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«Il ritorno dei con­fini è un pro­cesso a catena al quale sarà impos­si­bile imporre una qual­che regola comune. E se pure tutti doves­sero accet­tare la loro quota di rifu­giati come si costrin­gerà que­sti ultimi ad accet­tare il posto asse­gnato e rima­nervi impri­gio­nati?».

Il manifesto, 17 settembre 2015 (m.p.r.)

Il trat­tato di Schen­gen è a un passo dalla fine. Non nel senso di una sospen­sione tem­po­ra­nea, ma in quello di una sua defi­ni­tiva sepol­tura più o meno masche­rata. E, venuto meno il diritto alla libera cir­co­la­zione delle per­sone all’interno dell’Unione euro­pea, il passo verso il suo com­pleto disfa­ci­mento è con tutta evi­denza assai breve. I trat­tati euro­pei, come sap­piamo, pre­ve­dono sospen­sioni e dero­ghe in caso di emer­genza, prin­ci­pio a prima vista ragio­ne­vole. Ma l’emergenza è un’espressione tutt’altro che uni­voca. A volte, pur reale, come l’allarme lan­ciato dalle coste medi­ter­ra­nee ita­liane e gre­che, trova ascolto tar­divo e reti­cente, altre volte discende dall’arbitrio di que­sto o quell’interesse nazio­nale, o dall’enfatizzazione stru­men­tale di minacce imma­gi­na­rie. Nel caso della grande ondata migra­to­ria, poi, trat­tan­dosi di un pro­cesso sto­rico di lunga durata (negli Usa c’è chi lo stima a un paio di decenni) tra sospen­sione e abo­li­zione passa ormai poca dif­fe­renza. Il ritorno dei con­fini è un pro­cesso a catena al quale sarà impos­si­bile imporre una qual­che regola comune. E se pure tutti doves­sero accet­tare la loro quota di rifu­giati come si costrin­gerà que­sti ultimi ad accet­tare il posto asse­gnato e rima­nervi impri­gio­nati?

Dopo il nulla di fatto del ver­tice Ue di lunedì, l’appuntamento è fis­sato al 22 di set­tem­bre. Il tempo stringe, nel giro di pochi giorni può acca­dere let­te­ral­mente di tutto. Com­presa l’eventualità che i sol­dati di Orban comin­cino a spa­rare sui pro­fu­ghi che ten­tano di sot­trarsi alla cat­tura. Già siamo oltre l’immaginabile quando un paese dell’Unione schiera tri­bu­nali da campo e giu­dici da bat­ta­glia lungo la fron­tiera per eser­ci­tare «giu­sti­zia» som­ma­ria sui migranti. Se un nazio­na­li­smo sem­pre più inca­ro­gnito regna incon­tra­stato in buona parte delle discu­ti­bili «demo­cra­zie post­co­mu­ni­ste», anche a occi­dente prio­rità e inte­ressi nazio­nali si fanno peri­co­lo­sa­mente strada. La «gene­ro­sità» del governo di Ber­lino, subito cele­brata come un ritro­vato pri­mato morale della Ger­ma­nia, lascia rapi­da­mente il passo a un «ordi­nato» pro­cesso di assor­bi­mento secondo i ritmi e le neces­sità della mac­china eco­no­mica tede­sca. Que­sto signi­fica fron­tiere sotto stretto con­trollo e un capil­lare sistema di fil­trag­gio nei paesi di con­fine tra l’Europa e le terre del caos.

Sistema cui è stato con­fe­rito il nome civet­tuolo di hotspot. Men­tre l’Unione regre­di­sce verso un mer­cato comune, peral­tro for­te­mente squi­li­brato, le sovra­nità nazio­nali si dedi­cano, una dopo l’altra, certo con stru­menti e reto­ri­che diverse, a edi­fi­care i pro­pri muri legi­sla­tivi e fisici. E le bar­riere non si situano esclu­si­va­mente ai con­fini dell’Unione. Prima l’euroscettica Gran Bre­ta­gna mani­fe­sta l’intenzione di sfol­tire i cit­ta­dini comu­ni­tari che la popo­lano e vi lavo­rano, poi la Corte di giu­sti­zia euro­pea auto­rizza la Ger­ma­nia a negare pre­sta­zioni e sus­sidi ai cosid­detti «turi­sti del wel­fare» e cioè a quei pre­cari che si spo­stano nell’area Schen­gen verso i paesi in cui l’intermittenza del lavoro non equi­vale a indi­genza asso­luta. Ma Ber­lino non si accon­tenta della sen­tenza favo­re­vole e vor­rebbe rimuo­vere anche le poche limi­ta­zioni che la Corte pone all’estromissione dal sistema pre­vi­den­ziale. Infine c’è chi vor­rebbe esclu­dere i pro­fu­ghi dal sala­rio minimo per favo­rire l’impiego dei meno qua­li­fi­cati. Per for­tuna tanto la Spd, quanto la cen­trale sin­da­cale Dgb si oppon­gono non tanto per il dichia­rato intento egua­li­ta­rio, quanto nel timore di una com­pe­ti­zione al ribasso sul mer­cato del lavoro.

Ma è noto che il governo fede­rale si pone da tempo l’obiettivo di ren­dere «meno attraente» il sistema di wel­fare tede­sco per smor­zare gli appe­titi dei migranti comu­ni­tari o extra­co­mu­ni­tari che siano. Ciò può essere fatto in due modi. O esclu­dendo i nuovi arri­vati da una serie di diritti e tutele, isti­tuendo di fatto una popo­la­zione di serie B, alla fac­cia di ogni prin­ci­pio e al prezzo di future ten­sioni, oppure limi­tando gli ammor­tiz­za­tori sociali per tutti attra­verso una ulte­riore tor­sione libe­ri­sta della cosid­detta «eco­no­mia sociale di mer­cato». Solu­zione che incon­tre­rebbe però non poche resi­stenze interne. Sono tutti scric­chio­lii che annun­ciano il cedi­mento strut­tu­rale del pro­getto euro­peo.
La crisi greca aveva già asse­stato un duro colpo non solo all’Europa poli­tica, ma anche alla stessa tenuta eco­no­mica e sociale dell’eurozona. Tut­ta­via le mode­ste scher­ma­glie tra fal­chi e colombe più inclini all’opportunismo che ai buoni sen­ti­menti, non aveva intac­cato il qua­dro di una Europa com­ples­si­va­mente acco­data all’egemonia di Ber­lino con­tro le riven­di­ca­zioni stre­nua­mente “euro­pei­ste” del governo di Atene con­dan­nato all’isolamento. Ma non era ancora entrata in scena quella guerra di tutti con­tro tutti, quella dif­fi­denza reci­proca, quel riflesso pro­te­zio­ni­sta, quella chiu­sura iden­ti­ta­ria che la grande ondata dei pro­fu­ghi sem­bra avere inne­scato, can­cel­lando in un bat­ter d’occhio le parole edi­fi­canti di Angela Mer­kel. Il nazio­na­li­smo, come la chiu­sura delle fron­tiere, è un feno­meno alta­mente con­ta­gioso.
C’è da dubi­tare che Ber­lino o Bru­xel­les con­dur­ranno l’Europa ad imporre ai regimi semi­de­mo­cra­tici dell’Est, presso i quali la Ger­ma­nia col­tiva impor­tanti inte­ressi economico-finanziari, un memo­ran­dum poli­tico altret­tanto strin­gente di quello eco­no­mico impo­sto alla Gre­cia. Se non pos­sono essere cac­ciati dall’euro, altri stru­menti di pres­sione sono comun­que dispo­ni­bili. Ma la Can­cel­liera si è affret­tata a pre­ci­sare che in que­sto caso le minacce non sono indi­cate. I soste­ni­tori delle sovra­nità nazio­nali, che da destra e da sini­stra striz­zano l’occhio a Vic­tor Orbán, cer­ta­mente si indi­gne­ranno di fronte all’eventualità di un enne­simo «dik­tat» euro­peo sul diritto di asilo. Sia chiaro però con quali torvi per­so­naggi, con quali con­te­nuti poli­tici, con quali infami ideo­lo­gie si accom­pa­gnano sotto la ban­diera della nazione e con­tro l’integrazione euro­pea. Quanti con­cor­dano impli­ci­ta­mente con l’affermazione di Marine Le Pen secondo cui il discri­mine «non è tra destra e sini­stra, ma tra nazio­na­li­sti e mon­dia­li­sti» si espri­mano infine con altret­tanta chia­rezza. Sapremo così con chi abbiamo a che fare.

Il manifesto, 16 settembre 2015 (m.p.r.)

Lo sgam­betto con cui la cro­ni­sta unghe­rese Petra Laszlo ha but­tato a terra un pro­fugo siriano che por­tava il pro­prio figlio in salvo da una guerra mai dichia­rata è un’immagine pla­stica del cini­smo e della cru­deltà che domina le poli­ti­che dell’Unione Euro­pea e tra­duce a livello indi­vi­duale la bru­ta­lità con cui i suoi gover­nanti hanno cer­cato di inter­rom­pere la corsa del governo Tsi­pras per por­tare in salvo il popolo greco da un disa­stro di cui non porta alcuna respon­sa­bi­lità. Un acco­sta­mento non casuale: l’Unione Euro­pea non sarà mai in grado di acco­gliere milioni di pro­fu­ghi fino a che negherà diritti e imporrà solo doveri ai popoli dei suoi stati peri­fe­rici. Quel padre poi si è rial­zato e ha con­ti­nuato la sua corsa, men­tre non sap­piamo ancora se Tsi­pras riu­scirà a fare altrettanto.

In entrambi i casi, accanto a cini­smo e cru­deltà, balza evi­dente l’impotenza dell’Europa, che non ha solu­zioni di lungo ter­mine per sot­trarre la Gre­cia e gli altri paesi troppo inde­bi­tati al disa­stro finan­zia­rio, ma anche sociale e ambien­tale, a cui li con­dan­nano le sue poli­ti­che; ma non ha nem­meno idea di come affron­tare lo «tsu­nami» di pro­fu­ghi che la sta inve­stendo e che rischia di por­tarla alla dis­so­lu­zione. Con le sue pro­messe Angela Mer­kel ha cer­cato di resti­tuire dignità all’immagine della Ger­ma­nia, per­met­tendo così a migliaia di cit­ta­dini di dar prova di una soli­da­rietà straordinaria.

Ma ha sot­to­va­lu­tato sia le dimen­sioni effet­tive dei flussi che avreb­bero inve­stito il paese, sia le resi­stenze degli altri part­ner euro­pei: la deci­sione sulle «quote» di pro­fu­ghi è stata riman­data sine die; le fron­tiere interne tor­nano a chiu­dersi in barba a Schen­gen, sca­ri­cando tutto il peso su Ita­lia e Gre­cia, che dovreb­bero invece farsi carico fin da subito delle richie­ste di asilo e dei respin­gi­menti. E men­tre il governo unghe­rese imper­versa impu­nito con le bar­riere di filo spi­nato e arre­stando cen­ti­naia di pro­fu­ghi che cer­cano solo di attra­ver­sare il paese, l’Unione approva la «guerra agli sca­fi­sti», che è una guerra vera.

Una guerra fatta per respin­gere pro­fu­ghi e migranti nel deserto che hanno dovuto attra­ver­sare, dove sono stati rapi­nati e vio­lati, e da cui cer­che­ranno comun­que di tor­nare a imbar­carsi per altre vie.

A que­sta ban­ca­rotta delle poli­ti­che euro­pee – niente aveva finora diviso così pro­fon­da­mente gli Stati mem­bri e anche il nesso tra «crisi dei pro­fu­ghi» e rating dei debiti sovrani non è sfug­gito all’occhio vigile dell’alta finanza — occorre saper con­trap­porre un’alternativa pra­ti­ca­bile. Quei pro­fu­ghi, aumen­te­ranno comun­que, per­ché guerre, dit­ta­ture, mise­ria e fero­cia che sono andati cre­scendo ai con­fini diretti e indi­retti dell’Unione dure­ranno per anni, e si aggra­ve­ranno ogni volta che si cer­cherà di venirne a capo con altre guerre. Ma se la Ger­ma­nia ha forza e mezzi per soste­nerne l’urto e rica­varne dei bene­fici di lungo ter­mine, gli altri paesi dell’Unione no. Manca, per gli Stati più fra­gili, una poli­tica euro­pea di acco­glienza, che vuol dire dare casa lavoro, for­ma­zione, red­dito per milioni di pro­fu­ghi desti­nati a restare sul suolo euro­peo per anni, per­ché l’Unione, con le poli­ti­che di auste­rità da cui non deflette, non è più in grado di offrire quelle stesse cose a decine di milioni di suoi cit­ta­dini che ne sono stati pri­vati dalla crisi, o ne sono privi da ancor prima. E certo non può dare ai nuovi arri­vati ciò che non vuol dare a chi ne è privo da tempo.

Ma acco­gliere è indi­spen­sa­bile: quel flusso di pro­fu­ghi non si fer­merà per quanti sforzi si fac­ciano per tra­sfor­mare l’Europa in for­tezza: sia con le armi che con l’ipocrita distin­zione tra pro­fu­ghi (da acco­gliere) e migranti (da respin­gere). Pre­li­mi­nare a ogni poli­tica di acco­glienza è l’istituzione di cor­ri­doi uma­ni­tari che evi­tino ai pro­fu­ghi di rischiare la vita e di con­se­gnare agli sca­fi­sti di mare e di terra migliaia e migliaia di euro cia­scuno. E’ ciò di cui non si vuole mai par­lare. Ma acco­gliere signi­fica poi inse­rire i nuovi arri­vati nella società, e farli accet­tare a una comu­nità ridu­cendo al mas­simo quel senso di un’intrusione che tante forze poli­ti­che ali­men­tano per rica­varne un divi­dendo elet­to­rale. Non è un’operazione solo eco­no­mica, anche se tro­var casa e lavoro ha dei costi molto alti, i cui ritorni, come sanno gli indu­striali tede­schi, sono rile­vanti, arri­vano solo nel tempo. Chi lo può fare? Non certo il «mer­cato», cioè il sistema pro­dut­tivo così com’è oggi, spe­cial­mente al di fuori della Ger­ma­nia. Ma nem­meno gli appa­rati sta­tali, per­ché è un’operazione deli­cata che ha biso­gno, anche, di «calore umano»: un bene che la buro­cra­zia non può elar­gire se non per caso.

Affron­tare in modo buro­cra­tico que­sto com­pito è il modo migliore per far cre­scere la con­flit­tua­lità sociale. Meno che mai lo si può lasciare, come si fa in Ita­lia, alla spon­ta­neità di un «pri­vato», sociale e non, reclu­tato a casac­cio, in modo clien­te­lare o mafioso, da pre­fet­ture o ammi­ni­stra­zioni comu­nali, che ha deva­stato imma­gine e repu­ta­zione del terzo set­tore. L’accoglienza, in que­sta acce­zione, è la mis­sione spe­ci­fica e inso­sti­tui­bile dell’economia sociale e soli­dale. Nessun’altra com­po­nente della società euro­pea è in grado di abbi­nare, sulla base di espe­rienze con­so­li­date, inse­ri­mento lavo­ra­tivo e inse­ri­mento sociale con pro­getti mirati. Per que­sto occorre che insieme, e non in ordine sparso, le reti dell’economia sociale e soli­dale (SSE) dei paesi dell’Unione si can­di­dino al ruolo di sog­getto pro­mo­tore e attua­tore di quel pro­gramma plu­rien­nale di acco­glienza che è indi­spen­sa­bile per affron­tare un com­pito di que­sta por­tata. Il 28 gen­naio 2016, su ini­zia­tiva del gruppo par­la­men­tare GUE/Ngl e di molte reti dei paesi dell’Unione, si terrà un Forum euro­peo dell’economia sociale e soli­dale (una riu­nione pre­pa­ra­to­ria si è già tenute il 3 settembre).

Sarà un’occasione, pre­pa­ran­dola per tempo, per lan­ciare que­sta can­di­da­tura, che dovrà sostan­ziarsi fin da ora in pro­getti spe­ci­fici, nazio­nali, ter­ri­to­riali e set­to­riali. Ma per farlo occor­rono alcune con­di­zioni preliminari:

1. Biso­gna, soprat­tutto in Ita­lia — ma la dimen­sione euro­pea può aiu­tarci — rico­struire un’immagine decente del terzo set­tore, che oggi è in gran parte mac­chiata dalle vicende di Buzzi, Cara Mineo e Co. Le com­po­nenti sane del terzo set­tore devono denun­ciare senza remore gli epi­sodi di malaf­fare, ma anche di clien­te­li­smo, di cui sono a cono­scenza; a par­tire dai pro­pri, che non man­cano — quasi — mai. Essen­ziale è garan­tire un regime di tra­spa­renza totale su tutte le attività.

2. Occorre met­tere a punto in tempi rapidi i prin­cipi gene­rali e gli stru­menti attua­tivi di un piano euro­peo di acco­glienza e inse­ri­mento sociale e lavo­ra­tivo dei nuovi arrivi con stan­dard con­di­visi da tutti i paesi.

3. Occorre indi­vi­duare i set­tori in cui dovrà ope­rare que­sto piano che, per le sue fina­lità di inte­gra­zione sociale, dovrà riguar­dare in egual misura pro­fu­ghi, migranti e cit­ta­dini euro­pei senza lavoro, senza casa o senza reddito.

4. Quei set­tori sono quelli por­tanti delle con­ver­sione eco­lo­gica che la COP 21 di Parigi dovrebbe met­tere all’ordine del giorno a fine anno: ener­gie rin­no­va­bili ed effi­cienza ener­ge­tica; agri­col­tura eco­lo­gica, soprat­tutto nelle terre oggetto di abban­dono o degrado; sal­va­guar­dia degli assetti idro­geo­lo­gici; recu­pero e ristrut­tu­ra­zione di edi­fici dismessi o non a norma (a par­tire da quelli in cui potranno essere ospi­tati migranti e sen­za­tetto); gestione e recu­pero di scarti e rifiuti; ser­vizi alla per­sona. 4. Il piano dovrà essere accom­pa­gnato da una stima gene­rale dei costi.

Che non sono solo quelli degli inve­sti­menti pro­dut­tivi per «met­tere al lavoro» milioni di per­sone, ma anche quelli rela­tivi a tutti gli altri aspetti del loro inse­ri­mento. L’economia sociale e soli­dale non deve più essere un modo, come spesso accade, soprat­tutto in Ita­lia, per rispar­miare sui costi del lavoro. Deve mirare, al con­tra­rio, ad incor­po­ra­rere molti altri oneri di carat­tere sociale.

Ovvia­mente non ci si può aspet­tare che l’Unione o qual­che suo Stato mem­bro risponda posi­ti­va­mente a que­sta pro­po­sta domani; ma è impor­tante che essa venga sot­to­po­sta a un pub­blico con­fronto per­ché è l’unica in grado di affron­tare in modo ade­guato i pro­blemi posti dai nuovi flussi di pro­fu­ghi. E l’«opinione pub­blica» oggi è in gran parte con noi.

Il testo integrale dell'articolo di Guido Viale è stato pubblicato su eddyburg col titolo L'Europa rifondata

Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2015

Mohammed conta i passi che lo separano dall’Austria. È partito all’alba dalla stazione di Hegyeshalom, in Ungheria. Il confine dista quattro chilometri, una passeggiata, per chi come lui ha le gambe buone. «Mi hanno rilasciato ieri, dopo 12 giorni in un carcere vicino Budapest» racconta mentre continua a guardarsi le spalle. «Com’è la polizia alla frontiera? E in Austria? Ci faranno passare senza problemi?». Arrestato nella stazione di Budapest, Mohammed porta sul collo i lividi di cinque dita della polizia ungherese. Parla un ottimo inglese, ma dice di non aver capito le accuse contro di lui. «Mi hanno chiesto di pagare mille euro –spiega senza nascondere la rabbia – per lasciarmi andare. Mi hanno fatto una multa, trattato come un criminale. Vengo da Homs e sto solo andando verso un posto sicuro». Appena arrivato al campo di Nickelsdorfs chiede in prestito un cellulare e chiama gli amici ancora in cella: «Il confine è tranquillo, appena uscite correte qui».

Intanto al campo si è sparsa la notizia che Budapest ha iniziato ad arrestare i profughi. Alla mezzanotte di martedì è entrato in vigore il reato di clandestinità. Tutti gli stranieri in Ungheria senza permesso di soggiorno, rischiano fino a tre anni di carcere. Al confine con la Serbia le forze dell’ordine hanno arrestato quasi 180 persone, 16 nella sola notte di martedì. E se sulla frontiera nord la polizia scorta le colonne di migliaia di profughi in marcia, per farli arrivare più velocemente in territorio austriaco, a sud il confine con la Serbia viene blindato. Filo spianato e migliaia di uomini delle forze dell’ordine a presidiarlo. Questo fa desistere tante famiglie, ma i giovani sono pronti a saltare le reti, alte due metri.
La chiusura dell’Ungheria sta portando a un veloce cambio delle rotte dei profughi. Entrati in Serbia dalla Macedonia, i rifugiati deviano per la Croazia e poi per la Slovenia, arrivando così al confine austriaco. Vienna sta già studiando delle contromisure e in una lettera inviata dal ministero dell’interno alla Commissione Europea suggerisce che i punti nodali dei controlli sulle frontiere dovranno essere sui confini con Ungheria, Italia, Slovenia e Slovacchia. Secondo i dati di Budapest, confermati anche dall’Unione Europea, nel 2015 sono entrati in Ungheria circa 200mila profughi, 500mila in tutta l’Eurozona. Nel 2014 il totale degli arrivi non ha superato le 240mila persone.
Con la chiusura di ieri notte i rifugiati che vorranno transitare in Ungheria dovranno fare richiesta di asilo. «Un procedimento – ha comunicato un rappresentante del governo – che può durare minuti oppure ore, ogni caso è diverso». «La Serbia è un paese sicuro» ha detto il primo ministro Viktor Orban indicando così l’intenzione di rimandare a Belgrado i profughi. La Serbia ha già risposto che non accetterà alcun rinvio. Berlino tenta di coinvolgere i paesi di arrivo dei rifugiati . «È urgente che la Grecia, e anche l’Italia, facciano subito gli hotspot», ha detto Angela Merkel in una conferenza stampa congiunta con il cancelliere austriaco Werner Faymann, «altrimenti – ha sottolineato – non sarà possibile distribuire i migranti in modo equo». Per adesso la cancelliera ha ottenuto la ricollocazione di 40mila profughi, nemmeno il 10 per cento di quelli arrivati nei primi nove mesi di quest’anno.
«La svolta Labour. “Bisognerà avere pazienza, ma i morti viventi sono stati sconfitti. La politica inglese è tornata finalmente a vivere”».

Il manifesto, 15 settembre 2015 (m.p.r.)

Le iro­nie della sto­ria non man­cano mai di sor­pren­dere. Con qual­siasi cri­te­rio lo si misuri, Jeremy Cor­byn è il lea­der più di sini­stra nella sto­ria del Labour party. Capi­sce che chi fa male fuori non potrà fare molto meglio a casa.

Tra i mem­bri del par­la­mento è l’antimperialista più con­vinto. La prova è il para­gone con gli ante­nati poli­tici. Il socia­li­smo di Keir Har­die anna­spava nei campi di bat­ta­glia della prima guerra mon­diale. Cle­ment Attlee è stato un grande rifor­ma­tore sul piano interno, ma su quello esterno il suo governo approvò il bom­bar­da­mento nucleare di Hiro­shima e Naga­saki. Harold Wil­son redi­stri­buì la ric­chezza ma appog­giò gli Stati uniti in Viet­nam. Come lea­der dell’opposizione, Michael Foot fu un acca­nito sup­por­ter della guerra mossa da Mar­ga­ret That­cher per recu­pe­rare le Malvinas/Falkland.

I gemelli that­che­riani Blair-Brown si accor­da­rono per divi­dersi il potere creando due cor­renti affa­mate di potere con nes­suna dif­fe­renza poli­tica tranne che la fame di Tony Blair era diretta sia al potere che ai soldi. Blair ci ha dato le guerre nell’ex Jugo­sla­via e in Iraq, men­tre Gor­don Brown era ignaro della vul­ne­ra­bi­lità del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e spese miliardi di ster­line del con­tri­buente sal­vando ban­che che, una volta pagati i depo­siti, sarebbe stato molto meglio lasciar schiattare.

Entrambi hanno buro­cra­tiz­zato il Labour party neu­tra­liz­zan­done i con­gressi, ridu­cen­dolo a una copia appic­ci­cosa dei Demo­cra­tici ame­ri­cani: tutto show, nes­suna sostanza. Hanno tolto alle sezioni labu­ri­ste locali il diritto a sce­gliere i pro­pri can­di­dati per il par­la­mento, il solo modo per tra­sfor­mare un grande pezzo del Par­lia­men­tary Labour Party (Plp) in una col­le­zione di ragazzi e ragazze d’ufficio super-pubblicizzati insieme a camio­nate di carrieristi.

Tre di loro si sono esi­biti rego­lar­mente nella cam­pa­gna per la suc­ces­sione di un altro della loro cer­chia, Ed Mili­band. La cosa iro­nica è che la riforma del sistema elet­to­rale di par­tito voluta da Mili­band era dise­gnata per pla­care i Blai­riti e i loro com­pa­gni nei media attra­verso l’eliminazione dal par­tito del resi­duo potere del sin­da­cato e l’apertura agli outsi­der, nella mal­de­stra spe­ranza che un elet­to­rato più con­ge­niale avrebbe assi­cu­rato agli estre­mi­sti di cen­tro il domi­nio delle pro­prie politiche.

Erano così fidu­ciosi che un pugno di Blai­riti ha dato a Cor­byn i voti par­la­men­tari neces­sari per eleg­gerlo e rap­pre­sen­tare la sini­stra pur­ché sim­bo­lica, testi­mo­niando così la gene­ro­sità del par­tito e il suo rispetto per la diver­sità. Chi avrebbe mai pen­sato a un ritorno di fiamma così sen­sa­zio­nale? Cer­ta­mente non Cor­byn. E nes­sun altro. Il Guar­dian si è schie­rato per Yvette Coo­per, men­tre i suoi edi­to­ria­li­sti blai­riti denun­cia­vano il dino­sauro di Isling­ton – scor­dando che i più gio­vani amano i dino­sauri e sen­tono la man­canza della spe­cie. Il Daily Mir­ror si è schie­rato per Andy Burnham.

Nes­suno che abbia mai visto o sen­tito Cor­byn può dubi­tare della sua auten­ti­cità. Ho con­di­viso con lui nume­rose piat­ta­forme negli ultimi quarant’anni. Negli argo­menti chiave è sem­pre rima­sto costante. Ciò che è pia­ciuto ai gio­vani, che hanno tra­sfor­mato la sua cam­pa­gna in un movi­mento sociale, è pre­ci­sa­mente ciò che ha sov­ver­tito i tra­di­zio­nali cli­ché poli­tici e media­tici. Cor­byn è stato schietto, discor­sivo, molto di sini­stra, vuole inver­tire le pri­va­tiz­za­zioni delle fer­ro­vie e dei ser­vizi ecce­tera. Molti che si sono regi­strati per votarlo l’hanno fatto per que­sto, e per rom­pere con il blando, poco fan­ta­sioso e privo di visione New Labour.

Cor­byn ha sot­to­sti­mato i cam­bia­menti in Sco­zia, ma que­sto in effetti ha aiu­tato la sua cam­pa­gna. La coorte di par­la­men­tari dello Scot­tish natio­nal party che vuole affos­sare la super­flui e costosi mis­sili Tri­dent, l’elettrizzante discorso d’esordio della ven­tenne Mhairi Black che ha sfi­dato i Tories… Tutto ciò ha aiu­tato la cam­pa­gna di Cor­byn. Se fun­ziona in Sco­zia, per­ché non in Inghilterra?

Dopo che ll Labour ha eletto il loro lea­der più di sini­stra, la stra­grande mag­gio­ranza del gruppo par­la­men­tare labu­ri­sta è nella stretta mor­tale della destra. Chiun­que abbia ascol­tato l’intervento di Sadiq Khan dopo essere stato scelto dal Labour come can­di­dato sin­daco di Lon­dra si è accorto della dif­fe­renza con la cam­pa­gna di Cor­byn. Gli argo­menti di Khan erano tutti pun­tati su quanto iso­lato sarebbe stato Cor­byn nel Plp.

Cor­byn chie­derà al par­tito di unirsi die­tro di lui. Ma non c’è modo di elu­dere il fatto che la mag­gio­ranza del Plp si oppone alle sue poli­ti­che. Credo che cer­che­ranno di for­zarlo a un com­pro­messo dopo l’altro con l’intento di scre­di­tarlo (su modello di Ale­xis Tsi­pras in Gre­cia), ma dubito che pos­sano avere successo.

Cor­byn com­prende gli argo­menti chiave sui quali non è pos­si­bile alcun com­pro­messo. Ci ha fatto cam­pa­gna sopra abba­stanza a lungo. La sua vici­nanza all’agenda dei Verdi non è un segreto, e il solo par­la­men­tare dei Verdi adesso ha nel nuovo lea­der labu­ri­sta un solido soste­ni­tore. Ripren­dersi i tra­sporti pub­blici dagli spe­cu­la­tori è un altro ele­mento. Un’edilizia pub­blica a buon mer­cato per i gio­vani e gli anziani aiuta a rico­struire le comunità.

Un robu­sto regime fiscale che inverta decenni di pri­vi­legi accor­dati ai ric­chi sca­te­nerà la furiosa offen­siva della City, dei suoi media e dei suoi acco­liti poli­tici, ma è con­si­de­rata asso­lu­ta­mente neces­sa­ria. Fin dalla fine degli anni Set­tanta, la redi­stri­bu­zione della ric­chezza a favore dei ric­chi e dei più ric­chi ha con­ti­nuato a cre­scere in Gran Bre­ta­gna, in modo supe­riore a tutti I paese dell’Organizzazione per la coo­pe­ra­zione e lo svi­luppo eco­no­mico (Ocse). Cor­byn non è inte­res­sato al potere per sé o per aumen­tare il suo per­so­nale patrimonio.

Insieme al Par­tito Cor­byn può dav­vero ripor­tare in auge la demo­cra­zia. É l’unico modo per chi sostiene i Labour, di ritro­varsi rap­pre­sen­tati pro­pria­mente in par­la­mento. Ma niente di tutto que­sto sarà facil­mente rea­liz­za­bile, per que­sto è fon­da­men­tale che ci sia un movi­mento potente fuori dal par­la­mento; è l’unico modo per assi­cu­rare che l’agenda di Cor­byn possa essere pie­na­mente onorata.

Niente può acca­dere nel giro di una notte: biso­gna essere pazienti. Alcuni mem­bri labu­ri­sti del par­la­mento diser­te­ranno. Dopo tutto, ave­vano soste­nuto, con­vinti, le misure di auste­rity. Ma ormai sarà impos­si­bile, per­fino per l’auto cen­sura della Bbc, tenere fuori dagli schermi il nuovo lea­der Labour. I morti viventi hanno perso. La poli­tica inglese è tor­nata a vivere.

L’Europa si gioca la pro­pria cre­di­bi­lità. Non pos­siamo rima­nere impas­si­bili quando la morte incombe quo­ti­dia­na­mente sulle nostre spiagge, men­tre migliaia di fami­glie che fug­gono dalla guerra in Africa, Medio Oriente e Asia Cen­trale si ammas­sano nei porti, nelle sta­zioni, nei treni e nelle strade in attesa di una rispo­sta uma­ni­ta­ria da parte dell’Europa.

Siamo respon­sa­bili di fronte ai nostri cit­ta­dini che esi­gono da noi misure urgenti e pon­gono a nostra dispo­si­zione le risorse e i mezzi per faci­li­tare l’accoglienza. Siamo respon­sa­bili di fronte ai paesi limi­trofi che accol­gono rifu­giati molto oltre le pro­prie pos­si­bi­lità — solo in Libano ci sono 1,1 milioni di rifu­giati, ovvero il 25% della popo­la­zione del paese. Siamo respon­sa­bili di fronte all’idea stessa che ha fatto nascere l’Europa, fon­data sulle ceneri della Seconda Guerra Mon­diale, sulla ver­go­gna dell’olocausto e sulla scon­fitta dei fasci­smi, per assi­cu­rare un futuro di pace, pro­spe­rità e fra­ter­nità per le future gene­ra­zioni. Dob­biamo essere all’altezza della pro­messa fatta di fronte al nostro con­ti­nente in rovina: «Mai più».

La nostra mag­gior respon­sa­bi­lità è di fronte al genere umano. Se con­ti­nuiamo ad alzare muri, chiu­dere fron­tiere, lasciando il lavoro sporco ad altri stati per­ché siano loro a fare da gen­darmi delle nostre fron­tiere, che mes­sag­gio lan­ciamo al mondo? Che volto dell’Europa riflette que­sto Mare Medi­ter­ra­neo coperto da corpi senza vita?

Noi, le città euro­pee, siamo pronte a diven­tare luo­ghi d’accoglienza. Noi, le città euro­pee, vogliamo dare il ben­ve­nuto ai rifu­giati e alle rifu­giate. Sono gli Stati a rico­no­scere lo sta­tuto d’asilo, ma sono le città a dare soste­gno. Sono i muni­cipi lungo le fron­tiere, come le isole di Lam­pe­dusa, Kos e Lesbos, i primi a rice­vere i flussi delle per­sone rifu­giate; e sono i muni­cipi euro­pei che dovranno acco­gliere que­ste per­sone e garan­tir­gli di poter ini­ziare una vita, lon­tano dai peri­coli da cui sono riu­sciti a scappare.

Per ciò dispo­niamo di spa­zio, ser­vizi e, la cosa più impor­tante, della volontà dei cit­ta­dini di farlo. I nostri ser­vizi muni­ci­pali stanno già lavo­rando in piani di acco­glienza per assi­cu­rare pane, tetto e dignità a chi fugge dalla guerra e dalla fame. Manca solo l’aiuto degli Stati.

Come sostiene UNGHR, siamo di fronte alla più grande crisi di rifu­giati fin dalla fine della Seconda Guerra Mon­diale. Da Voi, governi degli Stati e dell’Unione Euro­pea, dipende che que­sta crisi uma­ni­ta­ria non si tra­sformi in una crisi di civiltà, una crisi dei valori fon­da­men­tali delle nostre demo­cra­zie. Durante anni, i governi euro­pei hanno desti­nato la mag­gio­ranza dei fondi per l’asilo e le poli­ti­che migra­to­rie a blin­dare le nostre fron­tiere, con­ver­tendo l’Europa in una fortezza.

Que­sta poli­tica sba­gliata è la causa del fatto che il Medi­ter­ra­neo si sia con­ver­tito in una tomba per migliaia di rifu­giati che pro­vano ad avvi­ci­narsi e con­di­vi­dere la nostra libertà. È venuto il momento di cam­biare le prio­rità: desti­nare i fondi neces­sari per garan­tire l’accoglienza dei rifu­giati in tran­sito, appog­giare con risorse le città che si sono offerte come luo­ghi di rifu­gio. Non è il momento delle parole e dei discorsi vuoti, è il momento di agire.

Ieri si è svolto a Bru­xel­les il sum­mit dei Mini­stri degli Interni e di Giu­sti­zia dei paesi mem­bri della Ue per discu­tere la crisi dei rifu­giati. Abbiamo chie­sto loro di non girare le spalle alle città, di ascol­tare il cla­more che si alza nelle nostre strade. Abbiamo biso­gno dell’appoggio e la coo­pe­ra­zione degli Stati, dell’Unione Euro­pea e delle isti­tu­zioni inter­na­zio­nali per assi­cu­rare l’accoglienza.

È tempo di costruire la sto­ria di un’Europa per la quale essere rico­no­sciuti dal resto dei popoli del mondo e ricor­dati dalle gene­ra­zioni che ver­ranno. Non lascia­teli soli, non lascia­teci sole.

Ada Colau sin­daca di Bar­cel­lona
Anne Hidalgo sin­daca di Parigi
Spy­ros Gali­nos sin­daco di Lesbo

Giusi Nico­lini sin­daca di Lampedusa

Hanno inol­tre ade­rito al mani­fe­sto Manuela Car­mena, sin­daca di Madrid; Xulio Fer­reiro, sin­daco di La Coruña; José María Gon­zá­lez, “Kichi”, sin­daco di Cadice; Mar­tiño Noriega, sin­daco di San­tiago de Com­po­stela, Pedro San­ti­steve, sin­daco di Saragozza.

Consiglio dei ministri degli Interni a Bruxelles. Le quote sfumano, i reticenti alzano la voce. Molti paesi seguono la Germania e ripristinano le frontiere. Aut aut a Italia e Grecia: hotspot e controlli nel paese di primo arrivo, poi (forse) la redistribuzione. Intanto c'è il via alla fase 2 della missione navale che permette attacchi agli scafisti. Il manifesto, 15 settembre 2015

La libera cir­co­la­zione rischia di venire tra­volta dal panico in cui sta cadendo la Ue in que­ste ore. I mini­stri degli Interni dei 28 paesi Ue met­tono la sor­dina sulle “quote obbli­ga­to­rie”, men­tre la Ger­ma­nia, dome­nica, seguita ieri da Austria, Slo­vac­chia, Repub­blica ceca e nel tardo pome­rig­gio anche dall’Olanda, ha sospeso Schen­gen rista­bi­lendo i con­trolli alle fron­tiere. Polo­nia e Bel­gio potreb­bero fare la stessa scelta nelle pros­sime ore. Il mini­stro degli Interni fran­cese, Ber­nard Caze­neuve, si piega alle richie­ste delle destre e afferma da Bru­xel­les che “sono già state dispo­si­zioni” per ripri­sti­nare i con­trolli alla fron­tiera con l’Italia “se si ripe­terà una situa­zione simile a quella di alcune set­ti­mane fa” (a Ven­ti­mi­glia), ma giu­dica “stu­pido” fare la stessa cosa al con­fine con la Ger­ma­nia. L’Ungheria da oggi impone lo stato d’emergenza, con l’arresto per chi entra ille­gal­mente, l’utilizzazione di con­tai­ners per ospi­tare i tri­bu­nali alla fron­tiera con la Ser­bia che giu­di­cano senza la pre­senza di inter­preti i pro­fu­ghi trat­tati come cri­mi­nali, richiusi in campi di detenzione.

La deci­sione più con­creta di ieri, presa in mat­ti­nata prima dell’incontro dei mini­stri degli Interni (e della Giu­sti­zia) a Bru­xel­les, è stato il varo della fase 2 della mis­sione navale EuNa­v­For­Med, che per­mette l’uso della forza con­tro gli sca­fi­sti. Le ope­ra­zioni dovreb­bero par­tire da ini­zio otto­bre. Per la redi­stri­bu­zione dei pro­fu­ghi, invece, i mini­stri degli Interni si riu­ni­scono di nuovo l’8–9 otto­bre, ma già si parla di “fles­si­bi­lità” nell’applicazione del ricol­lo­ca­mento dei 120mila del piano Junc­ker. Se i bloc­chi con­ti­nuano, dovrà venire con­vo­cato un ver­tice dei capi di stato e di governo, che rischia di san­cire la frat­tura che ormai mina la Ue.

Fran­cia e Ger­ma­nia, che cer­cano di man­te­nere una par­venza di unione anche se la deci­sione di Ber­lino di sospen­dere Schen­gen è stata accolta come una sberla da Parigi, chie­dono “imme­dia­ta­mente” l’apertura di hotspots in Ita­lia e Gre­cia (e Unghe­ria, ma Orban si autoe­sclude), e affer­mano che faranno un forte “pres­sing” sui part­ner. Per Fra­nçois Hol­lande, “far rispet­tare le fron­tiere esterne è la con­di­zione per poter acco­gliere degna­mente i rifu­giati”. Il mini­stro degli Interni della Baviera, Joa­chim Herr­mann, che non rispar­mia cri­ti­che a Mer­kel per aver inci­tato i pro­fu­ghi a venire in Ger­ma­nia, punta il dito con­tro Ita­lia e Gre­cia, paesi di primo arrivo, secondo lui respon­sa­bili del “caos”.

In pra­tica, riprende alla grande nella Ue lo sca­ri­ca­ba­rile dei pro­fu­ghi. Ange­lino Alfano chiede che “i rim­pa­tri” ven­gano orga­niz­zati da Fron­tex “con i soldi Ue”. Bru­xel­les pro­mette che “gli stati invie­ranno subito fun­zio­nari di col­le­ga­mento” per aiu­tare i paesi di primo arrivo a fare la distin­zione tra chi ha diritto all’asilo e chi deve venire espulso. Caze­neuve parla di “uma­nità e respon­sa­bi­lità”, spe­rando di con­vin­cere i reti­centi alla distri­bu­zione. Per il momento, c’è il pro­gramma pre­sen­tato a giu­gno, per la ricol­lo­ca­zione di 40mila per­sone (con offerte solo “volon­ta­rie” per ricol­lo­care 24mila per­sone già pre­senti in Ita­lia e 16mila che sono in Gre­cia), men­tre è sem­pre in alto mare il mec­ca­ni­smo di ripar­ti­zione per “quote” di altri 120mila. Nei fatti, gli arrivi delle ultime set­ti­mane ren­dono ormai cadu­che que­ste cifre, infe­riori di molto alla realtà. La Com­mis­sione ha messo nel cas­setto la minac­cia di multe per chi non par­te­cipa alla redistribuzione.

Le richie­ste dell’Onu, ancora riba­dite ieri, per “quote obbli­ga­to­rie” e gli appelli della Com­mis­sione a favore di una solu­zione “comune” rischiano di cadere nel vuoto, cosi’ come l’allarme del gruppo S&D: “la poli­tica comune di immi­gra­zione e asilo è l’unica strada per sal­vare l’Europa dalla disin­te­gra­zione”. La posi­zione tede­sca si è di fatto inde­bo­lita, con il vol­ta­fac­cia di Angela Mer­kel di dome­nica, anche se sem­bra fosse desti­nato a far pres­sione sull’est reti­cente. Il por­ta­voce di Mer­kel, Stef­fen Stei­bert, assi­cura che rimet­tere i con­trolli alle fron­tiere “era neces­sa­rio, ma nulla cam­bia” nella poli­tica di acco­glienza di Ber­lino. Per il mini­stro degli Interni, Tho­mas de Mai­zière, deve essere pero’ chiaro che “i richie­denti asilo devono accet­tare il fatto che non pos­sono sce­gliere il paese euro­peo a cui chie­dere pro­te­zione”. Per il mini­stro degli Esteri polacco, Rafal Trza­sko­w­ski, “l’Europa rischia una crisi isti­tu­zio­nale se impone quote obbli­ga­to­rie”, impe­gno ormai sfu­mato nei docu­menti di Bru­xel­les. Il fronte del “no” al piano Junc­ker sulla ridi­stri­bu­zione dei 120mila pro­fu­ghi si è ricom­pat­tato, Unghe­ria ormai fuori dalle regole Ue, con Repub­blica ceca, Slo­vac­chia, Polo­nia, Roma­nia (c’è anche la Dani­marca, ma il paese ha l’opt out su que­sti temi, come Gran Bre­ta­gna e Irlanda). In Fran­cia, l’ex pre­si­dente Nico­las Sar­kozy chiede uno sta­tuto spe­ciale per i rifu­giati di guerra, che dovreb­bero rien­trare in patria una volta tor­nata la pace (que­sta clau­sola in effetti esi­ste, ma è la Com­mis­sione a doverla attivare).

"La mossa di Angela Merkel è stata abile, e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e ad altre migliaia di cittadini europei. Ma quella mossa non tarderà a rivelarsi un bluff".

Il manifesto, settembre 2016

Lungo l’autostrada Budapest-Vienna si è dissolto il futuro dell’Unione europea e ha fatto la sua comparsa una Europa nuova, fondata su una cittadinanza condivisa con profughi e migranti. La mossa di Angela Merkel è stata abile - le ha restituito una popolarità che la sopraffazione della Grecia aveva compromesso - e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e ad altre migliaia di cittadini europei - austriaci e tedeschi, ma anche e soprattutto ungheresi - di dimostrare il loro vero sentire: rendendo felici altri milioni di europei.

Ma quella mossa non tarderà a rivelarsi un bluff. Dopo aver detto che accoglierà tutti, sono cominciati i distinguo tra paesi di provenienza sicuri e paesi insicuri e tra profughi e migranti economici; e le assicurazioni che si tratta di una misura “temporanea”. Ma intanto con quella decisione unilaterale ciascun governo si sente autorizzato ad andare per conto proprio: Cameron ha subito raccolto l’invito; i paesi del gruppo di Visegrad si sono opposti alle quote obbligatorie; i paesi baltici li seguiranno. E già si parla di sostituire all’accoglienza un “contributo” in denaro; o di istituire un mercato dei “diritti di espulsione”, così come ne esiste già uno per i diritti di emissione (di CO2): si pagheranno i respingimenti un tanto al chilo?
Angela Merkel ha dato così un altro contributo a dissolvere l’identità dell’Unione europea: ci sono paesi dell’Unione che non sono nell’area Schengen e paesi Schengen non nell’Unione; paesi dell’Unione non nella Nato e paesi europei nella Nato ma non dell’Unione; paesi nell’Unione ma non nell’euro; paesi virtuosi e paesi dissoluti, ecc. Adesso, forse, ci saranno paesi dell’Unione esonerati – a pagamento o no – dalle quote di profughi. E quelli che li accoglieranno si sceglieranno le nazionalità più gradite?

L’accoglienza è destinata a diventare per l’Unione il problema maggiore: divide tra loro gli Stati membri impegnati a rimpallarsi le quote di profughi da ammettere; e fomenta al loro interno quello scontro sociale di cui si alimenta la xenofobia. Innanzitutto l’Unione non potrà avere una politica comune per accogliere profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza - casa, lavoro, reddito e sicurezza - a una quota crescente dei suoi cittadini. Quando il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 20 per cento, e in alcuni paesi il 50, è a un’intera generazione - anzi ormai a due - che vengono negate le forme basilari della cittadinanza. In queste condizioni è difficile pensare a una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia che si aprano loro le porte, sia che si punti su respingimenti inefficaci e spietati.

Il conflitto tra cittadini europei e profughi su cui ingrassano le destre razziste e xenofobe che lo fomentano, ma a cui le forze di governo non sanno offrire alternative, finendo per restarne succubi, non è un fatto “naturale”; è il prodotto delle politiche di tagli alla spesa pubblica e di soffocamento dei diritti, dei redditi e della sicurezza del lavoro. Non si può cambiare politiche dell’immigrazione senza cambiare radicalmente quelle di bilancio. Per questo l’arrivo di un numero crescente di profughi rappresenta il vero tallone d’Achille dell’austerity.

Ma la ragione vera della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi Governi hanno assistito ignavi, quando non vi hanno partecipato direttamente o non hanno addirittura preso l’iniziativa, a massacri e guerre scatenate ai confini dell’Europa: quasi che la cosa non li riguardasse, impegnati com’erano, e sono, a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Se a rappresentare la politica estera dell’Unione figure insignificanti non è solo perché quella materia ogni Governo vuole riservarla per sé. Il fatto è che - a parte gli accordi commerciali, soprattutto per procurarsi petrolio e metano - nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: quella che nel corso degli anni si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima – ma non l’unica – conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. Francia e Regno Unito stanno già pensando a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia: che hanno perso, creando un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.

Ora, che siano i vertici dell’Unione e dei suoi Governi a risolvere il problema creato da centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della propria sopravvivenza è del tutto irrealistico. L’Unione europea vorrebbe respingerne la maggioranza, ma non è in grado di farlo: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che sta già facendo pagare alle sue vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cerca di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria, o un contadino che sta morendo di fame e di sete – sì, anche di sete – in uno stato subsahariano fossero diversi, nelle loro motivazioni alla fuga, da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa, o di tutti e quattro.

Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno brutale, da molti governi, sono state per qualche giorno rovesciate e sconfitte dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada che porta a Vienna, o al loro arrivo nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena facendo tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Perché dietro a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che - senza distinguere tra profughi e migranti economici - hanno cercato e cercano di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui stampa e media non avevano dedicato in sei mesi un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini e dei suoi compagni di merende.

Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore di vedersi portare via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo: consapevole, a differenza di molti suoi governanti (in sei mesi di Presidenza europea Renzi non aveva rivolto una sola parola alla soluzione del problema dei profughi) che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori dove si insedieranno; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione, qui, dove sono arrivati, di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione.

Ed è in questo improvviso melting pot, che si possono creare anche le premesse di una riconquista alla pace e alla democrazia dei paesi da cui profughi e migranti sono dovuti fuggire: con organizzazioni comuni che individuino le condizioni per pacificarli; che elaborino in forme condivise i programmi per la loro ricostruzione; che conquistino il diritto di sedere al tavolo delle trattative diplomatiche; che siano punto di riferimento, attraverso i mille legami che ancora intrattengono con le comunità rimaste nei paesi di origine, per il loro riscatto. Una prospettiva che non può che fondarsi su una nuova visione dell’Europa, unita e non contrapposta alle popolazioni in fuga dai paesi in fiamme ai suoi confini vicini e lontani. Nel gesto con cui migliaia di volontari hanno aiutato i profughi ad attraversare l’Ungheria c’è, senza ancora le parole per dirlo, il nuovo manifesto di Ventotene di un’Europa interamente da ricostruire.

Q

Si affaccia anche nel Regno unito una sinistra che ha compreso i problemi nuovi senza abbandonare i valori antichi. Promettente il successo ottenuto tra i giovani, e le nuove adesioni al Labour party dopo l'affermazione di Corbyn.

La Repubblica, 14 settembre 2015
L’ELEZIONE della leadership laburista è stata una straordinaria prova di democrazia popolare e di partecipazione pubblica dal basso, che ha dimostrato l’infondatezza dell’opinione prevalente al riguardo della politica. Abbiamo attirato il sostegno di centinaia di migliaia di persone di tutte le età, di ogni ambiente sociale, in tutto il Paese, ben oltre i ranghi degli attivisti di lunga data e di chi fa campagna. Chi può seriamente affermare, adesso, che i giovani si disinteressano di politica o che non c’è un intenso desiderio di un nuovo tipo di politica? Più di ogni altra cosa, ha dimostrato che milioni di persone vogliono un’alternativa reale, e non che le cose proseguano come al solito, sia dentro sia fuori dal Partito laburista.

La speranza di un cambiamento e di nuove grandi idee è tornata al centro della politica: porre fine all’austerità, affrontare e risolvere le disuguaglianze, lavorare per la pace e la giustizia sociale in patria e all’estero. Ecco i motivi per i quali oltre un secolo fa fu fondato il Labour. Questa elezione ha infuso nuovo vigore per il XXI secolo all’obiettivo che portò alla sua fondazione: un Partito laburista che dia voce al 99 per cento della popolazione.

I numeri del voto di sabato scorso costituiscono un mandato senza riserve per il cambiamento da parte di una democrazia che si rialza ed è già diventata un movimento sociale. Sono onorato dalla fiducia che mi è stata dimostrata dai membri del partito e dai sostenitori, e metterò a disposizione tutto me stesso per ripagare quella fiducia.

Abbiamo combattuto e vinto sulla base di proposte politiche, non di personalità, senza abusi e senza astio. Volendo pienamente fugare ogni dubbio, la mia leadership sarà improntata alla coesione, farà affidamento su tutti i talenti — la metà del governo ombra laburista sarà formato da donne — e lavoreremo insieme a tutti i livelli del partito. Il nostro obiettivo è riportare nel cuore del Labour le centinaia di migliaia di persone che hanno preso parte alle primarie. Riusciremo a far tornare ancora una volta il Labour un movimento sociale.

La leadership del partito si sforzerà di mettere al centro la democrazia: non sarà il leader a emettere editti dall’alto. Raccoglierò idee da tutti i livelli del partito e del movimento laburista, prendendo ispirazione da un partito allargato alle varie comunità e mettendo a frutto i talenti di tutti per dar vita a una linea politica capace di costruire un valido sostegno a favore del cambiamento.

Noi siamo in grado di dar vita a un nuovo tipo di politica: più educata, più rispettosa, ma anche più coraggiosa. Possiamo cambiare le mentalità, possiamo cambiare la politica, possiamo migliorare le cose.

Il messaggio più importante che la mia elezione offre a milioni di persone per mandare a casa i conservatori è che il partito adesso è incondizionatamente al loro fianco. Noi comprendiamo le aspirazioni e sappiamo che le nostre aspirazioni potranno realizzarsi soltanto tutte insieme.

Tutti aspirano ad avere una casa a un prezzo accessibile, un posto di lavoro sicuro, standard di vita migliori, un sistema sanitario fidato e una pensione dignitosa. La mia generazione ha considerato scontate queste cose e così dovrebbero fare le generazioni future.

I conservatori stanno introducendo una legge sulle organizzazioni sindacali che renderà più difficoltoso per i lavoratori ottenere un equo contratto di lavoro, combattere per un salario onesto e per un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Le organizzazioni sindacali sono una forza che si adopera per il bene, una forza che si batte per una società più giusta. Unito, il Labour voterà contro questo attacco antidemocratico ai membri delle associazioni sindacali.

Domani il governo presenterà le sue proposte per tagliare i crediti d’imposta, che lascerebbero migliaia di famiglie di operai in condizioni peggiori. I crediti d’imposta sono un’ancora di salvezza vitale per molte famiglie e il Labour si opporrà a questi tagli. È chiaro anche che il Primo ministro presto tornerà a chiederci di bombardare la Siria. Questo non aiuterà i rifugiati. Anzi, ne creerà in maggior numero.

Lo Stato Islamico è assolutamente raccapricciante, e il regime del presidente Assad ha commesso delitti atroci. Ma noi dobbiamo opporci anche alle bombe saudite che cadono sullo Yemen e alla dittatura del Bahrain, armata da noi, che stermina il movimento democratico del paese.

Il nostro ruolo è fare campagna per la pace e per il disarmo in tutto il mondo.

Per i conservatori, il deficit altro non è che una scusa per rifilarci la vecchia agenda Tory di sempre: abbassare i salari, tagliare le tasse ai più ricchi, lasciare che i prezzi degli immobili aumentino fino a essere improponibili, svendere i nostri asset nazionali e attaccare le organizzazioni sindacali. Non ci sono scorciatoie per la prosperità, la si deve costruire investendo in infrastrutture moderne, nelle persone e nelle loro competenze. Bisogna dare sfogo a idee innovative, concretizzando nuove proposte per affrontare e risolvere il cambiamento climatico. E proteggere così il nostro ambiente e il nostro futuro.

Il nostro compito è dimostrare che l’economia e la nostra società possano essere a beneficio di tutti. Insorgeremo contro le ingiustizie ogni volta che le incontreremo. E le combatteremo per un futuro più equo e più democratico, che soddisfi le esigenze di chiunque.

La risposta umana della gente di tutta Europa nelle ultime settimane ha dimostrato l’intenso desiderio di un tipo diverso di politica e di società. I valori della compassione, della giustizia sociale, della solidarietà e dell’internazionalismo sono stati al centro della recente esplosione di democrazia in un Labour sempre più influente.

Quei valori sono profondamente radicati nella cultura del popolo britannico. Il nostro obiettivo, adesso, è mettere a frutto quello spirito e chiedere ardentemente il cambiamento, in tutto il paese.

Traduzione di Anna Bissanti

Ancora sul documento dei 4 della sinistra europea. «La moneta è impor­tante in un sistema capi­ta­li­stico di pro­du­zione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema eco­no­mico e nel paese che rap­pre­senta».

Il manifesto, 13 settembre 2015

Nel docu­mento dif­fuso urbi et orbi da Varou­fa­kis, Lafon­taine, Melen­chon e Fas­sina si legge che: «Nes­sun paese euro­peo può ope­rare la pro­pria libe­ra­zione in modo iso­lato». Appunto. Pec­cato che il docu­mento non sia molto coe­rente con que­sto assunto. Esso vede la luce a pochi giorni dalle nuove ele­zioni gre­che e non si può dav­vero dire che sia una mano d’aiuto a Syriza e a Tsi­pras. Peral­tro se que­sti ultimi doves­sero per­dere, non si com­prende quale possa essere la mag­gio­ranza in grado di por­tare avanti il piano B soste­nuto dagli autori del docu­mento. Per attuarlo non bastano forze minoritarie.

Il con­fronto fra Tsi­pras e la Ue è avve­nuto pre­ci­sa­mente nell’isolamento inter­na­zio­nale. Un paese con­tro 18. Né i movi­menti sono riu­sciti ad espri­mere una soli­da­rietà così forte da inci­dere sui rap­porti di forza. Né i grandi paesi esterni alla Ue, ognuno con i pro­pri diversi motivi, non gli Usa, né la Rus­sia, tan­to­meno la Cina ave­vano inte­resse e pos­si­bi­lità di soste­nere la Gre­cia in uno spe­ri­co­lato sgan­cia­mento dall’euro.

In que­sto qua­dro si è giunti non a un accordo, ma alla con­su­ma­zione di un ricatto. Tspi­ras lo ha detto al suo popolo e al par­la­mento in modo spie­tato. L’introduzione di Syriza al pro­gramma di governo del 2015, che si pro­pone di inde­bo­lire se non neu­tra­liz­zare le con­se­guenze più regres­sive del nuovo Memo­ran­dum, affonda ancora il col­tello nella piaga. Dopo un impie­toso esame delle con­di­zioni nelle quali la Gre­cia a luglio si tro­vava si afferma: «Dove­vamo sce­gliere tra una riti­rata tat­tica, in maniera da pre­ser­vare la spe­ranza di vin­cere una bat­ta­glia poli­tica asim­me­trica, oppure imporre alla sini­stra un fal­li­mento sto­rico che avrebbe tra­sfor­mato il paese in un deserto sociale. Ci siamo presi la nostra parte di respon­sa­bi­lità e abbiamo scelto la prima opzione».

Sce­gliere l’altra avrebbe signi­fi­cato cadere nelle brac­cia della Gre­xit di Schau­ble. Le con­se­guenze di un’uscita dall’euro sono oggetto di discus­sione — per­ché non ci sono pre­ce­denti né è pre­vi­sta dai trat­tati -, ma mi sem­bra dif­fi­cile non assi­stere in quel caso a una ulte­riore fuga dei capi­tali, a pesanti mano­vre spe­cu­la­tive, a un balzo dell’inflazione pure in pre­senza di alti tassi di disoc­cu­pa­zione, quindi a una dimi­nu­zione dra­stica e bru­sca del valore reale di salari e pen­sioni già al lumi­cino. Per impe­dire que­sto, disse Varou­fa­kis a New Sta­te­sman, si era pen­sato a un piano B, con la neces­sa­ria riser­va­tezza, salvo veri­fi­care che man­ca­vano forze e mezzi per garan­tirne il risultato.

Cam­bie­rebbe in meglio il qua­dro se al posto di una Con­fe­renza euro­pea sul debito non solo greco, che è quanto ha sem­pre voluto Syi­riza e che in parte ha otte­nuto al ter­mine della mor­ti­fi­cante trat­ta­tiva con i pros­simi appun­ta­menti autun­nali — ai quali giu­sta­mente i greci chie­dono la pre­senza del par­la­mento euro­peo in quanto tale, unica strut­tura elet­tiva — si rea­liz­zasse una con­fe­renza per il piano B, pro­po­sta dagli esten­sori del docu­mento? Non credo pro­prio, poi­ché la pub­bli­cità stessa dell’atto — al di là delle buone inten­zioni e prima ancora degli esiti del mede­simo — spo­ste­rebbe l’attenzione dal piano A — ovvero bat­tersi den­tro l’Eurozona — al piano B, cioè alla uscita dall’euro.

In modo assai discu­ti­bile, i fau­tori del Piano B para­go­nano l’azione della Ue nei con­fronti della Gre­cia e dei paesi medi­ter­ra­nei alla «sovra­nità limi­tata» pra­ti­cata da Brez­nev con i carri armati a Praga. Ma dav­vero la fuo­riu­scita dall’euro sarebbe la libe­ra­zione dalla gab­bia? Vi sono paesi che hanno la loro moneta, come la Polo­nia, eppure non sono che un’articolazione del sistema pro­dut­tivo tede­sco. D’altro canto alla gab­bia dell’euro si sosti­tui­rebbe quella non certo più tenera dei mer­cati finan­ziari internazionali.

Per una sini­stra la disputa euro-non euro non dovrebbe avere di per sé un peso così diri­mente. Dovreb­bero esserlo molto di più le poli­ti­che pro­dut­tive. Certo, l’euro è stato costruito in un’area mone­ta­ria non otti­male che favo­ri­sce la potenza esor­ta­tiva della Ger­ma­nia. Sarebbe meglio — ci si potrebbe arri­vare senza disfare l’Europa, raf­for­zando l’unità di paesi e di sini­stre (auguri Cor­byn!) — avere una moneta comune in luogo di una moneta unica. Un’attualizzazione del Ban­cor pen­sato da Key­nes. La moneta è impor­tante in un sistema capi­ta­li­stico di pro­du­zione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema eco­no­mico e nel paese che rap­pre­senta. Ce lo inse­gna la sto­ria del rap­porto fra Usa e Dol­laro, ora si potrebbe dire fra la Cina e Renminbi.

In una tran­si­zione ege­mo­nica mon­diale fra Ovest e Est, ove le guerre sono all’ordine del giorno e una defla­gra­zione mon­diale è die­tro l’angolo, il ruolo di un’Europa fede­rale e demo­cra­tica, dotata di una pro­pria forza eco­no­mica, quindi anche di una moneta, è deci­siva. Se si tra­sfor­masse in un pro­tet­to­rato tede­sco più ristretto, come vogliono i vari Schau­ble, sarebbe una scia­gura non solo per l’economia ma per i già tra­bal­lanti rap­porti geo­po­li­tici mondiali.

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Il manifesto

Il segre­ta­rio del Pcf, Pierre Lau­rent, ha cer­cato di man­te­nere una par­venza di unità alla sini­stra della sini­stra. Ma alla Fête de l’Humanité, mal­grado la noti­zia della vit­to­ria di Cor­byn, è andata ieri in onda la divi­sione. Non sull’accoglienza dei rifu­giati, per­ché la soli­da­rietà resta per for­tuna un valore con­di­viso, né tanto sull’azione per far fronte al disor­dine cli­ma­tico, anche se su que­sto fronte le sen­si­bi­lità sono a volte lon­tane, ma la lace­ra­zione è sull’Europa e sull’euro. Lo scon­tro in corso in Gre­cia, a una set­ti­mana dalle ele­zioni anti­ci­pate, si è invi­tato sotto la piog­gia della festa a La Cour­neuve. Jean-Luc Mélen­chon, lea­der del Front de Gau­che, ha accolto in una tavola rotonda l’ex mini­stro Yanis Varou­fa­kis, con Oskar Lafon­taine di Die Linke e Ste­fano Fas­sina. Nes­sun espo­nente del Pcf, che pure fa parte del Front de Gau­che, a que­sto dibat­tito. Pierre Lau­rent, del resto, ha invi­tato al dibat­tito “Insieme per un’altra Europa”, l’ex mini­stro greco, George Katrou­ga­los, rima­sto fedele a Tsi­pras, oltre a rap­pre­sen­tanti di Pode­mos, Izquierda Unida e anche Die Linke. Lau­rent ha visto in un breve incon­tro Varou­fa­kis, ma la divi­sione di fondo resta: la sini­stra della sini­stra, che pure è d’accordo sulla neces­sità di tro­vare un’altra strada nell’Europa dell’austerità, essen­zia­lizza la moneta unica e si lacera.

Mélen­chon, Varou­fa­kis, Lafon­taine e Fas­sina affer­mano di “essere deter­mi­nati a rom­pere con que­sta Europa”, hanno un “piano A” per otte­nere “un com­pleto rine­go­ziato” dei Trat­tati. Ma, vista l’improbabilità di que­sta strada (per rifor­mare i Trat­tati ci vuole l’unanimità nella Ue), pro­pon­gono un “piano B”, che non esclude l’uscita dall’euro. Mélen­chon vor­rebbe orga­niz­zare un ver­tice euro­peo, già a novem­bre, per pro­porre que­sto “piano B”. E pre­cisa: se dovessi sce­gliere “tra l’euro e la sovra­nità nazio­nale” sce­glie­rei la seconda ipo­tesi. Mélen­chon ha appena pub­bli­cato un libro, Le Hareng de Bismarck, dove mette sotto accusa la Ger­ma­nia. Anche Varou­fa­kis è su que­sta linea: per l’ex mini­stro, la minac­cia di Gre­xit e i dik­tat impo­sti ad Atene da Ber­lino e Bru­xel­les hanno come obiet­tivo quello di pie­gare qual­siasi vel­leità di cam­bia­mento, mirando ad obbli­gare in primo luogo la Fran­cia ad accet­tare una com­pleta austerità.

Per Lau­rent, invece, “Syriza non si è pie­gata all’austerità”, ma Tsi­pras è stato lasciato “solo con­tro tutti”. Lau­rent aggiunge: “con­ti­nuo a cre­dere che un’uscita dall’euro non avrebbe miglio­rato i rap­porti di forza in Grecia”.

La pro­po­sta del “Piano B” di Mélenchon-Varoufakis arriva in Fran­cia dopo la forte pole­mica sol­le­vata dall’economista Jac­ques Sapir, vicino al Front de Gau­che. Sapir pro­pone un “fronte repub­bli­cano” per l’abbandono della moneta unica, che potrebbe anche non esclu­dere l’estrema destra. Per Sapir, non è più pos­si­bile igno­rare la forza del Fronte nazio­nale, che alle ultime euro­pee è stato il par­tito più votato. “Creando uno spar­tiac­que pro o con­tro l’euro andiamo a sbat­tere con­tro un muro”, afferma Clé­men­tine Autin, por­ta­voce di Ensem­ble, la terza com­po­nente del Front de Gau­che. “C’è piena coscienza delle divi­sioni, ma la domanda per Ps, Pcf, Parti de Gau­che, Verdi è come rispon­dere all’aspirazione popo­lare per la lotta alla disoc­cu­pa­zione, alle ine­gua­glianze, alla cre­scita della povertà”, rias­sume l’ex mini­stro socia­li­sta, Benoît Hamon (ormai vicino alla “fronda” con­tro il governo Valls, ma sulla lista Ps per le regio­nali di dicem­bre). Il Front de Gau­che è lace­rato, Europa-Ecologia sta per­dendo i pezzi (i capo­gruppo all’Assemblea e al Senato, Fra­nçois de Rugy e Jean-Vincent Placé sono appena usciti dal par­tito per fon­dare Eco­lo­gi­stes!, una for­ma­zione più cen­tri­sta). L’imminenza delle ele­zioni regio­nali di dicem­bre, con alleanze a geo­me­tria varia­bile nelle varie regioni tra Ps, Verdi e Front de Gau­che, non ha favo­rito ieri una discus­sione razionale.

Lo scrittore nigeriano, premio Nobel, parla della crisi dei migranti. “È un’eredità del colonialismo, ora però le tragedie dell’Africa sono sotto gli occhi del mondo. Come accade per le ragazze rapite da Boko Haram”.

La Repubblica, 13 settembre 2015
C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: ubuntu e’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia. Wole Soyinka, poeta e scrittore nigeriano, nel 1986 premio Nobel per la Letteratura, la usa spesso nel suo ultimo libro, “dell’Africa”, uno dei testi più importanti fra quelli presentati al Festivaletteratura di Mantova. Mentre sulle pagine dei giornali e alla tv si susseguono le immagini dei profughi che cercano di arrivare in Europa, e’ impossibile non iniziare una conversazione con Soyinka senza parlare di ubuntu .

Le sembra una parola appropriata per le giornate che stiamo vivendo?«È un’espressione che hanno spesso usato persone come Mandela e Desmond Tutu: volevano dire che qualunque persona sia in stato di necessità deve essere aiutata. Che la solidarietà è obbligatoria e che siamo tutti responsabili. Altrimenti perdiamo la nostra umanità. È una parola adeguata a queste giornate, a patto di metterla nella giusta prospettiva. È dovere dei paesi da cui i migranti fuggono, e mi riferisco in particolare a quelli africani, creare le condizioni sociali perché queste persone abbiano sempre meno motivi per scappare. Ed è dovere del mondo esterno capire che la relazione che ha avuto con l’Africa, il lascito del colonialismo è alla base delle migrazioni».

Cosa pensa della reazione dell’Europa di fronte ai profughi?
«Sono sorpreso che l’Europa non abbia capito prima quello che stava per accadere. Da tempo i rifugiati interni ai paesi dove si combatte erano milioni, era naturale che prima o poi la crisi si espandesse. Ora ci sono moltissime persone pronte ad affrontare una morte quasi certa per mare per la speranza di una vita migliore».

L’Europa manca dunque di prospettiva, di uno sguardo di lunga durata?
«Penso all’Africa, e Le rispondo che qualche volta è bello essere dimenticati, lasciati a risolvere i propri problemi: non si può sempre essere assistiti. Ma qualche volta l’attenzione serve. Le faccio un esempio: qualche anno fa il mondo si indignò per Amina, una donna che stava per essere lapidata per adulterio in Nigeria. Fu una cosa importante, perché anche quelli che fino a quel momento avevano fatto finta di nulla furono costretti ad ammettere che stava accadendo qualcosa di sbagliato».

Direbbe lo stesso del clamore suscitato dal rapimento delle ragazze di Chibok da parte di Boko Haram?
«Quella e’ una storia talmente grande che era impossibile da ignorare. Ha colpito tutti, perché ha richiamato alle sue responsabilità una società che non era stata in grado di proteggere delle ragazze nel luogo dove avrebbero dovuto essere più sicure, e un governo che non si è mosso in tempo. Ha costretto tutti ad aprire gli occhi su un fenomeno, che io chiamo del bokoharamismo, che era lì davanti a tutti: la diffusione di un gruppo che è incapace di guardare all’essere umano se non attraverso le lenti strettissime della sua visione religiosa estremista. Abbiamo visto l’intolleranza crescere sotto i nostri occhi e la religione diventare uno scudo per fare quello che si voleva. Lo abbiamo visto nel silenzio totale delle autorità: nessuno e’ stato chiamato a rispondere del fatto che qualche anno fa gruppi di estremisti abbiano messo Abuja a ferro e fuoco per protestare contro un concorso di bellezza. Nessuno ha pagato. Chibok e’ stato il caso più brutale. Il messaggio era: “facciamo ciò che vogliamo con quello che di più caro avete”. Con i riflettori del mondo addosso il governo non ha più potuto far finta di niente».

A 500 giorni da quel rapimento in Nigeria qualcosa e’ cambiato?
«Sta cambiando. Mai abbastanza per me, ma qualcosa si sta muovendo. La gente non dice più le stesse cose di prima, i politici stanno più attenti a giocare la carta delle divisioni religiose. Tutto questo non è più possibile dopo Chibok, come non è più possibile ignorare il fatto che la diffusione dell’estremismo è un problema reale».

Wole Soyinka scrittore e poeta nigeriano premio Nobel per la Letteratura nel 1986

Prosegue il dibattito sulla costruzione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Un intervento che richiama provvidamente l'attualità pensiero di un gigante, più studiato e apprezzato all'estero che nel suo paese.

Il manifesto, 12 settembre 2015

Gram­sci, come risorsa per la defi­ni­zione di un nuovo sog­getto poli­tico di sini­stra. Sem­bra che si sia final­mente giunti alla deci­sione di costi­tuire in Ita­lia un nuovo sog­getto poli­tico di Sini­stra. Provo allora ad elen­care qual­che snodo deci­sivo come con­tri­buto alla discus­sione. E’ impor­tante par­tire con idee chiare, supe­rando ogni sorta di per­ples­sità e atten­di­smo. In que­sto con­te­sto ci può aiu­tare la ric­chezza dell’attività gior­na­li­stica e poli­tica di Gram­sci degli anni tori­nesi. Le que­stioni affron­tate, poi, da Gram­sci nei Qua­derni, sono tante e com­plesse che riman­dano ai temi di stretta attua­lità dei giorni nostri, là dove Gram­sci descrive una classe bor­ghese che diventa casta, e per man­te­nersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sot­to­va­lu­tati i temi sto­rici della «teo­ria della prassi» e i nodi con­cet­tuali di «società civile», «ege­mo­nia», «rivo­lu­zione passiva».

Vor­rei però oggi sof­fer­marmi sull’analisi gram­sciana di «coscienza di classe» e «ruolo e fun­zione del par­tito». Come spunto di rifles­sione per la costru­zione in Ita­lia di un nuovo sog­getto poli­tico a Sini­stra, che riven­di­chi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.

Gram­sci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del con­te­sto sto­rico) non ci sia sog­get­ti­vità, quindi sia ine­vi­ta­bile la subal­ter­nità al potere domi­nante. Senza coscienza di classe, la massa è indis­so­lu­bil­mente legata al domi­nio della bor­ghe­sia capi­ta­li­stica. La con­qui­sta della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel pro­cesso che potrà por­tare a costruire un nuovo sog­getto poli­tico di Sini­stra, poi­ché signi­fica dive­nire con­sa­pe­voli del con­flitto sociale e poli­tico in atto. Così come lo sono stati il par­tito Gia­co­bino nella Rivo­lu­zione fran­cese del 1789, i Mille di Gari­baldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il par­tito bol­sce­vico nella Rivo­lu­zione d’Ottobre il nuovo sog­getto poli­tico è chia­mato a svol­gere una fun­zione peda­go­gica in ter­mini ege­mo­nici e non auto­ri­tari, con l’autorevolezza e il pre­sti­gio della direzione.

Com­pito primo di que­sta nuova forza poli­tica di Sini­stra è, in altri ter­mini, farsi sog­getto pro­mo­tore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere diri­gente già prima di con­qui­stare il potere gover­na­tivo, quindi con­ce­pire da subito i germi della nuova società, ini­ziando a costruire lin­guaggi alter­na­tivi, codici, forme, rela­zioni, espe­rienze sot­tratte al domi­nio dello sfrut­ta­mento capi­ta­li­stico e finan­zia­rio. Quindi riba­dire con forza i temi della Sini­stra: ruolo pub­blico nel mer­cato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pen­sioni, scuola pub­blica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gram­sci il par­tito è un insieme di diri­genti all’altezza delle neces­sità e in grado di stare nel conflitto.

«Coscienza e orga­niz­za­zione» costi­tui­scono per Gram­sci un bino­mio indis­so­lu­bile. Il dovere più urgente, dice Gram­sci, è il pro­blema di orga­niz­za­zione, di forza, di corpi fisici e di cer­vello, di orga­niz­za­zione delle menti cioè for­ma­zione e coor­di­na­mento. Per Gram­sci orga­niz­zare è sino­nimo di dire­zione, di con­sa­pe­vo­lezza, di com­pe­tenza delle cono­scenze e di coe­renza sul piano pra­tico.

Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», carat­te­ri­stico e fon­dante della teo­ria gram­sciana del par­tito. Lavo­rare tra le masse vuol dire essere con­ti­nua­mente pre­senti, essere in prima fila in tutte le lotte. Stra­te­gico e deci­sivo è quindi creare gruppi diri­genti «orga­nici e ade­guati» per la crea­zione e la for­ma­zione di un’autonomia cul­tu­rale e poli­tica che sap­pia dare rispo­ste con­crete, qui e ora al «Socia­li­smo del XXI secolo». In que­sto arci­pe­lago di movi­menti di Sini­stra, fon­da­men­tale sarà la pre­senza di un forte e nuovo Par­tito Comunista.

LLa Repubblica, 12 settembre 2015

LA DISOBBEDIENZA non è sempre una virtù. Però, spesso, è un indice di buona salute democratica. L’unanimità, invece, come ci insegna la storia antica e recente, è un gran brutto segno: esprime conformismo e apatia, fino a soggezione e costrizione. Come si garantisce allora in un corpo politico l’espressione delle diverse volontà con la lealtà e la coesione? Non ci sono che due strade: con il compromesso tra le diverse posizioni o con l’imposizione di una volontà, quella della maggioranza. Il Pd si torce nella ricerca di una soluzione a questo dilemma. Finora non si è trovata una via mediana tra la richiesta di compattezza e lealtà da parte del segretario, e l’affermazione di soggettività e dissenso da parte della minoranza.

Ma qualunque sia l’esito di questo conflitto, è il suo stesso sorgere che sembra inammissibile, quando in realtà esso non rappresenta altro che la fisiologia della politica. Quando mai c’è stato unanimismo nei partiti, democratici e non? Per decenni il Pci è stato accusato di scarsa o nulla democrazia interna a causa del suo “centralismo democratico”, una pratica in base alla quale dopo aver discusso negli organi interni, tutti dovevano seguire la linea decisa, pena l’espulsione. Invece, al suo interno, i conflitti, benché ovattati dentro le mura di Botteghe Oscure, divampavano, eccome. E in alcune occasioni venivano alla luce. Ad ogni modo, il fatto che le opinioni difformi da quelle della leadership non potessero organizzarsi in correnti, contrariamente a quanto accadeva agli altri partiti, era indice di grande intolleranza. Sembra passato un secolo da quel clima politico. Certo, un conto è il dibattito interno ad un partito, un conto il comportamento di voto in Parlamento, perché alle Camere è in gioco la maggioranza di governo. Qui la compattezza ha un valore ben più alto. Tuttavia, a parte la curiosa “regressione” del Pd a partito di massa classico, quando il segretario comandava sui parlamentari annullandone l’autonomia di giudizio, l’enfasi sull’obbedienza martellata dai supporter di Matteo Renzi ha uno sgradevole retrogusto plebiscitario.

In realtà, il voto difforme rispetto a quello del proprio partito non è una cosa inaudita nei parlamenti democratici. Per partire dal caso più recente, nel Bundestag tedesco molti parlamentari del partito della cancelliera Angela Merkel hanno votato contro gli aiuti alla Grecia: sia a febbraio che ad agosto circa un 20 per cento di deputati si è rifiutato di sostenere il governo su questo punto. In Gran Bretagna, durante la sessione parlamentare 2013/14, nel 31 percento delle votazioni, deputati appartenenti alla coalizione che sosteneva David Cameron hanno voto contro il loro governo. Il maggior numero di disubbidienti si trova tra i Conservatori: sono stati più di 20 in 8 casi, e più di 30 in tre casi. E questo ha determinato la sconfitta del governo in tre occasioni.

Ancora più significativo il caso della “fiducia” al governo di Manuel Valls, ripresentatosi in Parlamento con una nuova compagine governativa dopo le dimissioni, richieste e ottenute, di alcuni ministri riottosi. Il 16 settembre scorso, alla fine dell’illustrazione del nuovo programma (non una vera fiducia, in realtà, perché non è prevista in Francia), ben 31 deputati hanno votato contro. Per loro, come negli altri casi, nessuna sanzione. E men che meno è andato in crisi il governo.

Questi esempi ci dicono che i voti in dissenso rispetto alla leadership sono la norma in occasione di grandi dibattiti. Non scandalizzano più di tanto. Eppure il conflitto interno al Pd in merito alla riforma del Senato ha assunto toni apocalittici con aberrazioni che vanno dall’accusa di lesa maestà, da un lato, alle grida per l’attacco alla democrazia, dall’altro. Se al di là del contenuto del conflitto c’è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Matteo Renzi. Perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. La spada di Brenno appartiene ai barbari, l’ agorà all’alba della civiltà. Per questo, anche per questo, un senatus può servire.

Come da copione, la Mar­cia delle donne e degli uomini scalzi di Vene­zia si con­clude sul tap­peto rosso della Mostra del cinema: per una volta a cal­carlo non sono le star del jet set ma Kaled, Samir, Niham e ideal­mente, con loro, i tanti rifu­giati che chie­dono acco­glienza in tutta Europa.

Qual­che migliaio di mani­fe­stanti, rigo­ro­sa­mente a piedi nudi, hanno attra­ver­sato il Lido: tante donne, ragazzi e ragazze, tra loro decine di migranti. Soprat­tutto dall’Africa: Nige­ria, Gam­bia, Sene­gal. Si vedono anche ban­diere del sin­da­cato: spic­cano quelle verdi della Cisl, ma ci sono pure iscritti della Uil, e una nutrita rap­pre­sen­tanza della Cgil, con in testa la segre­ta­ria Susanna Camusso.

Folto anche il drap­pello di poli­tici, ma se si eccet­tua il vignet­ti­sta Staino dell’Unità, della galas­sia ren­ziana non si vede nes­suno. In qual­che modo, si tratta di “ex”: l’ex segre­ta­rio di Sel Nichi Ven­dola, la ex mini­stra Livia Turco, gli ex pid­dini Ste­fano Fas­sina e Pippo Civati. Avvi­stato anche l’ex sin­daco di Padova ed ex mini­stro Fla­vio Zano­nato. A rias­su­mere la piat­ta­forma della mani­fe­sta­zione è Giu­lio Mar­con, di Sel, che con il regi­sta Andrea Segre, altri attori e arti­sti, un vasto arco di asso­cia­zioni, ha orga­niz­zato in pochi giorni le marce in tutta Ita­lia: «La prima urgenza — spiega — è quella di alle­stire cor­ri­doi uma­ni­tari sicuri e pro­tetti, a livello euro­peo. Si dovrebbe poter fare già nei paesi di ori­gine, o a pochi chi­lo­me­tri dalle coste, inter­cet­tando i bar­coni per sal­vare chi fugge. E acco­gliere tutti, innan­zi­tutto, cali­brando poi l’intervento a seconda che si tratti di rifu­giati o di migranti economici”.

Il tema main­stream, quello che nella ver­sione Mer­kel, o in quella di Sal­vini, impone una netta distin­zione tra chi acco­gliere e chi riman­dare a casa, qui non sem­bra porre dubbi: tutti con­cor­dano sulla neces­sità di non discri­mi­nare. Lo spie­gano Rita e Filo­mena, due gio­vani sorelle della Con­gre­ga­zione Char­les de Fou­cauld di Fermo, casa di acco­glienza per migranti: «Gli uomini sono tutti uguali, e non puoi sele­zio­nare. Poi anche chi fugge dalla fame, chi tenta di soprav­vi­vere con i pro­pri figli, è come se venisse da una guerra. Noi cer­chiamo di far inte­grare le per­sone che stanno da noi: adesso alcuni di loro stanno creando una coo­pe­ra­tiva con diversi mestieri».

«Da Vene­zia a Kobane, da Buda­pest a Bru­xel­les: #apie­di­scalzi #refu­gee­swel­come». «Io non sono un peri­colo, io sono in peri­colo». «Abbiamo biso­gno di docu­menti». Tanti gli slo­gan por­tati sui car­telli dai migranti, men­tre i cen­tri sociali del Nor­dest — tra loro Luca Casa­rini — scan­di­scono «La nostra Europa non ha con­fini, siamo tutti clan­de­stini», con la dop­pia ver­sione finale: «siamo tutti cit­ta­dini». A metà strada ven­gono messe a dispo­si­zione diverse baci­nelle di tem­pere colo­rate: chi vuole può bagnarsi i piedi e lasciare le pro­prie orme sul via­lone che porta al Casinò.

San­kung, un ragazzo del Gam­bia, spiega di essere ospite con altri 50 immi­grati in un albergo di Chiog­gia: le pro­ce­dure per vagliare le loro richie­ste di asilo sono len­tis­sime, così c’è chi è da oltre un anno in attesa. E visto che non hanno docu­menti, per il momento non pos­sono nean­che cer­carsi un lavoro rego­lare. Il gruppo è accom­pa­gnato da Elena Fava­retto, dell’associazione di volon­ta­riato Migran­tes: spiega che la com­mis­sione di Padova, che ha in carico le loro richie­ste, con­cede gli asili con il con­ta­gocce. Gian­luca Schia­von, del Prc, spiega che il suo par­tito sta spe­ri­men­tando l’accoglienza nelle sedi locali in diverse città.

Tra i bon­ghi e i canti dei migranti e le musi­che dif­fuse dal camion­cino dell’organizzazione, risuo­nano le parole dell’appello letto dall’attrice Otta­via Pic­colo: «Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi. Di chi ha biso­gno di met­tere il pro­prio corpo in peri­colo per poter spe­rare di vivere o di soprav­vi­vere. E’ dif­fi­cile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo. Ma la migra­zione asso­luta richiede esat­ta­mente que­sto: spo­gliarsi com­ple­ta­mente della pro­pria iden­tità per poter spe­rare di tro­varne un’altra. Abban­do­nare tutto, met­tere il pro­prio corpo e quello dei tuoi figli den­tro ad una barca, ad un tir, ad un tun­nel e spe­rare che arrivi inte­gro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai biso­gno». In attesa del ver­tice Ue di lunedì, gli ita­liani e i migranti che hanno mar­ciato oggi in tutto il Paese spe­rano che si apra uno spi­ra­glio per una poli­tica comune dell’asilo e l’istituzione imme­diata di cor­ri­doi umanitari.

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. La Repubblica, 12 settembre 2015

LA REAZIONE nel complesso positiva della popolazione tedesca all’afflusso di rifugiati segna un’importante discontinuità con lo stato d’animo imperante nel Paese all’inizio degli anni ‘90. Dimostra che una leadership politica risoluta – di cui finora, con la Merkel, abbiamo sentito la mancanza – può condurre nel lungo periodo l’opinione pubblica e la società civile a manifestare il loro sostegno e la loro volontà di venire in aiuto a queste popolazioni.

L’asilo politico non è una questione di valori – le chiacchiere sul tema dei “valori” mi esasperano – ma un diritto, e un diritto fondamentale. Questo diritto non può essere garantito solo dai Governi. Dev’essere rispettato dalla popolazione nella sua interezza. I Governi possono non riuscire a far fronte alla sfida attuale, per scoraggiamento o per mancanza di sostegno da parte dei loro mezzi di informazione e dei loro cittadini. E a volte anche per calcoli meschini e per la pusillanimità dei partiti politici di fronte alla pigrizia, l’egoismo e la mancanza di una visione alta nella popolazione.

Per il momento, vediamo che i Paesi membri dell’Unione Europea non riescono, complessivamente, ad accordarsi su una linea d’azione comune. L’onesta proposta del presidente Hollande e della cancelliera Merkel non incontra consenso. Si tratta indubbiamente di un segnale allarmante e vergognoso, ma che la dice anche lunga sul reale stato politico di una comunità che non è diretta da un Parlamento e un Governo comuni, bensì da compromessi stipulati tra ventotto Governi nazionali.

Le diverse reazioni nazionali al problema urgentissimo che dovrebbe oggi vedere una risposta comune testimoniano anche realtà di cui bisogna tener conto: la differente anzianità di appartenenza all’Unione, le differenze economiche importanti – troppo importanti – fra Paesi membri, e soprattutto le differenti storie nazionali e le differenti culture politiche.

L’Europa, di fronte a questo disaccordo insormontabile sulla sfida politica e morale rappresentata dalla crisi migratoria, non deve fallire, col rischio di uscirne alla lunga devastata. E a tale scopo vedo solo una strada realistica: la Francia e la Germania devono prendere l’iniziativa e riunire i Paesi strettamente legati fra loro dall’euro e dalla crisi che attraversa questa moneta per proporre delle soluzioni comuni. La Francia e la Germania devono dimostrare che esiste un nocciolo duro dell’Europa in grado di agire e di andare avanti unito.

Un successo simile potrebbe portare anche, finalmente, a un cambiamento dell’atteggiamento del Governo tedesco, da cui dipende in toto un esito positivo, più a lungo termine, della crisi monetaria stessa. La Francia, se adottasse una linea di condotta energica sulla crisi dei profughi, oltre a restare fedele alla sua tradizione politica darebbe una spinta al Governo tedesco, in modo indiretto: non è solo questione di mostrarsi solidali con quelli che cercano asilo politico, perché una solidarietà di questo tipo è un dovere giuridico; una solidarietà finanziaria è anche una necessità politica in seno a una comunità monetaria che può sopravvivere solo con una politica fiscale, economica e sociale comune.
Traduzione di Fabio Galimberti

Il caso Grecia ha mostrato che la vera natura dell'Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche».

Sbilanciamocie.info, newsletter 11 settembre 2015


L'estate del 2015 resterà una data fatale per l’Unione europea. È la prima volta che è emersa la possibilità che un paese esca dalla zona euro e nel medesimo tempo la crisi greca ha dimostrato, malgrado il ricordo di tutti i padri costituenti, che la vera natura della Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche in vista di costituire un grande mercato con regole ferree, funzionando come una super banca oppure andarsene. Non si tratta di aiutarsi a superare debolezze storiche mettendosi in condizioni di crescere, ma di garantire che ogni credito sia rimborsato, rigidamente nei tempi previsti dai trattati o simili. Non per caso l’indice di sviluppo degli stati del sud oscilla dallo zero virgola all’uno virgola, cioè al di sotto di ogni possibilità di crescita.

La piccola Grecia è stata il primo terreno di questa esperienza, la vittoria elettorale di Syriza ha permesso di formare, con l’aiuto di una modesta forza eterogenea, un governo di grande consenso, che ha sperato di trovare nel continente un’udienza favorevole, fino a spingere a non accettare come interlocutore la Troika – Bce, Fmi e Commissione – perché non rappresentano un organo eletto, quindi non formalmente valido. Era un rifiuto simbolico, perché di fatto questo trio è stato il rappresentante di Bruxelles e si è presentato come controparte, ma anche un simbolo ha un valore politico per cui la cosa ha irritato sommamente le autorità europee e la loro stampa.

Il programma del governo di Syriza è stato costituito da una serie di misure favorevoli ai ceti più deboli ed è stato accompagnato dalla richiesta di ristrutturare il debito pubblico e di ottenere dalla Germania la restituzione degli ingenti danni di guerra. Tali misure, presentate dal primo ministro Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, sono state tutte respinte proponendo come condizione preliminare a ogni discussione alcune riforme strutturali destinate a soddisfare i creditori.

Il dialogo non è stato possibile. Anzi, nel corso di alcuni mesi venuti a scadenza nell’agosto 2015 le richieste di rimborso si sono fatte ultimative portando il governo greco a scontrarsi con Angela Merkel e il ministro delle finanze tedesco Schauble, ambedue – e specie il secondo – irritatissimi con le tesi e il modo di presentarsi di Varoufakis che ha sostenuto la linea greca anche con la sua autorità di economista contro la filosofia dell’austerità.

In breve l’Ue, piacesse o no ad Atene, è stata rappresentata dalla Troika che ha fatto scudo contro Tsipras fino a rendere del tutto evidente che parte dell’Europa avrebbe preferito, piuttosto che accedere alla sue richieste, un’uscita dall’euro, detta “grexit” dall’alfabeto barbarico ora in uso.

Non sono mancati i rilievi sulle storture finanziarie del piccolo paese, ereditate dai governi precedenti: una fiscalità disordinata, che per esempio esentava, scrivendolo nientemeno che nella Costituzione, gli armatori e la chiesa ortodossa dalle imposte, nonché una quantità giudicata eccessiva di spese per il personale pubblico e soprattutto per la difesa, e una struttura industriale debolissima, situazioni che Tsipras si proponeva di risanare chiedendo qualche tempo e qualche mezzo per far fronte ai bisogni più impellenti: «Privatizzate, rinunciate alla spesa pubblica e abbassate le pensioni» è stata la risposta di Bruxelles accanto alla richiesta del rimborso del debito da concordare con i creditori, l’ultimo incontro con i quali si è rivelato insostenibile.

Nello scontro con questi inflessibili giganti, la Grecia è rimasta isolata, la esibita disponibilità del rappresentante francese, di Juncker e della stessa Merkel è rimasta strettamente limitata sul piano personale (qualche pacca sulle spalle e qualche buffetto esibiti davanti alle camere televisive nell’incontro con Tsipras), dall’Italia neanche questo, il tentativo di ottenere aiuti finanziari dai Brics si è risolto in nulla, la Russia essendo oggetto di sanzioni da parte dell’Europa.

A Tsipras non è rimasta altra scelta che mangiar quella minestra o saltare dalla finestra. Varoufakis si è ritirato dopo il successo al referendum di luglio e Tsipras doveva accettare o rifiutare i no della Troika su tutto il fronte. Tsipras ha preferito restare al suo posto combattendo metro per metro ma proponendo che il 20 settembre il popolo greco gli confermi o tolga la fiducia in straordinarie elezioni politiche.

L’Ue e la stampa dei suoi governi sono andati fuori dai gangheri: mossa cinica, come è cinico il personaggio è stato il rimprovero più moderato che gli è stato mosso. Varoufakis resta fuori e Syriza si è spaccata in due. Con soddisfazione di tutti i paesi europei che non avevano nascosto il timore di imitazione da parte di altri paesi del sud della linea di Tsipras, cioè l’ostinato rifiuto delle condizioni poste dalla Troika e in genere dalla linea dell’austerità.

Incombono le lezioni spagnole; Podemos simpatizza con Syriza, e la sua vittoria sul partito popolare di Rajoy è per Bruxelles una prospettiva più pericolosa della rivolta greca. Le dimensioni della Spagna sono ben più vaste e un’infezione di democrazia spaventa l’establishment europeo. Meglio l’Europa a due velocità, auspicata dal ministro delle finanze tedesco. Ben diversa da una scelta dei popoli verso la quale premono anche alcune delle sinistre extraparlamentari italiane, per le quali un’uscita dall’euro e il ritorno a una piena sovranità per ogni stato sembra auspicabile al di là dei prezzi da pagare.

«».

Qualche prima e veloce osservazione sul documento firmato da Varoufakis, Melenchon, LaFontaine e Fassina che propone una conferenza internazionale per un piano B di possibile uscita dall'euro.
Il guaio vero di questo documento non è solo che esso vede la luce nella imminenza delle elezioni greche e quindi rappresenta obiettivamente un attacco aperto alla linea seguita da Syriza. Ognuno è libero e quindi si assume le proprie responsabilità. Certamente non può fare finta di niente.

Con l'accordo che Tsipras stesso definisce pieno di rischi recessivi, quindi tutt'altro che bello, subito in condizioni ricattatorie, il governo greco aveva però ottenuto di porre la questione del debito come questione da discutere a livello europeo. Non solo per la Grecia, ma per tutti i paesi europei vittime dello stesso problema. Naturalmente restando nell'Eurozona. D'altro canto non vedo altro modo per fare oggi una conferenza - come ha più volte detto Syriza - se non all'interno di uno spazio comune.
Qui invece si propone una conferenza internazionale, cioè un altro atto pubblico, non , come disse precedentemente Varoufakis, un gruppo di lavoro che prepara con la dovuta riservatezza un eventuale piano d'uscita dall'euro da eseguire in tempi rapidi per evitare speculazioni distruttive. In questo modo il piano B diventerebbe inevitabilmente quello A, cioè il principale. Cioè l'uscita dall'euro.
Non sto a ricordare che questa uscita sarebbe traumatica e quindi ci vorrebbe molta accortezza nell'assumerla. Strumenti di governo, e non solo di opposizione, forti per contrastare la fuga dei capitali, le manovre speculative, l'aumento verticale della inflazione, la perdita ancora più veloce del potere d'acquisto di salari e pensioni.
Va ricordato che l'uscita dall'euro non eviterebbe al paese che lo fa di restare in balia dei mercati internazionali. Né di essere possibile preda del dominio tedesco. La Polonia ha una sua moneta, lo zloti, - e intende mantenerla a quanto mi risulta -, ma questo non ha evitato che essa potesse diventare un'articolazione subordinata dell'apparato produttivo tedesco. La forza di un paese non si determina dalla sua moneta. E' vero il contrario.
La forza di una moneta sullo scenario internazionale dipende dalla potenza economica, produttiva, politica e militare del paese che la sostiene. E' la storia del rapporto Usa-Dollaro. Se vogliamo che l'Europa diventi una forza politica, federale, capace di dire la sua nel processo di transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est è necessario che non venga smembrata o che diventi un protettorato tedesco, che sconta l'abbandono o la cacciata dei paesi mediterranei in particolare, che è precisamente l'obiettivo della attuale leadership germanica.
Perché non possiamo uscire dallUE, ma dobbiamo conquistarla. «Tutti i paesi, se perdiamo l’Europa, tanto più quelli più piccoli, finirebbero per fluttuare come fuscelli alla mercé delle selvagge leggi del mercato». Nonostante le aggressioni e gli abbandoni (da destra e da sinistra) dobbiamo continuare a sostenere Tsipras.S

bilanciamoci.info, newsletter, 11 settembre 20l5

Sono oramai quasi cinque anni da quando è deflagrato il problema greco, reso clamoroso dalla crisi mondiale ma da quella solo in minima parte causato: già da quando il paese, nel 1981, era entrato nella Comunità europea, primo fra i nuovi sud mediterranei, era risultato evidente che l’allargamento a questa nuova zona dell’Europa avrebbe dovuto indurre cambiamenti di non poco conto nella politica di Bruxelles. Con l’ingresso della Grecia, e qualche anno dopo della Spagna e del Portogallo, tutti e tre peraltro appena usciti dalla dittatura, la nord-centrica entità avrebbe dovuto fare i conti con un ineludibile problema: quello nord-sud (cui solo l’Italia era familiare). Che molti di loro avevano conosciuto solo nei termini del colonialismo.

Con lucidità, quando qualche mese dopo esser diventata membro della Cee la Grecia divenne titolare della sua presidenza di turno, il suo ministro degli esteri Charampopulos, dichiarò: «Accettiamo le responsabilità che ci derivano dalla presidenza, ma non possiamo per questo venir meno ai nostri vecchi giudizi... L’Europa dei sei e poi dei nove era l’Europa dei ricchi, del nord. L’Europa dei dieci e ancor più quella dei dodici sarà un’Europa che vivrà in modo acuto i problemi nord-sud che non possono esser risolti se non attraverso un massiccio trasferimento di risorse e un intervento pubblico pianificatore che condizioni il gioco selvaggio del mercato, destinato ad approfondire la polarizzazione».

Charampopulos rappresentava il primo governo socialista del paese, quello di Andreas Papandreu, che tuttavia, dopo un buon esordio, dimenticò molte cose. Fra queste l’impegno a trarre le conseguenze dalla realistica considerazione espressa all’inizio dell’avventura europea. Era ancora lui al governo, e perciò membro del Consiglio dei Ministri europeo, quando questo, nel 1986, assunse una delle decisioni più cariche di conseguenze negative: la liberalizzazione del movimento dei capitali senza che alcuna altra misura compensativa delle sue possibili conseguenze fosse presa. E non risulta che Atene abbia obiettato, così come, del resto, nessuno dei molti governi socialisti che a quel tempo governavano. Così come assai poco obiettarono anche le sinistre all’opposizione, come nel caso italiano. La speranza di un’intesa mediterranea non si concretizzò mai.

Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, nel 1993, per non parlare dell’Eurozona, il divario nord-sud diventa cronico. A questo punto anche ove fosse ipotizzabile il massiccio trasferimento auspicato dalla Grecia nel 1981, non sarebbe più sufficiente. Sarebbe necessaria una ridefinizione complessiva del modello e della strategia dell’Unione. Che come sappiamo non ci fu, né c’è tantomeno oggi.

Le risorse dell’Unione furono così sfruttate con spregiudicatezza per operazioni speculative, sovvenzioni a investimenti privati non programmati e non produttivi e un po’ di demagogica spesa pubblica elettorale.

Sappiano tutti cosa è accaduto dopo: nel 1998, quando la Grecia chiede di entrare nel sistema monetario europeo, il suo deficit è al 4,6 % e il suo debito pubblico al 108,5. Cifre troppo negative per ottenere il diritto all’ingresso nell’esclusivo club. Ma il nuovo governo socialista, quello di Simitis, dichiara, solo due anni più tardi, di aver messo tutto in regola e ottiene di entrare nell’Eurozona. E però non era vero, il bilancio era stato falsato. Da allora cresce un’abnorme evasione fiscale, sperpero e corruzione, mentre il paese viene posto sotto la miope tutela di Bruxelles, tanto più interessata a non vedere la realtà perché chi comanda in Europa sono i compagni di partito di quelli al governo ad Atene.

Poi la serie di prestiti micragnosi e condizionati da inaccettabili misure di politica economica: nel 2009 110 miliardi di euro (80 dall’Ue,30 dal Fmi) sulla base del Memorandum of Understanding, da ripagare in 13 tranches. Molto lucrativo per i creditori, soprattutto tedeschi. Inutile per la Grecia. Così come il secondo piano del 2010, basato su prestiti del Fondo Europeo di Stabilità Monetaria, dell’Fmi, e del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, e così come tutte le altre misure d’emergenza caoticamente e affannosamente varate in questi ultimi anni senza alcuna legittimazione democratica dei procedimenti posti in atto. Perché sempre finalizzate alla restituzione del debito, mai a creare le condizioni necessarie a far sì che tale restituzione fosse possibile: una profonda ristrutturazione dell’economia del paese e un rilancio degli investimenti per uno sviluppo sensato.

Il resto, quanto avviene nella società greca e i mutamenti politici che si innescano, fino alla controffensiva democratica di Syriza, è cronaca attuale.

Ma a questo punto non siamo più al dramma greco, siamo alla crisi dell’Unione Europea tutta: investita da proteste, scetticismo, perduta credibilità. Cui Bruxelles risponde accentuando ulteriormente la tendenza a escludere la politica, e dunque il controllo democratico, dalle decisioni. Siamo oramai nel pieno del modello post-parlamentare e post-democratico, quello auspicato dalla Trilateral più di quaranta anni fa, quando, con la fine della convertibilità del dollaro, ci fu il primo segnale della crisi epocale che viviamo ancor oggi. C’è troppa democrazia, il sistema non può sopportarla – proclamarono allora gli esponenti dell’Occidente, consigliando di non lasciare le questioni economiche in mano a parlamenti incompetenti, perché troppo delicate e complesse.

Di questo modello l’Ue è diventata anticipatrice, sollecitando i governi nazionali dei paesi membri a seguire un’analoga indicazione. (Quello di Matteo Renzi è il miglior allievo).

Era inevitabile che una vicenda che ha prodotto drammi sociali così gravi aprisse un dibattito acceso sulla strategia da perseguire per rendere meno pesante il ricatto cui il paese è stato sopposto anche con il chiaro intento di liberarsi di un governo «pericoloso» come quello di Tsipras: uscire dall’euro e fatalmente dall’Ue, oppure subire il compromesso e cercare di gestirlo per recuperare un rapporto di forza che renda possibile un’alternativa.

Gli articoli, le interviste, i documenti pubblicati nelle pagine di questo e-book aiuteranno ciascuno a farsi un’opinione più circostanziata. La questione ha tanti e drammatici risvolti che non c’è da meravigliarsi se si sono verificati, in Grecia e non solo, dissensi anche aspri e rotture.

Confesso di far fatica a entrare nel dibattito greco perché capisco le perplessità di chi in questi anni ha forse pensato che la strada sarebbe stata più facile e oggi si trova invece difronte a scelte durissime. Capisco la sofferenza di chi vive in prima persona la lacerazione di Syriza la cui unità è stata, anche per noi, un esempio e una speranza. Sono tutti, da una parte e dall’altra, compagni che stimo, moltissimi che conosco da tempo e per cui nutro anche molto affetto. Ma proprio perché la vicenda non è ormai più solo greca ma europea, e dunque riguarda anche noi non greci, non posso esimermi dal dare un giudizio, avere un’opinione. Che tiene conto del fatto che, nel giudicare, mi preoccupa il come riorganizzeremo le forze di un fronte di sinistra in grado di combattere per una diversa Unione europea.

Ho detto Unione e non solo Europa, perché credo sarebbe una catastrofe se ciascuno decidesse di andarsene, così perdendo il terreno comune di lotta, il quadro entro cui, per difficile che sia, si deve combattere. Tenendo a mente soprattutto che se c’è, nell’era della globalizzazione, una speranza di conservare un qualche controllo politico sulle sorti delle nostre società, dobbiamo continuare a puntare su una articolazione macroregionale del mondo, al cui livello non è pensabile possa esser costruito un ordinamento democratico.

Tutti i paesi, se perdiamo l’Europa, tanto più quelli più piccoli, finirebbero per fluttuare come fuscelli alla mercé delle selvagge leggi del mercato. (La Germania, forse, potrebbe permettersi un’uscita dall’Ue, né la Grecia e nemmeno l’Italia, costi quel che costi. Il prezzo di un exit sarebbe molto più caro.)

Non perdere l’Europa, anche perché – come ha scritto Balibar in questo volume – l’Europa è stata condotta dalla storia dei suoi movimenti sociali (delle dure lotte di classe che vi si sono svolte) a un grado di riconoscimento istituzionale dei diritti sociali come diritti fondamentali senza uguali. Non a caso la cosa che abbiamo più in comune per davvero in Europa è proprio il nostro sindacalismo, non mero agente del prezzo della forza lavoro, ma portatore di un’etica che ha penetrato il buonsenso comune. È vero che questo patrimonio è ormai gravemente minacciato, ma proprio per questo dobbiamo cercare di non lasciare che ce lo portino definitivamente via.

Per tutte queste ragioni sono d’accordo con la difficile scelta di Tsipras. Anche perché la sua sfida mi tiene, come sinistra italiana ed europea, dentro la battaglia. Che è buona cosa per noi non greci, ma anche – credo – per i greci. Sebbene sia consapevole che quanto fino ad ora abbiamo fatto sia così poco; e quello che siamo riusciti a imporre ai nostri governi niente.

La disintegrazione dell'autorità pubblica è una delle cause principale dei flussi dall'Africa e dal Medio Oriente. «Non è una disgrazia casuale ma uno dei modi con i quali le grandi potenze esercitano il loro colonialismo economico. Il genere umano dovrebbe prepararsi a vivere in modo più “flessibile” e nomade». Le idee del filosofo sloveno per un programma paneuropeo che tenga conto della realtà.

La Repubblica, 11 settembre 2015

NEL suo saggio “La morte e il morire” Elisabeth Kübler- Ross proponeva il famoso schema delle cinque fasi con le quali reagiamo alla notizia di avere una malattia terminale, ovvero negazione, rabbia, negoziazione (la speranza di poter rimandare in qualche modo il fatto), depressione, accettazione.

La reazione dell’opinione pubblica e delle autorità dell’Europa occidentale al flusso di rifugiati proveniente da Africa e Medio Oriente non è una mescolanza alquanto simile di reazioni disparate? C’è (sempre meno) la negazione: «Non si tratta di un fenomeno così serio, basta ignorarlo ». C’è la rabbia: «I rifugiati sono una minaccia per il nostro stile di vita, tra di loro si nascondono fondamentalisti musulmani, dovrebbero essere fermati a tutti i costi». C’è la negoziazione: «Va bene, stabiliamo delle quote e diamo un sostegno economico per realizzare campi profughi nei loro stessi Paesi». C’è la depressione: «Siamo perduti, l’Europa si sta trasformando nell’Europastan ». Unica assente è l’accettazione che, in questo caso, avrebbe voluto dire mettere a punto un piano pan-europeo coerente che prevedesse le modalità con le quali affrontare il flusso di rifugiati.

La prima cosa da fare è rammentare che la maggior parte dei rifugiati proviene da “stati falliti”, stati nei quali l’autorità pubblica è più o meno inerte, quanto meno in ampie zone (Siria, Libano, Iraq, Libia, Somalia, Congo). Questa disintegrazione del potere statale non è un fenomeno locale, bensì la conseguenza di pratiche economiche e politiche internazionali, e in alcuni casi, come in Libia e Iraq, è la conseguenza diretta degli interventi occidentali. L’ascesa degli “stati falliti” non è una disgrazia casuale ma uno dei modi con i quali le grandi potenze esercitano il loro colonialismo economico. Oltre a ciò, si dovrebbe tenere presente che i semi degli “stati falliti” mediorientali vanno fatti risalire all’arbitrario disegno dei confini dopo la Prima guerra mondiale a opera di Regno Unito e Francia: in definitiva, unendo i sunniti in Siria e in Iraq, l’Is sta rimettendo insieme ciò che fu diviso dalle potenze coloniali.

I rifugiati non stanno semplicemente scappando dalla loro patria lacerata dalla guerra: coltivano anche un sogno preciso. I rifugiati nel sud dell’Italia non vogliono trattenersi lì: la maggior parte di loro vuole vivere nei Paesi scandinavi. Alle migliaia di rifugiati accampati intorno a Calais non piace l’idea di restare in Francia: sono disposti a rischiare la vita pur di entrare nel Regno Unito. Le decine di migliaia di rifugiati nei Balcani vogliono raggiungere almeno la Germania. Tutti costoro manifestano apertamente questo loro sogno come un diritto incondizionato, chiedendo alle autorità europee non soltanto cibo adeguato e assistenza medica, ma anche i mezzi di trasporto necessari per raggiungere le destinazioni scelte. In questa loro richiesta impossibile c’è qualcosa di enigmaticamente utopistico, come se l’Europa avesse il dovere di realizzare il loro sogno.

Si può osservare qui quanto sia paradossale questa utopia: proprio quando la gente si ritrova in povertà, in difficoltà, in pericolo, e ci si aspetterebbe che si accontentasse di un minimo di sicurezza e di benessere, l’utopia assoluta esplode. I rifugiati devono imparare la dura lezione: “La Norvegia non esiste”. Anche in Norvegia. Dovranno dunque imparare a censurare i loro sogni: invece di inseguirli nella realtà, dovrebbero concentrarsi e cercare di cambiare la realtà.

A questo proposito, è indispensabile essere molto chiari: si deve abbandonare una volta per tutto il concetto secondo cui la tutela di uno specifico stile di vita personale è inquadrabile di per sé in una categoria proto-fascista o razzista. Se non abbandoneremo questo concetto, spianeremo la strada all’ondata dei populisti contrari all’immigrazione che monta in tutta Europa. Si dovrebbe evitare di cadere nella trappola del gioco liberale del “quanta tolleranza siamo in grado di permetterci?”. È necessario dunque allargare la prospettiva: i rifugiati sono il prezzo da pagare per l’economia globale. Nel nostro mondo globale, i prodotti circolano liberamente, ma non così le persone, e nascono nuove forme di apartheid. L’argomento dei muri permeabili, del rischio di essere invasi dagli stranieri, è intrinseco e immanente al capitalismo globale. È un indice di ciò che c’è di falso al riguardo della globalizzazione capitalista. È come se i rifugiati volessero estendere la libera circolazione globale dai prodotti agli individui.

Se le grandi migrazioni sono un fenomeno costante della storia umana, è anche vero che nella storia moderna esse sono dovute per lo più alle espansioni coloniali: prima della colonizzazione, i Paesi del Terzo Mondo erano formati in maggioranza da comunità locali autosufficienti e relativamente isolate. È stata l’occupazione coloniale a far deragliare il loro tradizionale stile di vita e a portare di nuovo a migrazioni su vasta scala (anche tramite il mercato degli schiavi). L’ondata migratoria in corso in Europa non è un’eccezione. In Sudafrica oltre un milione di rifugiati provenienti dallo Zimbabwe è aggredito dai poveri locali che li accusano di rubare loro i posti di lavoro. Di sicuro ci saranno altre migrazioni, non soltanto a causa di conflitti armati, ma anche perché ci saranno altri “stati canaglia”, altre crisi economiche, altri disastri naturali, il cambiamento del clima e così via.

La lezione più importante da apprendere, dunque, è che il genere umano dovrebbe prepararsi a vivere in modo più “flessibile” e nomade. La sovranità nazionale dovrà essere ridefinita radicalmente e si dovranno inventare nuovi livelli di cooperazione globale. Nella civile accoglienza dei rifugiati in Austria e in Germania dovremmo vedere un barlume di speranza, ma siamo ancora molto lontani dall’approccio pan-europeo.

Prima di tutto l’Europa dovrà riaffermare il suo impegno a fornire i mezzi per una decorosa sopravvivenza dei rifugiati. E qui non si dovrebbero fare compromessi: le grandi migrazioni sono il nostro futuro, e l’unica alternativa a questo impegno è una nuova barbarie (quello che alcuni chiamano “scontro di civiltà”).

Secondo, in conseguenza di tale impegno l’Europa dovrà necessariamente organizzarsi, e imporre regole e regolamenti chiari. Dovrebbe arrivare a realizzare un controllo governativo del flusso dei rifugiati tramite un vasto network amministrativo che abbracci tutta l’Unione europea (per evitare barbarie locali come quelle delle autorità ungheresi e slovacche). Ai rifugiati occorrerà dare garanzie circa la loro sicurezza, ma si dovrà anche far capire che dovranno accettare il Paese nel quale saranno destinati dalle autorità europee, e che dovranno rispettare le leggi e le usanze degli stati europei: non ci sarà tolleranza alcuna per le violenze perpetrate per motivi religiosi, di genere, o etnici, per nessuno, e non ci sarà il diritto di imporre agli altri il proprio stile di vita o la propria fede, dovendo prevalere il rispetto di ogni libertà dell’individuo, qualora questi intenda abbandonare i propri usi. Se una donna sceglierà di coprirsi il volto, la sua scelta dovrà essere rispettata, ma se sceglierà di non farlo, dovrà essere garantita anche la sua libertà di non farlo. È vero: questo insieme di regole sotto sotto privilegia lo stile di vita dell’Europa occidentale, ma è il prezzo dell’ospitalità europea.

Queste regole dovrebbero essere enunciate chiaramente e chiaramente fatte rispettare, anche con misure repressive, se necessario (tanto nei confronti dei fondamentalisti stranieri, quanto dei nostri stessi razzisti contrari all’immigrazione).

Terzo, si dovrà escogitare un nuovo tipo di intervento internazionale oltre a quello militare e quello economico, che si sottragga alle trappole del neocolonialismo. Potremmo pensare a forze di pace dell’Onu addette a tenere sotto controllo la situazione in Libia, Siria o Congo? I casi di Iraq, Siria e Libia dimostrano come il tipo sbagliato di intervento (in Iraq e in Libia) e così pure viceversa il non-intervento (in Siria, dove dietro la facciata del non-intervento di fatto sono presenti e attive varie potenze straniere, dalla Russia all’Arabia Saudita) possono portare al medesimo punto morto.

Quarto, il compito più difficile e importante è un radicale cambiamento economico che dovrebbe cancellare una volta per tutte le condizioni che creano il fenomeno dei rifugiati. La causa ultima dell’ondata di rifugiati è il capitalismo globale odierno stesso, con i suoi giochetti geopolitici. Se non cambieremo drasticamente le cose, presto ai rifugiati dall’Africa si uniranno i migranti greci e di altri Paesi europei.
(Traduzione di Anna Bissanti)

«Sinistre. Fuori dall'euro: lo propone un manifesto firmato Varoufakis, Lafontaine, Mélenchon e Stefano Fassina. Lanciano una conferenza internazionale. Propongono di dire basta ai trattati-capestro». Positivo allargare lo sguardo e il conflitto dalla Grecia all'Europa, ma negativo sarebbe praticare un Grexit da sinistra.

Il manifesto, 11 settembre 2015

«Un piano B per la Gre­cia» era quello di Yanis Varou­fa­kis, quello della famosa «moneta paral­lela», quando da mini­stro dell’economia, nel corso delle trat­ta­tive tra il suo paese e la Ue, cer­cava di con­vin­cere il primo mini­stro Ale­xis Tsi­pras a non cedere al ricatto delle isti­tu­zioni euro­pee e cer­care strade alter­na­tive a quella che lui con­si­de­rava una resa. «Un plan B» è lo slo­gan usato in que­ste set­ti­mane da Jean-Luc Mélen­chon, lea­der del Parti de Gau­che fran­cese, nel Front de Gau­che, per indi­care una strada alter­na­tiva a quella dell’obbedienza, anche obtorto collo, ai trat­tati euro­pei. «Un piano B in Europa» è il titolo di un dibat­tito sboc­ciato ieri a sor­presa nel pro­gramma della Fête de l’Humanité, sto­rico appun­ta­mento della sini­stra fran­cese in corso in que­sti giorni alla Cor­neuve, alle porte di Parigi. Si terrà domani alle 16 e 30. E sarà un evento per le sini­stre di tutta Europa. I pro­ta­go­ni­sti sono un poker d’assi dei cul­tori del genere. Nes­suno di pro­ve­nienza ’estre­mi­sta’, anzi: sono tutti ex socia­li­sti o social­de­mo­cra­tici. Ma sono tutti usciti dai rispet­tivi par­titi con­tro la loro irre­si­sti­bile e inar­re­sta­bile «deriva a destra».

Natu­ral­mente il padrone di casa sarà Mélen­chon, depu­tato fran­cese e già lea­der del Front de Gau­che; con lui Varou­fa­kis, oggi ancora den­tro Syriza ma in rotta di col­li­sione con le poli­ti­che del suo governo; Oskar Lafon­taine, ex mini­stro delle finanze tede­sco, fon­da­tore della Linke; e infine per l’Italia ci sarà Ste­fano Fas­sina, ex respon­sa­bile eco­no­mico del Pd, ex vice­mi­ni­stro dell’economia del governo Letta, oggi fuori dal par­tito di Renzi e tra i lea­der della “sini­stra radi­cale”. Tutti e quat­tro ex tifosi di Ale­xis Tsi­pras, che però dopo la firma del memo­ran­dum non seguono più. Ma soprat­tutto tutti e quat­tro ormai con­vinti dell’impossibilità di met­tere con­cre­ta­mente in atto poli­ti­che di redi­stri­bu­zione della ric­chezza, di crea­zione di lavoro, di tran­si­zione eco­lo­gica e rico­stru­zione della par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica senza «rom­pere con que­sta Europa» ovvero «den­tro i vin­coli di que­sta Ue». Dopo le vicende gre­che e alla vigi­lia di un nuovo voto ad Atene, il tema dell’accettazione delle regole agita la discus­sione di tutte le sini­stre radi­cali euro­pee, inclusa quella nostrana. E a sini­stra le discus­sioni si inta­vo­lano su un piano incli­nato che porta alle scissioni.

L’intento natu­ral­mente è oppo­sto. I quat­tro hanno scritto nero su bianco un mani­fe­sto che verrà reso pub­blico forse già oggi, alla vigi­lia del dibat­tito. Di fatto è il lan­cio, se non l’atto di nascita, di una nuova orga­niz­za­zione della sini­stra euro­pea. O di un nuovo movi­mento. Deli­nea un pro­gramma di mas­sima per «levarsi di dosso la cami­cia di forza del neo­li­be­ri­smo» che passa per l’abolizione del fiscal com­pact e l’opposizione al Ttip, il Trat­tato tran­sa­tlan­tico sul com­mer­cio e gli investimenti.

Fino a qui sem­bre­reb­bero i soliti i fon­da­men­tali delle sini­stre già rac­colte all’europarlamento nel Gue e nella Sini­stra euro­pea. Ma sta­volta c’è una netta scelta di campo: basta con i trat­tati, è il senso del discorso, mai più firme dei governi alle con­di­zioni cape­stro pro­po­ste dalle isti­tu­zioni euro­pee, basta capi­to­la­zioni sotto la minac­cia del «rullo com­pres­sore» di «una parte» della Bce.

L’invito, cioè il Piano A, è a una cam­pa­gna di disob­be­dienza civile euro­pea con­tro le scelte e le «regole» fino all’ottenimento della rine­go­zia­zione. I governi che rap­pre­sen­tano le oli­gar­chie — è que­sto il ragio­na­mento — hanno un loro piano A, ovvero pie­gare la resi­stenza dei paesi in crisi, e un piano B, ovvero espel­lerli dall’eurozona nelle peg­giori con­di­zioni distrug­gen­done il sistema ban­ca­rio e l’economia, come hanno minac­ciato di fare con la Gre­cia. Per que­sto le sini­stre deb­bono attrez­zarsi. Dotan­dosi di un piano A, appunto il ten­ta­tivo di nego­ziare il cam­bia­mento dei trat­tati, ma anche e soprat­tutto di un piano B: se l’euro non può essere demo­cra­tiz­zato serve un modo per non dover cedere al ricatto, per assi­cu­rare che gli euro­pei abbiano un sistema mone­ta­rio che operi a loro van­tag­gio. Il docu­mento evita i det­ta­gli ’tec­nici’, ma non si sot­trae agli esempi: valute paral­lele, digi­ta­liz­za­zione delle tran­sa­zioni, fino all’uscita dall’euro e la sua tra­sfor­ma­zione da moneta unica a valuta comune.

In ogni caso tutto que­sto sarebbe impos­si­bile, ragio­nano i quat­tro autori, senza un’azione euro­pea coor­di­nata e «inter­na­zio­na­li­sta». Per que­sto domani a Parigi lan­ce­ranno la pro­po­sta di una con­fe­renza aperta a tutti, cit­ta­dini, par­titi e orga­niz­za­zioni, da tenersi in tempi brevi, già a novembre.

Visto da Atene, è un dito nell’occhio di Ale­xis Tsi­pras, alla vigi­lia delle ele­zioni in cui si gioca l’osso del collo, e un inco­rag­gia­mento ai fuo­riu­sciti di Unione popo­lare. Ma il mani­fe­sto non può essere letto solo in tra­du­zione greca e suona assai più ambi­zioso. L’autorevolezza dei quat­tro autori è incon­te­sta­bile. E anche il colpo di scena per tutte le sini­stre euro­pee, tor­men­tate dalla discus­sione sull’uscita dall’euro, fin qui ban­diera quasi esclu­siva delle destre radi­cali e di pochi gruppi a sinistra.

I grandi ritornano. Le ragioni dell'attualità dell'analisi del colonialismo e dell'esperienza personale dell'intellettuale nei drammi del mondo di oggi.

Comune-info, newsletter, 11 settembre 2015
Non è certo la prima volta che le idee e la breve esistenza di Frantz Fanon sembrano capaci di far luce tra i dedali intricati e complessi dei percorsi di una realtà contemporanea. Viviamo un tempo in cui l’accumulazione del capitale espropria dei beni comuni interi popoli e depreda la natura in una forma che ripropone diversi aspetti della dominazione coloniale. Una forma che spesso non si limita più a sottomettere i dominati ma non esita a sterminarli, qualora oppongano resistenza e minaccino di sfuggire al suo controllo. Alla decolonizzazione del pensiero critico e delle pratiche di emancipazione ispirate dallo psichiatra nero della Martinica, Raúl Zibechi ha dedicato il suo ultimo libro. In questo articolo riassume le cinque principali ragioni della straordinaria attualità politica della lezione antirazzista e antieurocentrica di Fanon, un pensatore lontano dall’accademia che ha messo la vita intera al servizio della lotta anticoloniale in Algeria e nel mondo

Il pensiero di Frantz Fanon è ritornato. A cinquant’anni dalla morte, i suoi libri tornano ad essere letti nelle università e negli spazi dei settori popolari organizzati. Alcune delle sue riflessioni centrali illuminano aspetti delle nuove realtà e contribuiscono alla comprensione del capitalismo, in questa fase di sangue e di dolore per los de abajo.

La riedizione di alcune delle sue opere come Piel negra, mascaras blancas (Akal 2009) [Pelle nera maschere bianche, Marco Tropea, ndt], con commenti di Immanuel Wallerstein, Samir Amin, Judith Butler, Lewis R. Gordon, Ramón Grosfoguel, Nelson Maldonado-Torres, Sylvia Wynter e Walter Mignolo, ha contribuito alla diffusione del suo pensiero, così come le periodiche ristampe della sua opera principale, I dannati della Terra, con la prefazione di Jean Paul Sartre. Sarebbe necessaria anche la riedizione del suo libro Sociologia di una rivoluzione, pubblicato nel 1966 (in Messico, ndt) dalla Editorial Era (in Italia da Einaudi nel 1963, ndt)

Il rinnovato interesse per Fanon, tuttavia, va ben al di là dei suoi libri e dei suoi scritti. Si tratta, credo, di un interesse epocale, nel duplice significato del periodo attuale che attraversano le nostre società e della nascita di forti movimenti antisistemici che vedono come protagonisti i diversi abajos. Voglio dire che ci troviamo di fronte a un interesse politico più che a una curiosità accademica o letteraria.

A mio parere, ci sono cinque ragioni che spiegano l’attualità di Fanon.

La prima è che nella sua fase attuale, centrata sull’accumulazione per espropriazione (o quarta guerra mondiale), il capitalismo ripropone alcuni aspetti della dominazione coloniale. Alcuni di questi aspetti sono l’occupazione di enclave territoriali da parte di imprese multinazionali e l’occasionale ma importante occupazione militare da parte degli imperialismi di vari paesi con la scusa della guerra contro il terrorismo.

Ci sono però altri aspetti che è necessario quantomeno menzionare. La popolazione è diventata un obiettivo militare, sia per il suo controllo che per la sua eventuale eliminazione, perché è un ostacolo all’accumulazione per espropriazione. La guerra contro le donne, diventata un nuovo bottino della conquista di territori, è un altro degli aspetti del nuovo colonialismo, così come la crescente militarizzazione dei quartieri popolari nelle periferie delle grandi città.

Nella misura in cui accumula rubando i beni comuni di interi popoli, il capitalismo ci permette di dire che ci troviamo di fronte a un neocolonialismo, sebbene, a essere rigorosi, si tratta della fase di decadenza del sistema, che non aspira più ad assorbire le classi dominate bensì, semplicemente, a controllarle e sterminarle nel caso in cui oppongano resistenza.

La seconda [ragione] è che appare sempre più evidente che la società attuale si divide, come dice Grosfoguel basandosi su Fanon, in due zone: la zona dell’essere, dove i diritti delle persone vengono rispettati e dove la violenza è un’eccezione, e la zona del non-essere, dove la violenza è la regola. Il pensiero di Fanon ci aiuta a riflettere su questa realtà che pone la massima distanza tra il capitalismo del XXI secolo e quello dello Stato sociale.

La terza è la critica che Fanon fa ai partiti di sinistra del centro del mondo, nel senso che le loro modalità di azione si rivolgono esclusivamente a un’élite delle classi lavoratrici, lasciando da parte i diversi abajos che nel marxismo sono liquidati come appartenenti al sottoproletariato. Al contrario, Fanon ripone la sua più grande speranza nella gente comune de abajo quale possibile soggetto della sua autoemancipazione o dell’emancipazione tout-court.

In quarto luogo, Fanon non era un intellettuale né un accademico. Metteva la sua conoscenza al servizio di un popolo in lotta come quello algerino, la cui causa ha servito fino al giorno della morte. Questa figura di pensatore-militante, o come si voglia chiamare chi si impegna in modo incondizionato con los de abajo, è un contributo straordinario alla lotta dei settori popolari.

A questo proposito, è bene sottolineare la critica all’eurocentrismo delle sinistre, alla pretesa di trasferire in modo meccanico nel mondo del non-essere, proposte e analisi nate nel mondo dell’essere. La nascita nel continente americano di femminismi indigeni, neri e popolari è una dimostrazione dei limiti di quel primo (e fondamentale) femminismo europeo che, tuttavia, aveva bisogno di essere reinventato tra le donne del colore della terra, in base alle loro specifiche tradizioni e realtà, tra le quali la centralità della famiglia nel mondo femminile latinoamericano.

Sebbene questo breve riassunto trascuri diversi importanti aspetti dell’opera di Fanon, come ad esempio le riflessioni sulla violenza degli oppressi, mi sembra necessario sottolineare un ulteriore aspetto, che ritengo centrale nel pensiero critico attuale. Ci si interroga sulle ragioni per le quali l’uomo nero voglia schiarire la sua pelle, sul perchè la donna nera desideri essere bionda o far parte di una coppia il più bianca possibile. Il dominato, il perseguitato, dice Fanon, non solo cerca di recuperare la tenuta di cui si è appropriato il padrone, ma vuole il posto del padrone. È evidente che, dopo il fallimento della rivoluzione russa e di quella cinese, questa considerazione deve occupare un posto centrale nella lotta anticapitalista.

Non condivido il ruolo che Fanon attribuisce alla violenza de los de abajo nel processo di trasformazione in soggetti delle proprie vite, nel processo di liberazione dall’oppressione. La violenza è necessaria ma non è la soluzione, come rileva giustamente Wallerstein giustamente nel suo commento a Pelle nera, maschere bianche.

Credo che dobbiamo approfondire questa discussione: come fare per non riprodurre la storia nella quale gli oppressi ripetono più volte l’oppressione di cui sono stati vittime. A mio parere, si tratta di creare qualcosa di nuovo, un mondo nuovo o nuove realtà, che non siano la fotocopia del mondo de los de arriba e che siano sufficientemente potenti da dissolvere, dall’immaginario collettivo, il posto centrale che occupa l’oppressore, il padrone, il proprietario. Continuo a credere che l’esperienza delle basi di appoggio dell’EZLN sia un esempio in questa direzione.

Riferimenti

Fonte: La Jornada. Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento, è redattore del settimanale
Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. L’edizione italiana del suo ultimo libro, Alba di mondi altri, è stata stampata in Italia in luglio dalle edizioni Museodei. Molti altri articoli inviati da Zibechi a Comune-info sono qui.

Chissà se e quando capiranno che l'esodo non caccia verso 'Europa solo il Medio oriente, ma anche tutta l'Africa subsahariana e le altre regioni saccheggiate dal Primo mondo e assoggettate a regimi tirannici e corrotti promossi di nostri governi

. La Repubblica, 10 settembre 2015

«Dalla Germania solo e sempre cattive notizie» amava ripetere Tacito: evidentemente il grande storico romano non aveva previsto Angela Merkel. Colei che ancora solo poche settimane or sono nell’immaginario collettivo del Vecchio continente veniva raffigurata come “matrigna d’Europa”, arcigna espressione di una visione senza cuore della po-litica, si è come d’incanto trasformata in motivo di stupefatta sorpresa. In qualche caso persino di entusiastica ammirazione e il timore di una “egemonia tedesca” in speranza che la Germania assuma finalmente la guida del processo di unificazione europeo. Certo: l’epocale svolta nella politica della accoglienza e dell’integrazione che la Merkel è riuscita nel giro di pochissime ore a imporre al suo paese ha una portata le cui conseguenze potremo valutare solo nei prossimi mesi o addirittura anni. Tanto più importante adesso, quando

Ungheria e Danimarca guidano il fronte di chi rifiuta l’accoglienza. Essa infatti ridisegna non solo l’atlante geo-economico dell’area tra l’Europa e la costa meridionale del Mediterraneo ma ridefinisce anche i parametri etici dell’agire politico di una componente decisiva, l’Unione europea, del mondo occidentale. Non è per questo esagerato paragonare la scelta della Merkel che ha trasformato la sua persona e il suo paese in motivo di speranza per centinaia di migliaia di profughi al gesto rivoluzionario compiuto da Willy Brandt il 7 dicembre del 1970 quando l’ex borgomastro di Berlino diventato cancelliere si inginocchiò dinnanzi al monumento in memoria della rivolta del ghetto di Varsavia. Un gesto grazie al quale la Germania fece pace con se stessa e col mondo.

Anche se drammatici fattori contingenti hanno avuto un peso non indifferente di questa “metamorfosi Merkel” è possibile razionalmente delineare la genesi. Ha cioè precise origini e spiegazioni che hanno a che fare con la vicenda storica tedesca ma anche con la natura specialissima della leadership politica che sta lentamente trasformando il cancellierato della Merkel in un fenomeno per i manuali di politologia.

La convinzione della Merkel e di tutto il governo tedesco di poter affrontare e risolvere («faremo tutto il necessario e ci riusciremo » questa l’impegnativa promessa della Merkel) la sfida di integrare 800mila migranti si fonda su due certezze: le precedenti esperienze storiche. E il solido funzionamento del sistema sociale, economico e politico-istituzionale.

Anche senza ritornare alle drammatiche vicende degli anni tra il 1944 e il 1950 quando milioni di profughi lasciarono le terre ex prussiano-tedesche cercando rifugio e integrazione nelle regioni ad occidente dell’Elba ci sono due altre esperienze che possono essere di utile riferimento. In primo luogo l’ integrazione a partire dagli anni ‘50 di milioni di lavoratori provenienti da Italia, Turchia e poi via via da Spagna, Grecia e Jugoslavia.

Ma la grande svolta avvenne alla fine degli anni ‘90 grazie al governo o guidato da Schröder e da Joschka Fischer. Grazie alle importanti riforme realizzate dopo la riunificazione del paese dal governo “rosso-verde”, la Germania è diventata la nazione in Europa in cui la pratica del riconoscimento è una filosofia messa in atto anche nelle realtà più estreme di degrado urbano. Infatti la politica di integrazione sociale e culturale (religiosa) degli immigrati procede seguendo una sorta di “terza via” differenziandosi sia dal modello francese di “universalismo” assoluto che da quello “multiculturalista” inglese (e anglosassone in genere). Da quello francese che mira a una integrazione intesa come totale assimilazione ai valori della nation française e nega in tal modo qualsiasi riconoscimento delle differenze culturali. Ma parimenti anche dal modello inglese del Londonistan, basato sulla presa d’atto delle esistenza di una pluralità di realtà: è il multiculturalismo di ghetti contigui ma reciprocamente impenetrabili.

L’abbandono da parte della Germania del mito arcaico e barbaro dello jus sanguinis è stato possibile grazie all’azione di “stedeschizzazione” della morale collettiva compiuta dai Verdi. C’è poi un’altra ragione. All’inizio di questo secolo-millennio la Germania era “il malato d’Europa”: basso tasso di crescita, alto tasso di disoccupazione, debito pubblico fuori controllo, disaffezione degli investimenti privati. Oggi grazie alle riforme dell’Agenda 2010 volute da Schröder la Germania è il centro di gravità democratico del Vecchio Continente: caso forse unico in Europa, nessuna formazione politica dichiaratamente xenofoba ha rappresentanza parlamentare (questo ovviamente non significa affatto che non esistano organizzazioni neonaziste). Certo le distanze tra l’Ovest e l’Est continuano ad esistere: ma chi viaggi oggi tra Lipsia e Dresda non può non prendere atto che quelle regioni hanno conosciuto una trasformazione davvero stupefacente.

Ma il vero arcano del Modell Deutschland consiste nella sistematica ricerca del “compromesso” a livello politico, sociale e istituzionale per assicurare la stabilità del sistema di cui quella della moneta e quella del governo sono le metafore per eccellenza. La segreta “teologia politica” di un paese che ha scelto, dopo averne fatto diretta e tragica esperienza, di mettere “fuori legge” la primitiva logica della contrapposizione “amico-nemico” tanto cara a Carl Schmitt, è un programmatico antidecisionismo.

E poi c’è il fattore Merkel: negli anni la Cancelliera è riuscita a costruire un rapporto di fiducia con l’elettorato come nessuno mai prima di lei. Né Adenauer o Kohl per la Cdu o Brandt e Schmidt per la Spd. E non è la prima volta che tagliando corto con la sua proverbiale prudenza la Merkel è stata capace nel giro di poche ore di proporre un orizzonte totalmente differente all’azione politica. Ma questo successo apparentemente irresistibile della Merkel ha anche un suo “lato oscuro” su cui prima o poi converrà iniziare a interrogarsi. Intanto a dar vita al vero “partito della nazione” ci ha pensato lei.

Europa e migranti. Finalmente una visione consapevole del dramma che stiamo vivendo: non è solo la Siria, non sono solo le guerre guerreggiate, è la guerra ostinata degli stati capitalisti del Nord e del Sud, dell'Est e dell'Ovest che ha generato per decenni miseria e oppressione, e prosegue ancora oggi.

Il manifesto, 10 settembre 2015

Quando la glo­ba­liz­za­zione cessa di pre­sen­tarsi sotto forma di merci e di capi­tali, e assume l’aspetto di umani indi­vi­dui, addi­rit­tura di popoli in fuga, allora il pen­siero unico neo­li­be­rale pre­ci­pita in con­fu­sione. La libertà della sua assor­dante reto­rica riguarda i soldi e le cose, non gli uomini. Per le per­sone, la libertà di tran­sito non può essere uguale a quella delle merci. È fac­cenda più com­pli­cata. E dun­que la coe­renza teo­rica viene abban­do­nata e si passa all’uso delle mani.

Di fronte al feno­meno migra­to­rio il ceto poli­tico euro­peo, salvo rare ecce­zioni, è caduto negli ultimi mesi assai al di sotto dell’intelligenza nor­male delle cose, della capa­cità di cogliere non tanto la sovra­stante e incon­tra­sta­bile potenza di un pro­cesso sto­rico. In que­sto la mise­ria morale del suo atteg­gia­mento, che ha assunto la fac­cia truce dell’intransigenza con­tro i dere­litti del mondo, col tempo resterà incan­cel­la­bile più per il lato ridi­colo che per la fero­cia. Lea­der e uomini di governo ci sono apparsi nell’atto di voler svuo­tare l’oceano con il cuc­chiaino. Ma segno ancor più rile­vante di una medio­crità poli­tica senza pre­ce­denti è l’incapacità di rap­pre­sen­tare gli inte­ressi di lungo periodo dei rispet­tivi capi­ta­li­smi nazio­nali, di cui sono i solerti ser­vi­tori. Osses­sio­nati dalla con­ser­va­zione del loro potere, con l’occhio sem­pre fisso ai dati del con­senso per­so­nale, gover­nanti e poli­tici di varia taglia hanno di mira il solo scopo di vin­cere la com­pe­ti­zione elet­to­rale in cui sono peren­ne­mente impe­gnati con­tro avver­sari e sodali. E per­ciò sono spa­ven­tati dalle dif­fi­coltà dei pro­blemi orga­niz­za­tivi che l’arrivo dei migranti pon­gono nell’immediato.

La loro cam­pa­gna elet­to­rale può rice­verne solo danno. Se negli ultimi giorni le bar­riere sono cadute è per­ché – come è apparso chiaro – la vastità di massa e l’irruenza incon­te­ni­bile del movi­mento di popolo poteva, da un momento all’altro, pre­ci­pi­tare in un mas­sa­cro. Rischiava di rap­pre­sen­tare agli occhi del mondo, ancora in Europa, una nuova forma di olo­cau­sto nel glo­rioso terzo mil­len­nio. E la Ger­ma­nia, soprat­tutto la Ger­ma­nia, con il suo pas­sato, non poteva permetterselo.

Ma chi ha la testa sol­le­vata al di sopra della palude della nano­po­li­tica sa che il feno­meno migra­to­rio è di lunga data, è solo esploso a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Deve­lo­p­ment Report 2009, dedi­cato dalle Nazioni Unite a Human mobi­lity and deve­lo­p­ment, ricor­dava che «« Ogni anno, più di 5 milioni di per­sone attra­ver­sano i con­fini inter­na­zio­nali per andare a vivere in un paese svi­lup­pato.»» E i mag­giori e quasi esclu­sivi cen­tri di attra­zione erano e sono gli Usa e l’Europa.Una migra­zione immane che dalla metà del secolo scorso ha spo­stato circa 1 miliardo di per­sone fuori dai luo­ghi in cui erano nate. Come potrebbe essere diver­sa­mente? Il capi­ta­li­smo usa due potenti leve per sra­di­care i popoli dalle pro­prie terre.

La prima è quella dello “svi­luppo”, la tra­sfor­ma­zione delle eco­no­mie agri­cole in primo luogo, la distru­zione della pic­cola pro­prietà col­ti­va­trice a favore delle grandi aziende mec­ca­niz­zate, la nascita di poli indu­striali, lo svuo­ta­mento delle cam­pa­gne, la for­ma­zione di mega­lo­poli e di scon­fi­nate bidon­ville. E lo svi­luppo, che in tanti paesi avanza attra­verso vasti dibo­sca­menti e la rot­tura di equi­li­bri natu­rali seco­lari, il sac­cheg­gio neo­co­lo­niale delle risorse, genera anche altre migra­zioni: quella dei pro­fu­ghi ambien­tali, che fug­gono da inon­da­zioni o da pro­lun­gate siccità.

L’altra leva, sem­pre più attiva, è il potere incon­te­ni­bile di attra­zione che le società pro­spere dell’Occidente eser­ci­tano sulle menti delle popo­la­zioni immi­se­rite, depor­tate, segre­gate che si agi­tano nei vari angoli del mondo. Occorre tenerlo bene in mente: ogni giorno, anche nel più remoto vil­lag­gio afri­cano, gra­zie a un’antenna satel­li­tare va in onda lo spet­ta­colo della più fla­grante ingiu­sti­zia che lacera il destino delle genti sul nostro pia­neta. Uno spet­ta­colo gran­dio­sa­mente tra­gico che i dan­nati della Terra non ave­vano mai visto nei secoli e nei decenni pas­sati. I mise­ra­bili, gli affa­mati, gli inva­lidi, i reclusi, le donne segre­gate, pos­sono vedere dall’altra parte del mondo i loro simili, uomini e donne come loro, ric­chi, sazi, sani, liberi. E que­sto spet­ta­colo genera due scelte, ormai ben evi­denti: l’estremismo ter­ro­ri­sta o la fuga di massa.

Ma il ceto poli­tico euro­peo, che vive alla gior­nata – non quello gover­na­tivo ame­ri­cano, che dispone di cen­tri di ana­lisi stra­te­gica e di pro­ie­zioni di lungo periodo – non com­prende, per spe­ci­fica mise­ria intel­let­tuale, nep­pure l’interesse del capi­ta­li­smo che ha scelto di rap­pre­sen­tare. Dimen­tica, ad esem­pio, che l’immigrazione di popo­la­zione “latina” negli Usa è stata una delle grandi leve del boom eco­no­mico degli anni ’90 in quel paese. Ma soprat­tutto non com­prende quali van­taggi una forza lavoro gio­vane e abbon­dante pro­cu­rerà alle imprese euro­pee nei pros­simi anni. E qui è evi­dente che il pro­blema riguarda tutti noi, la sini­stra poli­tica, il sin­da­cato. Siamo stati cer­ta­mente enco­mia­bili nel difen­dere i diritti dei migranti, il valore di civiltà del libero spo­sta­mento delle per­sone oltre le frontiere.

Ma l’arrivo di tanta forza lavoro a buon mer­cato non solo ci impone di vedere le per­sone umane, i tito­lari di diritti intan­gi­bili, oltre le brac­cia da fatica – cosa che in Ita­lia abbiamo ben fatto, anche se solo a parole e senza alcuna mobi­li­ta­zione — ma di cogliere per tempo la sfida che tutto que­sto ci pone. Sfida di orga­niz­za­zione, di pro­po­ste, di solu­zioni, di poli­ti­che. O fac­ciamo un ulte­riore salto di civiltà, tutti insieme, secondo le logi­che della nuova sto­ria del mondo, o regre­diamo tutti insieme. Per strano che possa sem­brare, la sini­stra, in Ita­lia, ha la pos­si­bi­lità, la pos­si­bi­lità teo­rica, di for­nire delle rispo­ste stra­te­gi­che con cui rispon­dere allo sce­na­rio tur­bo­lento e dif­fi­cile che si apre. Ci ritor­nerò pros­si­ma­mente in maniera mirata.

Il discorso di Juncker all’Europarlamento: «In questa Unione europea manca l'Unione e manca l'Europa». Scusate se è poco. Ma se è così, perché strangolate chi propone un'Altra Europa, come la Grecia di Tsipras? Regna l'ipocrisia. La Repubblica, 10 settembre 2015

«Non è il momento di avere paura». Con queste parole Jean-Claude Juncker si è rivolto ieri al Parlamento europeo presentando il suo piano per la redistribuzione obbligatoria di altri 120 mila profughi. Era il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione da quando ha assunto la presidenza della Commissione Ue. E Juncker ha usato parole forti, all’altezza di una emergenza politica che non ha precedenti nella storia europea: «Deve essere chiaro a tutti che è finito il tempo del business as usual e dei discorsi vuoti». Superata la dura battaglia con i governi del Nord per salvare la Grecia («siamo stati collettivamente sull’orlo del baratro »), il capo dell’esecutivo europeo deve ora far fronte a una nuova sfida per costringere i Paesi dell’Est a dare prova di solidarietà sulla questione dei rifugiati: «La Ue non versa in buone condizioni, manca l’unione in questa Unione europea e manca l’Europa. Tutto questo deve cambiare».

Nonostante il lutto per la perdita della madre, morta domenica sera, Juncker ha declinato l’offerta del Parlamento di rinviare il discorso e ha voluto presentarsi puntuale a Strasburgo anche per sottolineare la gravità della situazione e l’importanza delle decisioni che attendono l’Europa. «Mia madre, che è morta, e mio padre, che è gravemente malato, hanno lavorato tutta la loro vita. E così faccio io: lavoro. Per questo sono qui», si è giustificato con voce tremante per la commozione. Ed ha lanciato un appello agli europei perché non dimentichino il proprio passato e i propri valori: «Noi europei dovremmo ricordare che questo è un continente dove tutti, in un momento o in un altro della nostra storia, siamo stati profughi».

Il presidente della Commissione ha criticato i Paesi che cercano di fermare l’afflusso dei disperati. «Fino a che ci sarà la guerra in Siria, questo problema non scomparirà da un giorno all’altro, e nessun muro fermerà l’afflusso dei profughi. Stiamo combattendo l’Is, come possiamo non accogliere quelli che fuggono l’Is?». Ma ha anche criticato quanti si dicono disposti ad accettare solo rifugiati cristiani: «In passato l’Europa ha già fatto l’errore di distinguere tra ebrei, musulmani e cristiani: non c’è religione, non c’è credo e non c’è filosofia quando si parla di profughi».

Il discorso sullo stato dell’Unione si è trasformato così, attraverso le parole di Juncker, in una grande seduta di autocoscienza di fronte al dramma dei migranti. «L’Europa è il panettiere di Kos che regala panini ai rifugiati che arrivano, sono gli studenti che offrono il loro aiuto nelle stazioni tedesche, e coloro che alla stazione di Monaco hanno accolto i profughi siriani con applausi. L’Europa in cui voglio vivere è quella incarnata da queste persone; l’Europa in cui non vorrei mai vivere è quella di chi rifiuta la solidarietà».

Ma il presidente della Commissione ha anche cercato di ridimensionare la portata del problema: «la massa di chi cerca riparo da noi rappresenta lo 0,1 per cento della popolazione europea. In Libano, che ha un reddito pari ad un quinto del nostro, i rifugiati sono il 25 per cento della popolazione. L’Europa ha i mezzi per fare fronte a questa emergenza».

Nalla sostanza, il piano di Juncker è quello anticipato nei giorni scorsi. Oltre ai 40 mila richiedenti asilo ripartiti a luglio per alleggerire Grecia e Italia, la Commissione propone di redistribuirne altri 120 mila: 16 mila attualmente in Italia, 54 mila in Ungheria e 50 mila in Grecia. Germania, Francia e Spagna dovranno accoglierne la maggior parte. Ma ogni Paese si vedrà attribuire una quota obbligatoria, calcolata in base al reddito, alla popolazione, al tasso di occupazione e ai profughi già ospitati. Le quote, in base ai Trattati, non si applicheranno a Gran Bretagna e Danimarca, mentre l’Irlanda, che pure sarebbe esentata, ha detto di voler partecipare alla redistribuzione. Per tutti gli altri, invece, i contingenti saranno obbligatori. Un Paese può, per gravi e comprovati motivi, chiedere alla Commissione di essere esonerato dalla condivisione. Bruxelles valuterà il caso e potrebbe concedere una esclusione temporanea, ma in questo caso il Paese esentato dovrà pagare un contributo di solidarietà proporzionale alla sua ricchezza. Per ogni profugo accolto, i governi riceveranno dalla Commissione un contributo di seimila euro.

Juncker ha anche annunciato una serie di altri misure per far fronte all’emergenza, spiegando che, all’inizio dell’anno prossimo la Commissione presenterà un progetto complessivo per la gestione dell’immigrazione economica «di cui abbiamo comunque bisogno». Il passo più importante sarà il rafforzamento di Frontex, che dovrà occuparsi anche dei rimpatri di chi non ha diritto all’asilo: «dobbiamo fare un passo ambizioso verso la creazione di una Guardia di frontiera e di una Guardia costiera europea prima della fine dell’anno», ha detto il presidente della Commissione. Infine, già al prossimo consiglio, Bruxelles presenterà una lista di Paesi considerati “sicuri”, che comprenderà la Turchia e i Balcani, i cui cittadini non potranno chiedere di ricevere asilo politico in Europa.

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