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«Alla Conferenza nazionale del partito tra governisti e critici. Tsipras dà il via alla campagna elettorale Tsakalotos resta, critiche dal "gruppo dei 53": "Linee rosse da non valicare"». Il manifesto

Syriza non ha abban­do­nato i suoi ideali e i suoi prin­cipi di sini­stra» ha riba­dito Ale­xis Tsi­pras, rivol­gen­dosi ai mem­bri del par­tito che hanno par­te­ci­pato alla prima gior­nata della Con­fe­renza nazio­nale orga­niz­zata ad Atene per deci­dere la linea e le prio­rità della sini­stra radi­cale elle­nica. Il lea­der greco ha chia­ri­to­che non intende cedere ad altri il ruolo ed il pri­vi­le­gio di poter rap­pre­sen­tare «la vera sini­stra». «Siamo noi, il governo di Syriza, che abbiamo aperto le porte al refe­ren­dum, assu­men­doci rischi e respon­sa­bi­lità. Il no, la sua vit­to­ria, appar­tiene soprat­tutto a noi», ha sot­to­li­neato con forza. Il mes­sag­gio è chiaro: quello su cui insi­sterà la Coa­li­zione della sini­stra radi­cale elle­nica, in que­sta cam­pa­gna elet­to­rale, è cer­care di porre cia­scuno davanti alla realtà, con una alter­na­tiva e una domanda molto chiara: «Chi volete che gesti­sca la trat­ta­tiva sulla ridu­zione del debito? Di chi vi fidate?». Non a caso, Tsi­pras ricorda che i socia­li­sti e il cen­tro­de­stra hanno sem­pre ripe­tuto che il debito greco era gesti­bile.

Quanto alla sini­stra e alla deci­sione di 25 depu­tati di Syriza di uscire dal par­tito e dare vita a Unità Popo­lare, Tsi­pras ha chia­rito che non intende aprire «una guerra civile a sini­stra», anche se «il suo governo è caduto a causa di colpi inferti dall’interno». L’avversario, insomma, rimane la destra, e tutti coloro che hanno appog­giato un sistema poli­tico cor­rotto e clien­te­lare. Men­tre la lotta con­tro l’austerità non è stata asso­lu­ta­mente archi­viata.

Secondo quanto fil­tra dal quar­tier gene­rale di Syriza, nelle pros­sime tre set­ti­mane ci si con­cen­trerà prin­ci­pal­mente su tre punti: riforma della pub­blica ammi­ni­stra­zione per ren­derla più effi­ciente, ma senza licen­zia­menti, misure alter­na­tive ai tagli che col­pi­reb­bero le classi sociali più deboli e pro­po­ste det­ta­gliate sulla ridu­zione o alleg­ge­ri­mento del debito. Tsi­pras, ovvia­mente, punta anche sul cari­sma della sua lea­der­ship, nella con­vin­zione che il mar­gine di van­tag­gio sui con­ser­va­tori possa aumen­tare in modo sostan­ziale, bat­ten­dosi con forza chi vor­rebbe far pas­sare alla sto­ria il governo della sini­stra in Gre­cia come una breve paren­tesi.

Nella gior­nata di oggi sono attesi gli inter­venti di tutto il gruppo diri­gente del par­tito, in modo da per­met­tere a Syriza di tro­vare spunti e idee per aprirsi nuo­va­mente alla società e «con­ti­nuare il cam­mino appena intra­preso», per dirla con le parole del lea­der greco.

Alla Con­fe­renza nazio­nale è arri­vata una let­tera di soste­gno a Syriza da parte dei Verdi (già al governo) e pure il mini­stro delle Finanze Euclid Tsa­ka­lo­tos, dato in bilico, ha sciolto la riserva: «Dob­biamo com­bat­tere col­let­ti­va­mente la bat­ta­glia per supe­rare l’isolamento», ha detto, rice­vendo molti applausi dalla pla­tea del mini-congresso. In un inter­vento a una con­fe­renza orga­niz­zata dall’Istituto Levy ad Atene, il vice­pre­mier Yanis Dra­ga­sa­kis (l’economista che ha sosti­tuito Yanis Varou­fa­kis nei nego­ziati con i cre­di­tori prima che que­sti si dimet­tesse), ha detto che «il Memo­ran­dum dovrebbe essere eli­mi­nato, non solo per le sue con­se­guenze sociali ma per­ché viola i prin­cipi demo­cra­tici» e che «Syriza è un punto di rife­ri­mento in Europa», per que­sto non sarà sola nella sua bat­ta­glia, e che la solu­zione non è in un «ripe­ga­mento nazio­na­li­stico», come vor­reb­bero i fuo­riu­sciti di Unità popo­lare. Poi, in un’intervista al Quo­ti­diano dei redat­tori, ha spie­gato che «il pro­gramma non sarà solo anti-Memorandum, ma mirerà a com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione, alla rico­stru­zione isti­tu­zio­nale dello Stato e a pro­muo­vere un diverso modello di pro­du­zione».

Le cri­ti­che più forti al gruppo diri­gente del par­tito sono arri­vate invece dal cosid­detto «gruppo dei 53», la mino­ranza di sini­stra che soste­neva Tsi­pras ma con­tra­ria alla firma del Memo­ran­dum. Il por­ta­voce Panos Lam­brou ha comin­ciato il suo inter­vento alla Con­fe­renza nazio­nale dicendo «non siamo qui per applau­dire», ha segna­lato il rischio di una «muta­zione» della Syriza di governo, ha cri­ti­cato il pre­ce­dente governo per alcune cose non fatte, come la «man­cata demo­cra­tiz­za­zione delle forze di poli­zia», e ha segnato alcune «linee rosse» che la com­po­nente interna con­si­dera inva­li­ca­bili: «Nes­suna coo­pe­ra­zione con Nea Demo­cra­tia, Pasok e Potami, non accet­te­remo l’applicazione di quelle parti del Memo­ran­dum che con­si­de­riamo offen­sive, diremo no a un pro­gramma in cui non è pre­vi­sto un piano di disim­pe­gno dall’accordo».

Assenti, natu­ral­mente, i dis­si­denti con­fluiti in Unità popo­lare, che ieri fatto appello a tutte le orga­niz­za­zioni della sini­stra radi­cale. Parola d’ordine: «Rom­pere con le poli­ti­che neo­li­be­rali dell’Ue» e se neces­sa­rio arri­vare a un refe­ren­dum per chie­dere alla popo­la­zione se vuole rima­nere nell’euro o tor­nare alla dracma.

L'indignazione non ha mai fine. Soprattutto per chi sa che i beneficiari della miseria da cui fuggono quelli che oggi respingiamo siamo stati noi stessi, per qualche secolo.

Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2015

La parola “Olocausto” è quella giusta per raccontare ciò che sta succedendo intono a noi in tempo reale: gente morta annegata, gente morta asfissiata, gente condannata a strisciare sotto barriere di filo spinato, gente ammanettata per essere riuscita a passare, navi piene di morti, camion pieni di morti, spiagge piene di morti, bambini perduti, soli per sempre (non ci sono più i genitori o sono finiti altrove). Oppure i loro corpi galleggiano a faccia in giù, in acqua e benzina nel sottofondo di un barcone. La miglior polizia francese e inglese garantisce il blocco a Calais, a Ventimiglia o sulla bianche scogliere di Dover. La migliore forza militare d’Ungheria usa gas e mezzi blindati casomai i siriani che tentano di salvarsi dal massacro riuscissero ad avvicinarsi.

La parola “Olocausto” l’ha detta Marco Pannella. Sapeva benissimo che era ovvia, ma i
leader europei, impegnati e mobilitati a esigere certi debiti dalla Grecia, avevano altro a cui pensare. Se la Grecia non paga i debiti, la sua cacciata immediata dall'Europa (Grexit) è invitabile . S e l’U ngheria alza una barriera di strati di filo spinato, alta quattro metri e lunga centinaia di chilometri, per impedire ogni passaggio umano dalla Serbia (dunque dalla Siria) il fatto è ordinaria politica interna. E benché sia il confine dell’Europa (pensate, l’Europa di Spinelli, Colorni, Rossi), all’Europa non importa nulla di essere complice di strage. Persino l’America, in un modo non proprio esemplare, ci manda un appello alla lotta contro i perfidi trasportatori di morte (i famosi trafficanti) e non una parola sui nostri confini di morte e sul blocco totale e assoluto di qualunque corridoio umanitario.

Sì, la parola Olocausto è la parola giusta. Talmente giusta che Angela Merkel, che fino ad ora si era dedicata solo al debito greco, si è svegliata di soprassalto e ha ordinato l’accoglienza, la più larga possibile, per i siriani. Ma finora neppure lei ha avuto qualcosa da dire sull’immorale e vergognoso blocco ungherese, che ha trasformato in un lager i confini dell’Unione Europea. Neanche il presidente Junker ha avuto da obiettare, E la ice presidente Mogherini, che è l'Alto rappresentante per la politica estera europea dell’Ue, non si è mai presentata alla frontiera di morte ungherese, per aprire la porta sbarrata dell’Europa.

Sapete perché un decente intervento di chi rappresenta l'Europa non c'è stato ? Perché gli scafisti e i trafficanti di esseri umani sono tra noi. Sono i Salvini, i Le Pen, gli Orbán, i ministri degli interni dei migliori Paesi europei, che scatenano le loro polizie per stanare gli esseri umani che potrebbero salvarsi, che sono già salvi, per ricacciarli o imprigionarli per il reato di avere cercato di garantire la vita a se stessi e ai propri bambini. Trafficanti e scafisti esistono, come esiste una costosissima flotta militare che occupa il Mediterraneo, e avrebbe già sparato agli scafisti, se non fosse tenuta a bada da navi come la “Phoenix” della famiglia Catambrone, che ha salvato, da sola, migliaia di naufraghi, o la nave dei Medici senza frontiere. Infatti è in vigore il blocco assoluto voluto con forza dai “piazzisti di morte” di cui ha parlato il vescovo Galantino.

Ma qui occorre tornare alle ossessioni di Pannella. Perché tanta criminalità e un così immensoguadagno intorno alla droga? Perchè il proibizionismo ha creato il paradiso della malavita organizzata. Ecco ripetuto il modello, a cura dei nuovi piazzisti: bloccare, proibire, chiudere. Se non esiste alcun modo di accostarsi legalmente all’Europa (salvo il visto in consolati già devastati e abbandonati da anni), perché non dovrebbe nascere un reticolato illegale, pericoloso e privo di scrupoli, per quel passaggio verso la salvezza che non può aspettare la prossima stagione e un cambiamento del torvo umore europeo?

E poiché i “buoni”, in Europa, non hanno il coraggio che ha avuto Monsignor Galantino (redarguito per settimane) e continuano a trattare con i piazzisti di morte come fossero politici e come se la condanna a morte di milioni di profughi fosse una delle opzioni possibili, ecco che l’Ue, e ciascuno dei suoi governi, è forzata a non avere alcuna politica, dedicandosi a danzare intorno al palo degli scafisti cattivi e dei trafficanti spietati, senza badare al fatto che quella gente non è che una agenzia criminale creata da noi. E anzi siamo noi stessi, con la nostra assenza, ignavia e tolleranza del male.

L’intera organizzazione del traffico umano sarebbe sciolta, prima da un corridoio umanitario nei Balcani e da un traghetto legale e protetto da tutta quella flotta armata, verso l’Europa. È meglio che vengano tra noi (comunque lo fanno) coloro che abbiamo condannato a morte e che nella traversata hanno perso figli o genitori, o coloro che abbiamo portato in salvo con i loro bambini? L’Onu si è fatta viva. Ci sarà un summit dedicato all’immenso esodo il 30 settembre. Non ci resta che la finta meraviglia di fronte ad ogni nuovo carico di morti.

«I verbali dell’eritreo che collabora con i pm su Ermias Ghermay: lui è in Libia, i soldi in Europa “La moglie riscuote le quote degli imbarchi con trasferimenti di denaro estero su estero”».

LaRepubblica, 30 luglio 2015

È una verità scomoda, una verità che adesso fa paura quella che va emergendo in una stanza blindata, dentro un carcere da qualche parte in Sicilia. Un uomo parla e rivela che il cuore pulsante dell’ultimo esodo senza precedenti attraverso il mare non è nelle spiagge della Libia, e neanche dentro i barconi dove i disperati vengono caricati a frotte. Il cuore pulsante dell’organizzazione più agguerrita dei trafficanti di uomini è in un tesoro. Che non sta in Africa, ma in Germania. Lì - dice l’uomo che parla nella stanza più protetta del carcere- è nascosto il tesoro costruito sulla pelle dei migranti, quelli che pagano 1.500 anche 2.000 dollari per salire su un barcone.

Questo sta ripetendo ai pubblici ministeri di Palermo e ai poliziotti dello Sco un uomo che fino ad aprile era pure lui un trafficante di esseri umani, uno dei più esperti. Dopo essere stato arrestato, è diventato il primo pentito della tratta. Nuredin Wehabrebi Atta, nato ad Asmara, Eritrea, il 12 dicembre 1984. E questa è la sua verità: i soldi del signore dei trafficanti, Ermias Ghermay, sono nascosti nel cuore dell’Europa. L’Europa che per tanto tempo ha fatto finta di non vedere l’esodo. L’Europa che ancora discute sul da farsi.

Adesso, le parole di un uomo che racconta sottovoce di aver visto troppo orrore, troppo sangue, sono quasi un atto d’accusa contro l’Europa che non si è accorta, che non ha fermato i trafficanti. Dice Atta: «Dovete cercarli in Germania tutti i soldi che Ermias guadagna». Aggiunge: «Lui resta in Libia per gestire gli affari, che a Tripoli vengono spartiti fra quattro gruppi. Lì non lo prenderete, perché gode di protezioni nella polizia. Potete però cercare i suoi soldi, e dovete seguire la moglie, si chiama Mana Ibrahim ». Il pentito la segnala «nella zona di Francoforte, dopo essere stata a Stoccolma». E spiega il suo ruolo nell’organizzazione: «Raccoglie il denaro per conto del marito, attraverso il me- todo hawala ». Ovvero, quel sistema di trasferimento di denaro fondato sulle legge islamica tradizionale che prevede una rete di mediatori a cui consegnare il denaro. «Perché soltanto il 5 per cento dei 1.500 dollari richiesto per il viaggio viene pagato in contanti dai migranti - chiarisce Atta - il resto arriva ad Ermias attraverso hawala , dentro una rete di fiducia che si sviluppa estero su estero». Una rete attorno alla Germania, un’indicazione precisa che orienta le indagini e corregge le ipotesi fatte in questi mesi sui forzieri del superlatitante Ermias, ipotesi che parlavano di Svizzera e Israele.

Ma com’è costituita la rete finanziaria dei trafficanti? Per il pool coordinato dal procuratore Franco Lo Voi e dall’aggiunto Maurizio Scalia è diventata la chiave dell’indagine, la chiave per tentare di fermare o indebolire, almeno questo, i trafficanti di uomini. «Bisogna seguire i soldi, era il metodo del giudice Falcone», ha ribadito il pm Geri Ferrara nella sede dell’Aja di Eurojust, alla più grande riunione di coordinamento fra magistrati europei organizzata negli ultimi anni. Cinquanta partecipanti provenienti da otto paesi. E dopo la plenaria, a luglio, si sono susseguiti incontri bilaterali fra i pm di Palermo e i colleghi di Norvegia, Svezia, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Francia. Le rivelazioni di Atta e le indagini del servizio centrale operativo della polizia diretto da Renato Cortese sono già diventate spunto per tante altre inchieste in giro per l’Europa. Per stringere il cerchio attorno ai trafficanti.

Non è affatto facile. Chi ha ascoltato Atta dice però che i suoi verbali sono diventati molto di più di un documento giudiziario. Sono come i verbali dei primi pentiti di mafia, molto di più di un’elencazione di nomi e fatti. Sono la chiave per comprendere un fenomeno sconosciuto.

Ora, il cittadino straniero più protetto d’Italia fornisce agli inquirenti il nome di un amico di Ermias che collabora con la moglie. E spiega: «I fiduciari, quelli che movimentano il denaro, sono generalmente dei commercianti ». Un indizio per cercare di intercettare il flusso dei soldi in Germania. E un altro indizio ancora. «So pure che Ermias ha una società in Etiopia, che si occupa di vendere auto». Il tesoro dei trafficanti è ben protetto.

Anche Atta è stato in Germania. «Per un certo periodo i migranti mi contattavano a Roma, il numero gli veniva dato in Libia, e io li portavo in Nord Europa ». Prezzo del servizio, da 400 a 800 euro. «Ero io a decidere le modalità più sicure del viaggio. Bus, treno o auto». Atta andava spesso a Monaco, per quei viaggi prendeva il massimo della tariffa, che poi versava all’organizzazione. A lui restava uno stipendio, come fosse un normalissimo dipendente: «Mi davano 4000 euro al mese. E mi bastavano per vivere».

Grazie allo spettacolo massmediatico, men­tre aumenta la tra­ge­dia si dilata la pas­si­vità e l’abitudine alla noti­zia. Cosí dimentichiamo che è nostra la respon­sa­bi­lità di que­sto esodo. Fug­gono dalle nostre guerre e dalla nostra ridu­zione in mise­ria di paesi in realtà ric­chis­simi di mate­rie prime e terra.

Il manifesto, 30 agosto 2015
Quanti morti oggi? Intanto lo spet­ta­tore mass­me­dia­tico, di fronte alle stragi di migranti nel Medi­ter­ra­neo e — sco­prono adesso — nel cuore d’Europa dalla rotta bal­ca­nica, gira pagina o cam­bia canale per­ché è il solito spet­ta­colo, estre­miz­zato «solo» dal numero delle vit­time che cre­sce ogni giorno di più.

Così, para­dos­sal­mente, men­tre aumenta la tra­ge­dia si dilata la pas­si­vità e l’abitudine alla noti­zia. Del resto sem­pre più acco­mu­nata ad un pro­gramma seriale e rac­con­tata con le moda­lità del rea­lity: ogni canale tv ormai si prende in con­se­gna sotto le tele­ca­mere siglate la sua fami­glia di pro­fu­ghi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la mag­gior parte dei dispe­rati non arri­verà a desti­na­zione e allora le tele­ca­mere saranno spente). Sem­bra addi­rit­tura giornalismo-verità, invece altro non è che la macra­bra rie­di­zione di un rea­lity, di un «asso nella manica» gior­na­li­stico. Certo si può per­fino avere l’illusione, guar­dando o rac­con­tando, che quel fram­mento di noti­zia o di imma­gine, siano il solo soste­gno imma­gi­na­rio che pos­siamo dare, almeno in assenza di un inter­vento reale del potere poli­tico che non fa nulla o peg­gio, alle­stendo respin­gi­menti, restrin­gendo diritti d’asilo, sele­zio­nando, anche per nazio­na­lità, pro­fu­ghi sicuri (dalle guerre) e quelli insi­curi (dalla fame), ester­na­liz­zando l’accoglienza in nuovi uni­versi con­cen­tra­zio­nari, cioè tanti campi di con­ce­tra­mento nel Sud del mondo, pre­pa­rando nuove avven­ture belliche.

Ma non è un rea­lity quello che accade sotto i nostri occhi stan­chi. Qui è stra­volto lo stesso prin­ci­pio di realtà e il gior­na­li­smo fin qui rea­liz­zato — tan­to­meno quello embed­ded — non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epo­cale che si con­suma nella tra­ge­dia di cen­ti­naia e cen­ti­naia di milioni di esseri umani, i nuovi dan­nati della terra, in fuga da guerre e mise­ria. E lo spet­ta­colo a lieto fine non c’è. C’è solo la pas­si­vità dila­gante. Da che deriva? Dal sem­plice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra uma­ni­ta­ria che, tra gli altri cri­mi­nali effetti col­la­te­rali, non solo assume la guerra come merito ma can­cella le respon­sa­bi­lità dei risul­tati disastrosi.

Invece è nostra la respon­sa­bi­lità di que­sto esodo. Fug­gono dalle nostre guerre e dalla nostra ridu­zione in mise­ria di paesi in realtà ric­chis­simi di mate­rie prime e terra.

Non siamo di fronte a cata­cli­smi natu­rali, sui quali peral­tro comin­ciamo ad indi­vi­duare anche respon­sa­bi­lità spe­ci­fi­che. Per­ché le guerre ame­ri­cane ed euro­pee, deva­stando tre paesi cen­trali dell’area nor­da­fri­cana e medio­rien­tale, nell’ordine tem­po­rale, Iraq, Libia e Siria (senza dimen­ti­care la Soma­lia diven­tata sim­bolo dell’attuale bal­ca­niz­za­zione del mondo) ha pro­vo­cato la can­cel­la­zione di almeno tre società fino ad allora inte­grate, con una con­vi­venza etnico-religiosa mil­le­na­ria; oltre ad atti­vare il pro­ta­go­ni­smo jiha­di­sta, adesso nemico giu­rato ma alleato, finan­ziato e adde­strato in un primo tempo dell’Occidente con­tro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equi­li­bri inter­na­zio­nali, alla fine spre­muti e occu­pati mili­tar­mente. Se non si afferma la con­vin­zione che la respon­sa­bi­lità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nes­suno sen­tirà dav­vero il biso­gno di inter­ve­nire a ripa­rare o almeno a rac­co­gliere i cocci.

Vale allora la pena ricor­dare che sono un milione e 300mila le vit­time di alcune delle «nostre» guerre al ter­rore dopo l’11 set­tem­bre 2001 in Afgha­ni­stan, Iraq e Paki­stan, secondo i dati del pre­sti­gioso «Inter­na­tio­nal Phy­si­cian for the Pre­ven­tion of Nuclear War», orga­ni­smo Nobel per la pace negli anni ’80. Un rap­porto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mon­diale non sia già comin­ciata? È una vera ecatombe.

Ora non con­tenti di tutto que­sto pre­pa­riamo con il governo Renzi e per bocca del gri­gio Gen­ti­loni e dell’annunciatrice Ue Moghe­rini, dimen­ti­chi dei risul­tati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia «con l’appoggio Onu» e «con­tro gli sca­fi­sti» con tanto di pre­vi­sione di «effetti col­la­te­rali che pos­sono coin­vol­gere inno­centi». Il tutto per finan­ziare da lon­tano nuovi campi di con­cen­tra­mento, come già con Ghed­dafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A que­sto serve l’impegno ambi­guo della diplo­ma­zia ita­liana per­ché nasca l’improbabile governo uni­ta­rio libico per un paese diviso ormai in quat­tro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimen­ti­cando altresì che l’ultima guerra oltre ai pro­fu­ghi di oggi pro­dusse subito la fuga di due milioni di lavo­ra­tori sub­sa­ha­riani, afri­cani e asia­tici che lì lavo­ra­vano e che ancora vagano nell’area. Ecco dun­que che l’ideologia della «guerra uma­ni­ta­ria» pro­se­gue il suo corso quasi in auto­ma­tico. È così vero che in pieno fer­ra­go­sto il Cor­riere della Sera — la cui sto­ria guer­ra­fon­daia sarebbe da stu­diare a scuola — ha sen­tito il dovere di sco­mo­dare il punto di vista cri­tico di Ser­gio Romano. Anche lui — che resta comun­que «il miglior fab­bro» — alla fine, con mille e ragio­ne­voli riserve, con­viene che «sì la guerra si può fare»: soprat­tutto per­ché in gioco c’è l’approvvigionamento del petro­lio dell’Eni. I conti tor­nano. Ma se la guerra deve essere «uma­ni­ta­ria» che cos’è dun­que la disu­ma­nità che abbiamo pro­dotto e che muore affo­gata o chiusa nei Tir come carne da macello ava­riata men­tre in cam­mino tenta di ridi­se­gnare, abbat­tere, sor­pas­sare le nuove fron­tiere e muri del Vec­chis­simo continente?

Qui forse le ragioni dell’assuefazione gene­rale. Resta insop­por­ta­bile la pas­si­vità di chi si con­si­dera alter­na­tivo e di sini­stra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si tra­sformi in cor­ri­doio uma­ni­ta­rio, pre­pari l’accoglienza, attivi il soste­gno, diventi cam­mi­nante, defi­ni­sca la sua sede orga­niz­za­tiva final­mente euro­pea tra Lam­pe­dusa, i porti del Sud, Ven­ti­mi­glia, Calais, Melilla e la fron­tiera unghe­rese da abbat­tere. il mani­fe­sto ha lan­ciato in piena estate il dibat­tito che con­si­de­riamo neces­sa­rio se non deci­sivo C’è vita a sini­stra? Spe­riamo di non tro­varla solo a chiacchiere.

«Il diritto di asilo è soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo dovrà essere di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale»

La Repubblica, 29 agosto 2015, con postilla

LA questione dell’immigrazione sarà, più della crisi economica, determinante per i destini del progetto di integrazione politica europea. Un nesso nel quale si scontrano beni non mercanteggiabili, come le ragioni della prudenza politica, che è alla base delle frontiere e non può non preoccuparsi della stabilità della popolazione degli stati, e le ragioni di umanità che impongono a tutti il soccorso ma anche la consapevolezza che la giustizia redistributiva globale non è più procrastinabile.

Questa immigrazione è però anche un terreno di semina per la criminalità organizzata internazionale che ha trovato nella disperazione dei migranti una fonte ricca e infinita di guadagno, schiavizzandoli con debiti che una vita di lavoro non basterà ad appianare. Infine, essa diventa il bersaglio facile di una propaganda xenofoba che in alcuni paesi si tinge senza vergogna di nazismo. Queste diverse e contraddittorie implicazioni fanno della più massiccia crisi migratoria dalla Seconda guerra mondiale una questione di emergenza che richiede iniziative non solo umanitarie, ma politiche e giuridiche.

Alla fine della guerra venne fondata l’agenzia dell’Onu per i rifugiati proprio per aiutare i milioni di europei sradicati dal conflitto a ritornare a casa e riacquistare uno status legale e politico che li proteggesse e li tutelasse. Quali sono le iniziative oggi per accogliere i migranti dai Paesi non europei? Questa crisi migratoria, all’opposto di quella del dopoguerra, provoca la chiusura delle frontiere, i respingimenti con interventi militari contro persone che cercano scampo in questo continente dalla morte certa nei loro Paesi.

Certo, tra i migranti ci sono non solo i rifugiati ma anche gli immigrati economici. E nonostante le convenzioni internazionali abbiano cercato di fare rispettare agli Stati questa distinzione, i guardiani delle frontiere la ignorano spesso. Qui sta la responsabilità di quei Paesi europei che alzano i muri di filo spinato per fermare tutti, senza distinzione. Come ha detto il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, in un’intervista a Repubblica , il populismo di Stato stravolge i valori per cui è nata l’Europa e deve essere contrastato.

«Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi», ha detto, e soprattutto «concordiamo misure per il rimpatrio che agevolino il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Europa». Ecco il nodo della politica europea dell’immigrazione: decidere chi merita e chi non merita di restare e imporre ai paesi questa distinzione, per evitare la chiusura indiscriminata.

La discussione in corso fra i governi europei ha in progetto pertanto la ricerca di una soluzione giuridica a questo nodo, per legittimare la costituenda polizia europea di frontiera con un diritto che discenda dall’Europa direttamente, non dai governi nazionali. Una definizione europea del diritto di asilo dunque, e non solo per ragioni umanitarie. Ma anche per meglio fronteggiare l’altra immigrazione, quella “economica” come suggerisce Juncker.

Una politica europea delle frontiere è necessaria perché è ormai chiaro a tutti che questa emergenza migratoria non è governabile dai singoli Paesi. Come quella economica anche questa crisi mette a nudo l’impotenza delle sovranità nazionali e il bisogno di un’Europa politica. Dunque, muovere l’arma del diritto per governare un’emergenza che ha sempre più i caratteri della sicurezza europea.

La dichiarazione di un diritto europeo d’asilo è un fatto di grandissima importanza. Lo è innanzi tutto per le persone che ne godranno.

Ma anche per l’Europa, poiché scrivendo un diritto di asilo essa aggiunge un tassello decisivo alla costruzione di una cittadinanza europea. Infatti, lo stato di rifugiato è definito in relazione non solo all’umanità da proteggere, ma anche al soggetto che dà rifugio - il quale non è un ente morale assistenziale, ma uno Stato politico - sono i cittadini europei che si impegnano a livello sia di Stati membri che di Europa. La decisione di istituire un diritto europeo di asilo è politica a tutti gli effetti dunque, anche se l’autorità che la mette in essere non è a tutti gli effetti un sovrano democratico.

E come decisione politica essa ha due facce, sulle quali si deve riflettere: da un lato, il diritto di asilo dà all’Europa un’arma per potersi imporre al di sopra delle legislazioni dei paesi e quindi superare la discrepanza tra i vari codici nazionali; dall’altro, questo diritto dà alla polizia europea di frontiera lo strumento per distinguere tra i rifugiati e gli immigranti economici (da respingere se non entrano con regolari permessi di lavoro). E ciò prova come il diritto di asilo diventi un importante tassello nella costruzione della cittadinanza europea perché consente di legittimare esclusioni e rimpatri, non solo accettazioni.

In conformità con la natura della cittadinanza, che mentre stabilisce l’inclusione determina altresì le condizioni dell’esclusione. E a tutt’oggi, la povertà e la destituzione non sono ragioni sufficienti a dare rifugio.

Il diritto di asilo è quindi una soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca una vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo per un’Europa coerente ai suoi fondamenti dovrà dunque essere quello di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale.

postilla

Il problema è che assumere le ragioni dell'emergenza rinviando al domani «le ragioni dei "non rifugiti"»significa non affrontare il problema reale: che è quella della invivibilità di vasta regioni del pianeta (dall'intera Africa all'Asia minore), regioni nelle quali per di più rimangono attive le forze e i meccanismi che ne hanno determinato l'immiserimento. Se non si affronterà in questo quadro la stessa questione dell'emergenza diverrà cronica, perciò stesso ingovernabile. Occorre dire che vedere solo l'emergenza, e discriminare i "richiedenti asilo" dagli altri è l'atteggiamento più conforme all'indole degli attuali governanti, nei quali la miopia è divenuta una minorazione così consistente da essere entrata nel loro patrimonio biologico.

Combattere per evitare che il rullo mediatico, macinando morti a pranzo e cena, completi l'assuefazione ai profughi ammazzati; impegnarsi per gestire l'accoglienza, soprattutto sulle frontiere più esposte.

Il manifesto, 29 agosto 2015

Come muore un bam­bino asfis­siato den­tro un Tir? In attesa di cam­biare il mondo e met­tere fine alle guerre post-coloniali dell’Occidente e a quelle che ora com­bat­tono le pre­tro­mo­nar­chie in Medio Oriente, dovremmo ingag­giare una guerra di resi­stenza, che già ci coin­volge tutti: l’assuefazione alle stragi quo­ti­diane dei migranti.

Il rischio di dige­rire sem­pre più rapi­da­mente le noti­zie che ogni giorno la tele­vi­sione porta nei nostri tinelli è for­tis­simo. Il rullo media­tico macina i morti a pranzo e a cena e, lo sap­piamo, l’abitudine è capace di ren­dere sop­por­ta­bili cose spa­ven­tose. Del resto bastava sfo­gliare i gior­nali di ieri per vedere che l’eccitazione della grande stampa era tutta per la “que­stione romana”, men­tre le decine di morti asfis­siati sul Tir che tra­spor­tava uomini, donne e bam­bini dall’Ungheria all’Austria fati­cava a gua­da­gnare i grandi titoli di prima pagine. Per­fino gior­nali pro­gres­si­sti e sem­pre in prima linea con­tro le male­fatte della casta, rele­ga­vano la strage del camion in poche righe. Natu­ral­mente con le ecce­zioni del caso, a con­fer­mare la regola, e fatti salvi i gior­nali della destra che con­tro i migranti spa­rano titoli for­ca­ioli per lucrare qual­che copia lisciando il pelo ai peg­giori sen­ti­menti xeno­fobi e raz­zi­sti di let­tori e elettori.

Ma l’informazione ai tempi della rete può anche essere l’antidoto al pre­va­lere di assue­fa­zione e abi­tu­dine. Come dimo­stra il caso dell’attivista islan­dese, pro­mo­tore di una rac­co­gliere fondi a favore di un uomo, rifu­giato pale­sti­nese, pro­ve­niente dal campo pro­fu­ghi siriano di Yar­muk, a Dama­sco. Gra­zie all’immagine di Abdul che vende penne biro all’incrocio di una strada di Bei­rut con la figlio­letta in brac­cio, il web ha pro­dotto un felice cor­to­cir­cuito e sca­te­nato una gara di solidarietà.

Tut­ta­via non è solo l’informazione a essere chia­mata in causa. Subito dopo viene la poli­tica e in primo luogo quella che si richiama ai prin­cipi di libertà e ugua­glianza della sinistra.

Come è pos­si­bile che lungo i muri che l’Europa costrui­sce sulle fron­tiere di terra non ci siano mani­fe­sta­zioni di pro­te­sta accanto all’esodo di chi fugge e muore? Per­ché davanti a quel filo spi­nato pian­tato dal regime rea­zio­na­rio del pre­mier unghe­rese Orbàn non c’è una caro­vana di quei mili­tanti che dicono di bat­tersi per favo­rire final­mente l’apertura delle fron­tiere della For­tezza– Europa?

Al punto in cui siamo nes­suno più può dire di non sapere per­ché tutto l’orrore e il dolore è in onda, e non siamo più in pochi a vedere quel che accade. Per­sino lea­der euro­pei come Mer­kel devono scen­dere in campo poli­ti­ca­mente e per­so­nal­mente per dire che i vec­chi trat­tati (Dublino) sono da rive­dere.

La sini­stra dovrebbe fare dell’immigrazione la sua bat­ta­glia prin­ci­pale, gio­can­dola all’offensiva, nei sin­goli paesi di appar­te­nenza e nei punti caldi dell’esodo. I con­ve­gni sono utili ma non bastano. Meno talk-show e più mobi­li­ta­zioni per mani­fe­stare con­cre­ta­mente pre­senza e soli­da­rietà. Per esem­pio sulla nostra grande fron­tiera del Mez­zo­giorno, la prima linea per i comuni che cer­cano di acco­gliere come pos­sono i soprav­vis­suti ai viaggi della morte. Il Sud dovrebbe essere anche la fron­tiera della sinistra.

E intanto, in attesa di can­cel­lare leggi cri­mi­no­gene come la Bossi-Fini, a chi fugge per mare e per terra su un gom­mone o nel cas­sone di un Tir, per non morire baste­rebbe salire su una nave o su un treno. Con un sem­plice, rego­lare biglietto.

Intervista di Giovanna Casadio a Romano Prodi. Stoccata sulle tasse: “Se ne discute solo su Twitter e si promette tutto a tutti. E così addio analisi”. La Repubblica, 29 agosto 2015

CAPALBIO. «Renzi parla di vent’anni di stallo tra berlusconismo e anti berlusconismo? Allora ‘l s’è sbaiè ... ». Romano Prodi lo dice in dialetto emiliano. Il Professore evita accuratamente polemiche con il governo («Chi deve governare credo che vada lasciato in pace»), però quando ci vuole, ci vuole. Difende i suoi due governi e quello che hanno fatto. E anche sulla riforma costituzionale, su cui il premier tiene premuto l’acceleratore, avrebbe più di qualcosa da dire. «Mi pare però che non sia il momento delle riflessioni serene - premette - da rivedere e da ripensare c’è tanto. Ma oggi ci si muove per contrapposizioni e così non riusciremo a fare una riforma seria. Occorre vedere cosa fare e cosa no. La prima parte della Costituzione ha validità totale, la seconda non ha funzionato bene. Però non mettiamoci mano in modo sguaiato e scoordinato, perché non si arriverebbe a capo di nulla. Ritengo che per questa modifica ci vorrebbe del tempo». L’ex presidente della Commissione Ue è venuto a Pescia Fiorentina per ritirare il premio internazionale Capalbio-Piazza Magenta insieme con Marco Damilano per il libro “Missione incompiuta”. Glielo consegna Nicola Caracciolo, è accolto da amici di vecchia data, tiene una lectio su “La fragile Europa nel tempo della confusione globale”. Il luogo è così bello, nel verde di Villa Pietromarchi, che il due volte premier (vincitore su Berlusconi), il fondatore dell’Ulivo, il “padre” del Pd che ha mancato per 101 franchi tiratori del suo stesso partito il Quirinale, è disposto a scherzarci su: «I traditori furono 120 e non 101... Ma quello è il passato. Sto vivendo un periodo interessante della mia vita insegnando in diversi paesi. Mi volto avanti, non indietro».
Di interventi sulla politica internazionale, sull’Europa dopo l’avventura greca, sul ruolo della Cina e la questione epocale dell’immigrazione, Prodi ne ha fatti diversi nell’ultimo periodo. Dall’agone della politica italiana vuole restare fuori. «Non vado alle feste dell’Unità da anni, non partecipo più ad attività di partito. Ho rinunciato alla mia iscrizione al Pd e mi sembra giusto avere lasciato».
Tuttavia, se punto sul vivo sull’attività dei suoi governi, i vent’anni alle nostre spalle e quel giudizio errato di Renzi, precisa: «Il debito pubblico si è formato prima degli anni ‘90 e tutti e due i miei governi l’hanno abbattuto. Le disfunzioni quindi sono cominciate prima ».
Un “affondo” lo riserva sulla questione delle tasse. Ormai è una gara a promettere di abbatterle. «Dopo Ronald Reagan e Margaret Thatcher, chi parla di tasse perde le elezioni. E su questo non c’è più nessuna distinzione tra destra, centro e sinistra. Ecco che si promettono meno tasse, meno tasse e si favorisce l’irrazionalità... a furia di promettere tutto a tutti chi promette di più, vince. E comunque sulle tasse un tempo si facevano analisi politiche serie per valutare tra l’altro dove destinare le imposte, se sulla sanità o sul welfare». Ora? «Se c’è chi ti impedisce l’analisi è Twitter ».
Il riferimento non è per niente casuale, dal momento che il dibattito su quante tasse, quali tasse, per quale costo sul bilancio dello Stato, perché proprio Imu e Tasi, si è svolto su Twitter, il mezzo più usato da Renzi per comunicare.

Batte molto sull’immigrazione, Prodi, e sulla complessità della risposta da dare più che urgentemente a una questione epocale e che ci interpella tutti, come Paesi, come istituzioni e come persone. Nei progetti del Professore, oltre all’attività internazionale, c’è comunque «una riflessioni sui rapporti tra Stato e Regioni». Roma, Palazzo Chigi, la mancata elezione alla presidenza della Repubblica («Non avevo nessun desiderio e non ci ho mai creduto»), sono davvero lontani dalla “ferriera” di Pescia Fiorentina con i suoi alberi secolari. Casomai è al respiro lungo della Costituzione che viene da pensare. Tra dieci giorni a Palazzo Madama si entra nel vivo della legge Boschi e al presidente Grasso spetta la decisione se tornare sull’articolo 2 oppure “blindarlo”.
In Germania qualcosa si muove nella direzione giusta. Ma consolidando una credenza profondamente erronea e operando una gravissima discriminazione: la credenza che si tratti di un'emergenza umanitaria e non di un esodo biblico, la discriminazione di salvare solo i siriani, come se le carestie non avessero le stesse cause e gli stessi effetti.

Il manifesto, 28 agosto 2015

I ger­ma­ni­sti ci spe­rano sem­pre. In un qual­che pic­colo segnale di ripresa dell’etica e della cul­tura tede­sca. A mag­gior ragione dopo una lunga sequenza di aspre cri­ti­che con­tro le forme che andava assu­mendo l’egemonia ger­ma­nica sull’Europa: dall’ultimo pam­phlet di Ulrich Beck alla pesan­tis­sima accusa rivolta da Jür­gen Haber­mas al governo di Ber­lino di aver dis­si­pato in una sola notte (quella dell’imposizione del Memo­ran­dum ad Atene) l’intero patri­mo­nio di aper­tura e affi­da­bi­lità euro­pei­sta accu­mu­lato dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Sarebbe di fronte all’ «immane tra­ge­dia» dell’immigrazione che alla Ger­ma­nia si offri­rebbe ora l’occasione del riscatto, l’opportunità di cor­reg­gere l’egemonia finan­zia­ria con una «ege­mo­nia morale tede­sca», come si inti­tola l’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa del 27 agosto.

Del resto quel grande feno­meno sto­rico che nei nostri libri di testo viene desi­gnato con l’espressione alquanto sprez­zante di «inva­sioni bar­ba­ri­che» nelle scuole di lin­gua ger­ma­nica è chia­mato die Völ­ker­wan­de­rung, ossia la migra­zione dei popoli.

Una espres­sione che però dif­fi­cil­mente vedremmo oggi appli­cata al gigan­te­sco spo­sta­mento di popo­la­zioni da nume­rose aree deva­state del pia­neta verso i più ric­chi paesi d’Europa. Sarà per­ché que­sti uomini e que­ste donne non sono gui­dati dai rispet­tivi monar­chi, dai quali, al con­tra­rio, rifug­gono o per­ché l’unica arma di cui dispon­gono è quella del numero, di uno squi­li­brio intol­le­ra­bile e, infine, di una neces­sità storica.

Di qui l’illusione che si tratti di una «emer­genza uma­ni­ta­ria» e non di un pro­cesso incon­te­ni­bile desti­nato a mutare radi­cal­mente la com­po­si­zione e la cul­tura delle società euro­pee. Certo, l’ecatombe quo­ti­diana, via terra e via mare, e le sue orri­pi­lanti cir­co­stanze (i sepolti vivi nelle stive dei bar­coni e nei camion), rive­lano e celano al tempo stesso.

Rive­lano la vio­lenza spro­po­si­tata delle con­di­zioni di «viag­gio» impo­ste ai migranti da traf­fi­canti e guar­die con­fi­na­rie e dun­que l’«emergenza uma­ni­ta­ria», ma celano la natura strut­tu­rale e affatto con­tin­gente dei flussi migratori.

Ma vediamo più da vicino in che cosa con­si­ste l’ «esem­pio morale» di Angela Mer­kel. Sfi­dando i fischi e gli insulti di un gruppo di con­te­sta­tori ultra­na­zio­na­li­sti in quel di Hei­de­nau, cit­ta­dina tea­tro di ripe­tute vio­lenze dell’estrema destra, la can­cel­liera ha con­dan­nato con toni duri raz­zi­smo e xenofobia.

Qua­lun­que altro gover­nante euro­peo non avrebbe potuto fare altri­menti. A mag­gior ragione di fronte a una esca­la­tion di atten­tati e aggres­sioni di matrice raz­zi­sta o neo­na­zi­sta come quella che la Ger­ma­nia ha lasciato cre­scere al suo interno, spesso civet­tando con l’ideologia della «prio­rità nazionale».

Fin qui, dun­que, nulla di straor­di­na­rio. Più rile­vante, invece, la deci­sione di sospen­dere la regola di Dublino che impone ai richie­denti asilo di rima­nere nel primo paese dell’Unione in cui sono arri­vati. Un buon motivo per far tirare il fiato ai paesi di con­fine come il nostro. Ma c’è un però.

La Ger­ma­nia apre le porte ai soli siriani, con­si­de­rati la punta dell’iceberg «uma­ni­ta­rio». Così facendo pro­pone un modello che di morale non ha pro­prio nulla.

Se anche si assu­messe come solo motivo di legit­tima fuga la guerra guer­reg­giata, in che cosa si distin­gue­rebbe chi fugge da Mosul da chi fugge da Aleppo, da Kan­da­har o dallo Yemen?

Se il «para­digma siriano» può alleg­ge­rire una con­tin­genza esso intro­duce tut­ta­via una deli­rante tas­so­no­mia dei migranti, suscet­ti­bile di con­ti­nue par­ti­zioni: pro­fu­ghi di guerra (da sud­di­vi­dere sulla base di un qual­che indice bel­lico?), rifu­giati poli­tici (da ripar­tire secondo un dia­gramma della repres­sione?), rifu­giati cli­ma­tici ( da indi­vi­duare sulle sta­ti­sti­che meteo?), per­se­gui­tati reli­giosi (da defi­nire secondo una misura della libertà di culto?) migranti eco­no­mici (tanto peg­gio per loro).

Infine la distin­zione più assurda di tutte: quella tra paesi sicuri e paesi insi­curi. Un paese, infatti, non è pari­menti sicuro o insi­curo per tutti. Per un omo­ses­suale l’Iran non è, per esem­pio, un paese sicuro, come non lo è l’Arabia sau­dita per una donna desi­de­rosa di gui­dare un’automobile e l’elencazione potrebbe pro­ce­dere all’infinito.

Pos­siamo imma­gi­nare i buro­crati dei cen­tri di iden­ti­fi­ca­zione e regi­stra­zione alle prese con que­sto gine­praio. Così, di fronte a tanta com­pli­ca­zione che manda in pezzi la stessa dimen­sione «uma­ni­ta­ria», il modello tede­sco pro­cede verso una ulte­riore restri­zione del diritto di asilo (del resto più volte ridi­men­sio­nato nel corso degli ultimi anni) alla quale sta ala­cre­mente lavo­rando il mini­stro degli interni Tho­mas de Mazière.

A que­sto si affianca una poli­tica di restri­zione del wel­fare e degli stru­menti assi­sten­ziali (per i migranti in primo luogo, ma non solo) tali da ren­dere il paese sem­pre meno appe­ti­bile per chi inten­desse stabilirvisi.

Quanto a «ege­mo­nia morale» non c’è dav­vero che dire. Rispar­mio e deter­renza in un colpo solo. Ogni brec­cia nei muri visi­bili e invi­si­bili che divi­dono l’Europa è per molti un’occasione di sal­vezza, ma non biso­gna per­dere di vista il fatto che il «para­digma siriano» risponde a una logica di governo e di con­trollo del «diritto di fuga» che, sia pure sotto la pres­sione di eventi estremi ( fomen­tati da poli­ti­che glo­bali senza scru­poli), risponde pur sem­pre alla volontà di garan­tire l’impiego pro­fit­te­vole e com­pe­ti­tivo delle «risorse umane».
Un corretto riepilogo delle malefatte della fase berlusconiana del disastro italiano. Singolare però che il valente storico dell'Italia contemporanea si rivolga a Matteo Renzi come se non avesse compreso che l'attuale premier/segretario è l'erede e continuatore di Silvio.

La Repubblica, 28 agosto 2015

HA AVUTO uno sguardo un po’ distratto negli ultimi vent’anni, Matteo Renzi, se dell’antiberlusconismo ha colto solo qualche settarismo e qualche semplificazione. Ed è grave se si è fermato ad essi senza riflettere realmente su quel che è stata la “stagione di Berlusconi”: con il prepotente emergere di deformazioni culturali, sociali e politiche già riconoscibili negli anni Ottanta. Con una irresponsabilità di governo che nel 2011 ci ha portati sull’orlo del crollo, con uno stravolgimento delle istituzioni che ha inciso in profondità sul loro concreto funzionamento ed è stato fermato appena in tempo. Prima che riuscisse ad intaccare quell’equilibrio fra i tre poteri dello stato che è il fondamento della democrazia.

Non si liquida con una battuta quella fase: «Questa settimana - scriveva appunto nel 2011 un commentatore del New York Times - mi sono trovato a pensare che anche il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio Berlusconi». Non vi può essere una vera rifondazione del Paese (un “cambiar verso”) senza fare realmente i conti con l’Italia che è confluita nella stagione berlusconiana e che in essa si è consolidata. Raccoglieva molti umori fermentati negli anni ottanta il Berlusconi della “discesa in campo”, e lo segnalarono via via - inascoltati - non pochi commentatori. Dietro la predicazione di “un nuovo, grande, straordinario miracolo italiano” vi era la rimozione del macigno economico ed etico che pesava sul Paese: un debito pubblico che ne aveva minato l’economia e lo stesso modo di essere, abituandolo a vivere a credito; abituandolo a dissipare ricchezza e a lasciare il conto alle generazioni future. Rimarrà questa fino all’ultimo la cifra del berlusconismo, dalla “finanza creativa” di Tremonti sino agli ultimi scampoli del suo governo, con la ostinata negazione della crisi che incombeva. E con un atteggiamento di fondo «che guardava con indulgenza sottaciuta alla indole degli italiani. Alla loro diffidenza verso la dimensione pubblica, ai loro egoismi di corporazione, alle elusioni fiscali, all’irritazione provocata dalle norme» (Edmondo Berselli lo sottolineò più volte con corrosiva lucidità). E ampi settori sociali percepirono e condivisero il suo “liberalismo” per quel che era, profonda insofferenza alle regole.

Si pensi anche al populismo berlusconiano, capace di intercettare un “antistatalismo” di antica data e al tempo stesso umori fermentati nella crisi dei partiti novecenteschi (e nel passaggio dalla “rappresentanza” alla rappresentazione mediatica). Capace di riproporre in forme nuove le vecchie culture «dell’anti-partito e dell’anti-politica, un desiderio di nuovo che faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica per cercare in un leaderismo forte il momento demiurgico della decisione». E «il processo agli inquilini corrotti del “palazzo” si trasformava nella denigrazione di oltre quarant’anni di democrazia» (sono parole del 1994 di Mario Pirani). Si trasformava, anche, in quella “diseducazione civica” nei più diversi campi che Piero Ignazi ieri ha ben ricordato: dal fisco alla scuola, dalla magistratura a una Costituzione bollata talora come frutto ideologico del comunismo. Su questo terreno confluivano sia umori tradizionali della “destra smoderata” italiana sia abiti mentali sedimentati appunto negli anni Ottanta in non pochi settori sociali e politici: «Insofferenti alle tradizionali austerità democratiche, amanti del denaro e del potere, infastiditi dagli egualitarismi » (sono parole di Mariella Gramaglia dedicate allora ai socialisti craxiani). È nell’azione di governo però che la “diseducazione civica” dell’ex Cavaliere si è concentrata in modo potente, svilendo il senso delle istituzioni ed entrando in conflitto con le più elementari norme dello stato di diritto. Ed aprendo quei conflitti con gli altri poteri dello Stato e con lo stesso dettato costituzionale che i diari e le memorie di Carlo Azeglio, pubblicati a cura di Umberto Gentiloni, hanno ulteriormente documentato. Non è possibile sorvolare sui guasti delle leggi ad personam o sulla corruzione accertata (dai fondi neri per alimentarla ai giudici e ai parlamentari comprati): senza questi aspetti non si comprenderebbe neppure il colossale salto di qualità compiuto rispetto agli anni di Tangentopoli. E quindi la assoluta necessità e urgenza di una radicale inversione di tendenza: consapevolezza che è sembrata progressivamente mancare a Renzi in questi mesi. Si consideri infine lo stravolgimento istituzionale avviato da Berlusconi nel 2001 e giunto al culmine alla vigilia della sua caduta: il premier — annotava Scalfari nel 2010 — vuol riscrivere la Costituzione “mettendo al vertice una sorta di “conducator” eletto direttamente dal popolo (…) e subordinando alla sua volontà il potere legislativo, i magistrati, la Corte Costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia». Era difficile dargli torto: a meno di non essere, appunto, molto distratti.

Certo, un antiberlusconismo urlato ha coperto talora un vuoto di contenuti (lo aveva sottolineato già Walter Veltroni) e sono state molte le responsabilità del centrosinistra, incapace in primo luogo di un rinnovamento radicale della politica: a quest’opera si era candidato Matteo Renzi ma anche quell’impegno si è molto sbiadito con lo scorrer del tempo. Si pensi poi a un altro nodo, la sostanziale inadeguatezza nel contrastare la berlusconiana “illusione del miracolo”. Certo, in nome dell’emergenza il centrosinistra si è trovato ad adottare responsabilmente politiche di rigore (dal primo governo Prodi sino al governo Monti): non sostenute però da una reale visione di futuro e prive così di una reale capacità di convinzione. E contrastate con forza dalla sinistra estrema, consonante in questo con la berlusconiana “cultura del miracolo”. Da questo nodo irrisolto discende anche la vaghezza estrema con cui oggi si parla di “ripresa”, quasi si pensi ad un tranquillo ritorno agli scenari precedenti la crisi. Quasi si consideri superfluo riflettere a fondo sulle trasformazioni globali che sono intervenute, e che esigono scelte inedite: ma forse proprio questo una forza riformatrice dovrebbe fare, risparmiandosi battute ad effetto.

Forse una svolta nella Fortezza Europa: si apre qualche spiraglio. Ma resta l'illusione che si tratti solo di "emergenza umanitaria" e non di sconvolgimento globale nel rapporto tra popoli e continenti.

Il manifesto, 28 agosto 2015

Set­tem­bre potrebbe essere il mese deci­sivo per l’Unione euro­pea per cam­biare rotta sull’immigrazione. «Tro­ve­remo il modo di distri­buire il carico e le sfide in modo equo» ha detto ieri Angela Mer­kel, e le parole della can­cel­liera tede­sca più che un invito sono sem­brate indi­care la nuova dire­zione da seguire. L’alternativa, per l’Europa, è quella di essere tra­volta dall’onda sem­pre più impo­nente di pro­fu­ghi in arrivo sia dal Medi­ter­ra­neo che via terra lungo la rotta dei Bal­cani occi­den­tali.

Quat­tro gli obiet­tivi prin­ci­pale da rag­giun­gere: ripri­sti­nare l’obbligatorietà per i 28 di pren­dere una quota di richie­denti asilo, prin­ci­pio pre­vi­sto a mag­gio dalla Com­mis­sione euro­pea ma boi­cot­tato dai Paesi del Nord che sono riu­sciti a imporre la volon­ta­rietà; alzare il numero dei pro­fu­ghi siriani ed eri­trei da ricol­lo­care (ini­zial­mente 40 mila tra Ita­lia e Gre­cia, poi scesi a 35 mila) e avviare una discus­sione che porti a una nor­ma­tiva comune sul diritto di asilo. Ma, soprat­tutto, arri­vare final­mente a una revi­sione del rego­la­mento di Dublino che oggi obbliga i migranti a stare nel primo paese in cui sbar­cano. Una cosa che l’Italia chiede da mesi ma che adesso vuole anche la Ger­ma­nia al punto da averlo già sospeso tem­po­ra­nea­mente per i siriani.

Sep­pure ancora labili, le pos­si­bi­lità per­ché si arrivi final­mente a una svolta ci sono. Oltre a Ger­ma­nia e Ita­lia, sosten­gono le quat­tro richie­ste anche Fran­cia e Gre­cia, ma non è escluso che si accodi anche l’Ungheria, sotto pres­sione in que­sti giorni pro­prio per il forte flusso di richie­denti asilo alla fron­tiera con la Ser­bia. E in futuro, pas­sata la tor­nata elet­to­rale in cui alcuni Paesi sono impe­gnati nel pros­simo autunno-inverso, l’elenco potrebbe allun­garsi. «L’Europa è un con­ti­nente ricco ed è in grado di affron­tare que­sto pro­blema», ha aggiunto la Mer­kel

A que­sto blocco di Paesi va poi aggiunta la Com­mis­sione euro­pea il cui resi­dente Jean Claude Junc­ker si è bat­tuto per met­tere mano a Dublino e per­ché i 28 si assu­mes­sero quote di pro­fu­ghi. Ieri Junc­ker ha repli­cato a quanti accu­sano la com­mis­sione di non aver fatto molto per risol­vere la crisi dei migranti: «Alcuni mini­stri di Stati mem­bri ci cri­ti­cano per una nostra inat­ti­vità, Ma sono cri­ti­che ingiu­sti­fi­cate — ha detto -. La colpa va data agli Stati mem­bri, non alla com­mis­sione che ha pre­sen­tato la sua Agenda sull’immigrazione a mag­gio».

Il fatto è che da mag­gio a oggi è cam­biato tutto. La pres­sione dei pro­fu­ghi alle fron­tiere euro­pee è sem­pre più forte e coin­volge sem­pre più Paesi. Come i sei Paesi del Bal­cani occi­den­tali, che ieri hanno tenuto a Vienna un ver­tice al quale hanno par­te­ci­pato anche Ita­lia, Ger­ma­nia, Austria Croa­zia e Slo­ve­nia nel quale nel quale alla Ue di met­tere a punto un piano d’azione in grado di rispon­dere alla crisi di que­ste settimane.

Dell'importanza della creatività per lo sviluppo di un'economia capace di progredire. Il grave ritardo dell'Italia come una delle ragioni del declino del suo apparato industriali.

La Repubblica, 28 agosto 2015L’EUROPA è un continente rimasto senza idee»: a lanciare l’allarme sul Financial Times è stato Edmund Phelps, Nobel per l’economia. Nel braccio di ferro sulle misure di austerità che hanno messo alla gogna la Grecia (e domani altri Paesi), la parola “creatività” non ricorre mai.
Stagnazione delle economie nazionali, il Pil che da anni, quando va bene, sale (come in Italia) di qualche misero decimale: in questo gioco al massacro entrano le borse, i mercati, la troika, l’invadenza tedesca, le influenze americane o asiatiche. Ma che vi sia un qualche rapporto fra creatività ed economia non viene mai in mente. Secondo Phelps, «gli italiani trovano del tutto accettabile che la loro economia sia quasi del tutto priva di innovazioni autoctone da vent’anni, e sia capace solo di reagire alle forze del mercato globale, come se una nazione non avesse bisogno di dinamismo per essere felice».

Ma può esserci felicità senza creatività? Secondo un’indagine del Pew Research Center di Washington ( ottobre 2014), in Italia “l’indice di felicità” si ferma a 48 punti (Spagna 54, Grecia 37), mentre i Paesi emergenti, assai più creativi, volano alto: Messico 79, Brasile 73, Argentina 66, Cina 59.

L’Italia è fra i Paesi che Phelps sceglie a esempio di un’economia «meccanica, robotizzata, che ha per ingredienti la ricchezza, i tassi di interesse, i salari; ma ne manca uno, l’abilità e l’inventività degli esseri umani». L’efficienza (spesso sinonimo di ubbidienza) viene confusa con il dinamismo, l’alternanza ai vertici viene scambiata per innovazione, lo storytelling del successo prende il posto di ogni vero sviluppo. Una nuvola di parole occulta il destino dei cittadini e lo subordina alle decisioni, spesso incompetenti, di chi si insedia nella stanza dei bottoni. Il pensiero unico di una scienza economica spacciata per la sola possibile (come se non ne esistessero versioni e correnti alternative) alimenta la rassegnazione fatalistica alle “forze del mercato”, che come una fede religiosa non vacilla davanti alla perpetua crisi, ai continui fallimenti.

Rimettere al centro la creatività come rimedio alla stagnazione e alla crisi è oggi più che mai necessario. In questo senso va la distinzione, proposta dallo stesso Phelps nel suo recente Mass Flourishing (2013), fra la “prosperità” dei cittadini (far bene un mestiere per ottenere migliori salari) e la loro “fioritura” (coltivare l’immaginazione, esercitare la curiosità intellettuale, praticare la creatività). Una società può esser prospera senza essere fiorente, ma una società fiorente è sempre prospera: ed è solo nei periodi di massima fioritura della comunità civica che scatta l’innovazione, come si è visto dal Rinascimento al Novecento. Solo in una società fiorente, dove la creatività è un valore riconosciuto, vi sono le condizioni-base per una vita soddisfacente; solo chi può appagare la propria curiosità e inventiva avrà pieno rispetto per se stesso e si sentirà a pieno titolo parte di una comunità. Questo e non altro è il “vivere bene” che sbandieriamo come slogan, ma senza saperlo tradurre in progetto.

La categoria-chiave di questo ragionamento, la “fioritura” ( flourishing ), viene dalla filosofia morale (basti ricordare Martha Nussbaum e Julia Annas), che ne ha indicato le radici nel pensiero di Aristotele. L’eudaimonia di cui parla l’antico filosofo non è felicità effimera (il “successo”), ma senso di realizzazione della propria vita, delle proprie potenzialità: un sentimento che incardina l’individuo nella comunità (polis) di cui fa parte. La “fioritura” degli individui e delle comunità è precondizione indispensabile per lo sviluppo della creatività ad ogni livello, e dunque componente vitale dell’economia e della società, ma anche della democrazia, dell’equità, della giustizia. È necessario interrompere, volando alto, il circolo vizioso di cui siamo prigionieri: l’Italia e l’Europa davvero sono a corto di idee, e perciò segnano il passo. La prosperità raggiunta (insieme al timore di perderla) produce più stagnazione che progresso: anzi, la pressione dei mercati e la concentrazione della ricchezza erodono i diritti (all’istruzione, alla salute, alla cultura, al lavoro) generando crescenti ineguaglianze. L’illusione della crescita si limita a qualche success story che riunisce in poche mani gli incrementi di produzione e di ricchezza; ma intanto il lavoro (dei più) diminuisce, e la produttività totale (i cui fattori sono capitale e lavoro) s’inceppa.

“Tasso di inventiva” e “tasso di felicità” sono strettamente collegati, perciò entrambi sono in calo in Italia (e in Europa). La scuola, devastata da riforme che puntano a educare non cittadini ma esecutori ossequienti, taglia le gambe alla creatività potenziale dei giovani, li induce ad appiattirsi sugli ideali aziendalistici di una superficiale efficienza e li spinge a reprimere il proprio talento per inseguire i mestieri e i mantra di un immutabile ordine costituito. La sgangherata discussione sui “conti salati degli studi umanistici”, considerati un lusso in tempo di crisi, elude il loro ruolo essenziale nella consapevolezza dei valori umani, nella capacità di esplorare criticamente il mondo e se stessi, nell’educazione a pensare fuori dal coro. Anche l’economia non è necessariamente perpetuazione dell’esistente, ma dev’essere sperimentazione del nuovo. E solo la “fioritura” degli individui e della comunità garantisce la «pari dignità sociale» dei cittadini prescritta dalla Costituzione (art.3). Come ha scritto uno storico inglese, David Kynaston, «se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’eguaglianza».

«Il nodo delle rela­zioni non è una que­stione paral­lela, ma cen­trale. Sia nella valo­riz­za­zione di poteri alter­na­tivi sia nel creare coe­sione, per reg­gere lo scon­tro vio­lento. Per­ché sono l’oggetto dei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione in corso ad opera di un capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta che nella vita entra senza rite­gno, e la rimo­della a pro­prio piacimento».

Il manifesto, 26 agosto 2015

Quali erano i pen­sieri, le idee, i sogni di Paola, brac­ciante morta di fatica – cioè di lavoro secondo la lin­gua del sud – tra le vigne di Trani? E cosa pen­sano, desi­de­rano, sognano i dipen­denti Ikea che fanno scio­peri ine­diti in tutta Ita­lia, con la soli­da­rietà dei clienti? Cosa c’è nella loro mente? C’è l’idea di un mondo dove ci sia più giu­sti­zia? Col­ti­vano con­crete spe­ranze di poter cam­biare le loro con­di­zioni di vita? Su chi fanno affi­da­mento? Natu­ral­mente oltre i sindacati?

Rischio volu­ta­mente la reto­rica, nell’accostare l’arcaico capo­ra­lato e la moderna pre­ca­rietà mul­ti­forme, espe­rienze con­tem­po­ra­nee di cui gli esempi si potreb­bero mol­ti­pli­care, tutti accu­mu­nati da un sala­rio ora­rio inde­cente, o sem­pre più basso. La reto­rica spa­ri­sce se rove­scio la domanda: la sini­stra ha in mente Angela, i suoi com­pa­gni di lavoro, o i dipen­denti dell’Ikea? Pensa, la sini­stra, imma­gina, pro­getta come affron­tare, risol­vere i pro­blemi della vita di que­ste per­sone? Il modo per pro­teg­gerle dalla fero­cia del capi­ta­li­smo neo-liberista? Strade per­cor­ri­bili, anche audaci, con­flit­tuali, peri­gliose, e per­ché no, rivol­tose, ma che per­met­tano di intra­ve­dere modi diversi di vivere?

La rispo­sta è bru­tale: no, da molto tempo que­sto non avviene. E que­sto è il nodo cru­ciale del dibat­tito aperto da Norma Ran­geri e dal mani­fe­sto: l’incontro man­cato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in con­di­zioni di vita sem­pre più dura, — chi non rie­sce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è pre­ca­rio, pre­cari della cono­scenza che man­ten­gono con il loro lavoro semi­gra­tuito uni­ver­sità, cen­tri di ricerca e sistemi di infor­ma­zione – se ci sono, desi­deri e spe­ranze, dif­fi­cil­mente si chia­mano “sini­stra”. E dall’altra parte i pro­getti di chi dovrebbe aprire lo spa­zio di ela­bo­ra­zione e di pra­ti­che poli­ti­che che a quelle menti pos­sano par­lare, dare respiro e speranza.

Non inte­ressa, qui, fare l’analisi delle respon­sa­bi­lità. Fer­marsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi cri­mi­nale. Non c’è vita, nella recri­mi­na­zione e nel ran­core. E lo dico da fem­mi­ni­sta quale sono, sem­pre più sgo­menta nel con­sta­tare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini – di rico­no­scere il peso, l’influenza, l’acutezza della cri­tica fem­mi­ni­sta alla loro poli­tica, e che inca­paci come sono di acco­glierla espli­ci­ta­mente pro­ce­dono come se nulla fosse suc­cesso. Certa che que­sto muro di silen­zio sia parte del pro­blema, della dif­fi­coltà di met­tere a fuoco visioni ampie, inclu­sive, e nello stesso tempo con­vinta che anche il fem­mi­ni­smo sia impli­cato, nel vuoto che ci affligge.

Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fis­sate troppo sull’obiettivo pari­ta­rio, così facil­mente fatto pro­prio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occi­dente, alla libertà fem­mi­nile, avesse spinto a chiu­dere gli occhi su quanto avviene. Come se per esem­pio il feroce aumento della dise­gua­glianza eco­no­mica non riguar­dasse le donne. Che ne sono le prime vit­time, sotto mol­te­plici aspetti, dallo sfrut­ta­mento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo fem­mi­nile, della ripro­du­zione. Anche da parte di altre donne.

Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione effi­cace, aiuta a pren­dere coscienza della pesan­tezza delle con­di­zioni di vita, o a recu­pe­rare forme di auto-organizzazione come il mutua­li­smo, rico­struen­done il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica con­tem­po­ra­nea del “Quarto Stato” di Pelizza da Vol­pedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in brac­cio, die­tro e di lato a un uomo, a uomini che com­bat­tono in prima fila. Dove sareb­bero le donne? E gli stessi uomini? E i bam­bini? E que­sti, di chi sareb­bero figli?

Non sono det­ta­gli fuor­vianti. Come non capire che que­sto qua­dro mutato e mutante è parte essen­ziale di ciò che va pen­sato, anche nel met­tere a fuoco nuovo forme orga­niz­za­tive? Che il nodo delle rela­zioni non è una que­stione paral­lela, ma cen­trale? Sia nella valo­riz­za­zione di poteri alter­na­tivi sia nel creare coe­sione, per reg­gere lo scon­tro vio­lento. Per­ché sono l’oggetto dei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione in corso ad opera di un capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta che nella vita entra senza rite­gno, e la rimo­della a pro­prio piacimento.

Esat­ta­mente come agi­sce per la ride­fi­ni­zione– distru­zione di demo­cra­zia. Nel qua­dro delle isti­tu­zioni, euro­pee e non solo. Fanno parte di un unico dise­gno di comando che va combattuto.

Di que­sto si dovrebbe par­lare, se si parla di vita a sini­stra. Se si vuole entrare nella brec­cia che Ale­xis Tsi­pras con grande luci­dità poli­tica con­ti­nua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calen­da­rio di impe­gni tra movi­menti e orga­niz­za­zioni fino a novem­bre, che il gesto del dirsi “siamo qui, par­tiamo”, sia rapido, veloce, quasi non­cu­rante. Come chi sa che non c’è nulla da esal­tare, in effetti. Che orga­niz­zarsi non è occu­parsi di sé. L’urgenza è met­tersi in grado di aprire spazi e pen­sieri, libe­rare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.

«Non distinguere le responsabilità di quanto avvenuto negli ultimi decenni e accomunare tutti in un magma indistinto non solo fa torto alla realtà dei fatti ma riporta a galla una visione del mondo “irresponsabile”, del tutti a casa perché nessuno è colpevole». La Repubblica, 27 agosto 2015

NON C’È ombra di dubbio che gli ultimi vent’anni siano stati “anni perduti” per lo sviluppo socio-economico e civile italiano. Ma, contrariamente a quanto detto da Matteo Renzi, la responsabilità non è di tutta la classe politica, destra e sinistra confuse e accomunate, quasi fossero una sola casta, à la mode di Grillo.

Questo ventennio ha avuto un dominus, una figura che lo ha incarnato a tutto tondo, tenendo ben stretto il bandolo degli eventi grazie alle ramificazioni dei suoi interessi e alle connivenze intessute nei decenni; ed è Silvio Berlusconi. La sinistra ha fatto argine in qualche circostanza ma sono stati brevi intervalli, di cui solo alcuni luminosi: il primo governo Prodi con il riallineamento dei conti pubblici e l’entrata nell’euro, e i primi passi del secondo governo Prodi con le liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. Per il resto, divisioni interne, astenia culturale e una latente sindrome di Stoccolma hanno fatto, spesso, troppo spesso, accucciare la sinistra ai piedi del Cavaliere. Berlusconi è diventato così l’alfa e l’omega di questi anni. Altro che contrapposizione bilanciata.

Il Cavaliere ha potuto dedicarsi tranquillamente alla cura dei propri affari riservando una attenzione residuale ai problemi centrali della modernizzazione del paese. Quasi tutti gli indicatori socio-economici e culturali di questi vent’anni, messi a confronto con quelli degli altri paesi dell’Ue, per non dire del G7, mostrano una perdita di terreno. E in più, è stato inquinato lo spirito civico di questo paese.

Quando un primo ministro irride alle leggi, le stravolge e violenta per suo tornaconto, quando sollecita i cassaintegrati a frodare le norme facendo lavoretti in nero, quando proclama di fronte alla Guardia di finanza che l’evasione fiscale oltre una certa soglia di imposizione fiscale è un diritto, quando un primo ministro agisce così, inocula ulteriore veleno su un corpo civile già debilitato per storiche tare.

La diffidenza-ostilità per l’imperio della legge, la torsione personalistica delle norme, il fastidio per le regole hanno profondamente minato la legittimità delle istituzioni. E, più sottilmente, il berlusconismo ha favorito la diffusione di una visione del mondo a-razionale, dove i “fattoidi”, come li chiamava Edmondo Berselli, diventavano realtà e solo l’apparenza contava; e così, venivano favorite fughe in avanti e aspettative miracolistiche che solo l’intervento salvifico di un capo poteva risolvere.

Di fronte a tutto questo gli argini sono stati deboli e mal curati. L’opposizione a Berlusconi e al suo mondo si attivava a corrente alternata: un giorno faceva la voce grossa, un altro trattava sulle frequenze televisive, un giorno gridava al golpe, un altro cedeva sul “processo giusto”. E così via. Mancava la costanza del resistere, resistere, resistere. E l’accusa di antiberlusconismo veicolata dalla destra diventava quasi uno stigma da cui difendersi. Non una onorevole connotazione etico-politica. Sorprende, allora, che Matteo Renzi, quasi fosse un flaianesco marziano a Roma, equipari l’antiberlusconismo al suo contrario, come chi accomuna partigiani e repubblichini in uno stesso calderone.

Al contrario, proprio la fiacchezza dell’opposizione a Berlusconi, con punte di connivenza, i cui ultimi rigurgiti si ritrovano anche nei 101 voti contro Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, ha mandato alla deriva questo paese. La mancanza di rigore e fermezza di fonte alle devastazioni del diritto e all’imposizione dell’arbitrio e dell’interesse personale e di clan, hanno permesso ad una cultura politica populista e anti- istituzionale di debordare. Mentre Berlusconi incantava con la promessa di una “rivoluzione liberale”, che non ha lasciato che macerie, l’opposizione aveva il dovere di opporsi con il massimo di impegno.

Non distinguere le responsabilità di quanto avvenuto negli ultimi decenni e accumunare tutti in un magma indistinto non solo fa torto alla realtà dei fatti ma riporta a galla una visione del mondo “irresponsabile”, del tutti a casa perché nessuno è colpevole. L’Italia è arretrata paurosamente su tutti i fronti non per la contrapposizione dura tra due schieramenti, ma proprio per il suo contrario: perché l’opposizione al berlusconismo è stata inconsistente e quindi la sua sconfitta tardiva, troppo tardiva.

Le tre facce della crisi dell'Europa, I modi per uscirne, in Europa e in Italia.

iMEC, sito web della Fiom-Cgil, 21 agosto 2015

A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne. Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. È una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.

La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.

1. La crisi della UE e dell’euro.

La UE è stata fondata sulla base di una serie di gravi errori. Sbagliarono gli intellettuali e i politici che per primi concepirono l’unione come un sorta di abbraccio tra popoli che secondo loro avevano più cose in comune che differenze, a partire da una presunta “identità” o “cultura europea”, nonché dal comune orrore per le due “guerre civili” intervenute nel continente in poco più di trent’anni. Sbagliarono gli economisti nel credere e far credere che le grandi differenze di struttura industriale, produttività, composizione delle forze di lavoro, relazioni sindacali, ricerca e sviluppo, scambi con l’estero ecc. esistenti tra i vari stati membri sarebbero state colmate verso l’alto grazie ai benefici effetti di una moneta unica, l’euro. Infine sbagliarono i capi di stato e di governo nel credere che l’Unione, in quanto fondata sul principio “uno stato (piccolo o grande che fosse) uguale un voto”, sarebbe servita a contenere il predominio economico e politico della Germania.

Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale.

La componente monetaria dell’Unione, fondamentale per il suo funzionamento, è stata dettata sin nei particolari dalla Germania. Nei suoi colloqui con il presidente francese Mitterrand, il cancelliere Kohl fu irremovibile nel pretendere che l’euro fosse il più possibile simile al marco; che la BCE fosse dichiarata per statuto indipendente dai governi, una clausola mai vista negli statuti delle banche centrali di tutto il mondo: tant’è vero che essa si è presto rivelata essere un organo prettamente politico, che invia lettere durissime agli stati membri, Italia compresa, affinché taglino sanità, pensioni e salari; che la BCE stessa avesse sede in una città tedesca (Francoforte). Su queste basi l’euro è stato giustamente definito il più efficace strumento mai inventato per tenere bassi i salari, demolire lo stato sociale e liquidare il diritto del lavoro.

A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna - la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica.

Non basta: le politiche di austerità, secondo molti giuristi, hanno violato decine di articoli di tutte le leggi riguardanti i diritti umani e i crimini contro l’umanità, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ad oggi: leggi, si noti bene, che i trattati UE hanno a suo tempo fatto proprie. La popolazione reagisce a quanto avviene in due modi: non andando a votare nella misura del 60 per cento per l’unico organo UE democraticamente eletto, il Parlamento europeo, con punte dell’80 per cento nei nuovi stati membri (dati 2014); e dando invece un largo e crescente consenso alle formazioni di estrema destra, in Francia, Italia, Polonia, Ungheria, ecc. Il che farebbe pensare che gli elettori non abbiano memoria del pericolo che esse rappresentano per la democrazia – se non fosse che nella UE la democrazia è stata già da tempo svuotata di senso dalla oligarchia politico-finanziaria di Bruxelles e dintorni.

Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:

a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli). Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.

b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.

Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione, e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.

È innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.

La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.

2. La crisi economica ed occupazionale.

Nei paesi più sviluppati del mondo, USA e UE, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della UE, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella UE sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”). Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare.

La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.

Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.

Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.

3. Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.

Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.

Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.

Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.

Intervista di Carlo Di Foggia a Barbara Spinelli. Un'analisi sofferta e preoccupata delle conseguenze della necessità di Alexis Tsipras di scegliere tra la due soluzioni entrambe inaccettabili.

Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2015

La riflessione più amara, Barbara Spinelli la riserva al mantra più forte degli europeisti: «Pensare che la soluzione al disastro antidemocratico che è stata la vicenda greca, sia una integrazione più forte dell’Unione così com’è, con i presenti Trattati, non significa rendere l’Europa più forte. Significa il contrario».

Tsipras ha annunciato le dimissioni e chiesto le elezioni anticipate per il prossimo 20 settembre.
«Era prevedibile che Syriza si sfaldasse dopo l’umiliazione che il governo ha dovuto subire. Resta il profondo atto democratico: dimettersi e dare voce agli elettori».

Non è solo una mossa furba per evitare che l’ala sinistra di Syriza abbia il tempo di organizzarsi?
«La sinistra ha un forte peso nell’elettorato e il referendum del 5 luglio lo ha dimostrato. Quel voto rafforzerà i dissidenti ma non darà loro una maggioranza. L’elezione è rischiosa: può costringere il premier ad allearsi con socialisti e liberali. Ma anche questi ultimi sono stati indeboliti dal referendum, avendo lottato per il Sì. Più che furba, la mossa nasce da uno scacco e propone l’uscita democratica da un golpe post moderno. Ad Alexis Tsipras è stata lasciata la scelta tra la morte e la morte, tra Grexit e sottomissione».

Chi sono i responsabili dello “scacco”?«I dirigenti dell’Unione. Ormai tutti lo sanno: senza un’Unione politica solidale, l’euro divide l’Europa, la riporta a rapporti di forza tra nazioni potenti e non. Il contrario di quello che si pensò nel dopoguerra».

La soluzione, illustrata da molti commentatori, è l’omeopatica “ci vuole più Europa ”…
«Lo spirito europeista non sta né con i sovranisti che propongono il Grexit – e non tutti gli elettori del No la vogliono – né con i dirigenti che vogliono rafforzare l’Europa presente, dominata dalla Germania, fondata su un’austerità rigettata da gran parte dei cittadini europei. Rafforzare tutto questo significa avere un equilibrio tra potenze nazionali, non un’Europa più federale».

La parabola di Tsipras ha mostrato che il sistema non si cambia dall’interno?
«Le prime battute sono state disastrose. Ma la battaglia è appena cominciata. Tsipras vuol tuttora portare la Ue verso forme più solidali e regole diverse. Proprio in questi giorni ha chiesto che il Parlamento europeo partecipi al “quartetto dei creditori”. Persa la battaglia, la guerra continua, anche se il prezzo è già stato altissimo».

Quale?
«Il premier ha perso gran parte delle truppe. È però convinto che un Paese come la Grecia, nella globalizzazione, non ce la faccia da solo. Rifiuta per ora la soluzione sovranista e scommette sul fatto che anche Berlino riconosca che da sola non ce la farebbe.

Oltre alle truppe non ha perso anche l’anima politica originaria del progetto Syriza?

«Non sono sicura che tutta la sinistra di Syriza sia sovranista. Molto dipenderà anche da quello che succederà in Spagna e Irlanda. Podemos ha fatto alleanze municipali con i socialisti. Pur chiedendo un cambiamento radicale dell’Ue, governerà con i socialisti, senza uscire dall’euro. Ma spero che dissidenti come Varoufakis siano ascoltati».

Che succede se vince la destra?
«Le forze alternative europee si indebolirebbero, ma non credo che vincerà».

Se vincesse la Piattaforma di sinistra, la definirebbe una sconfitta?
«Se vincesse avrebbe due scelte: o il Grexit, ed è talmente costoso che ci dovrà pensare otto volte. O negoziare come Varoufakis, e si troverà davanti alla scelta di Tsipras: o la morte o la morte. I tedeschi non cambiano idea.

Concordare un’uscita ordinata, con aiuti europei, anche per ristrutturare il debito, come aveva proposto Schäuble, è la morte?
«Non so quali aiuti verrebbero dall’Ue: nelle condizioni economiche attuali il Grexit sarebbe un quarto memorandum. Un disastro, nel breve periodo».

Nel medio?
«Nel medio termine saremo tutti morti, diceva Keynes».

«In ogni caso Renzi non indietreggia e rilancia: o ci sono i numeri o ne trarrà le conseguenze». È quello che in molti speriamo. Ma alla fine troveranno un compromesso che salverà capra e cavoli: e il lupo Renzi mangerà tutti.

La Repubblica, 27 agosto 2015

. A decidere sulla querelle che contrappone il presidente del Senato Pietro Grasso e la maggioranza del Pd potrebbe essere un “tribunale”. Le parole della seconda carica dello Stato dalla festa nazionale de L’Unità di Milano - con l’invito a trovare una soluzione politica per superare “l’impasse”- scuotono gli animi del Nazareno. Parole che avrebbero infastidito i maggiorenti del Pd in Senato. Il dilemma è sempre lo stesso: alla ripresa dei lavori il presidente Grasso dovrà decidere se ammettere o no la mole di emendamenti sull’articolo 2 della riforma del Senato.

Tutto si gioca attorno all’articolo che costituisce il cuore della riforma Boschi, quello che determina la composizione della futura Camera Alta. Al momento la contesa è lessicale. La minoranza del Pd si appella alla sostituzione di una preposizione - “nei” era diventata “dai” nel passaggio del testo dal Senato alla Camera che - secondo i 26 senatori dem dissidenti - «rende la modifica sostanziale e rilevante». Se così fosse, la maggioranza potrebbe non superare la prova del voto. In sostanza, il testo - essendo emendabile- rischierebbe di essere seppellito dagli emendamenti delle opposizioni, che hanno già superato quota mezzo milione.
A difendere le ragioni della minoranza è il senatore Pd, Federico Fornaro: «Come per tutte le leggi, essendo un sistema bicamerale, il testo deve essere approvato alla stessa maniera sia alla Camera che al Senato. Altrimenti si può ritenere emendabile». Una posizione che non fa certo retrocedere la maggioranza renziana. «La modifica - dicono - non è sostanziale, quindi l’articolo non è emendabile».
«Grasso dovrebbe apertamente in aula contraddire la decisione di Anna Finocchiaro », spiega un dirigente dem chiarendo il senso della sfida. La presidente della I commissione, il 5 agosto, nel testo che sarà base per la discussione della ripresa, aveva assicurato che non se ne parla «di rimettere la riforma di nuovo sulla linea di prima partenza». Non perché l’art.2 non sia modificabile ma perché dopo due letture non si può stravolgere l’impianto della legge. Debora Serracchiani, vice segretaria nazionale del Nazareno, avverte: «Se siamo tutti d’accordo che bisogna superare il bicameralismo perfetto - ha detto che bisogna ridurre il numero dei parlamentari, che bisogna semplificare questo Paese con una riforma che la sinistra italiana aspettava da troppo tempo. Non ci sta ha concluso - che il Partito democratico si divida e che metta in pericolo la sicurezza di questo Paese».
La partita è ancora aperta. L’uomo a cui tutti guardano è Pietro Grasso, arbitro della riforma. Tocca a lui stabilire il calendario dei lavori , e, soprattutto, decidere se accogliere le richieste di opposizione e minoranza, oppure saltare gli esami degli emendementi portando la riforma in aula. Ma, secondo quanto riferiscono dal Pd, Grasso avrebbe a disposizione una terza via. Quale? È nella sue prerogative rivolgersi a un “tribunale”. «Per evitare di scontentare maggioranza e opposizione - spiegano - Grasso potrebbe rimandare tutto alla Giunta per il regolamento». Il match, dunque, si sposterebbe in Giunta per il regolamento, dove però l’area di governo non può contare su una maggioranza certa. La resa dei conti si avvicina.
I lavori d’aula riprenderanno l’8 settembre, e in quella data si saprà che ne sarà dell cammino di una riforma che l’esecutivo considera “decisiva” per la tenuta e le sorti di Palazzo Chigi. Nell’attesa i dissidenti del Pd affilano le armi. E si preparano alla battaglia. Anche se al Nazareno sono convinti che il drappello dei 26 senatori di minoranza si ridurrà. In ogni caso Renzi non indietreggia e rilancia: o ci sono i numeri o ne trarrà le conseguenze.

«Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione».

Il manifesto, 26 agosto 2015, con piccola postilla

Ricordate lo slogan lanciato da Deng Xiaoping nel 1978: “Cittadini, arricchitevi”? Su quella falsariga ne seguirono altri, come “Spendere è glorioso”, a cavallo degli anni Dieci del millennio, con l’obiettivo di lanciare il mercato interno rovesciando i pilastri etici della rivoluzione maoista. A tal punto che l’esperienza comunista in Cina è apparsa a molti – e non a torto – una parentesi tra una società precapitalistica ed una capace di fare della Cina il vero competitor degli Usa per il posto di prima potenza economica mondiale. Una levatrice della storia votata a una eterogenesi dei fini. Del resto, secondo alcuni economisti e statistici, tale primazia sarebbe già stata conquistata dal Dragone nel 2014.

Ora se ne vedono bene le conseguenze. La Cina non è vicina ma è ovunque, dentro tutte le cose del mondo globalizzato. Il crollo della borsa di Shanghai fa tremare la finanza mondiale. In Europa le Borse bruciano nello spazio di poche ore più dell’equivalente dell’intero debito greco.

La leadership cinese aveva fin qui retto più che bene alla crisi economica mondiale scoppiata negli Usa nel 2007. I cinesi sono stati i primi ad attuare quello che dall’altra parte del mondo viene chiamato Quantitative Easing, su cui torna a insistere come fosse una nuova ricetta il direttore del Sole24Ore. Hanno tentato una conversione da un’economia esportatrice di prodotti di bassa o modesta qualità, ad un’altra che privilegiasse lo sviluppo dell’enorme mercato interno. In questo quadro hanno ingaggiato una guerra dichiarata contro la corruzione, non lesinando nemmeno sulle condanne a morte. Da ultimo hanno favorito lo sviluppo di una bolla immobiliare e cercato di canalizzare il risparmio privato verso la Borsa. Al punto che molti cinesi dai modesti redditi si sono dovuti indebitare pur di potere comprare qualche azione.

Ora però l’apprendista stregone è nudo. La sua creatura appare indomabile e rischia di rivolgersi contro di lui. Anche quel po’ di redistribuzione che è stata attuata - come riconosce l’economista indiana Jayati Ghosh - con l’incremento dei salari, punto di incontro tra concessioni dall’altro e l’inizio di una lotta di classe rivendicativa nei settori produttivi, non è stata affatto sufficiente per rilanciare il mercato interno. Né poteva esserlo. Sia perché quei salari restano comunque troppo bassi, infatti la Ghosh ne invoca un nuovo aumento, sia perché ci vorrebbe ciò che manca, una rinnovata capacità programmatoria in economia costruita con la partecipazione e il consenso popolari.

Ma se da un lato le aziende di stato sono centri di potere per una potente burocrazia, attorno a cui si avvolge il serpente della corruzione diffusa, e dall’altro i sindacati non ritengono che lo sciopero, benché legislativamente previsto, sia un utile strumento di lotta (come mi sentii rispondere durante una visita in Cina di dieci anni fa) è ben difficile che il mercato interno trovi respiro. Questo non si costruisce dall’alto, né partendo (solo) dal punto di vista dell’impresa, ma è il risultato di un percorso politico-economico da cui è tutt’altro che estraneo lo sviluppo del conflitto sociale. Nelle attuali condizioni continua a piovere sul bagnato, gli investimenti insistono prevalentemente sui settori più sperimentati (cosa lo è più del vecchio mattone?) o guidati dalla competizione internazionale, rischiando così di trasformarsi in una nuova bolla finanziaria oppure di contraddire la svolta postmercantilista, o tutte e due le cose insieme.

Krugman afferma che siamo di fronte ad una bolla finanziaria che ondeggia e rimbalza nel mondo. Nel 2007 l’epicentro della crisi furono gli States, ora lo è la Cina. Poi la bolla tornerà – sta già tornando – verso gli Usa, vista la recente direzione del flusso dei capitali. Larry Summers ha ragione a dire che la Fed non deve cedere alla tentazione di rialzare i tassi di interesse. Ma anche questo non sarà sufficiente neppure per l’America, se la crisi si cronicizza a livello mondiale, a causa del coinvolgimento cinese.

Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo ripetevano gli storici delle Annales. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione, sempre che di questo si tratti, e non di una gigantesca finzione.

postilla

L'icona che contrassegna questo articolo è l'immagine di copertina del libro di David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (2005). Vi si intravede inseriva Deng Tsiaoping, che Harvey collocava tra i "quattro cavalieri dell'apocalisse" fondatori del neoliberismo (in inglese: neoliberalismo), insieme a Tatcher, Reagan e Pinochet. Il libro di Harvey è una lettura molto utile a chi voglia comprendere la recente mutazione della città, della società e della politica.

Prosegue il dibattito su "La sinistra vive?"Un ragionevole elenco delle undici novità, rispetto alla sinistra novecentesca, di cui è indispensabile tenere conto se ci si propone per lavorare alla costruzione di una sinistra per il secondo millennio.

Il manifesto, 26 agosto 2015

Per sce­gliere come agire con­viene par­tire dalla cono­scenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:

a) Sta tor­nando, anche nel cuore di società ric­che, la schia­vitù; secondo una stima della Cgil in tale con­di­zione si tro­vano (ma le stime sono rife­rite a ciò che è visi­bile, non al som­merso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extra­co­mu­ni­tari; il “pro­fitto” se ne giova enormemente.

b) Stret­ta­mente con­nesso è il potere incon­tra­stato dei grandi e meno grandi cen­tri mafiosi equa­mente dif­fusi nel pia­neta. (Con la vit­to­ria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diven­tato un epi­cen­tro mafioso). Le ban­che rici­clano indi­stur­bate il “denaro sporco”, di cui droga, pro­sti­tu­zione, capo­ra­lato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capi­tale finan­zia­rio e mala­vita si è com­piuto. Nella totale pas­si­vità e com­pli­cità dei poteri politici.

c) Il cosid­detto feno­meno migra­to­rio ha carat­tere strut­tu­rale ed epo­cale. Ogni tro­vata mirante a inter­rom­perlo (respin­gi­menti, inter­venti nei luo­ghi di par­tenza) è risi­bile. E’ come voler svuo­tare il mare col mestolo. L’Occidente – fab­bri­canti di armi sem­pre pronti a com­muo­versi, inter­venti impe­riali in Irak, Siria, Libia ecc. — ha creato i disa­stri, una cui con­se­guenza è tale migra­zione di popoli.

d) La muta­zione della Cina in paese iper­ca­pi­ta­li­stico a carat­tere nazio­nal­so­cia­li­sta ha chiuso il ciclo nove­cen­te­sco del “socialismo”.

e) La fine del movi­mento comu­ni­sta ha com­por­tato anche il declino delle socialdemocrazie.

f) Il mec­ca­ni­smo elet­to­rale plu­ri­par­ti­tico (carat­te­ri­stica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò gra­zie a dina­mi­che liber­ti­cide irre­ver­si­bili: delega dei poteri deci­sio­nali a strut­ture tec­ni­che non elet­tive, e per di più mas­sic­cia intro­du­zione di sistemi elet­to­rali di tipo mag­gio­ri­ta­rio. Il de pro­fun­dis è stato il for­male misco­no­sci­mento della volontà espressa dal refe­ren­dum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qua­lun­que legit­ti­ma­zione elet­to­rale quale l’Eurogruppo.

g) Il sog­getto sociale tra­di­zio­nale dei par­titi di sini­stra è, nume­ri­ca­mente, in via di estin­zione. Mi rife­ri­sco all’operaio di fab­brica, o meglio a quella parte che veniva un tempo defi­nita “ope­rai coscienti”. Sono suben­trati per un verso la nuova schia­vitù, per l’altro un gigan­te­sco ceto medio con­dan­nato ad un cre­scente impo­ve­ri­mento, in alcuni paesi appe­san­tito dalle rigi­dità della moneta unica.

h) Una for­ma­zione poli­tica di sini­stra dovrebbe dun­que deci­dere se: (1) sce­gliere di rap­pre­sen­tare i nuovi dise­re­dati, ovvero (2) pun­tare, con qua­lun­que alleato, ad andare al governo a qua­lun­que costo per fare una qua­lun­que poli­tica. Da tempo, la ex-sinistra (in Ita­lia, Fran­cia, Ger­ma­nia, ora anche Gre­cia) ha scelto tale seconda opzione.

i) La sola bat­ta­glia pos­si­bile in que­sta situa­zione è di carat­tere cul­tu­rale, il più pos­si­bile di massa. Descri­vere scien­ti­fi­ca­mente il “capi­tale” del XXI secolo e sma­sche­rare la cosid­detta “demo­cra­zia occi­den­tale”; dif­fon­dere la con­sa­pe­vo­lezza della sua vera natura. I luo­ghi di inter­vento non sono molti. La grande stampa fun­ziona sulla base di una costante cen­sura del pen­siero cri­tico nei con­fronti dell’Occidente. Ma c’è un grande ter­reno di lotta cul­tu­rale, che è la scuola. E’ lì che si può indi­riz­zare una lotta tenace in favore del pen­siero critico.

j) Verrà sol­le­vata la que­stione: ma qual è la classe sociale di cui la sini­stra dovrebbe rap­pre­sen­tare gli inte­ressi? Lo sfrut­ta­mento non è affatto scom­parso, ma è ormai soprat­tutto sfrut­ta­mento del lavoro intel­let­tuale che costi­tui­sce la parte essen­ziale del ciclo pro­dut­tivo. E per­sino ai qua­dri medio/alti — per ora ben pagati – andrebbe fatto capire che anch’essi sono degli sfrut­tati e che chi li sfrutta è mera­mente parassitario.

k) Nell’epoca del domi­nio mon­diale del capi­tale finan­zia­rio, “il nemico” è quasi invisibile.

Il manifesto, 25 agosto 2015

L’Europa deve “uni­fi­care” il diritto d’asilo e le pro­ce­dure di acco­glienza, per arri­vare a una “poli­tica migra­to­ria comune, con regole comuni” per far fronte a “una situa­zione ecce­zio­nale, desti­nata a durare”. Lo ha detto a Ber­lino Fra­nçois Hol­lande, alla con­clu­sione della prima parte dell’incontro con Angela Mer­kel, che è poi pro­se­guito sulla crisi ucraina, con la pre­senza del pre­si­dente Piotr Poro­shenko, altra que­stione sem­pre aperta in Europa ma messa in secondo piano a causa dell’emergenza migranti. Fran­cia e Ger­ma­nia pre­ve­dono di “dare un nuovo impulso” con­giunto per arri­vare a una rispo­sta euro­pea, per­ché “per il momento”, dicono all’Eliseo, le deci­sioni della Ue sono “non suf­fi­cienti, non abba­stanza rapide e non all’altezza” nella loro appli­ca­zione. Nel mirino di Hol­lande e Mer­kel, prima di tutto, c’è l’inerzia dei paesi di primo sbarco – Ita­lia e Gre­cia – nell’apertura di cen­tri di regi­stra­zione dei migranti: il prin­ci­pio era stato appro­vato nel giu­gno scorso, ma per il momento nes­suno è stato aperto. “Non pos­siamo tol­le­rare que­sto ritardo”, ha aggiunto Mer­kel, che ha sot­to­li­neato che i paesi euro­pei devono appli­care “il più rapi­da­mente pos­si­bile” le regole del diritto d’asilo, che solo sulla carta sono più o meno simili nella Ue. Poi, ha pre­ci­sato Hol­lande, seguirà una “ripar­ti­zione equa” dei rifu­giati, come pre­vede la Com­mis­sione. Ma il pre­si­dente fran­cese ha già messo le mani avanti: con un sistema uni­fi­cato di asilo nella zona Schen­gen si evi­terà che “alcuni paesi ne accol­gano più di altri”.

Non c’era da aspet­tarsi una pro­po­sta di solu­zione dall’incontro tra Mer­kel e Hol­lande, ma Ber­lino ieri è stata una nuova occa­sione per con­fer­mare l’approccio domi­nante in Europa, con­cen­trato sull’improbabile sepa­ra­zione tra “rifu­giati” e “migranti” (eco­no­mici, cli­ma­tici ecc.), i primi uffi­cial­mente da acco­gliere da parte della “gene­ro­sità” euro­pea, i secondi da respin­gere e riman­dare a casa, “riac­com­pa­gnati con dignità” ha pre­ci­sato Hol­lande. Ger­ma­nia e Fran­cia pre­ve­dono di aggior­nare una lista comune per indi­vi­duare i paesi “non a rischio”, i cui cit­ta­dini ver­reb­bero cosi’ auto­ma­ti­ca­mente esclusi dal diritto d’asilo (con­trav­ve­nendo la Con­ven­zione del ’51, che prende in con­si­de­ra­zione situa­zioni di per­se­cu­zione indi­vi­duale). Un’armonizzazione euro­pea di que­sta lista sarà desti­nata a “fare chia­rezza” sulle dif­fe­renze di trat­ta­mento a cui sono sot­to­po­sti in par­ti­co­lare i cit­ta­dini di paesi bal­ca­nici nei vari paesi Ue. Il mini­stro degli esteri fran­cese, Lau­rent Fabius, ha annun­ciato che “nei pros­simi giorni” ci sarà una riu­nione dei mini­stri degli Interni e degli Esteri della Ue sulla que­stione dei migranti. Dovranno tro­vare un deli­cato equi­li­brio per con­ci­liare i timori che alcuni governi in carica hanno dell’estrema destra (altri, come in Unghe­ria, hanno già pas­sato il Rubi­cone) e la paura che l’Europa perda “l’anima”, come ha affer­mato il mini­stro degli esteri Gentiloni.

La Ger­ma­nia acco­glie oggi di più della Fran­cia, ma Parigi ribatte di avere su que­sto fronte un pas­sato più pesante alle spalle. Mer­kel ha con­dan­nato ieri le vio­lenze degli “ubria­coni” neo-nazi in Sas­so­nia, il vice-cancelliere Sig­mar Gabriel accusa l’Europa di essere caduta in un “sonno pro­fondo” e punta il dito con­tro i paesi che vol­tano le spalle a pro­blema e dicono “non ci riguarda”. Finora, i paesi euro­pei hanno cer­cato di sca­ri­carsi il “far­dello”, come la Fran­cia verso l’Italia a Ven­ti­mi­glia o la Gran Bre­ta­gna verso la Fran­cia a Calais. La ten­denza è di libe­rarsi del “far­dello” dando dei soldi (Lon­dra per esem­pio ha deciso di ver­sare 10 milioni di euro in più alla Fran­cia oltre ai 15 stan­ziati nel 2014 su tre anni per dele­gare a Parigi i respin­gi­menti a Calais).

La minac­cia dell’estrema destra sta para­liz­zando i governi euro­pei. Secondo Fron­tex, 340mila per­sone sono entrate senza visto nella Ue nei primi sette mesi di quest’anno. La Ue avrà sem­pre un mag­gior biso­gno di immi­grati per far fronte al dram­ma­tico calo demo­gra­fico, pro­blema a cui sfugge pra­ti­ca­mente solo la Fran­cia (con 1,9 bam­bini per donna, men­tre in Europa la media è di 1,55, con punte minime in Spa­gna con 1,27, men­tre in Ita­lia in 35 anni la popo­la­zione con più di 65 anni sarà mol­ti­pli­cata per sei)

«Sono aiuti di Stato diretti o indi­retti quelli che tol­le­rano il capo­ra­lato, l’economia cri­mi­nale o in nero, i danni ambien­tali, l’evasione fiscale e con­tri­bu­tiva. Accon­ten­tate su tutto, anche sulla licenza di licen­ziare le imprese vivono in una con­di­zione para­di­siaca». Il manifesto, 25 agosto 2015

Alle parole del pre­si­dente del Con­si­glio, per una volta, comin­ciano a seguire i fatti. In molte occa­sioni, egli aveva lamen­tato un ecces­sivo carico di con­trolli fiscali, di vin­coli ammi­ni­stra­tivi che si abbat­te­vano su sei milioni di imprese, impe­dendo loro di pro­durre ric­chezza. Come Tre­monti, anche Renzi, nei suoi discorsi pub­blici, ha evo­cato lo spet­tro di uno Stato di poli­zia che opprime le aziende e per que­sto ha pro­cla­mato una grande guerra con­tro la buro­cra­zia inva­siva. E almeno que­ste solenni sfide con­tro i vigili, le fiamme gialle che indi­screti bus­sano alle porte delle offi­cine non sono rima­sti let­tera morta. I dati for­niti dai con­su­lenti del lavoro sono molto signi­fi­ca­tivi. Nel 2014, i con­trolli sono stati 221 mila 476 (e nel 35,9% delle aziende rag­giunte, sono emerse irre­go­la­rità). Nel 2015, le visite degli ispet­tori sono scese a 106 mila 849 (con il 29,3% delle imprese pescate in situa­zioni irregolari).

I con­trolli in un anno sono dimez­zati, seb­bene l’entità dell’economia som­mersa (due milioni di lavo­ra­tori in nero) e l’ampiezza delle per­dite fiscali per lo Stato (ben 25 miliardi l’anno sfu­mano per l’evasione di con­tri­buti pre­vi­den­ziali e di impo­ste), siano ingenti. Il governo fa di tutto per man­te­nere alta la sod­di­sfa­zione delle imprese, entu­sia­ste per il suo ope­rato che sfor­bi­cia diritti e taglia beni pub­blici per dirot­tare risorse alle casse azien­dali. Oltre ai miliardi di decon­tri­bu­zioni, di sgravi fiscali, di tagli Irap, le imprese cor­sare pos­sono con­tare anche sulla bene­vola chiu­sura di un occhio da parte dello Stato sulle loro pra­ti­che ille­cite.

Sono aiuti di Stato diretti o indi­retti quelli che tol­le­rano il capo­ra­lato, l’economia cri­mi­nale o in nero, i danni ambien­tali, l’evasione fiscale e con­tri­bu­tiva. Accon­ten­tate su tutto, anche sulla licenza di licen­ziare, pre­vio modico inden­nizzo mone­ta­rio, le imprese vivono in una con­di­zione para­di­siaca, con il pre­mier che per giunta si dichiara «gasa­tis­simo» da Mar­chionne. Si spa­lanca un con­ti­nuum politica-impresa che fa impal­li­dire la meta­fora del «mec­ca­ni­smo unico» agi­tata dai mar­xi­sti in anni ormai lontani.

Eppure, nono­stante il legame di ferro tra il governo e l’impresa, e l’indebolimento per­se­guito con acca­ni­mento del lavoro e del sin­da­cato, la ripresa non c’è e i cupi segnali di declino non spa­ri­scono dall’orizzonte. Gli inve­sti­tori scel­gono altri mer­cati rispetto a quello ita­liano, dove anche i pro­dotti finan­ziari e assi­cu­ra­tivi navi­gano fuori con­trollo e certi gio­chi d’azzardo si man­ten­gono lon­tani da ogni effi­cace atti­vità san­zio­na­to­ria.

Il grande impe­di­mento, al supe­ra­mento della crisi, risiede in ciò che la poli­tica è diven­tata in que­sti anni di deca­denza e in quello che il capi­ta­li­smo è sem­pre stato in Ita­lia. Una poli­tica senza auto­no­mia, e un’impresa senza capa­cità com­pe­ti­tive, stroz­zano la vita eco­no­mica. Un governo che si fa largo con il pro­gramma della Con­fin­du­stria (al punto che Squinzi cer­ti­fica: «Que­sto governo è una for­mula uno»), non fa bene all’economia. Per­ché non è ingros­sando il som­merso, gon­fiando il nero e abro­gando i diritti sim­bo­lici del lavoro che si guida la ripresa.

Con le nuove misure taglia tasse, annun­ciate per set­tem­bre, il governo ordi­nerà un ulte­riore dima­gri­mento del pub­blico, cioè un ridi­men­sio­na­mento della spesa per la sanità, i ser­vizi, i tra­sporti, la scuola, la ricerca senza in alcun modo creare nuova occu­pa­zione, senza sti­mo­lare inve­sti­menti pro­dut­tivi. Il lau­ri­smo 2.0 lascerà solo mace­rie.

Que­sto è, a tutti gli effetti, un governo della sta­gna­zione che, per vin­cere le ele­zioni, disperde le risorse scarse dispo­ni­bili. Per accon­ten­tare le imprese che incas­sano soldi in con­tanti, l’esecutivo rinun­cia a dise­gnare poli­ti­che pub­bli­che per lo svi­luppo soste­ni­bile, accan­tona ogni pro­getto per poli­ti­che indu­striali basate sull’innovazione. Men­tre con il Jobs Act invoca con­trolli a distanza sulla vita pri­vata dei lavo­ra­tori, il governo allon­tana la vigi­lanza sulle pra­ti­che tri­bu­ta­rie e con­tri­bu­tive delle imprese, che indi­stur­bate pro­se­guono nelle loro opa­che pra­ti­che cri­mi­no­gene. Un governo di classe.

Una critica argomentata e severa alla responsabilità della "sinistra tremula" nel favorire la trasformazione dell'Italia da repubblica democratica in repubblica totalitaria.

La Repubblica, 25 agosto 2015

Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad un crescendo di dichiarazioni da parte di studiosi e commentatori che definiscono la linea politico- istituzionale di Matteo Renzi plebiscitaria, presidenzialista, autocratica, da uomo solo al comando, autoritaria. Quel che colpisce in queste dichiarazioni è che spesso provengono da persone che, quando nel marzo dell’anno scorso alcuni si permisero di mettere in guardia contro il rischio della nascita di un sistema autoritario, si stracciarono le vesti, gridarono all’intollerabile forzatura, mostrando tra l’altro di non conoscere la distinzione tra “autoritario” e “totalitario”.

Si potrebbe essere soddisfatti di queste tardive resipiscenze, se non fosse che in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute. Non è irragionevole pensare che la tempestiva creazione di un fronte culturale critico avrebbe potuto indirizzare le riforme istituzionali verso risultati più accettabili, considerando che erano venute proposte che andavano oltre il muro contro muro. L’occasione è stata perduta da parte di quelli che furono silenziosi o compiacenti. Ma pure da Renzi, che aveva a disposizione indicazioni che avrebbero consentito di ridurre il tasso antidemocratico dell’accoppiata tra legge elettorale e riforma del Senato.

Grandi le responsabilità della cultura, ma grandi pure quelle di chi, nelle sedi politiche, ha conosciuto un tardivo risveglio. Oggi la minoranza del Pd si è convertita all’intransigenza, si ingegna nel cercare varchi regolamentari nei quali far passare le sue proposte di modifica, ma è stata incapace di mettere a punto una ragionevole strategia nel momento in cui si approvava la legge elettorale e si avviava la lettura della riforma del Senato. Di nuovo incapacità di cogliere la rilevanza del tempo in politica. Non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto.

Comunque si valutino le vicende passate, è difficile negare che siamo di fronte ad una modifica della forma di governo, non accompagnata, come dovrebbe essere in democrazia, da una adeguata considerazione degli equilibri costituzionali complessivi. Problema non nuovo, perché il funzionamento del sistema era stato già gravemente alterato soprattutto attraverso le varie manipolazioni delle leggi elettorali. L’urgenza vera, allora, dovrebbe essere la ricostruzione di rapporti tra gli organi dello Stato tale da restaurare almeno gli equilibri perduti. Questa strada non è stata neppure presa in considerazione; i suggerimenti di modificare almeno alcuni aspetti del nuovo Senato per recuperare qualche brandello di garanzia sono stati respinti persino con tracotanza. Oggi la residua “battaglia” per tornare solo all’elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non accompagnata da altre modifiche. Siamo in presenza di un effetto a cascata. Il Presidente del Consiglio finisce d’essere un primus inter pares e acquista un potere di pieno controllo del Governo. Il Governo declassa il Parlamento a luogo di registrazione.

La nuova combinazione Presidente del Consiglio-Governo-Parlamento consente al partito di governo, grazie al doppio effetto maggioritario della legge elettorale, di impadronirsi del controllo di organi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. L’accentramento di poteri così realizzato rende superflua, almeno nelle intenzioni dichiarate dal Presidente del Consiglio, ogni forma di mediazione politico-sociale – dei sindacati, degli stessi partiti ridotti a macchine elettorali, delle istituzioni culturali, del sistema dell’informazione – e viene così cancellata la rilevanza di quel potere di controllo diffuso nella società che ha sempre giocato un ruolo essenziale nella vita delle democrazie.

Proprio negli ultimi tempi, e di nuovo dopo le ultimissime vicende romane, si è lamentata la perdita degli anticorpi civile e sociali che sono indispensabili per contrastare criminalità, corruzione, privatizzazione delle risorse pubbliche, fuga dal dovere di pagar le tasse. Ma quella perdita è andata di pari passo con l’indebolimento degli anticorpi istituzionali, rappresentati persino con ostentazione come un intralcio all’efficienza e alla rapidità delle decisioni. Qui hanno giocato un ruolo decisivo una cultura politica e una cultura costituzionale che non sono state capaci di declinare quei temi al di là della risposta sbrigativa e pericolosa dell’accentramento dei poteri. Non si sono degnate della minima attenzione le ricerche sulle difficoltà profonde della democrazia, sì che nella proclamata riforma costituzionale manca ogni significativo cenno alla partecipazione e a quella nuova organizzazione dei poteri sociali che va sotto il nome di “controdemocrazia”.

Tutto questo ha fatto sì che l’impresa riformatrice goda oggi di una legittimazione decrescente, che si aggiunge ad una delegittimazione più radicale di cui non si è voluto temer conto. Un cambiamento costituzionale così profondo viene realizzato da un Parlamento eletto con una legge dichiarata illegittima, constatazione che avrebbe dovuto almeno indurre alla massima prudenza e a muoversi sempre con il massimo consenso. Acqua passata? Niente affatto, perché si è costituito un precedente per modifiche costituzionali costruite come esercizio della forza.

A chi intende trasformare la critica in azione politica si oppone, con sempre maggiore insistenza, un solo argomento. State preparando il terreno propizio al successo di Salvini o di Grillo. Lasciamo da parte la non onorata storia di questo argomento, sempre sospetto di intenti ricattatori. Si deve riflettere, invece, sul modo in cui è stata concepita e attuata l’azione di governo. Non vi sono alternative – si è detto e si continua a dire. Muovendo da questa incerta certezza, si è adoperato il muro contro muro, tutti gli interlocutori critici sono stati considerati nemici. Una strategia che fatalmente erode il consenso per il Governo. La democrazia non può essere separata dall’esistenza di alternative, soffre ogni monolitismo e, quando si rende difficile il dialogo o non si accetta la costruzione di nuovi soggetti, si è responsabili dell’astensione di massa, della democrazia senza popolo, o del rivolgersi a chiunque sul mercato si presenti come alternativa.

Il manifesto, 25 agosto 2015)

I crolli di Borsa tra­smessi dalla Cina a tutto il mondo, pur matu­rati nell’ambito della dece­le­ra­zione annun­ciata di quel sistema eco­no­mico, segna­lano anche che la crisi delle eco­no­mie occi­den­tali ini­ziata nel 2007–2008 sta esten­dendo i suoi effetti, rice­ven­done a sua volta inte­ra­zioni nega­tive. Quando nel 2008 si mani­fe­stò quella che fu defi­nita “crisi glo­bale”, veniva pre­ci­sato che si faceva rife­ri­mento ai “soli” paesi svi­lup­pati dell’Occidente capi­ta­li­stico, in par­ti­co­lare agli Usa e all’Europa; il Giap­pone era in sta­gna­zione già da tempo.

Nelle eco­no­mie emer­genti non si avver­ti­rono pro­blemi, anzi, gli indi­ca­tori eco­no­mici con­ti­nua­rono a essere posi­tivi. Però, suc­ces­si­va­mente — men­tre nell’Eurozona l’ottusità della “auste­rità espan­siva” aggra­vava i danni — la cre­scita si è ridotta o annul­lata anche in quasi tutti i paesi Brics. Rima­neva la Cina, che con i suoi ele­vati volumi di cre­scita del Pil e del com­mer­cio con in paesi occi­den­tali atte­nuava i pro­blemi di quest’ultimi.

Ma adesso anche in Cina è sem­pre più evi­dente la fre­nata dello svi­luppo tra­vol­gente degli ultimi anni (dal 14% di cre­scita del Pil nel 2007, le pre­vi­sioni per il 2015 sono anche infe­riori al 5%; le espor­ta­zioni cinesi nel 2014 hanno regi­strato un calo fino al 26% rispetto al 2008 e sono dimi­nuite del 7,3% nei primi sette mesi del 2015).

In Cina emer­gono i limiti di un modello che, pur molto diverso da quello domi­nante nei paesi capi­ta­li­stici occi­den­tali nell’ultimo tren­ten­nio, ha in comune il con­te­ni­mento dei salari e la carenza dei con­sumi interni (pur se a livelli molto più bassi).

C’è stata una accu­mu­la­zione for­zosa volta a recu­pe­rare la sua arre­tra­tezza (capi­ta­li­stica), ali­men­tata con una distri­bu­zione favo­re­vole ai pro­fitti (pub­blici e pri­vati) cana­liz­zati in nuova capa­cità e inno­va­zione pro­dut­tiva, spin­gendo gli stessi red­diti da lavoro a finan­ziare in Borsa le imprese e lo stato (il cui debito è pari al 280% del Pil).

L’elevato aumento della capa­cità pro­dut­tiva e i bassi con­sumi interni hanno deter­mi­nato anche un ele­vato sur­plus nel com­mer­cio estero e il rein­ve­sti­mento dei pro­venti valu­tari in titoli stra­nieri, soprat­tutto Usa. Il modello di svi­luppo cinese ha dun­que con­tri­buito al feno­meno mon­diale della forte cre­scita di debiti e cre­diti che ha con­tri­buito alla crisi glo­bale, ma in modo diverso (e for­te­mente con­trol­lato dallo stato) dalla finan­zia­riz­za­zione delle eco­no­mie occi­den­tali. In que­ste ultime gli squi­li­bri nel set­tore reale erano attu­titi dal cre­scente inter­scam­bio con la Cina. Tut­ta­via, le per­si­stenti cause della crisi dei paesi capi­ta­li­sti­ca­mente svi­lup­pati hanno finito per tra­smet­tere i loro effetti nega­tivi anche al sistema cinese.

La dece­le­ra­zione dell’economia cinese ha cause pro­prie, ma un con­tri­buto è ascri­vi­bile alla per­se­ve­rante crisi delle eco­no­mie occi­den­tali che ha finito per assu­mere una dimen­sione effet­ti­va­mente glo­bale. Que­sta evo­lu­zione nega­tiva è stata accen­tuata dalle poli­ti­che pre­va­lenti nell’Euro zona, da mesi con­cen­trate sui vin­coli da imporre alla Gre­cia (ma con intenti dimo­stra­tivi per gli altri paesi peri­fe­rici e la stessa Fran­cia) per assi­sterla con un inter­vento da 86 miliardi di euro (in buona parte da uti­liz­zare per la resti­tu­zione di debiti alla stessa Troika) che, tut­ta­via, rap­pre­senta circa un decimo di quanto le Borse euro­pee hanno perso nella sola set­ti­mana scorsa e ieri per effetto della “sin­drome cinese”.

Una simi­li­tu­dine signi­fi­ca­tiva sulla quale dovreb­bero riflet­tere sia i fau­tori del modello tede­sco sia chi auspica la rot­tura dell’euro è che nell’Unione euro­pea e in Cina si stanno evi­den­ziando i pur pre­ve­di­bili pro­blemi gene­rati dalla ina­de­gua­tezza — pur se a livelli diversi — dei salari e dei con­sumi, e dalla dif­fi­coltà di com­pen­sarne l’effetto nega­tivo sulla domanda con le espor­ta­zioni. Di fronte alla peri­co­losa ten­denza delle sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive tra grandi aree — Usa, Cina, Giap­pone, Unione euro­pea – i paesi mem­bri di quest’ultima rischiano di par­te­ci­parvi, per di più, in ordine sparso, se tor­ne­ranno dall’euro alle valute nazionali.

La con­cen­tra­zione degli intenti espan­sivi sulla poli­tica mone­ta­ria sta ali­men­tando una ingente offerta di liqui­dità che, per­ma­nendo gli osta­coli di natura reale alla ripresa e alla sua riqua­li­fi­ca­zione, rifor­ni­sce la spe­cu­la­zione finan­zia­ria e crea nuove “bolle”, anche in Cina, dove ini­ziano ad esplo­dere. Nel dibat­tito teo­rico si è tor­nati a valu­tare l’ipotesi che sia in atto una “sta­gna­zione seco­lare” (come nella grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso, con moti­va­zioni arric­chite dalle spe­ci­fi­cità della crisi attuale), ma lo si fa – per lo più — nei con­gressi acca­de­mici e in una “ras­si­cu­rante” ottica di lungo periodo che sem­bra defi­nire un piano paral­lelo di discus­sione scon­nesso dalle vicende e dalla poli­ti­che eco­no­mi­che correnti.

Come da tempo suc­cede i poli­tici cre­dono di avere altro cui pen­sare, ma — avver­tiva Key­nes — «sono di solito schiavi di qual­che eco­no­mi­sta defunto».

Con una lettera al direttore del giornale la presidente della Camera dei deputati replica al presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, con garbo, ma con fermezza.

La Repubblica, 25 agosto 2015, con postilla

Caro direttore, ha ragione Jean-Claude Juncker: l’Europa che vogliamo non è quella dei muri. Apprezzo molto il fatto che il Presidente della Commissione europea abbia preso una posizione così netta. Una posizione così chiara a proposito di un tema tanto delicato e importante, che rappresenta uno dei cardini del nostro sistema comunitario e dell’Europa di domani.

Concordo con Juncker: neanche io voglio l’Europa dei muri. E non solo perché sarebbe davvero una bruttissima Europa. Un’Europa che rinnega i valori che l’hanno resa una grande protagonista della storia e un’esperienza unica agli occhi del mondo. Ma anche perché la politica dei muri sarebbe fallimentare. Non solo moralmente inaccettabile, ma politicamente impraticabile e perdente. Nessun muro — né quelli d’acqua del Canale di Sicilia e dell’Egeo, né quelli di filo spinato tra Grecia e Macedonia e tra Ungheria e Serbia — può infatti impedire a donne e uomini che lasciano contesti di guerra e regimi dittatoriali di conquistare un diritto al quale nessuno di noi sarebbe disposto a rinunciare: il diritto a vivere in pace e sicurezza. È questo che non capiscono, anzi fingono di non capire, gli “spacciatori” di paura e di demagogia che, un po’ ovunque in Europa, lucrano consensi elettorali chiedendo in modo ipocrita che i rifugiati vengano “aiutati a casa loro”: come se non sapessero che quella casa non c’è più, distrutta dalle bombe o presidiata dagli aguzzini di regime. Gli stessi “spacciatori” che, in Italia, vogliono far credere che gli immigrati “vengono tutti da noi”: tacendo che, a fronte delle 30mila domande d’asilo registrate qui nei primi 7 mesi del 2015, la Germania ha già quasi raggiunto quota 200mila.

Le migrazioni forzate come quelle che si sviluppano oggi in molte parti del mondo non si impediscono con i muri, ma con le soluzioni. Cioè con la politica, mobilitandosi per porre fine ai conflitti. Le guerre si possono fermare, se c’è la volontà di farlo. Ma non sembra che oggi il mondo sia interessato a fare di più per evitare i massacri in Siria e in Iraq, la violenza in Somalia, la dittatura in Eritrea, per citare alcuni casi. Eppure noi Europei, più degli altri, dovremmo aver memoria degli orrori delle guerre. Non ce ne ricordiamo abbastanza, ma è l’Europa che ci ha garantito 70 anni di pace. Siamo figli di conflitti mondiali che per due volte in 30 anni avevano ridotto il continente ad un cumulo di macerie, con decine di milioni di morti e altrettanti di rifugiati e sfollati. È l’Europa che ci ha dato sicurezza, libertà e benessere, proprio ciò che manca a coloro che oggi ci chiedono protezione.

Certo, il presidente Juncker fa bene a sottolineare che nessuno Stato può regolare questo flusso da solo e che per farlo ci vuole un approccio europeo da mettere in atto senza indugi. È apprezzabile lo sforzo della Commissione, che per la prima volta ha indotto gli Stati membri ad una gestione condivisa degli arrivi dei rifugiati.

Ma non basta. L’asilo è uno dei terreni sui quali è più evidente la necessità di una maggiore integrazione politica, per arrivare ad un unico sistema di regole e di standard di assistenza. Contro i costruttori di muri, bisogna uscire da una timorosa subalternità psicologica e rivendicare più Europa. Ma un’Europa diversa, che “cambi marcia”, che la smetta di farsi additare come problema quando è invece la soluzione, l’unica possibile: per l’immigrazione come per l’economia, per la difesa come per la politica energetica. Un’Europa che sia attenta ai bisogni dei cittadini, che non trascuri più l’impatto sociale delle misure finanziarie, che ponga crescita ed occupazione come obiettivi prioritari delle proprie scelte. Perché se le persone sono gravate dalla disoccupazione, dai sacrifici e dalla mancanza di futuro, dell’Europa e dei valori che l’hanno ispirata non sanno che farsene. E risuona lontana, incomprensibile, la passione che animò appena poche generazioni fa i padri fondatori, capaci di concepire sotto il frastuono delle bombe il sogno di un continente unito.
Verso quel progetto abbiamo tutti un debito, che è nostro interesse saldare al più presto. Ma farlo spetta soprattutto ai leader politici, se avranno la lungimiranza di accelerare nel processo di integrazione europea e di non farsi schiacciare dal quotidiano sondaggio nazionale. La solidarietà - tra gli europei, e con gli altri esseri umani che bussano ai nostri confini — non cresce spontanea, soprattutto ai tempi di una crisi economica tanto prolungata. È un sentimento che la politica e le istituzioni - comunitarie, ma anche dei singoli Stati membri — devono saper coltivare e far crescere, dimostrando che solo insieme si esce da problemi complessi e sovranazionali. A dispetto dei demagoghi e delle loro semplicistiche ed ingannevoli ricette.
Delle parole di Boldrini vogliamo sottolineare due aspetti: il forte richiamo alla necessita di costruire un'Europa diversa da quella che i poteri dominanti stanno costruendo, e l'impossibilità di distinguere, tra i soggetti dell'esodo biblico in atto, i "profughi", dai "migranti", gli uni e gli altri dai "richiedenti asilo", e via via discriminando per ridurre l'entità della tragedia in corso, e con essa le colpe e le responsabilità del Primo mondo. Come abbiamo scritto ieri a proposito dell'orazione di Jean-Claude Juncker.
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