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L'allarme e la previsione sono più che giusti, ma le parole "classe" e "sinistra" vanno un po' strette rispetto alla catastrofe cui ci stanno portando alcuni secoli di capitalismo e all'immane impresa di scongiurarla.

Il manifesto, 9 settembre 2015

Nell’ottobre del 2003, negli Stati uniti, fu pub­bli­cato il rap­porto di due ricer­ca­tori, Peter Sch­wartz e Doug Ran­dall, dal titolo «Uno sce­na­rio di bru­schi cam­bia­menti cli­ma­tici e le sue impli­ca­zioni per la sicu­rezza degli Stati uniti — Imma­gi­nando l’impensabile».

Il rap­porto, pro­ba­bil­mente ispi­rato da qual­che stra­tega del Pen­ta­gono per oscuri motivi, descri­veva arti­co­la­ta­mente una serie di eventi cata­stro­fici dovuti prin­ci­pal­mente ai cam­bia­menti cli­ma­tici, con con­se­guenze politico-sociali dirom­penti per alcune zone del mondo.

Dopo aver pre­vi­sto che «Aree ric­che come gli Usa e l’Europa diver­ranno delle “for­tezze vir­tuali” per impe­dire l’ingresso a milioni di per­sone costrette ad emi­grare per aver perso le pro­prie terre som­merse dall’aumento del livello dei mari, o per non poterle più col­ti­vare», i due ricer­ca­tori imma­gi­na­vano così il futuro pros­simo dell’Europa: «L’Europa affron­terà enormi con­flitti interni a causa del gran numero di pro­fu­ghi che sbar­che­ranno sulle sue coste, pro­ve­nienti dalle zone più col­pite dell’Africa. Nel 2025 la UE sarà pros­sima al collasso».

Anche se non è stato deter­mi­nato dai cam­bia­menti cli­ma­tici, que­sto sce­na­rio «impen­sa­bile» è ora sotto i nostri occhi, né si può esclu­dere del tutto, per gli anni a venire, un even­tuale col­lasso dell’Unione euro­pea. Il punto, ovvia­mente, non è sta­bi­lire se que­sti avve­ni­menti fos­sero o no pre­ve­di­bili (per quanto essendo l’essere umano anche un demiurgo, l’anticipazione e la pro­spet­tiva dovreb­bero far parte delle sue capa­cità), ma di capire il senso di que­sto flusso epo­cale di migranti, che non si limiti alle con­si­de­ra­zioni gene­ra­li­ste sull’emergenza sociale e non si appa­ghi dell’altrettanto gene­rico impe­gno per l’accoglienza e la soli­da­rietà verso di loro.

Ales­san­dro Por­telli, con la sen­si­bi­lità che lo con­trad­di­stin­gue, ha scritto che si tratta di una nuova forma di lotta di classe (anzi antica) anche se l’obiettivo di que­sti migranti non è il rove­scia­mento di un sistema, ma sem­mai il con­di­vi­derlo. E’ una inter­pre­ta­zione spiaz­zante per la sini­stra (anche quella anta­go­ni­sta) per­ché ci pone una serie di inter­ro­ga­tivi e di com­piti che ben poco hanno a che vedere col nostro uma­ni­ta­ri­smo, intriso com’è di mise­ri­cor­dia cri­stiana e prin­cipi illu­mi­ni­stici. Vero è che biso­gna fron­teg­giare raz­zi­smo e xeno­fo­bia, ma que­sto non può risol­versi sol­tanto nella riven­di­ca­zione di un’Europa soli­dale, col rischio che ciò si tra­muti in una sorta di obolo «comu­ni­ta­rio» senza per nulla inci­dere sulle ori­gini e l’entità del male che è stato fatto. Basta fis­sare qual­che imma­gine estiva per ren­der­sene conto: i pro­fu­ghi siriani che irrom­pono nelle vacanze dell’agiata bor­ghe­sia euro­pea sbar­cando nell’isola greca di Kos col loro carico di orrori, ne sono la meta­fora più effi­cace che mette di fronte chi ha e chi non ha, chi si diverte e chi si dispera, senza pos­si­bi­lità di dia­logo, per­ché la con­di­zione degli uni, in que­sta società, non può sus­si­stere senza quella degli altri. E noi lo sap­piamo, ma abbiamo smar­rito le parole e i gesti per cam­biare que­sto stato di cose.

Per que­sto i migranti ci par­lano. Presi sin­go­lar­mente ognuno dirà che è qui per rifarsi una vita, ma nel loro insieme, nel loro essere «massa inva­dente», ci dicono che l’altro mondo pos­si­bile di cui abbiamo vagheg­giato è, in realtà, un cumulo di mace­rie da cui stanno fug­gendo; che il nostro uma­ne­simo e i nostri valori medi­ter­ra­nei, cioè le «essenze occi­den­tali» come le chia­mava Franz Fanon (di cui il «basa­mento greco-latino» costi­tuiva una sorta di logo), sono ormai «sopram­mo­bili senza vita e senza colore». Disfarsi di que­sti sopram­mo­bili, can­cel­lando dalla mente degli oppressi l’immagine del «basa­mento greco-latino» pro­prio per­ché sim­bolo di quelle «essenze» domi­na­trici, era con­si­de­rato da Fanon un momento libe­ra­to­rio nella lotta dei dan­nati della Terra.

Oggi siamo alla distru­zione mate­riale di quel basa­mento per mano dell’Isis, che certo non può anno­ve­rarsi tra gli emuli di Fanon. Dun­que il pro­blema (dell’affrancamento eco­no­mico e cul­tu­rale di que­ste genti), si ripro­pone in forme tene­brose e non poteva essere altri­menti dato che l’Europa (per non par­lare degli Usa) non ha mai smesso di appor­tare disor­dine e dolore in Africa e Medio­riente. Quanti lea­der — afri­cani, arabi, pro­gres­si­sti e rivo­lu­zio­nari — sono stati uccisi, quante rivolte sof­fo­cate nel san­gue, quanti i governi rove­sciati pur di impe­dire che si affer­masse un punto di vista indi­pen­dente e/o mar­xi­sta come lo postu­lava Fanon: «Lasciamo quest’Europa che non la fini­sce più di par­lare dell’uomo pur mas­sa­cran­dolo dovun­que lo incon­tra, a tutti gli angoli delle sue strade, a tutti gli angoli del mondo». Diver­sa­mente l’Isis, nel men­tre pro­clama la distru­zione dell’Europa (limi­tan­dosi per ora a quella dei tem­pli), mira al con­trollo delle ric­chezze del sot­to­suolo in Medio Oriente, in Libia, in Nige­ria per rea­liz­zare (appa­ren­te­mente) un modello di società ibrida: con­fes­sio­nale, feu­dale, ma che non disde­gna l’uso di tec­no­lo­gie al passo con i tempi né, soprat­tutto, la logica di mer­cato pro­pria del capitalismo.

In altre parole non vogliono essere come noi, ma pren­dere il nostro posto. Non una vera alter­na­tiva quindi, ma una variante sì ed anche effi­cace, in grado di mobi­li­tare parte delle masse arabe ed afri­cane e di sug­ge­stio­nare l’animo degli esclusi che vivono nelle ban­lieue europee.

Fate qual­cosa, ci dicono ancora i migranti, per far sì che l’Isis non rap­pre­senti più una chance. Ma que­sta volta fatela bene. Fer­mate la guerra, ma fer­mate anche lo sfrut­ta­mento, quello che ci acco­muna in quanto subal­terni, ma ci divide in quanto a fede e nazio­na­lità. È un’istanza di classe, un appello alla sinistra.

Un gruppo di economisti di fama internazionale ha firmato un appello affinché i Paesi Membri dell’Unione Europea votino, durante l’Assemblea Generale dell’ONU del 10 settembre, a favore di una risoluzione per la gestione democratica dei debiti sovrani, affinché le sorti dei Paesi indebitati vengano sottratte al mercato dei debiti, come nel caso dell’Argentina prima e della Grecia poi. Il manifesto, 9 settembre 2015

«La crisi greca ha mostrato che in assenza di un qua­dro poli­tico inter­na­zio­nale, che per­metta una gestione ragio­ne­vole dei debiti sovrani, e mal­grado la loro inso­ste­ni­bi­lità, uno Stato da solo non può otte­nere delle con­di­zioni pra­ti­ca­bili per la ristrut­tu­ra­zione del pro­prio debito. Durante le nego­zia­zioni con la Troika, la Gre­cia si è imbat­tuta in un osti­nato rifiuto in tema di ristrut­tu­ra­zione, in con­tra­sto con le rac­co­man­da­zioni stesse del Fmi.

Esat­ta­mente un anno fa a New York, l’Argentina, soste­nuta dai 134 Paesi del G77, ha pro­po­sto in sede Onu di creare un comi­tato che sta­bi­lisse un qua­dro legale a livello inter­na­zio­nale per la ristrut­tu­ra­zione dei debiti sovrani. Il comi­tato, soste­nuto da un gruppo di esperti dell’Uctad, vuole adesso sot­to­porre al voto 9 prin­cipi, che dovreb­bero pre­va­lere durante le ristrut­tu­ra­zioni dei debiti sovrani: sovra­nità, buona fede, tra­spa­renza, impar­zia­lità, trat­ta­mento equo, immu­nità sovrana, legit­ti­mità, soste­ni­bi­lità, regole maggioritarie.

Negli ultimi decenni si è assi­stito all’emergere di un vero e pro­prio mer­cato del debito a cui gli Stati hanno dovuto sot­to­stare. L’Argentina, prima in que­sto pro­cesso, ha dovuto affron­tare i cosid­detti “fondi avvol­toio” quando ha scelto di ristrut­tu­rare il pro­prio debito. Que­sti fondi, di recente, hanno otte­nuto per mezzo della Corte ame­ri­cana il con­ge­la­mento degli asset argen­tini pos­se­duti negli Stati Uniti.

Ieri all’Argentina, oggi alla Gre­cia, domani forse alla Fran­cia o a qual­siasi Paese inde­bi­tato può essere negata nelle attuali con­di­zioni la pos­si­bi­lità di una ristrut­tu­ra­zione del debito nono­stante il buon senso. Adot­tare un qua­dro legale rap­pre­senta un’urgenza per assi­cu­rare la sta­bi­lità finan­zia­ria, per­met­tendo a cia­scun Paese di risol­vere il dilemma tra il col­lasso del sistema finan­zia­rio e la per­dita di sovra­nità nazionale.

Que­sti 9 prin­cipi riaf­fer­mano la supe­rio­rità del potere poli­tico, attra­verso la sovra­nità nazio­nale, nella scelta delle poli­ti­che pub­bli­che. Essi limi­tano la spo­li­ti­ciz­za­zione della strut­tura finan­zia­ria, la quale ha escluso finora ogni pos­si­bile alter­na­tiva all’auste­rity, tenendo in ostag­gio gli Stati.

L’Onu deve quindi farsi soste­ni­tore di una gestione demo­cra­tica del debito e della fine del mer­cato dei debiti.

Un’iniziativa simile aveva fal­lito nel 2003 al Fondo Mone­ta­rio Internazionale.

Oggi, la posi­zione degli Stati euro­pei rimane ambi­gua, nono­stante il loro sup­porto sia fon­da­men­tale affin­ché que­sta riso­lu­zione possa essere attuata. I Paesi euro­pei si sono disin­te­res­sati al pro­cesso di demo­cra­tiz­za­zione non mostrando alcun sup­porto alla crea­zione del comitato.

Ma la situa­zione greca ha mostrato che non c’è più tempo per tergiversare.

Se gli eventi dell’estate hanno raf­for­zato i nazio­na­li­smi e la sfi­du­cia dei cit­ta­dini verso le isti­tu­zioni inter­na­zio­nali, oggi gli euro­pei sono chia­mati a riaf­fer­mare i diritti demo­cra­tici, da ante­porre alle regole di mer­cato nella gover­nance internazionale.

Chie­diamo quindi che tutti li Stati Euro­pei votino a favore di que­sta risoluzione».

Primi fir­ma­tari

Gabriel Col­le­tis
Gio­vanni Dosi
HHei­ner Flassbeck
James Gal­braith
Jac­ques Généreux
Mar­tin Guzman
Michel Hus­son
Steve Keen
Ben­ja­min Lemoine
Mariana Maz­zu­cato
Ozlem Ona­ran
Tho­mas Piketty
Robert Salais
Engel­bert Stockhammer
Xavier Tim­beau
Bruno Thé­ret
Yanis Varou­fa­kis
Gen­naro Zezza

(tra­du­zione Marta Fana)

«Le sfide del cristianesimo la minaccia dell’Is il ruolo femminile e il pontificato di Francesco Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa dedicato a “Misericordia e perdono”». La Repubblica,

9 settembre 2015

«Il papa ha lanciato l’allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall’ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». Siamo a Bose, alla vigilia dell’apertura dell’annuale convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, e il priore

Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».

Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».

I monaci dal V secolo fecero scempio dell’arte pagana Erano i talebani del momento

Guardiamo gli eventi nella misura dei millenni di storia anche ecclesiastica, parliamo del V secolo, quando alle cosiddette invasioni barbariche si è affiancata l’assunzione del cristianesimo a religione di stato.
«Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci – lo dico con dolore, mi strappa il cuore – ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d’arte non diverso da quello dell’Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola “monaco”: designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto».

Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel “Libro dei testimoni”, lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che – da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi – in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».

Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».

La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordina- ri, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad , affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».

Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: “Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Così li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra”. Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna — giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione — ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».

Enzo Bianchi: «Critichiamo l’Islam ma poi emarginiamo ancora le donne»

I popoli sono in marcia e un’ibridazione, che la si voglia o no, dovrà avvenire, perché questa è la storia. Il che pone anche specifici problemi sociali come quello del ruolo della donna: l’islam impone il velo, ma non trovi che anche nella chiesa cristiana ci sia un ritardo?
«Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell’uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell’islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell’assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto.
«Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l’intenzione e non le forme. Nella chiesa c’è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l’idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l’uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».

Il convegno che si apre oggi è dedicato a “Misericordia e perdono”: sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».

Davvero sublimi le truffe che il cerchio magico di Matteo Renzi riesce a inventare per difendere il regime feudale e accalappiare gli scioccherelli della sinistra tremula.

Il manifesto, 8 settembre 2015

Inven­zione. Secondo il dizio­na­rio, idea­zione, crea­zione o intro­du­zione di oggetti, pro­dotti, stru­menti e altre cose pre­ce­den­te­mente non esi­stenti. E ci siamo, con la riforma costi­tu­zio­nale. Si sente di un accordo nel Pd: aprire al senato elet­tivo, ma senza toc­care il testo già appro­vato, che - ahimè - dice il con­tra­rio. Un senato elet­tivo i cui com­po­nenti non sono eletti. Una inso­ste­ni­bile apo­ria, e un’invenzione. Con un senato elet­tivo, ma non troppo, il genio ita­lico col­pi­sce ancora. La chiave sarebbe un listino.

Come quello che un tempo ave­vamo a livello regio­nale, e che a furor di popolo era stato sostan­zial­mente espunto nella ultima sta­gione sta­tu­ta­ria. Doveva ser­vire a por­tare pre­senze qua­li­fi­cate e com­pe­tenze nei con­si­gli regio­nali a soste­gno dei gover­na­tori, ed era poi in pre­va­lenza diven­tato luogo di mer­ci­mo­nio poli­tico o asilo per amici, sodali, parenti e clienti. Che si voglia adesso rispol­ve­rare a livello nazio­nale già segnala quanto sia bassa la mediazione.

Un par­la­men­tare è dav­vero eletto se viene per­so­nal­mente scelto dagli elet­tori, in una diretta com­pe­ti­zione con altri. Qua­lun­que altro sistema, nel degrado gene­rale che ci accom­pa­gna, non pro­mette buoni risul­tati. Un listino pre­su­mi­bil­mente votato in blocco e in col­le­ga­mento con un can­di­dato gover­na­tore o con una lista di par­tito, signi­fica invece un senato di nomi­nati, per di più — se rimane il testo fin qui appro­vato — scelti da chi non merita e tra chi non merita. E che si aggiunge a una camera pari­menti com­po­sta in larga misura di nomi­nati, per l’infernale mec­ca­ni­smo dei capi­li­sta a voto bloc­cato. Tutto, pur di evi­tare che il popolo sovrano scelga chi lo rappresenta.

Pare che una parte della tre­me­bonda dis­si­denza Pd sia dispo­ni­bile. Visti i pre­ce­denti, non mera­vi­glia, anche se non se ne capi­sce la ragione. Senza cam­bia­menti radi­cali del copione sono già oggi dei morti che cam­mi­nano, e ben dovreb­bero saperlo. Fa tene­rezza — o forse rab­bia — la men­zione dei males­seri della «nostra gente», del «nostro popolo», che qual­che lea­der, un tempo auto­re­vole, timi­da­mente mette in campo. Erano richiami fre­quenti nel gruppo diri­gente di quella che fu una grande sini­stra. Ave­vano un peso reale, per­ché segna­vano il comune sen­tire che legava la base al ver­tice del par­tito, e la con­di­vi­sione pro­fonda di valori e di obiet­tivi.

Ma qual­cuno dovrebbe spie­gare che oggi quel popolo non c’è più. E che è stato disperso non da una strega cat­tiva, ma da una ditta che ha cam­biato ragione sociale. Cosa ha a che fare con quel popolo un par­tito che toglie ai lavo­ra­tori gli stru­menti per la pro­pria difesa, che sba­racca la scuola pub­blica, che taglia i ser­vizi essen­ziali, che non com­batte le dise­gua­glianze, che addi­rit­tura toglie ai poveri per dare ai ric­chi come si pro­getta con l’Imu e la Tasi? È un dise­gno regres­sivo, e la radice è nella ricerca di voti ovun­que si pos­sano rac­co­gliere. Dov’è un pro­getto di sini­stra? E se si nega il pro­getto, si nega anche il «popolo» che in esso si può rico­no­scere. Del resto, chi ha avuto modo di fre­quen­tare anche occa­sio­nal­mente i cir­coli ter­ri­to­riali del Pd sa che ormai i mili­tanti di oggi sono molto diversi da quelli di un tempo. Il «popolo» che fu se n’è andato, in massa. E la spe­ranza dell’esangue sini­stra Pd di ricon­qui­stare il par­tito male si col­loca nel «popolo» di oggi.

Pro­prio per que­sto il dise­gno ren­ziano è coe­rente, e non di sini­stra. Gli argo­menti che lo sosten­gono sono ine­si­stenti. Il rispar­mio di spesa si riduce a spic­cioli, e più o meglio si per­se­gui­rebbe tagliando in modo bilan­ciato il numero di depu­tati e sena­tori. Il bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio può essere supe­rato man­te­nendo il carat­tere elet­tivo, come l’esperienza di molti paesi ampia­mente dimo­stra. L’obiettivo vero è invece pro­prio l’asservimento delle assem­blee elet­tive all’esecutivo e al lea­der, e la ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia e di par­te­ci­pa­zione. A que­sto sono fun­zio­nali il sistema elet­to­rale col suo mega­pre­mio di mag­gio­ranza al sin­golo par­tito e il bal­lot­tag­gio, e la riforma costi­tu­zio­nale. A que­sto fine, un ecto­pla­sma di senato è un ottimo risul­tato. E non dimen­ti­chiamo la mag­giore dif­fi­coltà di ricorso al refe­ren­dum popo­lare. A cosa serve tutto que­sto se non a zit­tire il dis­senso, per por­tare avanti poli­ti­che che un tempo avremmo defi­nito anti­po­po­lari, e che oggi per alcuni recano il segno della modernità?

Quindi, lasciamo in pace il «nostro popolo». Non sarà ricon­qui­stato con appelli sen­ti­men­tali, ma solo difen­dendo gli spazi di demo­cra­zia che ad esso pos­sono dare voce. Si com­batta dun­que fino in fondo per un senato genui­na­mente elet­tivo. Que­sto è oggi il ter­reno di scon­tro, e le inven­zioni di Renzi lascia­mole a lui. Anzi, non vor­remmo che qual­cuno ce lo copiasse. Bre­vet­tia­molo, e met­tia­molo sul mercato.

Noi stiamo con Syriza e Alexis Tsipras. Perché la loro lotta contro l’austerità e per cambiare radicalmente l’Europa è la nostra lotta. Se il 20 settembre Syriza sconfiggerà il fronte che vuole riportare la Grecia ai tempi della vergogna e della subalternità, sarà il segnale che la breccia aperta il 25 gennaio rimane aperta. Se non riusciranno a cancellare l’unico governo veramente democratico e di sinistra che si oppone al dogma neoliberista sul continente europeo, vorrà dire che la lotta può continuare. Che il progetto dell’oligarchia che guida l’Unione Europea non è passato.

In molti in Europa sperano nella fine del governo Tsipras e di Syriza. Sono le stesse forze che in questi mesi hanno fatto di tutto per farlo cadere o per cacciare tout court la Grecia dall'Europa. Contro queste forze Tsipras, il suo governo e il popolo greco hanno ingaggiato una battaglia durissima. In completa solitudine. Atene, è stato detto, è stata lasciata sola “come Praga nel ‘68”. Non solo le tradizionali forze di destra, ma la socialdemocrazia e gran parte dei socialisti europei si sono voltati dall’altra parte, e in molti casi si sono schierati contro. Ha pesato nello scontro anche la debolezza dei movimenti sociali, che non hanno fatto sentire in modo incisivo ed efficace la loro solidarietà alla Grecia come sarebbe stato necessario.

L'Europa è stato il luogo del compromesso sociale più avanzato e del migliore welfare state. Ora è divenuta un avamposto della globalizzazione neoliberista. Qui sta la nostra sconfitta. Qui le ragioni della ripartenza. Il grande merito di Tsipras è stato di denunciare questi poteri e questo stato di cose e di lanciare una lotta di liberazione della Grecia e dell'Europa, insieme. Per cinque mesi ha difeso in tutti i modi possibili il proprio popolo e il proprio Paese. Con il Referendum ha mostrato a tutti che il popolo greco sosteneva il proprio governo, che per liberarsene bisognava cacciare la Grecia dall’Europa.

Dopo la sofferta conclusione del negoziato Tsipras ha espresso un giudizio chiaro e severo del compromesso raggiunto. Lungi dal far propria la filosofia dell'avversario o l'idea che non esista alternativa allo stato di cose esistenti ha parlato di strade nuove da inventare col conflitto. Ha escluso l'uscita dall'Euro che non stava nei programmi votati dal popolo e che nella condizione data avrebbe rappresentato in sostanza pagare stipendi e pensioni in dracme e debiti in euro, con conseguenze disastrose. Senza nessuna indulgenza per il compromesso fatto occorre riconoscere che è stato posto un freno all'idea di una Europa tedesca ben rappresentata dal volto arcigno di Wolfgang Schaeuble, aprendo per altro contraddizioni significative e globali contro questo progetto, all'inizio impensabili nello schieramento neoliberista a livello europeo e internazionale. E che si è imposta la discussione sul debito, divenuta ora assai più concreta. Soprattutto sia la Grecia e che l'Europa hanno più tempo. Non è un caso che sia cresciuta la sintonia tra Tsipras e Iglesias facendo giustizia di troppo facili e strumentali analisi sulle differenze tra Podemos e Syriza; e che alla speranza spagnola si siano aggiunte le nuove opportunità in Irlanda e in Inghilterra con Corbyn.

In Grecia, d’altra parte, con coerenza Tsipras ha escluso ogni compromesso con i responsabili della rovina del Paese: popolari e socialisti, neppure a fronte della scelta effettuata da forze che hanno lasciato Syriza. Si chiede al popolo un giudizio su ciò che si è fatto e un nuovo mandato per la nuova fase, per continuare la lotta contro la austerità e per cambiare l'Europa.

Su questa prospettiva e questo terreno è nata l'Altra Europa con Tsipras. Non a caso ci siamo chiamati così, per connessione con un percorso di lotta e di cambiamento. Punto essenziale, indicato con chiarezza sia dall'appello iniziale che dal programma con cui siamo andati alle elezioni europee del 2014. In entrambi la lotta per cambiare l'Europa non viene delegata alla uscita da una moneta unica che potrebbe avere conseguenze tragiche, ma al cambiamento dei rapporti di forza sociali e politici dello scenario europeo considerato il vero terreno dello scontro e della ricostruzione della democrazia e dei soggetti di cambiamento.

Troppo poco abbiamo fatto in Italia perché la battaglia della Grecia e di Tsipras non rimanesse isolata. Per questo L’Altra Europa con Tsipras è impegnata perché in Italia nasca al più presto e si affermi una forza alternativa della sinistra che, insieme a tutte le forze della sinistra di alternativa europee, costituisca un punto di riferimento alle lotte, ai movimenti, alle battaglie per cambiare l’Europa.

Siamo solidali e vicini più che mai a Syriza, consapevoli del travaglio che la ha attraversata in un momento cosi delicato e drammatico e dell’importanza dell’unità, testimoniata anche da quelle compagne e quei compagni che, pur mantenendo posizioni critiche rispetto alle scelte del governo, hanno deciso di restare dentro Syriza per portare il loro contributo alla vittoria elettorale. Con questo spirito continueremo a ricercare la più larga unità di tutte le forze che lottano in Europa e in Grecia contro l'austerità lavorando per evitare ad ogni costo “guerre civili a sinistra”. Con la stessa coerenza con cui abbiamo auspicato l'unità di Syriza, siamo convinti che una nuova vittoria di Tsipras e di Syriza il 20 settembre aiuterà la lotta di tutti a continuare. Non solo ce la auguriamo, saremo in campo per dare tutto il nostro sostegno. In Italia, offrendo la più ampia informazione e continuando la battaglia contro le posizioni che insistendo sull'austerità portano il progetto europeo all'implosione. E partecipando numerosi alla conclusione della campagna elettorale di Syriza in Grecia, alla vigilia del voto del 20 settembre.

Riferimenti
Il documento è ripreso dal sito L'altra Europa con Tsipras. In eddyburg sono raccolti numerosi articoli sul coraggioso tentativo della Grecia di Tsipras di avviare la trasformazione dell'Unione europea e di costruire un'Europa finalizzata alle esigenze e agli interessi delle persone e non al maggior potere del financapitalismo (a una visione dell'Europa conforme al "manifesto di Ventotene" e non agli interessi nazionalistici dei singoli stati) è raggiungibile digitando sul "cerca" in cima a ogni pagina la parola "Tsipras"

I quattro fattori che hanno indotto Angela Merkel ad aprire una breccia nella ferrea barriera sella Fortezza Europa. Non centa il sentimento.

Il manifesto, 8 settembre 2015

Può cam­biare tutto nel giro di poche set­ti­mane o addi­rit­tura di pochi giorni? La stampa euro­pea fa mostra di cre­derci. L’egemonia tede­sca sull’Europa sem­bra essersi tra­sfor­mata d’incanto in una lumi­nosa guida morale. I «valori della cul­tura euro­pea» met­tono in ombra quelli della borsa, la respon­sa­bi­lità sto­rica prende il soprav­vento su quella con­ta­bile, dall’ultimo rifu­giato siriano fino alla can­cel­liera Mer­kel tutti insieme into­nano l’«Inno alla Gioia». Per qual­cuno la «pal­lida madre» avrebbe addi­rit­tura rispol­ve­rato lo spi­rito di Hoel­der­lin e Heine. L’esagerazione è il pane quo­ti­diano dei media. Eppure qual­cosa di nuovo è accaduto.

Ber­lino, sia pure con molti distin­guo di cui non è ancora chiara l’entità, ha rimesso in que­stione una delle sue crea­ture più care: quell’accordo di Dublino che costrin­geva i richie­denti asilo a rima­nere nel primo paese di approdo. Ha chia­mato a un grande sforzo nazio­nale per fron­teg­giare l’emergenza dei pro­fu­ghi, ha dichia­rato di voler inve­stire sei miliardi dei suoi pre­ziosi risparmi per la siste­ma­zione e l’integrazione dei nuovi arri­vati, indi­rizza l’Unione euro­pea verso poli­ti­che respon­sa­bili di aper­tura e di accoglienza.

Que­sta cor­re­zione di rotta è stata deter­mi­nata da quat­tro fat­tori ben più razio­nali che emo­tivi. Il primo, deci­sivo, è la con­sa­pe­vo­lezza che la pres­sione migra­to­ria era ormai inar­re­sta­bile. Il governo di Ber­lino ha dovuto infine pren­dere atto che non esi­ste bar­riera mate­riale o legi­sla­tiva in grado di argi­nare la mol­ti­tu­dine in movimento.

Si tratta, dun­que, di una vit­to­ria dei migranti, otte­nuta a caris­simo prezzo, di un risul­tato della loro straor­di­na­ria deter­mi­na­zione. Le fron­tiere non sono state sem­pli­ce­mente aperte dalla bene­vo­lenza dei «padroni di casa», ma tra­volte da decine di migliaia di per­sone che eser­ci­ta­vano, prima che qual­cuno glielo avesse rico­no­sciuto, il loro «diritto di fuga» e riven­di­ca­vano la libertà di movi­mento. Inol­tre biso­gnava fare in fretta poi­ché tutto poteva acca­dere in quell’Ungheria dai tratti sem­pre più mar­ca­ta­mente fasci­sti che l’Europa tol­lera nel suo seno. Aprire la fron­tiera più che una scelta è stata una necessità.

Il secondo ele­mento è la sco­perta che i sen­ti­menti xeno­fobi e raz­zi­sti non sono affatto mag­gio­ri­tari e nean­che così ampia­mente dif­fusi come si cre­deva. La straor­di­na­ria mobi­li­ta­zione spon­ta­nea a soste­gno dei rifu­giati da Vienna a Monaco a Ber­lino ha dis­si­pato le ombre dis­se­mi­nate in Ger­ma­nia dai patrioti anti­sla­mici di Pegida (ridotti a spa­ruti grup­pu­scoli asse­diati in ogni città tede­sca) e dai nazio­na­li­sti solo un po’ meno impre­sen­ta­bili di Alter­na­tive fuer Deu­tschland. Di con­se­guenza il timore che l’apertura agli stra­nieri dovesse com­por­tare un cospi­cuo costo elet­to­rale a favore della destra è stato for­te­mente ridi­men­sio­nato. Alla fine potrebbe addi­rit­tura tra­dursi in un gua­da­gno per la Cdu di Angela Merkel.

Il terzo fat­tore era la neces­sità di restau­rare l’immagine della Ger­ma­nia in Europa, gran­de­mente dan­neg­giata dalla gestione della crisi greca. Il paese non doveva più essere iden­ti­fi­cato con il volto arci­gno della Bun­de­sbank. Tut­ta­via, nel sot­to­li­neare più volte il fatto che la Ger­ma­nia è un paese forte e sano, Angela Mer­kel lascia inten­dere che solo l’esercizio ordi­na­rio del rigore per­mette l’esercizio straor­di­na­rio della soli­da­rietà. Severa o sol­le­cita che sia la lea­der­ship con­ti­nua risie­dere a Ber­lino. In ogni modo l’operazione di imma­gine, a giu­di­care dagli osanna che si levano in mezza Europa e tra le file più foto­gra­fate dei pro­fu­ghi, è per­fet­ta­mente riu­scita. Senza peral­tro dovere ricor­rere ai pro­clami bel­lici di Lon­dra e di Parigi.

Il quarto fat­tore è la con­sa­pe­vo­lezza del fatto che, debi­ta­mente gover­nata, l’immigrazione, se a breve ter­mine rap­pre­senta un costo, sul lungo periodo costi­tui­sce una for­mi­da­bile risorsa, soprat­tutto per un modello eco­no­mico come quello tede­sco. Si tratta allora di met­tere a punto gli stru­menti e i fil­tri neces­sari a que­sto governo e dun­que un diritto di asilo euro­peo secondo schemi fun­zio­nali alla poli­tica migra­to­ria della Bundesrepublik.

Il lavoro è appena comin­ciato e c’è intanto da fare i conti con i nazio­na­li­smi più o meno xeno­fobi dell’Est euro­peo lun­ga­mente coc­co­lati da Ber­lino. Ma, soprat­tutto, ci sono da sta­bi­lire i cri­teri di ammis­sione e di esclu­sione. In un primo momento sem­brava che le porte della Ger­ma­nia si doves­sero aprire ai soli siriani. Una discri­mi­na­zione rispetto ad altre aree di con­flitto armato non ammessa dalla Costi­tu­zione tede­sca. Tut­ta­via non è ancora chiaro chi avrà diritto allo sta­tus di rifu­giato. Di certo non chi pro­viene dai paesi bal­ca­nici (Alba­nia, Ser­bia, Kosovo, Bosnia) dichia­rati sicuri. Il cri­te­rio è sem­plice: una volta dichia­rato un paese «sicuro» il rim­pa­trio sarà imme­diato. Ma que­sta defi­ni­zione si pre­sta alle più arbi­tra­rie e inte­res­sate sem­pli­fi­ca­zioni. Tanto più che in molti paesi la «sicu­rezza» garan­tita alla mag­gio­ranza, spesso non lo è altret­tanto per le minoranze.

C’è da scom­met­tere che, se que­sto sarà il discri­mine, il mondo si sco­prirà pre­sto molto più sicuro di quanto non imma­gi­nasse.

E, tut­ta­via, una dispo­ni­bi­lità al cam­bia­mento, al rin­no­va­mento delle società euro­pee con il con­tri­buto dei migranti sem­bra essersi ormai dif­fuso tra i cit­ta­dini del Vec­chio Con­ti­nente e trova una qual­che eco per­fino nelle parole della Can­cel­liera alquanto ine­briata dal suo stesso, inat­teso, suc­cesso di pub­blico. Una brec­cia è stata aperta su entrambi i lati della fron­tiera, una brec­cia che inve­ste l’intero spa­zio pub­blico euro­peo e che, su que­sta scala, deve essere allargata.

Proviamo a guardarci da fuori: 110mila italiani sono emigrati nel 2014, oltre il doppio dei richiedenti asilo nel nostro paese. Non ci hanno cacciati, e neppure trattati come molti di noi trattano i nostri simmetrici "migranti economici" .

La Repubblica, 8 settembre 2015

VORREMMO raccontare una storia di migranti, partendo dai dati invece che dalle immagini. Sarà meno suggestiva, ma è accurata. I dati che raccontiamo misurano flussi e caratteristiche delle persone che attraversano i confini dell’Italia. In questa storia più di 100mila persone hanno lasciato il loro paese per cercare lavoro e fortuna in un altro nel 2014: più del doppio rispetto al 2010. Di queste più della metà è tra i 25 e i 44 anni di età, il periodo più produttivo della vita lavorativa. La maggior parte sono migranti per ragioni economiche e spesso lasciano situazioni di scarse prospettive. Alcuni di loro saranno professionisti e scienziati, altri camerieri e cuochi.

Questi migranti che attraversano i confini del nostro paese ogni anno potrebbero provocare grande opposizione nelle aree che li ospitano. Se avessero viaggiato su barche ne avremmo vista una alla settimana con più di 2mila persone tutto l’anno. Ma non abbiamo visto nulla e quindi per noi non esistono. I dati da noi descritti sono relativi agli italiani che hanno lasciato l’Italia per andare a risiedere all’estero. Sono stati ottenuti dall’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (Aire). Anche se tutti i richiedenti asilo in Italia trovassero un modo per rimanervi, sarebbero meno della metà degli italiani che partono.

Non vogliamo equiparare le condizioni di emergenza reale dei migranti del Nord Africa a quella degli italiani che emigrano per scelta e in sicurezza. Tuttavia comparare questi flussi stimola due importanti riflessioni. Una ha a che fare con l’impatto economico dei migranti e l’altra riguarda la
necessità di cambiare il modo in cui l’Italia considera la collaborazione con il resto d’Europa.

L’enfasi sui potenziali costi economici degli immigrati sollevata in questi giorni è mal riposta. La perdita fra il 2010 e il 2014 di 200mila giovani, dinamici e produttivi, il cui contributo all’economia italiana sarebbe grandissimo, è costo economico molto più significativo rispetto all’arrivo dei rifugiati. In un mondo integrato è fisiologico che le persone migrino tra paesi. In tale prospettiva i giovani immigrati sono potenzialmente una risorsa e potrebbero rimpiazzare i tantissimi italiani in partenza. È stato così in Irlanda dove la grande emigrazione (verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti) è stata controbilanciata da grande immigrazione (in gran parte dall’Est Europa) che ha stimolato il suo boom economico (tra il 2000 e il 2010).

Questo necessita di politiche di immigrazione lungimiranti, basate sulle opportunità di lavoro in certi settori e sulla previsione e gestione di flussi futuri. Inoltre, riforme del mercato del lavoro che introducano più competizione e flessibilità, aiuterebbero anche l’immigrazione a essere motore di occupazione e crescita. Vari studi mostrano che negli Stati Uniti gli immigrati, anche quelli con poca istruzione, stimolano la crescita economica con il loro lavoro e i loro consumi. Nei prossimi decenni molti abitanti di vari paesi dell’Africa e del Medio Oriente vorranno emigrare. Potremmo incentivarne un numero ragionevole a farlo, legalmente, come studenti, lavoratori e imprenditori, stimolando l’economia, creando connessioni tra paesi e infrastrutture che possono servire anche a gestire emergenze e rimpatriare chi non è legale.

La seconda riflessione evidenzia l’ingenerosità con cui l’Italia critica il resto d’Europa per la mancanza di aiuti nella gestione della “crisi dei migranti”. L’Italia non ha accettato negli ultimi anni che un minimo numero di rifugiati tra i richiedenti asilo che arrivavano ai loro confini. La Germania è il paese europeo che ha accolto più rifugiati, arrivando a più di 30mila nel 2014. L’Italia non ne ha mai accettati più di 3.500 all’anno. Allo stesso tempo, il resto d’Europa ha accolto negli ultimi due decenni centinaia di migliaia di nostri connazionali. Secondo l’Aire sono 873mila gli italiani migrati nel resto d’Europa dal 1992 a oggi e tuttora residenti all’estero. Di essi 221mila sono in Germania (il paese che ne accoglie di più), 120mila in Francia e in Regno Unito.

Il movimento internazionale di persone va visto come motore di crescita e sviluppo. L’immigrazione in Italia andrebbe governata strategicamente come risorsa per la crescita invece che affrontata come emergenza. Ma per sfruttare i potenziali benefici dell’immigrazione ci vuole pianificazione dei flussi, accesso al lavoro, incentivi corretti, e migliori politiche di immigrazione. Bisognerebbe ammettere legalmente un ragionevole numero di immigrati e dargli le stesse opportunità che vengono date agli italiani che emigrano, e per il cui successo economico e carriera dovremmo essere grati al resto d’Europa.

Massimo Anelli insegna alla Bocconi, Giovanni Peri è un economista della University of California

Il con­flitto tra cit­ta­dini euro­pei e pro­fu­ghi non è un fatto “natu­rale”; è il pro­dotto dei tagli alla spesa pub­blica e della restri­zione di diritti, red­diti e sicu­rezza di chi lavora. Non si può cam­biare poli­ti­che dell’immigrazione senza cam­biare quelle di bilancio.

Il manifesto, 8 settembre 2015

Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dis­solto il futuro dell’Unione euro­pea e ha fatto la sua com­parsa una Europa nuova, fon­data su una cit­ta­di­nanza con­di­visa con pro­fu­ghi e migranti. La mossa di Angela Mer­kel è stata abile — le ha resti­tuito una popo­la­rità che l’attacco alla Gre­cia aveva com­pro­messo — e sacro­santa: ha per­messo a migliaia di pro­fu­ghi di rag­giun­gere la loro meta e a migliaia di cit­ta­dini euro­pei — austriaci, tede­schi e soprat­tutto unghe­resi — di dimo­strare il loro vero sen­tire: ren­dendo felici milioni di euro­pei. Ma dopo la pro­messa di acco­gliere tutti, sono arri­vati i distin­guo tra paesi di pro­ve­nienza sicuri e insi­curi e tra pro­fu­ghi e migranti eco­no­mici e l’assicurazione che si tratta di una misura temporanea.

Ma quella deci­sione uni­la­te­rale auto­rizza ogni governo ad andare per conto pro­prio: Came­ron ha subito rac­colto l’invito; i paesi del gruppo di Vise­grad si sono oppo­sti alle quote obbli­ga­to­rie; i paesi bal­tici li segui­ranno. E già si parla di sosti­tuire all’accoglienza un “con­tri­buto” in denaro: si paghe­ranno i respin­gi­menti un tanto al chilo? Èstato fatto così un altro passo nel dis­sol­vere l’identità dell’Unione euro­pea: ci sono paesi dell’Unione fuori dall’area Schen­gen e paesi Schen­gen fuori dall’Unione; paesi dell’Unione fuori della Nato e paesi della Nato furi dall’Unione; paesi nell’Unione dall’euro; paesi vir­tuosi e paesi dis­so­luti, ecc. Ora ci saranno paesi dell’Unione con le quote obbli­ga­to­rie e paesi senza. E cia­scuno si sce­glierà la nazio­na­lità che preferisce?

L’accoglienza divide tra loro gli Stati dell’Unione, impe­gnati a rim­pal­larsi le quote di pro­fu­ghi, e fomenta al loro interno lo scon­tro di cui si ali­menta la xeno­fo­bia. Ma l’Unione non avrà una poli­tica comune su pro­fu­ghi e migranti per­ché ha adot­tato da anni poli­ti­che che negano l’accoglienza — casa, lavoro, red­dito e sicu­rezza — a una quota cre­scente dei suoi cit­ta­dini. Se la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è al 20 per cento, e in alcuni paesi al 50, è a un’intera gene­ra­zione che viene negata la cit­ta­di­nanza. In que­ste con­di­zioni è dif­fi­cile varare una poli­tica di inclu­sione per cen­ti­naia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne pos­sono rea­li­sti­ca­mente aspet­tare sia aprendo le porte, sia pun­tando su respin­gi­menti inef­fi­caci e spie­tati. Il con­flitto tra cit­ta­dini euro­pei e pro­fu­ghi su cui ingrassa la destra xeno­foba, ma a cui i governi non sanno offrire alter­na­tive, finendo per restarne suc­cubi, non è un fatto “natu­rale”; è il pro­dotto dei tagli alla spesa pub­blica e della restri­zione di diritti, red­diti e sicu­rezza di chi lavora. Non si può cam­biare poli­ti­che dell’immigrazione senza cam­biare quelle di bilancio.

Ma la vera ragione della dis­so­lu­zione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi governi hanno assi­stito ignavi, o hanno par­te­ci­pato a mas­sa­cri e guerre ai con­fini dell’Europa come se la cosa non li riguar­dasse, per­ché impe­gnati a per­se­guire poli­ti­che di bilan­cio sem­pre più prive di respiro, di pro­spet­tive, di futuro. Per anni, a parte gli accordi com­mer­ciali per pro­cu­rarsi petro­lio e metano, nes­suna forza poli­tica euro­pea ha mai for­mu­lato un dise­gno sen­sato sui rap­porti con l’area medio­rien­tale, medi­ter­ra­nea e nor­da­fri­cana: che si andava avvi­tando in crisi e con­flitti che non pote­vano che sfo­ciare nella dis­so­lu­zione delle rispet­tive com­pa­gini sociali. Il flusso di migranti in cerca di soprav­vi­venza in terra euro­pea è la prima — ma non l’unica — con­se­guenza di que­sta poli­tica tir­chia e insi­piente. Ma ogni giorno che passa spe­gnere que­gli incendi è più dif­fi­cile. È più facile attiz­zarli: Fran­cia e Regno Unito già pen­sano a unirsi alla guerra in Siria, come se non fos­sero stati loro a sca­te­nare quella in Libia, dove hanno creato un caos di cui nes­suno rie­sce più a venire a capo.

Ora che a risol­vere il pro­blema di cen­ti­naia di migliaia di esseri umani alla ricerca della soprav­vi­venza siano i ver­tici dell’Unione e i suoi governi è del tutto irrea­li­stico. Vor­reb­bero respin­gerne la mag­gio­ranza, ma non rie­scono: troppo alto è il prezzo di sof­fe­renze e di vite che stanno già facendo pagare alle loro vit­time per poter­sene assu­mere la respon­sa­bi­lità. Così cer­cano di nascon­dere il pro­blema die­tro la falsa distin­zione tra pro­fu­ghi e migranti eco­no­mici: come se una ragazza sfug­gita alle bande di Boko Haram in Nige­ria fosse diversa da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdo­gan, o degli Usa.

Ma le poli­ti­che di respin­gi­mento, oggi imper­so­nate da Orban, ma anche da tante forze poli­ti­che non solo di destra, e pro­gram­mate, solo in modo un po’ meno espli­cito, da molti governi, sono state rove­sciate e scon­fitte, anche se solo per qual­che giorno, dalla straor­di­na­ria mobi­li­ta­zione di un popolo euro­peo soli­dale con i pro­fu­ghi in mar­cia sull’autostrada per Vienna o nelle sta­zioni austria­che e tede­sche; un popolo che da qual­che giorno ha occu­pato la scena in un tutt’uno con quei pro­fu­ghi. Papa Fran­ce­sco ha aggiunto la sua voce, ma i pro­ta­go­ni­sti restano loro. Accanto a quelle mani­fe­sta­zioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volon­tari che cer­cano, senza distin­guere tra pro­fu­ghi e migranti eco­no­mici, di alle­viare le sof­fe­renze di una mol­ti­tu­dine immensa respinta o abban­do­nata a se stessa: a Calais, a Ven­ti­mi­glia, a Kos, a Lam­pe­dusa, a Subo­tica, a Milano e in mille altri luo­ghi a cui i media non hanno dedi­cato un decimo dello spa­zio riser­vato ogni giorno alle infa­mie di Salvini.

Laici e cri­stiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sini­stra, gio­vani e anziani, occu­pati e disoc­cu­pati (senza timore che gli por­tino via un posto che non c’è più per nes­suno), zin­gari per­se­gui­tati da Orban e musul­mani già inse­diati in Europa hanno costruito con la loro mobi­li­ta­zione le basi di una nuova cit­ta­di­nanza euro­pea che include, senza media­zioni, quei pro­fu­ghi in mar­cia die­tro la ban­diera euro­pea. Un unico popolo con­sa­pe­vole che l’accoglienza affet­tuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è con­di­zione irri­nun­cia­bile della con­vi­venza civile nelle comu­nità e nei ter­ri­tori in cui vivono; e che lo svi­luppo sociale dell’Europa non può pre­scin­dere dalla crea­zione di una cit­ta­di­nanza euro­pea comune a tutti coloro che ne con­di­vi­dono l’aspirazione. In que­sto mel­ting pot si pos­sono creare anche le pre­messe di una ricon­qui­sta alla pace e alla demo­cra­zia dei paesi da cui pro­fu­ghi e migranti sono fug­giti: con orga­niz­za­zioni comuni che indi­vi­duino le con­di­zioni di una loro paci­fi­ca­zione e i pro­grammi per la loro rico­stru­zione; che con­qui­stino il diritto di sedere al tavolo delle trat­ta­tive diplo­ma­ti­che; che siano punto di rife­ri­mento per le comu­nità dei loro paesi di ori­gine. Nel gesto con cui migliaia di volon­tari hanno aiu­tato i pro­fu­ghi ad attra­ver­sare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo mani­fe­sto di Ven­to­tene di un’Europa inte­ra­mente da ricostruire.

«Di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali».

La Repubblica, 7 settembre 2015

ERA prevedibile, anzi attesa, una dichiarazione critica di esponenti della Conferenza episcopale sul disegno di legge sul riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. La discussione è benvenuta, secondo la buona regola laica per cui tutte le opinioni meritano rispetto.

Con l'unica condizione che non si pretenda di attribuire all’una o all’altra un valore aggiunto legato all’autorità, vera o presunta di chi l’ha manifestata. Una questione a parte, e di non poca rilevanza, è rappresentata dal senso che oggi assume la ben nota frase di Papa Francesco, riferita alle persone omosessuali, «chi sono io per giudicare? ».

Il vero problema, e l’incognita, riguardano la cultura politica e la sua consapevolezza di quale sia il significato profondo ormai assunto dal tema dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso. La prima mossa è scoraggiante. Nella ricerca affannosa di un compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare una distinzione tra queste coppie e quelle eterosessuali unite in matrimonio. Ma questo espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie, come peraltro aveva messo in evidenza, nel 2010, la Corte costituzionale. «Per formazione sociale s’intende ogni forma di comunità, semplice o complessa. Idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».

Sono parole non equivoche e quelle sottolineate mettono in chiara evidenza che, in un quadro di dichiarato pluralismo, famiglia e quelle che oggi chiamiamo “ unioni civili” appartengono alla stessa categoria. Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un travisamento della Costituzione e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di riaffermare una discriminazione. Così la cultura politica si chiude in un misero orizzonte, conferisce dignità alle peggiori pulsioni e in questo modo si nega al mondo e non tiene in nessun conto una vastissima discussione giuridica che, pure in Italia, ha dato contributi di qualità. Forse, per rendersi conto dei rischi che si corrono, bisognerebbe dare un’occhiata in giro, cominciando da una frase della sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti, il 26 giugno scorso, ha riconosciuto l’accesso al matrimonio anche per le coppie omosessuali. «Ogni persona può invocare la garanzia costituzionale anche se larga parte dell’opinione pubblica non è d’accordo e il potere legislativo rifiuta di intervenire», perché bisogna «sottrarre le persone alle vicissitudini legate alle controversie politiche ». Si può discutere questa affermazione, ma non eludere la questione che solleva: di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali.

Gli Stati Uniti sono lontani? Ma l’Europa è vicinissima, visto che il 21 luglio, quindi meno di un mese dopo la sentenza americana, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per il ritardo con il quale ha finora negato riconoscimento alle coppie di persone dello stesso sesso. L’argomentare di questa sentenza squalifica l’espediente linguistico adottato al Senato, visto che fin dal 2010 la Corte europea ha operato un progressivo avvicinamento tra diritti della coppia coniugata e diritti delle coppie di persone dello stesso sesso, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla “vita familiare” dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è bene aggiungere che questa dinamica è stata accelerata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha fatto venir meno il riferimento alla diversità di sesso sia per il matrimonio che per altre forme di costituzione della famiglia.

Ora il Parlamento non è libero di riconoscere o no le unioni tra persone dello stesso sesso (l’Italia è già stata condannata a risarcire i danni alle coppie che hanno fatto ricorso a Strasburgo). Decidendo all’unanimità, la Corte europea ha sottolineato che siamo in presenza di diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. Il legislatore italiano ha il “dovere positivo” di intervenire e la sua discrezionalità è ristretta, poiché ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) ha già garantito quei diritti. L’importanza della questione discende dal fatto che siamo di fronte a diritti dai quali dipende la vita delle persone, che non può essere lasciata nell’incertezza o affidata a semplici patti privati o regole patrimoniali. Solo così può essere avviata la cancellazione di una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.

Questi riferimenti sintetici dovrebbero essere sufficienti per mostrare che i senatori, per essere una volta tanto coerenti con i criteri europei, hanno una strada ben segnata per quanto riguarda tempi e contenuti, come peraltro avevano già fatto moltissimi studiosi italiani. Piuttosto vi è un altro punto importante nella sentenza europea, dove si dice che i parlamenti nazionali non hanno lo stesso dovere stringente d’intervenire per quanto riguarda l’accesso al matrimonio delle coppie di persone dello stesso sesso. Si sottolinea, però, che questa più ampia discrezionalità dipende dal fatto che ancora solo 9 Paesi su 47 hanno riconosciuto a queste coppie l’accesso al matrimonio. Dunque, non da una immutabile natura del matrimonio. E, poiché si insiste sulla necessità di seguire le dinamiche sociali, il ricorso all’argomento quantitativo significa che, crescendo il numero dei Paesi che introducono il matrimonio egualitario, diminuisce la discrezionalità dei parlamenti nazionali se riconoscerlo o no. Perché aspettare? Il Parlamento italiano fu lungimirante nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, già nel 2013 proprio al Senato era cominciata la discussione sul matrimonio egualitario, nel 2013 e nel 2015 la Corte di Cassazione aveva aperto proprio in questa direzione, sì che diventa sempre più debole il riferimento ai deboli argomenti della Corte costituzionale.

Non è possibile, allora, introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione. Non cediamo a un realismo regressivo. Ha ben ragione uno studioso attento, Andrea Pugiotto, nel ricordarci che «il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità, perché oppone resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “(innaturale) pretesa”, ma al diritto individuale alla propria identità personale».

Ma, soprattutto, si vorrebbe che la discussione muovesse dal suo innegabile presupposto — l’essere di fronte al più profondo tra i sentimenti che possono legare due persone. E allora politici, giuristi, cardinali abbandonino ogni ipocrisia e siano sensibili all’appello rivolto a tutti da un poeta, W. H. Auden. “La verità, vi prego, sull’amore”.

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C’è fretta di pren­dere deci­sioni e dalla Ger­ma­nia il vice-cancelliere, Sig­mar Gabriel, approva la pro­po­sta del primo mini­stro austriaco, Wer­ner Fay­mann, che vuole tagliare i fondi ai paesi recal­ci­tranti della Ue che rifiu­tano le quote: «Penso che il can­cel­liere austriaco abbia asso­lu­ta­mente ragione quando dice che i soldi devono ces­sare di cir­co­lare se non arri­viamo a una poli­tica comune sui rifu­giati». I paesi del gruppo di Vise­grad (Polo­nia, Unghe­ria, Slo­vac­chia, Repub­blica Ceca), che hanno il chiaro appog­gio dei Bal­tici, sono ormai sotto pressione.

L’Europa soc­chiude la porta, per­mette solo ai rifu­giati da zone di guerre di met­tersi in coda e riba­di­sce che respin­gerà con deter­mi­na­zione tutti coloro che pre­ten­dono di entrare pro­ve­nendo da «paesi sicuri». Ma qual­cosa si sta muo­vendo, dopo mesi di blocco.

I cit­ta­dini euro­pei comin­ciano a muo­versi, come se il muro ideo­lo­gico die­tro il quale in cui si erano volon­ta­ria­mente chiusi, stesse anch’esso aprendo delle brecce.

Ieri, in Fran­cia – dove un son­dag­gio (fatto però prima della foto di Aylan che ha scosso le coscienze) dice che il 52% non vuole pro­fu­ghi – ci sono state varie mani­fe­sta­zioni a favore dell’accoglienza. A Parigi (con la ban­diera siriana sulle sta­tue a place de la Répu­bli­que), Tolosa, Bor­deaux, Mont­pel­lier, Nan­tes, Stra­sburgo dei cit­ta­dini sono scesi in piazza per chie­dere un cam­bia­mento di poli­tica, «wel­come», «aprite le frontiere».

Migliaia di per­sone hanno rispo­sto agli appelli delle orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie, pronti ad acco­gliere dei pro­fu­ghi a casa, per qual­che giorno o set­ti­mana. Jean-Claude Mas, segre­ta­rio gene­rale della Cimade, spera: «forse ci sono le con­di­zioni emo­tive e poli­ti­che per un elettrochoc».

In altri ter­mini, una brec­cia sem­bra essersi aperta nell’egemonia ideo­lo­gica dell’estrema destra, che sem­brava aver preso i soprav­vento. I Repub­bli­cani, il par­tito di Sar­kozy, si arrocca sulla linea dura, accusa Hol­lande di «vol­ta­fac­cia» per aver accet­tato il «mec­ca­ni­smo di redi­stri­bu­zione», cioè le quote, mostra un volto tri­ste ma già alcuni (per­sino Fra­nçois Fil­lon) comin­ciano a pren­dere le distanze da una posi­zione che non fa che rical­care quella del Fronte nazio­nale, nel frat­tempo riu­nito per la sua Uni­ver­sità d’estate, impan­ta­nato nella que­relle fami­gliare dei Le Pen. Il primo mini­stro, Manuel Valls, riprende qual­che colore respin­gendo tutta la destra in un «blocco reazionario».

La sini­stra sem­bra respi­rare di nuovo un po’. Il Ps orga­nizza mar­tedì un «grande mee­ting» a Parigi «in soste­gno della città soli­dali con i rifu­giati», che offrono ospi­ta­lità. Mar­tedì ci sarà un’altra mani­fe­sta­zione della sini­stra per il diritto d’asilo.

Sono dei primi segnali. La legi­sla­zione della Ue per­mette la pro­te­zione tem­po­ra­nea in caso di afflusso mas­sic­cio di per­sone che chie­dono asilo. Il governo fran­cese potrebbe tro­vare qui la pos­si­bi­lità di recu­pe­rare nel pro­prio elet­to­rato, più che deluso dalle scelte di poli­tica eco­no­mica, non distin­gui­bili da quelle della destra. In Austria e in Ger­ma­nia dei cit­ta­dini hanno mostrato soli­da­rietà, come mai nel recente passato.

A Lus­sem­burgo, i mini­stri degli esteri, in una riu­nione che Mrs.Pesc Fede­rica Moghe­rini ha defi­nito «dif­fi­cile», hanno cer­cato di tro­vare una solu­zione per la redi­stri­bu­zione dei rifu­giati. Il clima è stato «pesante», rias­sume un diplo­ma­tico. La spac­ca­tura tra est e ovest dell’Europa resta, il gruppo di Vise­grad, in un lungo comu­ni­cato, la vigi­lia ha rifiu­tato quote e solidarietà.

La crisi dei rifu­giati potrebbe però por­tare anche a deci­sioni estre­ma­mente rischiose. Se ne saprà di più domani, alla con­fe­renza stampa di Fra­nçois Hol­lande, ma secondo Le Monde la Fran­cia si pre­para a inter­ve­nire in Siria. Finora, l’aviazione fran­cese era solo pre­sente nei cieli dell’Iraq e in Siria for­niva un mode­sto soste­gno ai demo­cra­tici, con­tro Isis e con­tro Assad. Ma, da otto­bre, i Mirage 2000 potreb­bero par­te­ci­pare a mis­sioni in Siria, a fianco degli Usa, Gran Bre­ta­gna e Canada,
Nell’intervista di Antonello Caporale il più accreditato demografo italiano, Massimo Livi Bacci, spiega perché l’Italia, per rimanere tale, abbia bisogno di immigrati che si integrino nella nostra società.

Il Fatto quotidiano, 5 settembre 2015

Massimo Livi Bacci è il più noto e accreditato studioso italiano di demografia. Scienza che illustra il futuro con i numeri e non predice...

«No, la Sibilla predice! Il demografo, che deve conoscere bene i meccanismi e le cause dello sviluppo della popolazione, si limita a fare delle ipotesi ragionevoli circa il futuro e trarne le conseguenze numeriche. In genere, data la relativa gradualità dei fenomeni demografici, si riesce a fornire un ragionevole quadro previsivo a qualche decennio di distanza. Diciamo per l’intervallo di una generazione, spingiamoci pure fino alla metà del secolo. Andare oltre non si può. O meglio: si può, ma è bene non crederci! »

Sappiamo che gli italiani nel 2050 saranno più vecchi e più soli. Quanto più vecchi e quanto più soli?
«Le ultime ragionevoli previsioni delle Nazioni Unite (rese note alla fine di luglio) assegnano all’Italia, nel 2050, una popolazione di 56,5 milioni di abitanti (3,5 milioni meno di oggi), nonostante una modesta ripresa della natalità, e il proseguire di una consistente immigrazione (anche se ridotta rispetto agli anni trascorsi) e un ulteriore aumento della speranza di vita. Saremo sicuramente più “vecchi”; l’età media crescerà dai 46 anni di oggi a 52 anni nel 2050; oggi una persona su 14 ha più di 80 anni, nel 2050 una su sei, Sicuramente il fortissimo aumento dei molto anziani implicherà anche una crescita delle persone che vivono sole».

Le metropoli continueranno a gonfiarsi a dismisura e il crinale appenninico subirà una desertificazione ancor più accentuata?
«Direi di no. La popolazione delle grandi città – Roma, Milano, Napoli, Torino – ha toccato il suo massimo negli Anni Settanta, per poi decrescere. Questa diminuzione è stata poi compensata dalla crescita dei Comuni delle cinture, che integrano le aree metropolitane, ma anche questi hanno finito di espandersi. Il miglioramento della mobilità consentirà una rivalutazione dei centri minori, dove la qualità della vita è spesso migliore e i costi più abbordabili».

L’osso d’Italia, diceva Manlio Rossi Doria, sono le aree interne del Mezzogiorno. Lì si muore e non si nasce. Tra cinquant’anni sarà un cimitero all'aperto?
«I rapporti dello Svimez, da qualche anno, documentano con precisione il processo di desertificazione, anche demografica del Mezzogiorno. Le regioni dove si fanno meno figli stanno nel Sud del paese, l’immigrazione dall’estero non compensa l’emigrazione verso le altre regioni, l’invecchiamento è più rapido, la qualità del “capitale umano” si contrae per la partenza dei più scolarizzati. Si sta erodendo la base sulla quale si innestano lo sviluppo e la crescita».

La forza lavoro straniera ci ha già salvati nel saldo demografico. Tutti pensiamo che la triste invasione di barconi 
sia però insosteni
bile per il futuro della nostra condizione 
di civiltà. È così oppure abbia-mo bisogno di
altra gente, di
altri e nuovi italiani?
«L’ondata dei rifugiati è collegata alle catastrofi e ai conflitti che segnano un arco che va dall’Ucraina al Medio Oriente, dal Corno d’Africa alla Libia. È un fenomeno che nulla ha a che fare con il normale sviluppo, così come una esplosione nucleare è estranea alla normale dinamica climatica a . Al netto dell’irrisolto problema dei rifugiati, l’Italia continuerà ad aver necessità di immigrazione, per rinsanguare una forza lavoro invecchiata e in declino, per contrastare se non la desertificazione, l’impoverimento della società».

I nuovi italiani, quelli che abiteranno le nostre case nel 2050, chi saranno? E quale lingua parleranno? Saranno più colti di noi? Più civili di noi, più rigorosi di noi?
«Parleranno l’italiano – male le prime generazioni, benissimo le seconde – se la scuola funzionerà come deve. E se noi, italiani di nascita, saremo colti, civili e rigorosi, lo saranno anche loro. Sempre che la politica, la società, la cittadinanza si convinca che gli immigrati non devono essere braccia in affitto temporaneo, protesi di cui disfarsi cessato il loro utilizzo, ma innesti duraturi da curare e far crescere».

Lei come giudica gli italiani? Aperti al nuovo oppure intimamente razzisti o ancora campioni di una furberia nazionale a proposito di stranieri (ci vanno bene solo quando risolvono problemi e accettano lavori che noi non vogliamo più).
«Gli italiani, nel complesso, hanno accettato in modo ragionevolmente aperto un fortissimo flusso di immigrazione. Ragionano sull’esempio del muratore albanese che ha riparato il tetto, la signora moldava che accompagna la vecchia nonna, l’egiziano che sforna le pizze in fondo alla strada, la filippina che fa i lavori domestici... Facciamo sì che questi rimangano i metri di giudizi, e che il velenoso e colpevole opportunismo di alcuni politici non riesca a deformarli».

Ogni azione, gesto, espediente, avventura che i profughi dalla guerra, dall'oppressione e dalla miseria compiono e compiranno sono atti d'accusa che pesano sulla nostra coscienza e additano i veri colpevoli alla vergogna del mondo. Il manifesto, 4 settembre 2015
Scri­ve­ranno di «lunga mar­cia», di «cam­mino della spe­ranza» e di «fuga per la libertà», ma nes­suna mito­lo­gia può descri­vere quello che accade. A piedi, da soli, sulle pro­prie gambe s’incamminano in migliaia i rifu­giati; gli stessi che già hanno attra­ver­sato i con­fini riscri­vendo la tri­ste geo­gra­fia del Vec­chio Con­ti­nente pas­sando il muro di razza unghe­rese, quello della nostra coscienza sporca.
Men­tre un ver­tice Ue richiama l’altro e nulla accade, a piedi si incam­mi­nano per sfug­gire a inter­na­menti e fili spi­nati, a nuovi uni­versi con­cen­tra­zio­nari. Via dall’Ungheria che li ha umi­liati, bef­fati e depor­tati, men­tre Orbán dichiara lo stato d’emergenza. E men­tre il cuore d’Europa, da Praga, rifiuta ogni acco­glienza. Da un sum­mit all’altro l’Europa, appesa ad una moneta, con­ferma il suo vuoto poli­tico e sociale. Resta solo il para­digma siriano di Angela Mer­kel. Ma che ne sarà degli «altri» disperati?

Ma non doveva, la foto del pic­colo Aylan Kurdi e la sua morte, cam­biare tutto? Quell’atto d’accusa vuole dire: acco­glie­teci o i col­pe­voli siete voi. Chiaro come le parole di un altro ragazzo siriano che ha gri­dato: «Fer­mate la guerra e tor­niamo in Siria». Ine­qui­vo­ca­bili. E invece l’«innocente» Pen­ta­gono avverte che la foto di Aylan dovrebbe per­sua­dere (come per Sara­jevo?) a farne un’altra: dove già si com­batte, come in Libia o in Siria. Lì dove Pen­ta­gono ed Europa hanno istruito quat­tro ani fa la guerra che ha inne­scato la spi­rale stragi, jiha­di­smo, pro­fu­ghi. Il nuovo sen­tiero dei dispe­rati: dice che la misura delle guerre sulla pelle altrui è colma.

Singolare lettura psicologica della sconfitta della linea "razionale" di Varoufakis nel conflitto con Schäuble. Meglio Tsipras. Il manifesto, 5 agosto 2015

Durante la sua breve guida del mini­stero greco dell’Economia, Yan­nis Varou­fa­kis ha subor­di­nato il suo agire a due idee: una buona e una cattiva. L’idea buona era che la vita austera, sobria e digni­tosa, nulla ha a che fare con le poli­ti­che di auste­rità. L’idea cat­tiva (che ha avuto fau­tori illu­stri a par­tire da Pla­tone) era che la ragione poli­tica coin­cide con il ragio­nare cor­ret­ta­mente («orthos logos»). Il pen­siero che valuta e cal­cola tutto in modo rigo­ro­sa­mente logico, dà risul­tati eccel­lenti nel campo delle scienze natu­rali, ma nel campo del governo della Polis, delle fac­cende umane che ne sono la mate­ria viva, deve fare i conti con la psi­co­lo­gia. I fat­tori psi­co­lo­gici poli­ti­ca­mente più influenti sono le pas­sioni e la paura. Le pas­sioni sono le forze che tra­sfor­mano la vita in pro­fon­dità, la spinta pro­pul­siva di ogni cam­bia­mento reale. La paura è il sen­ti­mento domi­nante, quando le dif­fi­coltà che incon­tra un cam­bia­mento neces­sa­rio, sfo­ciano in una situa­zione di insta­bi­lità dura­tura, o troppo repen­tina, ren­dendo il futuro imprevedibile.

La sini­stra ha pro­mosso tra­sfor­ma­zioni sociali pro­fonde (nel solco dell’evento rivo­lu­zio­na­rio o di un grande pro­getto di riforma) solo quando ha saputo farsi inter­prete di una grande pas­sione, di un movi­mento di eman­ci­pa­zione delle masse pro­dotto dal desi­de­rio, dall’apertura senza riserve e esi­ta­zioni all’inconsueto. Tut­ta­via, le pas­sioni sono dif­fi­cili da gestire: dete­stano il cal­colo e sono mode­rate solo dal senso di respon­sa­bi­lità, dall’intima neces­sità di pro­teg­gere le cose desi­de­rate. Sle­gate dalla respon­sa­bi­lità, si ridu­cono a forze pura­mente desta­bi­liz­zanti, favo­rendo la rea­zione delle forze con­ser­va­tive. La destra ha sem­pre tenuto conto della paura, incen­ti­van­dola. Ciò le asse­gna un indub­bio van­tag­gio tat­tico: la paura (spe­cie se mesco­lata con la rab­bia e l’odio) si può mani­po­lare facil­mente. Con­vo­gliata in vie di sca­rica super­fi­ciali, crea iner­zia psi­chica che pro­duce un senso di sta­bi­lità rassicurante.

Varou­fa­kis non è riu­scito a man­te­nere lo scon­tro con Shau­ble su un piano auten­ti­ca­mente poli­tico, di con­fronto tra pas­sione respon­sa­bile e paura. Il suo attac­ca­mento all’astrazione logica l’ha messo in una posi­zione sim­me­trica a quella dei suoi avver­sari. La debo­lezza della poli­tica nei con­fronti dei cir­cuiti finan­ziari, sta favo­rendo un potere «iper­po­li­tico», potere puro, al di là di ogni dia­let­tica tra padrone e servo, fon­dato sull’eccezione dalla regola e dalla vita. Que­sto potere, che coniuga l’azzardo con l’arbitrio, è l’espressione gene­ra­liz­zata del prin­ci­pio: «Testa vinco io, croce perdi tu». Orien­tato a pro­durre pro­fitti, tanto insen­sati tanto espo­nen­ziali, non è capace, per costi­tu­zione, di risol­vere nes­suno dei pro­blemi umani.
Si può subire la pre­po­tenza del più forte senza essere per sem­pre scon­fitti. La scon­fitta di Varou­fa­kis è nell’aver fon­dato un pro­getto poli­tico sul pri­mato impro­prio della logica sulle pas­sioni, le incer­tezze e le paure che attra­ver­sano l’Europa. La sua cri­tica a Tsi­pras deriva dalla fede a una logica strin­gente, vis­suta come verità, che è figlia di orgo­glio intel­let­tuale. Dimen­tica che in poli­tica una teo­ria, anche la più intel­li­gente, è vera se pro­duce una tra­sfor­ma­zione reale.

Tsi­pras è restato nel campo poli­tico, difen­dendo la pas­sione euro­pea del suo popolo (l’amore per la pace e la demo­cra­zia) e rispet­tando le sue ango­sce. Può per­dersi in una serie di com­pro­messi inter­mi­na­bile, ma non ha altra strada per resi­stere all’eccesso di arbi­trio che avanza nel nostro mondo. Que­sto arbi­trio, che riduce la vita in quan­tità mani­po­la­bili, nel con­fronto pura­mente logico non teme rivali.

Ieri mat­tina la sta­zione Keleti ha ria­perto le porte e si è di nuovo riem­pita di migranti in cerca di un treno in par­tenza per la Ger­ma­nia e l’Austria. Niente. L’altoparlante annun­ciava a inter­valli rego­lari la sop­pres­sione di tutti i treni inter­na­zio­nali diretti più a ovest per motivi di sicu­rezza. All’inizio è stata la calca verso i binari e verso l’unico treno pre­sente, con la poli­zia schie­rata sulla ban­china. Momenti con­ci­tati, povera gente che si ammas­sava davanti al con­vo­glio su cui c’era scritto, iro­nia della sorte «Un’Europa senza fron­tiere». Il treno si è riem­pito di migranti in cerca di una via di fuga dalla Keleti, è par­tito verso mez­zo­giorno, ma diretto a Sopron, nella parte occi­den­tale del paese, vicino all’Austria, sì, ma den­tro i con­fini magiari. Il fatto è che il con­vo­glio si è fer­mato a Bic­ske , 60 chi­lo­me­tri da Buda­pest, dove esi­ste un campo pro­fu­ghi, gli agenti di poli­zia hanno cer­cato di far scen­dere quanti erano senza docu­menti, ma i migranti si sono rifiu­tati e hanno scan­dito in coro «No camp». Uua cop­pia con un neo­nato si è sdra­iata su binari minac­ciando il sui­ci­dio ma è stata strat­to­nata via dagli agenti che anno amma­net­tato l’uomo.

Intanto alla Keleti gio­vani siriani mostra­vano i biglietti com­prati per andare in Ger­ma­nia. «Abbiamo speso un sacco di soldi per niente», dice­vano, «e ora che fac­ciamo?». «Non sapete niente dei treni?» chie­de­vano altri migranti ai gior­na­li­sti. «Quelli che vi inte­res­sano sono stati can­cel­lati. Tutti», è stata la rispo­sta dolente degli interpellati.

Dopo la calca veri­fi­ca­tasi alla ria­per­tura della sta­zione è tor­nata una rela­tiva calma, tutt’al più c’era chi fra gli ospiti for­zati della Keleti andava avanti e indie­tro a cer­care infor­ma­zioni sulle pos­si­bi­lità di par­tire prima o poi; quando, come. Per­ché sul dove la mag­gio­ranza non ha dubbi: «Ger­ma­nia! Ger­ma­nia!», l’ha detto tante volte in coro durante le mani­fe­sta­zioni sul piaz­zale anti­stante la sta­zione. C’erano poi quelli che sta­vano seduti sulle ban­chine a man­giare qual­cosa, a ripo­sare. Le donne col faz­zo­letto in testa vicino ai bam­bini: chi cam­biava il pan­no­lino, chi dava da man­giare a quello più pic­colo. Gli occhi bassi, i gesti veloci men­tre lì vicino il per­so­nale dello scalo rimuo­veva carte, con­te­ni­tori vuoti di suc­chi di frutta e bic­chieri di pla­stica schiac­ciati, lasciati sulla ban­china o fra i binari.

Anche quella di ieri alla Keleti è stata una gior­nata lunga. Nel pome­rig­gio, rac­con­tano i media locali, i migranti hanno dato vita a una mani­fe­sta­zione paci­fica all’interno della sta­zione di fronte ai poli­ziotti schie­rati a garan­zia dell’ordine pub­blico. Il tutto è durato una ven­tina di minuti che non sono stati carat­te­riz­zati dalle ten­sioni e dai disor­dini di Bic­ske, ma di fatto la situa­zione diventa ogni ora più dif­fi­cile. Il «popolo della Keleti» esprime giorno dopo giorno una richie­sta corale, sem­pre più pres­sante di essere lasciato libero di par­tire e di rag­giun­gere il paese nel quale rico­min­ciare. Le auto­rità unghe­resi insi­stono sulla neces­sità di rispet­tare le norme, il rego­la­mento di Dublino, e di non poter lasciare andare in giro per l’Europa per­sone che non sono state regi­strate, che non hanno otte­nuto lo sta­tus di rifu­giati. Piut­to­sto le ten­gono alla sta­zione orien­tale di fronte alla quale sono state appron­tate, su ordine del con­si­glio comu­nale, delle zone nelle quali gli accam­pati pos­sono rice­vere acqua da bere e da usare per l’igiene per­so­nale. La cosa però non piace agli estre­mi­sti di destra, alcuni dei quali si sareb­bero avvi­ci­nati due sere fa alla sta­zione con ban­diere e ves­silli nazio­nali. Li ritrae una foto pub­bli­cata dall’agenzia di stampa unghe­rese MTI. Non con­di­vi­dono la scelta delle auto­rità comu­nali e vogliono l’allontanamento dei migranti dal cen­tro cit­ta­dino. Secondo gli ultra­na­zio­na­li­sti la loro pre­senza minac­cia l’ordine pub­blico, l’igiene pub­blica. I sot­to­pas­saggi della sta­zione, l’antistante piazza Baross e lo scalo fer­ro­via­rio devono essere resti­tuiti alla cittadinanza.

Quest’ultima è in sostanza spiaz­zata dallo sce­na­rio incon­sueto che quel luogo offre in que­sti giorni. «Sono qui da due mesi», dice la pro­prie­ta­ria di un chio­sco situato nel sot­to­pas­sag­gio. Sì, ma allora non erano così tanti, il loro numero è cre­sciuto a vista d’occhio in poco tempo, del resto il flusso di migranti che giun­gono al con­fine non sem­bra voglia dimi­nuire; in un com­mento rila­sciato ieri al gior­nale con­ser­va­tore Frank­fur­ter All­ge­meine Zei­tung, il primo mini­stro Orbán ha detto che dall’inizio dell’anno, secondo le sta­ti­sti­che più aggior­nate, il paese è stato rag­giunto da circa 150 mila migranti ille­gali, molti di più di quelli regi­strati l’anno scorso. Un’emergenza in piena regola alla quale il governo unghe­rese ha rea­gito con una cam­pa­gna e con ini­zia­tive con­crete stig­ma­tiz­zate dall’opposizione di centro-sinistra e dagli ambienti pro­gres­si­sti della società civile. Mer­co­ledì sera diverse migliaia di per­sone hanno par­te­ci­pato a una mani­fe­sta­zione con­ce­pita da diverse orga­niz­za­zioni come Migrants Aid e Amne­sty Inter­na­tio­nal Hun­gary in segno di soli­da­rietà verso i migranti.

Il cor­teo è par­tito dalla sta­zione Nyu­gati (Occi­den­tale) e si è fer­mato sulla piazza anti­stante il par­la­mento dove si è svolto un sit-in. «Not in my name-Az én nevem­ben ne», lo slo­gan dell’iniziativa. I dimo­stranti, diversi dei quali stra­nieri, sfi­la­vano tenendo alti car­telli con su scritto «Anche noi era­vamo dei migranti», «Abbiamo biso­gno di ponti, non di bar­riere» e ancora «I migranti sono esseri umani». Sul mar­cia­piede, a poco meno di metà per­corso, due con­tro­ma­ni­fe­stanti con la ban­diera tri­co­lore com­pleta di sim­bolo nazio­nale e un car­tello con su scritto «In my name» e «No ille­gal immi­gra­tion». Nes­suna delle per­sone impe­gnate nella mar­cia li ha degnati di troppa attenzione.

«Que­sta mani­fe­sta­zione è impor­tante – dice un gio­vane – per­ché è la prima occa­sione pub­blica per testi­mo­niare la nostra soli­da­rietà ai migranti e stig­ma­tiz­zare la poli­tica del governo e il suo approc­cio privo di uma­nità al problema».

L’esecutivo però ritiene di agire cor­ret­ta­mente e Orbán ha affer­mato a Bru­xel­les che que­sti flussi migra­tori sono una minac­cia per le radici cri­stiane dell’Europa. Lui è uno di quelli che vuole difen­dere que­sto patri­mo­nio per­ché — dice — è la sua stessa gente a chie­der­glielo. Il suo par­tito ha perso voti dal 2010, que­sto è vero, ma sono ancora in buon numero coloro i quali cre­dono ancora in Orbán, «l’uomo forte d’Ungheria».
Attenti a come si maneggiano gli strumenti della democrazia. Un loro uso sbagliato è controproducente. Lavorare male, sbadatamente, senza riflettere e studiare quando si vuole contrastare qualcosa significa far vincere l'avversario.

Il manifesto, 3 settembre 2015

E dun­que il voto popo­lare può essere l’unico stru­mento utile a mani­fe­stare un dis­senso che — pur di massa — non rie­sce diver­sa­mente a farsi ascol­tare. Ma è uno stru­mento non facile da uti­liz­zare.

Come va for­mu­lato un que­sito? Biso­gna anzi­tutto con­si­de­rare che il refe­ren­dum can­cella una legge o parti di essa, non la scrive. E la can­cel­la­zione non fa rivi­vere la legge prima vigente. Que­sto punto è ormai con­so­li­data giu­ri­spru­denza della Corte costi­tu­zio­nale (da ultimo con la sen­tenza 12/2014). Quindi, l’abrogazione lascia un vuoto nell’ordinamento giu­ri­dico. Per la Corte, taluni vuoti sono tol­le­ra­bili, altri no e deter­mi­nano l’inammissibilità del que­sito. Que­sto accade quando la legge è essen­ziale per il fun­zio­na­mento di organi costi­tu­zio­nali o l’attuazione di diritti costi­tu­zio­nal­mente pro­tetti, ed è dun­que «costi­tu­zio­nal­mente necessaria».

I prin­cipi richia­mati sono stati ela­bo­rati a par­tire dalle leggi elet­to­rali, e poi estesi ad altre fat­ti­spe­cie, come la fecon­da­zione assi­stita, e la rior­ga­niz­za­zione degli uffici giu­di­ziari, per cui la Corte ha dichia­rato inam­mis­si­bili i que­siti in tutto o in parte abro­ga­tivi (sen­tenze 45/2005; 5/2015). Uguale sorte potrebbe toc­care a un que­sito total­mente abro­ga­tivo della legge 107/2015. Il vuoto nor­ma­tivo con­se­guente pro­ba­bil­mente lasce­rebbe il ser­vi­zio sco­la­stico — certo essen­ziale non meno di quello per la giu­sti­zia — privo del fon­da­mento orga­niz­za­tivo indi­spen­sa­bile. E ne ver­rebbe leso il diritto costi­tu­zio­nal­mente pro­tetto all’istruzione.

Quindi, solo que­siti abro­ga­tivi par­ziali e mirati. Ma anche il sin­golo que­sito va guar­dato con atten­zione. Pen­siamo al preside-sceriffo. Se viene ridotto nei poteri con un que­sito accor­ta­mente indi­riz­zato - ad esem­pio, alla discre­zio­na­lità nelle chia­mate - non c’è pro­blema. Ma se il que­sito, ancor­ché par­ziale rispetto alla legge, fosse tale da can­cel­lare la figura del diri­gente sco­la­stico o da ren­derla simu­la­cro del tutto vuoto, l’esito potrebbe essere l’inammissibilità. Un diri­gente in grado di gestire effet­ti­va­mente l’istituto sco­la­stico è pur sem­pre indi­spen­sa­bile per il ser­vi­zio. Anche il que­sito par­ziale potrebbe cadere sotto la man­naia della «legge costi­tu­zio­nal­mente neces­sa­ria». Que­sta è la tec­nica com­ples­si­va­mente osser­vata dal que­sito di "Pos­si­bile" sul diri­gente, quale che sia poi l’opinione sui tempi e i modi dell’iniziativa.

Que­siti par­ziali e mirati, dun­que, che siano - come la Corte costi­tu­zio­nale richiede - chiari, omo­ge­nei, uni­voci. Con que­sto si intende che su tutte le dispo­si­zioni oggetto di cia­scun que­sito chi vota possa deter­mi­narsi uni­vo­ca­mente per il sì o per il no. Ogni que­sito deve avere un punto focale. Nelle parole della Corte, una «matrice razio­nal­mente uni­ta­ria».

Quali que­siti? La scelta è poli­tica, ed è la prima da fare. Una volta assunta, si può guar­dare alla for­mu­la­zione tec­nica. Per la scuola, pos­siamo ad esem­pio pen­sare al preside-sceriffo, all’alternanza scuola-lavoro, al bonus sco­la­stico (da for­mu­lare con par­ti­co­lare cau­tela, soprat­tutto per la pos­si­bile inter­fe­renza con la finanza pub­blica), o altri che l’assemblea del 5–6 set­tem­bre voglia sce­gliere. Sag­gezza vuole che si guardi a que­siti che non siano divi­sivi nel movi­mento pro­mo­tore, e par­lino anche al di fuori. Il sapore del cor­po­ra­ti­vi­smo può ucci­dere un refe­ren­dum già nella rac­colta delle firme. Men­tre va favo­rito l’incontro con movi­menti volti a obiet­tivi diversi, ma poten­zial­mente siner­gici in una comune stra­te­gia refe­ren­da­ria (legge elet­to­rale, Jobs Act, ambiente). Al tempo stesso, l’iniziativa refe­ren­da­ria non pre­clude la diversa e auto­noma via della que­stione di costi­tu­zio­na­lità sol­le­vata in sede di impu­gna­tiva di prov­ve­di­menti ammi­ni­stra­tivi adot­tati in appli­ca­zione della riforma.

La scelta di quali que­siti e quando deve con­si­de­rare sia la rac­colta di 500.000 firme (per sicu­rezza, 600.000) secondo la legge 352/1970, sia la neces­sità di por­tare al voto oltre 25 milioni di ita­liani. Pas­saggi non impos­si­bili, ma certo non facili. Soprat­tutto con­si­de­rando che Renzi tra­durrà ogni refe­ren­dum in un ple­bi­scito su se stesso e sul cam­bia­mento. Biso­gnerà tro­vare parole d’ordine chiare, sem­plici, vicine all’animo di chi firma per i refe­ren­dum, e di chi vota.

Il refe­ren­dum ex arti­colo 75 era per i costi­tuenti un cor­ret­tivo mar­gi­nale in un sistema cen­trato sulle assem­blee elet­tive e sulla rap­pre­sen­tanza poli­tica. La ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia alla quale oggi assi­stiamo spinge a una nuova sta­gione, che può tro­vare nel refe­ren­dum un punto essen­ziale del com­ples­sivo sistema di checks and balan­ces. La via è già oggi dif­fi­cile. E capiamo anche meglio quanto sia peri­co­loso il dise­gno della riforma costi­tu­zio­nale in discus­sione in senato, che rende il per­corso refe­ren­da­rio - a mio avviso - ancora più imper­vio. Al popu­li­smo lea­de­ri­stico e auto­cra­tico dob­biamo con­trap­pore la demo­cra­zia dei gufi.

L'illustre dissacratore del mostro del decennio scorso lo riprende oggi sotto la sua lente rivelatrice, insieme al suo delfino Matteo. «Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte». La Repubblica, 3 settembre 2015

“GAFFE”, vocabolo nautico, è l’asta munita d’un ferro a uncino per l’accosto; nonché l’atto inopportuno; e Matteo Renzi, è gaffeur nei due sensi. Tale l’abbiamo visto in varie occasioni, da quando saltava sul palco allontanando un dolente predecessore; «togliti, mi metto io». Nel Nazareno, santuario Pd ( febbraio 2014), dichiara «piena sintonia» con Silvio Berlusconi. Così prende le parti d’un avventuriero la cui stella vola bassa (cortigiani di lungo corso cambiano cautamente divisa): stupore in platea; ma che la peripezia del sindaco fiorentino non finisca qui, è segno d’uno stato morboso nell’organismo politico. Il Colle soffiava lo sciagurato vento delle “larghe intese”.

Dalla fine secolo oligarchi della pseudosinistra baciavano la pantofola berlusconiana, dando a intendere che fosse Realpolitik. Era egemone, pifferaio ricco da scoppiare, e lo rimane quando va al governo il centrosinistra: ex comunisti garantiscono intangibili i fondamenti del conflitto d’interesse; manovre camerali lo riqualificano aprendogli la via d’una doppia rivincita. Fosse meno malaccorto, con rudimenti d’ ars gubernardi , in mano sua saremmo una monarchia caraibica. Siamo quasi salvi perché gli mancano le abilità dei maiali nell’Animal Farm.

Qui filtra il significato etimologico del bisillabo “gaffe”, l’uncino. L’ingordo rampante s’è impadronito del Pd: era la prima mossa e non basta; cercando sostegni meno malsicuri (mancava poco che un redivivo strappasse il premio a Montecitorio), s’è visto erede naturale dell’ormai ottuagenario; e agisce quale futuro autocrate d’un partito “nazionale” (l’aggettivo figurava nelle sigle fascista e nazista). La scandalosa «piena sintonia» era gesto rassicurante verso i “moderati”: «non vengo da sinistra»; e che l’idea abbia radici profonde, lo dicono Rimini e Pesaro. Comunione e Liberazione non regala favori. Erano applausi sviscerati. Re Lanterna ha un Delfino.

Esistono gaffe perdonabili, anche se gravi ad litteram , quando l’atto o l’emissione verbale siano accidenti del comportamento. Non pare il nostro caso. Nel predetto meeting (26 agosto) lo strenuo parlatore condanna vent’anni della storia d’Italia, presupponendo che Berlusco Magnus fosse uno statista con le carte in regola, e chi lo nega disseminasse peste giacobina. Forse viveva sulla luna ignorando conflitto d’interessi, illegalismo sfrenato, abuso dello strumento legislativo: quindi non sa come l’Olonese abbia dissestato la macchina penale instaurando aree d’impunità; con che toupet tentasse tre volte d’arrogarsi l’immunità mediante leggi invalide; e quanto una devastante criminofilia incidesse nelle sventure economiche d’Italia. L’aveva portata a due dita dalla bancarotta. O sa l’accaduto e lo ritiene fisiologico, quasi fosse prassi politica svenare un Paese istupidendolo: l’inquinamento sapeva d’epidemia cinquecentesca (morbo gallico o ispanico); se è così, l’indifferenza indica vuoto morale. L’ascesa berlusconiana è malaffare: corrompe, falsifica, plagia, froda; l’impunità della quale gode, fa scuola; ancora qualche anno e lo scenario sarebbe molto triste.

Matteo Renzi non ha gli spiriti animali del caimano, né issa bandiera nera, ma la successione a Re Lanterna presuppone delle affinità. Una è l’impulso a esibirsi. Stavolta svelava un disegno: battere cento teatri con musiche, film, scene dal vivo, raccontando mirabilia governativi; e sarebbe visione allucinatoria mussoliniana; l’animavano divise, sfilate, armi finte, parole ipnotiche (una molto spesa era “impero”). L’inconveniente delle fantasmagorie è che non resistano al vaglio empirico.

Ad esempio, nessuno può abolire l’imposta sulla casa dall’anno 2016, lasciando intatti i quadri della spesa e l’enorme debito pubblico, quando la crescita resta un desiderio. Il ministro competente, sgomento, domanda sotto voce dove scovare i soldi. Lo scilinguato Delfino non se ne preoccupa. Nel gesto autocratico supera l’ancora quasi regnante (non s’illuda d’una devoluzione spontanea). Davanti ai ministri sta in posa napoleonica. Tra le dicerie fornite dal meeting adriatico eccone una: li convoca in colloqui a due voci; ognuno dica in qual modo magnificare l’opera governativa nelle predette messinscene. Quintino Sella e Giolitti inorridirebbero.

Non è più tempo d’ en plein alle urne. Sette Regioni davano MR declinante. Grazie all’Italicum, monumento d’insigne furberia, può darsi che per il rotto della cuffia esca autocrate d’un “partito nazionale”, disponendo dei numeri nella monocamera: avrebbe vinto la componente berlusconoide d’un elettorato ibrido; non è apporto gratuito né duraturo. Corrono dei patti. I partner esigono quel che garantiva il predecessore ossia affari facili e rendite comode, quindi privilegi, linea criminofila (la chiamano garantismo), norme malleabili, condoni; e risorsa sine qua non , la prescrizione qual è assurdamente congegnata, che inghiotta uno o due processi su tre. La calcolava sulla misura delle sue pendenze penali. Confessando «piena sintonia », li rassicura, ma la politica morbida ha dei costi.

Il patto elettorale include un volatile dal nome melodioso, “vampiro”: corruzione, evasione fiscale, economia criminale sommersa dissanguano lo sventurato Paese, divorandogli il futuro; tengono banchetto i parassiti e non se ne esce perché la crisi economica innesca circoli perversi (causando declino intellettuale e atonia morale, esaspera l’impoverimento). Rivediamo l’Italia descritta da Leopardi, parolaia, bigotta, sguaiata, inerte. Sa d’imbonimento che l’impresario le mandi una compagnia ministeriale in cento teatri con musica e recite.

Dal Job's Act all'abolizione del contratto nazionale. Bisogna riconoscere la piena coerenza di Matteo Renzi nel raggiungere progressivamente il suo.obiettivo: eliminare tutte le protezioni che in due secoli di lotte erano state ottenute per limitare lo strapotere dei padroni

www.sbilanciamoci.info, 3 settembre 2015

Bisogna riconoscere che nel zigazagare di Renzi fra un annuncio e l’altro c’è una stella polare che indica una rotta costante: ridurre per l’impresa il costo del lavoro, costringere per legge i salariati ad accettarlo. Non è bastato il Jobs Act? Adesso senza il nome inglese c’è il tentativo di far fuori la contrattazione nazionale riducendo l’orizzonte del negoziato all’impresa. Insomma di far fuori finalmente il contratto nazionale.

Dei ritorni al passato è l’esempio più clamoroso: un lavoratore di Brescia e uno che faccia lo stesso lavoro a Catania saranno pagati diversamente, e già la stampa aggiunge che è giusto perché mille euro al nord valgono meno che al sud, o almeno così si dice. Siamo al ritorno delle vecchie gabbie salariali che un governo diretto dal Pd ripropone. È la risposta a Saviano e ai dati pubblicati dalla Svimez: al sud i padroni potranno pagare di meno. Perché non riconoscere per legge il caporalato? Anzi la schiavitù? Non ci sarebbe nulla di più flessibile. Anzi le stesse gabbie salariali possono non essere troppo rigide, meglio che la contrattazione del lavoro e relativi rapporti di forza diventino variabili in campagna e in città, dove il sindacato è forte e dove è debole. E le donne, alcune leader delle quali lo propongono in nome della differenza femminile, si mettono alla testa di questo ulteriore passo in avanti nella modernizzazione dei rapporti sociali.

Il Jobs Act ha dimostrato che la sinistra [sic] non sa più neanche leggere, e del resto era scritto in modo ingarbugliato; questa misura sarà invece più semplice e del resto nella mente dei proletari è diventato corrente il pensiero che gli operai non esistano più; e nemmeno l’insistenza a pagarli di meno del governo Renzi dimostra che non siano puri fantasmi di una passata ideologia.

Una posizione largamente condivisibile nel dibattito sulla sinistra, ma con molte questioni da discutere, a patire dal significato del "lavoro, del nome preciso del "sistema", del significato di "sinistra " nel XXI secolo. Ci ripromettiamo di farlo.

Comune.info, 2 settembre 2015

Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l’obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com’è. Nel 900 il partito comunista faceva la politica del primo tipo, giusto o sbagliato che fosse il progetto. Poi è caduto il muro di Berlino e facendosi più realista del re ha deciso di imboccare la strada del pragmatismo fino a diventare il più strenuo sostenitore del liberismo. La fine fatta dal Pd è sotto gli occhi di tutti.

A sinistra molti criticano il Pd solo per avere perso totalmente l’anima sociale, ma ne condividono l’impostazione di fondo: il sistema è questo, non solo non si può cambiare, ma va bene così: bisogna solo porgli qualche regola affinché non si incagli nelle sue contraddizioni e bisogna rafforzare i paracaduti sociali per soccorrere le vittime che inevitabilmente produce. Non a caso la nuova parola d’ordine è diventata “sinistra di governo”, che meglio di ogni altra espressione ne racchiude il concetto.

In controtendenza, io penso che oggi più che mai la sinistra ha bisogno di un progetto alternativo perché questo sistema ci è nemico nell’impostazione di fondo.Cercare di correggere gli aspetti più odiosi è una regola di sopravvivenza, ma farlo senza intervenire sul senso di marcia è come preoccuparsi della tappezzeria in un treno che va verso il baratro. Tradizionalmente il tema forte della sinistra è la distribuzione, le correnti più moderate accontentandosi di spostare quote crescenti di reddito a vantaggio dei salari e della collettività; le correnti più radicali pretendendo di destinare tutto a salari e collettività non riconoscendo diritto di cittadinanza al profitto. Da cui i sistemi socialisti, ormai tramontati per varie cause che nessuno ha ancora studiato in tutti gli aspetti. Ma questa impostazione, per così dire distributivista, ha portato la sinistra a condividere la stessa matrice capitalista di adulazione della ricchezza.

Per entrambi, la ricchezza è un valore. Il capitalismo vuole produrne sempre di più per garantire alle imprese merci crescenti finalizzate al profitto; la sinistra vuole produrne sempre di più per creare nuove opportunità di lavoro e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Del resto c’è un detto classico nella sinistra: “Non si può distribuire la miseria: prima si produce la ricchezza, poi la si distribuisce”. Ed è così che anche a sinistra c’è una forte febbre produttivista: laddove più si riesce ad estrarre, più si riesce ad asfaltare e cementificare, più si riesce a manipolare la natura, più si riesce ad accrescere la tecnologia, in una parola più si riesce ad innalzare il Pil, meglio si sta. Una concezione un po’ antiquata che configura il benessere solo con la quantità di cose che siamo capaci di buttare nel carrello della spesa, dimenticando che prima di tutto abbiamo bisogno di una buona aria e che oltre alle esigenze del corpo abbiamo anche quelle psichiche, affettive, spirituali, sociali.

La questione della qualità della vita e la questione ambientale, hanno l’aria di essere temi ancora estranei alla sinistra. Ma se nell’ottocento potevano essere ignorati perché altre erano le priorità ed altro era il contesto ambientale, oggi la distruzione della casa comune rappresenta il tema che condiziona ogni altro aspetto sanitario, sociale, economico. Il concetto che più di ogni altro siamo costretti a rimettere in discussione è quello di crescita e benché sappiamo che varie attività consentono spazi di crescita senza maggior consumo di risorse e senza maggior produzione di rifiuti, il problema è il paradigma.

Sappiamo che trattando in maniera più intelligente i rifiuti, ricorrendo di più all’agricoltura biologica, potenziando i servizi alla persona, si può creare Pil e occupazione sostenibile, ma per fare pace con la natura dovremmo annientare, o giù di lì, l’industria dell’automobile, dovremmo cambiare totalmente il sistema distributivo per ridurre al minimo gli imballaggi, dovremmo smetterla di creare nuovi bisogni. In definitiva dovremmo chiudere per sempre con un sistema che ha fatto dell’aumento delle vendite il suo cuore pulsante. E se razionalmente sentiamo che questa è la strada da battere, dall’altra siamo bloccati per la disoccupazione che ne può derivare. Preoccupazione più che legittima in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita.

L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile.Cambiando prospettiva ci renderemo conto che il mercato non è l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni, né il lavoro salariato l’unico modo per produrre ciò che ci serve. I due grandi canali, se non alternativi, sicuramente complementari, sono il fai da te e l’economia comunitaria che hanno il vantaggio della gratuità e della piena inclusione lavorativa senza bisogno della crescita dei consumi.

La costruzione di una società che finalmente sappia mettere la persona al centro della sua attenzione e sappia porsi come obiettivo, non già l’offerta di lavoro, ma la garanzia a tutti, donne e uomini, giovani e vecchi, abili e inabili, di una vita sicura dalla culla alla tomba, nella piena soddisfazione di tutte le dimensioni umane e nel rispetto dei limiti del pianeta, dovrebbe essere il vero progetto politico della sinistra perché tiene insieme tutti i valori che la contraddistinguono: equità, rispetto, sostenibilità, solidarietà, autonomia.

Un progetto che, certo, ci costringe a ripensare tutto, dal senso e la funzione del lavoro ai tempi di vita, dal modo di produrre ciò che ci serve all’uso e il governo del denaro, dal ruolo del mercato al ruolo dell’economia collettiva, dal modo di concepire la tecnologia al modo di partecipare all’economia collettiva. Ma è ciò di cui abbiamo bisogno in un momento che il sistema di mercato sta mettendo in evidenza tutto il suo fallimento umano, sociale, ambientale, financo economico.

Con un progetto di società, non solo potremmo riaccendere la passione per la politica nei milioni di cittadini che oggi vivono ai margini perché stanchi e delusi, ma potremmo tornare al ruolo di forza con un’agenda da perseguire, non più costretta a giocare perennemente in difesa. Finalmente smetteremmo di correre dietro alle falle che crea il sistema e metteremmo a punto il nostro piano strategico di trasformazione della società, con proposte per tutti i livelli: da quello personale a quello comunale, da quello regionale a quello nazionale, da quello europeo a quello mondiale. Perché un’altra certezza è che la costruzione di un’altra società esige non solo una nuova visione dell’economia e della società, ma anche una nuova concezione del modo di fare politica.


Per cambiare il mondo bisogna porsi anche esistenzialmente dalla parte di quelli che patiscono di più per colpa del mondo comeè oggi. A proposito del libro di Raul Zibechi "All'alba di mondi 'Altri'" , con un sintetico ricordo del colonialismo italiano.

Comune.info, 2 settembre 2015

Nota introduttiva ad “Alba di Mondi Altri. I nuovi movimenti dal basso in América Latina”, l’ultimo libro di Raul Zibechi edito in Italia da Museodei by Hermatena, 200 pagine, 15 euro

È un destino inevitabile, naturale, quello di riprodurre nei mondi nuovi società di dominanti e dominati anche dopo aver combattuto e sconfitto sistemi fondati su quella relazione di dominio? No, non lo è. C’è un modo per evitare di assumere quel veleno coloniale? Sì, deve esserci ma non sappiamo come e dove cercarlo. Sappiamo però che tutto il pensiero critico che ha ispirato le grandi rivolte del passato è stato segnato dall’eurocentrismo. L’ultimo libro di Raúl Zibechi, “Alba di mondialtri”, suggerisce ai movimenti di cercare altrove, tenendo un riferimento importante nel cammino immaginato da Fanon e percorso dagli zapatisti del Chiapas. Nella nota che introduce l’edizione italiana del libro, presentato in questi giorni: la critica all’avanguardia e alla militanza politica “dalla parte del popolo”, l’urgenza di ripensare i concetti di geografia e territorio, le radici coloniali italiane e il traffico di armi e di braccia dei giorni nostri, la disumanizzazione delle vittime, il tramonto di un’egemonia culturale e il riconoscimento di mondi altri

Non avevamo mai creduto davvero alla presenza di idee politiche corrette tra los de abajo. Nella lotta per migliorarne la condizione, avevamo sempre cercato di imporre loro le nostre. Il rigore di un’affermazione tanto cruda quanto leale, non certo inedita nella (auto)critica di Raúl Zibechi alla storia della militanza politica “dalla parte del popolo”, si arricchisce di nuovi significati. Li porta alla luce l’esperienza recente che più lo ha segnato: la Escuelita zapatista de la libertad. In questo libro la racconta nei dettagli, in modo impareggiabile.

Da molti anni Zibechi esprime avversione per le pratiche che rinverdiscono la punta dell’iceberg di quel tratto peculiare – e sostanziale – della militanza. La voglia di imporre idee ritenute giuste per il bene di altri (o di tutti) è la proteina nobile di un avanguardismo muscolare che, mascherato o meno, dilagava nelle grandi organizzazioni sociali e nelle formazioni politiche di sinistra del Novecento. L’avversione di Zibechi si fa più intensa quando la critica investe l’avanguardia nel pensiero teorico astratto. Un pensiero più o meno raffinato ma sempre sterile, perché separato dalla vita di ogni giorno e dai principi etici su cui si è scelto di fondarla. Un pensiero che spesso esprime disprezzo per le persone comuni, rinuncia a misurarsi con le spinte contraddittorie della realtà, e mira a rapide e univoche risposte snobbando la precisione e la fantasia delle domande.

Come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”

Sono proprio gli interrogativi, invece, a sostenere di solito l’urgenza, il senso profondo e l’invenzione di una diversa modalità della vita. Queste pagine ne forniscono limpidi esempi: a che serve la rivoluzione se il popolo che vince si limita poi a riprodurre l’ordine coloniale, una società di dominanti e dominati? Delle essenziali questioni poste in questo libro, resta probabilmente questa la più significativa. Almeno per chi – come Zibechi – dopo aver trascorso buona parte della vita a studiare, raccontare e condividere i tentativi di cambiare il mondo, non considera un’utopia giovanile, un esercizio accademico o un lavoro da professionisti l’opportunità di farne uno nuovo. Il tema della soggettività resta decisivo. Eludendolo, chi è oppresso non potrà che occupare il posto dell’oppressore, riproducendo il profilo del sistema che combatte. Lo racconta la storia, che non dice invece quali soggetti possa esprimere, di per sé, la decolonizzazione.

Dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso,Zibechi consuma le scarpe percorrendo in lungo e in largo l’América. Attraverso autopistas e impervi caminos insegue le tracce della resistenza al dominio del capitale e delle merci sulle persone. Le ha trovate ovunque: nelle periferie di Asunción e lungo le steppe della Patagonia, sugli altopiani andini e tra le nebbie delle selve tropicali. A volte è tornato per mettere in discussione quel che gli era sembrato di capire. Come in Chiapas, quando – alunno semplice della Escuelita – a vent’anni dal primo viaggio a La Realidad (vent’anni di innamoramento e costante attenzione), pensava d’aver capito abbastanza dello zapatismo. E invece no.

Nella comunità 8 Marzo del Caracol di Morelia gli è parso d’improvviso evidente quel che ignorava: “Diciamo che non avevo compreso la parte elementare”, spiega stupito ed entusiasta. Quel che lo muove è la ricerca appassionata, quasi febbrile, di sempre: scovare e interpretare i mutamenti profondi della realtà. Questo libro nasce da quella ricerca e aiuta a configurarne un passaggio rilevante. Non è un’affermazione incidentale quella in cui Zibechi scrive: “Negli ultimi anni, lavoro per dare una risposta a una domanda che considero centrale: come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”, cioè dal luogo di coloro a cui viene negata la condizione umana?”. È un’opzione che comporta una rottura rilevante, forse perfino dolorosa, quella rinuncia a un punto di vista di classe generale, a una visione planetaria, ancor prima che universale.

Perché scegliere la prospettiva della “zona del non-essere”, ispirata ai testi di Frantz Fanon e alla rilettura che ne fa Ramon Grosfóguel? Perché sono i “dannati della terra” dei giorni nostri, quelli che vivono nel “mas abajo”, secondo il linguaggio zapatista, a essere genuinamente interessati a cambiare il mondo, risponde Raúl (il corsivo è mio e qui indica un’inquietudine sull’uso di quell’avverbio). È la primazia dell’etica, più che il gusto per la provocazione, a condurre Zibechi all’inevitabile conseguenza della rottura indicata: il pensiero critico che l’ha formato in Uruguay e nell’esilio in Spagna si è generato e sviluppato solo nel Nord, negli ambienti della “zona dell’essere”. Non può dunque essere trapiantato (più o meno meccanicamente) alla “zona del non essere”. Nel farlo, si perpetuerebbe il “fatto coloniale” in nome della rivoluzione.

Viene da chiedersi: rifarsi (criticamente) a Marx (o a Bakunin) significa dunque adottare una lettura del mondo sempre intrisa di eurocentrismo e colonialità? La teoria della rivoluzione che conosciamo, dal Capitale ai testi odierni, è viziata dall’origine e ne mostra gli evidenti limiti. Serve altro, risponde Zibechi. Bisogna percorrere altri sentieri. Fanon ha aperto la via e, decenni dopo, gli zapatisti sono quelli andati più lontano nel cammino di una creazione di un mondo nuovo dalla parte degli oppressi. L’attualità del pensiero di Fanon, aggiunge, affonda le radici proprio nell’impegno a pensare e mettere in pratica la resistenza e la rivoluzione a partire dal luogo fisico e spirituale degli oppressi. Dal luogo in cui gran parte dell’umanità vive in condizioni di indicibile oppressione, aggravata dalla ri-colonizzazione dei territori e delle menti che comporta il modello neoliberista. Ci parrebbe assai curioso, naturalmente, che a indicare quei “luoghi fisici” fossero un mappamondo o le astratte coordinate di un meridiano. Non è facile sostenere che un cameriere peruviano indigeno emigrato in Argentina viva un’oppressione più “indicibile” di quella di una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi sulle strade del litorale domiziano. Non può essere quella la geografia che dice dove si è los de abajo e dove si è, o si è diventati, los de arriba.

L'italico colonialismo
E a proposito di storia e geografia, s’impone la domanda madre per l’edizione italiana di questo libro: alla luce della dimensione “minore” dell’italico colonialismo, ha senso anche qui la necessità di de-colonizzare? Le poche righe che seguono azzardano una traccia per rispondere. Intanto, è noto che il colonialismo storico vive e prospera nella (neo)colonialità del potere, della mente, dell’immaginario, ecc. Non mancano testi in lingua italiana che hanno trattato con dovizia e acutezza di questo e dell’influenza e del lascito di Fanon sulla ribellione e l’antirazzismo contemporanei. Ben altra musica suona ancora, salvo eroiche eccezioni, il racconto storico di quella dimensione “minore”. Non è questa la sede per far giustizia della narrazione tossica sull’esuberanza sessuale dei “nostri” soldati, sul mito degli “italiani brava gente” e sulla immane censura calata sui libri di storia. Lasciamo la parola all’eccellente Point Lenana, di Wu Ming1 e Roberto Santachiara (Einaudi, 2013)

Dal 10 al 19 febbraio, durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. Lo stesso Badoglio riferirà l’utilizzo, in questa circostanza, di sessanta tonnellate di iprite. Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà: «Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi».

Rossa è la carne viva esposta dall’azione dell’iprite. Come diceva quel divertente stornello? «Se l’abissino è nero, gli cambierem colore».

Dai resoconti e ricordi edulcorati della strage deriverà il termine scherzoso «ambaradàn», che gli italiani useranno per dire baraonda, trambusto, grande confusione.

L’impiego dei gas non è la sola atrocità. Fra il 1935 e il 1936, l’aviazione italiana bombarda ospedali e ambulanze. Impazzano i rastrellamenti, le fucilazioni di massa, gli stupri, decine di migliaia le capanne incendiate. Dalla campagna d’Etiopia, con la proclamazione dell’impero di Vittorio Emanuele III, alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica (Libia) il passo (indietro) è breve. L’avventura comincia nel 1911, con l’invio di 1732 marinai contro l’Impero Ottomano. Non porta la firma di Mussolini ma del quarto governo Giolitti, quello eletto col voto dei socialisti. Il “progressismo” del tempo nazionalizzerà le assicurazioni e introdurrà il “suffragio universale”. Da cui sono escluse le donne, ça va sans dire.

Cento anni più tardi, nel 2011, l’Italia smetterà di vendere armi a Gheddafi, linciato in strada – dopo la pioggia di bombe Nato – in una sequenza indimenticabile. In quanto a orrore, fa impallidire anche quelle, più sofisticate, girate dai registi dell’Isis. Tra il 2005 e il 2012, comunque, l’Italia ha fornito, prima al colonnello e poi ai suoi carnefici, armi per 375,5 milioni di euro, seconda solo alla Francia di Sarkozy, il leader più assatanato nella caccia grossa a Gheddafi. Quelle armi sono poi state saccheggiate, più volte, da varie fazioni avverse al regime di Tripoli e dai gruppi jihadisti, Sono dunque state determinanti a far diventare il territorio (che per convenzione chiamiamo ancora) libico quel che è oggi. Dove ha volato la Nato non c’è più un paese, come in Somalia dopo i Caschi Blu, come in Afghanistan, in Iraq…

Dalle coste libiche parte oltre l’80 per cento delle persone che affrontano il mare nostrum per affogare nelle sue profondità o essere accolte come fossero un’epidemia nel paese dei mercanti, quello dalle colonie “dal volto umano”. Sono persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dal Sudan, dalla Nigeria, dal Mali, dall’Iraq, dalla Siria. I media ci avvertono: attenzione, tra loro, negandosi al riconoscimento identitario, si annidano furbi e spregevoli truffatori. Si fingono perseguitati ma non lo sono affatto. Sono semplici migranti, colpevoli d’un reato imperdonabile: cercare una vita migliore nella terra in cui non sono nati. Per fortuna il dio del mare è giusto e li punisce.

Ogni tanto le istituzioni politiche europee, i media e l’opinione pubblica fingono di commuoversi. È accaduto il 19 aprile, con la maggior strage mediterranea della storia contemporanea: 7-800 persone annegate in un solo “incidente”. Gli incidenti si ripetono da oltre 15 anni. Hanno ucciso venti-trentamila persone, forse di più. I numeri ingannano: non raccontano i volti, l’agitazione delle mani, il respiro che annaspa ma soprattutto le storie, le speranze e le sofferenze di chi affoga nel Mediterraneo. Forse, a comprendere la portata e le ragioni della tragedia che viviamo, può aiutare più la storia. Una storia esemplare, a leggerla in una prospettiva coloniale: l’Europa è abituata a buttare la gente in mare. Lo ha fatto per quattro secoli durante il commercio di vite africane che riempiva i forzieri delle nazioni che oggi danno lezioni sui diritti umani e la democrazia al resto del mondo. Si buttavano a mare gli schiavi per sfuggire ai pattugliamenti, oppure quando venivano considerati invendibili. Un negro ogni dieci, si calcola, finiva agli squali. Merce difettosa, con i denti cariati o i seni flaccidi.

È solo negando la condizione umana, quello che secondo Zibechi avviene nella “zona del non essere”, che si può lasciar affogare le persone. Per questo i migranti, nella migliore delle ipotesi, devono essere numeri. Come i palestinesi intrappolati a Gaza nel diluvio delle bombe israeliane. Come gli ebrei, gli zingari, i polacchi e i russi chiusi a Birkenau, come i ribelli etiopi che Mussolini ordinò di stroncare con “qualsiasi mezzo”. Renzi, Salvini e gli amici di Casa Pound oggi darebbero, dispiaciuti, lo stesso ordine ma il discorso sui fini e i mezzi sarebbe lungo… Negare la condizione umana, dicevamo, perché ammettendo l’umanità delle vittime sarebbe inevitabile mettere in discussione anche quella dei carnefici e di chi consente i massacri o vi si mostra indifferente. Per questo i razzisti europei dovrebbero temere più d’ogni altra cosa la ri-umanizzazione dei migranti nei media. Dovrebbero temerla, per la verità, i razzisti di tutto il mondo, da quelli austrialiani a quelli sudafricani. Sì, avete letto bene: sudafricani.

C’è tuttavia una specificità occidentale, declinata con chiarezza nella storia coloniale e nelle diverse forme di colonialità contemporanea. Deriva dall’incapacità di “pensare con il mondo”, come avrebbe detto Édouard Glissant, compagno di liceo di Fanon in Martinica. Deriva dalla credenza secolare secondo cui il “nostro” mondo – la letteratura, la filosofia, la medicina, le forme religiose e di governo, ilmodus vivendi – sarebbe superiore a quello degli altri. Anzi gli altri – gli indigeni, i turchi, gli arabi, i pigmei, i cinesi, i mongoli, i contadini – sarebbero in fervente attesa del nostro progresso-sviluppo. Dopo cento anni, quella egemonia culturale sembra finalmente finita. Non esercita più incontrastata nemmeno qui il suo invincibile potere, un potere non divino ma molto coloniale e molto “naturalizzato”. Che quel mondo non fosse il solo possibile lo hanno cominciato a gridare tutte le più significative società in movimento apparse all’alba del nuovo millennio. Di più,in felice risonanza con certe comunità indigene mascherate delle montagne del sud-est messicano, quella gente dice che esistono molti altri mondi. Tutti diversi e tutti capaci di affermare straordinarie dignità. Quel che sembra impossibile, dicono, arriva. Si tratta solo di aspettarlo un po’.

[I sottotitoli sono nostri - n.d.r.]

La Repubblica, 2 settembre 2015

IN OCCASIONE del prossimo Giubileo della Misericordia, papa Francesco scrive di aver «deciso, nonostante qualsiasi cosa in contrario, di concedere a tutti i sacerdoti per l’Anno Giubilare la facoltà di assolvere dal peccato di aborto quanti lo hanno procurato e pentiti di cuore ne chiedono il perdono». Questo è quanto si legge in una lettera a monsignor Rino Fisichella, presidente del pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. È una misura speciale, che spicca insieme ad alcune altre — una tregua coi lefebvriani, un’offerta di amnistia dei peccati ai carcerati, auspicio — pensiamo — di una svolta simile nell’uso insensato e criminogeno dell’istituzione carceraria. Questa lettera complica e arricchisce il disegno generale proposto mesi fa con la bolla di indizione Misericordiae vultus . Là si parlava di un corpo speciale di “missionari della misericordia”, sacerdoti col potere di assolvere da ogni peccato. Ma ora si estende a ogni confessore il potere finora riservato ai vescovi, di assolvere dal peccato di aborto e dalla scomunica che comporta.
Non è la prima volta che questo Papa mostra quale uso si possa fare ai nostri tempi della storica strategia gesuitica della confessione come momento della misericordia accogliente e non della condanna severa. Ma il passo della lettera a monsignor Fisichella sulla questione dell’aborto introduce una variante non piccola e merita speciale attenzione.

Ora forse qualcuno penserà che papa Francesco abbia proclamato il “libero aborto in libera Chiesa”. Non è così. L’intreccio fra rispetto della tradizione dottrinale e innovative aperture strategiche è un tratto ormai abituale della predicazione di questo pontefice. La dottrina tradizionale papa Francesco l’aveva ribadita nell’udienza del 15 novembre 2014 ai ginecologi cattolici. Allora usò parole severissime contro l’eliminazione di esseri umani «soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli », i bambini non nati, i vecchi e malati. Ma — attenzione — non li condannò come peccati ma come esito sociale obbligato di quella che definì «cultura dello scarto», vale a dire il distorto funzionamento della società dei consumi, il conflitto radicale fra ricchezza e povertà estreme che sperimentiamo oggi nel mondo.

Allora usò immagini toccanti: «Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente a essere abortito — disse — ha il volto del Signore che prima ancora di nascere... ha sperimentato il rifiuto del mondo ». Certo, pensare che cosa sarebbe accaduto nel mondo e del mondo se Gesù non fosse nato o fosse stato ucciso subito dopo la nascita è effettivamente meditare su di una controfattualità storica assai impegnativa, una vera fantascienza. Ma non c’è bisogno di essere cristiani e cattolici per capire come il volto ordinario dell’esperienza dell’aborto possa essere il pensare al figlio che si sta per rifiutare come un possibile messia, un portatore di salvezza anche solo nel privato ambito dei propri affetti.

Di fatto la lettera a monsignor Fisichella segna un passaggio importante nello stile proposto al corpo ecclesiastico e ai suoi figli obbedienti perché lo adottino da ora in poi, nei tempi corti del Giubileo e in quelli lunghi del futuro: qui c’è l’invito a chiudere l’epoca della faccia feroce, della guerra indetta da singoli, associazioni, partiti e Stati contro le donne e contro i medici che praticano l’interruzione volontaria della gravidanza. È una guerra antica che ha conosciuto secoli di scontri fra le donne e una Chiesa spalleggiata dagli Stati, quando gli aborti si praticavano di nascosto coi ferri da calza e spesso portavano a morte madre e figlio.

Questa guerra ha una precisa data di nascita, non è coetanea col cristianesimo e con la storia della Chiesa cattolica come immaginano i fanatici: è bene tenerlo presente perché com’è nata può anche terminare. Per secoli la dottrina e la pratica della confessione hanno oscillato in materia, colpendo con la scomunica solo l’aborto del feto già formato, uno stadio che si credeva atteso da Dio per insufflare nel corpo l’anima immortale. Era un peccato contro la vita eterna dell’anima immortale del non nato, condannata così a stazionare eternamente nel Limbo, nei pressi dell’Inferno.

Solo in tempi recenti si è formata la dottrina che definisce l’aborto un peccato puramente e semplicemente contro la vita: una svolta copernicana per la Chiesa, diventata così una forza schierata a difesa di questa terrena esistenza come pozione da sorbire sempre e comunque e fino in fondo, e determinata a usare tutta la sua influenza per impedire ogni forma di uscita anzitempo dal mondo — il suicidio, l’eutanasia. Perciò in Italia bisognava andare all’estero per abortire, così come oggi bisogna andare all’estero per morire: scelte di classe tutt’e due. Quanto all’aborto, una volta che con libera scelta referendaria gli italiani hanno voltato le spalle ai secoli dell’ortodossia obbligatoria e della guerra dei poteri ecclesiastici contro la donna, è cominciata la fase di guerra fredda: scontri pubblici, astuzie di medici “obiettori” che praticavano in segreto a caro prezzo quello che si rifiutavano di fare nell’ospedale, interventi normativi per rendere quella scelta già così dolorosa un calvario (sempre che si possa usare questa parola cristiana per il percorso di chi ha voluto abortire da noi).

Oggi papa Francesco guarda al mondo intero, alla disperata condizione dei poveri, all’esodo morale e religioso delle moltitudini dalla Chiesa e decide di spostare il fronte delle urgenze. Vedremo l’esito. Ma intanto va pur detto che uno sguardo altrettanto libero e umano vorremmo vederlo gettare da uno Stato veramente e compiutamente sovrano a tante strozzature civili — matrimonio, scuola, aborto e concepimento, scelta di morire — finora conservate per malintese sintonie coi poteri ecclesiastici.

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Con­cordo con pres­so­ché tutti i punti del deca­logo for­mu­lato da Norma Ran­geri su que­ste colonne (28 luglio) per l’apertura della discus­sione. Tut­ta­via, fra gli obiet­tivi e la loro pre­su­mi­bile rea­liz­za­zione s’interpone da parte mia un cumulo di dubbi e di per­ples­sità (come sem­pre più spesso, ahimè, mi capita), che sem­bre­rebbe, forse, oscu­rare gli obiet­tivi di cui sopra (non sarebbe, nono­stante tutto, nelle mie inten­zioni). Ma vediamo.

1) La crisi della sini­stra non è solo ita­liana: è euro­pea, anzi glo­bale. E’ sotto gli occhi di tutti: strano che se ne parli così poco in que­sti ter­mini. Som­ma­ria­mente (certo, troppo som­ma­ria­mente) io l’attribuisco a due fat­tori (in que­sto senso soprat­tutto europei).

Il primo: la scon­fitta che il lavoro e, in senso più spe­ci­fico e sostan­ziale, la classe ope­raia hanno subito nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: in Inghil­terra; in Ger­ma­nia; in Ita­lia (in forme diverse, certo, ma orien­tate tutte nella mede­sima dire­zione). Ora, non c’è sini­stra (in senso clas­sico) senza rap­pre­sen­tanza del lavoro: per­ché la visione pro­gres­si­sta e rifor­ma­trice della “vera sini­stra” è sem­pre nata da lì (c’è biso­gno di esempi sto­rici). Se ne può fare a meno?

La scon­fitta del pro­le­ta­riato (anche in que­sto senso clas­sico) e della classe ope­raia ha pro­vo­cato nella società post-industriale e post-fordista l’emergere di due feno­meni, con­tem­po­ra­nei e al tempo stesso con­tra­stanti fra loro: una sorta di bor­ghe­siz­za­zione spu­ria e dispersa e una sorta di pro­le­ta­riz­za­zione spu­ria e dispersa di parti diverse della società. Manca il col­lante, poli­tico e sociale, che le tenga insieme. A mio giu­di­zio, anche la grande for­tuna attuale del verbo francescano-cattolico deriva da que­sto: sic­come non c’è forza ter­rena che ci rie­sca, la parola della Chiesa, che non ha biso­gno di veri­fi­che pra­ti­che allo scopo di gover­nare (dispe­rata mis­sione dei poveri poli­tici umani), appare comun­que, anche ai laici, una rispo­sta con­for­tante e consolatoria.

Come pos­sono di nuovo stare insieme le due cose? Dove deve met­tere le sue radici la “nuova sini­stra”? Come si rap­pre­senta un lavoro pro­fon­da­mente diverso dal pas­sato, — nel quale, natu­ral­mente, con­ti­nua a occu­pare un ruolo impor­tan­tis­simo la classe ope­raia, ma non più in posi­zione ege­mo­nica, — e lo si ri-organizza per rove­sciare l’ondata tra­vol­gente, mon­diale, del capi­ta­li­smo finan­zia­rio? Se non si risponde a que­ste domande, inter­viene l’atrofia dei muscoli e del cervello.

In fondo, l’emergere di una nuova feno­me­no­lo­gia poli­tica (non solo, ma soprat­tutto) nei paesi più deboli dell’orizzonte euro­peo occi­den­tale, — Spa­gna, Gre­cia, Ita­lia, — Pode­mos, Syriza, per­sino Grillo e il gril­li­smo, rap­pre­senta una rispo­sta a que­ste domande. Non ne con­di­vi­diamo uno per uno tutti gli orien­ta­menti e ne scru­tiamo spesso con qual­che pre­oc­cu­pa­zione gli obiet­tivi, ma non pos­siamo non rico­no­scere che in una società mobile e disar­ti­co­lata le loro sono rispo­ste più à la page delle nostre.

Il secondo: l’Europa vive ormai sotto l’incubo (anche arta­ta­mente gon­fiato, ammet­tia­molo) di uno scar­di­na­mento pro­vo­cato da un’ondata migra­to­ria di cui indub­bia­mente non esi­stono pre­ce­denti. La rea­zione è quella di una chiu­sura a ric­cio: da parte dei ceti bor­ghesi, o pseu­do­bor­ghesi, allo scopo di difen­dere i pro­pri pri­vi­legi; e da parte dei nuovi ceti pro­le­tari e sot­to­pro­le­tari allo scopo di difen­dere una loro pos­si­bile, ancor­ché impro­ba­bile, ascesa verso l’alto. In ogni caso, è fuori discus­sione che il feno­meno ali­menti qual­siasi tipo di rea­zione “popu­li­sta” (io pre­fe­ri­rei dire “mas­si­sta”, ma devo farmi inten­dere dai let­tori). Se il punto pre­ce­dente si sal­dasse con que­sto, il qua­dro potrebbe diven­tare deva­stante. Non a caso Beppe Grillo, che se ne intende, ha for­mu­lato pro­po­ste estre­ma­mente restrit­tive rispetto al feno­meno dell’immigrazione. E’ un dato di fatto, tut­ta­via, che la sini­stra, sia quella “sto­rica” sia quella “nuova”, su que­sto punto non ha saputo for­mu­lare altro che gene­ri­che pro­po­ste d’ingenuo soli­da­ri­smo, quando in Europa non s’è alli­neata tout court con le posi­zioni dei governi e dei ceti con­ser­va­tori. Il soli­da­ri­smo uma­ni­ta­rio è il nostro credo. Ma se non ha un pro­gramma, e forze e mezzi per rea­liz­zarlo, rischia di diven­tare straor­di­na­ria­mente autolesionistico.

Senza biso­gno di ricor­rere, come taluno auspica, a una nuova Poi­tiers, è vero per tutti che l’Europa a sini­stra si salva sia dall’interno sia dall’esterno. E’ una scom­messa bestiale, me ne rendo conto. Ma solo chi la vince, vince l’intera par­tita.

2) Quello che in Europa rap­pre­senta un deca­lage sto­rico impres­sio­nante, — ci sono governi mode­rati o con­ser­va­tori o di estrema destra in tutti i paesi, esclusa la Fran­cia, dove il socia­li­sta Hol­lande si appre­sta a lasciare il pre­mie­rato niente di meno che a un lea­der con­ser­va­tore, anzi rea­zio­na­rio, di primo pelo come Sar­kozy; in Ger­ma­nia i social­de­mo­cra­tici si limi­tano a navi­gare nella scia di Angela Mer­kel; in Inghil­terra i labu­ri­sti sono stati scon­fitti recen­te­mente per la seconda volta da Came­ron, in attesa che la stella di Cor­byn si levi in cielo dall’orizzonte, — diviene in Ita­lia, come sem­pre più spesso capita, un alle­gro (o meglio: squal­lido) spet­ta­colo della “com­me­dia dell’arte”. Non c’è un prov­ve­di­mento del governo Renzi che sia mini­ma­mente con­di­vi­si­bile. Il Jobs act. Il pro­gramma deva­stante e anti­am­bien­ta­li­sta delle Grandi Opere. La cosid­detta “Pes­sima Scuola”. Tutto è diven­tato com­mer­ciale, usu­frui­bile, sfrut­ta­bile: se non lo è, lo deve diven­tare a viva forza. La vicenda delle nomine dei diret­tori dei grandi musei ita­liani è uno schiaffo alla dignità nazio­nale e un’offesa ai fun­zio­nari che hanno il com­pito isti­tu­zio­nale di difen­dere il patri­mo­nio arti­stico e i beni culturali.

Il caso Azzol­lini è uno schizzo di fango sulla toga già non del tutto imma­co­lata del Pd: l’ammonimento sus­se­guente e con­se­guente del Pre­si­dente del Con­si­glio, — «non siamo i pas­sa­carte dei Pm», — suona ine­qui­vo­ca­bil­mente come un’apertura di cre­dito nei con­fronti dei poli­tici cor­rotti e cor­rut­ti­bili («State tran­quilli, qual­siasi cosa fac­ciate, ci siamo noi pronti ad aiu­tarvi e proteggervi»).

Ma quel che più conta è l’obiettivo cui mira la riforma costi­tu­zio­nale già in atto: ne rias­sumo le con­clu­sioni. Se il pro­getto del ducetto di Rignano sull’Arno dovesse andare in porto, un par­tito del 35% (il 20%, più o meno degli aventi diritto al voto), avrebbe nelle pro­prie mani, a par­tire dalle pros­sime ele­zioni, non solo il Par­la­mento, la Pre­si­denza del Con­si­glio e il Governo, ma anche la Pre­si­denza della Repub­blica e la Corte Costi­tu­zio­nale.

Quando si parla con orgo­glio del Par­tito della Nazione, si dimen­tica che que­sta ano­mala carat­te­riz­za­zione è stata usata in pas­sato solo dai nazio­na­li­sti di primo Nove­cento, poi con­fluiti trion­fal­mente nel fasci­smo della prima ora, e poi, per l’appunto, con moti­va­zione ancor più evi­dente, nel Par­tito Nazio­nale Fasci­sta. Non è un caso che la forza inne­ga­bile, e temi­bile, di Mat­teo Renzi con­si­sta nell’avere a dispo­si­zione una pos­sente arma di riserva. Se le cose doves­sero andar­gli male, o solo un po’ peg­gio, l’alleanza con la destra ber­lu­sco­niana sarebbe sem­pre a por­tata di mano. Altro che inter­ru­zione o declino del Patto del Naza­reno! Il Patto del Naza­reno è stato calato gene­ti­ca­mente nelle fibre costi­tu­tive del Governo Renzi, può essere rein­te­grato in ogni momento, anzi, più esat­ta­mente, non è mai venuto meno.

Cioè: siamo in Ita­lia di fronte al rischio di un vero e pro­prio cam­bia­mento di regime.

La con­clu­sione di que­sto punto è che in Ita­lia, — un paese da tutti i versi nel degrado più com­pleto, (cor­ru­zione poli­tica, cri­mine orga­niz­zato, per­dita gene­ra­liz­zata di fidu­cia nella poli­tica) — la bat­ta­glia della sini­stra per le sue tra­di­zio­nali parole d’ordine, (libertà, giu­sti­zia, egua­glianza) — deve essere ispi­rata anche for­te­mente ai biso­gni e alle pro­spet­tive di una difesa e di un rein­te­gro degli assetti isti­tu­zio­nali e costi­tu­zio­nali, della pre­senza e della dignità dello Stato e della ricerca di quell’obiettivo, che, forse un po’ troppo gene­ri­ca­mente, ma anche molto effi­ca­ce­mente, si defi­ni­sce “bene comune”.

E’ quel che accade oggi? Le con­nes­sioni tra le varie parti di que­sto dif­fi­cile e sca­lare discorso, — poli­tica, eco­no­mia, assetti sociali, rap­porto istituzioni-lotta di classe, — ci sono evi­denti e per­ce­pi­bili, più o meno nello stesso modo, da Son­drio a Capo Pachino? Direi di no, per ora.

3) La sini­stra, — un po’ tutta: quella del centro-sinistra-destra, che ci governa, e quella della “sini­stra al tempo stesso clas­sica e nuova”, in Ita­lia non ha (e/o non vuole avere) memo­ria. Non ha intro­iet­tato e tanto meno meta­bo­liz­zato la Bolo­gnina di Occhetto, la bica­me­rale di D’Alema, la teo­riz­zata e con­cla­mata auto­suf­fi­cienza dei Ds di Wal­ter Vel­troni, la pugna­lata nella schiena inferta al Governo Prodi da Rifon­da­zione Comu­ni­sta, il vigo­roso tra­monto della stella rin­no­va­trice di Anto­nio Bas­so­lino, per­sino il recente, smi­su­rato soste­gno isti­tu­zio­nale e costi­tu­zio­nale del Pre­si­dente Napo­li­tano all’esperimento Renzi.

Tanto meno ha intro­iet­tato e meta­bo­liz­zato i ten­ta­tivi di vol­tar pagina, che pure in que­sta nostra sini­stra ci sono stati. Più o meno dieci anni fa (2004–2005), in una con­giun­tura enor­me­mente più favo­re­vole di quella odierna, un gruppo di com­pa­gni diede vita a una cosa che si chia­mava “Camera di con­sul­ta­zione della sini­stra” e pro­pu­gnava, per l’appunto, l’unità della sini­stra radi­cale (Rifon­da­zione comu­ni­sta, Comu­ni­sti ita­liani, Verdi, parti impor­tanti della sini­stra Ds, gruppi auto­nomi, ecc ecc.). L’esperienza ebbe una larga e ricca gesta­zione, fu soste­nuta da un dibat­tito inte­res­san­tis­simo su il mani­fe­sto, ospite soli­dale e par­te­cipe, sfo­ciò in una grande Assem­blea nazio­nale alla Fiera di Roma. Il giorno in cui (12 aprile 2005) il lavoro avrebbe dovuto con­clu­dersi con un voto su di un docu­mento pro­gram­ma­tico, e di lì pas­sare ai fatti, Fau­sto Ber­ti­notti, segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta, ne sabotò dura­mente il pro­se­gui­mento. Si avvi­ci­na­vano le ele­zioni. Il suo pro­gramma era un altro. La vit­to­ria elet­to­rale e, con­se­guen­te­mente, la par­te­ci­pa­zione a un governo for­te­mente spo­stato a sini­stra? No, la Pre­si­denza della Camera dei depu­tati. Oltre al fal­li­mento del pre­detto ten­ta­tivo, ne deri­va­rono diverse altre con­se­guenze nega­tive, fra cui, al limite, anche la scis­sione di Rifon­da­zione comu­ni­sta: una prova lam­pante di cosa signi­fi­chi lavo­rare, ala­cre­mente e astu­ta­mente, non per l’unità della sini­stra ma per la sua disunione.

Risen­ti­mento? Ran­core? Sì, certo. Ma anche qual­cosa di più. Abbiamo alle spalle un numero straor­di­na­rio di scon­fitte, gio­cate sia sul piano sto­rico e poli­tico sia su quello per­so­nale. Un ele­mento di rifles­sione sto­rica e poli­tica riguarda ad esem­pio l’impressionante declino della classe poli­tica comu­ni­sta post-berlingueriana.

Uno sto­rico serio dovrebbe affron­tare la que­stione e spie­garci come que­sto sia potuto acca­dere, e in que­sta misura. Un ele­mento di rifles­sione per­so­nale e antro­po­lo­gica riguarda invece la ina­spet­tata insor­genza e poi, deci­sa­mente, la pre­va­lenza, nei rap­pre­sen­tanti più in vista di tale ceto poli­tico; di que­gli ele­menti di un’etica degra­data e per­so­na­li­stica, che ci asse­diano da tutte le parti e che, a parole, ma a dir la verità sem­pre meno spesso, viene con­dan­nata nella società che ci circonda.

Con­clu­sione: se non si intro­ietta e rie­la­bora tutto que­sto, meglio non ricominciare.

4) Veniamo ora, scon­so­la­ta­mente, dalla disil­lusa e pres­so­ché dispe­rata rie­vo­ca­zione del pas­sato, ai buoni pro­po­siti del futuro. Ci vor­rebbe, — con­di­tio sine qua non: tener conto, certo, e farne il fon­da­mento, dei punti elen­cati ai n. 1, 2 e 3, — un nuovo Par­tito: un par­tito for­te­mente demo­cra­tico (una testa, un voto, e fin dall’inizio); for­te­mente rifor­mi­sta (non è più il tempo di un pro­te­stan­te­simo gene­rico e paro­laio, biso­gna indi­care con esat­tezza cal­vi­ni­sta le cose da fare, la gerar­chia con cui farle, per chi e come farle); e for­te­mente euro­pei­sta (per un’Europa fede­rata poli­ti­ca­mente, all’interno della quale valga il cri­te­rio politico-istituzionale della rap­pre­sen­tanza e non la forza di con­tra­sto e di ricatto della potenza eco­no­mica capi­ta­li­stica e delle tec­no­cra­zie ad essa asservite).

Un par­tito, dico, non una rete. So per espe­rienza (l’esperienza che manca alla mag­gior parte dei miei pos­si­bili inter­lo­cu­tori) che da una rete, — una qual­siasi rete, di asso­cia­zioni, di comi­tati, di gruppi, — non si decolla mai verso l’alto, ci si allarga solo, se va molto bene, orizzontalmente.

Un par­tito, aggiungo, pro­mosso e fatto soprat­tutto da gio­vani: tren­ta­cin­que, qua­ran­tenni. L’esperienza, anche in que­sto caso, dimo­stra che, per sor­gere o risor­gere, biso­gna sca­vare un fos­sato ben visi­bile rispetto al pas­sato (Pode­mos, Syriza). Il per­so­nale poli­tico e intel­let­tuale della “nuova sini­stra” è più vetu­sto di quello di centro-sinistra-destra (sto par­lando di me in primo luogo, ovvia­mente). I gio­vani non ci sono? Se non ci sono, vuol dire che l’Italia di oggi non li pro­duce, e se è così, è un bel guaio. Ma forse, anche in que­sto caso, abbiamo fatto di tutto, e stiamo ancora facendo di tutto, per­ché l’Italia non li pro­duca. Se si pro­po­nesse una leva, con l’obiettivo dichia­rato ed espli­cito di cedere alle nuove gene­ra­zioni il bastone del comando, forse qual­cosa di nuovo potrebbe sal­tar fuori. Meglio i pos­si­bili, dif­fi­cil­mente pre­ve­di­bili errori dei gio­vani che quelli, asso­lu­ta­mente pre­ve­di­bili, anzi già oggi del tutto scon­tati, dei nostri vetu­sti dirigenti.

Poi ci vuole una Per­sona, un’identità ben pre­cisa sia maschile che fem­mi­nile. E oggi, in tempo di media­ti­che mat­tane, ancora di più. L’esperienza recente lo dimo­stra: senza Igle­sias, senza Tsi­pras, per­sino senza Grillo, il com­bi­nato dispo­sto di pro­te­sta, irri­ta­zione, ricerca del nuovo, tanto più in assenza di un auten­tico, mate­riale, evi­dente, punto di rife­ri­mento sociale, non qua­glia. Dov’è que­sta Per­sona? Non sarà che a restar chiusi ancora una volta, per un’elementare rea­zione di auto­di­fesa, nella pic­cola legione mace­done fatta di qua­dri vetu­sti e d’intellettuali sta­gio­nati, la per­sona non rie­sce a venir fuori, resta ancora una volta e per sem­pre il dete­stato ed esor­ciz­zato Pover’Uomo di fal­la­diana memoria?

Per­ché que­ste e tutte le altre prove e con­tro­prove siano fatte ci vuole dun­que una vera (sot­to­li­neo: vera) fase costi­tuente, nel corso della quale si veri­fi­chi seria­mente, non solo e non soprat­tutto, se siamo d’accordo fra noi, ma se ci sono altri che sono d’accordo con noi: dispo­sti noi di con­se­guenza a cam­biare, se gli altri, i “nuovi” del “par­tito nuovo”, ci per­sua­de­ranno che le loro ragioni sono migliori delle nostre (che poi è esat­ta­mente quello che ci si dovrebbe augu­rare che avvenga). Que­ste ragioni devono venire soprat­tutto dall’esterno: non pos­siamo pre­ten­dere oggi di farle tutte bell’e con­fe­zio­nate dal nostro stanco e mille volte scon­fitto cervello.

5) Infine. Abbiamo sotto gli occhi la recen­tis­sima lezione, al tempo stesso esal­tante e dram­ma­tica, della Gre­cia. Nello spa­zio di un colpo di ful­mine siamo pas­sati dall’ammirazione scon­fi­nata per il pro­cesso di libe­ra­zione corag­gio­sa­mente ini­ziato e por­tato avanti da Syriza alla con­tem­pla­zione pro­ble­ma­tica del pro­cesso di com­pro­messo con le potenze domi­nanti all’interno della Ue pre­di­spo­sto e accet­tato dal Governo Tsi­pras per sal­vare il sal­va­bile e con­ti­nuare al tempo stesso il pro­cesso.

Non avrebbe alcun senso fon­dare qual­siasi cosa, e in modo par­ti­co­lare una nuova orga­niz­za­zione poli­tica, senza scio­gliere il nodo che tale evo­lu­zione ci costringe a esa­mi­nare e valu­tare, e di con­se­guenza con­ti­nuare a por­tarlo e rumi­narlo den­tro, invece di lasciarlo fuori, come una delle tante ere­dità mefi­ti­che del nostro sem­pre con­trad­dit­to­rio pas­sato. Insomma: biso­gna dire con chi si sta.

Io sto con Ale­xis Tsipras.

Il manifesto, 1 settembre 2015

Il crollo della Borsa di Shan­gai non è stato un inci­dente di per­corso, ma il segno tan­gi­bile che anche il modello di accu­mu­la­zione cinese è ormai subal­terno alle dina­mi­che della finanza glo­ba­liz­zata. Nel modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico i crolli finan­ziari sono fisio­lo­gici e ser­vono a redi­stri­buire la ric­chezza finan­zia­ria dal basso verso l’alto, a con­tri­buire deci­sa­mente a quel pro­cesso di concentrazione/centralizzazione del capi­tale che a metà del XIX secolo Marx aveva genial­mente intuito.

Nel caso cinese, per spie­garci meglio, sono i novanta milioni di pic­coli e medi rispar­mia­tori che ave­vano inve­stito nella Borsa di Shan­ghai ad averci rimesso le penne: colti dal panico hanno sven­duto i titoli su cui ave­vano inve­stito i pro­pri risparmi. Di con­tro, i grandi gruppi finan­ziari, cinesi e non, hanno avuto l’opportunità di com­prare que­ste azioni a prezzi strac­ciati e lucrare sulla loro risa­lita, come pun­tual­mente si è veri­fi­cato in que­sti ultimi giorni. Ma, la crisi finan­zia­ria non si è chiusa e il mondo trema per­ché l’economia cinese ha avuto finora un ruolo di loco­mo­tiva rispetto al resto dell’economia-mondo.

I mass media occi­den­tali hanno molto apprez­zato l’intervento della Banca Cen­trale cinese che ha abbas­sato i tassi d’interesse e le riserve obbli­ga­to­rie delle ban­che ed immesso una liqui­dità di circa 20 miliardi di dol­lari. Alcuni ana­li­sti hanno usato l’espressione di Quan­ti­ta­tive Easing (Q.E.) alla cinese per indi­care la scelta del governo di Pechino di aumen­tare la liqui­dità del sistema, evi­tando che si inne­sti un pro­cesso defla­zio­ni­stico che por­te­rebbe ad una bru­sca fre­nata dell’economia reale. Ed è qui la que­stione di fondo: il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato non può sop­por­tare una cre­scita lenta o addi­rit­tura la reces­sione.

Secondo David Har­vey, noto geo­grafo ed eco­no­mi­sta inglese, per man­te­nere un livello accet­ta­bile del tasso di pro­fitto medio la cre­scita eco­no­mica glo­bale deve viag­giare ad un tasso medio di almeno il 3 per cento l’anno. E gli Usa da soli non bastano: il ruolo della Cina è cen­trale per il sistema capi­ta­li­stico su scala mon­diale — insieme ad India, Bra­sile e Rus­sia — per man­te­nere alto il livello della domanda aggre­gata a livello globale.

Ma, la Cina per man­te­nere ele­vato il suo tasso di cre­scita avrebbe biso­gno di rilan­ciare la domanda interna, e que­sto richiede una redi­stri­bu­zione della ric­chezza e quindi un altro modello sociale e poli­tico. E’ quello auspi­cato da Jeremy Cor­byn, lea­der emer­gente del par­tito labu­ri­sta inglese, che ha messo al cen­tro del suo pro­gramma elet­to­rale il Q.E. for the peo­ple. Que­stione cen­trale, ine­lu­di­bile, se si vuole affron­tare seria­mente la crisi in corso. La sola immis­sione di liqui­dità in grande quan­tità decisa prima dalla Fed e poi dalla Bce non risolve la crisi da domanda o meglio da sovra­pro­du­zione di cui sof­fre l’economia-mondo. Solo una grande redi­stri­bu­zione della ric­chezza potrebbe risol­le­vare le sorti dell’economia mon­diale, dando la pos­si­bi­lità a cen­ti­naia di milioni di per­sone di acce­dere a beni e ser­vizi essenziali.

Basti pen­sare che 1,2 miliardi di per­sone sono prive di acqua pota­bile e oltre 1,5 miliardi vivono in zone urbane o rurali senza fogne e cana­liz­za­zione delle acque, con con­se­guenti malat­tie (come la dis­sen­te­ria, il colera, il tifo, ecc,) causa prima della mor­ta­lità infan­tile in que­ste aree. Senza con­tare l’alimentazione e i far­maci essen­ziali di cui sono pri­vati circa un quinto degli abi­tanti del nostro pianeta.

Ma, una grande inie­zione di liqui­dità mone­ta­ria a favore delle fasce più deboli della popo­la­zione, clas­sica ricetta key­ne­siana, non può avve­nire pun­tando sola­mente sull’aumento quan­ti­ta­tivo di moneta in cir­co­la­zione. Il motivo è noto: il debito mon­diale — pub­blico e pri­vato — vale più di tre volte il Pil ed in molti paesi indu­stria­liz­zati ha rag­giunto livelli di inso­ste­ni­bi­lità. E la Cina non fa ecce­zione: il solo inde­bi­ta­mento delle imprese pri­vate è pari al 200 per cento del Pil, men­tre quello pub­blico, pur miglio­rando nell’ultimo decen­nio, è pari ad oltre il 120 per cento. In breve, la Cina sof­fre di tutti i mali dell’Occidente con un’aggravante: il modello di neo­li­be­ri­smo auto­ri­ta­rio (spesso con­fuso con il capi­ta­li­smo di Stato) è gui­dato dal più grande par­tito comu­ni­sta del mondo, che ha impe­dito finora l’emergere di una alternativa.

Un modello di svi­luppo che ha por­tato la Cina ad un tasso di cre­scita che non ha uguali nella sto­ria dello svi­luppo eco­no­mico: negli ultimi quin­dici anni il Pil cinese è cre­sciuto del 300 per cento, con un tasso medio annuo di oltre il 10 per cento. E que­sta inso­ste­ni­bile acce­le­ra­zione, come è noto, ha pro­dotto gua­sti sul piano sociale ed ambien­tale che sono stati coperti dalla pol­vere del tasso di cre­scita dell’economia reale.

Come Simone Pie­ranni ed altri hanno spie­gato più volte su que­sto gior­nale, il gruppo diri­gente del Pcc ha un biso­gno vitale di un tasso di cre­scita soste­nuto per man­te­nere il con­senso. Ma, il modello di svi­luppo export orien­ted non basta più: la crisi delle eco­no­mie mature dell’Occidente lo impe­di­sce. Solo la cre­scita del mer­cato interno — che avrebbe un bacino di circa 600 milioni tra con­ta­dini ed ope­rai che vivono sotto la soglia di povertà — potrebbe ancora per­met­tere alla Cina di cre­scere, ma richie­de­rebbe una redi­stri­bu­zione del red­dito che col­pi­rebbe la «classe agiata» cinese che ha un peso rile­vante nello stesso par­tito comunista.

Insomma, per far ripar­tire il paese la Cina avrebbe biso­gno di una inie­zione di socia­li­smo più che di liqui­dità mone­ta­ria. Né più né meno che noi euro­pei. Ormai i prin­ci­pali feno­meni eco­no­mici, sociali ed ambien­tali si pre­sen­tano allo stesso modo in tutti i paesi del mondo: il pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione capi­ta­li­stica si è com­piuto. Il che signi­fica che non è più pos­si­bile spo­stare sulle future gene­ra­zioni il peso della crisi eco­no­mica ed eco­lo­gica. Signi­fica altresì che dob­biamo pun­tare ad un Q.E. for the Peo­ple, ma nel rispetto degli equi­li­bri ambien­tali se non vogliamo cadere in una trap­pola peg­giore. Que­sta potrebbe essere la nuova ban­diera della Sini­stra Europea.

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