L'allarme e la previsione sono più che giusti, ma le parole "classe" e "sinistra" vanno un po' strette rispetto alla catastrofe cui ci stanno portando alcuni secoli di capitalismo e all'immane impresa di scongiurarla.
Il manifesto, 9 settembre 2015
Nell’ottobre del 2003, negli Stati uniti, fu pubblicato il rapporto di due ricercatori, Peter Schwartz e Doug Randall, dal titolo «Uno scenario di bruschi cambiamenti climatici e le sue implicazioni per la sicurezza degli Stati uniti — Immaginando l’impensabile».
Il rapporto, probabilmente ispirato da qualche stratega del Pentagono per oscuri motivi, descriveva articolatamente una serie di eventi catastrofici dovuti principalmente ai cambiamenti climatici, con conseguenze politico-sociali dirompenti per alcune zone del mondo.
Dopo aver previsto che «Aree ricche come gli Usa e l’Europa diverranno delle “fortezze virtuali” per impedire l’ingresso a milioni di persone costrette ad emigrare per aver perso le proprie terre sommerse dall’aumento del livello dei mari, o per non poterle più coltivare», i due ricercatori immaginavano così il futuro prossimo dell’Europa: «L’Europa affronterà enormi conflitti interni a causa del gran numero di profughi che sbarcheranno sulle sue coste, provenienti dalle zone più colpite dell’Africa. Nel 2025 la UE sarà prossima al collasso».
Anche se non è stato determinato dai cambiamenti climatici, questo scenario «impensabile» è ora sotto i nostri occhi, né si può escludere del tutto, per gli anni a venire, un eventuale collasso dell’Unione europea. Il punto, ovviamente, non è stabilire se questi avvenimenti fossero o no prevedibili (per quanto essendo l’essere umano anche un demiurgo, l’anticipazione e la prospettiva dovrebbero far parte delle sue capacità), ma di capire il senso di questo flusso epocale di migranti, che non si limiti alle considerazioni generaliste sull’emergenza sociale e non si appaghi dell’altrettanto generico impegno per l’accoglienza e la solidarietà verso di loro.
Alessandro Portelli, con la sensibilità che lo contraddistingue, ha scritto che si tratta di una nuova forma di lotta di classe (anzi antica) anche se l’obiettivo di questi migranti non è il rovesciamento di un sistema, ma semmai il condividerlo. E’ una interpretazione spiazzante per la sinistra (anche quella antagonista) perché ci pone una serie di interrogativi e di compiti che ben poco hanno a che vedere col nostro umanitarismo, intriso com’è di misericordia cristiana e principi illuministici. Vero è che bisogna fronteggiare razzismo e xenofobia, ma questo non può risolversi soltanto nella rivendicazione di un’Europa solidale, col rischio che ciò si tramuti in una sorta di obolo «comunitario» senza per nulla incidere sulle origini e l’entità del male che è stato fatto. Basta fissare qualche immagine estiva per rendersene conto: i profughi siriani che irrompono nelle vacanze dell’agiata borghesia europea sbarcando nell’isola greca di Kos col loro carico di orrori, ne sono la metafora più efficace che mette di fronte chi ha e chi non ha, chi si diverte e chi si dispera, senza possibilità di dialogo, perché la condizione degli uni, in questa società, non può sussistere senza quella degli altri. E noi lo sappiamo, ma abbiamo smarrito le parole e i gesti per cambiare questo stato di cose.
Per questo i migranti ci parlano. Presi singolarmente ognuno dirà che è qui per rifarsi una vita, ma nel loro insieme, nel loro essere «massa invadente», ci dicono che l’altro mondo possibile di cui abbiamo vagheggiato è, in realtà, un cumulo di macerie da cui stanno fuggendo; che il nostro umanesimo e i nostri valori mediterranei, cioè le «essenze occidentali» come le chiamava Franz Fanon (di cui il «basamento greco-latino» costituiva una sorta di logo), sono ormai «soprammobili senza vita e senza colore». Disfarsi di questi soprammobili, cancellando dalla mente degli oppressi l’immagine del «basamento greco-latino» proprio perché simbolo di quelle «essenze» dominatrici, era considerato da Fanon un momento liberatorio nella lotta dei dannati della Terra.
Oggi siamo alla distruzione materiale di quel basamento per mano dell’Isis, che certo non può annoverarsi tra gli emuli di Fanon. Dunque il problema (dell’affrancamento economico e culturale di queste genti), si ripropone in forme tenebrose e non poteva essere altrimenti dato che l’Europa (per non parlare degli Usa) non ha mai smesso di apportare disordine e dolore in Africa e Medioriente. Quanti leader — africani, arabi, progressisti e rivoluzionari — sono stati uccisi, quante rivolte soffocate nel sangue, quanti i governi rovesciati pur di impedire che si affermasse un punto di vista indipendente e/o marxista come lo postulava Fanon: «Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle sue strade, a tutti gli angoli del mondo». Diversamente l’Isis, nel mentre proclama la distruzione dell’Europa (limitandosi per ora a quella dei templi), mira al controllo delle ricchezze del sottosuolo in Medio Oriente, in Libia, in Nigeria per realizzare (apparentemente) un modello di società ibrida: confessionale, feudale, ma che non disdegna l’uso di tecnologie al passo con i tempi né, soprattutto, la logica di mercato propria del capitalismo.
In altre parole non vogliono essere come noi, ma prendere il nostro posto. Non una vera alternativa quindi, ma una variante sì ed anche efficace, in grado di mobilitare parte delle masse arabe ed africane e di suggestionare l’animo degli esclusi che vivono nelle banlieue europee.
Fate qualcosa, ci dicono ancora i migranti, per far sì che l’Isis non rappresenti più una chance. Ma questa volta fatela bene. Fermate la guerra, ma fermate anche lo sfruttamento, quello che ci accomuna in quanto subalterni, ma ci divide in quanto a fede e nazionalità. È un’istanza di classe, un appello alla sinistra.
Negli ultimi decenni si è assistito all’emergere di un vero e proprio mercato del debito a cui gli Stati hanno dovuto sottostare. L’Argentina, prima in questo processo, ha dovuto affrontare i cosiddetti “fondi avvoltoio” quando ha scelto di ristrutturare il proprio debito. Questi fondi, di recente, hanno ottenuto per mezzo della Corte americana il congelamento degli asset argentini posseduti negli Stati Uniti.
Ieri all’Argentina, oggi alla Grecia, domani forse alla Francia o a qualsiasi Paese indebitato può essere negata nelle attuali condizioni la possibilità di una ristrutturazione del debito nonostante il buon senso. Adottare un quadro legale rappresenta un’urgenza per assicurare la stabilità finanziaria, permettendo a ciascun Paese di risolvere il dilemma tra il collasso del sistema finanziario e la perdita di sovranità nazionale.
Questi 9 principi riaffermano la superiorità del potere politico, attraverso la sovranità nazionale, nella scelta delle politiche pubbliche. Essi limitano la spoliticizzazione della struttura finanziaria, la quale ha escluso finora ogni possibile alternativa all’austerity, tenendo in ostaggio gli Stati.
L’Onu deve quindi farsi sostenitore di una gestione democratica del debito e della fine del mercato dei debiti.
Un’iniziativa simile aveva fallito nel 2003 al Fondo Monetario Internazionale.
Oggi, la posizione degli Stati europei rimane ambigua, nonostante il loro supporto sia fondamentale affinché questa risoluzione possa essere attuata. I Paesi europei si sono disinteressati al processo di democratizzazione non mostrando alcun supporto alla creazione del comitato.
Ma la situazione greca ha mostrato che non c’è più tempo per tergiversare.
Se gli eventi dell’estate hanno rafforzato i nazionalismi e la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni internazionali, oggi gli europei sono chiamati a riaffermare i diritti democratici, da anteporre alle regole di mercato nella governance internazionale.
Chiediamo quindi che tutti li Stati Europei votino a favore di questa risoluzione».
Primi firmatari
Gabriel Colletis
Giovanni Dosi
HHeiner Flassbeck
James Galbraith
Jacques Généreux
Martin Guzman
Michel Husson
Steve Keen
Benjamin Lemoine
Mariana Mazzucato
Ozlem Onaran
Thomas Piketty
Robert Salais
Engelbert Stockhammer
Xavier Timbeau
Bruno Théret
Yanis Varoufakis
Gennaro Zezza
(traduzione Marta Fana)
«Le sfide del cristianesimo la minaccia dell’Is il ruolo femminile e il pontificato di Francesco Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa dedicato a “Misericordia e perdono”». La Repubblica,
9 settembre 2015
Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».
Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».
I monaci dal V secolo fecero scempio dell’arte pagana Erano i talebani del momento
Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel “Libro dei testimoni”, lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che – da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi – in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».
Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».
La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordina- ri, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad , affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».
Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: “Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Così li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra”. Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna — giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione — ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».
Enzo Bianchi: «Critichiamo l’Islam ma poi emarginiamo ancora le donne»
Il convegno che si apre oggi è dedicato a “Misericordia e perdono”: sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».
Davvero sublimi le truffe che il cerchio magico di Matteo Renzi riesce a inventare per difendere il regime feudale e accalappiare gli scioccherelli della sinistra tremula.
Il manifesto, 8 settembre 2015
Come quello che un tempo avevamo a livello regionale, e che a furor di popolo era stato sostanzialmente espunto nella ultima stagione statutaria. Doveva servire a portare presenze qualificate e competenze nei consigli regionali a sostegno dei governatori, ed era poi in prevalenza diventato luogo di mercimonio politico o asilo per amici, sodali, parenti e clienti. Che si voglia adesso rispolverare a livello nazionale già segnala quanto sia bassa la mediazione.
Un parlamentare è davvero eletto se viene personalmente scelto dagli elettori, in una diretta competizione con altri. Qualunque altro sistema, nel degrado generale che ci accompagna, non promette buoni risultati. Un listino presumibilmente votato in blocco e in collegamento con un candidato governatore o con una lista di partito, significa invece un senato di nominati, per di più — se rimane il testo fin qui approvato — scelti da chi non merita e tra chi non merita. E che si aggiunge a una camera parimenti composta in larga misura di nominati, per l’infernale meccanismo dei capilista a voto bloccato. Tutto, pur di evitare che il popolo sovrano scelga chi lo rappresenta.
Pare che una parte della tremebonda dissidenza Pd sia disponibile. Visti i precedenti, non meraviglia, anche se non se ne capisce la ragione. Senza cambiamenti radicali del copione sono già oggi dei morti che camminano, e ben dovrebbero saperlo. Fa tenerezza — o forse rabbia — la menzione dei malesseri della «nostra gente», del «nostro popolo», che qualche leader, un tempo autorevole, timidamente mette in campo. Erano richiami frequenti nel gruppo dirigente di quella che fu una grande sinistra. Avevano un peso reale, perché segnavano il comune sentire che legava la base al vertice del partito, e la condivisione profonda di valori e di obiettivi.
Ma qualcuno dovrebbe spiegare che oggi quel popolo non c’è più. E che è stato disperso non da una strega cattiva, ma da una ditta che ha cambiato ragione sociale. Cosa ha a che fare con quel popolo un partito che toglie ai lavoratori gli strumenti per la propria difesa, che sbaracca la scuola pubblica, che taglia i servizi essenziali, che non combatte le diseguaglianze, che addirittura toglie ai poveri per dare ai ricchi come si progetta con l’Imu e la Tasi? È un disegno regressivo, e la radice è nella ricerca di voti ovunque si possano raccogliere. Dov’è un progetto di sinistra? E se si nega il progetto, si nega anche il «popolo» che in esso si può riconoscere. Del resto, chi ha avuto modo di frequentare anche occasionalmente i circoli territoriali del Pd sa che ormai i militanti di oggi sono molto diversi da quelli di un tempo. Il «popolo» che fu se n’è andato, in massa. E la speranza dell’esangue sinistra Pd di riconquistare il partito male si colloca nel «popolo» di oggi.
Proprio per questo il disegno renziano è coerente, e non di sinistra. Gli argomenti che lo sostengono sono inesistenti. Il risparmio di spesa si riduce a spiccioli, e più o meglio si perseguirebbe tagliando in modo bilanciato il numero di deputati e senatori. Il bicameralismo paritario può essere superato mantenendo il carattere elettivo, come l’esperienza di molti paesi ampiamente dimostra. L’obiettivo vero è invece proprio l’asservimento delle assemblee elettive all’esecutivo e al leader, e la riduzione degli spazi di democrazia e di partecipazione. A questo sono funzionali il sistema elettorale col suo megapremio di maggioranza al singolo partito e il ballottaggio, e la riforma costituzionale. A questo fine, un ectoplasma di senato è un ottimo risultato. E non dimentichiamo la maggiore difficoltà di ricorso al referendum popolare. A cosa serve tutto questo se non a zittire il dissenso, per portare avanti politiche che un tempo avremmo definito antipopolari, e che oggi per alcuni recano il segno della modernità?
Quindi, lasciamo in pace il «nostro popolo». Non sarà riconquistato con appelli sentimentali, ma solo difendendo gli spazi di democrazia che ad esso possono dare voce. Si combatta dunque fino in fondo per un senato genuinamente elettivo. Questo è oggi il terreno di scontro, e le invenzioni di Renzi lasciamole a lui. Anzi, non vorremmo che qualcuno ce lo copiasse. Brevettiamolo, e mettiamolo sul mercato.
Noi stiamo con Syriza e Alexis Tsipras. Perché la loro lotta contro l’austerità e per cambiare radicalmente l’Europa è la nostra lotta. Se il 20 settembre Syriza sconfiggerà il fronte che vuole riportare la Grecia ai tempi della vergogna e della subalternità, sarà il segnale che la breccia aperta il 25 gennaio rimane aperta. Se non riusciranno a cancellare l’unico governo veramente democratico e di sinistra che si oppone al dogma neoliberista sul continente europeo, vorrà dire che la lotta può continuare. Che il progetto dell’oligarchia che guida l’Unione Europea non è passato.
In molti in Europa sperano nella fine del governo Tsipras e di Syriza. Sono le stesse forze che in questi mesi hanno fatto di tutto per farlo cadere o per cacciare tout court la Grecia dall'Europa. Contro queste forze Tsipras, il suo governo e il popolo greco hanno ingaggiato una battaglia durissima. In completa solitudine. Atene, è stato detto, è stata lasciata sola “come Praga nel ‘68”. Non solo le tradizionali forze di destra, ma la socialdemocrazia e gran parte dei socialisti europei si sono voltati dall’altra parte, e in molti casi si sono schierati contro. Ha pesato nello scontro anche la debolezza dei movimenti sociali, che non hanno fatto sentire in modo incisivo ed efficace la loro solidarietà alla Grecia come sarebbe stato necessario.
L'Europa è stato il luogo del compromesso sociale più avanzato e del migliore welfare state. Ora è divenuta un avamposto della globalizzazione neoliberista. Qui sta la nostra sconfitta. Qui le ragioni della ripartenza. Il grande merito di Tsipras è stato di denunciare questi poteri e questo stato di cose e di lanciare una lotta di liberazione della Grecia e dell'Europa, insieme. Per cinque mesi ha difeso in tutti i modi possibili il proprio popolo e il proprio Paese. Con il Referendum ha mostrato a tutti che il popolo greco sosteneva il proprio governo, che per liberarsene bisognava cacciare la Grecia dall’Europa.
Dopo la sofferta conclusione del negoziato Tsipras ha espresso un giudizio chiaro e severo del compromesso raggiunto. Lungi dal far propria la filosofia dell'avversario o l'idea che non esista alternativa allo stato di cose esistenti ha parlato di strade nuove da inventare col conflitto. Ha escluso l'uscita dall'Euro che non stava nei programmi votati dal popolo e che nella condizione data avrebbe rappresentato in sostanza pagare stipendi e pensioni in dracme e debiti in euro, con conseguenze disastrose. Senza nessuna indulgenza per il compromesso fatto occorre riconoscere che è stato posto un freno all'idea di una Europa tedesca ben rappresentata dal volto arcigno di Wolfgang Schaeuble, aprendo per altro contraddizioni significative e globali contro questo progetto, all'inizio impensabili nello schieramento neoliberista a livello europeo e internazionale. E che si è imposta la discussione sul debito, divenuta ora assai più concreta. Soprattutto sia la Grecia e che l'Europa hanno più tempo. Non è un caso che sia cresciuta la sintonia tra Tsipras e Iglesias facendo giustizia di troppo facili e strumentali analisi sulle differenze tra Podemos e Syriza; e che alla speranza spagnola si siano aggiunte le nuove opportunità in Irlanda e in Inghilterra con Corbyn.
In Grecia, d’altra parte, con coerenza Tsipras ha escluso ogni compromesso con i responsabili della rovina del Paese: popolari e socialisti, neppure a fronte della scelta effettuata da forze che hanno lasciato Syriza. Si chiede al popolo un giudizio su ciò che si è fatto e un nuovo mandato per la nuova fase, per continuare la lotta contro la austerità e per cambiare l'Europa.
Su questa prospettiva e questo terreno è nata l'Altra Europa con Tsipras. Non a caso ci siamo chiamati così, per connessione con un percorso di lotta e di cambiamento. Punto essenziale, indicato con chiarezza sia dall'appello iniziale che dal programma con cui siamo andati alle elezioni europee del 2014. In entrambi la lotta per cambiare l'Europa non viene delegata alla uscita da una moneta unica che potrebbe avere conseguenze tragiche, ma al cambiamento dei rapporti di forza sociali e politici dello scenario europeo considerato il vero terreno dello scontro e della ricostruzione della democrazia e dei soggetti di cambiamento.
Troppo poco abbiamo fatto in Italia perché la battaglia della Grecia e di Tsipras non rimanesse isolata. Per questo L’Altra Europa con Tsipras è impegnata perché in Italia nasca al più presto e si affermi una forza alternativa della sinistra che, insieme a tutte le forze della sinistra di alternativa europee, costituisca un punto di riferimento alle lotte, ai movimenti, alle battaglie per cambiare l’Europa.
Siamo solidali e vicini più che mai a Syriza, consapevoli del travaglio che la ha attraversata in un momento cosi delicato e drammatico e dell’importanza dell’unità, testimoniata anche da quelle compagne e quei compagni che, pur mantenendo posizioni critiche rispetto alle scelte del governo, hanno deciso di restare dentro Syriza per portare il loro contributo alla vittoria elettorale. Con questo spirito continueremo a ricercare la più larga unità di tutte le forze che lottano in Europa e in Grecia contro l'austerità lavorando per evitare ad ogni costo “guerre civili a sinistra”. Con la stessa coerenza con cui abbiamo auspicato l'unità di Syriza, siamo convinti che una nuova vittoria di Tsipras e di Syriza il 20 settembre aiuterà la lotta di tutti a continuare. Non solo ce la auguriamo, saremo in campo per dare tutto il nostro sostegno. In Italia, offrendo la più ampia informazione e continuando la battaglia contro le posizioni che insistendo sull'austerità portano il progetto europeo all'implosione. E partecipando numerosi alla conclusione della campagna elettorale di Syriza in Grecia, alla vigilia del voto del 20 settembre.
Riferimenti
Il documento è ripreso dal sito L'altra Europa con Tsipras. In eddyburg sono raccolti numerosi articoli sul coraggioso tentativo della Grecia di Tsipras di avviare la trasformazione dell'Unione europea e di costruire un'Europa finalizzata alle esigenze e agli interessi delle persone e non al maggior potere del financapitalismo (a una visione dell'Europa conforme al "manifesto di Ventotene" e non agli interessi nazionalistici dei singoli stati) è raggiungibile digitando sul "cerca" in cima a ogni pagina la parola "Tsipras"
I quattro fattori che hanno indotto Angela Merkel ad aprire una breccia nella ferrea barriera sella Fortezza Europa. Non centa il sentimento.
Il manifesto, 8 settembre 2015
Può cambiare tutto nel giro di poche settimane o addirittura di pochi giorni? La stampa europea fa mostra di crederci. L’egemonia tedesca sull’Europa sembra essersi trasformata d’incanto in una luminosa guida morale. I «valori della cultura europea» mettono in ombra quelli della borsa, la responsabilità storica prende il sopravvento su quella contabile, dall’ultimo rifugiato siriano fino alla cancelliera Merkel tutti insieme intonano l’«Inno alla Gioia». Per qualcuno la «pallida madre» avrebbe addirittura rispolverato lo spirito di Hoelderlin e Heine. L’esagerazione è il pane quotidiano dei media. Eppure qualcosa di nuovo è accaduto.
Berlino, sia pure con molti distinguo di cui non è ancora chiara l’entità, ha rimesso in questione una delle sue creature più care: quell’accordo di Dublino che costringeva i richiedenti asilo a rimanere nel primo paese di approdo. Ha chiamato a un grande sforzo nazionale per fronteggiare l’emergenza dei profughi, ha dichiarato di voler investire sei miliardi dei suoi preziosi risparmi per la sistemazione e l’integrazione dei nuovi arrivati, indirizza l’Unione europea verso politiche responsabili di apertura e di accoglienza.
Questa correzione di rotta è stata determinata da quattro fattori ben più razionali che emotivi. Il primo, decisivo, è la consapevolezza che la pressione migratoria era ormai inarrestabile. Il governo di Berlino ha dovuto infine prendere atto che non esiste barriera materiale o legislativa in grado di arginare la moltitudine in movimento.
Si tratta, dunque, di una vittoria dei migranti, ottenuta a carissimo prezzo, di un risultato della loro straordinaria determinazione. Le frontiere non sono state semplicemente aperte dalla benevolenza dei «padroni di casa», ma travolte da decine di migliaia di persone che esercitavano, prima che qualcuno glielo avesse riconosciuto, il loro «diritto di fuga» e rivendicavano la libertà di movimento. Inoltre bisognava fare in fretta poiché tutto poteva accadere in quell’Ungheria dai tratti sempre più marcatamente fascisti che l’Europa tollera nel suo seno. Aprire la frontiera più che una scelta è stata una necessità.
Il secondo elemento è la scoperta che i sentimenti xenofobi e razzisti non sono affatto maggioritari e neanche così ampiamente diffusi come si credeva. La straordinaria mobilitazione spontanea a sostegno dei rifugiati da Vienna a Monaco a Berlino ha dissipato le ombre disseminate in Germania dai patrioti antislamici di Pegida (ridotti a sparuti gruppuscoli assediati in ogni città tedesca) e dai nazionalisti solo un po’ meno impresentabili di Alternative fuer Deutschland. Di conseguenza il timore che l’apertura agli stranieri dovesse comportare un cospicuo costo elettorale a favore della destra è stato fortemente ridimensionato. Alla fine potrebbe addirittura tradursi in un guadagno per la Cdu di Angela Merkel.
Il terzo fattore era la necessità di restaurare l’immagine della Germania in Europa, grandemente danneggiata dalla gestione della crisi greca. Il paese non doveva più essere identificato con il volto arcigno della Bundesbank. Tuttavia, nel sottolineare più volte il fatto che la Germania è un paese forte e sano, Angela Merkel lascia intendere che solo l’esercizio ordinario del rigore permette l’esercizio straordinario della solidarietà. Severa o sollecita che sia la leadership continua risiedere a Berlino. In ogni modo l’operazione di immagine, a giudicare dagli osanna che si levano in mezza Europa e tra le file più fotografate dei profughi, è perfettamente riuscita. Senza peraltro dovere ricorrere ai proclami bellici di Londra e di Parigi.
Il quarto fattore è la consapevolezza del fatto che, debitamente governata, l’immigrazione, se a breve termine rappresenta un costo, sul lungo periodo costituisce una formidabile risorsa, soprattutto per un modello economico come quello tedesco. Si tratta allora di mettere a punto gli strumenti e i filtri necessari a questo governo e dunque un diritto di asilo europeo secondo schemi funzionali alla politica migratoria della Bundesrepublik.
Il lavoro è appena cominciato e c’è intanto da fare i conti con i nazionalismi più o meno xenofobi dell’Est europeo lungamente coccolati da Berlino. Ma, soprattutto, ci sono da stabilire i criteri di ammissione e di esclusione. In un primo momento sembrava che le porte della Germania si dovessero aprire ai soli siriani. Una discriminazione rispetto ad altre aree di conflitto armato non ammessa dalla Costituzione tedesca. Tuttavia non è ancora chiaro chi avrà diritto allo status di rifugiato. Di certo non chi proviene dai paesi balcanici (Albania, Serbia, Kosovo, Bosnia) dichiarati sicuri. Il criterio è semplice: una volta dichiarato un paese «sicuro» il rimpatrio sarà immediato. Ma questa definizione si presta alle più arbitrarie e interessate semplificazioni. Tanto più che in molti paesi la «sicurezza» garantita alla maggioranza, spesso non lo è altrettanto per le minoranze.
C’è da scommettere che, se questo sarà il discrimine, il mondo si scoprirà presto molto più sicuro di quanto non immaginasse.
E, tuttavia, una disponibilità al cambiamento, al rinnovamento delle società europee con il contributo dei migranti sembra essersi ormai diffuso tra i cittadini del Vecchio Continente e trova una qualche eco perfino nelle parole della Cancelliera alquanto inebriata dal suo stesso, inatteso, successo di pubblico. Una breccia è stata aperta su entrambi i lati della frontiera, una breccia che investe l’intero spazio pubblico europeo e che, su questa scala, deve essere allargata.
Proviamo a guardarci da fuori: 110mila italiani sono emigrati nel 2014, oltre il doppio dei richiedenti asilo nel nostro paese. Non ci hanno cacciati, e neppure trattati come molti di noi trattano i nostri simmetrici "migranti economici" .
La Repubblica, 8 settembre 2015
VORREMMO raccontare una storia di migranti, partendo dai dati invece che dalle immagini. Sarà meno suggestiva, ma è accurata. I dati che raccontiamo misurano flussi e caratteristiche delle persone che attraversano i confini dell’Italia. In questa storia più di 100mila persone hanno lasciato il loro paese per cercare lavoro e fortuna in un altro nel 2014: più del doppio rispetto al 2010. Di queste più della metà è tra i 25 e i 44 anni di età, il periodo più produttivo della vita lavorativa. La maggior parte sono migranti per ragioni economiche e spesso lasciano situazioni di scarse prospettive. Alcuni di loro saranno professionisti e scienziati, altri camerieri e cuochi.
Questi migranti che attraversano i confini del nostro paese ogni anno potrebbero provocare grande opposizione nelle aree che li ospitano. Se avessero viaggiato su barche ne avremmo vista una alla settimana con più di 2mila persone tutto l’anno. Ma non abbiamo visto nulla e quindi per noi non esistono. I dati da noi descritti sono relativi agli italiani che hanno lasciato l’Italia per andare a risiedere all’estero. Sono stati ottenuti dall’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (Aire). Anche se tutti i richiedenti asilo in Italia trovassero un modo per rimanervi, sarebbero meno della metà degli italiani che partono.
Non vogliamo equiparare le condizioni di emergenza reale dei migranti del Nord Africa a quella degli italiani che emigrano per scelta e in sicurezza. Tuttavia comparare questi flussi stimola due importanti riflessioni. Una ha a che fare con l’impatto economico dei migranti e l’altra riguarda la
necessità di cambiare il modo in cui l’Italia considera la collaborazione con il resto d’Europa.
L’enfasi sui potenziali costi economici degli immigrati sollevata in questi giorni è mal riposta. La perdita fra il 2010 e il 2014 di 200mila giovani, dinamici e produttivi, il cui contributo all’economia italiana sarebbe grandissimo, è costo economico molto più significativo rispetto all’arrivo dei rifugiati. In un mondo integrato è fisiologico che le persone migrino tra paesi. In tale prospettiva i giovani immigrati sono potenzialmente una risorsa e potrebbero rimpiazzare i tantissimi italiani in partenza. È stato così in Irlanda dove la grande emigrazione (verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti) è stata controbilanciata da grande immigrazione (in gran parte dall’Est Europa) che ha stimolato il suo boom economico (tra il 2000 e il 2010).
Questo necessita di politiche di immigrazione lungimiranti, basate sulle opportunità di lavoro in certi settori e sulla previsione e gestione di flussi futuri. Inoltre, riforme del mercato del lavoro che introducano più competizione e flessibilità, aiuterebbero anche l’immigrazione a essere motore di occupazione e crescita. Vari studi mostrano che negli Stati Uniti gli immigrati, anche quelli con poca istruzione, stimolano la crescita economica con il loro lavoro e i loro consumi. Nei prossimi decenni molti abitanti di vari paesi dell’Africa e del Medio Oriente vorranno emigrare. Potremmo incentivarne un numero ragionevole a farlo, legalmente, come studenti, lavoratori e imprenditori, stimolando l’economia, creando connessioni tra paesi e infrastrutture che possono servire anche a gestire emergenze e rimpatriare chi non è legale.
La seconda riflessione evidenzia l’ingenerosità con cui l’Italia critica il resto d’Europa per la mancanza di aiuti nella gestione della “crisi dei migranti”. L’Italia non ha accettato negli ultimi anni che un minimo numero di rifugiati tra i richiedenti asilo che arrivavano ai loro confini. La Germania è il paese europeo che ha accolto più rifugiati, arrivando a più di 30mila nel 2014. L’Italia non ne ha mai accettati più di 3.500 all’anno. Allo stesso tempo, il resto d’Europa ha accolto negli ultimi due decenni centinaia di migliaia di nostri connazionali. Secondo l’Aire sono 873mila gli italiani migrati nel resto d’Europa dal 1992 a oggi e tuttora residenti all’estero. Di essi 221mila sono in Germania (il paese che ne accoglie di più), 120mila in Francia e in Regno Unito.
Il movimento internazionale di persone va visto come motore di crescita e sviluppo. L’immigrazione in Italia andrebbe governata strategicamente come risorsa per la crescita invece che affrontata come emergenza. Ma per sfruttare i potenziali benefici dell’immigrazione ci vuole pianificazione dei flussi, accesso al lavoro, incentivi corretti, e migliori politiche di immigrazione. Bisognerebbe ammettere legalmente un ragionevole numero di immigrati e dargli le stesse opportunità che vengono date agli italiani che emigrano, e per il cui successo economico e carriera dovremmo essere grati al resto d’Europa.
Massimo Anelli insegna alla Bocconi, Giovanni Peri è un economista della University of California
Il conflitto tra cittadini europei e profughi non è un fatto “naturale”; è il prodotto dei tagli alla spesa pubblica e della restrizione di diritti, redditi e sicurezza di chi lavora. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare quelle di bilancio.
Il manifesto, 8 settembre 2015
Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti. La mossa di Angela Merkel è stata abile — le ha restituito una popolarità che l’attacco alla Grecia aveva compromesso — e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e a migliaia di cittadini europei — austriaci, tedeschi e soprattutto ungheresi — di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici milioni di europei. Ma dopo la promessa di accogliere tutti, sono arrivati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e insicuri e tra profughi e migranti economici e l’assicurazione che si tratta di una misura temporanea.
Ma quella decisione unilaterale autorizza ogni governo ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno. E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro: si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo? Èstato fatto così un altro passo nel dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione fuori dall’area Schengen e paesi Schengen fuori dall’Unione; paesi dell’Unione fuori della Nato e paesi della Nato furi dall’Unione; paesi nell’Unione dall’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc. Ora ci saranno paesi dell’Unione con le quote obbligatorie e paesi senza. E ciascuno si sceglierà la nazionalità che preferisce?
L’accoglienza divide tra loro gli Stati dell’Unione, impegnati a rimpallarsi le quote di profughi, e fomenta al loro interno lo scontro di cui si alimenta la xenofobia. Ma l’Unione non avrà una politica comune su profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza — casa, lavoro, reddito e sicurezza — a una quota crescente dei suoi cittadini. Se la disoccupazione giovanile è al 20 per cento, e in alcuni paesi al 50, è a un’intera generazione che viene negata la cittadinanza. In queste condizioni è difficile varare una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia aprendo le porte, sia puntando su respingimenti inefficaci e spietati. Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassa la destra xenofoba, ma a cui i governi non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto dei tagli alla spesa pubblica e della restrizione di diritti, redditi e sicurezza di chi lavora. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare quelle di bilancio.
Ma la vera ragione della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi governi hanno assistito ignavi, o hanno partecipato a massacri e guerre ai confini dell’Europa come se la cosa non li riguardasse, perché impegnati a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Per anni, a parte gli accordi commerciali per procurarsi petrolio e metano, nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: che si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima — ma non l’unica — conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. È più facile attizzarli: Francia e Regno Unito già pensano a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia, dove hanno creato un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora che a risolvere il problema di centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della sopravvivenza siano i vertici dell’Unione e i suoi governi è del tutto irrealistico. Vorrebbero respingerne la maggioranza, ma non riescono: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che stanno già facendo pagare alle loro vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cercano di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria fosse diversa da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno esplicito, da molti governi, sono state rovesciate e sconfitte, anche se solo per qualche giorno, dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada per Vienna o nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena in un tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Accanto a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che cercano, senza distinguere tra profughi e migranti economici, di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui i media non hanno dedicato un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore che gli portino via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo consapevole che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori in cui vivono; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione. In questo melting pot si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono fuggiti: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni di una loro pacificazione e i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento per le comunità dei loro paesi di origine. Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.
«Di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali».
La Repubblica, 7 settembre 2015
ERA prevedibile, anzi attesa, una dichiarazione critica di esponenti della Conferenza episcopale sul disegno di legge sul riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. La discussione è benvenuta, secondo la buona regola laica per cui tutte le opinioni meritano rispetto.
Con l'unica condizione che non si pretenda di attribuire all’una o all’altra un valore aggiunto legato all’autorità, vera o presunta di chi l’ha manifestata. Una questione a parte, e di non poca rilevanza, è rappresentata dal senso che oggi assume la ben nota frase di Papa Francesco, riferita alle persone omosessuali, «chi sono io per giudicare? ».
Il vero problema, e l’incognita, riguardano la cultura politica e la sua consapevolezza di quale sia il significato profondo ormai assunto dal tema dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso. La prima mossa è scoraggiante. Nella ricerca affannosa di un compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare una distinzione tra queste coppie e quelle eterosessuali unite in matrimonio. Ma questo espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie, come peraltro aveva messo in evidenza, nel 2010, la Corte costituzionale. «Per formazione sociale s’intende ogni forma di comunità, semplice o complessa. Idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».
Sono parole non equivoche e quelle sottolineate mettono in chiara evidenza che, in un quadro di dichiarato pluralismo, famiglia e quelle che oggi chiamiamo “ unioni civili” appartengono alla stessa categoria. Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un travisamento della Costituzione e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di riaffermare una discriminazione. Così la cultura politica si chiude in un misero orizzonte, conferisce dignità alle peggiori pulsioni e in questo modo si nega al mondo e non tiene in nessun conto una vastissima discussione giuridica che, pure in Italia, ha dato contributi di qualità. Forse, per rendersi conto dei rischi che si corrono, bisognerebbe dare un’occhiata in giro, cominciando da una frase della sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti, il 26 giugno scorso, ha riconosciuto l’accesso al matrimonio anche per le coppie omosessuali. «Ogni persona può invocare la garanzia costituzionale anche se larga parte dell’opinione pubblica non è d’accordo e il potere legislativo rifiuta di intervenire», perché bisogna «sottrarre le persone alle vicissitudini legate alle controversie politiche ». Si può discutere questa affermazione, ma non eludere la questione che solleva: di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali.
Gli Stati Uniti sono lontani? Ma l’Europa è vicinissima, visto che il 21 luglio, quindi meno di un mese dopo la sentenza americana, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per il ritardo con il quale ha finora negato riconoscimento alle coppie di persone dello stesso sesso. L’argomentare di questa sentenza squalifica l’espediente linguistico adottato al Senato, visto che fin dal 2010 la Corte europea ha operato un progressivo avvicinamento tra diritti della coppia coniugata e diritti delle coppie di persone dello stesso sesso, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla “vita familiare” dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è bene aggiungere che questa dinamica è stata accelerata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha fatto venir meno il riferimento alla diversità di sesso sia per il matrimonio che per altre forme di costituzione della famiglia.
Ora il Parlamento non è libero di riconoscere o no le unioni tra persone dello stesso sesso (l’Italia è già stata condannata a risarcire i danni alle coppie che hanno fatto ricorso a Strasburgo). Decidendo all’unanimità, la Corte europea ha sottolineato che siamo in presenza di diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. Il legislatore italiano ha il “dovere positivo” di intervenire e la sua discrezionalità è ristretta, poiché ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) ha già garantito quei diritti. L’importanza della questione discende dal fatto che siamo di fronte a diritti dai quali dipende la vita delle persone, che non può essere lasciata nell’incertezza o affidata a semplici patti privati o regole patrimoniali. Solo così può essere avviata la cancellazione di una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.
Questi riferimenti sintetici dovrebbero essere sufficienti per mostrare che i senatori, per essere una volta tanto coerenti con i criteri europei, hanno una strada ben segnata per quanto riguarda tempi e contenuti, come peraltro avevano già fatto moltissimi studiosi italiani. Piuttosto vi è un altro punto importante nella sentenza europea, dove si dice che i parlamenti nazionali non hanno lo stesso dovere stringente d’intervenire per quanto riguarda l’accesso al matrimonio delle coppie di persone dello stesso sesso. Si sottolinea, però, che questa più ampia discrezionalità dipende dal fatto che ancora solo 9 Paesi su 47 hanno riconosciuto a queste coppie l’accesso al matrimonio. Dunque, non da una immutabile natura del matrimonio. E, poiché si insiste sulla necessità di seguire le dinamiche sociali, il ricorso all’argomento quantitativo significa che, crescendo il numero dei Paesi che introducono il matrimonio egualitario, diminuisce la discrezionalità dei parlamenti nazionali se riconoscerlo o no. Perché aspettare? Il Parlamento italiano fu lungimirante nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, già nel 2013 proprio al Senato era cominciata la discussione sul matrimonio egualitario, nel 2013 e nel 2015 la Corte di Cassazione aveva aperto proprio in questa direzione, sì che diventa sempre più debole il riferimento ai deboli argomenti della Corte costituzionale.
Non è possibile, allora, introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione. Non cediamo a un realismo regressivo. Ha ben ragione uno studioso attento, Andrea Pugiotto, nel ricordarci che «il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità, perché oppone resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “(innaturale) pretesa”, ma al diritto individuale alla propria identità personale».
Ma, soprattutto, si vorrebbe che la discussione muovesse dal suo innegabile presupposto — l’essere di fronte al più profondo tra i sentimenti che possono legare due persone. E allora politici, giuristi, cardinali abbandonino ogni ipocrisia e siano sensibili all’appello rivolto a tutti da un poeta, W. H. Auden. “La verità, vi prego, sull’amore”.
«
C’è fretta di prendere decisioni e dalla Germania il vice-cancelliere, Sigmar Gabriel, approva la proposta del primo ministro austriaco, Werner Faymann, che vuole tagliare i fondi ai paesi recalcitranti della Ue che rifiutano le quote: «Penso che il cancelliere austriaco abbia assolutamente ragione quando dice che i soldi devono cessare di circolare se non arriviamo a una politica comune sui rifugiati». I paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca), che hanno il chiaro appoggio dei Baltici, sono ormai sotto pressione.
L’Europa socchiude la porta, permette solo ai rifugiati da zone di guerre di mettersi in coda e ribadisce che respingerà con determinazione tutti coloro che pretendono di entrare provenendo da «paesi sicuri». Ma qualcosa si sta muovendo, dopo mesi di blocco.
I cittadini europei cominciano a muoversi, come se il muro ideologico dietro il quale in cui si erano volontariamente chiusi, stesse anch’esso aprendo delle brecce.
Ieri, in Francia – dove un sondaggio (fatto però prima della foto di Aylan che ha scosso le coscienze) dice che il 52% non vuole profughi – ci sono state varie manifestazioni a favore dell’accoglienza. A Parigi (con la bandiera siriana sulle statue a place de la République), Tolosa, Bordeaux, Montpellier, Nantes, Strasburgo dei cittadini sono scesi in piazza per chiedere un cambiamento di politica, «welcome», «aprite le frontiere».
Migliaia di persone hanno risposto agli appelli delle organizzazioni umanitarie, pronti ad accogliere dei profughi a casa, per qualche giorno o settimana. Jean-Claude Mas, segretario generale della Cimade, spera: «forse ci sono le condizioni emotive e politiche per un elettrochoc».
In altri termini, una breccia sembra essersi aperta nell’egemonia ideologica dell’estrema destra, che sembrava aver preso i sopravvento. I Repubblicani, il partito di Sarkozy, si arrocca sulla linea dura, accusa Hollande di «voltafaccia» per aver accettato il «meccanismo di redistribuzione», cioè le quote, mostra un volto triste ma già alcuni (persino François Fillon) cominciano a prendere le distanze da una posizione che non fa che ricalcare quella del Fronte nazionale, nel frattempo riunito per la sua Università d’estate, impantanato nella querelle famigliare dei Le Pen. Il primo ministro, Manuel Valls, riprende qualche colore respingendo tutta la destra in un «blocco reazionario».
Nell’intervista di Antonello Caporale il più accreditato demografo italiano, Massimo Livi Bacci, spiega perché l’Italia, per rimanere tale, abbia bisogno di immigrati che si integrino nella nostra società.
Il Fatto quotidiano, 5 settembre 2015
Massimo Livi Bacci è il più noto e accreditato studioso italiano di demografia. Scienza che illustra il futuro con i numeri e non predice...
«No, la Sibilla predice! Il demografo, che deve conoscere bene i meccanismi e le cause dello sviluppo della popolazione, si limita a fare delle ipotesi ragionevoli circa il futuro e trarne le conseguenze numeriche. In genere, data la relativa gradualità dei fenomeni demografici, si riesce a fornire un ragionevole quadro previsivo a qualche decennio di distanza. Diciamo per l’intervallo di una generazione, spingiamoci pure fino alla metà del secolo. Andare oltre non si può. O meglio: si può, ma è bene non crederci! »
Sappiamo che gli italiani nel 2050 saranno più vecchi e più soli. Quanto più vecchi e quanto più soli?
«Le ultime ragionevoli previsioni delle Nazioni Unite (rese note alla fine di luglio) assegnano all’Italia, nel 2050, una popolazione di 56,5 milioni di abitanti (3,5 milioni meno di oggi), nonostante una modesta ripresa della natalità, e il proseguire di una consistente immigrazione (anche se ridotta rispetto agli anni trascorsi) e un ulteriore aumento della speranza di vita. Saremo sicuramente più “vecchi”; l’età media crescerà dai 46 anni di oggi a 52 anni nel 2050; oggi una persona su 14 ha più di 80 anni, nel 2050 una su sei, Sicuramente il fortissimo aumento dei molto anziani implicherà anche una crescita delle persone che vivono sole».
Le metropoli continueranno a gonfiarsi a dismisura e il crinale appenninico subirà una desertificazione ancor più accentuata?
«Direi di no. La popolazione delle grandi città – Roma, Milano, Napoli, Torino – ha toccato il suo massimo negli Anni Settanta, per poi decrescere. Questa diminuzione è stata poi compensata dalla crescita dei Comuni delle cinture, che integrano le aree metropolitane, ma anche questi hanno finito di espandersi. Il miglioramento della mobilità consentirà una rivalutazione dei centri minori, dove la qualità della vita è spesso migliore e i costi più abbordabili».
L’osso d’Italia, diceva Manlio Rossi Doria, sono le aree interne del Mezzogiorno. Lì si muore e non si nasce. Tra cinquant’anni sarà un cimitero all'aperto?
«I rapporti dello Svimez, da qualche anno, documentano con precisione il processo di desertificazione, anche demografica del Mezzogiorno. Le regioni dove si fanno meno figli stanno nel Sud del paese, l’immigrazione dall’estero non compensa l’emigrazione verso le altre regioni, l’invecchiamento è più rapido, la qualità del “capitale umano” si contrae per la partenza dei più scolarizzati. Si sta erodendo la base sulla quale si innestano lo sviluppo e la crescita».
La forza lavoro straniera ci ha già salvati nel saldo demografico. Tutti pensiamo che la triste invasione di barconi
sia però insosteni
bile per il futuro della nostra condizione
di civiltà. È così oppure abbia-mo bisogno di
altra gente, di
altri e nuovi italiani?
«L’ondata dei rifugiati è collegata alle catastrofi e ai conflitti che segnano un arco che va dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Corno d’Africa alla Libia. È un fenomeno che nulla ha a che fare con il normale sviluppo, così come una esplosione nucleare è estranea alla normale dinamica climatica a . Al netto dell’irrisolto problema dei rifugiati, l’Italia continuerà ad aver necessità di immigrazione, per rinsanguare una forza lavoro invecchiata e in declino, per contrastare se non la desertificazione, l’impoverimento della società».
I nuovi italiani, quelli che abiteranno le nostre case nel 2050, chi saranno? E quale lingua parleranno? Saranno più colti di noi? Più civili di noi, più rigorosi di noi?
«Parleranno l’italiano – male le prime generazioni, benissimo le seconde – se la scuola funzionerà come deve. E se noi, italiani di nascita, saremo colti, civili e rigorosi, lo saranno anche loro. Sempre che la politica, la società, la cittadinanza si convinca che gli immigrati non devono essere braccia in affitto temporaneo, protesi di cui disfarsi cessato il loro utilizzo, ma innesti duraturi da curare e far crescere».
Lei come giudica gli italiani? Aperti al nuovo oppure intimamente razzisti o ancora campioni di una furberia nazionale a proposito di stranieri (ci vanno bene solo quando risolvono problemi e accettano lavori che noi non vogliamo più).
«Gli italiani, nel complesso, hanno accettato in modo ragionevolmente aperto un fortissimo flusso di immigrazione. Ragionano sull’esempio del muratore albanese che ha riparato il tetto, la signora moldava che accompagna la vecchia nonna, l’egiziano che sforna le pizze in fondo alla strada, la filippina che fa i lavori domestici... Facciamo sì che questi rimangano i metri di giudizi, e che il velenoso e colpevole opportunismo di alcuni politici non riesca a deformarli».
Ma non doveva, la foto del piccolo Aylan Kurdi e la sua morte, cambiare tutto? Quell’atto d’accusa vuole dire: accoglieteci o i colpevoli siete voi. Chiaro come le parole di un altro ragazzo siriano che ha gridato: «Fermate la guerra e torniamo in Siria». Inequivocabili. E invece l’«innocente» Pentagono avverte che la foto di Aylan dovrebbe persuadere (come per Sarajevo?) a farne un’altra: dove già si combatte, come in Libia o in Siria. Lì dove Pentagono ed Europa hanno istruito quattro ani fa la guerra che ha innescato la spirale stragi, jihadismo, profughi. Il nuovo sentiero dei disperati: dice che la misura delle guerre sulla pelle altrui è colma.
Ieri mattina la stazione Keleti ha riaperto le porte e si è di nuovo riempita di migranti in cerca di un treno in partenza per la Germania e l’Austria. Niente. L’altoparlante annunciava a intervalli regolari la soppressione di tutti i treni internazionali diretti più a ovest per motivi di sicurezza. All’inizio è stata la calca verso i binari e verso l’unico treno presente, con la polizia schierata sulla banchina. Momenti concitati, povera gente che si ammassava davanti al convoglio su cui c’era scritto, ironia della sorte «Un’Europa senza frontiere». Il treno si è riempito di migranti in cerca di una via di fuga dalla Keleti, è partito verso mezzogiorno, ma diretto a Sopron, nella parte occidentale del paese, vicino all’Austria, sì, ma dentro i confini magiari. Il fatto è che il convoglio si è fermato a Bicske , 60 chilometri da Budapest, dove esiste un campo profughi, gli agenti di polizia hanno cercato di far scendere quanti erano senza documenti, ma i migranti si sono rifiutati e hanno scandito in coro «No camp». Uua coppia con un neonato si è sdraiata su binari minacciando il suicidio ma è stata strattonata via dagli agenti che anno ammanettato l’uomo.
Intanto alla Keleti giovani siriani mostravano i biglietti comprati per andare in Germania. «Abbiamo speso un sacco di soldi per niente», dicevano, «e ora che facciamo?». «Non sapete niente dei treni?» chiedevano altri migranti ai giornalisti. «Quelli che vi interessano sono stati cancellati. Tutti», è stata la risposta dolente degli interpellati.
Dopo la calca verificatasi alla riapertura della stazione è tornata una relativa calma, tutt’al più c’era chi fra gli ospiti forzati della Keleti andava avanti e indietro a cercare informazioni sulle possibilità di partire prima o poi; quando, come. Perché sul dove la maggioranza non ha dubbi: «Germania! Germania!», l’ha detto tante volte in coro durante le manifestazioni sul piazzale antistante la stazione. C’erano poi quelli che stavano seduti sulle banchine a mangiare qualcosa, a riposare. Le donne col fazzoletto in testa vicino ai bambini: chi cambiava il pannolino, chi dava da mangiare a quello più piccolo. Gli occhi bassi, i gesti veloci mentre lì vicino il personale dello scalo rimuoveva carte, contenitori vuoti di succhi di frutta e bicchieri di plastica schiacciati, lasciati sulla banchina o fra i binari.
Anche quella di ieri alla Keleti è stata una giornata lunga. Nel pomeriggio, raccontano i media locali, i migranti hanno dato vita a una manifestazione pacifica all’interno della stazione di fronte ai poliziotti schierati a garanzia dell’ordine pubblico. Il tutto è durato una ventina di minuti che non sono stati caratterizzati dalle tensioni e dai disordini di Bicske, ma di fatto la situazione diventa ogni ora più difficile. Il «popolo della Keleti» esprime giorno dopo giorno una richiesta corale, sempre più pressante di essere lasciato libero di partire e di raggiungere il paese nel quale ricominciare. Le autorità ungheresi insistono sulla necessità di rispettare le norme, il regolamento di Dublino, e di non poter lasciare andare in giro per l’Europa persone che non sono state registrate, che non hanno ottenuto lo status di rifugiati. Piuttosto le tengono alla stazione orientale di fronte alla quale sono state approntate, su ordine del consiglio comunale, delle zone nelle quali gli accampati possono ricevere acqua da bere e da usare per l’igiene personale. La cosa però non piace agli estremisti di destra, alcuni dei quali si sarebbero avvicinati due sere fa alla stazione con bandiere e vessilli nazionali. Li ritrae una foto pubblicata dall’agenzia di stampa ungherese MTI. Non condividono la scelta delle autorità comunali e vogliono l’allontanamento dei migranti dal centro cittadino. Secondo gli ultranazionalisti la loro presenza minaccia l’ordine pubblico, l’igiene pubblica. I sottopassaggi della stazione, l’antistante piazza Baross e lo scalo ferroviario devono essere restituiti alla cittadinanza.
Quest’ultima è in sostanza spiazzata dallo scenario inconsueto che quel luogo offre in questi giorni. «Sono qui da due mesi», dice la proprietaria di un chiosco situato nel sottopassaggio. Sì, ma allora non erano così tanti, il loro numero è cresciuto a vista d’occhio in poco tempo, del resto il flusso di migranti che giungono al confine non sembra voglia diminuire; in un commento rilasciato ieri al giornale conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung, il primo ministro Orbán ha detto che dall’inizio dell’anno, secondo le statistiche più aggiornate, il paese è stato raggiunto da circa 150 mila migranti illegali, molti di più di quelli registrati l’anno scorso. Un’emergenza in piena regola alla quale il governo ungherese ha reagito con una campagna e con iniziative concrete stigmatizzate dall’opposizione di centro-sinistra e dagli ambienti progressisti della società civile. Mercoledì sera diverse migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione concepita da diverse organizzazioni come Migrants Aid e Amnesty International Hungary in segno di solidarietà verso i migranti.
Il corteo è partito dalla stazione Nyugati (Occidentale) e si è fermato sulla piazza antistante il parlamento dove si è svolto un sit-in. «Not in my name-Az én nevemben ne», lo slogan dell’iniziativa. I dimostranti, diversi dei quali stranieri, sfilavano tenendo alti cartelli con su scritto «Anche noi eravamo dei migranti», «Abbiamo bisogno di ponti, non di barriere» e ancora «I migranti sono esseri umani». Sul marciapiede, a poco meno di metà percorso, due contromanifestanti con la bandiera tricolore completa di simbolo nazionale e un cartello con su scritto «In my name» e «No illegal immigration». Nessuna delle persone impegnate nella marcia li ha degnati di troppa attenzione.
«Questa manifestazione è importante – dice un giovane – perché è la prima occasione pubblica per testimoniare la nostra solidarietà ai migranti e stigmatizzare la politica del governo e il suo approccio privo di umanità al problema».
Attenti a come si maneggiano gli strumenti della democrazia. Un loro uso sbagliato è controproducente. Lavorare male, sbadatamente, senza riflettere e studiare quando si vuole contrastare qualcosa significa far vincere l'avversario.
Il manifesto, 3 settembre 2015
E dunque il voto popolare può essere l’unico strumento utile a manifestare un dissenso che — pur di massa — non riesce diversamente a farsi ascoltare. Ma è uno strumento non facile da utilizzare.
Come va formulato un quesito? Bisogna anzitutto considerare che il referendum cancella una legge o parti di essa, non la scrive. E la cancellazione non fa rivivere la legge prima vigente. Questo punto è ormai consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (da ultimo con la sentenza 12/2014). Quindi, l’abrogazione lascia un vuoto nell’ordinamento giuridico. Per la Corte, taluni vuoti sono tollerabili, altri no e determinano l’inammissibilità del quesito. Questo accade quando la legge è essenziale per il funzionamento di organi costituzionali o l’attuazione di diritti costituzionalmente protetti, ed è dunque «costituzionalmente necessaria».
I principi richiamati sono stati elaborati a partire dalle leggi elettorali, e poi estesi ad altre fattispecie, come la fecondazione assistita, e la riorganizzazione degli uffici giudiziari, per cui la Corte ha dichiarato inammissibili i quesiti in tutto o in parte abrogativi (sentenze 45/2005; 5/2015). Uguale sorte potrebbe toccare a un quesito totalmente abrogativo della legge 107/2015. Il vuoto normativo conseguente probabilmente lascerebbe il servizio scolastico — certo essenziale non meno di quello per la giustizia — privo del fondamento organizzativo indispensabile. E ne verrebbe leso il diritto costituzionalmente protetto all’istruzione.
Quindi, solo quesiti abrogativi parziali e mirati. Ma anche il singolo quesito va guardato con attenzione. Pensiamo al preside-sceriffo. Se viene ridotto nei poteri con un quesito accortamente indirizzato - ad esempio, alla discrezionalità nelle chiamate - non c’è problema. Ma se il quesito, ancorché parziale rispetto alla legge, fosse tale da cancellare la figura del dirigente scolastico o da renderla simulacro del tutto vuoto, l’esito potrebbe essere l’inammissibilità. Un dirigente in grado di gestire effettivamente l’istituto scolastico è pur sempre indispensabile per il servizio. Anche il quesito parziale potrebbe cadere sotto la mannaia della «legge costituzionalmente necessaria». Questa è la tecnica complessivamente osservata dal quesito di "Possibile" sul dirigente, quale che sia poi l’opinione sui tempi e i modi dell’iniziativa.
Quesiti parziali e mirati, dunque, che siano - come la Corte costituzionale richiede - chiari, omogenei, univoci. Con questo si intende che su tutte le disposizioni oggetto di ciascun quesito chi vota possa determinarsi univocamente per il sì o per il no. Ogni quesito deve avere un punto focale. Nelle parole della Corte, una «matrice razionalmente unitaria».
Quali quesiti? La scelta è politica, ed è la prima da fare. Una volta assunta, si può guardare alla formulazione tecnica. Per la scuola, possiamo ad esempio pensare al preside-sceriffo, all’alternanza scuola-lavoro, al bonus scolastico (da formulare con particolare cautela, soprattutto per la possibile interferenza con la finanza pubblica), o altri che l’assemblea del 5–6 settembre voglia scegliere. Saggezza vuole che si guardi a quesiti che non siano divisivi nel movimento promotore, e parlino anche al di fuori. Il sapore del corporativismo può uccidere un referendum già nella raccolta delle firme. Mentre va favorito l’incontro con movimenti volti a obiettivi diversi, ma potenzialmente sinergici in una comune strategia referendaria (legge elettorale, Jobs Act, ambiente). Al tempo stesso, l’iniziativa referendaria non preclude la diversa e autonoma via della questione di costituzionalità sollevata in sede di impugnativa di provvedimenti amministrativi adottati in applicazione della riforma.
La scelta di quali quesiti e quando deve considerare sia la raccolta di 500.000 firme (per sicurezza, 600.000) secondo la legge 352/1970, sia la necessità di portare al voto oltre 25 milioni di italiani. Passaggi non impossibili, ma certo non facili. Soprattutto considerando che Renzi tradurrà ogni referendum in un plebiscito su se stesso e sul cambiamento. Bisognerà trovare parole d’ordine chiare, semplici, vicine all’animo di chi firma per i referendum, e di chi vota.
Il referendum ex articolo 75 era per i costituenti un correttivo marginale in un sistema centrato sulle assemblee elettive e sulla rappresentanza politica. La riduzione degli spazi di democrazia alla quale oggi assistiamo spinge a una nuova stagione, che può trovare nel referendum un punto essenziale del complessivo sistema di checks and balances. La via è già oggi difficile. E capiamo anche meglio quanto sia pericoloso il disegno della riforma costituzionale in discussione in senato, che rende il percorso referendario - a mio avviso - ancora più impervio. Al populismo leaderistico e autocratico dobbiamo contrappore la democrazia dei gufi.
L'illustre dissacratore del mostro del decennio scorso lo riprende oggi sotto la sua lente rivelatrice, insieme al suo delfino Matteo. «Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte». La Repubblica, 3 settembre 2015
“GAFFE”, vocabolo nautico, è l’asta munita d’un ferro a uncino per l’accosto; nonché l’atto inopportuno; e Matteo Renzi, è gaffeur nei due sensi. Tale l’abbiamo visto in varie occasioni, da quando saltava sul palco allontanando un dolente predecessore; «togliti, mi metto io». Nel Nazareno, santuario Pd ( febbraio 2014), dichiara «piena sintonia» con Silvio Berlusconi. Così prende le parti d’un avventuriero la cui stella vola bassa (cortigiani di lungo corso cambiano cautamente divisa): stupore in platea; ma che la peripezia del sindaco fiorentino non finisca qui, è segno d’uno stato morboso nell’organismo politico. Il Colle soffiava lo sciagurato vento delle “larghe intese”.
Dalla fine secolo oligarchi della pseudosinistra baciavano la pantofola berlusconiana, dando a intendere che fosse Realpolitik. Era egemone, pifferaio ricco da scoppiare, e lo rimane quando va al governo il centrosinistra: ex comunisti garantiscono intangibili i fondamenti del conflitto d’interesse; manovre camerali lo riqualificano aprendogli la via d’una doppia rivincita. Fosse meno malaccorto, con rudimenti d’ ars gubernardi , in mano sua saremmo una monarchia caraibica. Siamo quasi salvi perché gli mancano le abilità dei maiali nell’Animal Farm.
Qui filtra il significato etimologico del bisillabo “gaffe”, l’uncino. L’ingordo rampante s’è impadronito del Pd: era la prima mossa e non basta; cercando sostegni meno malsicuri (mancava poco che un redivivo strappasse il premio a Montecitorio), s’è visto erede naturale dell’ormai ottuagenario; e agisce quale futuro autocrate d’un partito “nazionale” (l’aggettivo figurava nelle sigle fascista e nazista). La scandalosa «piena sintonia» era gesto rassicurante verso i “moderati”: «non vengo da sinistra»; e che l’idea abbia radici profonde, lo dicono Rimini e Pesaro. Comunione e Liberazione non regala favori. Erano applausi sviscerati. Re Lanterna ha un Delfino.
Esistono gaffe perdonabili, anche se gravi ad litteram , quando l’atto o l’emissione verbale siano accidenti del comportamento. Non pare il nostro caso. Nel predetto meeting (26 agosto) lo strenuo parlatore condanna vent’anni della storia d’Italia, presupponendo che Berlusco Magnus fosse uno statista con le carte in regola, e chi lo nega disseminasse peste giacobina. Forse viveva sulla luna ignorando conflitto d’interessi, illegalismo sfrenato, abuso dello strumento legislativo: quindi non sa come l’Olonese abbia dissestato la macchina penale instaurando aree d’impunità; con che toupet tentasse tre volte d’arrogarsi l’immunità mediante leggi invalide; e quanto una devastante criminofilia incidesse nelle sventure economiche d’Italia. L’aveva portata a due dita dalla bancarotta. O sa l’accaduto e lo ritiene fisiologico, quasi fosse prassi politica svenare un Paese istupidendolo: l’inquinamento sapeva d’epidemia cinquecentesca (morbo gallico o ispanico); se è così, l’indifferenza indica vuoto morale. L’ascesa berlusconiana è malaffare: corrompe, falsifica, plagia, froda; l’impunità della quale gode, fa scuola; ancora qualche anno e lo scenario sarebbe molto triste.
Matteo Renzi non ha gli spiriti animali del caimano, né issa bandiera nera, ma la successione a Re Lanterna presuppone delle affinità. Una è l’impulso a esibirsi. Stavolta svelava un disegno: battere cento teatri con musiche, film, scene dal vivo, raccontando mirabilia governativi; e sarebbe visione allucinatoria mussoliniana; l’animavano divise, sfilate, armi finte, parole ipnotiche (una molto spesa era “impero”). L’inconveniente delle fantasmagorie è che non resistano al vaglio empirico.
Ad esempio, nessuno può abolire l’imposta sulla casa dall’anno 2016, lasciando intatti i quadri della spesa e l’enorme debito pubblico, quando la crescita resta un desiderio. Il ministro competente, sgomento, domanda sotto voce dove scovare i soldi. Lo scilinguato Delfino non se ne preoccupa. Nel gesto autocratico supera l’ancora quasi regnante (non s’illuda d’una devoluzione spontanea). Davanti ai ministri sta in posa napoleonica. Tra le dicerie fornite dal meeting adriatico eccone una: li convoca in colloqui a due voci; ognuno dica in qual modo magnificare l’opera governativa nelle predette messinscene. Quintino Sella e Giolitti inorridirebbero.
Non è più tempo d’ en plein alle urne. Sette Regioni davano MR declinante. Grazie all’Italicum, monumento d’insigne furberia, può darsi che per il rotto della cuffia esca autocrate d’un “partito nazionale”, disponendo dei numeri nella monocamera: avrebbe vinto la componente berlusconoide d’un elettorato ibrido; non è apporto gratuito né duraturo. Corrono dei patti. I partner esigono quel che garantiva il predecessore ossia affari facili e rendite comode, quindi privilegi, linea criminofila (la chiamano garantismo), norme malleabili, condoni; e risorsa sine qua non , la prescrizione qual è assurdamente congegnata, che inghiotta uno o due processi su tre. La calcolava sulla misura delle sue pendenze penali. Confessando «piena sintonia », li rassicura, ma la politica morbida ha dei costi.
Il patto elettorale include un volatile dal nome melodioso, “vampiro”: corruzione, evasione fiscale, economia criminale sommersa dissanguano lo sventurato Paese, divorandogli il futuro; tengono banchetto i parassiti e non se ne esce perché la crisi economica innesca circoli perversi (causando declino intellettuale e atonia morale, esaspera l’impoverimento). Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte. Sa d’imbonimento che l’impresario le mandi una compagnia ministeriale in cento teatri con musica e recite.
Dal Job's Act all'abolizione del contratto nazionale. Bisogna riconoscere la piena coerenza di Matteo Renzi nel raggiungere progressivamente il suo.obiettivo: eliminare tutte le protezioni che in due secoli di lotte erano state ottenute per limitare lo strapotere dei padroni
www.sbilanciamoci.info, 3 settembre 2015
Dei ritorni al passato è l’esempio più clamoroso: un lavoratore di Brescia e uno che faccia lo stesso lavoro a Catania saranno pagati diversamente, e già la stampa aggiunge che è giusto perché mille euro al nord valgono meno che al sud, o almeno così si dice. Siamo al ritorno delle vecchie gabbie salariali che un governo diretto dal Pd ripropone. È la risposta a Saviano e ai dati pubblicati dalla Svimez: al sud i padroni potranno pagare di meno. Perché non riconoscere per legge il caporalato? Anzi la schiavitù? Non ci sarebbe nulla di più flessibile. Anzi le stesse gabbie salariali possono non essere troppo rigide, meglio che la contrattazione del lavoro e relativi rapporti di forza diventino variabili in campagna e in città, dove il sindacato è forte e dove è debole. E le donne, alcune leader delle quali lo propongono in nome della differenza femminile, si mettono alla testa di questo ulteriore passo in avanti nella modernizzazione dei rapporti sociali.
Il Jobs Act ha dimostrato che la sinistra [sic] non sa più neanche leggere, e del resto era scritto in modo ingarbugliato; questa misura sarà invece più semplice e del resto nella mente dei proletari è diventato corrente il pensiero che gli operai non esistano più; e nemmeno l’insistenza a pagarli di meno del governo Renzi dimostra che non siano puri fantasmi di una passata ideologia.
Una posizione largamente condivisibile nel dibattito sulla sinistra, ma con molte questioni da discutere, a patire dal significato del "lavoro, del nome preciso del "sistema", del significato di "sinistra " nel XXI secolo. Ci ripromettiamo di farlo.
Comune.info, 2 settembre 2015
Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l’obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com’è. Nel 900 il partito comunista faceva la politica del primo tipo, giusto o sbagliato che fosse il progetto. Poi è caduto il muro di Berlino e facendosi più realista del re ha deciso di imboccare la strada del pragmatismo fino a diventare il più strenuo sostenitore del liberismo. La fine fatta dal Pd è sotto gli occhi di tutti.
A sinistra molti criticano il Pd solo per avere perso totalmente l’anima sociale, ma ne condividono l’impostazione di fondo: il sistema è questo, non solo non si può cambiare, ma va bene così: bisogna solo porgli qualche regola affinché non si incagli nelle sue contraddizioni e bisogna rafforzare i paracaduti sociali per soccorrere le vittime che inevitabilmente produce. Non a caso la nuova parola d’ordine è diventata “sinistra di governo”, che meglio di ogni altra espressione ne racchiude il concetto.
In controtendenza, io penso che oggi più che mai la sinistra ha bisogno di un progetto alternativo perché questo sistema ci è nemico nell’impostazione di fondo.Cercare di correggere gli aspetti più odiosi è una regola di sopravvivenza, ma farlo senza intervenire sul senso di marcia è come preoccuparsi della tappezzeria in un treno che va verso il baratro. Tradizionalmente il tema forte della sinistra è la distribuzione, le correnti più moderate accontentandosi di spostare quote crescenti di reddito a vantaggio dei salari e della collettività; le correnti più radicali pretendendo di destinare tutto a salari e collettività non riconoscendo diritto di cittadinanza al profitto. Da cui i sistemi socialisti, ormai tramontati per varie cause che nessuno ha ancora studiato in tutti gli aspetti. Ma questa impostazione, per così dire distributivista, ha portato la sinistra a condividere la stessa matrice capitalista di adulazione della ricchezza.
Per entrambi, la ricchezza è un valore. Il capitalismo vuole produrne sempre di più per garantire alle imprese merci crescenti finalizzate al profitto; la sinistra vuole produrne sempre di più per creare nuove opportunità di lavoro e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Del resto c’è un detto classico nella sinistra: “Non si può distribuire la miseria: prima si produce la ricchezza, poi la si distribuisce”. Ed è così che anche a sinistra c’è una forte febbre produttivista: laddove più si riesce ad estrarre, più si riesce ad asfaltare e cementificare, più si riesce a manipolare la natura, più si riesce ad accrescere la tecnologia, in una parola più si riesce ad innalzare il Pil, meglio si sta. Una concezione un po’ antiquata che configura il benessere solo con la quantità di cose che siamo capaci di buttare nel carrello della spesa, dimenticando che prima di tutto abbiamo bisogno di una buona aria e che oltre alle esigenze del corpo abbiamo anche quelle psichiche, affettive, spirituali, sociali.
La questione della qualità della vita e la questione ambientale, hanno l’aria di essere temi ancora estranei alla sinistra. Ma se nell’ottocento potevano essere ignorati perché altre erano le priorità ed altro era il contesto ambientale, oggi la distruzione della casa comune rappresenta il tema che condiziona ogni altro aspetto sanitario, sociale, economico. Il concetto che più di ogni altro siamo costretti a rimettere in discussione è quello di crescita e benché sappiamo che varie attività consentono spazi di crescita senza maggior consumo di risorse e senza maggior produzione di rifiuti, il problema è il paradigma.
Sappiamo che trattando in maniera più intelligente i rifiuti, ricorrendo di più all’agricoltura biologica, potenziando i servizi alla persona, si può creare Pil e occupazione sostenibile, ma per fare pace con la natura dovremmo annientare, o giù di lì, l’industria dell’automobile, dovremmo cambiare totalmente il sistema distributivo per ridurre al minimo gli imballaggi, dovremmo smetterla di creare nuovi bisogni. In definitiva dovremmo chiudere per sempre con un sistema che ha fatto dell’aumento delle vendite il suo cuore pulsante. E se razionalmente sentiamo che questa è la strada da battere, dall’altra siamo bloccati per la disoccupazione che ne può derivare. Preoccupazione più che legittima in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita.
L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile.Cambiando prospettiva ci renderemo conto che il mercato non è l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni, né il lavoro salariato l’unico modo per produrre ciò che ci serve. I due grandi canali, se non alternativi, sicuramente complementari, sono il fai da te e l’economia comunitaria che hanno il vantaggio della gratuità e della piena inclusione lavorativa senza bisogno della crescita dei consumi.
La costruzione di una società che finalmente sappia mettere la persona al centro della sua attenzione e sappia porsi come obiettivo, non già l’offerta di lavoro, ma la garanzia a tutti, donne e uomini, giovani e vecchi, abili e inabili, di una vita sicura dalla culla alla tomba, nella piena soddisfazione di tutte le dimensioni umane e nel rispetto dei limiti del pianeta, dovrebbe essere il vero progetto politico della sinistra perché tiene insieme tutti i valori che la contraddistinguono: equità, rispetto, sostenibilità, solidarietà, autonomia.
Un progetto che, certo, ci costringe a ripensare tutto, dal senso e la funzione del lavoro ai tempi di vita, dal modo di produrre ciò che ci serve all’uso e il governo del denaro, dal ruolo del mercato al ruolo dell’economia collettiva, dal modo di concepire la tecnologia al modo di partecipare all’economia collettiva. Ma è ciò di cui abbiamo bisogno in un momento che il sistema di mercato sta mettendo in evidenza tutto il suo fallimento umano, sociale, ambientale, financo economico.
Con un progetto di società, non solo potremmo riaccendere la passione per la politica nei milioni di cittadini che oggi vivono ai margini perché stanchi e delusi, ma potremmo tornare al ruolo di forza con un’agenda da perseguire, non più costretta a giocare perennemente in difesa. Finalmente smetteremmo di correre dietro alle falle che crea il sistema e metteremmo a punto il nostro piano strategico di trasformazione della società, con proposte per tutti i livelli: da quello personale a quello comunale, da quello regionale a quello nazionale, da quello europeo a quello mondiale. Perché un’altra certezza è che la costruzione di un’altra società esige non solo una nuova visione dell’economia e della società, ma anche una nuova concezione del modo di fare politica.
Per cambiare il mondo bisogna porsi anche esistenzialmente dalla parte di quelli che patiscono di più per colpa del mondo comeè oggi. A proposito del libro di Raul Zibechi "All'alba di mondi 'Altri'" , con un sintetico ricordo del colonialismo italiano.
Comune.info, 2 settembre 2015
Nota introduttiva ad “Alba di Mondi Altri. I nuovi movimenti dal basso in América Latina”, l’ultimo libro di Raul Zibechi edito in Italia da Museodei by Hermatena, 200 pagine, 15 euro
È un destino inevitabile, naturale, quello di riprodurre nei mondi nuovi società di dominanti e dominati anche dopo aver combattuto e sconfitto sistemi fondati su quella relazione di dominio? No, non lo è. C’è un modo per evitare di assumere quel veleno coloniale? Sì, deve esserci ma non sappiamo come e dove cercarlo. Sappiamo però che tutto il pensiero critico che ha ispirato le grandi rivolte del passato è stato segnato dall’eurocentrismo. L’ultimo libro di Raúl Zibechi, “Alba di mondialtri”, suggerisce ai movimenti di cercare altrove, tenendo un riferimento importante nel cammino immaginato da Fanon e percorso dagli zapatisti del Chiapas. Nella nota che introduce l’edizione italiana del libro, presentato in questi giorni: la critica all’avanguardia e alla militanza politica “dalla parte del popolo”, l’urgenza di ripensare i concetti di geografia e territorio, le radici coloniali italiane e il traffico di armi e di braccia dei giorni nostri, la disumanizzazione delle vittime, il tramonto di un’egemonia culturale e il riconoscimento di mondi altri
Non avevamo mai creduto davvero alla presenza di idee politiche corrette tra los de abajo. Nella lotta per migliorarne la condizione, avevamo sempre cercato di imporre loro le nostre. Il rigore di un’affermazione tanto cruda quanto leale, non certo inedita nella (auto)critica di Raúl Zibechi alla storia della militanza politica “dalla parte del popolo”, si arricchisce di nuovi significati. Li porta alla luce l’esperienza recente che più lo ha segnato: la Escuelita zapatista de la libertad. In questo libro la racconta nei dettagli, in modo impareggiabile.
Da molti anni Zibechi esprime avversione per le pratiche che rinverdiscono la punta dell’iceberg di quel tratto peculiare – e sostanziale – della militanza. La voglia di imporre idee ritenute giuste per il bene di altri (o di tutti) è la proteina nobile di un avanguardismo muscolare che, mascherato o meno, dilagava nelle grandi organizzazioni sociali e nelle formazioni politiche di sinistra del Novecento. L’avversione di Zibechi si fa più intensa quando la critica investe l’avanguardia nel pensiero teorico astratto. Un pensiero più o meno raffinato ma sempre sterile, perché separato dalla vita di ogni giorno e dai principi etici su cui si è scelto di fondarla. Un pensiero che spesso esprime disprezzo per le persone comuni, rinuncia a misurarsi con le spinte contraddittorie della realtà, e mira a rapide e univoche risposte snobbando la precisione e la fantasia delle domande.
Come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”
Nella comunità 8 Marzo del Caracol di Morelia gli è parso d’improvviso evidente quel che ignorava: “Diciamo che non avevo compreso la parte elementare”, spiega stupito ed entusiasta. Quel che lo muove è la ricerca appassionata, quasi febbrile, di sempre: scovare e interpretare i mutamenti profondi della realtà. Questo libro nasce da quella ricerca e aiuta a configurarne un passaggio rilevante. Non è un’affermazione incidentale quella in cui Zibechi scrive: “Negli ultimi anni, lavoro per dare una risposta a una domanda che considero centrale: come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”, cioè dal luogo di coloro a cui viene negata la condizione umana?”. È un’opzione che comporta una rottura rilevante, forse perfino dolorosa, quella rinuncia a un punto di vista di classe generale, a una visione planetaria, ancor prima che universale.
Perché scegliere la prospettiva della “zona del non-essere”, ispirata ai testi di Frantz Fanon e alla rilettura che ne fa Ramon Grosfóguel? Perché sono i “dannati della terra” dei giorni nostri, quelli che vivono nel “mas abajo”, secondo il linguaggio zapatista, a essere genuinamente interessati a cambiare il mondo, risponde Raúl (il corsivo è mio e qui indica un’inquietudine sull’uso di quell’avverbio). È la primazia dell’etica, più che il gusto per la provocazione, a condurre Zibechi all’inevitabile conseguenza della rottura indicata: il pensiero critico che l’ha formato in Uruguay e nell’esilio in Spagna si è generato e sviluppato solo nel Nord, negli ambienti della “zona dell’essere”. Non può dunque essere trapiantato (più o meno meccanicamente) alla “zona del non essere”. Nel farlo, si perpetuerebbe il “fatto coloniale” in nome della rivoluzione.
Viene da chiedersi: rifarsi (criticamente) a Marx (o a Bakunin) significa dunque adottare una lettura del mondo sempre intrisa di eurocentrismo e colonialità? La teoria della rivoluzione che conosciamo, dal Capitale ai testi odierni, è viziata dall’origine e ne mostra gli evidenti limiti. Serve altro, risponde Zibechi. Bisogna percorrere altri sentieri. Fanon ha aperto la via e, decenni dopo, gli zapatisti sono quelli andati più lontano nel cammino di una creazione di un mondo nuovo dalla parte degli oppressi. L’attualità del pensiero di Fanon, aggiunge, affonda le radici proprio nell’impegno a pensare e mettere in pratica la resistenza e la rivoluzione a partire dal luogo fisico e spirituale degli oppressi. Dal luogo in cui gran parte dell’umanità vive in condizioni di indicibile oppressione, aggravata dalla ri-colonizzazione dei territori e delle menti che comporta il modello neoliberista. Ci parrebbe assai curioso, naturalmente, che a indicare quei “luoghi fisici” fossero un mappamondo o le astratte coordinate di un meridiano. Non è facile sostenere che un cameriere peruviano indigeno emigrato in Argentina viva un’oppressione più “indicibile” di quella di una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi sulle strade del litorale domiziano. Non può essere quella la geografia che dice dove si è los de abajo e dove si è, o si è diventati, los de arriba.
Dal 10 al 19 febbraio, durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. Lo stesso Badoglio riferirà l’utilizzo, in questa circostanza, di sessanta tonnellate di iprite. Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà: «Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi».
Dai resoconti e ricordi edulcorati della strage deriverà il termine scherzoso «ambaradàn», che gli italiani useranno per dire baraonda, trambusto, grande confusione.
L’impiego dei gas non è la sola atrocità. Fra il 1935 e il 1936, l’aviazione italiana bombarda ospedali e ambulanze. Impazzano i rastrellamenti, le fucilazioni di massa, gli stupri, decine di migliaia le capanne incendiate. Dalla campagna d’Etiopia, con la proclamazione dell’impero di Vittorio Emanuele III, alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica (Libia) il passo (indietro) è breve. L’avventura comincia nel 1911, con l’invio di 1732 marinai contro l’Impero Ottomano. Non porta la firma di Mussolini ma del quarto governo Giolitti, quello eletto col voto dei socialisti. Il “progressismo” del tempo nazionalizzerà le assicurazioni e introdurrà il “suffragio universale”. Da cui sono escluse le donne, ça va sans dire.
Cento anni più tardi, nel 2011, l’Italia smetterà di vendere armi a Gheddafi, linciato in strada – dopo la pioggia di bombe Nato – in una sequenza indimenticabile. In quanto a orrore, fa impallidire anche quelle, più sofisticate, girate dai registi dell’Isis. Tra il 2005 e il 2012, comunque, l’Italia ha fornito, prima al colonnello e poi ai suoi carnefici, armi per 375,5 milioni di euro, seconda solo alla Francia di Sarkozy, il leader più assatanato nella caccia grossa a Gheddafi. Quelle armi sono poi state saccheggiate, più volte, da varie fazioni avverse al regime di Tripoli e dai gruppi jihadisti, Sono dunque state determinanti a far diventare il territorio (che per convenzione chiamiamo ancora) libico quel che è oggi. Dove ha volato la Nato non c’è più un paese, come in Somalia dopo i Caschi Blu, come in Afghanistan, in Iraq…
Dalle coste libiche parte oltre l’80 per cento delle persone che affrontano il mare nostrum per affogare nelle sue profondità o essere accolte come fossero un’epidemia nel paese dei mercanti, quello dalle colonie “dal volto umano”. Sono persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dal Sudan, dalla Nigeria, dal Mali, dall’Iraq, dalla Siria. I media ci avvertono: attenzione, tra loro, negandosi al riconoscimento identitario, si annidano furbi e spregevoli truffatori. Si fingono perseguitati ma non lo sono affatto. Sono semplici migranti, colpevoli d’un reato imperdonabile: cercare una vita migliore nella terra in cui non sono nati. Per fortuna il dio del mare è giusto e li punisce.
Ogni tanto le istituzioni politiche europee, i media e l’opinione pubblica fingono di commuoversi. È accaduto il 19 aprile, con la maggior strage mediterranea della storia contemporanea: 7-800 persone annegate in un solo “incidente”. Gli incidenti si ripetono da oltre 15 anni. Hanno ucciso venti-trentamila persone, forse di più. I numeri ingannano: non raccontano i volti, l’agitazione delle mani, il respiro che annaspa ma soprattutto le storie, le speranze e le sofferenze di chi affoga nel Mediterraneo. Forse, a comprendere la portata e le ragioni della tragedia che viviamo, può aiutare più la storia. Una storia esemplare, a leggerla in una prospettiva coloniale: l’Europa è abituata a buttare la gente in mare. Lo ha fatto per quattro secoli durante il commercio di vite africane che riempiva i forzieri delle nazioni che oggi danno lezioni sui diritti umani e la democrazia al resto del mondo. Si buttavano a mare gli schiavi per sfuggire ai pattugliamenti, oppure quando venivano considerati invendibili. Un negro ogni dieci, si calcola, finiva agli squali. Merce difettosa, con i denti cariati o i seni flaccidi.
È solo negando la condizione umana, quello che secondo Zibechi avviene nella “zona del non essere”, che si può lasciar affogare le persone. Per questo i migranti, nella migliore delle ipotesi, devono essere numeri. Come i palestinesi intrappolati a Gaza nel diluvio delle bombe israeliane. Come gli ebrei, gli zingari, i polacchi e i russi chiusi a Birkenau, come i ribelli etiopi che Mussolini ordinò di stroncare con “qualsiasi mezzo”. Renzi, Salvini e gli amici di Casa Pound oggi darebbero, dispiaciuti, lo stesso ordine ma il discorso sui fini e i mezzi sarebbe lungo… Negare la condizione umana, dicevamo, perché ammettendo l’umanità delle vittime sarebbe inevitabile mettere in discussione anche quella dei carnefici e di chi consente i massacri o vi si mostra indifferente. Per questo i razzisti europei dovrebbero temere più d’ogni altra cosa la ri-umanizzazione dei migranti nei media. Dovrebbero temerla, per la verità, i razzisti di tutto il mondo, da quelli austrialiani a quelli sudafricani. Sì, avete letto bene: sudafricani.
C’è tuttavia una specificità occidentale, declinata con chiarezza nella storia coloniale e nelle diverse forme di colonialità contemporanea. Deriva dall’incapacità di “pensare con il mondo”, come avrebbe detto Édouard Glissant, compagno di liceo di Fanon in Martinica. Deriva dalla credenza secolare secondo cui il “nostro” mondo – la letteratura, la filosofia, la medicina, le forme religiose e di governo, ilmodus vivendi – sarebbe superiore a quello degli altri. Anzi gli altri – gli indigeni, i turchi, gli arabi, i pigmei, i cinesi, i mongoli, i contadini – sarebbero in fervente attesa del nostro progresso-sviluppo. Dopo cento anni, quella egemonia culturale sembra finalmente finita. Non esercita più incontrastata nemmeno qui il suo invincibile potere, un potere non divino ma molto coloniale e molto “naturalizzato”. Che quel mondo non fosse il solo possibile lo hanno cominciato a gridare tutte le più significative società in movimento apparse all’alba del nuovo millennio. Di più,in felice risonanza con certe comunità indigene mascherate delle montagne del sud-est messicano, quella gente dice che esistono molti altri mondi. Tutti diversi e tutti capaci di affermare straordinarie dignità. Quel che sembra impossibile, dicono, arriva. Si tratta solo di aspettarlo un po’.
La Repubblica, 2 settembre 2015
Ora forse qualcuno penserà che papa Francesco abbia proclamato il “libero aborto in libera Chiesa”. Non è così. L’intreccio fra rispetto della tradizione dottrinale e innovative aperture strategiche è un tratto ormai abituale della predicazione di questo pontefice. La dottrina tradizionale papa Francesco l’aveva ribadita nell’udienza del 15 novembre 2014 ai ginecologi cattolici. Allora usò parole severissime contro l’eliminazione di esseri umani «soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli », i bambini non nati, i vecchi e malati. Ma — attenzione — non li condannò come peccati ma come esito sociale obbligato di quella che definì «cultura dello scarto», vale a dire il distorto funzionamento della società dei consumi, il conflitto radicale fra ricchezza e povertà estreme che sperimentiamo oggi nel mondo.
Allora usò immagini toccanti: «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito — disse — ha il volto del Signore che prima ancora di nascere... ha sperimentato il rifiuto del mondo ». Certo, pensare che cosa sarebbe accaduto nel mondo e del mondo se Gesù non fosse nato o fosse stato ucciso subito dopo la nascita è effettivamente meditare su di una controfattualità storica assai impegnativa, una vera fantascienza. Ma non c’è bisogno di essere cristiani e cattolici per capire come il volto ordinario dell’esperienza dell’aborto possa essere il pensare al figlio che si sta per rifiutare come un possibile messia, un portatore di salvezza anche solo nel privato ambito dei propri affetti.
Di fatto la lettera a monsignor Fisichella segna un passaggio importante nello stile proposto al corpo ecclesiastico e ai suoi figli obbedienti perché lo adottino da ora in poi, nei tempi corti del Giubileo e in quelli lunghi del futuro: qui c’è l’invito a chiudere l’epoca della faccia feroce, della guerra indetta da singoli, associazioni, partiti e Stati contro le donne e contro i medici che praticano l’interruzione volontaria della gravidanza. È una guerra antica che ha conosciuto secoli di scontri fra le donne e una Chiesa spalleggiata dagli Stati, quando gli aborti si praticavano di nascosto coi ferri da calza e spesso portavano a morte madre e figlio.
Questa guerra ha una precisa data di nascita, non è coetanea col cristianesimo e con la storia della Chiesa cattolica come immaginano i fanatici: è bene tenerlo presente perché com’è nata può anche terminare. Per secoli la dottrina e la pratica della confessione hanno oscillato in materia, colpendo con la scomunica solo l’aborto del feto già formato, uno stadio che si credeva atteso da Dio per insufflare nel corpo l’anima immortale. Era un peccato contro la vita eterna dell’anima immortale del non nato, condannata così a stazionare eternamente nel Limbo, nei pressi dell’Inferno.
Solo in tempi recenti si è formata la dottrina che definisce l’aborto un peccato puramente e semplicemente contro la vita: una svolta copernicana per la Chiesa, diventata così una forza schierata a difesa di questa terrena esistenza come pozione da sorbire sempre e comunque e fino in fondo, e determinata a usare tutta la sua influenza per impedire ogni forma di uscita anzitempo dal mondo — il suicidio, l’eutanasia. Perciò in Italia bisognava andare all’estero per abortire, così come oggi bisogna andare all’estero per morire: scelte di classe tutt’e due. Quanto all’aborto, una volta che con libera scelta referendaria gli italiani hanno voltato le spalle ai secoli dell’ortodossia obbligatoria e della guerra dei poteri ecclesiastici contro la donna, è cominciata la fase di guerra fredda: scontri pubblici, astuzie di medici “obiettori” che praticavano in segreto a caro prezzo quello che si rifiutavano di fare nell’ospedale, interventi normativi per rendere quella scelta già così dolorosa un calvario (sempre che si possa usare questa parola cristiana per il percorso di chi ha voluto abortire da noi).
Oggi papa Francesco guarda al mondo intero, alla disperata condizione dei poveri, all’esodo morale e religioso delle moltitudini dalla Chiesa e decide di spostare il fronte delle urgenze. Vedremo l’esito. Ma intanto va pur detto che uno sguardo altrettanto libero e umano vorremmo vederlo gettare da uno Stato veramente e compiutamente sovrano a tante strozzature civili — matrimonio, scuola, aborto e concepimento, scelta di morire — finora conservate per malintese sintonie coi poteri ecclesiastici.
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Concordo con pressoché tutti i punti del decalogo formulato da Norma Rangeri su queste colonne (28 luglio) per l’apertura della discussione. Tuttavia, fra gli obiettivi e la loro presumibile realizzazione s’interpone da parte mia un cumulo di dubbi e di perplessità (come sempre più spesso, ahimè, mi capita), che sembrerebbe, forse, oscurare gli obiettivi di cui sopra (non sarebbe, nonostante tutto, nelle mie intenzioni). Ma vediamo.
1) La crisi della sinistra non è solo italiana: è europea, anzi globale. E’ sotto gli occhi di tutti: strano che se ne parli così poco in questi termini. Sommariamente (certo, troppo sommariamente) io l’attribuisco a due fattori (in questo senso soprattutto europei).
Il primo: la sconfitta che il lavoro e, in senso più specifico e sostanziale, la classe operaia hanno subito nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: in Inghilterra; in Germania; in Italia (in forme diverse, certo, ma orientate tutte nella medesima direzione). Ora, non c’è sinistra (in senso classico) senza rappresentanza del lavoro: perché la visione progressista e riformatrice della “vera sinistra” è sempre nata da lì (c’è bisogno di esempi storici). Se ne può fare a meno?
La sconfitta del proletariato (anche in questo senso classico) e della classe operaia ha provocato nella società post-industriale e post-fordista l’emergere di due fenomeni, contemporanei e al tempo stesso contrastanti fra loro: una sorta di borghesizzazione spuria e dispersa e una sorta di proletarizzazione spuria e dispersa di parti diverse della società. Manca il collante, politico e sociale, che le tenga insieme. A mio giudizio, anche la grande fortuna attuale del verbo francescano-cattolico deriva da questo: siccome non c’è forza terrena che ci riesca, la parola della Chiesa, che non ha bisogno di verifiche pratiche allo scopo di governare (disperata missione dei poveri politici umani), appare comunque, anche ai laici, una risposta confortante e consolatoria.
Come possono di nuovo stare insieme le due cose? Dove deve mettere le sue radici la “nuova sinistra”? Come si rappresenta un lavoro profondamente diverso dal passato, — nel quale, naturalmente, continua a occupare un ruolo importantissimo la classe operaia, ma non più in posizione egemonica, — e lo si ri-organizza per rovesciare l’ondata travolgente, mondiale, del capitalismo finanziario? Se non si risponde a queste domande, interviene l’atrofia dei muscoli e del cervello.
In fondo, l’emergere di una nuova fenomenologia politica (non solo, ma soprattutto) nei paesi più deboli dell’orizzonte europeo occidentale, — Spagna, Grecia, Italia, — Podemos, Syriza, persino Grillo e il grillismo, rappresenta una risposta a queste domande. Non ne condividiamo uno per uno tutti gli orientamenti e ne scrutiamo spesso con qualche preoccupazione gli obiettivi, ma non possiamo non riconoscere che in una società mobile e disarticolata le loro sono risposte più à la page delle nostre.
Il secondo: l’Europa vive ormai sotto l’incubo (anche artatamente gonfiato, ammettiamolo) di uno scardinamento provocato da un’ondata migratoria di cui indubbiamente non esistono precedenti. La reazione è quella di una chiusura a riccio: da parte dei ceti borghesi, o pseudoborghesi, allo scopo di difendere i propri privilegi; e da parte dei nuovi ceti proletari e sottoproletari allo scopo di difendere una loro possibile, ancorché improbabile, ascesa verso l’alto. In ogni caso, è fuori discussione che il fenomeno alimenti qualsiasi tipo di reazione “populista” (io preferirei dire “massista”, ma devo farmi intendere dai lettori). Se il punto precedente si saldasse con questo, il quadro potrebbe diventare devastante. Non a caso Beppe Grillo, che se ne intende, ha formulato proposte estremamente restrittive rispetto al fenomeno dell’immigrazione. E’ un dato di fatto, tuttavia, che la sinistra, sia quella “storica” sia quella “nuova”, su questo punto non ha saputo formulare altro che generiche proposte d’ingenuo solidarismo, quando in Europa non s’è allineata tout court con le posizioni dei governi e dei ceti conservatori. Il solidarismo umanitario è il nostro credo. Ma se non ha un programma, e forze e mezzi per realizzarlo, rischia di diventare straordinariamente autolesionistico.
Senza bisogno di ricorrere, come taluno auspica, a una nuova Poitiers, è vero per tutti che l’Europa a sinistra si salva sia dall’interno sia dall’esterno. E’ una scommessa bestiale, me ne rendo conto. Ma solo chi la vince, vince l’intera partita.
2) Quello che in Europa rappresenta un decalage storico impressionante, — ci sono governi moderati o conservatori o di estrema destra in tutti i paesi, esclusa la Francia, dove il socialista Hollande si appresta a lasciare il premierato niente di meno che a un leader conservatore, anzi reazionario, di primo pelo come Sarkozy; in Germania i socialdemocratici si limitano a navigare nella scia di Angela Merkel; in Inghilterra i laburisti sono stati sconfitti recentemente per la seconda volta da Cameron, in attesa che la stella di Corbyn si levi in cielo dall’orizzonte, — diviene in Italia, come sempre più spesso capita, un allegro (o meglio: squallido) spettacolo della “commedia dell’arte”. Non c’è un provvedimento del governo Renzi che sia minimamente condivisibile. Il Jobs act. Il programma devastante e antiambientalista delle Grandi Opere. La cosiddetta “Pessima Scuola”. Tutto è diventato commerciale, usufruibile, sfruttabile: se non lo è, lo deve diventare a viva forza. La vicenda delle nomine dei direttori dei grandi musei italiani è uno schiaffo alla dignità nazionale e un’offesa ai funzionari che hanno il compito istituzionale di difendere il patrimonio artistico e i beni culturali.
Il caso Azzollini è uno schizzo di fango sulla toga già non del tutto immacolata del Pd: l’ammonimento susseguente e conseguente del Presidente del Consiglio, — «non siamo i passacarte dei Pm», — suona inequivocabilmente come un’apertura di credito nei confronti dei politici corrotti e corruttibili («State tranquilli, qualsiasi cosa facciate, ci siamo noi pronti ad aiutarvi e proteggervi»).
Ma quel che più conta è l’obiettivo cui mira la riforma costituzionale già in atto: ne riassumo le conclusioni. Se il progetto del ducetto di Rignano sull’Arno dovesse andare in porto, un partito del 35% (il 20%, più o meno degli aventi diritto al voto), avrebbe nelle proprie mani, a partire dalle prossime elezioni, non solo il Parlamento, la Presidenza del Consiglio e il Governo, ma anche la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale.
Quando si parla con orgoglio del Partito della Nazione, si dimentica che questa anomala caratterizzazione è stata usata in passato solo dai nazionalisti di primo Novecento, poi confluiti trionfalmente nel fascismo della prima ora, e poi, per l’appunto, con motivazione ancor più evidente, nel Partito Nazionale Fascista. Non è un caso che la forza innegabile, e temibile, di Matteo Renzi consista nell’avere a disposizione una possente arma di riserva. Se le cose dovessero andargli male, o solo un po’ peggio, l’alleanza con la destra berlusconiana sarebbe sempre a portata di mano. Altro che interruzione o declino del Patto del Nazareno! Il Patto del Nazareno è stato calato geneticamente nelle fibre costitutive del Governo Renzi, può essere reintegrato in ogni momento, anzi, più esattamente, non è mai venuto meno.
Cioè: siamo in Italia di fronte al rischio di un vero e proprio cambiamento di regime.
La conclusione di questo punto è che in Italia, — un paese da tutti i versi nel degrado più completo, (corruzione politica, crimine organizzato, perdita generalizzata di fiducia nella politica) — la battaglia della sinistra per le sue tradizionali parole d’ordine, (libertà, giustizia, eguaglianza) — deve essere ispirata anche fortemente ai bisogni e alle prospettive di una difesa e di un reintegro degli assetti istituzionali e costituzionali, della presenza e della dignità dello Stato e della ricerca di quell’obiettivo, che, forse un po’ troppo genericamente, ma anche molto efficacemente, si definisce “bene comune”.
E’ quel che accade oggi? Le connessioni tra le varie parti di questo difficile e scalare discorso, — politica, economia, assetti sociali, rapporto istituzioni-lotta di classe, — ci sono evidenti e percepibili, più o meno nello stesso modo, da Sondrio a Capo Pachino? Direi di no, per ora.
3) La sinistra, — un po’ tutta: quella del centro-sinistra-destra, che ci governa, e quella della “sinistra al tempo stesso classica e nuova”, in Italia non ha (e/o non vuole avere) memoria. Non ha introiettato e tanto meno metabolizzato la Bolognina di Occhetto, la bicamerale di D’Alema, la teorizzata e conclamata autosufficienza dei Ds di Walter Veltroni, la pugnalata nella schiena inferta al Governo Prodi da Rifondazione Comunista, il vigoroso tramonto della stella rinnovatrice di Antonio Bassolino, persino il recente, smisurato sostegno istituzionale e costituzionale del Presidente Napolitano all’esperimento Renzi.
Tanto meno ha introiettato e metabolizzato i tentativi di voltar pagina, che pure in questa nostra sinistra ci sono stati. Più o meno dieci anni fa (2004–2005), in una congiuntura enormemente più favorevole di quella odierna, un gruppo di compagni diede vita a una cosa che si chiamava “Camera di consultazione della sinistra” e propugnava, per l’appunto, l’unità della sinistra radicale (Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi, parti importanti della sinistra Ds, gruppi autonomi, ecc ecc.). L’esperienza ebbe una larga e ricca gestazione, fu sostenuta da un dibattito interessantissimo su il manifesto, ospite solidale e partecipe, sfociò in una grande Assemblea nazionale alla Fiera di Roma. Il giorno in cui (12 aprile 2005) il lavoro avrebbe dovuto concludersi con un voto su di un documento programmatico, e di lì passare ai fatti, Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, ne sabotò duramente il proseguimento. Si avvicinavano le elezioni. Il suo programma era un altro. La vittoria elettorale e, conseguentemente, la partecipazione a un governo fortemente spostato a sinistra? No, la Presidenza della Camera dei deputati. Oltre al fallimento del predetto tentativo, ne derivarono diverse altre conseguenze negative, fra cui, al limite, anche la scissione di Rifondazione comunista: una prova lampante di cosa significhi lavorare, alacremente e astutamente, non per l’unità della sinistra ma per la sua disunione.
Risentimento? Rancore? Sì, certo. Ma anche qualcosa di più. Abbiamo alle spalle un numero straordinario di sconfitte, giocate sia sul piano storico e politico sia su quello personale. Un elemento di riflessione storica e politica riguarda ad esempio l’impressionante declino della classe politica comunista post-berlingueriana.
Uno storico serio dovrebbe affrontare la questione e spiegarci come questo sia potuto accadere, e in questa misura. Un elemento di riflessione personale e antropologica riguarda invece la inaspettata insorgenza e poi, decisamente, la prevalenza, nei rappresentanti più in vista di tale ceto politico; di quegli elementi di un’etica degradata e personalistica, che ci assediano da tutte le parti e che, a parole, ma a dir la verità sempre meno spesso, viene condannata nella società che ci circonda.
Conclusione: se non si introietta e rielabora tutto questo, meglio non ricominciare.
4) Veniamo ora, sconsolatamente, dalla disillusa e pressoché disperata rievocazione del passato, ai buoni propositi del futuro. Ci vorrebbe, — conditio sine qua non: tener conto, certo, e farne il fondamento, dei punti elencati ai n. 1, 2 e 3, — un nuovo Partito: un partito fortemente democratico (una testa, un voto, e fin dall’inizio); fortemente riformista (non è più il tempo di un protestantesimo generico e parolaio, bisogna indicare con esattezza calvinista le cose da fare, la gerarchia con cui farle, per chi e come farle); e fortemente europeista (per un’Europa federata politicamente, all’interno della quale valga il criterio politico-istituzionale della rappresentanza e non la forza di contrasto e di ricatto della potenza economica capitalistica e delle tecnocrazie ad essa asservite).
Un partito, dico, non una rete. So per esperienza (l’esperienza che manca alla maggior parte dei miei possibili interlocutori) che da una rete, — una qualsiasi rete, di associazioni, di comitati, di gruppi, — non si decolla mai verso l’alto, ci si allarga solo, se va molto bene, orizzontalmente.
Un partito, aggiungo, promosso e fatto soprattutto da giovani: trentacinque, quarantenni. L’esperienza, anche in questo caso, dimostra che, per sorgere o risorgere, bisogna scavare un fossato ben visibile rispetto al passato (Podemos, Syriza). Il personale politico e intellettuale della “nuova sinistra” è più vetusto di quello di centro-sinistra-destra (sto parlando di me in primo luogo, ovviamente). I giovani non ci sono? Se non ci sono, vuol dire che l’Italia di oggi non li produce, e se è così, è un bel guaio. Ma forse, anche in questo caso, abbiamo fatto di tutto, e stiamo ancora facendo di tutto, perché l’Italia non li produca. Se si proponesse una leva, con l’obiettivo dichiarato ed esplicito di cedere alle nuove generazioni il bastone del comando, forse qualcosa di nuovo potrebbe saltar fuori. Meglio i possibili, difficilmente prevedibili errori dei giovani che quelli, assolutamente prevedibili, anzi già oggi del tutto scontati, dei nostri vetusti dirigenti.
Poi ci vuole una Persona, un’identità ben precisa sia maschile che femminile. E oggi, in tempo di mediatiche mattane, ancora di più. L’esperienza recente lo dimostra: senza Iglesias, senza Tsipras, persino senza Grillo, il combinato disposto di protesta, irritazione, ricerca del nuovo, tanto più in assenza di un autentico, materiale, evidente, punto di riferimento sociale, non quaglia. Dov’è questa Persona? Non sarà che a restar chiusi ancora una volta, per un’elementare reazione di autodifesa, nella piccola legione macedone fatta di quadri vetusti e d’intellettuali stagionati, la persona non riesce a venir fuori, resta ancora una volta e per sempre il detestato ed esorcizzato Pover’Uomo di falladiana memoria?
Perché queste e tutte le altre prove e controprove siano fatte ci vuole dunque una vera (sottolineo: vera) fase costituente, nel corso della quale si verifichi seriamente, non solo e non soprattutto, se siamo d’accordo fra noi, ma se ci sono altri che sono d’accordo con noi: disposti noi di conseguenza a cambiare, se gli altri, i “nuovi” del “partito nuovo”, ci persuaderanno che le loro ragioni sono migliori delle nostre (che poi è esattamente quello che ci si dovrebbe augurare che avvenga). Queste ragioni devono venire soprattutto dall’esterno: non possiamo pretendere oggi di farle tutte bell’e confezionate dal nostro stanco e mille volte sconfitto cervello.
5) Infine. Abbiamo sotto gli occhi la recentissima lezione, al tempo stesso esaltante e drammatica, della Grecia. Nello spazio di un colpo di fulmine siamo passati dall’ammirazione sconfinata per il processo di liberazione coraggiosamente iniziato e portato avanti da Syriza alla contemplazione problematica del processo di compromesso con le potenze dominanti all’interno della Ue predisposto e accettato dal Governo Tsipras per salvare il salvabile e continuare al tempo stesso il processo.
Il manifesto, 1 settembre 2015
Il crollo della Borsa di Shangai non è stato un incidente di percorso, ma il segno tangibile che anche il modello di accumulazione cinese è ormai subalterno alle dinamiche della finanza globalizzata. Nel modo di produzione capitalistico i crolli finanziari sono fisiologici e servono a redistribuire la ricchezza finanziaria dal basso verso l’alto, a contribuire decisamente a quel processo di concentrazione/centralizzazione del capitale che a metà del XIX secolo Marx aveva genialmente intuito.
Nel caso cinese, per spiegarci meglio, sono i novanta milioni di piccoli e medi risparmiatori che avevano investito nella Borsa di Shanghai ad averci rimesso le penne: colti dal panico hanno svenduto i titoli su cui avevano investito i propri risparmi. Di contro, i grandi gruppi finanziari, cinesi e non, hanno avuto l’opportunità di comprare queste azioni a prezzi stracciati e lucrare sulla loro risalita, come puntualmente si è verificato in questi ultimi giorni. Ma, la crisi finanziaria non si è chiusa e il mondo trema perché l’economia cinese ha avuto finora un ruolo di locomotiva rispetto al resto dell’economia-mondo.
I mass media occidentali hanno molto apprezzato l’intervento della Banca Centrale cinese che ha abbassato i tassi d’interesse e le riserve obbligatorie delle banche ed immesso una liquidità di circa 20 miliardi di dollari. Alcuni analisti hanno usato l’espressione di Quantitative Easing (Q.E.) alla cinese per indicare la scelta del governo di Pechino di aumentare la liquidità del sistema, evitando che si innesti un processo deflazionistico che porterebbe ad una brusca frenata dell’economia reale. Ed è qui la questione di fondo: il capitalismo globalizzato non può sopportare una crescita lenta o addirittura la recessione.
Secondo David Harvey, noto geografo ed economista inglese, per mantenere un livello accettabile del tasso di profitto medio la crescita economica globale deve viaggiare ad un tasso medio di almeno il 3 per cento l’anno. E gli Usa da soli non bastano: il ruolo della Cina è centrale per il sistema capitalistico su scala mondiale — insieme ad India, Brasile e Russia — per mantenere alto il livello della domanda aggregata a livello globale.
Ma, la Cina per mantenere elevato il suo tasso di crescita avrebbe bisogno di rilanciare la domanda interna, e questo richiede una redistribuzione della ricchezza e quindi un altro modello sociale e politico. E’ quello auspicato da Jeremy Corbyn, leader emergente del partito laburista inglese, che ha messo al centro del suo programma elettorale il Q.E. for the people. Questione centrale, ineludibile, se si vuole affrontare seriamente la crisi in corso. La sola immissione di liquidità in grande quantità decisa prima dalla Fed e poi dalla Bce non risolve la crisi da domanda o meglio da sovraproduzione di cui soffre l’economia-mondo. Solo una grande redistribuzione della ricchezza potrebbe risollevare le sorti dell’economia mondiale, dando la possibilità a centinaia di milioni di persone di accedere a beni e servizi essenziali.
Basti pensare che 1,2 miliardi di persone sono prive di acqua potabile e oltre 1,5 miliardi vivono in zone urbane o rurali senza fogne e canalizzazione delle acque, con conseguenti malattie (come la dissenteria, il colera, il tifo, ecc,) causa prima della mortalità infantile in queste aree. Senza contare l’alimentazione e i farmaci essenziali di cui sono privati circa un quinto degli abitanti del nostro pianeta.
Ma, una grande iniezione di liquidità monetaria a favore delle fasce più deboli della popolazione, classica ricetta keynesiana, non può avvenire puntando solamente sull’aumento quantitativo di moneta in circolazione. Il motivo è noto: il debito mondiale — pubblico e privato — vale più di tre volte il Pil ed in molti paesi industrializzati ha raggiunto livelli di insostenibilità. E la Cina non fa eccezione: il solo indebitamento delle imprese private è pari al 200 per cento del Pil, mentre quello pubblico, pur migliorando nell’ultimo decennio, è pari ad oltre il 120 per cento. In breve, la Cina soffre di tutti i mali dell’Occidente con un’aggravante: il modello di neoliberismo autoritario (spesso confuso con il capitalismo di Stato) è guidato dal più grande partito comunista del mondo, che ha impedito finora l’emergere di una alternativa.
Un modello di sviluppo che ha portato la Cina ad un tasso di crescita che non ha uguali nella storia dello sviluppo economico: negli ultimi quindici anni il Pil cinese è cresciuto del 300 per cento, con un tasso medio annuo di oltre il 10 per cento. E questa insostenibile accelerazione, come è noto, ha prodotto guasti sul piano sociale ed ambientale che sono stati coperti dalla polvere del tasso di crescita dell’economia reale.
Come Simone Pieranni ed altri hanno spiegato più volte su questo giornale, il gruppo dirigente del Pcc ha un bisogno vitale di un tasso di crescita sostenuto per mantenere il consenso. Ma, il modello di sviluppo export oriented non basta più: la crisi delle economie mature dell’Occidente lo impedisce. Solo la crescita del mercato interno — che avrebbe un bacino di circa 600 milioni tra contadini ed operai che vivono sotto la soglia di povertà — potrebbe ancora permettere alla Cina di crescere, ma richiederebbe una redistribuzione del reddito che colpirebbe la «classe agiata» cinese che ha un peso rilevante nello stesso partito comunista.
Insomma, per far ripartire il paese la Cina avrebbe bisogno di una iniezione di socialismo più che di liquidità monetaria. Né più né meno che noi europei. Ormai i principali fenomeni economici, sociali ed ambientali si presentano allo stesso modo in tutti i paesi del mondo: il processo di globalizzazione capitalistica si è compiuto. Il che significa che non è più possibile spostare sulle future generazioni il peso della crisi economica ed ecologica. Significa altresì che dobbiamo puntare ad un Q.E. for the People, ma nel rispetto degli equilibri ambientali se non vogliamo cadere in una trappola peggiore. Questa potrebbe essere la nuova bandiera della Sinistra Europea.