un Tsipras Il Fatto di non Aver voluto Incontrare Gli organi dirigenti di Syriza DOPO L'Accordo di luglio e di Aver DECISO in autonomia, con un ristretto Personale, la strada da SEGUIRE. E la decisione di Andare alle urne Azzera puro il Previsto congresso, il Che però difficilmente sarebbe riuscito a Portare indietro le lancette degli orologi.

Del resto, era lo Stato Stesso premier alla multa di luglio un dichiarare esaurito Il Progetto della Coalizione della Sinistra radicale, «pluralista e polifonico», radio un'intervista Kokkino, Nella quale AVEVA sostenuto Che «Syriza Non E Fatta per Governare» e anticipando Così la SUA Evoluzione in forza di Governo. Comunque vada a finire, il RISULTATO Che ci consegna questa prova di forza agostano e La Probabile multa del "modello Syriza" venire l'ABBIAMO conosciuto finora, un Esempio vincente di Ricostruzione Di Una Sinistra dal basso (le lotte Sociali, le Esperienze di Mutuo Soccorso, il radicamento territoriale) e Che riesce a farsi forza delle Diversità. Un esperimento COSTRUITO NEGLI anni della Crisi e Guardato con interesse nel resto d'Europa, Ma che sì E sciolto vengono Sole Neve al nel Pochi mesi di Governo. Debutta Un'altra stagione, e siamo Assolo Agli Inizi.

Dopo le critiche di un prelato alla politica dei nostri anni, ecco una voce ragionevole da una stanza del Palazzo. Maria Cristina Carratù intervista Enrico Rossi.

La Repubblica, 22 agosto 2015

FIRENZE. «Trovo stupefacente la reazione della politica alle osservazioni di monsignor Galantino, neanche le avesse fatto un esorcismo... Invece il segretario della Cei l’ha semplicemente richiamata al suo compito alto e nobile, fuori dal teatrino di tutti i giorni». Enrico Rossi, governatore della Toscana, è una delle poche voci che in questi giorni hanno difeso il segretario dei vescovi italiani, attaccato da destra e da sinistra per le sue critiche all’attuale modo di fare politica (“un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi”) e che ieri ha battuto un altro colpo al Meeting di Rimini. E ci tiene a sottolinearlo: «Non sono cattolico, non sono mai stato un democristiano, ma vengo da una tradizione comunista, e sarà forse per questo che col mondo cattolico sono capace di dialogare senza demonizzarlo». Cosa che, dice Rossi, «dovrebbe fare anche una sinistra a cui stesse davvero a cuore il cambiamento».

Le parole di Galantino sono state lette anche come un attacco al governo guidato Renzi.«Reagire come se tutto fosse riducibile a una questione di lesa maestà non ha senso. Non a caso Renzi, giustamente, ha taciuto».

E allora quale significato hanno le “stoccate” del segretario della Cei?
«Basta leggere tutto il discorso su De Gasperi per capire che non ce l’aveva affatto con la politica in sé, ma con la politica ridotta a ricerca del consenso, a marketing, puro pragmatismo. E che, anzi, proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società, l’ha invitata a rimettere al centro il bene comune, ritrovare una forte dimensione ideale ed etica, che è poi quello che chiede la gente, e direi anche gran parte degli elettori del Pd. E’ una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo o a una parte politica».

Molti hanno però avvertito una ingerenza dei vescovi, con un cambio di rotta rispetto allo stile “neutralista” di papa Francesco.
«Una vera bestialità. La Chiesa ha tutto il diritto di dire la sua, anche quando si attesta su posizioni arretrate, e di ricevere risposte di merito, anziché di annientamento dell’avversario, come invece è avvenuto. La destra è stata sguaiata. Ma anche dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece riconoscere che Galantino ha ragione: la politica non ha più una prospettiva ideale, pensa solo a difendere se stessa. Vogliamo accusare i vescovi di ingerenza anche quando parlano di immigrazione, lavoro, ambiente? Al contrario, se la sinistra non si misurerà con questi temi proprio nel senso indicato dalla Chiesa, è destinata ad assomigliare sempre più alla destra».

Articoli di Teodoro Syngellakis e Angelo Mastrandrea sulla crisi di Syriza e le dimissioni di Tsipras. le divisioni sono il prezzo che tutte le sinistre sembrano dover pagare tutte peri loro ritardi storici.

Il manifesto, 21 agosto 2015


TSIPRAS LASCIA:
«PER UNA GRECIA PIÙ GIUSTA»
di Teodoro Syngellakis

Provaci ancora. Un’altra svolta, dopo il summit con ministri e Syriza. Dimissioni da premier e urne aperte il 20 settembre. La «transizione» a una donna magistrato. Sette mesi dopo il voto che lo ha portato al governo e a un mese dal referendum, il leader greco incassa i prestiti e chiede al paese di rinnovargli il mandato per governare

Ale­xis Tsi­pras ha voluto seguire con deci­sione la via che porta alle ele­zioni anti­ci­pate, il pros­simo 20 set­tem­bre. Alla riu­nione in cui si è deciso il ricorso anti­ci­pato alle urne hanno preso parte tutti i più stretti col­la­bo­ra­tori del pre­mier greco: il mini­stro alla pre­si­denza Nikos Pap­pàs, il capo­gruppo di Syriza alla camera, Nikos Filis, il mini­stro per il rias­setto pro­dut­tivo Panos Skourletis.

«Non si tratta dell’accordo che avremmo voluto, ma senza il soste­gno e la resi­stenza dimo­strata dal popolo greco, i cre­di­tori ci avreb­bero por­tato alla cata­strofe, o avreb­bero impo­sto total­mente la loro linea», ha sot­to­li­neato Tsi­pras, nel suo discorso di quat­tor­dici minuti, tra­smesso ieri sera dalla tele­vi­sione pub­blica Ert.

Secondo il lea­der greco, il paese sta ini­ziando ad uscire da una situa­zione molto dif­fi­cile, e «lot­terà per ridurre al minimo gli effetti nega­tivi del com­pro­messo, dirà no a tagli lineari, alle bar­ba­rie nella legi­sla­zione sul lavoro, com­piendo ogni sforzo per ricon­qui­stare pie­na­mente la pro­pria sovra­nità nazio­nale». Una forte stoc­cata è anche arri­vata all’indirizzo della mino­ranza interna del par­tito, che non ha soste­nuto, in par­la­mento, l’accordo con le isti­tu­zioni cre­di­trici: «Con il voto giu­di­che­rete anche chi vor­rebbe dei pre­stiti pas­sando alla dracma e, con incoe­renza, ha tra­sfor­mato un governo eletto pochi mesi fa, in una mino­ranza parlamentare».

Tsi­pras, infine, ha ricor­dato gran parte delle misure adot­tate in que­sti sette mesi di governo. Dalla ria­per­tura della tele­vi­sione pub­blica Ert, alla pos­si­bi­lità, per i cit­ta­dini, di sal­dare in cento rate men­sili i debiti verso lo stato, fino alla legge che dà la cit­ta­di­nanza greca ai figli degli immigrati.

Nel suo com­plesso, la stra­te­gia è chiara: gio­care l’effetto sor­presa, potersi gio­vare del vasto appog­gio popo­lare di cui con­ti­nua a godere Tsi­pras, rite­nuto da gran parte dei greci un poli­tico one­sto, che cerca di fare del suo meglio per uscire da una situa­zione al limite della dispe­ra­zione Una situa­zione in cui il paese si è venuto a tro­vare, prin­ci­pal­mente, per respon­sa­bi­lità del cen­tro­de­stra di Nuova Demo­cra­zia, ma anche dei socia­li­sti del Pasok, che si sono alter­nati al governo per quarant’anni. Ovvia­mente, la scelta di dimet­tersi per andare, così, ad ele­zioni anti­ci­pate, secondo molti osser­va­tori, è con­di­zio­nata anche dal altri due ele­menti : cer­care di ridurre la pos­si­bi­lità della mino­ranza interna di Syriza– della Piat­ta­forma di Sini­stra– di potersi orga­niz­zare in vista delle ele­zioni e cogliere di sor­presa, per quanto pos­si­bile, anche tutti i par­titi dell’opposizione.

Secondo quanto fil­tra dall’ambiente dell’ex mini­stro Pana­jo­tis Lafa­za­nis, la Piat­ta­forma di Sini­stra ha già avviato, comun­que, molti con­tatti per la for­ma­zione delle liste di un movi­mento auto­nomo, il quale dovrebbe avere come punto car­dine l’opposizione alle poli­ti­che di auste­rità e dei memo­ran­dum di intesa con i cre­di­tori. Biso­gnerà vedere, ovvia­mente, quali spazi poli­tici pos­sono venirsi a creare, nello spa­zio tra Syriza e il par­tito comu­ni­sta “orto­dosso” Kke, per una nuova for­ma­zione come questa.

Secondo quanto ripor­tano molti ana­li­sti greci, Ale­xis Tsi­pras avrebbe voluto andare ad ele­zioni anche il 13 set­tem­bre, ma, dopo una breve veri­fica, si è con­sta­tato che non ci sareb­bero stati i tempi tec­nici neces­sari. Lunedì dovrebbe giu­rare un governo pre­sie­duto, molto pro­ba­bil­mente, dalla pre­si­dente della Corte di Cas­sa­zione, che por­terà il paese alle urne, come pre­vede la costi­tu­zione greca. Va inol­tre ricor­dato un altro ele­mento di pri­ma­ria impor­tanza: in caso di ele­zioni legi­sla­tive anti­ci­pate, con­vo­cate entro diciotto mesi dall’ultima tor­nata elet­to­rale, i tre­cento depu­tati del par­la­mento greco non si eleg­gono con le pre­fe­renze, ma con delle liste pre­pa­rate dai par­titi. È chiaro, quindi, che i dis­si­denti che doves­sero deci­dere, al momento, di non uscire da Syriza, avreb­bero, comun­que, ben poche pos­si­bi­lità di venire rican­di­dati. Tutti gli espo­nenti vicini a Tsi­pras, nelle ultime ore hanno fatto sen­tire il loro soste­gno, riguardo alla neces­sità di andare nuo­va­mente alle urne. «Ci vuole una nuova legit­ti­ma­zione popo­lare», secondo il mini­stro dell’interno Nikos Vou­tsis, men­tre anche il respon­sa­bile del dica­stero per la rior­ga­niz­za­zione pro­dut­tiva, Skour­le­tis, ha ricor­dato che la fidu­cia popo­lare deve essere rin­no­vata, dal momento che «Syriza, in que­sta fase, è chia­mata ad attuare un pro­gramma per il quale non è stata eletta».

Quanto al fronte dell’opposizione, il cen­tro­de­stra di Nuova Demo­cra­zia ed i socia­li­sti del Pasok potreb­bero cer­care di indi­vi­duare alcuni punti pro­gram­ma­tici da su cui insi­stere di comune accordo, ma è stata esclusa a priori qua­lun­que forma di col­la­bo­ra­zione a livello di liste e can­di­dati, dal momento che, secondo quanto dispone la legge elet­to­rale greca, non potreb­bero, comun­que, gio­varsi del pre­mio di maggioranza.

Si torna alle urne, quindi, dopo la vit­to­ria di Syriza del 25 gen­naio scorso, con il 36,3% dei voti e 149 seggi. Dopo una trat­ta­tiva di quasi sette mesi, inter­rotta per­ché si potesse tenere il refe­ren­dum del 5 luglio scorso, quando il 61,3% dei greci ha chie­sto la fine delle poli­ti­che di auste­rità. Ora Tsi­pras chiede ai greci di rin­no­var­gli la fidu­cia, «per­ché i giorni migliori non li abbiamo ancora vissuti».

L’ALTRA SYRIZA: «UN NUOVO INIZIO»di Angelo Mastrandrea

Grecia. Lafazanis durissimo contro Tsipras. L’incognita Konstantopoulou e Varoufakis. Non ci sarà neppure un congresso. Da oggi gruppi separati, nascerà un «Fronte anti-Memorandum»

Il primo passo dei dis­si­denti sarà l’uscita dai ran­ghi di Syriza e la for­ma­zione di un auto­nomo gruppo par­la­men­tare. Paral­le­la­mente vedrà la luce, nei tempi rapidi indotti dal pre­ci­pi­tare della crisi di governo, quel fronte anti-Memorandum al quale ave­vano fatto appello, appena una set­ti­mana fa, dodici per­so­naggi di altret­tante orga­niz­za­zioni della sini­stra isti­tu­zio­nale ed extra­par­la­men­tare. Sarà il «nuovo ini­zio» del quale ha par­lato l’altro ieri il lea­der della Piat­ta­forma di sini­stra Pana­io­tis Lafa­za­nis, una forza poli­tica «di sini­stra e patriot­tica» che si rivol­gerà a tutto il popolo che ha votato «no» al refe­ren­dum. Le parole duris­sime dell’ex mini­stro dell’Energia hanno rap­pre­sen­tato forse la goc­cia che ha fatto tra­boc­care il vaso per Ale­xis Tsi­pras, indu­cen­dolo a rom­pere gli indugi e spiaz­zare tutti indi­cendo ele­zioni anti­ci­pate subito dopo aver rim­bor­sato 3,2 miliardi di euro alla Bce e aver rica­pi­ta­liz­zato le ban­che per dieci miliardi, met­tendo in sicu­rezza la Gre­cia. «Il governo ha vol­tato le spalle ai prin­cipi e alle lotte di migliaia di mem­bri e fun­zio­nari di Syriza, non­ché alle spe­ranze del mondo demo­cra­tico pro­gres­si­sta», aveva detto Lafazanis.

Una rot­tura che era nell’aria, che spacca tra­sver­sal­mente Syriza e pro­vo­cherà lace­ra­zioni umane forti e pro­blemi pra­tici di non poco conto, per un par­tito all’antica, com­po­sto di sezioni e mili­tanti, molto radi­cato nei quar­tieri così come nelle orga­niz­za­zioni sociali (basti pen­sare alle decine di ambu­la­tori e far­ma­cie autor­ga­niz­zate nate negli anni della crisi). Non è solo una forza poli­tica che va in crisi, ma un modello vin­cente sia sul piano interno che per le rie­mer­genti sini­stre euro­pee: una coa­li­zione «poli­fo­nica e con­trad­dit­to­ria» come ama­vano defi­nirla, capace in pochi anni di diven­tare il primo par­tito della Grecia.

A poco è ser­vito l’appello del novan­ta­duenne ex par­ti­giano Mano­lis Gle­zos, che pur cri­ti­cando radi­cal­mente le deci­sioni della diri­genza aveva invi­tato il par­tito a «rin­sa­vire» e discu­tere, con­vinto che un punto di media­zione si sarebbe tro­vato. Con chi si schie­rerà ora l’uomo che tirò giù la ban­diera nazi­sta dal Par­te­none? Cosa faranno la Pre­si­dente del Par­la­mento Zoe Kon­stan­to­pou­lou e l’ex mini­stro delle Finanze Yanis Varou­fa­kis, iper­cri­tici con il Memo­ran­dum fir­mato? Nomi pesanti che potreb­bero fare la dif­fe­renza, se schie­rati dall’una o dall’altra parte.

La deci­sione di Tsi­pras ha spaz­zato via pure i pon­tieri del par­tito, chi pen­sava fosse ancora rea­liz­za­bile la mis­sione impos­si­bile di man­te­nere unita la Coa­li­zione della sini­stra radi­cale. Ora sono chia­mati tutti a schie­rarsi o a tirarsi indie­tro, come ha annun­ciato ieri la depu­tata Maria Kanel­lo­pou­los, che non si rican­di­derà per­ché «non voglio par­te­ci­pare all’inevitabile guerra civile tra eser­citi di parte che si sca­te­nerà» e, dice, tor­nerà all’attivismo sociale. Le due Syriza si divi­de­ranno senza nep­pure con­fron­tarsi in un con­gresso: chie­sto da Tsi­pras all’indomani dell’Eurogruppo del 12 luglio (quello del «water­boa­ding men­tale»), è rima­sto stri­to­lato dal muro con­tro muro e dalla pro­ba­bile diser­zione della sini­stra interna. «Per­ché un’elezione indetta ad ago­sto, a tempo di record?» si chie­deva ieri il sito Iskra, house organ della mino­ranza, «la ragione è sem­plice e intui­tiva: il governo è pre­oc­cu­pato per le con­se­guenze del Memo­ran­dum, che si faranno sen­tire giorno dopo giorno. Ma c’è un altro motivo non tra­scu­ra­bile: sor­pren­dere la Piat­ta­forma di sini­stra, che non ha avuto il tempo di pre­pa­rarsi alle ele­zioni, e sba­raz­zarsi del no al referendum».

Chi non si dichiara sor­preso è l’inossidabile Kke: anche il segre­ta­rio del par­tito comu­ni­sta Kou­tsou­bias ha detto che un voto a così breve ter­mine serve per non far orga­niz­zare gli avver­sari, ma loro si dicono «pronti in qual­siasi momento». D’altronde sono stati tra i pochi a non andare in vacanza nep­pure un giorno: i suoi mili­tanti affi­liati al sin­da­cato Pame sono scesi in piazza sia nel giorno del voto del primo accordo, a luglio, che in quello di fer­ra­go­sto sul Memo­ran­dum.

Ma a pre­oc­cu­pare lo staff di Tsi­pras, e forse a spin­gerlo a for­zare i tempi, sono soprat­tutto i son­daggi: l’ormai ex pre­mier è ancora forte, ma i con­sensi sareb­bero un po’ in calo e l’applicazione delle
misure più dure del Memo­ran­dum rischie­rebbe solo di nuo­cer­gli. Da qui la deci­sione di gio­care d’anticipo e chie­dere ai greci un con­senso pieno.

Terminata la prima fase dell'avventura della Grecia si Tsipras di aprire un varco nell'Europa della finanza e svelarne il volto. Il seguito non può essere lasciato alla Grecia. Articoli di Valentina Conte ed Ettore Livini.

La Repubblica, 21 agosto 2015

SI È DIMESSO TSIPRAS
GRECIA AL VOTO TRA UN MESE
“HO LA COSCIENZA A POSTO”

di Valentina Conte
Il premier:la parola al popolo,decida se siamo nel giusto La Ue auspica ampio consenso.Arriva prima tranche aiuti
«Sono orgoglioso di quello che abbiamo fatto al governo», ha rivendicato Tsipras in tv. «L’Europa non è più la stessa dopo che Syriza è andata al potere», alla fine di gennaio. «Abbiamo portato il caso greco in tutto il mondo, siamo stati esempio per altri popoli. L’idea di porre fine alle misure di austerità sta prendendo piede, anche grazie a noi».
Il premier greco ha poi rivelato di aver chiesto al presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, con una lettera, «la sua partecipazione nel programma greco per affrontare in modo più democratico le nuove misure di austerità».
Proprio ieri, alcune ore prime delle dimissioni di Tsipras, nelle casse di Atene è arrivato il versamento da 13 miliardi del nuovo piano di salvataggio, un pezzetto della prima tranche approvata dal fondo salva-Stati Esm da 16 miliardi. Di questi, 3,2 miliardi sono serviti a rimborsare la rata con la Banca centrale europea, in scadenza ieri. Altri 7,16 miliardi per ripagare un prestito ponte concesso dai 28 paesi Ue a luglio. I restanti 3 miliardi giungeranno «al più tardi entro fine novembre, una volta che la Grecia avrà completato ulteriori azioni prioritarie». E serviranno per il rifinanziamento del debito e del bilancio dello Stato.

«Ho la coscienza a posto, in questi mesi ho combattuto per il mio popolo». Con queste parole ieri all’ora di cena, in diretta tv, Alexis Tsipras ha annunciato le sue dimissioni. L’ingegnere quarantenne, da neanche sette mesi alla guida del governo greco e a capo di una coalizione sinistra-destra Syriza-Anel, ha così deciso di ridare la parola ai cittadini, sperando di incassarne un mandato pieno. «I greci devono decidere se li ho rappresentati con coraggio davanti ai creditori e se questo accordo è sufficiente per una ripresa», ha poi spiegato il premier ateniese, riferendosi al terzo piano di salvataggio in cinque anni da 86 miliardi firmato con la troika (Bce-Fmi-Ue), approvato anche dai parlamenti di Germania e Olanda giusto due giorni fa, e ora sottoposto al giudizio degli elettori. «Non è quello che volevamo, ma il migliore possibile che potevamo ottenere, date le circostanze» e che «siamo obbligati a rispettare, ma combatteremo per mitigarne le conseguenze avverse», ha promesso Tsipras, visto che «potremmo essere entrati nella fase finale di questa difficile situazione».

D’altro canto «il mandato che ho ricevuto il 25 gennaio ha esaurito il suo limite, ora il popolo deve decidere di nuovo». E l’«obbligo morale a sottoporre quello che ho fatto al vostro giudizio» ha come unico obiettivo quello di ottenere «un forte mandato, un governo stabile e la solidarietà con la società che vuole le riforme in senso progressista».

La Commissione europea «prende nota dell’annuncio» in serata via twitter, dall’account della portavoce Annika Breidthardt. E sottolinea che «un ampio sostegno per il memorandum d’intesa» sul terzo piano di aiuti «e il rispetto degli impegni saranno chiave per il successo». Così anche il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem: «È cruciale che la Grecia mantenga gli impegni stretti con l’Eurozona». Più drastica l’agenzia di rating Moody’s, convinta che le dimissioni del premier greco e la convocazione di elezioni anticipate - con ogni probabilità previste per il 20 settembre - «potrebbero aumentare le preoccupazioni sull’attuazione del programma e potenzialmente metterne a rischio gli esborsi futuri».

COSÌ HA GIOCATO D’ANTICIPO
PER NON ESSERE TRAVOLTO
DAL CROLLO DI SYRIZA
di Ettore Livini

Il tempo, a volte, è tutto. E Alexis Tsipras, per evitare ai ribelli di Syriza (Yanis Varoufakis e Zoe Konstantopoulou compresi) e al centrodestra di organizzarsi, ha deciso di rompere gli indugi e portare la Grecia alle urne. A Bruxelles e Berlino in molti storcono il naso. Atene si era impegnata ad approvare entro ottobre un pacchetto di riforme pesanti, dalle pensioni ai tagli al welfare. E le elezioni accorciano i tempi a disposizione per l’ok e rendono più incerto il sì alle misure.

Il premier però aveva poche alternative. Il governo si è dissolto il 10 luglio, quando 39 deputati dell’ala radicale del suo partito hanno detto “no” al memorandum obbligandolo ad affidarsi a Pasok, Nea Demokratia e To Potami (da allora è successo a ogni voto) per ottenere il via libera in aula. La Ue e parte dell’esecutivo spingevano per tirare avanti così per qualche settimana, contando sull’appoggio dell’opposizione e formalizzando più avanti la scissione della sinistra con un congresso straordinario. Obiettivo: varare i primi provvedimenti d’austerità, superare lo scoglio della verifica con la Troika a ottobre e avviare i negoziati per la riduzione del debito, in modo da presentarsi poi alle urne forti dell’impegno dei creditori al taglio dell’esposizione.

Alla fine però, Tsipras ha preferito sparigliare le carte. L’arrivo dei primi 23 miliardi di aiuti mette il paese in sicurezza per qualche tempo. E gli uomini del suo cerchio magico l’hanno convinto che le elezioni a settembre, malgrado i mal di pancia di Schaeuble & c., sono la scelta giusta per capitalizzare sulla sua (presunta) popolarità prima che i greci sentano sulla loro pelle il peso dell’austerità targata Syriza.

Le incognite delle prossime settimane sono tante e il primo ministro - questa è la sua vera forza - è l’unico ad avere l’idee chiare: si presenterà ai cittadini dicendo che ha combattuto come poteva (cosa che sotto il Partenone gli riconoscono tutti) e che è stato costretto ad accettare un’intesa che non condivide. Promettendo che il giorno dopo le elezioni lotterà per ammorbidire l’austerità e combattere contro evasori e oligarchi per far pagare la crisi della Grecia a chi finora non ha sborsato un centesimo di tasca sua.

Gli crederanno i suoi concittadini? Gli ultimi sondaggi che risalgono a inizio luglio, dicono di sì: Syriza viaggia oltre il 30% dei consensi, a un soffio dalla maggioranza assoluta, Nea Demokratia è seconda ma al 18%. Numeri figli del carisma del presidente del Consiglio, più forte in apparenza delle promesse elettorali tradite e di una strategia negoziale suicida che ha ripiombato Atene in recessione.

I suoi avversari viaggiano in ordine sparso. I dissidenti della Piattaforma di sinistra guidati da Panagiotis Lafazanis avranno pochissimo tempo per organizzarsi. Difficile si arrivi a una pace tra le due anime di Syriza. Anche perchè la Costituzione consente a Tsipras di scegliere i candidati in lista, tagliando così fuori - se vuole - tutta l’opposizione interna. La probabile scissione darà vita così a un nuovo soggetto politico che per alcuni sondaggi informali è attorno al 5%. Varoufakis e Konstantopoulou, i due più carismatici rivali del pemier, hanno pochi punti di contatto con Lafazanis e potrebbero decidere di corre- re in proprio.

Nel caos è anche l’opposizione, che non è stata in grado di mettere sul piatto un leader alternativo. Nea Demokratia, spaccata in un conflitto generazionale e di correnti, ha affidato il dopo-Samaras a un reggente -Evangelis Meimarakis- affabile ma di scarso appeal elettorale. Stesso discorso per il Pasok, ridotto a percentuali da prefisso telefonico e guidato da Fofi Gennimata, che non pare essere riuscita a invertire la tendenza al ribasso dei consensi. To Potami, il partito riformista di centro di Stavros Theodorakis, naviga in terza posizione nei sondaggi ma senza troppo sprint. Mentre Alba Dorata, senza contributi pubblici e con i leader sotto processo, non dovrebbe riuscire questa volta (sperano tutti) a guadagnare dai fallimenti altrui.

La somma di queste debolezze è il motivo per cui, malgrado tutto, Tsipras potrebbe riuscire a far saltare il banco nelle urne. Dando vita a quel punto a un governo molto più compatto in grado di far passare il memorandum nella speranza che la stabilità faccia ripartire l’economia. L’unico vero rischio è che l’opposizione - conscia di partire battuta - unisca le forze in un fronte pro-Europa riunito sotto un unico simbolo. Konstantinos Mitsotsakis, uno degli uomini forti di Nd, ha già buttato là l’idea. Che di sicuro non dispiace nemmeno alla Troika. Il problema è uno solo: la legge elettorale greca attribuisce il premio di maggioranza di 50 seggi al partito (e non alla coalizione) vincitore alle elezioni. Per ottenerlo, dunque, il centrodestra, Pasok e To Potami dovrebbero sciogliersi per dare vita a una nuova formazione con un suo statuto. Missione quasi impossibile se al voto si andrà il 20 settembre.

Il vero nodo è se la Grecia, alle prese pure con l’emergenza immigrati, sarà in grado di assorbire un mese di campagna elettorale. Il Pil, previsto al rialzo del 2,5% a inizio anno, viaggia ora verso un -2,3% nel 2015. E il rischio Grexit uscito dalla porta rischia di rientrare dalla finestra se dalle urne non uscirà un quadro chiaro.

Le ragioni dell'urgenza di uscire dalla "crisi della sinistra e della necessaria centralità della questione del lavoro. Ma è sufficiente oggi ragionare dall'interno della logica del capitalismo e della sua concezione del lavoro?

Il manifesto, 21 agosto 2015

La sini­stra è in una crisi sto­rica e, direi, mon­diale. Su que­sto tema è in corso sul mani­fe­sto (che si defi­ni­sce ancora “quo­ti­diano comu­ni­sta”) un’utile ricerca, «C’è vita a sini­stra ?», avviata in luglio e che dovrebbe por­tarci almeno all’abbozzo di una con­clu­sione sulla base degli inter­venti pub­bli­cati e in arrivo.

Sap­piamo bene che da una crisi, spe­cie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peg­gio sono forti. Già con Renzi pre­vale la poli­tica di destra: la pro­spet­tiva è che o resi­ste accre­scendo il suo potere per­so­nale o sarà sca­val­cato da un’avanzata delle forze dichia­ra­ta­mente di destra. Le crisi sono una cosa seria.

Non si ricorda mai abba­stanza che dopo la rivo­lu­zione russa del 1917 e le grandi lotte ope­raie in tutta Europa, ci fu una rispo­sta rea­zio­na­ria con il fasci­smo e il nazi­smo che acqui­sta­rono forza con la crisi del l929 e matu­ra­rono le con­di­zioni per la Seconda Guerra Mondiale.

Nel secondo dopo­guerra ci fu un grande svi­luppo eco­no­mico anche in Ita­lia ( il famoso mira­colo ita­liano) accom­pa­gnato da un’avanzata della sini­stra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comin­cia a matu­rare l’attuale gra­vis­sima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della poli­tica, e, direi anche della cultura.

Per ten­tare una ripresa della sini­stra, ci vuole una buona ana­lisi dell’attuale crisi; senza una seria dia­gnosi non si cura una malat­tia. E biso­gna anche chie­dersi per­ché con la forte disoc­cu­pa­zione, soprat­tutto gio­va­nile, non ci siano lotte e pro­te­ste, i sin­da­cati sono inde­bo­liti e anche la buona ini­zia­tiva di Lan­dini fa fatica a decol­lare. Senza con­tare che oggi, il ruolo ammor­tiz­za­tore delle fami­glie si sta esaurendo.

L’attuale pesan­tis­sima crisi ha cause strut­tu­rali da ricer­care, come sosten­gono impor­tanti eco­no­mi­sti, nella glo­ba­liz­za­zione e nel pro­gresso tec­nico. La glo­ba­liz­za­zione, con la rapida cre­scita della comu­ni­ca­zione com­porta l’ingresso sul mer­cato di indu­strie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente sva­lu­ta­zione riduce i prezzi del suo pro­dotto, attira gli inve­sti­menti dei paesi indu­stria­liz­zati (da leg­gere un altro edi­to­riale di Romano Prodi sul Mes­sag­gero del 15 ago­sto). Il pro­gresso tec­nico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e pro­duce disoc­cu­pa­zione.

Due effetti assai forti che col­pi­scono soprat­tutto il lavoro vivo e, quindi, anche la sog­get­ti­vità stessa dei lavo­ra­tori, e che met­tono in evi­denza come il pro­gresso tec­nico che in regime socia­li­sta (o non capi­ta­li­sta) miglio­re­rebbe le con­di­zioni di tutti, in regime capi­ta­li­stico pro­voca disoc­cu­pa­zione, mar­gi­na­liz­za­zione e mise­ria da una parte e con­cen­tra­zione del potere e della ric­chezza in un ristretto e potente gruppo di capi­ta­li­sti finan­ziari dall’altra.

Que­sta del pro­gresso tec­no­lo­gico nemico strut­tu­rale del lavoro vivo è sto­ria antica e non pos­siamo dimen­ti­care che l’avvio dell’industrializzazione capi­ta­li­stica in Inghil­terra diede vita al movi­mento lud­di­sta che con­te­stava l’introduzione delle mac­chine. Allora il lud­di­smo fu tra­volto dallo svi­luppo e dalla cre­scita della pro­dut­ti­vità. Ma fu bat­tuto anche dalle lotte ope­raie per il miglio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e, soprat­tutto, dalle pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario (va ricor­data la con­qui­sta delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).

Oggi di fronte alla attuale gra­vis­sima crisi e alla disoc­cu­pa­zione in cre­scita, biso­gna rimet­tere al primo posto ( ma per alcuni è un con­tro­senso) la ridu­zione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mer­cato glo­bale è sot­to­pa­gato, con orari otto­cen­te­schi e con­tra­sta con que­sta riven­di­ca­zione. Si tratta ora di rove­sciare l’uso che il capi­ta­li­smo fa del pro­gresso tec­nico ma ricor­dare anche che le pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario hanno con­tri­buito alla cre­scita dei con­sumi e dello stesso mer­cato. Oggi una ridu­zione dell’orario di lavoro penso che gio­ve­rebbe anche ai capi­ta­li­sti che con la finanza si arric­chi­scono, ma rischiano di affogarvi.

La ridu­zione del tempo impe­gnato nel lavoro dipen­dente accre­sce­rebbe il cosid­detto “tempo libero”, che oltre a miglio­rare le con­di­zioni di vita darebbe spa­zio a nuovi con­sumi, a nuove spese diven­tando così anche un fat­tore di cre­scita del mer­cato e della società. Anche i capi­ta­li­sti dovreb­bero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglio­re­ranno. Ma i capi­ta­li­sti temono da sem­pre che la cre­scita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi auto­ma­ti­ca­mente il pro­prio potere poli­tico ed economico.

Ma vogliamo aspet­tare che siano i capi­ta­li­sti a pro­porre la ridu­zione dell’orario di lavoro? Oggi, anche per­ché la disoc­cu­pa­zione cre­sce e nel mondo del lavoro cre­sce non solo la domanda di sala­rio, ma anche quella di libertà e di cul­tura, la ridu­zione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, que­sto immenso spa­zio da con­qui­stare e orga­niz­zare, dovrebbe diven­tare l’obiettivo sto­rico della classe ope­raia, dei suoi sin­da­cati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.

Già ad agosto, sulla pagina sportiva di

Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva...(continua la lettura)

Già ad agosto, sulla pagina sportiva di Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva, «Big mai così spendaccione». Dunque lo sport più popolare del mondo torna ai fasti dei grandi acquisti di campioni, dei colpi clamorosi a suon di milioni di euro.Torna? Come se quei fasti li avesse per qualche momento abbandonati. Il calcio – sport meraviglioso, ça va sans dire – oltre a far sognare, dar senso alla vita, istupidire da una settimana all'altra centinaia di milioni di persone, è uno straordinario veicolo ideologico. Della società dello spettacolo costituisce forse il mezzo più popolare e potente per fare accettare, come naturali, le disuguaglianze che lacerano la società del nostro tempo. Un ragazzo di 22 due anni è acquistato al prezzo di 40 milioni di euro? Guadagna in un solo giorno, da contratto, quanto un operaio non riuscirà mai a racimolare in una intera vita di fatica? Ma quel ragazzo è «una forza della natura», è «il terrore delle difese», «segna goal incredibili». Una giustificazione di merito, una gerarchia di valore, una speciale aristocrazia dello spirito vengono frettolosamente messi in piedi per giustificare l'accaparramento di immense fortune da parte di un singolo individuo.

Mai qualcosa di simile poteva accadere nelle società del passato. Solo nelle favole. Non a caso, per secoli, si sono sono raccontate storie di favolosi ritrovamenti, di Isole del tesoro, sparse per i mari del mondo. Oggi un talento fisico particolare, regalato a un individuo dal puro caso, calato dal cielo come la Grazia dei protestanti, può determinarne un incremento stellare della ricchezza personale nel giro di poco tempo. Naturalmente la giustificazione economica viene subito in soccorso a dar senso all'enormità. Il campione contribuisce ai grandi incassi della società, è giusto che una parte rilevante dei profitti vada a lui. E poi i prezzi dei calciatori li determina il libero mercato. Se una società decide di acquistare ad alto prezzo un campione lo fa secondo i propri calcoli di impresa. Avrà il suo tornaconto. Dov'è lo scandalo? Nessuna meraviglia, occorre d'altronde che appaia vantaggiosa la compravendita di uomini, che è l'essenza nascosta della società capitalistica.
Tale razionalità mercantile ha tuttavia lo scopo di fare accettare ai tifosi, in un ambito un tempo ispirato a regole puramente agonistiche, quelle che dominano la società intera. Se c'è sul mercato un valente campione, occorre comprarlo, come si compra un vitello in fiera, magari nel corso dello stesso campionato, non importa se l'anno precedente, quello stesso campione ci ha inflitto uno sconfitta umiliante.I colori e le bandiere, l'identità storica della squadra? E che c'entra? Quel che è importante è vincere. E i campioni, gli individui eroi, i leader sono importanti per vincere, esattamente come accade per i partiti politici. Non importa con quale programma e per far cosa: la vittoria elettorale è il fine che assorbe interamente il loro agire politico .
Quel che conta, nel calcio come in politica, è il primo posto, la coppa, i soldi, il potere. Ma alla fine del percorso si vede bene in quale bolla di valori neoliberistici galleggia il mondo artefatto di questo sport. Si esalta sempre di più il merito del singolo, a cui si assegnano virtù salvifiche, mentre si deprime l'idea di una squadra come collettivo cooperante e proprio per questo esteticamente e moralmente da ammirare. E se la vittoria è l'unico fine e il mezzo sono i singoli campioni, quel che decide tutto alla fine è il mercato, l'acquisto dei singoli. Dunque il “merito” della squadra si riduce al potere d'acquisto, ai capitali investiti, ai soldi. Il merito che vale nel campionato è in realtà funzione del potere finanziario delle singole società, è deciso da una solida gerarchia economica.
Gratta, gratta, sotto lo smalto lucente del valore trovi sempre l' opaco luccicore del denaro. Ma le partite, il campionato, il calcio mercato, grazie alla TV, costituiscono forse la più sfolgorante costellazione della società dello spettacolo. Essi formano il cielo stellato dei divi, supereroi che possono godere di ingaggi milionari, che vivono al di sopra della mischia indistinta dei mortali, ammirati da folle adoranti che ne urlano il nome. I loro stipendi, introiti pubblicitari, premi-partita, ecc. l'intero sopramondo di privilegi in cui vivono immersi appare naturale, accettato come si accetta la supremazia della divinità.
Nulla meglio del calcio mostra oggi come il divismo sia diventato la spettacolarizzazione delle disuguaglianze ad uso del popolo. E' diventato un elemento della cultura popolare. Di che stupirsi se ai grandi a manager di azienda vengono elargiti stipendi centinaia, talora migliaia di volte più elevati del salario degli operai ? Sono i capi, i comandanti, i grandi dirigenti che fanno la fortuna dell'impresa. Lì è il merito. E gli operai, quelli che con la propria quotidiana fatica trasformano le materie prime in beni vendibili, che generano la ricchezza generale, realizzano servizi essenziali al funzionamento della macchina sociale? Quanti talenti sconosciuti, quante donne e uomini portatori di merito – di eccellenza, come dicono i cantori del conformismo corrente - operano all'oscuro, nella massa indistinta delle maestranza di fabbriche ed uffici? Ma costoro svolgono un'opera anonima e collettiva, sempre uguale e ripetitiva, non sono individui, autori di scelte e gesti, di azioni quotidiane sempre nuove, che possono essere vendute sui media, e perciò non possono entrare a far parte della società dello spettacolo.

Senza dire che il merito è, per definizione, di pochi, sia perché non si può premiare tutti, col rischio di cadere nell'egalitarismo, sia perché occorre creare degli idoli, piccoli o grandi che siano, cui la massa deve aspirare per poter sopportare meglio il proprio anonimato, la propria mediocrità quotidiana. Il calcio, infatti, costituisce un universo divistico paradigmatico, ma non è certo il solo.

I media hanno trasferito un fenomeno che in origine, nel XX secolo, era nato con il cinema, all'intera società. Provate, entrando in una qualunque edicola, a guardarvi intorno mentre comprate i vostri giornali. E' come trovarsi in un santuario di paese costellato di immagini votive, il luogo di culto di arcaiche superstizioni. Dalle copertine dei rotocalchi, dei magazine, dei quotidiani, dei libri, dei video, ecc,centinaia di volti e di corpi vi sorridono e vi guardano desiderosi di essere comprati. E' cosi anche all'interno dei quotidiani, che cercano di competere con la TV e vi offrono foto giganti di manager e finanzieri, scrittori, attori, uomini politici, capi di stato.

I nuovi dei del nostro tempo sono tutti lì, come del resto nei palinsesti televisivi, divinità di un politeismo merceologico, necessari a incrementare l'industria editoriale, ma anche a diffondere un messaggio fondamentale: la società, con i suoi obblighi e costrizioni, esiste solo per i sommersi, coloro il cui destino è segnato dall'anonima ripetizione del lavoro e della precarietà. Gli altri sono gli individui. Per gli altri c'è il protagonismo della vita. O almeno è questo che deve apparire, perché il fine ideologico fondamentale del divismo è persuadere che la disuguaglianza è naturale, è frutto del merito di chi ci sa fare. Vuol far vincere l'idea che ci si salva e ci si rende visibili, non tutti insieme, con la lotta politica, ma soltanto da soli, ognuno per sé.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

MATTARELLA: «DAI TERRORISTI
NUOVI CONFLITTI GLOBALI»

di Silvio Buzzanca
Mattarella al Meeting: fanatiche distorsioni della fede possono preparare la terza guerra mondiale
Richiamo all’“umanità nell’accogliere i profughi disperati”. “Fermezza contro i trafficanti di uomini

«Il terrorismo alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa i germi di una terza guerra mondiale». Sergio Mattarella invia agli organizzatori del Meeting di Rimini che parte oggi, dedicato al dialogo frale religioni, un messaggio tutt’altro che formale. Il capo dello Stato, infatti, interviene nel vivo del dibattito di questi giorni su guerra, immigrazione e accoglienza dei profughi.

Mattarella, dopo avere lanciato l’allarme sullo scontro armato, scrive infatti che «dalla capacità di dialogo, di comprensione reciproca, di collaborazione tra le religioni monoteiste dipenderà la pace nel mondo». E in questo processo, prosegue il presidente della Repubblica, «sta a noi prosciugare l’odio, far crescere la fiducia e la cooperazione, mostrare i vantaggi della pace». E in Europa «può svilupparsi ildalogo fra le religioni monoteiste già all’interno delle nostre società, divenute plurali e multietniche».

Per Mattarella un altro momento fondamentale di questo percorso è l’accoglienza ai migranti. Scrive infatti il capo dello Stato che «l’umanità che dimostreremo nell’accogliere i profughi disperati, l’intelligenza con cui affronteremo i fenomeni migratori, la fermezza con cui combatteremo i trafficanti di esseri umani saranno il modo con il quale mostreremo al mondo la qualità della vita democratica». Parole che non piacciono a Matteo Salvini. «Mattarella chiede “umanità” per i profughi. Ma un po’ di umanità per gli italiani massacrati da clandestini e tasse, no?», scrive il leader leghista. Replica il deputato pd Matteo Colaninno: «In queste ore così delicate, mi auguro che le parole del presidente Mattarella costituiscano un punto di riferimento imprescindibile».

CACCIARI:«UN'IPOTESI REALE»
intervista di Giovanna Casadio a Massimo Cacciari

Siamo su un vulcano, l’eversione è solo una parte del problema


«Dire che una terza guerra mondiale possa derivare dal terrorismo è una affermazione ridicola». Massimo Cacciari, il filosofo ex sindaco di Venezia, affronta la questione da un’altra angolatura. Aggiunge che la chiusura davanti ai flussi di migranti invocata da Salvini, è prima di tutto «irrealistica».

Cacciari, lei non condivide l’allarme del presidente Mattarella?
«Lo condivido nel senso che penso che stiamo vivendo su un vulcano. Ma sono le grandi potenze, ancorché integrate e interdipendenti – l’economia Usa e quella cinese ad esempio, la Russia che rivendica un suo ruolo imperiale e entra in conflitto con l’America – che possono scatenare conflitti di interessi. Crescono i pericoli e gli squilibri e nessuno può escludere che si arrivi a un punto in cui qualcuno può pensare che l’unica soluzione sia bellica ».

E il terrorismo che viene dal mondo musulmano?
«È il 10% del problema. Va detto che per l’Isis non è più possibile parlare di terrorismo, perché lì si tratta di uno Stato che conduce la guerra anche con armi terroristiche. Direi che prima di parlare di terrorismo, occorre che questo vada definito».

La democrazia occidentale racconta di società aperte. Ma la reazione di Salvini e dei populisti è chiedere di chiudersi.
«Sono utopie reazionarie. A Salvini prima ancora delle questioni morali è da contestare l’irrealismo totale della sua posizione. Una utopia regressiva. Nel mondo attuale è totalmente impossibile chiudersi, i flussi dei migranti sono inevitabili. Sono da governare certo. I discorsi di Salvini e della Le Pen si contraddicono solo con una strategia europea».

Nel giorno della decapitazione del capo archeologo di Palmira, la paura di un terrorismo islamico alle porte è ancora più forte?
«Siamo davanti a questioni di natura diversa. Il problema delle migrazioni è epocale e va affrontato con una politica di integrazione e accoglienza. Il terrorismo non c’entra nulla. C’è poi un movimento amplissimo di rivendicazione di maggiore autonomia forza e potenza da parte della totalità del mondo musulmano conseguenza di madornali errori commessi dall’Occidente. Ma ora sarebbe persino riduttivo limitarci a denunciare i nostri errori. Il mondo musulmano sta cercando di recuperare la colossale catastrofe subita tra Ottocento e Novecento. Un movimento di risarcimento. Revanscista, diremmo. Era nella natura delle cose che accadesse e sta avvenendo in modi diversi, perché i Fratelli musulmani non sono l’Isis».

Una guerra mondiale potrebbe derivare da questo?
«No. Potrebbe derivare solo da un attacco di alcune di queste potenze o di alcuni di questi movimenti a Israele e questo potrebbe scatenare un conflitto di proporzioni mondiali. Impossibile? Non è impossibile».
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«L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando.» Nella cultura e nella politica dell'estrema destra degli stati europei il rovesciamento dell'ispirazione cosmopolita e universalista dell'Europa dei nostri sogni.

La Repubblica, 19 agosto 2015 (testo integrale)
L’Europa sta diventando un continente blindato con filo spinato e muri di respingimento. Lo é già nelle sue frontiere a Nord e a Est – il Mediterraneo impedisce di fare altrettanto al Sud. A Calais, da dove i migranti cercano passare il Canale della Manica per raggiungere la Gran Bretagna, si assiste quotidianamente a scene di caos e deportazioni che il governo conservatore di David Cameron benedice come sacrosante se il paese vuole “difendersi dall’invasione” dei migranti, invertendo la politica liberale e umanitaria dei precedenti governi labouristi. L’Inghilterra ha solcato tutti i mari del mondo per invadere terre e rapinare risorse. E ora si sente oltraggiata dal viaggio all’incontrario dei colonizzati.

Quel che succede a Calais succede a Est, dove la costruzione del muro di filo spinato tra Serbia e Ungheria (che il governo di Budapest ha appaltato anche a una ditta italiana) procede spedita, con qualche critica da Bruxelles che tuttavia non produce alcun effetto. Il commissario europeo alle Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, ha ricordato come l’EU abbia cercato di concordare atteggiamenti “ragionevoli” con Budapest offrendo in cambio di maggior umanità (distinguere i richiedenti asilo dagli immigranti) 85 milioni di euro per fronteggiare la crisi. Ma il “fronteggiare” non dovrebbe implicare bloccare chi fugge da guerre e violenza. Sennonché, l’UE non ha nulla da dire sui confini nazionali degli stati membri e delle loro politiche di immigrazione perché, occorre ricordarlo, è la sovranità dello Stato che viene messa a dormire con la moneta e la Corte europea dei diritti, non la sovranità della Nazione o la difesa del suolo, delle tradizioni e delle istituzioni dei rispettivi popoli (la riforma autoritaria della costituzione ungherese è avvenuta senza che Bruxelles potesse fare nulla). Sui confini blindati prende forma l’Europa nazionalista del nuovo millennio.

Ha scritto Ilvo Diamanti su questo giornale che la strategia della polemica e la retorica della paura danno forza alla Lega di Matteo Salvini, perché assecondano la facile inferenza immigrazione-invasione, coltivata da anni (il governo Berlusconi ha mietuto consensi con le politiche anti-immigrazione) e che ha ingrossato l’ideologia xenofoba. La strategia polemica di Salvini sfida direttamente le due più rappresentative organizzazioni internazionali e consmopolite: la Chiesa cattolica e l’ONU. In questo modo si posiziona ideologicamente contro l’etica universalista della dignità e dei diritti umani (bollata come ipocrita) e a favore di una lettura delle libertà e delle tradizioni europee che é fortemente localistica ed esclusionaria. Al linguaggio della norma la Lega oppone quello del possesso, rivendicando contro i pastori della religione e del diritto il bene primario della “nostra” terra, dei “nostri” diritti, del “nostro” benessere. Un universalismo per gli identici in qualcosa – similmente a quello coniato dai fondatori del pensiero reazionario moderno, quando attaccarono non i diritti di cittadinanza ma il loro universalismo proclamato dalla Rivoluzione francese (allora gli Ebrei erano gli estranei da escludere). La nuova destra – di Salvini come di altri leader di partiti di destra estrema del Nord e dell’Est Europa – si riappropria di questa ideologia. Si erge a movimento autenticamente europeista, difensore della “nostra” civiltà contro chi la contamina.

Il paradosso del quale é oggi urgente occuparsi e preoccupasi é dunque questo: da anti-europei che erano, i movimenti e le ideologie dei partiti di estrema destra sono diventati i più radicali europeisti. L’Europa che difendono (difendendo le frontiere dei loro paesi con le quali spesso quelle del continente coincidono) é esattamente opposta a quella della tradizione universalista e cosmopolita sulla quale l’Unione europea é nata. Ci può essere un euronazionalismo che traduce in chiave continentale quella cultura comunitaria e proprietaria che ha caratterizzato l’ideologia reazionaria dal tempo della Rivoluzione francese. Allora, la reazione contro l’universalismo dei diritti e l’ideale cosmopolita di cooperazione tra i popoli veniva fatta nel nome delle nazioni e le loro ataviche tradizioni, delle identità linguistiche e dei costumi morali e religiosi dei singoli paesi. Edmund Burke diceva in polemica con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino di non aver mai incontrato “uomini” ma solo tedeschi, francesi, inglesi e italiani. Per la nuova destra, l’europeo si appresta a diventare l’alternativa all’uomo in generale.

L’Europa unita nel nome del filo spinato é l’immagine che i nuovi reazionari stanno edificando. Non più italiani o francesi o ungheresi contro Bruxelles, dunque, ma tutti loro contro quella che essi rappresentano come un’espropriazione dell’Europa da parte dei migranti, con l’avvallo dalla cultura europea dei diritti, laica e religiosa. Alla quale questa Europa nazionalista dovrebbe opporre una politica sistematica di espulsione di tutti coloro che non sono cittadini. L’Europa di destra contro l’Europa che avevano proposto Spinelli e Schumann: é questa oggi la sfida culturale e politica più radicale. Destra e sinistra passano di qui, da due visioni di Europa e di cittadinanza, due visioni del diritto, due visioni dello spazio politico continentale: una che é consapevole delle difficoltà che l’immigrazione pone al modello occidentale di vita e che tuttavia non rinuncia a cercare soluzioni (in Europa e nei paesi d’origine dei migranti) che siano coerenti con i principi del diritto e di quella che Habermas ha chiamato cultura democratica cosmopolita; e un’altra che adatta al continente il nazionalismo xenofobo praticato da generazioni nei singoli paesi.

Tale papa Bergoglio tale cardinale Galantino. Parole sante sulla politica d'oggi, e tutto l'arco costituzionale s'arrabbia. La cronaca di Silvio Buzzanca. e un commento di Francesco Bei e Paolo Rodari. La Repubblica, 19 agosto 2015



GALANTINO ACCUSA TUTTI
“POLITICAHAREM DI FURBI
I POPULISMI UN CRIMINE”

di Silvio Buzzanca
Il segretario Cei: voglio evitare di esasperare il clima Ma poi la relazione su De Gasperi scatena la bufera

Monsignor Nunzio Galantino ha pensato, soppesato, valutato, e alla fine, per evitare nuove polemiche con il mondo politico, ha deciso di disertare l’appuntamento trentino di Pieve Tesino. Doveva tenere una lectio magistralis su Alcide De Gasperi, ma il segretario della Cei ha optato per il passo indietro.

Ha spiegato agli organizzatori di volere evitare «con la mia sola presenza, di contribuire a rafforzare polemiche o anche semplicemente di allontanare il momento del rasserenamento di un clima invano esasperato». Così ha deciso di affidare l’intervento che aveva preparato alla lettura del professore Giuseppe Tognon. Ma quando in sala si è ascoltato il passo dove monsigno Galantino scrive che politica di De Gasperi «non è quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi», la strategia della distensione è andata in frantumi. Ancor di più quando il prelato ha spiegato che «il popolo da solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia».

Il vivace eurodeputato leghista Gianluca Buonanno commenta subito che «alla fine Galantino si pone come il Giuda degli anni 2000. Un traditore dell’Italia». Ma naturalmente la reazione politicamente più pesante è quella di Matteo Salvini, il politico con cui il segretario della Cei ha incrociato i guantoni negli ultimi giorni. «Non so da quale uovo di Pasqua sia uscito Galantino», dice il leader della Lega. E a chi gli chiede se il vescovo sia l’interprete della linea di Papa Francesco, Salvini risponde: «Galantino ha sproloquiato, non mettiamo sullo stesso piano la cioccolata con qualcos’altro». Salvini affonda i colpi. «Non è un problema Salvini contro i vescovi, è un problema di questo Galantino e pochi altri che sono più a sinistra di Rifondazione comunista. Non ce l’ho con la Chiesa. Ce l’ho con due o tre vescovi che dovrebbero andare in giro con la bandiera rossa, invece che mettere la tonaca».
Salvini incassa l’appoggio di Daniela Santanchè: «In quanto a cooptati, harem e furbi, evidentemente Galantino in quanto capo dei vescovi se ne intende assai», dice la deputata forzista. Ma questa volta prende le distanza da Galantino anche Fabrizio Cicchitto che nei giorni scorsi lo aveva difeso. «Non possiamo fare a meno di marcare il nostro dissenso. Ci aspettiamo da Galantino analisi più serie, culturalmente più fondate, e più capaci di comprendere la realtà nella sua complessità e nelle sue contraddizioni e non battute a effetto» dice il deputato del Nuovo centrodestra.

IL PRELATO CHE SPIAZZA LE SACRESTIEE IL PALAZZO
PD:INGIUSTO CON NOI
di Francesco Bei e Paolo Rodari

Galantino ha scelto da solo, convinto di essere in pieno nella linea di papa Francesco Palazzo Chigi colpito da giudizi ritenuti “ingenerosi”. “Gli anticorpi ora ci sono”

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Francesco gli uomini di Chiesa li vuole così. Capaci di parlare chiaro e comprensibile, e soprattutto che sappiano stare lontani dai giochi della politica. E fa niente se possono creare sconcerto anche dentro la stessa Chiesa, provocando non poca irritazione nel governo e tra i renziani. «È il Vangelo – dice un uomo di curia vicino al Papa – che esige che le carte vengano sempre sparigliate. Il Vangelo, del resto, sta sempre all’opposizione mai col potere». Per questo ieri, la rinuncia del plenipotenziario di Francesco in Cei, il segretario generale Nunzio Galantino, a pronunciare personalmente la lectio degasperiana a Trento, non ha significato un arretramento sui contenuti. La Chiesa italiana, dopo anni di ammiccamenti coi governi di turno, non fa cordate, non promuove sottobanco accordi con nessuno, semplicemente dice quello che pensa. In questo caso, parole di fuoco per la classe politica tout court: «Un piccolo harem di cooptati e di furbi».

Galantino ha maturato la scelta di non presentarsi a Trento da solo. Non ha chiesto il placet del Vaticano e nemmeno della presidenza della Cei. E l’ha fatto proprio per essere fedele alla linea del Papa. Dal suo punto di vista, infatti, se fosse andato a Trento non si sarebbe potuto sottrarre alle domande dei media presenti e il contenuto di una lectio studiata a tavolino da giorni avrebbe corso il rischio di passare in secondo piano. Il messaggio è chiaro: per la Cei la politica, tutta la politica, non ha a cuore gli interessi del popolo, ma soltanto i propri. Una condotta che deve avere una fine.

Certo, a parlare in questo modo c’è il rischio di farsi non pochi nemici. Ma così fu anche per De Gasperi, indicato ieri da Galantino come un «modello» da seguire. Patì l’incomprensione di Pio XII che, nel 1952, non capì l’opposizione netta dello statista all’idea di don Luigi Sturzo di un’ampia alleanza elettorale che coinvolgesse, oltre ai quattro partiti governativi, anche il Movimento Sociale Italiano e il Partito Nazionale Monarchico. Soffrì per l’ostracismo pontificio, ma rimase fermo sulle sue idee.

Così anche Galantino, che ha dichiarato di aver maturato la rinuncia proprio leggendo gli scritti autobiografici di De Gasperi, e che preferisce correre il rischio di essere criticato anche dentro la Chiesa da gerarchie abituate a rapporti più paludati e di compromesso, piuttosto che rinunciare a dire con franchezza ciò che pensa: «Se con parole forti ho potuto urtare la sensibilità di qualcuno, l’ho fatto per un’istanza che continuo a credere esclusivamente evangelica », ha detto nella nota con cui comunicava la decisione di non andare a Trento. Ma le incomprensioni che vive Galantino sono le medesime che vive Francesco. Anch’egli è accusato di avere desacralizzato il papato, parlando troppo come un parroco di campagna, usando uno stile oltremodo vicino al popolo, un Papa «della prossimità ». Eppure questa è la sua strada.

La bomba sganciata ieri da Galantino ha comunque prodotto scosse che sono arrivate fino a Roma. Anche se Renzi ha impartito ordine di non replicare, preferendo mantenere il governo fuori dalla polemica, il malumore nel Pd è palpabile per un giudizio considerato «ingeneroso » e soprattutto espresso in maniera grossolana, senza fare distinzioni.

«Ognuno risponde con la propria condotta - sostiene Giorgio Tonini, cattolico dem - e per noi parlano le tante cose fatte per contrastare la corruzione, soprattutto quella politica. Gli anticorpi adesso ci sono e sparare un giudizio morale su tutti non aiuta la politica a individuare gli obiettivi giusti». Quanto al paragone tra i politici di oggi e lo statista trentino, avanzato dal monsignore in chiave spregiativa, Tonini ricorda che «anche De Gasperi fu oggetto di polemiche moraliste da parte del Pci, che lo accusava di essere a capo di un partito di “forchettoni”. Pe i comunisti di allora il “furbetto” era lui». Davide Ermini, responsabile giustizia del Nazareno, dà voce all’irritazione dei renziani: «A Galantino si potrebbe rispondere che se in politica abbiamo avuto i De Gasperi e i Galan, anche nella Chiesa c’erano i don Milani e i Marcinkus. Generalizzare è sempre sbagliato».
«Costituzione. Per venire fuori dal pantano della riforma, il governo prepara una "mediazione" che peggiora ancora il nuovo bicameralismo. E imbroglia sulle bocciature dei professori. ».

Il manifesto, 19 agosto 2015 (m.p.r.)

Sena­tori eletti dal popolo o scelti da (e tra) il per­so­nale poli­tico di seconda fascia - come sono i con­si­glieri regio­nali rispetto ai par­la­men­tari? A set­tem­bre la com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali del senato ripren­derà a lavo­rare sul dise­gno di legge di revi­sione costi­tu­zio­nale Renzi-Boschi e dovrà imboc­care una delle due strade. Quin­dici mesi fa la stessa com­mis­sione, all’epoca del primo pas­sag­gio in par­la­mento della riforma, aveva scelto l’elezione diretta, appro­vando un ordine del giorno del leghi­sta Cal­de­roli. Ma il governo non era d’accordo. E così il lavoro del senato è andato avanti igno­rando quell’ordine del giorno e met­tendo le basi per la riforma com’è oggi, con i sena­tori scelti all’interno dei con­si­gli regio­nali. Un pre­ce­dente utile da ricor­dare a chi oggi, quando si chiede l’elezione diretta, risponde che non si può ripar­tire sem­pre da capo.

Allora i leghi­sti stril­la­rono che non si poteva igno­rare l’ordine del giorno per l’elezione diretta, chia­ma­rono in causa la giunta per il rego­la­mento del senato. E lo stesso fece il sena­tore Mauro quando, imme­dia­ta­mente dopo quel voto, fu sosti­tuito nella com­mis­sione da un altro sena­tore del suo gruppo, ma favo­re­vole alla riforma. Iden­tica sorte toccò a due sena­tori della mino­ranza Pd, che però non si oppo­sero alla rimo­zione. In ogni caso la giunta non decise, lo strappo fu sanato con il silen­zio. E siamo a oggi, quando davanti alla com­mis­sione di palazzo Madama c’è il testo nel frat­tempo modi­fi­cato dalla camera, ma non nel punto della com­po­si­zione del senato — se non in una parola che può ser­vire come cavallo di Troia per ammet­tere modi­fi­che sostan­ziali. Il punto è ancora quello: futuri sena­tori eletti dal popolo oppure no?

L’orientamento dei sena­tori attuali non è cam­biato, e resta favo­re­vole all’elezione diretta. Lo dimo­stra la conta degli emen­da­menti. Sono sei i gruppi che hanno pre­sen­tato pro­po­ste per il ritorno al senato elet­tivo, e poi ci sono i 28 della mino­ranza Pd: in totale 170 sena­tori, una comoda mag­gio­ranza asso­luta. Ma sono numeri che dicono poco, per­ché è da esclu­dere che i rap­pre­sen­tanti del gruppo delle auto­no­mie saranno con­se­guenti con i loro emen­da­menti, è assai dif­fi­cile che il gruppo dei dis­si­denti Pd resti com­patto ed è impro­ba­bile che Forza Ita­lia non trovi il modo di rinun­ciare alle sue posi­zioni per aiu­tare Renzi. La strada che la com­mis­sione si avvia a imboc­care allora non è né quella dell’elezione popo­lare diretta né quella dell’elezione di secondo grado, ma una terza via di con­fusa media­zione. L’elezione «semi diretta». O secondo la ver­sione di uno dei regi­sti del com­pro­messo, il sena­tore ed ex mini­stro delle riforme Qua­glia­riello, «con­ta­mi­nare il nuovo senato con il voto popolare».

«Con­ta­mi­nare», non far eleg­gere diret­ta­mente i sena­tori, per­ché Renzi e Boschi (insieme) non inten­dono cedere fino a ripor­tare in mano ai cit­ta­dini la pos­si­bi­lità di sce­gliere i sena­tori. Grande spon­sor della deci­sione è la Con­fe­renza delle regioni (pre­si­dente Ser­gio Chiam­pa­rino) che ha sosti­tuito l’associazione dei comuni nel ruolo di guar­dia del corpo della riforma (all’inizio Renzi aveva pen­sato a un senato com­po­sto inte­ra­mente da sin­daci, ora ne restano 21). In più il pre­si­dente del Con­si­glio ha biso­gno di un argo­mento sem­plice con il quale con­durre la cam­pa­gna per il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo che si terrà alla fine del pros­simo anno (al più pre­sto) e che certo non potrà ruo­tare attorno a que­stioni com­pli­cate come il bilan­cia­mento dei poteri o la pro­ce­dura di for­ma­zione delle leggi. «Sena­tori non più eletti sì o no?» Slo­gan che può ulte­rior­mente sem­pli­fi­carsi in «Sena­tori senza sti­pen­dio sì o no?», come ha fatto inten­dere di voler chie­dere agli ita­liani Renzi. Intanto, pre­vi­dente, ha già scelto lo slo­gan della pros­sima festa nazio­nale dell’Unità: «C’è chi dice sì».

Ha scritto a Repub­blica Gior­gio Napo­li­tano, padre nobile della costi­tu­zione Renzi-Boschi, che non si può tor­nare (restare) all’elezione diretta dei sena­tori per­ché a quel punto sarebbe «inso­ste­ni­bile» sot­trarre al senato il potere di dare la fidu­cia al governo e si rica­drebbe nel bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio. Un argo­mento iden­tico ha usato uno dei cava­lieri del ren­zi­smo, il capo­gruppo dei depu­tati Ettore Rosato: «Tor­nare all’elezione diretta com­por­te­rebbe, come ci dicono pra­ti­ca­mente tutti i costi­tu­zio­na­li­sti inter­pre­tati, la neces­sità di rein­tro­durre il voto di fidu­cia anche al senato». L’affermazione è inte­res­sante, per­ché il cir­colo stretto ren­ziano non cita mai a suo favore i costi­tu­zio­na­li­sti, anzi usa disprez­zarli chia­man­doli «pro­fes­so­roni». Infatti è falsa. Il dibat­tito costi­tu­zio­nale è evi­den­te­mente assai varie­gato, ma di 32 esperti ascol­tati dalla prima com­mis­sione del senato tra la fine di luglio e l’inizio di ago­sto (non tutti, ma quasi, costi­tu­zio­na­li­sti), la tesi così come espo­sta da Rosato è stata soste­nuta solo da tre pro­fes­sori (Fal­con, Luciani e Tondi della Mura). E ciò nono­stante anche loro, come «pra­ti­ca­mente tutti», hanno evi­den­ziato la stra­nezza del nuovo senato imma­gi­nato da Renzi e Boschi, che si pro­pone come «rap­pre­sen­ta­tivo delle isti­tu­zioni ter­ri­to­riali» (arti­colo 2) ma è dise­gnato in modo da far «pre­va­lere il cir­cuito poli­tico par­ti­tico» (con que­ste parole Cer­rone). Un senato di non eletti che ha tra i suoi poteri quello di par­te­ci­pare alla pro­ce­dura di revi­sione costi­tu­zio­nale è, per citare alcuni dei giu­dizi nega­tivi ascol­tati in com­mis­sione, «incoe­rente», «ibrido», «anfibio».

Mas­simo Luciani, pro­fes­sore della Sapienza non ostile al dise­gno di Renzi, ha spie­gato che meglio sarebbe un’elezione diretta dei sena­tori da parte dei cit­ta­dini in con­co­mi­tanza con l’elezione dei con­si­glieri regio­nali -i sena­tori a quel punto potreb­bero essere con­si­glieri regio­nali a tutti gli effetti ma anche no. Carlo Fusaro, pro­fes­sore a Firenze tra i più con­vinti soste­ni­tori della riforma, giu­dica «bal­zana» l’idea di dele­gare alla legge di attua­zione il cri­te­rio con il quale «semi-affidare» la scelta dei senatori-consiglieri al voto popo­lare, «con­ta­mi­nare» direbbe Qua­glia­riello. Eppure è pre­ci­sa­mente que­sta l’intenzione del governo, che non vuole toc­care il prin­ci­pio dell’elezione di secondo grado per non ria­prire il capi­tolo della com­po­si­zione del senato nel pros­simo, ine­vi­ta­bile, ritorno del dise­gno di legge alla camera.

La solu­zione pre­fe­rita nei ragio­na­menti ago­stani della mag­gio­ranza è quella del vec­chio «listino», cioè un elenco di con­si­glieri regio­nali «spe­ciali» che una volta eletti (e se eletti) avreb­bero diritto a essere nomi­nati in secondo grado tra i sena­tori. Il che avrebbe un van­tag­gio per i par­titi: poter sce­gliere i nomi del listino, e dun­que i pos­si­bili sena­tori, anche affi­dan­doli for­mal­mente alla sele­zione popo­lare. Del resto sul punto sono in pochi a poter van­tare asso­luta coe­renza. Anche il sena­tore Gotor che oggi è tra i più in vista nel fronte dei 28 Pd favo­re­voli all’elezione diretta, un anno fa nel corso del primo pas­sag­gio sostenne que­sta solu­zione, defi­nen­dola «un secondo grado raf­for­zato e qua­li­fi­cato». Ma allora l’Italicum, la nuova legge elet­to­rale, era solo una minaccia.

Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola “margine”. Si tratta di Al margine, di Francesco Magris (Bompiani) e di Margini d’Italia, di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene, possono riserbare delle sorprese.

Al margine” (ma forse si potrebbe leggere anche “sul margine”, ovvero, latinamente, “ de margine”) è un agile libretto, in cui l’autore investiga aspetti diversi di una parola – e delle realtà che di volta in volta le corrisponde – ricchissima di valenze di ogni genere, sia positive sia negative. Ma Magris, se non erro, segue di preferenza il percorso positivo. Ossia va sfogliando, di capitolo in capitolo, come sia possibile (e sia avvenuto, e possa avvenire) che, trovandosi o addirittura mettendosi ai margini, si scoprano potenzialità e forze nascoste che, restando cocciutamente ancorati al centro, non si sarebbero mai neanche sospettate.

In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell’ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell’immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.

Margini d’Italia è un ponderoso volume di storia italiana contemporanea. L’autore, David Forgacs, è uno di quegli storici inglesi e americani (o, talvolta, le due cose insieme), cui si devono assaggi così rilevanti – da un’ottica opportunamente spostata rispetto alla nostra – del nostro modo d’essere e della nostra identità. Il sottotitolo spiega forse meglio contenuti e obiettivi dell’opera. Recita: L’esclusione sociale dall’Unità a oggi .
Per Forgacs, dunque, il «margine » è il luogo (ideale, politico, culturale, antropologico) su cui le classi italiane dominanti, sia pure variamente motivate, hanno collocato (dal punto di vista ideologico, ma anche pratico e fattuale, spesso pesantemente fattuale) i subalterni, i diversi, gli alieni, i «marginalizzati», appunto.

Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud; i Manicomi; i Campi nomadi. Se si esclude l’ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.

Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).

Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l’espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano. La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un’esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi. Faccio un solo esempio, ma rilevante: l’Italia. L’Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).

Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l’Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall’innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.

È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.


Mi piacerebbe davvero discuterne, se avessi la forza di farlo. Soprattutto su due questioni: l'una teorica, l'altra pratica. (1) Se non ci si rinchiude in una logica capitalistica è giusto ridurre il concetto di "lavoro" a quello di "lavoro operaio"?. A me sembra di no. Se avessi ragione occorrerebbe poi domandarsi: (2) Se la crescente marginalizzazione della classe operaia fosse inarrestabile, non esistono altri "margini" suscettibili (ove acquistino coscienza di sé) di svolgere nel XXI secolo il ruolo svolto nei secoli precedenti dalla classe operaia? (e.s.)

Ecco perché sono insensati, iniqui e controproducenti i respingimenti e le invasioni militari, e perché invece l'unica proposta ragionevole è un'ospitalità completa, utile per l'oggi e soprattutto per il domani.

Ilmanifesto, 18 agosto 2015 (versione integrale, con postilla)

Profughi e migranti sono due categorie di persone che oggi distingue solo chi vorrebbe ributtarne in mare almeno la metà: fanno la stessa strada, salgono sulle stesse imbarcazioni che sanno già destinate ad affondare, hanno attraversato gli stessi deserti, si sono sottratte alle stesse minacce: morte, miseria, fame, schiavitù sapendo bene che con quel viaggio, che spesso dura anche diversi anni, avrebbero continuato a rischiare la vita e la loro integrità.

I profughi e i migranti che partono dalla Libia per raggiungere Lampedusa o le coste della Sicilia non sono libici: vengono dalla Siria, o dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Nigeria, dal Niger o da altri paesi subsahariani sconvolti da guerre, dittature o da entrambe le cose. I profughi e i migranti che partono dalla Turchia per raggiungere un’isola greca o il resto dell’Europa attraversando Bulgaria, Macedonia e Serbia non sono turchi (solo qualche curdo lo è per caso): sono siriani, afgani, iraniani, iracheni, palestinesi e fuggono tutti per gli stessi motivi. Sono anche di più di quelli che si imbarcano in Libia; ma nessuno ha ancora proposto di invadere la Turchia, o di bombardarne i porti, per bloccare quell’esodo prima che si imbarchino, come si sta invece proponendo di fare in Libia, fingendo che questa sia la strada per risolvere il “problema profughi”.
Perché non si concepisce niente altro che la guerra per affrontare un problema creato dalle guerre: guerre che l’Europa, o qualcuno dei sui Stati membri, ha contribuito a scatenare; o a cui ha assistito compiacente; o a cui ha partecipato con propri contingenti. Meno che mai ci si propone di andare a “risolvere” le situazioni siriana, o irachena, o afghana, già compromesse dalle “nostre” guerre, come si pensa invece di “sbloccare” quella libica.
Bombardare i porti della Libia, o occuparne la costa per bloccare quell’esodo, non è, nella mente di chi ne propone o ne invoca la realizzazione, o ne attende con impazienza l’autorizzazione, niente altro che il rimpianto di Gheddafi: degli affari che si facevano con lui e con il suo petrolio e del compito di aguzzino di profughi e migranti che gli era stato affidato con tanto di trattati, di finanziamenti e di “assistenza tecnica”. Dopo aver però contribuito a disarcionarlo e ad ammazzarlo contando - e sbagliando – sul fatto che tutto sarebbe filato liscio come e meglio di prima.
Già solo questo abbaglio, insieme agli altri che lo hanno preceduto, seguito o accompagnato – in Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Mali o nella Repubblica centroafricana – dovrebbe indurci non a diffidare soltanto, ma a opporci con tutte le nostre forze, delle proposte e ai programmi di guerra di chi se ne è reso responsabile.

Ma coloro che propongono un intervento militare in Libia, o mettono al centro del “problema profughi” la lotta agli scafisti,non sanno bene che cosa fare. Tra l’altro, bloccare le partenzedalla Libia non farebbe che riversarne quel flusso sugli altri paesi della costa sud del Mediterraneo, tra cui la Tunisia, redendo anche lì ancora più instabile la situazione. Ma soprattutto non dicono – e forse non pensano: il pensiero non è il loro forte – che cosa ci si propone con interventi del genere. Ma capirlo non è difficile: si tratta di respingere o trattenere quel popolo dolente, composto ormai da milioni di persone, in quei deserti che sono una via obbligata delle loro fughe, e che hanno già inghiottitomolte più vittime di più di quante non ne abbia annegato il Mediterraneo; magari appoggiandosi, come si è cominciato a fare con il cosiddetto processo di Khartum, a qualche feroce dittatura subsahariana perché si incarichi lei di farle scomparire. E’ il risvolto micidiale, ma già in atto, dell’ipocrisia che corre da tempo in bocca ai nemici giurati dei profughi: “aiutiamoli a casa loro”.

Invece bisogna aiutarli a casa nostra, in una casa comune che dobbiamo costruire insieme a loro. Non c’è alternativa al loro sterminio, diretto o per interposta dittatura, o per entrambe le cose. Il primo passo da compiere è prenderne atto. Smettere di sottovalutare il problema, come fanno quasi tutte le forze di sinistra, e in parte anche la chiesa, pensando così di combattere o neutralizzare l’allarmismo di cui si alimentano le destre.

Certo, 50.000 profughi (quanti ne sono rimasti di tutti quelli che sono sbarcati l’anno scorso in Italia) su 60 milioni di abitanti, o 500mila (quanti ne ha ricevuti l’anno scorso l’Unione Europea) su 500 milioni di abitanti non sono molti. Ma come si vede, soprattutto per il modo in cui vengono “gestiti”, cioè maltrattati, sono già sufficienti a creare allarmi e insofferenze insostenibili. Ma non bisogna dimenticare che quelli di quest’anno e degli ultimi anni non sono che l’avanguardia di altri milioni di profughi stipati nei campi del Medioriente e del Maghreb, o in arrivo lungo le rotte desertiche dai paesi subsahariani, che non possono – e non vogliono – restare dove sono. Vogliono raggiungere l’Europa e in qualche modo si sentono già cittadini europei, anche se non per questo dimenticano il loro paese di origine e il desiderio di farvi ritorno quando se ne presenteranno di nuovo le condizioni.

L’Unione europea, in mano all’alta finanza e agli interessi commerciali del grande capitale tedesco ha concentrato le sue politiche e i suoi impegni nel far quadrare i bilanci degli Stati membri a spese della popolazione e nel garantire che le sue grandi banche uscissero comunque indenni dalla crisi. Così, anno dopo anno, ha permesso o concorso a far sì che ai suoi confini si creassero situazioni di guerra, di caos permanente, di dissoluzione dei poteri statali, di conflitti per bande di cui l’ondata di profughi e di migranti, senza più futuro nei loro paesi,è la prima e più diretta conseguenza. Non saranno altre guerre, e meno che mai una politica feroce quanto vana di respingimenti, a mettere fine a questo stato di cose che le istituzioni dell’Unionenon riescono più a governare né all’esterno né all’interno dei suoi confini.

A riprendere le fila di quei conflitti, e di quello che si sta producendo a causa degli sbarchi e degli arrivi, non può che essere un nuovo protagonismo di quelle persone in fuga nella definizione di una prospettiva di pace nei paesi da cui sono fuggiti. Ma questo, solo se saranno messe in condizione di organizzarsi e di contare come interlocutori principali, insieme ai loro connazionali già insediati da tempo sul suolo europeo e a tutti i nativi europei che sono disposti ad accoglierli e a impegnarsi direttamente per alleviare le loro sofferenze; e che sono ancora tanti anche se i media non vi dedicano alcuna attenzione.

Bisogna “accoglierli tutti”, come ha raccomandato più di un anno fa Luigi Manconi in un libretto che ne condensa l’esperienza di combattente per i diritti umani; dare a tutti di che vivere: cibo, un tetto decente, la possibilità di autogestire la propria vita, di andare a scuola, di curarsi, di lavorare e di guadagnare.

Ma non sono troppi, in un paese e in un continente che non riesce a garantire queste cose, e soprattutto lavoro e reddito, ai suoi cittadini? Sono troppi per le politiche di austerity in vigore nell’Unione e imposte a tutti i paesi membri; quelle politiche che non riescono e non vogliono più a garantire queste cose a una quota crescente dei suoi cittadini e per questo scatenano la cosiddetta “guerra tra i poveri”.
Ma non sono troppi rispetto a quella che potrebbe ancora essere la più forte economia del mondo, se solo investisse, non per salvare le banche e alimentare le loro speculazioni, ma per dare lavoro a tutti e riconvertire, nei temi necessari per evitare un disastro irreversibile e di dimensioni planetarie, tutto il suo apparato economico e produttivo, e le sue politiche, in direzione della sostenibilità ambientale. Il lavoro, se ben orientato, è ricchezza. D’altronde l’alternativa a una svolta del genere non è la perpetuazione di un già ora insopportabile status quo, ma uno sterminio ai confini dell’Unione e la vittoria, al suo interno, delle forze autoritarie e scopertamente razziste che crescono indicando nei profughi, ma anche in tutti gli immigrati, nei loro figli e nei loro nipoti, il nemico da combattere. E se non direttamente di quelle forze, certamente delle loro politiche fatte proprie da tutte le altre.

Così il problema creato dai profughi, non previsto e non affrontato dalla governance dell’Unione, perché o non ha né posto né soluzione nel quadro delle sue politiche attuali, può diventare una potente leva per scardinarle a favore del progetto di un grande piano per creare lavoro per tutti e per realizzare la conversione ecologica dell’economia: due obiettivi che in una prospettiva di invarianza del quadro attuale non hanno alcuna possibilità di essere realizzati. E’ a noi italiani, e ai greci, che tocca dare inizio a questo movimento. Perché siamo i più esposti: le vittime designate del disinteresse europeo.

postilla

Il testo integrale, che qui pubblichiamo alle ore 19,00 del 18 agosto 2015, è consistentemente più ampio di quello pubblicato sul manifesto, e che abbiamo ripreso stamattina: 8900 battute invece di 3600. La riduzione del testo nell'edizione del manifesto è dovuta evidentemente alle ovvie ragioni di spazio che un quotidiano cartaceo ha e che eddyburg non ha. Lo pubblichiamo integrale anche perché ci sembra di grande interesse per altri temi che ci stanno particolarmente a cuore, cui l'articolo direttamente o indirettamente rinvia, quali il New Deal del XXI secolo, e la nuova concezione del lavoro che è necessario introdurre nella nostra società.

«Parla Marco Revelli, intellettuale de L’Altra Europa con Tsipras: l’Europa o cambia o muore. E da novembre una nuova “casa” della sinistra in Italia». un'intervista di Luigi Pandolfi.

Linkiesta, giornale online, 15 agosto 2015
Intervista a Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”, promotore, insieme ad altri intellettuali, alle scorse elezioni europee della lista L’Altra Europa con Tsipras, di cui oggi è tra gli esponenti di maggiore spicco, parliamo di ciò che si muove alla sinistra del PD e delle prospettive di una nuova sinistra in Italia.

Professor Revelli, in molti Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale. A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?«È vero. Mentre in altri Paesi mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di "sinistre nuove" a vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo, dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi, appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma preponderante il quadro politico: non solo il populismo nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e "guardiano" di Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo "di governo" di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di innovazione - nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e nelle idee - e di forza».

Viste le esperienze del passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare radicalità e ambizione di governo?
«Sufficiente sicuramente no. Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare. L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento sociale - le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure riuscire a combattere - ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia oggi, come ho detto, una condizione necessaria - tanto necessaria da richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili - ma non sufficiente per fare ciò che la crisi ci richiede di fare.
«Necessaria perché la frammentazione rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma non sufficiente perché senza un segnale chiaro di "nuovo inizio", senza un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente facendola sentire "la propria gente", con cui si condivide sofferenza e destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che chiamiamo il "processo costituente" fallirebbe in partenza. Non farebbe che riproporre l’immagine di una "sinistra senza popolo" circondata da "populismi senza sinistra"».

Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
«Non sottovaluto il ruolo della leadership. Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si chiamava "la formazione del gruppo dirigente". Ma anche di quella individuale: l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà difficile trovare le figure che lo rappresentan»o.

L’esito della trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione per la sinistra?
«La notte tra il 13 e il 14 luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea. Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea - questa Unione Europea - è purtroppo incompatibile con la democrazia e con l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus" germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza economici la chiave del’ordine politico. Più che di una "questione greca" la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una enorme "questione europea" e, dentro a questa, di una gigantesca "questione tedesca"».

Perché vede una “questione europea”?
«Perché l’Europa così come si è rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive.
«Vorrei dire di più: senza una dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza, militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo, con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata, colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati, capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo».

In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Mi ripeto. L’Europa rivelatasi nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi (contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa – l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o muore».

«Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa. Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario? Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si potrebbe giocare una bella partita».

Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
«Qualcosa è successo, nelle ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un embrione di road map.
«Già all’inizio di settembre sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa: che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200 incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente sia un mero assemblaggio “dall’alto”.
«Gruppi di lavoro sono già previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”… Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia».

Risposta a Sergio Staino. «Dobbiamo occuparci soprattutto della parte principale del problema: quella che si chiama Matteo Renzi. Perché questa Sinistra Dem ci stia "scassando i coglioni", come scrivi tu: ma Renzi e il suo governo ci stanno scassando il Paese». La Repubblica, blog "Articolo 9",15 agosto 2015

Carissimo Sergio,

anche io sono stato profondamente colpito dalla tua lettera a Gianni Cuperlo. Ci ho letto tutto il tuo amore per la Sinistra, e ho riconosciuto la tua profonda onestà: cioè la forza – più unica che rara, in questo Paese piagato dal conformismo più opportunista – di non distinguere tra discorso privato e discorso pubblico, tra lettere riservate e pagine dei giornali: di parlare, insomma, senza lingua biforcuta. E ho apprezzato fino in fondo una parte della tua durissima critica alla Sinistra del Partito Democratico: quella in cui hai messo in evidenza la sua radicale incapacità di costruire una proposta alternativa credibile, sia attraverso una lotta parlamentare tenace e produttiva (da ultimo proprio nel caso clamoroso del cda della Rai) , sia – soprattutto – attraverso la produzione e la condivisione di prospettive, programmi, politiche davvero di Sinistra e davvero attuabili (e, anche qua sono d'accordo con te: è stata assurda la rinuncia di Cuperlo a dirigere l'Unità, anche perché quella di De Angelis è davvero allucinante, nonostante tutti i tuoi generosi sforzi). Hai ragione, non c'è dubbio: una parte del nostro problema è che la minoranza del Pd è una compagnia in cui tutti recitano solo il ruolo di Amleto – e lo fanno anche in modo intollerabilmente mediocre.

Ma, Sergio caro, io credo che dobbiamo occuparci soprattutto della parte principale del problema: quella che si chiama Matteo Renzi. Perché è possibile – anzi è sicuro – che questa Sinistra Dem ci stia «scassando i coglioni», come scrivi tu: ma Renzi e il suo governo ci stanno scassando il Paese. E questo – permettimi – è un po' più importante. Tu scrivi che «un sano atteggiamento riformista deve quindi, oggi, partire da questa constatazione: il lavoro fatto fino a ieri dai nostri dirigenti ha portato Renzi alla segreteria del partito e al governo e quindi, fino a prova contraria, non esistendo altre forze alternative di sinistra, Renzi è quanto di più progressista si possa avere in Italia in questo momento storico». Ebbene, non potrei essere meno d'accordo con te.

Matteo Renzi non è un frutto dell'albero del riformismo, tantomeno di quello della Sinistra. Non lo è per storia personale, non lo è culturalmente, non lo è politicamente. Questo frutto non ci sarebbe mai stato senza l'innesto (irresponsabile, per i modi in cui è stato fatto) tra eredità comunista ed eredità democristiana. Te lo dico da cattolico: Renzi appartiene a quella parte del retaggio democristiano che era lontanissimo – e anzi radicalmente altro, e naturaliter alternativo – da una qualunque Sinistra, seppur intesa nella più larga e diluita delle accezioni. Quando Renzi ha detto che per lui «la bandiera rossa è il simbolo della Ferrari, non un riferimento storico» ha detto la verità.

E, soprattutto, Renzi non sarebbe mai arrivato alla segreteria del Pd se non si fosse ad un certo punto deciso (caso unico al mondo) di far scegliere il capo di un partito da coloro che non sono iscritti a quel Partito. Questa opa ostile, questa scalata dall'esterno sono state rese possibili dall'aver affidato «all'elettore indistinto, cioè all'avversario o al curioso che si avvicina al gazebo, il compito di eleggere il segretario di un partito: il che pare un gesto di follia che concede al denaro e ai media le chiavi del partito stesso».

Sono, queste ultime, parole del filosofo della politica Michele Prospero: e ti consiglio di leggere il suo ultimo libro, da cui sono tratte (Il nuovismo realizzato. L'antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, edizioni Bordeaux, 2015). Eccone un altro passo: «le primarie aperte sono state l'istituzionalizzazione di un non partito, in cui i padroni dei media orientano le aspettative verso presunti annunci profetici di eroi della provincia promossi quali titolari della sacra leadership ... In un partito normale la sovranità spetta agli iscritti, agli aderenti e non all'elettore generico senza alcuna traccia di appartenenza». È stata questa, caro Sergio, la «magia» attraverso cui Renzi si è impadronito del Pd. E Renzi ha scelto il Pd come obiettivo della sua ambiziosissima corsa personale, nello stesso modo in cui si sceglie un dessert su un menu: perché era il più contendibile. Ma lui (cresciuto sulle ginocchia di Verdini, e intimamente post-democratico) potrebbe guidare indifferentemente la Destra o i Cinque Stelle: proprio come un moderno capitano di ventura, e senza dover cambiare nemmeno il 5 per cento di ciò che dice.

Ti confesso che – proprio da cattolico – mi lascia comunque perplesso la tua visione un po' clericale per cui «extra Pd non est salus», e per cui si deve comunque obbedienza al segretario-papa: quando il papa è dichiaratamente ateo, ed è stato eletto da fedeli di altre religioni concorrenti, che senso hanno la mistica della fedeltà, e quella dell'ortodossia?

Ma Renzi non è solo il papa ateo del Pd, è anche il capo del Governo. E come si può non vedere che l'azione di questo governo è da un lato drammaticamente inadeguata, a tratti perfino imbarazzante, e dall'altra porta avanti un programma diametralmente opposto a quello di una qualunque Sinistra? Le riforme istituzionali vanno in direzione di una svolta autoritaria (ha ragione Eugenio Scalfari, ha torto Giorgio Napolitano). La legge elettorale è tanto pericolosa e irresponsabile da essersi fermata quando i sondaggi hanno cominciato a far capire che avrebbe potuto giovare non al Pd, ma a Salvini o a Grillo. La riforma del lavoro diminuisce drasticamente i diritti: in cambio di nulla. Sullo Sblocca Italia, caro Sergio, abbiamo scritto insieme un libro per dire che «è una minaccia per il futuro e per la democrazia». La Legge Madia rischia di far sparire le soprintendenze, sacrificando il territorio ad altre colate di affari e cemento. La buonascuola è una delle riforme più odiose che siano state perpetrate: la mazzata finale alla scuola pubblica. La politica fiscale è l'ennesimo bomba-libera-tutti. Sulla tragedia dell'immigrazione il governo è 'non pervenuto': come dice il segretario della Cei nominato da papa Francesco. Insomma, nemmeno sotto Berlusconi il progetto della Costituzione è stato tanto calpestato e disprezzato: perché allora non c'era un progetto politico, si perseguiva 'solo' un mostruoso interesse personale.

Non sono un complottista, e non so dirti se Renzi sia «il rappresentante di una feroce destra neoliberista totalmente asservita al capitale finanziario». So, però, che nel giugno del 2013 un documento della Banca d'affari americana JP Morgan affermava che «i sistemi politici della periferia meridionale (dell’Europa) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche». Ecco, l'azione del governo Renzi non è l'avvio, ma certo rappresenta il culmine, di un'azione politica volta a eliminare radicalmente tutti questi 'ostacoli': peso del parlamento, garanzie costituzionali, diritto di protestare. Se il programma della Sinistra si identifica – come credo profondamente ­– con quello dell'articolo 3 della Costituzione italiana (e cioè con la costruzione dell'eguaglianza sostanziale, per il pieno sviluppo della persona umana), allora bisogna riconoscere che Renzi non rappresenta uno scarto nella rotta, ma un dirottatore dell'aereo.

È per questo che credo sia radicalmente sbagliato affermare che «Renzi è quanto di più progressista si possa avere in Italia in questo momento storico». Dire una cosa del genere mi pare equivalga a ripetere il mantra del TINA (There Is No Alternative): il motto dell'età di Reagan e della Thatcher, e poi di Blair, modello esplicito di Renzi. E invece chi (come me) studia e insegna, e chi (come te) fa satira e disegna dovrebbe dire che c'è sempre un'alternativa: anzi, questa consapevolezza è l'essenza stessa del pensiero critico. E, vedi, a leggerti mi è venuto in mente un passo struggente dei Diari di Piero Calamandrei. Siamo nel 1939, e Calamandrei non si dà pace che i «giovani» (suo figlio Franco e i suoi amici) pensino che «la storia è composta di fatti e non idee, e se Mussolini è riuscito a diventar dittatore, vuol dire che Mussolini è una realtà e che le idee impotenti degli oppositori sono un'irrealtà: per ora, finché c'è questa realtà, il migliore regime è questo, perché si regge. Rinunciano dunque a giudicarlo, a darne una valutazione morale: se noi non facciamo nulla per rovesciarlo, vuol dire che storicamente esso corrisponde alle necessitò del presente che ce lo fa accettare».
Ora, caro Sergio, non te lo cito per dirti che Renzi assomiglia a Mussolini: ma per dirti invece che gli italiani sono sempre stati pronti a giudicare necessario, inevitabile, senza alternative il potere del momento. Ma il fatto che un regime si regga non vuole affatto dire che sia il migliore possibile: e chi ancora pensa ha il dovere di gridarlo sui tetti.

E dunque, per non farla troppo lunga, sono d'accordo con te sul fatto che l'immobilismo grottesco della Sinistra Pd sia penoso e pericoloso. Quella sinistra dovrebbe lottare con ogni mezzo moralmente lecito per espellere il dirottatore: o, se questo fosse impossibile, dovrebbe rassegnarsi ad andarsene. L'unica cosa che non può fare è stare immobile come il Romano Prodi di Corrado Guzzanti. Per questo ammiro chi, come Pippo Civati, ha anteposto la propria coerenza alla propria convenienza, e sta provando (per esempio attraverso una serie di referendum importanti) a ricostruire la Sinistra dal basso, contendendo consenso ai Cinque Stelle, e cercando di fare qualcosa per riportare alla vita politica la metà degli Italiani che non ne vuole più sapere (già: perché il consenso 'plebiscitario' di Renzi alle Europee, cioè alle uniche vere elezioni nazionali che abbia vinto, era del 41% del 50% che aveva votato: non dimentichiamocelo).

Può bastare il lavoro di Civati? Certo che no: ma è un inizio. E – come diceva Gianni Rodari – «chi non parte, in verità / in nessun luogo arriverà». C'è un bisogno disperato di partire, se vogliamo che, a sinistra di questo povero Pd dirottato, nasca una vera Sinistra di popolo che non sia «la solita infima minoranza che gira le assemblee». Io credo che anche Bobo, sempre così lontano da ogni ortodossia e da ogni potere, potrebbe dare una bella mano, se volesse.
Un abbraccio affettuoso,
Tomaso

E' sempre più chiaro: non si supera il ferreo neoliberismo europeo di Merkel e dei suoi alleati o succubi se ci si affida a un solo paese. L'impegno non deve essere volto a criticare Tsipras perchè non ha voluto salvare i greci dalla catastrofe ,ma a far sì che si sveglino anche gli sfruttati degli altri paesi.

La Repubblica, 16 agosto 2015

«Il piano approvato con tanta fanfara è una vergogna per l’Europa e per l’intera comunità internazionale ». L’irritazione di James Galbraith, economista dell’università del Texas, supera ogni immaginazione. «Leggete il documento approvato. E’ una menzogna fin dalla prima riga: “La Grecia – c’è scritto – ha chiesto aiuto ai suoi partner europei per risolvere i suoi problemi“. Niente di più falso. La Grecia è stata ricattata, spinta alla disperazione e poi costretta ad approvare un piano del genere, che va contro il volere del suo popolo espresso col referendum».

Professore, non le sembrano un po’ forti, per usare un eufemismo, questi giudizi?
«Macché. Lo scopo, quasi dichiarato, della Germania e del potere costituito in Europa, era dimostrare che non c’è alternativa alla linea politico- economica prevalente, e che nessun Paese si può permettere di deviare perché viene schiacciato. Era sbarazzarsi di Syriza, e forse ci sono riusciti. Ma, la prego, continui a scorrere con me il documento...».

Andiamo avanti, allora.
«Stiamo sempre sulle prime righe. C’è scritto che l’accordo servirà per ritrovare la crescita, per creare posti di lavoro, per ridurre le disuguaglianze e scongiurare i pericolo di instabilità finanziaria. Sono sconcertato. I risultati saranno esattamente l’opposto. Rilegga punto per punto e s’immagini il risultato opposto. La crescita sarà abbattuta, il lavoro diminuirà, le diseguaglianze si accentueranno, eccetera ».

Però come negare che l’instabilità della Grecia costituisca un problema?
«Ma certo. Però il modo per risolverlo era tutt’altro. Lo sanno tutti: andava finanziato un grande piano di investimenti in Grecia senza inseguire una solidità fiscale che comunque era perduta, solo allora si poteva pensare alla crescita. Ora tutto diventa più difficile. Ma l’ha letto il paragrafo successivo?

Ancora?
«Legga con me. Il successo del piano richiederà “ ownership” delle misure da parte del governo greco. Vuol dire che Atene sarà padrona delle sue azioni e le deciderà liberamente. “Il governo perciò è pronto a prendere tutte le misure che riterrà opportune a seconda delle circostanze”. Quale menzogna. Per colmo d’ironia poche righe più sotto c’è scritto: “Il governo si impegna a consultarsi e concordare con l’Ue, l’Fmi e la Bce tutte le azioni rilevanti”. Eccola qui, la verità: a comandare sarà la Troika».

Perché Tsipras ha accettato?
«Perché non aveva scelta. Voleva tenere la Grecia nell’euro ma era ricattato dalla Bce che minacciava di confiscare tutti i risparmi bancari e lasciare il Paese sul lastrico».

(e.occ.)
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