Syriza non ha abbandonato i suoi ideali e i suoi principi di sinistra» ha ribadito Alexis Tsipras, rivolgendosi ai membri del partito che hanno partecipato alla prima giornata della Conferenza nazionale organizzata ad Atene per decidere la linea e le priorità della sinistra radicale ellenica. Il leader greco ha chiaritoche non intende cedere ad altri il ruolo ed il privilegio di poter rappresentare «la vera sinistra». «Siamo noi, il governo di Syriza, che abbiamo aperto le porte al referendum, assumendoci rischi e responsabilità. Il no, la sua vittoria, appartiene soprattutto a noi», ha sottolineato con forza. Il messaggio è chiaro: quello su cui insisterà la Coalizione della sinistra radicale ellenica, in questa campagna elettorale, è cercare di porre ciascuno davanti alla realtà, con una alternativa e una domanda molto chiara: «Chi volete che gestisca la trattativa sulla riduzione del debito? Di chi vi fidate?». Non a caso, Tsipras ricorda che i socialisti e il centrodestra hanno sempre ripetuto che il debito greco era gestibile.
Quanto alla sinistra e alla decisione di 25 deputati di Syriza di uscire dal partito e dare vita a Unità Popolare, Tsipras ha chiarito che non intende aprire «una guerra civile a sinistra», anche se «il suo governo è caduto a causa di colpi inferti dall’interno». L’avversario, insomma, rimane la destra, e tutti coloro che hanno appoggiato un sistema politico corrotto e clientelare. Mentre la lotta contro l’austerità non è stata assolutamente archiviata.
Secondo quanto filtra dal quartier generale di Syriza, nelle prossime tre settimane ci si concentrerà principalmente su tre punti: riforma della pubblica amministrazione per renderla più efficiente, ma senza licenziamenti, misure alternative ai tagli che colpirebbero le classi sociali più deboli e proposte dettagliate sulla riduzione o alleggerimento del debito. Tsipras, ovviamente, punta anche sul carisma della sua leadership, nella convinzione che il margine di vantaggio sui conservatori possa aumentare in modo sostanziale, battendosi con forza chi vorrebbe far passare alla storia il governo della sinistra in Grecia come una breve parentesi.
Nella giornata di oggi sono attesi gli interventi di tutto il gruppo dirigente del partito, in modo da permettere a Syriza di trovare spunti e idee per aprirsi nuovamente alla società e «continuare il cammino appena intrapreso», per dirla con le parole del leader greco.
Alla Conferenza nazionale è arrivata una lettera di sostegno a Syriza da parte dei Verdi (già al governo) e pure il ministro delle Finanze Euclid Tsakalotos, dato in bilico, ha sciolto la riserva: «Dobbiamo combattere collettivamente la battaglia per superare l’isolamento», ha detto, ricevendo molti applausi dalla platea del mini-congresso. In un intervento a una conferenza organizzata dall’Istituto Levy ad Atene, il vicepremier Yanis Dragasakis (l’economista che ha sostituito Yanis Varoufakis nei negoziati con i creditori prima che questi si dimettesse), ha detto che «il Memorandum dovrebbe essere eliminato, non solo per le sue conseguenze sociali ma perché viola i principi democratici» e che «Syriza è un punto di riferimento in Europa», per questo non sarà sola nella sua battaglia, e che la soluzione non è in un «ripegamento nazionalistico», come vorrebbero i fuoriusciti di Unità popolare. Poi, in un’intervista al Quotidiano dei redattori, ha spiegato che «il programma non sarà solo anti-Memorandum, ma mirerà a combattere la disoccupazione, alla ricostruzione istituzionale dello Stato e a promuovere un diverso modello di produzione».
Le critiche più forti al gruppo dirigente del partito sono arrivate invece dal cosiddetto «gruppo dei 53», la minoranza di sinistra che sosteneva Tsipras ma contraria alla firma del Memorandum. Il portavoce Panos Lambrou ha cominciato il suo intervento alla Conferenza nazionale dicendo «non siamo qui per applaudire», ha segnalato il rischio di una «mutazione» della Syriza di governo, ha criticato il precedente governo per alcune cose non fatte, come la «mancata democratizzazione delle forze di polizia», e ha segnato alcune «linee rosse» che la componente interna considera invalicabili: «Nessuna cooperazione con Nea Democratia, Pasok e Potami, non accetteremo l’applicazione di quelle parti del Memorandum che consideriamo offensive, diremo no a un programma in cui non è previsto un piano di disimpegno dall’accordo».
Assenti, naturalmente, i dissidenti confluiti in Unità popolare, che ieri fatto appello a tutte le organizzazioni della sinistra radicale. Parola d’ordine: «Rompere con le politiche neoliberali dell’Ue» e se necessario arrivare a un referendum per chiedere alla popolazione se vuole rimanere nell’euro o tornare alla dracma.
L'indignazione non ha mai fine. Soprattutto per chi sa che i beneficiari della miseria da cui fuggono quelli che oggi respingiamo siamo stati noi stessi, per qualche secolo.
Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2015
La parola “Olocausto” l’ha detta Marco Pannella. Sapeva benissimo che era ovvia, ma i leader europei, impegnati e mobilitati a esigere certi debiti dalla Grecia, avevano altro a cui pensare. Se la Grecia non paga i debiti, la sua cacciata immediata dall'Europa (Grexit) è invitabile . S e l’U ngheria alza una barriera di strati di filo spinato, alta quattro metri e lunga centinaia di chilometri, per impedire ogni passaggio umano dalla Serbia (dunque dalla Siria) il fatto è ordinaria politica interna. E benché sia il confine dell’Europa (pensate, l’Europa di Spinelli, Colorni, Rossi), all’Europa non importa nulla di essere complice di strage. Persino l’America, in un modo non proprio esemplare, ci manda un appello alla lotta contro i perfidi trasportatori di morte (i famosi trafficanti) e non una parola sui nostri confini di morte e sul blocco totale e assoluto di qualunque corridoio umanitario.
Sì, la parola Olocausto è la parola giusta. Talmente giusta che Angela Merkel, che fino ad ora si era dedicata solo al debito greco, si è svegliata di soprassalto e ha ordinato l’accoglienza, la più larga possibile, per i siriani. Ma finora neppure lei ha avuto qualcosa da dire sull’immorale e vergognoso blocco ungherese, che ha trasformato in un lager i confini dell’Unione Europea. Neanche il presidente Junker ha avuto da obiettare, E la ice presidente Mogherini, che è l'Alto rappresentante per la politica estera europea dell’Ue, non si è mai presentata alla frontiera di morte ungherese, per aprire la porta sbarrata dell’Europa.
Sapete perché un decente intervento di chi rappresenta l'Europa non c'è stato ? Perché gli scafisti e i trafficanti di esseri umani sono tra noi. Sono i Salvini, i Le Pen, gli Orbán, i ministri degli interni dei migliori Paesi europei, che scatenano le loro polizie per stanare gli esseri umani che potrebbero salvarsi, che sono già salvi, per ricacciarli o imprigionarli per il reato di avere cercato di garantire la vita a se stessi e ai propri bambini. Trafficanti e scafisti esistono, come esiste una costosissima flotta militare che occupa il Mediterraneo, e avrebbe già sparato agli scafisti, se non fosse tenuta a bada da navi come la “Phoenix” della famiglia Catambrone, che ha salvato, da sola, migliaia di naufraghi, o la nave dei Medici senza frontiere. Infatti è in vigore il blocco assoluto voluto con forza dai “piazzisti di morte” di cui ha parlato il vescovo Galantino.
Ma qui occorre tornare alle ossessioni di Pannella. Perché tanta criminalità e un così immensoguadagno intorno alla droga? Perchè il proibizionismo ha creato il paradiso della malavita organizzata. Ecco ripetuto il modello, a cura dei nuovi piazzisti: bloccare, proibire, chiudere. Se non esiste alcun modo di accostarsi legalmente all’Europa (salvo il visto in consolati già devastati e abbandonati da anni), perché non dovrebbe nascere un reticolato illegale, pericoloso e privo di scrupoli, per quel passaggio verso la salvezza che non può aspettare la prossima stagione e un cambiamento del torvo umore europeo?
E poiché i “buoni”, in Europa, non hanno il coraggio che ha avuto Monsignor Galantino (redarguito per settimane) e continuano a trattare con i piazzisti di morte come fossero politici e come se la condanna a morte di milioni di profughi fosse una delle opzioni possibili, ecco che l’Ue, e ciascuno dei suoi governi, è forzata a non avere alcuna politica, dedicandosi a danzare intorno al palo degli scafisti cattivi e dei trafficanti spietati, senza badare al fatto che quella gente non è che una agenzia criminale creata da noi. E anzi siamo noi stessi, con la nostra assenza, ignavia e tolleranza del male.
L’intera organizzazione del traffico umano sarebbe sciolta, prima da un corridoio umanitario nei Balcani e da un traghetto legale e protetto da tutta quella flotta armata, verso l’Europa. È meglio che vengano tra noi (comunque lo fanno) coloro che abbiamo condannato a morte e che nella traversata hanno perso figli o genitori, o coloro che abbiamo portato in salvo con i loro bambini? L’Onu si è fatta viva. Ci sarà un summit dedicato all’immenso esodo il 30 settembre. Non ci resta che la finta meraviglia di fronte ad ogni nuovo carico di morti.
«I verbali dell’eritreo che collabora con i pm su Ermias Ghermay: lui è in Libia, i soldi in Europa “La moglie riscuote le quote degli imbarchi con trasferimenti di denaro estero su estero”».
LaRepubblica, 30 luglio 2015
Questo sta ripetendo ai pubblici ministeri di Palermo e ai poliziotti dello Sco un uomo che fino ad aprile era pure lui un trafficante di esseri umani, uno dei più esperti. Dopo essere stato arrestato, è diventato il primo pentito della tratta. Nuredin Wehabrebi Atta, nato ad Asmara, Eritrea, il 12 dicembre 1984. E questa è la sua verità: i soldi del signore dei trafficanti, Ermias Ghermay, sono nascosti nel cuore dell’Europa. L’Europa che per tanto tempo ha fatto finta di non vedere l’esodo. L’Europa che ancora discute sul da farsi.
Adesso, le parole di un uomo che racconta sottovoce di aver visto troppo orrore, troppo sangue, sono quasi un atto d’accusa contro l’Europa che non si è accorta, che non ha fermato i trafficanti. Dice Atta: «Dovete cercarli in Germania tutti i soldi che Ermias guadagna». Aggiunge: «Lui resta in Libia per gestire gli affari, che a Tripoli vengono spartiti fra quattro gruppi. Lì non lo prenderete, perché gode di protezioni nella polizia. Potete però cercare i suoi soldi, e dovete seguire la moglie, si chiama Mana Ibrahim ». Il pentito la segnala «nella zona di Francoforte, dopo essere stata a Stoccolma». E spiega il suo ruolo nell’organizzazione: «Raccoglie il denaro per conto del marito, attraverso il me- todo hawala ». Ovvero, quel sistema di trasferimento di denaro fondato sulle legge islamica tradizionale che prevede una rete di mediatori a cui consegnare il denaro. «Perché soltanto il 5 per cento dei 1.500 dollari richiesto per il viaggio viene pagato in contanti dai migranti - chiarisce Atta - il resto arriva ad Ermias attraverso hawala , dentro una rete di fiducia che si sviluppa estero su estero». Una rete attorno alla Germania, un’indicazione precisa che orienta le indagini e corregge le ipotesi fatte in questi mesi sui forzieri del superlatitante Ermias, ipotesi che parlavano di Svizzera e Israele.
Ma com’è costituita la rete finanziaria dei trafficanti? Per il pool coordinato dal procuratore Franco Lo Voi e dall’aggiunto Maurizio Scalia è diventata la chiave dell’indagine, la chiave per tentare di fermare o indebolire, almeno questo, i trafficanti di uomini. «Bisogna seguire i soldi, era il metodo del giudice Falcone», ha ribadito il pm Geri Ferrara nella sede dell’Aja di Eurojust, alla più grande riunione di coordinamento fra magistrati europei organizzata negli ultimi anni. Cinquanta partecipanti provenienti da otto paesi. E dopo la plenaria, a luglio, si sono susseguiti incontri bilaterali fra i pm di Palermo e i colleghi di Norvegia, Svezia, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Francia. Le rivelazioni di Atta e le indagini del servizio centrale operativo della polizia diretto da Renato Cortese sono già diventate spunto per tante altre inchieste in giro per l’Europa. Per stringere il cerchio attorno ai trafficanti.
Non è affatto facile. Chi ha ascoltato Atta dice però che i suoi verbali sono diventati molto di più di un documento giudiziario. Sono come i verbali dei primi pentiti di mafia, molto di più di un’elencazione di nomi e fatti. Sono la chiave per comprendere un fenomeno sconosciuto.
Ora, il cittadino straniero più protetto d’Italia fornisce agli inquirenti il nome di un amico di Ermias che collabora con la moglie. E spiega: «I fiduciari, quelli che movimentano il denaro, sono generalmente dei commercianti ». Un indizio per cercare di intercettare il flusso dei soldi in Germania. E un altro indizio ancora. «So pure che Ermias ha una società in Etiopia, che si occupa di vendere auto». Il tesoro dei trafficanti è ben protetto.
Anche Atta è stato in Germania. «Per un certo periodo i migranti mi contattavano a Roma, il numero gli veniva dato in Libia, e io li portavo in Nord Europa ». Prezzo del servizio, da 400 a 800 euro. «Ero io a decidere le modalità più sicure del viaggio. Bus, treno o auto». Atta andava spesso a Monaco, per quei viaggi prendeva il massimo della tariffa, che poi versava all’organizzazione. A lui restava uno stipendio, come fosse un normalissimo dipendente: «Mi davano 4000 euro al mese. E mi bastavano per vivere».
Grazie allo spettacolo massmediatico, mentre aumenta la tragedia si dilata la passività e l’abitudine alla notizia. Cosí dimentichiamo che è nostra la responsabilità di questo esodo. Fuggono dalle nostre guerre e dalla nostra riduzione in miseria di paesi in realtà ricchissimi di materie prime e terra.
Il manifesto, 30 agosto 2015
Quanti morti oggi? Intanto lo spettatore massmediatico, di fronte alle stragi di migranti nel Mediterraneo e — scoprono adesso — nel cuore d’Europa dalla rotta balcanica, gira pagina o cambia canale perché è il solito spettacolo, estremizzato «solo» dal numero delle vittime che cresce ogni giorno di più.
Così, paradossalmente, mentre aumenta la tragedia si dilata la passività e l’abitudine alla notizia. Del resto sempre più accomunata ad un programma seriale e raccontata con le modalità del reality: ogni canale tv ormai si prende in consegna sotto le telecamere siglate la sua famiglia di profughi, la segue fin dove la vuole seguire e poi tanti auguri (senza dire che la maggior parte dei disperati non arriverà a destinazione e allora le telecamere saranno spente). Sembra addirittura giornalismo-verità, invece altro non è che la macrabra riedizione di un reality, di un «asso nella manica» giornalistico. Certo si può perfino avere l’illusione, guardando o raccontando, che quel frammento di notizia o di immagine, siano il solo sostegno immaginario che possiamo dare, almeno in assenza di un intervento reale del potere politico che non fa nulla o peggio, allestendo respingimenti, restringendo diritti d’asilo, selezionando, anche per nazionalità, profughi sicuri (dalle guerre) e quelli insicuri (dalla fame), esternalizzando l’accoglienza in nuovi universi concentrazionari, cioè tanti campi di concetramento nel Sud del mondo, preparando nuove avventure belliche.
Ma non è un reality quello che accade sotto i nostri occhi stanchi. Qui è stravolto lo stesso principio di realtà e il giornalismo fin qui realizzato — tantomeno quello embedded — non può bastare. Siamo di fronte ad una svolta epocale che si consuma nella tragedia di centinaia e centinaia di milioni di esseri umani, i nuovi dannati della terra, in fuga da guerre e miseria. E lo spettacolo a lieto fine non c’è. C’è solo la passività dilagante. Da che deriva? Dal semplice fatto che ha vinto l’ideologia della guerra umanitaria che, tra gli altri criminali effetti collaterali, non solo assume la guerra come merito ma cancella le responsabilità dei risultati disastrosi.
Invece è nostra la responsabilità di questo esodo. Fuggono dalle nostre guerre e dalla nostra riduzione in miseria di paesi in realtà ricchissimi di materie prime e terra.
Non siamo di fronte a cataclismi naturali, sui quali peraltro cominciamo ad individuare anche responsabilità specifiche. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale, nell’ordine temporale, Iraq, Libia e Siria (senza dimenticare la Somalia diventata simbolo dell’attuale balcanizzazione del mondo) ha provocato la cancellazione di almeno tre società fino ad allora integrate, con una convivenza etnico-religiosa millenaria; oltre ad attivare il protagonismo jihadista, adesso nemico giurato ma alleato, finanziato e addestrato in un primo tempo dell’Occidente contro regimi e despoti fin lì, anche loro, alleati dell’Occidente e dei suoi equilibri internazionali, alla fine spremuti e occupati militarmente. Se non si afferma la convinzione che la responsabilità è delle guerre degli Stati uniti e dell’Europa, nessuno sentirà davvero il bisogno di intervenire a riparare o almeno a raccogliere i cocci.
Vale allora la pena ricordare che sono un milione e 300mila le vittime di alcune delle «nostre» guerre al terrore dopo l’11 settembre 2001 in Afghanistan, Iraq e Pakistan, secondo i dati del prestigioso «International Physician for the Prevention of Nuclear War», organismo Nobel per la pace negli anni ’80. Un rapporto per difetto che esclude le guerre più recenti, la Libia, la Siria, l’ultima di Gaza. Che la terza guerra mondiale non sia già cominciata? È una vera ecatombe.
Ora non contenti di tutto questo prepariamo con il governo Renzi e per bocca del grigio Gentiloni e dell’annunciatrice Ue Mogherini, dimentichi dei risultati dell’ultima del 2011, una nuova guerra in Libia «con l’appoggio Onu» e «contro gli scafisti» con tanto di previsione di «effetti collaterali che possono coinvolgere innocenti». Il tutto per finanziare da lontano nuovi campi di concentramento, come già con Gheddafi e poi con il governo degli insorti di Jibril. A questo serve l’impegno ambiguo della diplomazia italiana perché nasca l’improbabile governo unitario libico per un paese diviso ormai in quattro fazioni e con L’Isis all’offensiva. Dimenticando altresì che l’ultima guerra oltre ai profughi di oggi produsse subito la fuga di due milioni di lavoratori subsahariani, africani e asiatici che lì lavoravano e che ancora vagano nell’area. Ecco dunque che l’ideologia della «guerra umanitaria» prosegue il suo corso quasi in automatico. È così vero che in pieno ferragosto il Corriere della Sera — la cui storia guerrafondaia sarebbe da studiare a scuola — ha sentito il dovere di scomodare il punto di vista critico di Sergio Romano. Anche lui — che resta comunque «il miglior fabbro» — alla fine, con mille e ragionevoli riserve, conviene che «sì la guerra si può fare»: soprattutto perché in gioco c’è l’approvvigionamento del petrolio dell’Eni. I conti tornano. Ma se la guerra deve essere «umanitaria» che cos’è dunque la disumanità che abbiamo prodotto e che muore affogata o chiusa nei Tir come carne da macello avariata mentre in cammino tenta di ridisegnare, abbattere, sorpassare le nuove frontiere e muri del Vecchissimo continente?
Qui forse le ragioni dell’assuefazione generale. Resta insopportabile la passività di chi si considera alternativo e di sinistra. Chi lavora per un mondo di liberi ed eguali si trasformi in corridoio umanitario, prepari l’accoglienza, attivi il sostegno, diventi camminante, definisca la sua sede organizzativa finalmente europea tra Lampedusa, i porti del Sud, Ventimiglia, Calais, Melilla e la frontiera ungherese da abbattere. il manifesto ha lanciato in piena estate il dibattito che consideriamo necessario se non decisivo C’è vita a sinistra? Speriamo di non trovarla solo a chiacchiere.
«Il diritto di asilo è soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo dovrà essere di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale»
La Repubblica, 29 agosto 2015, con postilla
LA questione dell’immigrazione sarà, più della crisi economica, determinante per i destini del progetto di integrazione politica europea. Un nesso nel quale si scontrano beni non mercanteggiabili, come le ragioni della prudenza politica, che è alla base delle frontiere e non può non preoccuparsi della stabilità della popolazione degli stati, e le ragioni di umanità che impongono a tutti il soccorso ma anche la consapevolezza che la giustizia redistributiva globale non è più procrastinabile.
Questa immigrazione è però anche un terreno di semina per la criminalità organizzata internazionale che ha trovato nella disperazione dei migranti una fonte ricca e infinita di guadagno, schiavizzandoli con debiti che una vita di lavoro non basterà ad appianare. Infine, essa diventa il bersaglio facile di una propaganda xenofoba che in alcuni paesi si tinge senza vergogna di nazismo. Queste diverse e contraddittorie implicazioni fanno della più massiccia crisi migratoria dalla Seconda guerra mondiale una questione di emergenza che richiede iniziative non solo umanitarie, ma politiche e giuridiche.
Alla fine della guerra venne fondata l’agenzia dell’Onu per i rifugiati proprio per aiutare i milioni di europei sradicati dal conflitto a ritornare a casa e riacquistare uno status legale e politico che li proteggesse e li tutelasse. Quali sono le iniziative oggi per accogliere i migranti dai Paesi non europei? Questa crisi migratoria, all’opposto di quella del dopoguerra, provoca la chiusura delle frontiere, i respingimenti con interventi militari contro persone che cercano scampo in questo continente dalla morte certa nei loro Paesi.
Certo, tra i migranti ci sono non solo i rifugiati ma anche gli immigrati economici. E nonostante le convenzioni internazionali abbiano cercato di fare rispettare agli Stati questa distinzione, i guardiani delle frontiere la ignorano spesso. Qui sta la responsabilità di quei Paesi europei che alzano i muri di filo spinato per fermare tutti, senza distinzione. Come ha detto il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, in un’intervista a Repubblica , il populismo di Stato stravolge i valori per cui è nata l’Europa e deve essere contrastato.
«Dimostriamo solidarietà ai nostri vicini, come la Turchia, la Giordania e il Libano, ospitando 20mila profughi», ha detto, e soprattutto «concordiamo misure per il rimpatrio che agevolino il ritorno al paese d’origine delle persone cui non viene riconosciuto il diritto di restare in Europa». Ecco il nodo della politica europea dell’immigrazione: decidere chi merita e chi non merita di restare e imporre ai paesi questa distinzione, per evitare la chiusura indiscriminata.
La discussione in corso fra i governi europei ha in progetto pertanto la ricerca di una soluzione giuridica a questo nodo, per legittimare la costituenda polizia europea di frontiera con un diritto che discenda dall’Europa direttamente, non dai governi nazionali. Una definizione europea del diritto di asilo dunque, e non solo per ragioni umanitarie. Ma anche per meglio fronteggiare l’altra immigrazione, quella “economica” come suggerisce Juncker.
Una politica europea delle frontiere è necessaria perché è ormai chiaro a tutti che questa emergenza migratoria non è governabile dai singoli Paesi. Come quella economica anche questa crisi mette a nudo l’impotenza delle sovranità nazionali e il bisogno di un’Europa politica. Dunque, muovere l’arma del diritto per governare un’emergenza che ha sempre più i caratteri della sicurezza europea.
La dichiarazione di un diritto europeo d’asilo è un fatto di grandissima importanza. Lo è innanzi tutto per le persone che ne godranno.
Ma anche per l’Europa, poiché scrivendo un diritto di asilo essa aggiunge un tassello decisivo alla costruzione di una cittadinanza europea. Infatti, lo stato di rifugiato è definito in relazione non solo all’umanità da proteggere, ma anche al soggetto che dà rifugio - il quale non è un ente morale assistenziale, ma uno Stato politico - sono i cittadini europei che si impegnano a livello sia di Stati membri che di Europa. La decisione di istituire un diritto europeo di asilo è politica a tutti gli effetti dunque, anche se l’autorità che la mette in essere non è a tutti gli effetti un sovrano democratico.
E come decisione politica essa ha due facce, sulle quali si deve riflettere: da un lato, il diritto di asilo dà all’Europa un’arma per potersi imporre al di sopra delle legislazioni dei paesi e quindi superare la discrepanza tra i vari codici nazionali; dall’altro, questo diritto dà alla polizia europea di frontiera lo strumento per distinguere tra i rifugiati e gli immigranti economici (da respingere se non entrano con regolari permessi di lavoro). E ciò prova come il diritto di asilo diventi un importante tassello nella costruzione della cittadinanza europea perché consente di legittimare esclusioni e rimpatri, non solo accettazioni.
In conformità con la natura della cittadinanza, che mentre stabilisce l’inclusione determina altresì le condizioni dell’esclusione. E a tutt’oggi, la povertà e la destituzione non sono ragioni sufficienti a dare rifugio.
Il diritto di asilo è quindi una soluzione necessaria ma non risolutiva, perchè lascia in ombra le ragioni dei non-rifugiati, di chi cerca una vita migliore e scappa dalla fame. Il passo successivo per un’Europa coerente ai suoi fondamenti dovrà dunque essere quello di impegnarsi a promuovere una giustizia redistributiva globale.
postilla
Il problema è che assumere le ragioni dell'emergenza rinviando al domani «le ragioni dei "non rifugiti"»significa non affrontare il problema reale: che è quella della invivibilità di vasta regioni del pianeta (dall'intera Africa all'Asia minore), regioni nelle quali per di più rimangono attive le forze e i meccanismi che ne hanno determinato l'immiserimento. Se non si affronterà in questo quadro la stessa questione dell'emergenza diverrà cronica, perciò stesso ingovernabile. Occorre dire che vedere solo l'emergenza, e discriminare i "richiedenti asilo" dagli altri è l'atteggiamento più conforme all'indole degli attuali governanti, nei quali la miopia è divenuta una minorazione così consistente da essere entrata nel loro patrimonio biologico.
Combattere per evitare che il rullo mediatico, macinando morti a pranzo e cena, completi l'assuefazione ai profughi ammazzati; impegnarsi per gestire l'accoglienza, soprattutto sulle frontiere più esposte.
Il manifesto, 29 agosto 2015
Il rischio di digerire sempre più rapidamente le notizie che ogni giorno la televisione porta nei nostri tinelli è fortissimo. Il rullo mediatico macina i morti a pranzo e a cena e, lo sappiamo, l’abitudine è capace di rendere sopportabili cose spaventose. Del resto bastava sfogliare i giornali di ieri per vedere che l’eccitazione della grande stampa era tutta per la “questione romana”, mentre le decine di morti asfissiati sul Tir che trasportava uomini, donne e bambini dall’Ungheria all’Austria faticava a guadagnare i grandi titoli di prima pagine. Perfino giornali progressisti e sempre in prima linea contro le malefatte della casta, relegavano la strage del camion in poche righe. Naturalmente con le eccezioni del caso, a confermare la regola, e fatti salvi i giornali della destra che contro i migranti sparano titoli forcaioli per lucrare qualche copia lisciando il pelo ai peggiori sentimenti xenofobi e razzisti di lettori e elettori.
Ma l’informazione ai tempi della rete può anche essere l’antidoto al prevalere di assuefazione e abitudine. Come dimostra il caso dell’attivista islandese, promotore di una raccogliere fondi a favore di un uomo, rifugiato palestinese, proveniente dal campo profughi siriano di Yarmuk, a Damasco. Grazie all’immagine di Abdul che vende penne biro all’incrocio di una strada di Beirut con la figlioletta in braccio, il web ha prodotto un felice cortocircuito e scatenato una gara di solidarietà.
Tuttavia non è solo l’informazione a essere chiamata in causa. Subito dopo viene la politica e in primo luogo quella che si richiama ai principi di libertà e uguaglianza della sinistra.
Come è possibile che lungo i muri che l’Europa costruisce sulle frontiere di terra non ci siano manifestazioni di protesta accanto all’esodo di chi fugge e muore? Perché davanti a quel filo spinato piantato dal regime reazionario del premier ungherese Orbàn non c’è una carovana di quei militanti che dicono di battersi per favorire finalmente l’apertura delle frontiere della Fortezza– Europa?
Al punto in cui siamo nessuno più può dire di non sapere perché tutto l’orrore e il dolore è in onda, e non siamo più in pochi a vedere quel che accade. Persino leader europei come Merkel devono scendere in campo politicamente e personalmente per dire che i vecchi trattati (Dublino) sono da rivedere.
La sinistra dovrebbe fare dell’immigrazione la sua battaglia principale, giocandola all’offensiva, nei singoli paesi di appartenenza e nei punti caldi dell’esodo. I convegni sono utili ma non bastano. Meno talk-show e più mobilitazioni per manifestare concretamente presenza e solidarietà. Per esempio sulla nostra grande frontiera del Mezzogiorno, la prima linea per i comuni che cercano di accogliere come possono i sopravvissuti ai viaggi della morte. Il Sud dovrebbe essere anche la frontiera della sinistra.
E intanto, in attesa di cancellare leggi criminogene come la Bossi-Fini, a chi fugge per mare e per terra su un gommone o nel cassone di un Tir, per non morire basterebbe salire su una nave o su un treno. Con un semplice, regolare biglietto.
In Germania qualcosa si muove nella direzione giusta. Ma consolidando una credenza profondamente erronea e operando una gravissima discriminazione: la credenza che si tratti di un'emergenza umanitaria e non di un esodo biblico, la discriminazione di salvare solo i siriani, come se le carestie non avessero le stesse cause e gli stessi effetti.
Il manifesto, 28 agosto 2015
Sarebbe di fronte all’ «immane tragedia» dell’immigrazione che alla Germania si offrirebbe ora l’occasione del riscatto, l’opportunità di correggere l’egemonia finanziaria con una «egemonia morale tedesca», come si intitola l’editoriale di Gian Enrico Rusconi su La Stampa del 27 agosto.
Del resto quel grande fenomeno storico che nei nostri libri di testo viene designato con l’espressione alquanto sprezzante di «invasioni barbariche» nelle scuole di lingua germanica è chiamato die Völkerwanderung, ossia la migrazione dei popoli.
Una espressione che però difficilmente vedremmo oggi applicata al gigantesco spostamento di popolazioni da numerose aree devastate del pianeta verso i più ricchi paesi d’Europa. Sarà perché questi uomini e queste donne non sono guidati dai rispettivi monarchi, dai quali, al contrario, rifuggono o perché l’unica arma di cui dispongono è quella del numero, di uno squilibrio intollerabile e, infine, di una necessità storica.
Di qui l’illusione che si tratti di una «emergenza umanitaria» e non di un processo incontenibile destinato a mutare radicalmente la composizione e la cultura delle società europee. Certo, l’ecatombe quotidiana, via terra e via mare, e le sue orripilanti circostanze (i sepolti vivi nelle stive dei barconi e nei camion), rivelano e celano al tempo stesso.
Rivelano la violenza spropositata delle condizioni di «viaggio» imposte ai migranti da trafficanti e guardie confinarie e dunque l’«emergenza umanitaria», ma celano la natura strutturale e affatto contingente dei flussi migratori.
Ma vediamo più da vicino in che cosa consiste l’ «esempio morale» di Angela Merkel. Sfidando i fischi e gli insulti di un gruppo di contestatori ultranazionalisti in quel di Heidenau, cittadina teatro di ripetute violenze dell’estrema destra, la cancelliera ha condannato con toni duri razzismo e xenofobia.
Qualunque altro governante europeo non avrebbe potuto fare altrimenti. A maggior ragione di fronte a una escalation di attentati e aggressioni di matrice razzista o neonazista come quella che la Germania ha lasciato crescere al suo interno, spesso civettando con l’ideologia della «priorità nazionale».
Fin qui, dunque, nulla di straordinario. Più rilevante, invece, la decisione di sospendere la regola di Dublino che impone ai richiedenti asilo di rimanere nel primo paese dell’Unione in cui sono arrivati. Un buon motivo per far tirare il fiato ai paesi di confine come il nostro. Ma c’è un però.
La Germania apre le porte ai soli siriani, considerati la punta dell’iceberg «umanitario». Così facendo propone un modello che di morale non ha proprio nulla.
Se anche si assumesse come solo motivo di legittima fuga la guerra guerreggiata, in che cosa si distinguerebbe chi fugge da Mosul da chi fugge da Aleppo, da Kandahar o dallo Yemen?
Se il «paradigma siriano» può alleggerire una contingenza esso introduce tuttavia una delirante tassonomia dei migranti, suscettibile di continue partizioni: profughi di guerra (da suddividere sulla base di un qualche indice bellico?), rifugiati politici (da ripartire secondo un diagramma della repressione?), rifugiati climatici ( da individuare sulle statistiche meteo?), perseguitati religiosi (da definire secondo una misura della libertà di culto?) migranti economici (tanto peggio per loro).
Infine la distinzione più assurda di tutte: quella tra paesi sicuri e paesi insicuri. Un paese, infatti, non è parimenti sicuro o insicuro per tutti. Per un omosessuale l’Iran non è, per esempio, un paese sicuro, come non lo è l’Arabia saudita per una donna desiderosa di guidare un’automobile e l’elencazione potrebbe procedere all’infinito.
Possiamo immaginare i burocrati dei centri di identificazione e registrazione alle prese con questo ginepraio. Così, di fronte a tanta complicazione che manda in pezzi la stessa dimensione «umanitaria», il modello tedesco procede verso una ulteriore restrizione del diritto di asilo (del resto più volte ridimensionato nel corso degli ultimi anni) alla quale sta alacremente lavorando il ministro degli interni Thomas de Mazière.
A questo si affianca una politica di restrizione del welfare e degli strumenti assistenziali (per i migranti in primo luogo, ma non solo) tali da rendere il paese sempre meno appetibile per chi intendesse stabilirvisi.
Un corretto riepilogo delle malefatte della fase berlusconiana del disastro italiano. Singolare però che il valente storico dell'Italia contemporanea si rivolga a Matteo Renzi come se non avesse compreso che l'attuale premier/segretario è l'erede e continuatore di Silvio.
La Repubblica, 28 agosto 2015
HA AVUTO uno sguardo un po’ distratto negli ultimi vent’anni, Matteo Renzi, se dell’antiberlusconismo ha colto solo qualche settarismo e qualche semplificazione. Ed è grave se si è fermato ad essi senza riflettere realmente su quel che è stata la “stagione di Berlusconi”: con il prepotente emergere di deformazioni culturali, sociali e politiche già riconoscibili negli anni Ottanta. Con una irresponsabilità di governo che nel 2011 ci ha portati sull’orlo del crollo, con uno stravolgimento delle istituzioni che ha inciso in profondità sul loro concreto funzionamento ed è stato fermato appena in tempo. Prima che riuscisse ad intaccare quell’equilibrio fra i tre poteri dello stato che è il fondamento della democrazia.
Non si liquida con una battuta quella fase: «Questa settimana - scriveva appunto nel 2011 un commentatore del New York Times - mi sono trovato a pensare che anche il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio Berlusconi». Non vi può essere una vera rifondazione del Paese (un “cambiar verso”) senza fare realmente i conti con l’Italia che è confluita nella stagione berlusconiana e che in essa si è consolidata. Raccoglieva molti umori fermentati negli anni ottanta il Berlusconi della “discesa in campo”, e lo segnalarono via via - inascoltati - non pochi commentatori. Dietro la predicazione di “un nuovo, grande, straordinario miracolo italiano” vi era la rimozione del macigno economico ed etico che pesava sul Paese: un debito pubblico che ne aveva minato l’economia e lo stesso modo di essere, abituandolo a vivere a credito; abituandolo a dissipare ricchezza e a lasciare il conto alle generazioni future. Rimarrà questa fino all’ultimo la cifra del berlusconismo, dalla “finanza creativa” di Tremonti sino agli ultimi scampoli del suo governo, con la ostinata negazione della crisi che incombeva. E con un atteggiamento di fondo «che guardava con indulgenza sottaciuta alla indole degli italiani. Alla loro diffidenza verso la dimensione pubblica, ai loro egoismi di corporazione, alle elusioni fiscali, all’irritazione provocata dalle norme» (Edmondo Berselli lo sottolineò più volte con corrosiva lucidità). E ampi settori sociali percepirono e condivisero il suo “liberalismo” per quel che era, profonda insofferenza alle regole.
Si pensi anche al populismo berlusconiano, capace di intercettare un “antistatalismo” di antica data e al tempo stesso umori fermentati nella crisi dei partiti novecenteschi (e nel passaggio dalla “rappresentanza” alla rappresentazione mediatica). Capace di riproporre in forme nuove le vecchie culture «dell’anti-partito e dell’anti-politica, un desiderio di nuovo che faccia piazza pulita dei metodi di mediazione democratica per cercare in un leaderismo forte il momento demiurgico della decisione». E «il processo agli inquilini corrotti del “palazzo” si trasformava nella denigrazione di oltre quarant’anni di democrazia» (sono parole del 1994 di Mario Pirani). Si trasformava, anche, in quella “diseducazione civica” nei più diversi campi che Piero Ignazi ieri ha ben ricordato: dal fisco alla scuola, dalla magistratura a una Costituzione bollata talora come frutto ideologico del comunismo. Su questo terreno confluivano sia umori tradizionali della “destra smoderata” italiana sia abiti mentali sedimentati appunto negli anni Ottanta in non pochi settori sociali e politici: «Insofferenti alle tradizionali austerità democratiche, amanti del denaro e del potere, infastiditi dagli egualitarismi » (sono parole di Mariella Gramaglia dedicate allora ai socialisti craxiani). È nell’azione di governo però che la “diseducazione civica” dell’ex Cavaliere si è concentrata in modo potente, svilendo il senso delle istituzioni ed entrando in conflitto con le più elementari norme dello stato di diritto. Ed aprendo quei conflitti con gli altri poteri dello Stato e con lo stesso dettato costituzionale che i diari e le memorie di Carlo Azeglio, pubblicati a cura di Umberto Gentiloni, hanno ulteriormente documentato. Non è possibile sorvolare sui guasti delle leggi ad personam o sulla corruzione accertata (dai fondi neri per alimentarla ai giudici e ai parlamentari comprati): senza questi aspetti non si comprenderebbe neppure il colossale salto di qualità compiuto rispetto agli anni di Tangentopoli. E quindi la assoluta necessità e urgenza di una radicale inversione di tendenza: consapevolezza che è sembrata progressivamente mancare a Renzi in questi mesi. Si consideri infine lo stravolgimento istituzionale avviato da Berlusconi nel 2001 e giunto al culmine alla vigilia della sua caduta: il premier — annotava Scalfari nel 2010 — vuol riscrivere la Costituzione “mettendo al vertice una sorta di “conducator” eletto direttamente dal popolo (…) e subordinando alla sua volontà il potere legislativo, i magistrati, la Corte Costituzionale e le autorità di controllo e di garanzia». Era difficile dargli torto: a meno di non essere, appunto, molto distratti.
Certo, un antiberlusconismo urlato ha coperto talora un vuoto di contenuti (lo aveva sottolineato già Walter Veltroni) e sono state molte le responsabilità del centrosinistra, incapace in primo luogo di un rinnovamento radicale della politica: a quest’opera si era candidato Matteo Renzi ma anche quell’impegno si è molto sbiadito con lo scorrer del tempo. Si pensi poi a un altro nodo, la sostanziale inadeguatezza nel contrastare la berlusconiana “illusione del miracolo”. Certo, in nome dell’emergenza il centrosinistra si è trovato ad adottare responsabilmente politiche di rigore (dal primo governo Prodi sino al governo Monti): non sostenute però da una reale visione di futuro e prive così di una reale capacità di convinzione. E contrastate con forza dalla sinistra estrema, consonante in questo con la berlusconiana “cultura del miracolo”. Da questo nodo irrisolto discende anche la vaghezza estrema con cui oggi si parla di “ripresa”, quasi si pensi ad un tranquillo ritorno agli scenari precedenti la crisi. Quasi si consideri superfluo riflettere a fondo sulle trasformazioni globali che sono intervenute, e che esigono scelte inedite: ma forse proprio questo una forza riformatrice dovrebbe fare, risparmiandosi battute ad effetto.
Forse una svolta nella Fortezza Europa: si apre qualche spiraglio. Ma resta l'illusione che si tratti solo di "emergenza umanitaria" e non di sconvolgimento globale nel rapporto tra popoli e continenti.
Il manifesto, 28 agosto 2015
Settembre potrebbe essere il mese decisivo per l’Unione europea per cambiare rotta sull’immigrazione. «Troveremo il modo di distribuire il carico e le sfide in modo equo» ha detto ieri Angela Merkel, e le parole della cancelliera tedesca più che un invito sono sembrate indicare la nuova direzione da seguire. L’alternativa, per l’Europa, è quella di essere travolta dall’onda sempre più imponente di profughi in arrivo sia dal Mediterraneo che via terra lungo la rotta dei Balcani occidentali.
Quattro gli obiettivi principale da raggiungere: ripristinare l’obbligatorietà per i 28 di prendere una quota di richiedenti asilo, principio previsto a maggio dalla Commissione europea ma boicottato dai Paesi del Nord che sono riusciti a imporre la volontarietà; alzare il numero dei profughi siriani ed eritrei da ricollocare (inizialmente 40 mila tra Italia e Grecia, poi scesi a 35 mila) e avviare una discussione che porti a una normativa comune sul diritto di asilo. Ma, soprattutto, arrivare finalmente a una revisione del regolamento di Dublino che oggi obbliga i migranti a stare nel primo paese in cui sbarcano. Una cosa che l’Italia chiede da mesi ma che adesso vuole anche la Germania al punto da averlo già sospeso temporaneamente per i siriani.
Seppure ancora labili, le possibilità perché si arrivi finalmente a una svolta ci sono. Oltre a Germania e Italia, sostengono le quattro richieste anche Francia e Grecia, ma non è escluso che si accodi anche l’Ungheria, sotto pressione in questi giorni proprio per il forte flusso di richiedenti asilo alla frontiera con la Serbia. E in futuro, passata la tornata elettorale in cui alcuni Paesi sono impegnati nel prossimo autunno-inverso, l’elenco potrebbe allungarsi. «L’Europa è un continente ricco ed è in grado di affrontare questo problema», ha aggiunto la Merkel
A questo blocco di Paesi va poi aggiunta la Commissione europea il cui residente Jean Claude Juncker si è battuto per mettere mano a Dublino e perché i 28 si assumessero quote di profughi. Ieri Juncker ha replicato a quanti accusano la commissione di non aver fatto molto per risolvere la crisi dei migranti: «Alcuni ministri di Stati membri ci criticano per una nostra inattività, Ma sono critiche ingiustificate — ha detto -. La colpa va data agli Stati membri, non alla commissione che ha presentato la sua Agenda sull’immigrazione a maggio».
Il fatto è che da maggio a oggi è cambiato tutto. La pressione dei profughi alle frontiere europee è sempre più forte e coinvolge sempre più Paesi. Come i sei Paesi del Balcani occidentali, che ieri hanno tenuto a Vienna un vertice al quale hanno partecipato anche Italia, Germania, Austria Croazia e Slovenia nel quale nel quale alla Ue di mettere a punto un piano d’azione in grado di rispondere alla crisi di queste settimane.
Dell'importanza della creatività per lo sviluppo di un'economia capace di progredire. Il grave ritardo dell'Italia come una delle ragioni del declino del suo apparato industriali.
La Repubblica, 28 agosto 2015L’EUROPA è un continente rimasto senza idee»: a lanciare l’allarme sul Financial Times è stato Edmund Phelps, Nobel per l’economia. Nel braccio di ferro sulle misure di austerità che hanno messo alla gogna la Grecia (e domani altri Paesi), la parola “creatività” non ricorre mai.
Stagnazione delle economie nazionali, il Pil che da anni, quando va bene, sale (come in Italia) di qualche misero decimale: in questo gioco al massacro entrano le borse, i mercati, la troika, l’invadenza tedesca, le influenze americane o asiatiche. Ma che vi sia un qualche rapporto fra creatività ed economia non viene mai in mente. Secondo Phelps, «gli italiani trovano del tutto accettabile che la loro economia sia quasi del tutto priva di innovazioni autoctone da vent’anni, e sia capace solo di reagire alle forze del mercato globale, come se una nazione non avesse bisogno di dinamismo per essere felice».
L’Italia è fra i Paesi che Phelps sceglie a esempio di un’economia «meccanica, robotizzata, che ha per ingredienti la ricchezza, i tassi di interesse, i salari; ma ne manca uno, l’abilità e l’inventività degli esseri umani». L’efficienza (spesso sinonimo di ubbidienza) viene confusa con il dinamismo, l’alternanza ai vertici viene scambiata per innovazione, lo storytelling del successo prende il posto di ogni vero sviluppo. Una nuvola di parole occulta il destino dei cittadini e lo subordina alle decisioni, spesso incompetenti, di chi si insedia nella stanza dei bottoni. Il pensiero unico di una scienza economica spacciata per la sola possibile (come se non ne esistessero versioni e correnti alternative) alimenta la rassegnazione fatalistica alle “forze del mercato”, che come una fede religiosa non vacilla davanti alla perpetua crisi, ai continui fallimenti.
Rimettere al centro la creatività come rimedio alla stagnazione e alla crisi è oggi più che mai necessario. In questo senso va la distinzione, proposta dallo stesso Phelps nel suo recente Mass Flourishing (2013), fra la “prosperità” dei cittadini (far bene un mestiere per ottenere migliori salari) e la loro “fioritura” (coltivare l’immaginazione, esercitare la curiosità intellettuale, praticare la creatività). Una società può esser prospera senza essere fiorente, ma una società fiorente è sempre prospera: ed è solo nei periodi di massima fioritura della comunità civica che scatta l’innovazione, come si è visto dal Rinascimento al Novecento. Solo in una società fiorente, dove la creatività è un valore riconosciuto, vi sono le condizioni-base per una vita soddisfacente; solo chi può appagare la propria curiosità e inventiva avrà pieno rispetto per se stesso e si sentirà a pieno titolo parte di una comunità. Questo e non altro è il “vivere bene” che sbandieriamo come slogan, ma senza saperlo tradurre in progetto.
La categoria-chiave di questo ragionamento, la “fioritura” ( flourishing ), viene dalla filosofia morale (basti ricordare Martha Nussbaum e Julia Annas), che ne ha indicato le radici nel pensiero di Aristotele. L’eudaimonia di cui parla l’antico filosofo non è felicità effimera (il “successo”), ma senso di realizzazione della propria vita, delle proprie potenzialità: un sentimento che incardina l’individuo nella comunità (polis) di cui fa parte. La “fioritura” degli individui e delle comunità è precondizione indispensabile per lo sviluppo della creatività ad ogni livello, e dunque componente vitale dell’economia e della società, ma anche della democrazia, dell’equità, della giustizia. È necessario interrompere, volando alto, il circolo vizioso di cui siamo prigionieri: l’Italia e l’Europa davvero sono a corto di idee, e perciò segnano il passo. La prosperità raggiunta (insieme al timore di perderla) produce più stagnazione che progresso: anzi, la pressione dei mercati e la concentrazione della ricchezza erodono i diritti (all’istruzione, alla salute, alla cultura, al lavoro) generando crescenti ineguaglianze. L’illusione della crescita si limita a qualche success story che riunisce in poche mani gli incrementi di produzione e di ricchezza; ma intanto il lavoro (dei più) diminuisce, e la produttività totale (i cui fattori sono capitale e lavoro) s’inceppa.
“Tasso di inventiva” e “tasso di felicità” sono strettamente collegati, perciò entrambi sono in calo in Italia (e in Europa). La scuola, devastata da riforme che puntano a educare non cittadini ma esecutori ossequienti, taglia le gambe alla creatività potenziale dei giovani, li induce ad appiattirsi sugli ideali aziendalistici di una superficiale efficienza e li spinge a reprimere il proprio talento per inseguire i mestieri e i mantra di un immutabile ordine costituito. La sgangherata discussione sui “conti salati degli studi umanistici”, considerati un lusso in tempo di crisi, elude il loro ruolo essenziale nella consapevolezza dei valori umani, nella capacità di esplorare criticamente il mondo e se stessi, nell’educazione a pensare fuori dal coro. Anche l’economia non è necessariamente perpetuazione dell’esistente, ma dev’essere sperimentazione del nuovo. E solo la “fioritura” degli individui e della comunità garantisce la «pari dignità sociale» dei cittadini prescritta dalla Costituzione (art.3). Come ha scritto uno storico inglese, David Kynaston, «se la bandiera del thatcherismo era in ultima analisi la libertà dell’individuo, allora dobbiamo ammettere che negli ultimi anni tale libertà è stata così violentemente travolta, che è venuta l’ora di far ricomparire la sua antica compagna di scena: l’eguaglianza».
«Il nodo delle relazioni non è una questione parallela, ma centrale. Sia nella valorizzazione di poteri alternativi sia nel creare coesione, per reggere lo scontro violento. Perché sono l’oggetto dei processi di riorganizzazione in corso ad opera di un capitalismo neoliberista che nella vita entra senza ritegno, e la rimodella a proprio piacimento».
Il manifesto, 26 agosto 2015
Rischio volutamente la retorica, nell’accostare l’arcaico caporalato e la moderna precarietà multiforme, esperienze contemporanee di cui gli esempi si potrebbero moltiplicare, tutti accumunati da un salario orario indecente, o sempre più basso. La retorica sparisce se rovescio la domanda: la sinistra ha in mente Angela, i suoi compagni di lavoro, o i dipendenti dell’Ikea? Pensa, la sinistra, immagina, progetta come affrontare, risolvere i problemi della vita di queste persone? Il modo per proteggerle dalla ferocia del capitalismo neo-liberista? Strade percorribili, anche audaci, conflittuali, perigliose, e perché no, rivoltose, ma che permettano di intravedere modi diversi di vivere?
La risposta è brutale: no, da molto tempo questo non avviene. E questo è il nodo cruciale del dibattito aperto da Norma Rangeri e dal manifesto: l’incontro mancato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in condizioni di vita sempre più dura, — chi non riesce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è precario, precari della conoscenza che mantengono con il loro lavoro semigratuito università, centri di ricerca e sistemi di informazione – se ci sono, desideri e speranze, difficilmente si chiamano “sinistra”. E dall’altra parte i progetti di chi dovrebbe aprire lo spazio di elaborazione e di pratiche politiche che a quelle menti possano parlare, dare respiro e speranza.
Non interessa, qui, fare l’analisi delle responsabilità. Fermarsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi criminale. Non c’è vita, nella recriminazione e nel rancore. E lo dico da femminista quale sono, sempre più sgomenta nel constatare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini – di riconoscere il peso, l’influenza, l’acutezza della critica femminista alla loro politica, e che incapaci come sono di accoglierla esplicitamente procedono come se nulla fosse successo. Certa che questo muro di silenzio sia parte del problema, della difficoltà di mettere a fuoco visioni ampie, inclusive, e nello stesso tempo convinta che anche il femminismo sia implicato, nel vuoto che ci affligge.
Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fissate troppo sull’obiettivo paritario, così facilmente fatto proprio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occidente, alla libertà femminile, avesse spinto a chiudere gli occhi su quanto avviene. Come se per esempio il feroce aumento della diseguaglianza economica non riguardasse le donne. Che ne sono le prime vittime, sotto molteplici aspetti, dallo sfruttamento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo femminile, della riproduzione. Anche da parte di altre donne.
Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione efficace, aiuta a prendere coscienza della pesantezza delle condizioni di vita, o a recuperare forme di auto-organizzazione come il mutualismo, ricostruendone il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica contemporanea del “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in braccio, dietro e di lato a un uomo, a uomini che combattono in prima fila. Dove sarebbero le donne? E gli stessi uomini? E i bambini? E questi, di chi sarebbero figli?
Non sono dettagli fuorvianti. Come non capire che questo quadro mutato e mutante è parte essenziale di ciò che va pensato, anche nel mettere a fuoco nuovo forme organizzative? Che il nodo delle relazioni non è una questione parallela, ma centrale? Sia nella valorizzazione di poteri alternativi sia nel creare coesione, per reggere lo scontro violento. Perché sono l’oggetto dei processi di riorganizzazione in corso ad opera di un capitalismo neoliberista che nella vita entra senza ritegno, e la rimodella a proprio piacimento.
Esattamente come agisce per la ridefinizione– distruzione di democrazia. Nel quadro delle istituzioni, europee e non solo. Fanno parte di un unico disegno di comando che va combattuto.
Di questo si dovrebbe parlare, se si parla di vita a sinistra. Se si vuole entrare nella breccia che Alexis Tsipras con grande lucidità politica continua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calendario di impegni tra movimenti e organizzazioni fino a novembre, che il gesto del dirsi “siamo qui, partiamo”, sia rapido, veloce, quasi noncurante. Come chi sa che non c’è nulla da esaltare, in effetti. Che organizzarsi non è occuparsi di sé. L’urgenza è mettersi in grado di aprire spazi e pensieri, liberare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.
Questo ventennio ha avuto un dominus, una figura che lo ha incarnato a tutto tondo, tenendo ben stretto il bandolo degli eventi grazie alle ramificazioni dei suoi interessi e alle connivenze intessute nei decenni; ed è Silvio Berlusconi. La sinistra ha fatto argine in qualche circostanza ma sono stati brevi intervalli, di cui solo alcuni luminosi: il primo governo Prodi con il riallineamento dei conti pubblici e l’entrata nell’euro, e i primi passi del secondo governo Prodi con le liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. Per il resto, divisioni interne, astenia culturale e una latente sindrome di Stoccolma hanno fatto, spesso, troppo spesso, accucciare la sinistra ai piedi del Cavaliere. Berlusconi è diventato così l’alfa e l’omega di questi anni. Altro che contrapposizione bilanciata.
Il Cavaliere ha potuto dedicarsi tranquillamente alla cura dei propri affari riservando una attenzione residuale ai problemi centrali della modernizzazione del paese. Quasi tutti gli indicatori socio-economici e culturali di questi vent’anni, messi a confronto con quelli degli altri paesi dell’Ue, per non dire del G7, mostrano una perdita di terreno. E in più, è stato inquinato lo spirito civico di questo paese.
Quando un primo ministro irride alle leggi, le stravolge e violenta per suo tornaconto, quando sollecita i cassaintegrati a frodare le norme facendo lavoretti in nero, quando proclama di fronte alla Guardia di finanza che l’evasione fiscale oltre una certa soglia di imposizione fiscale è un diritto, quando un primo ministro agisce così, inocula ulteriore veleno su un corpo civile già debilitato per storiche tare.
La diffidenza-ostilità per l’imperio della legge, la torsione personalistica delle norme, il fastidio per le regole hanno profondamente minato la legittimità delle istituzioni. E, più sottilmente, il berlusconismo ha favorito la diffusione di una visione del mondo a-razionale, dove i “fattoidi”, come li chiamava Edmondo Berselli, diventavano realtà e solo l’apparenza contava; e così, venivano favorite fughe in avanti e aspettative miracolistiche che solo l’intervento salvifico di un capo poteva risolvere.
Di fronte a tutto questo gli argini sono stati deboli e mal curati. L’opposizione a Berlusconi e al suo mondo si attivava a corrente alternata: un giorno faceva la voce grossa, un altro trattava sulle frequenze televisive, un giorno gridava al golpe, un altro cedeva sul “processo giusto”. E così via. Mancava la costanza del resistere, resistere, resistere. E l’accusa di antiberlusconismo veicolata dalla destra diventava quasi uno stigma da cui difendersi. Non una onorevole connotazione etico-politica. Sorprende, allora, che Matteo Renzi, quasi fosse un flaianesco marziano a Roma, equipari l’antiberlusconismo al suo contrario, come chi accomuna partigiani e repubblichini in uno stesso calderone.
Al contrario, proprio la fiacchezza dell’opposizione a Berlusconi, con punte di connivenza, i cui ultimi rigurgiti si ritrovano anche nei 101 voti contro Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, ha mandato alla deriva questo paese. La mancanza di rigore e fermezza di fonte alle devastazioni del diritto e all’imposizione dell’arbitrio e dell’interesse personale e di clan, hanno permesso ad una cultura politica populista e anti- istituzionale di debordare. Mentre Berlusconi incantava con la promessa di una “rivoluzione liberale”, che non ha lasciato che macerie, l’opposizione aveva il dovere di opporsi con il massimo di impegno.
Non distinguere le responsabilità di quanto avvenuto negli ultimi decenni e accumunare tutti in un magma indistinto non solo fa torto alla realtà dei fatti ma riporta a galla una visione del mondo “irresponsabile”, del tutti a casa perché nessuno è colpevole. L’Italia è arretrata paurosamente su tutti i fronti non per la contrapposizione dura tra due schieramenti, ma proprio per il suo contrario: perché l’opposizione al berlusconismo è stata inconsistente e quindi la sua sconfitta tardiva, troppo tardiva.
Le tre facce della crisi dell'Europa, I modi per uscirne, in Europa e in Italia.
iMEC, sito web della Fiom-Cgil, 21 agosto 2015
La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.
1. La crisi della UE e dell’euro.
Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale.
A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna - la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica.
Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:
a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli). Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.
b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.
Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione, e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.
È innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.
La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.
2. La crisi economica ed occupazionale.
La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.
3. Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.
Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.
Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.
Intervista di Carlo Di Foggia a Barbara Spinelli. Un'analisi sofferta e preoccupata delle conseguenze della necessità di Alexis Tsipras di scegliere tra la due soluzioni entrambe inaccettabili.
Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2015
La riflessione più amara, Barbara Spinelli la riserva al mantra più forte degli europeisti: «Pensare che la soluzione al disastro antidemocratico che è stata la vicenda greca, sia una integrazione più forte dell’Unione così com’è, con i presenti Trattati, non significa rendere l’Europa più forte. Significa il contrario».
Tsipras ha annunciato le dimissioni e chiesto le elezioni anticipate per il prossimo 20 settembre.
«Era prevedibile che Syriza si sfaldasse dopo l’umiliazione che il governo ha dovuto subire. Resta il profondo atto democratico: dimettersi e dare voce agli elettori».
Non è solo una mossa furba per evitare che l’ala sinistra di Syriza abbia il tempo di organizzarsi?
«La sinistra ha un forte peso nell’elettorato e il referendum del 5 luglio lo ha dimostrato. Quel voto rafforzerà i dissidenti ma non darà loro una maggioranza. L’elezione è rischiosa: può costringere il premier ad allearsi con socialisti e liberali. Ma anche questi ultimi sono stati indeboliti dal referendum, avendo lottato per il Sì. Più che furba, la mossa nasce da uno scacco e propone l’uscita democratica da un golpe post moderno. Ad Alexis Tsipras è stata lasciata la scelta tra la morte e la morte, tra Grexit e sottomissione».
Chi sono i responsabili dello “scacco”?«I dirigenti dell’Unione. Ormai tutti lo sanno: senza un’Unione politica solidale, l’euro divide l’Europa, la riporta a rapporti di forza tra nazioni potenti e non. Il contrario di quello che si pensò nel dopoguerra».
La soluzione, illustrata da molti commentatori, è l’omeopatica “ci vuole più Europa ”…
«Lo spirito europeista non sta né con i sovranisti che propongono il Grexit – e non tutti gli elettori del No la vogliono – né con i dirigenti che vogliono rafforzare l’Europa presente, dominata dalla Germania, fondata su un’austerità rigettata da gran parte dei cittadini europei. Rafforzare tutto questo significa avere un equilibrio tra potenze nazionali, non un’Europa più federale».
La parabola di Tsipras ha mostrato che il sistema non si cambia dall’interno?
«Le prime battute sono state disastrose. Ma la battaglia è appena cominciata. Tsipras vuol tuttora portare la Ue verso forme più solidali e regole diverse. Proprio in questi giorni ha chiesto che il Parlamento europeo partecipi al “quartetto dei creditori”. Persa la battaglia, la guerra continua, anche se il prezzo è già stato altissimo».
Quale?
«Il premier ha perso gran parte delle truppe. È però convinto che un Paese come la Grecia, nella globalizzazione, non ce la faccia da solo. Rifiuta per ora la soluzione sovranista e scommette sul fatto che anche Berlino riconosca che da sola non ce la farebbe.
Oltre alle truppe non ha perso anche l’anima politica originaria del progetto Syriza?
«Non sono sicura che tutta la sinistra di Syriza sia sovranista. Molto dipenderà anche da quello che succederà in Spagna e Irlanda. Podemos ha fatto alleanze municipali con i socialisti. Pur chiedendo un cambiamento radicale dell’Ue, governerà con i socialisti, senza uscire dall’euro. Ma spero che dissidenti come Varoufakis siano ascoltati».
Che succede se vince la destra?
«Le forze alternative europee si indebolirebbero, ma non credo che vincerà».
Se vincesse la Piattaforma di sinistra, la definirebbe una sconfitta?
«Se vincesse avrebbe due scelte: o il Grexit, ed è talmente costoso che ci dovrà pensare otto volte. O negoziare come Varoufakis, e si troverà davanti alla scelta di Tsipras: o la morte o la morte. I tedeschi non cambiano idea.
Concordare un’uscita ordinata, con aiuti europei, anche per ristrutturare il debito, come aveva proposto Schäuble, è la morte?
«Non so quali aiuti verrebbero dall’Ue: nelle condizioni economiche attuali il Grexit sarebbe un quarto memorandum. Un disastro, nel breve periodo».
Nel medio?
«Nel medio termine saremo tutti morti, diceva Keynes».
«In ogni caso Renzi non indietreggia e rilancia: o ci sono i numeri o ne trarrà le conseguenze». È quello che in molti speriamo. Ma alla fine troveranno un compromesso che salverà capra e cavoli: e il lupo Renzi mangerà tutti.
La Repubblica, 27 agosto 2015
. A decidere sulla querelle che contrappone il presidente del Senato Pietro Grasso e la maggioranza del Pd potrebbe essere un “tribunale”. Le parole della seconda carica dello Stato dalla festa nazionale de L’Unità di Milano - con l’invito a trovare una soluzione politica per superare “l’impasse”- scuotono gli animi del Nazareno. Parole che avrebbero infastidito i maggiorenti del Pd in Senato. Il dilemma è sempre lo stesso: alla ripresa dei lavori il presidente Grasso dovrà decidere se ammettere o no la mole di emendamenti sull’articolo 2 della riforma del Senato.
«Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione».
Il manifesto, 26 agosto 2015, con piccola postilla
Ora se ne vedono bene le conseguenze. La Cina non è vicina ma è ovunque, dentro tutte le cose del mondo globalizzato. Il crollo della borsa di Shanghai fa tremare la finanza mondiale. In Europa le Borse bruciano nello spazio di poche ore più dell’equivalente dell’intero debito greco.
La leadership cinese aveva fin qui retto più che bene alla crisi economica mondiale scoppiata negli Usa nel 2007. I cinesi sono stati i primi ad attuare quello che dall’altra parte del mondo viene chiamato Quantitative Easing, su cui torna a insistere come fosse una nuova ricetta il direttore del Sole24Ore. Hanno tentato una conversione da un’economia esportatrice di prodotti di bassa o modesta qualità, ad un’altra che privilegiasse lo sviluppo dell’enorme mercato interno. In questo quadro hanno ingaggiato una guerra dichiarata contro la corruzione, non lesinando nemmeno sulle condanne a morte. Da ultimo hanno favorito lo sviluppo di una bolla immobiliare e cercato di canalizzare il risparmio privato verso la Borsa. Al punto che molti cinesi dai modesti redditi si sono dovuti indebitare pur di potere comprare qualche azione.
Ora però l’apprendista stregone è nudo. La sua creatura appare indomabile e rischia di rivolgersi contro di lui. Anche quel po’ di redistribuzione che è stata attuata - come riconosce l’economista indiana Jayati Ghosh - con l’incremento dei salari, punto di incontro tra concessioni dall’altro e l’inizio di una lotta di classe rivendicativa nei settori produttivi, non è stata affatto sufficiente per rilanciare il mercato interno. Né poteva esserlo. Sia perché quei salari restano comunque troppo bassi, infatti la Ghosh ne invoca un nuovo aumento, sia perché ci vorrebbe ciò che manca, una rinnovata capacità programmatoria in economia costruita con la partecipazione e il consenso popolari.
Ma se da un lato le aziende di stato sono centri di potere per una potente burocrazia, attorno a cui si avvolge il serpente della corruzione diffusa, e dall’altro i sindacati non ritengono che lo sciopero, benché legislativamente previsto, sia un utile strumento di lotta (come mi sentii rispondere durante una visita in Cina di dieci anni fa) è ben difficile che il mercato interno trovi respiro. Questo non si costruisce dall’alto, né partendo (solo) dal punto di vista dell’impresa, ma è il risultato di un percorso politico-economico da cui è tutt’altro che estraneo lo sviluppo del conflitto sociale. Nelle attuali condizioni continua a piovere sul bagnato, gli investimenti insistono prevalentemente sui settori più sperimentati (cosa lo è più del vecchio mattone?) o guidati dalla competizione internazionale, rischiando così di trasformarsi in una nuova bolla finanziaria oppure di contraddire la svolta postmercantilista, o tutte e due le cose insieme.
Krugman afferma che siamo di fronte ad una bolla finanziaria che ondeggia e rimbalza nel mondo. Nel 2007 l’epicentro della crisi furono gli States, ora lo è la Cina. Poi la bolla tornerà – sta già tornando – verso gli Usa, vista la recente direzione del flusso dei capitali. Larry Summers ha ragione a dire che la Fed non deve cedere alla tentazione di rialzare i tassi di interesse. Ma anche questo non sarà sufficiente neppure per l’America, se la crisi si cronicizza a livello mondiale, a causa del coinvolgimento cinese.
Il capitalismo non esiste senza lo stato. Ce lo ripetevano gli storici delle Annales. Ce lo chiarisce la congiuntura drammatica nella quale viviamo, con buona pace dell’integralismo neoliberista. Ma pensare di cambiarlo a partire solo dallo stato è un’illusione, sempre che di questo si tratti, e non di una gigantesca finzione.
postilla
L'icona che contrassegna questo articolo è l'immagine di copertina del libro di David Harvey, A Brief History of Neoliberalism (2005). Vi si intravede inseriva Deng Tsiaoping, che Harvey collocava tra i "quattro cavalieri dell'apocalisse" fondatori del neoliberismo (in inglese: neoliberalismo), insieme a Tatcher, Reagan e Pinochet. Il libro di Harvey è una lettura molto utile a chi voglia comprendere la recente mutazione della città, della società e della politica.
Prosegue il dibattito su "La sinistra vive?"Un ragionevole elenco delle undici novità, rispetto alla sinistra novecentesca, di cui è indispensabile tenere conto se ci si propone per lavorare alla costruzione di una sinistra per il secondo millennio.
Il manifesto, 26 agosto 2015
Per scegliere come agire conviene partire dalla conoscenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:
a) Sta tornando, anche nel cuore di società ricche, la schiavitù; secondo una stima della Cgil in tale condizione si trovano (ma le stime sono riferite a ciò che è visibile, non al sommerso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extracomunitari; il “profitto” se ne giova enormemente.
b) Strettamente connesso è il potere incontrastato dei grandi e meno grandi centri mafiosi equamente diffusi nel pianeta. (Con la vittoria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diventato un epicentro mafioso). Le banche riciclano indisturbate il “denaro sporco”, di cui droga, prostituzione, caporalato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capitale finanziario e malavita si è compiuto. Nella totale passività e complicità dei poteri politici.
c) Il cosiddetto fenomeno migratorio ha carattere strutturale ed epocale. Ogni trovata mirante a interromperlo (respingimenti, interventi nei luoghi di partenza) è risibile. E’ come voler svuotare il mare col mestolo. L’Occidente – fabbricanti di armi sempre pronti a commuoversi, interventi imperiali in Irak, Siria, Libia ecc. — ha creato i disastri, una cui conseguenza è tale migrazione di popoli.
d) La mutazione della Cina in paese ipercapitalistico a carattere nazionalsocialista ha chiuso il ciclo novecentesco del “socialismo”.
e) La fine del movimento comunista ha comportato anche il declino delle socialdemocrazie.
f) Il meccanismo elettorale pluripartitico (caratteristica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò grazie a dinamiche liberticide irreversibili: delega dei poteri decisionali a strutture tecniche non elettive, e per di più massiccia introduzione di sistemi elettorali di tipo maggioritario. Il de profundis è stato il formale misconoscimento della volontà espressa dal referendum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qualunque legittimazione elettorale quale l’Eurogruppo.
g) Il soggetto sociale tradizionale dei partiti di sinistra è, numericamente, in via di estinzione. Mi riferisco all’operaio di fabbrica, o meglio a quella parte che veniva un tempo definita “operai coscienti”. Sono subentrati per un verso la nuova schiavitù, per l’altro un gigantesco ceto medio condannato ad un crescente impoverimento, in alcuni paesi appesantito dalle rigidità della moneta unica.
h) Una formazione politica di sinistra dovrebbe dunque decidere se: (1) scegliere di rappresentare i nuovi diseredati, ovvero (2) puntare, con qualunque alleato, ad andare al governo a qualunque costo per fare una qualunque politica. Da tempo, la ex-sinistra (in Italia, Francia, Germania, ora anche Grecia) ha scelto tale seconda opzione.
i) La sola battaglia possibile in questa situazione è di carattere culturale, il più possibile di massa. Descrivere scientificamente il “capitale” del XXI secolo e smascherare la cosiddetta “democrazia occidentale”; diffondere la consapevolezza della sua vera natura. I luoghi di intervento non sono molti. La grande stampa funziona sulla base di una costante censura del pensiero critico nei confronti dell’Occidente. Ma c’è un grande terreno di lotta culturale, che è la scuola. E’ lì che si può indirizzare una lotta tenace in favore del pensiero critico.
j) Verrà sollevata la questione: ma qual è la classe sociale di cui la sinistra dovrebbe rappresentare gli interessi? Lo sfruttamento non è affatto scomparso, ma è ormai soprattutto sfruttamento del lavoro intellettuale che costituisce la parte essenziale del ciclo produttivo. E persino ai quadri medio/alti — per ora ben pagati – andrebbe fatto capire che anch’essi sono degli sfruttati e che chi li sfrutta è meramente parassitario.
k) Nell’epoca del dominio mondiale del capitale finanziario, “il nemico” è quasi invisibile.
Il manifesto, 25 agosto 2015
L’Europa deve “unificare” il diritto d’asilo e le procedure di accoglienza, per arrivare a una “politica migratoria comune, con regole comuni” per far fronte a “una situazione eccezionale, destinata a durare”. Lo ha detto a Berlino François Hollande, alla conclusione della prima parte dell’incontro con Angela Merkel, che è poi proseguito sulla crisi ucraina, con la presenza del presidente Piotr Poroshenko, altra questione sempre aperta in Europa ma messa in secondo piano a causa dell’emergenza migranti. Francia e Germania prevedono di “dare un nuovo impulso” congiunto per arrivare a una risposta europea, perché “per il momento”, dicono all’Eliseo, le decisioni della Ue sono “non sufficienti, non abbastanza rapide e non all’altezza” nella loro applicazione. Nel mirino di Hollande e Merkel, prima di tutto, c’è l’inerzia dei paesi di primo sbarco – Italia e Grecia – nell’apertura di centri di registrazione dei migranti: il principio era stato approvato nel giugno scorso, ma per il momento nessuno è stato aperto. “Non possiamo tollerare questo ritardo”, ha aggiunto Merkel, che ha sottolineato che i paesi europei devono applicare “il più rapidamente possibile” le regole del diritto d’asilo, che solo sulla carta sono più o meno simili nella Ue. Poi, ha precisato Hollande, seguirà una “ripartizione equa” dei rifugiati, come prevede la Commissione. Ma il presidente francese ha già messo le mani avanti: con un sistema unificato di asilo nella zona Schengen si eviterà che “alcuni paesi ne accolgano più di altri”.
Non c’era da aspettarsi una proposta di soluzione dall’incontro tra Merkel e Hollande, ma Berlino ieri è stata una nuova occasione per confermare l’approccio dominante in Europa, concentrato sull’improbabile separazione tra “rifugiati” e “migranti” (economici, climatici ecc.), i primi ufficialmente da accogliere da parte della “generosità” europea, i secondi da respingere e rimandare a casa, “riaccompagnati con dignità” ha precisato Hollande. Germania e Francia prevedono di aggiornare una lista comune per individuare i paesi “non a rischio”, i cui cittadini verrebbero cosi’ automaticamente esclusi dal diritto d’asilo (contravvenendo la Convenzione del ’51, che prende in considerazione situazioni di persecuzione individuale). Un’armonizzazione europea di questa lista sarà destinata a “fare chiarezza” sulle differenze di trattamento a cui sono sottoposti in particolare i cittadini di paesi balcanici nei vari paesi Ue. Il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, ha annunciato che “nei prossimi giorni” ci sarà una riunione dei ministri degli Interni e degli Esteri della Ue sulla questione dei migranti. Dovranno trovare un delicato equilibrio per conciliare i timori che alcuni governi in carica hanno dell’estrema destra (altri, come in Ungheria, hanno già passato il Rubicone) e la paura che l’Europa perda “l’anima”, come ha affermato il ministro degli esteri Gentiloni.
La Germania accoglie oggi di più della Francia, ma Parigi ribatte di avere su questo fronte un passato più pesante alle spalle. Merkel ha condannato ieri le violenze degli “ubriaconi” neo-nazi in Sassonia, il vice-cancelliere Sigmar Gabriel accusa l’Europa di essere caduta in un “sonno profondo” e punta il dito contro i paesi che voltano le spalle a problema e dicono “non ci riguarda”. Finora, i paesi europei hanno cercato di scaricarsi il “fardello”, come la Francia verso l’Italia a Ventimiglia o la Gran Bretagna verso la Francia a Calais. La tendenza è di liberarsi del “fardello” dando dei soldi (Londra per esempio ha deciso di versare 10 milioni di euro in più alla Francia oltre ai 15 stanziati nel 2014 su tre anni per delegare a Parigi i respingimenti a Calais).
La minaccia dell’estrema destra sta paralizzando i governi europei. Secondo Frontex, 340mila persone sono entrate senza visto nella Ue nei primi sette mesi di quest’anno. La Ue avrà sempre un maggior bisogno di immigrati per far fronte al drammatico calo demografico, problema a cui sfugge praticamente solo la Francia (con 1,9 bambini per donna, mentre in Europa la media è di 1,55, con punte minime in Spagna con 1,27, mentre in Italia in 35 anni la popolazione con più di 65 anni sarà moltiplicata per sei)
Alle parole del presidente del Consiglio, per una volta, cominciano a seguire i fatti. In molte occasioni, egli aveva lamentato un eccessivo carico di controlli fiscali, di vincoli amministrativi che si abbattevano su sei milioni di imprese, impedendo loro di produrre ricchezza. Come Tremonti, anche Renzi, nei suoi discorsi pubblici, ha evocato lo spettro di uno Stato di polizia che opprime le aziende e per questo ha proclamato una grande guerra contro la burocrazia invasiva. E almeno queste solenni sfide contro i vigili, le fiamme gialle che indiscreti bussano alle porte delle officine non sono rimasti lettera morta. I dati forniti dai consulenti del lavoro sono molto significativi. Nel 2014, i controlli sono stati 221 mila 476 (e nel 35,9% delle aziende raggiunte, sono emerse irregolarità). Nel 2015, le visite degli ispettori sono scese a 106 mila 849 (con il 29,3% delle imprese pescate in situazioni irregolari).
I controlli in un anno sono dimezzati, sebbene l’entità dell’economia sommersa (due milioni di lavoratori in nero) e l’ampiezza delle perdite fiscali per lo Stato (ben 25 miliardi l’anno sfumano per l’evasione di contributi previdenziali e di imposte), siano ingenti. Il governo fa di tutto per mantenere alta la soddisfazione delle imprese, entusiaste per il suo operato che sforbicia diritti e taglia beni pubblici per dirottare risorse alle casse aziendali. Oltre ai miliardi di decontribuzioni, di sgravi fiscali, di tagli Irap, le imprese corsare possono contare anche sulla benevola chiusura di un occhio da parte dello Stato sulle loro pratiche illecite.
Sono aiuti di Stato diretti o indiretti quelli che tollerano il caporalato, l’economia criminale o in nero, i danni ambientali, l’evasione fiscale e contributiva. Accontentate su tutto, anche sulla licenza di licenziare, previo modico indennizzo monetario, le imprese vivono in una condizione paradisiaca, con il premier che per giunta si dichiara «gasatissimo» da Marchionne. Si spalanca un continuum politica-impresa che fa impallidire la metafora del «meccanismo unico» agitata dai marxisti in anni ormai lontani.
Eppure, nonostante il legame di ferro tra il governo e l’impresa, e l’indebolimento perseguito con accanimento del lavoro e del sindacato, la ripresa non c’è e i cupi segnali di declino non spariscono dall’orizzonte. Gli investitori scelgono altri mercati rispetto a quello italiano, dove anche i prodotti finanziari e assicurativi navigano fuori controllo e certi giochi d’azzardo si mantengono lontani da ogni efficace attività sanzionatoria.
Il grande impedimento, al superamento della crisi, risiede in ciò che la politica è diventata in questi anni di decadenza e in quello che il capitalismo è sempre stato in Italia. Una politica senza autonomia, e un’impresa senza capacità competitive, strozzano la vita economica. Un governo che si fa largo con il programma della Confindustria (al punto che Squinzi certifica: «Questo governo è una formula uno»), non fa bene all’economia. Perché non è ingrossando il sommerso, gonfiando il nero e abrogando i diritti simbolici del lavoro che si guida la ripresa.
Con le nuove misure taglia tasse, annunciate per settembre, il governo ordinerà un ulteriore dimagrimento del pubblico, cioè un ridimensionamento della spesa per la sanità, i servizi, i trasporti, la scuola, la ricerca senza in alcun modo creare nuova occupazione, senza stimolare investimenti produttivi. Il laurismo 2.0 lascerà solo macerie.
Questo è, a tutti gli effetti, un governo della stagnazione che, per vincere le elezioni, disperde le risorse scarse disponibili. Per accontentare le imprese che incassano soldi in contanti, l’esecutivo rinuncia a disegnare politiche pubbliche per lo sviluppo sostenibile, accantona ogni progetto per politiche industriali basate sull’innovazione. Mentre con il Jobs Act invoca controlli a distanza sulla vita privata dei lavoratori, il governo allontana la vigilanza sulle pratiche tributarie e contributive delle imprese, che indisturbate proseguono nelle loro opache pratiche criminogene. Un governo di classe.
Una critica argomentata e severa alla responsabilità della "sinistra tremula" nel favorire la trasformazione dell'Italia da repubblica democratica in repubblica totalitaria.
La Repubblica, 25 agosto 2015
Si potrebbe essere soddisfatti di queste tardive resipiscenze, se non fosse che in politica i tempi contano per chi agisce e per chi discute. Non è irragionevole pensare che la tempestiva creazione di un fronte culturale critico avrebbe potuto indirizzare le riforme istituzionali verso risultati più accettabili, considerando che erano venute proposte che andavano oltre il muro contro muro. L’occasione è stata perduta da parte di quelli che furono silenziosi o compiacenti. Ma pure da Renzi, che aveva a disposizione indicazioni che avrebbero consentito di ridurre il tasso antidemocratico dell’accoppiata tra legge elettorale e riforma del Senato.
Grandi le responsabilità della cultura, ma grandi pure quelle di chi, nelle sedi politiche, ha conosciuto un tardivo risveglio. Oggi la minoranza del Pd si è convertita all’intransigenza, si ingegna nel cercare varchi regolamentari nei quali far passare le sue proposte di modifica, ma è stata incapace di mettere a punto una ragionevole strategia nel momento in cui si approvava la legge elettorale e si avviava la lettura della riforma del Senato. Di nuovo incapacità di cogliere la rilevanza del tempo in politica. Non basta fare la buona battaglia, bisogna farla al momento giusto.
Comunque si valutino le vicende passate, è difficile negare che siamo di fronte ad una modifica della forma di governo, non accompagnata, come dovrebbe essere in democrazia, da una adeguata considerazione degli equilibri costituzionali complessivi. Problema non nuovo, perché il funzionamento del sistema era stato già gravemente alterato soprattutto attraverso le varie manipolazioni delle leggi elettorali. L’urgenza vera, allora, dovrebbe essere la ricostruzione di rapporti tra gli organi dello Stato tale da restaurare almeno gli equilibri perduti. Questa strada non è stata neppure presa in considerazione; i suggerimenti di modificare almeno alcuni aspetti del nuovo Senato per recuperare qualche brandello di garanzia sono stati respinti persino con tracotanza. Oggi la residua “battaglia” per tornare solo all’elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non accompagnata da altre modifiche. Siamo in presenza di un effetto a cascata. Il Presidente del Consiglio finisce d’essere un primus inter pares e acquista un potere di pieno controllo del Governo. Il Governo declassa il Parlamento a luogo di registrazione.
La nuova combinazione Presidente del Consiglio-Governo-Parlamento consente al partito di governo, grazie al doppio effetto maggioritario della legge elettorale, di impadronirsi del controllo di organi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. L’accentramento di poteri così realizzato rende superflua, almeno nelle intenzioni dichiarate dal Presidente del Consiglio, ogni forma di mediazione politico-sociale – dei sindacati, degli stessi partiti ridotti a macchine elettorali, delle istituzioni culturali, del sistema dell’informazione – e viene così cancellata la rilevanza di quel potere di controllo diffuso nella società che ha sempre giocato un ruolo essenziale nella vita delle democrazie.
Proprio negli ultimi tempi, e di nuovo dopo le ultimissime vicende romane, si è lamentata la perdita degli anticorpi civile e sociali che sono indispensabili per contrastare criminalità, corruzione, privatizzazione delle risorse pubbliche, fuga dal dovere di pagar le tasse. Ma quella perdita è andata di pari passo con l’indebolimento degli anticorpi istituzionali, rappresentati persino con ostentazione come un intralcio all’efficienza e alla rapidità delle decisioni. Qui hanno giocato un ruolo decisivo una cultura politica e una cultura costituzionale che non sono state capaci di declinare quei temi al di là della risposta sbrigativa e pericolosa dell’accentramento dei poteri. Non si sono degnate della minima attenzione le ricerche sulle difficoltà profonde della democrazia, sì che nella proclamata riforma costituzionale manca ogni significativo cenno alla partecipazione e a quella nuova organizzazione dei poteri sociali che va sotto il nome di “controdemocrazia”.
Tutto questo ha fatto sì che l’impresa riformatrice goda oggi di una legittimazione decrescente, che si aggiunge ad una delegittimazione più radicale di cui non si è voluto temer conto. Un cambiamento costituzionale così profondo viene realizzato da un Parlamento eletto con una legge dichiarata illegittima, constatazione che avrebbe dovuto almeno indurre alla massima prudenza e a muoversi sempre con il massimo consenso. Acqua passata? Niente affatto, perché si è costituito un precedente per modifiche costituzionali costruite come esercizio della forza.
A chi intende trasformare la critica in azione politica si oppone, con sempre maggiore insistenza, un solo argomento. State preparando il terreno propizio al successo di Salvini o di Grillo. Lasciamo da parte la non onorata storia di questo argomento, sempre sospetto di intenti ricattatori. Si deve riflettere, invece, sul modo in cui è stata concepita e attuata l’azione di governo. Non vi sono alternative – si è detto e si continua a dire. Muovendo da questa incerta certezza, si è adoperato il muro contro muro, tutti gli interlocutori critici sono stati considerati nemici. Una strategia che fatalmente erode il consenso per il Governo. La democrazia non può essere separata dall’esistenza di alternative, soffre ogni monolitismo e, quando si rende difficile il dialogo o non si accetta la costruzione di nuovi soggetti, si è responsabili dell’astensione di massa, della democrazia senza popolo, o del rivolgersi a chiunque sul mercato si presenti come alternativa.
Il manifesto, 25 agosto 2015)
Nelle economie emergenti non si avvertirono problemi, anzi, gli indicatori economici continuarono a essere positivi. Però, successivamente — mentre nell’Eurozona l’ottusità della “austerità espansiva” aggravava i danni — la crescita si è ridotta o annullata anche in quasi tutti i paesi Brics. Rimaneva la Cina, che con i suoi elevati volumi di crescita del Pil e del commercio con in paesi occidentali attenuava i problemi di quest’ultimi.
Ma adesso anche in Cina è sempre più evidente la frenata dello sviluppo travolgente degli ultimi anni (dal 14% di crescita del Pil nel 2007, le previsioni per il 2015 sono anche inferiori al 5%; le esportazioni cinesi nel 2014 hanno registrato un calo fino al 26% rispetto al 2008 e sono diminuite del 7,3% nei primi sette mesi del 2015).
In Cina emergono i limiti di un modello che, pur molto diverso da quello dominante nei paesi capitalistici occidentali nell’ultimo trentennio, ha in comune il contenimento dei salari e la carenza dei consumi interni (pur se a livelli molto più bassi).
C’è stata una accumulazione forzosa volta a recuperare la sua arretratezza (capitalistica), alimentata con una distribuzione favorevole ai profitti (pubblici e privati) canalizzati in nuova capacità e innovazione produttiva, spingendo gli stessi redditi da lavoro a finanziare in Borsa le imprese e lo stato (il cui debito è pari al 280% del Pil).
L’elevato aumento della capacità produttiva e i bassi consumi interni hanno determinato anche un elevato surplus nel commercio estero e il reinvestimento dei proventi valutari in titoli stranieri, soprattutto Usa. Il modello di sviluppo cinese ha dunque contribuito al fenomeno mondiale della forte crescita di debiti e crediti che ha contribuito alla crisi globale, ma in modo diverso (e fortemente controllato dallo stato) dalla finanziarizzazione delle economie occidentali. In queste ultime gli squilibri nel settore reale erano attutiti dal crescente interscambio con la Cina. Tuttavia, le persistenti cause della crisi dei paesi capitalisticamente sviluppati hanno finito per trasmettere i loro effetti negativi anche al sistema cinese.
La decelerazione dell’economia cinese ha cause proprie, ma un contributo è ascrivibile alla perseverante crisi delle economie occidentali che ha finito per assumere una dimensione effettivamente globale. Questa evoluzione negativa è stata accentuata dalle politiche prevalenti nell’Euro zona, da mesi concentrate sui vincoli da imporre alla Grecia (ma con intenti dimostrativi per gli altri paesi periferici e la stessa Francia) per assisterla con un intervento da 86 miliardi di euro (in buona parte da utilizzare per la restituzione di debiti alla stessa Troika) che, tuttavia, rappresenta circa un decimo di quanto le Borse europee hanno perso nella sola settimana scorsa e ieri per effetto della “sindrome cinese”.
Una similitudine significativa sulla quale dovrebbero riflettere sia i fautori del modello tedesco sia chi auspica la rottura dell’euro è che nell’Unione europea e in Cina si stanno evidenziando i pur prevedibili problemi generati dalla inadeguatezza — pur se a livelli diversi — dei salari e dei consumi, e dalla difficoltà di compensarne l’effetto negativo sulla domanda con le esportazioni. Di fronte alla pericolosa tendenza delle svalutazioni competitive tra grandi aree — Usa, Cina, Giappone, Unione europea – i paesi membri di quest’ultima rischiano di parteciparvi, per di più, in ordine sparso, se torneranno dall’euro alle valute nazionali.
La concentrazione degli intenti espansivi sulla politica monetaria sta alimentando una ingente offerta di liquidità che, permanendo gli ostacoli di natura reale alla ripresa e alla sua riqualificazione, rifornisce la speculazione finanziaria e crea nuove “bolle”, anche in Cina, dove iniziano ad esplodere. Nel dibattito teorico si è tornati a valutare l’ipotesi che sia in atto una “stagnazione secolare” (come nella grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso, con motivazioni arricchite dalle specificità della crisi attuale), ma lo si fa – per lo più — nei congressi accademici e in una “rassicurante” ottica di lungo periodo che sembra definire un piano parallelo di discussione sconnesso dalle vicende e dalla politiche economiche correnti.
Come da tempo succede i politici credono di avere altro cui pensare, ma — avvertiva Keynes — «sono di solito schiavi di qualche economista defunto».
Con una lettera al direttore del giornale la presidente della Camera dei deputati replica al presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, con garbo, ma con fermezza.
La Repubblica, 25 agosto 2015, con postilla
Le migrazioni forzate come quelle che si sviluppano oggi in molte parti del mondo non si impediscono con i muri, ma con le soluzioni. Cioè con la politica, mobilitandosi per porre fine ai conflitti. Le guerre si possono fermare, se c’è la volontà di farlo. Ma non sembra che oggi il mondo sia interessato a fare di più per evitare i massacri in Siria e in Iraq, la violenza in Somalia, la dittatura in Eritrea, per citare alcuni casi. Eppure noi Europei, più degli altri, dovremmo aver memoria degli orrori delle guerre. Non ce ne ricordiamo abbastanza, ma è l’Europa che ci ha garantito 70 anni di pace. Siamo figli di conflitti mondiali che per due volte in 30 anni avevano ridotto il continente ad un cumulo di macerie, con decine di milioni di morti e altrettanti di rifugiati e sfollati. È l’Europa che ci ha dato sicurezza, libertà e benessere, proprio ciò che manca a coloro che oggi ci chiedono protezione.
Certo, il presidente Juncker fa bene a sottolineare che nessuno Stato può regolare questo flusso da solo e che per farlo ci vuole un approccio europeo da mettere in atto senza indugi. È apprezzabile lo sforzo della Commissione, che per la prima volta ha indotto gli Stati membri ad una gestione condivisa degli arrivi dei rifugiati.