«Il ritorno dei confini è un processo a catena al quale sarà impossibile imporre una qualche regola comune. E se pure tutti dovessero accettare la loro quota di rifugiati come si costringerà questi ultimi ad accettare il posto assegnato e rimanervi imprigionati?».
Il manifesto, 17 settembre 2015 (m.p.r.)
Il trattato di Schengen è a un passo dalla fine. Non nel senso di una sospensione temporanea, ma in quello di una sua definitiva sepoltura più o meno mascherata. E, venuto meno il diritto alla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea, il passo verso il suo completo disfacimento è con tutta evidenza assai breve. I trattati europei, come sappiamo, prevedono sospensioni e deroghe in caso di emergenza, principio a prima vista ragionevole. Ma l’emergenza è un’espressione tutt’altro che univoca. A volte, pur reale, come l’allarme lanciato dalle coste mediterranee italiane e greche, trova ascolto tardivo e reticente, altre volte discende dall’arbitrio di questo o quell’interesse nazionale, o dall’enfatizzazione strumentale di minacce immaginarie. Nel caso della grande ondata migratoria, poi, trattandosi di un processo storico di lunga durata (negli Usa c’è chi lo stima a un paio di decenni) tra sospensione e abolizione passa ormai poca differenza. Il ritorno dei confini è un processo a catena al quale sarà impossibile imporre una qualche regola comune. E se pure tutti dovessero accettare la loro quota di rifugiati come si costringerà questi ultimi ad accettare il posto assegnato e rimanervi imprigionati?
Sistema cui è stato conferito il nome civettuolo di hotspot. Mentre l’Unione regredisce verso un mercato comune, peraltro fortemente squilibrato, le sovranità nazionali si dedicano, una dopo l’altra, certo con strumenti e retoriche diverse, a edificare i propri muri legislativi e fisici. E le barriere non si situano esclusivamente ai confini dell’Unione. Prima l’euroscettica Gran Bretagna manifesta l’intenzione di sfoltire i cittadini comunitari che la popolano e vi lavorano, poi la Corte di giustizia europea autorizza la Germania a negare prestazioni e sussidi ai cosiddetti «turisti del welfare» e cioè a quei precari che si spostano nell’area Schengen verso i paesi in cui l’intermittenza del lavoro non equivale a indigenza assoluta. Ma Berlino non si accontenta della sentenza favorevole e vorrebbe rimuovere anche le poche limitazioni che la Corte pone all’estromissione dal sistema previdenziale. Infine c’è chi vorrebbe escludere i profughi dal salario minimo per favorire l’impiego dei meno qualificati. Per fortuna tanto la Spd, quanto la centrale sindacale Dgb si oppongono non tanto per il dichiarato intento egualitario, quanto nel timore di una competizione al ribasso sul mercato del lavoro.
Il manifesto, 16 settembre 2015 (m.p.r.)
Lo sgambetto con cui la cronista ungherese Petra Laszlo ha buttato a terra un profugo siriano che portava il proprio figlio in salvo da una guerra mai dichiarata è un’immagine plastica del cinismo e della crudeltà che domina le politiche dell’Unione Europea e traduce a livello individuale la brutalità con cui i suoi governanti hanno cercato di interrompere la corsa del governo Tsipras per portare in salvo il popolo greco da un disastro di cui non porta alcuna responsabilità. Un accostamento non casuale: l’Unione Europea non sarà mai in grado di accogliere milioni di profughi fino a che negherà diritti e imporrà solo doveri ai popoli dei suoi stati periferici. Quel padre poi si è rialzato e ha continuato la sua corsa, mentre non sappiamo ancora se Tsipras riuscirà a fare altrettanto.
In entrambi i casi, accanto a cinismo e crudeltà, balza evidente l’impotenza dell’Europa, che non ha soluzioni di lungo termine per sottrarre la Grecia e gli altri paesi troppo indebitati al disastro finanziario, ma anche sociale e ambientale, a cui li condannano le sue politiche; ma non ha nemmeno idea di come affrontare lo «tsunami» di profughi che la sta investendo e che rischia di portarla alla dissoluzione. Con le sue promesse Angela Merkel ha cercato di restituire dignità all’immagine della Germania, permettendo così a migliaia di cittadini di dar prova di una solidarietà straordinaria.
Ma ha sottovalutato sia le dimensioni effettive dei flussi che avrebbero investito il paese, sia le resistenze degli altri partner europei: la decisione sulle «quote» di profughi è stata rimandata sine die; le frontiere interne tornano a chiudersi in barba a Schengen, scaricando tutto il peso su Italia e Grecia, che dovrebbero invece farsi carico fin da subito delle richieste di asilo e dei respingimenti. E mentre il governo ungherese imperversa impunito con le barriere di filo spinato e arrestando centinaia di profughi che cercano solo di attraversare il paese, l’Unione approva la «guerra agli scafisti», che è una guerra vera.
Una guerra fatta per respingere profughi e migranti nel deserto che hanno dovuto attraversare, dove sono stati rapinati e violati, e da cui cercheranno comunque di tornare a imbarcarsi per altre vie.
A questa bancarotta delle politiche europee – niente aveva finora diviso così profondamente gli Stati membri e anche il nesso tra «crisi dei profughi» e rating dei debiti sovrani non è sfuggito all’occhio vigile dell’alta finanza — occorre saper contrapporre un’alternativa praticabile. Quei profughi, aumenteranno comunque, perché guerre, dittature, miseria e ferocia che sono andati crescendo ai confini diretti e indiretti dell’Unione dureranno per anni, e si aggraveranno ogni volta che si cercherà di venirne a capo con altre guerre. Ma se la Germania ha forza e mezzi per sostenerne l’urto e ricavarne dei benefici di lungo termine, gli altri paesi dell’Unione no. Manca, per gli Stati più fragili, una politica europea di accoglienza, che vuol dire dare casa lavoro, formazione, reddito per milioni di profughi destinati a restare sul suolo europeo per anni, perché l’Unione, con le politiche di austerità da cui non deflette, non è più in grado di offrire quelle stesse cose a decine di milioni di suoi cittadini che ne sono stati privati dalla crisi, o ne sono privi da ancor prima. E certo non può dare ai nuovi arrivati ciò che non vuol dare a chi ne è privo da tempo.
Ma accogliere è indispensabile: quel flusso di profughi non si fermerà per quanti sforzi si facciano per trasformare l’Europa in fortezza: sia con le armi che con l’ipocrita distinzione tra profughi (da accogliere) e migranti (da respingere). Preliminare a ogni politica di accoglienza è l’istituzione di corridoi umanitari che evitino ai profughi di rischiare la vita e di consegnare agli scafisti di mare e di terra migliaia e migliaia di euro ciascuno. E’ ciò di cui non si vuole mai parlare. Ma accogliere significa poi inserire i nuovi arrivati nella società, e farli accettare a una comunità riducendo al massimo quel senso di un’intrusione che tante forze politiche alimentano per ricavarne un dividendo elettorale. Non è un’operazione solo economica, anche se trovar casa e lavoro ha dei costi molto alti, i cui ritorni, come sanno gli industriali tedeschi, sono rilevanti, arrivano solo nel tempo. Chi lo può fare? Non certo il «mercato», cioè il sistema produttivo così com’è oggi, specialmente al di fuori della Germania. Ma nemmeno gli apparati statali, perché è un’operazione delicata che ha bisogno, anche, di «calore umano»: un bene che la burocrazia non può elargire se non per caso.
Affrontare in modo burocratico questo compito è il modo migliore per far crescere la conflittualità sociale. Meno che mai lo si può lasciare, come si fa in Italia, alla spontaneità di un «privato», sociale e non, reclutato a casaccio, in modo clientelare o mafioso, da prefetture o amministrazioni comunali, che ha devastato immagine e reputazione del terzo settore. L’accoglienza, in questa accezione, è la missione specifica e insostituibile dell’economia sociale e solidale. Nessun’altra componente della società europea è in grado di abbinare, sulla base di esperienze consolidate, inserimento lavorativo e inserimento sociale con progetti mirati. Per questo occorre che insieme, e non in ordine sparso, le reti dell’economia sociale e solidale (SSE) dei paesi dell’Unione si candidino al ruolo di soggetto promotore e attuatore di quel programma pluriennale di accoglienza che è indispensabile per affrontare un compito di questa portata. Il 28 gennaio 2016, su iniziativa del gruppo parlamentare GUE/Ngl e di molte reti dei paesi dell’Unione, si terrà un Forum europeo dell’economia sociale e solidale (una riunione preparatoria si è già tenute il 3 settembre).
Sarà un’occasione, preparandola per tempo, per lanciare questa candidatura, che dovrà sostanziarsi fin da ora in progetti specifici, nazionali, territoriali e settoriali. Ma per farlo occorrono alcune condizioni preliminari:
1. Bisogna, soprattutto in Italia — ma la dimensione europea può aiutarci — ricostruire un’immagine decente del terzo settore, che oggi è in gran parte macchiata dalle vicende di Buzzi, Cara Mineo e Co. Le componenti sane del terzo settore devono denunciare senza remore gli episodi di malaffare, ma anche di clientelismo, di cui sono a conoscenza; a partire dai propri, che non mancano — quasi — mai. Essenziale è garantire un regime di trasparenza totale su tutte le attività.
2. Occorre mettere a punto in tempi rapidi i principi generali e gli strumenti attuativi di un piano europeo di accoglienza e inserimento sociale e lavorativo dei nuovi arrivi con standard condivisi da tutti i paesi.
3. Occorre individuare i settori in cui dovrà operare questo piano che, per le sue finalità di integrazione sociale, dovrà riguardare in egual misura profughi, migranti e cittadini europei senza lavoro, senza casa o senza reddito.
4. Quei settori sono quelli portanti delle conversione ecologica che la COP 21 di Parigi dovrebbe mettere all’ordine del giorno a fine anno: energie rinnovabili ed efficienza energetica; agricoltura ecologica, soprattutto nelle terre oggetto di abbandono o degrado; salvaguardia degli assetti idrogeologici; recupero e ristrutturazione di edifici dismessi o non a norma (a partire da quelli in cui potranno essere ospitati migranti e senzatetto); gestione e recupero di scarti e rifiuti; servizi alla persona. 4. Il piano dovrà essere accompagnato da una stima generale dei costi.
Che non sono solo quelli degli investimenti produttivi per «mettere al lavoro» milioni di persone, ma anche quelli relativi a tutti gli altri aspetti del loro inserimento. L’economia sociale e solidale non deve più essere un modo, come spesso accade, soprattutto in Italia, per risparmiare sui costi del lavoro. Deve mirare, al contrario, ad incorporarere molti altri oneri di carattere sociale.
Ovviamente non ci si può aspettare che l’Unione o qualche suo Stato membro risponda positivamente a questa proposta domani; ma è importante che essa venga sottoposta a un pubblico confronto perché è l’unica in grado di affrontare in modo adeguato i problemi posti dai nuovi flussi di profughi. E l’«opinione pubblica» oggi è in gran parte con noi.
Il testo integrale dell'articolo di Guido Viale è stato pubblicato su eddyburg col titolo L'Europa rifondata
Mohammed conta i passi che lo separano dall’Austria. È partito all’alba dalla stazione di Hegyeshalom, in Ungheria. Il confine dista quattro chilometri, una passeggiata, per chi come lui ha le gambe buone. «Mi hanno rilasciato ieri, dopo 12 giorni in un carcere vicino Budapest» racconta mentre continua a guardarsi le spalle. «Com’è la polizia alla frontiera? E in Austria? Ci faranno passare senza problemi?». Arrestato nella stazione di Budapest, Mohammed porta sul collo i lividi di cinque dita della polizia ungherese. Parla un ottimo inglese, ma dice di non aver capito le accuse contro di lui. «Mi hanno chiesto di pagare mille euro –spiega senza nascondere la rabbia – per lasciarmi andare. Mi hanno fatto una multa, trattato come un criminale. Vengo da Homs e sto solo andando verso un posto sicuro». Appena arrivato al campo di Nickelsdorfs chiede in prestito un cellulare e chiama gli amici ancora in cella: «Il confine è tranquillo, appena uscite correte qui».
«La svolta Labour. “Bisognerà avere pazienza, ma i morti viventi sono stati sconfitti. La politica inglese è tornata finalmente a vivere”».
Il manifesto, 15 settembre 2015 (m.p.r.)
Le ironie della storia non mancano mai di sorprendere. Con qualsiasi criterio lo si misuri, Jeremy Corbyn è il leader più di sinistra nella storia del Labour party. Capisce che chi fa male fuori non potrà fare molto meglio a casa.
Tra i membri del parlamento è l’antimperialista più convinto. La prova è il paragone con gli antenati politici. Il socialismo di Keir Hardie annaspava nei campi di battaglia della prima guerra mondiale. Clement Attlee è stato un grande riformatore sul piano interno, ma su quello esterno il suo governo approvò il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Harold Wilson redistribuì la ricchezza ma appoggiò gli Stati uniti in Vietnam. Come leader dell’opposizione, Michael Foot fu un accanito supporter della guerra mossa da Margaret Thatcher per recuperare le Malvinas/Falkland.
I gemelli thatcheriani Blair-Brown si accordarono per dividersi il potere creando due correnti affamate di potere con nessuna differenza politica tranne che la fame di Tony Blair era diretta sia al potere che ai soldi. Blair ci ha dato le guerre nell’ex Jugoslavia e in Iraq, mentre Gordon Brown era ignaro della vulnerabilità del capitalismo finanziario e spese miliardi di sterline del contribuente salvando banche che, una volta pagati i depositi, sarebbe stato molto meglio lasciar schiattare.
Entrambi hanno burocratizzato il Labour party neutralizzandone i congressi, riducendolo a una copia appiccicosa dei Democratici americani: tutto show, nessuna sostanza. Hanno tolto alle sezioni laburiste locali il diritto a scegliere i propri candidati per il parlamento, il solo modo per trasformare un grande pezzo del Parliamentary Labour Party (Plp) in una collezione di ragazzi e ragazze d’ufficio super-pubblicizzati insieme a camionate di carrieristi.
Tre di loro si sono esibiti regolarmente nella campagna per la successione di un altro della loro cerchia, Ed Miliband. La cosa ironica è che la riforma del sistema elettorale di partito voluta da Miliband era disegnata per placare i Blairiti e i loro compagni nei media attraverso l’eliminazione dal partito del residuo potere del sindacato e l’apertura agli outsider, nella maldestra speranza che un elettorato più congeniale avrebbe assicurato agli estremisti di centro il dominio delle proprie politiche.
Erano così fiduciosi che un pugno di Blairiti ha dato a Corbyn i voti parlamentari necessari per eleggerlo e rappresentare la sinistra purché simbolica, testimoniando così la generosità del partito e il suo rispetto per la diversità. Chi avrebbe mai pensato a un ritorno di fiamma così sensazionale? Certamente non Corbyn. E nessun altro. Il Guardian si è schierato per Yvette Cooper, mentre i suoi editorialisti blairiti denunciavano il dinosauro di Islington – scordando che i più giovani amano i dinosauri e sentono la mancanza della specie. Il Daily Mirror si è schierato per Andy Burnham.
Nessuno che abbia mai visto o sentito Corbyn può dubitare della sua autenticità. Ho condiviso con lui numerose piattaforme negli ultimi quarant’anni. Negli argomenti chiave è sempre rimasto costante. Ciò che è piaciuto ai giovani, che hanno trasformato la sua campagna in un movimento sociale, è precisamente ciò che ha sovvertito i tradizionali cliché politici e mediatici. Corbyn è stato schietto, discorsivo, molto di sinistra, vuole invertire le privatizzazioni delle ferrovie e dei servizi eccetera. Molti che si sono registrati per votarlo l’hanno fatto per questo, e per rompere con il blando, poco fantasioso e privo di visione New Labour.
Corbyn ha sottostimato i cambiamenti in Scozia, ma questo in effetti ha aiutato la sua campagna. La coorte di parlamentari dello Scottish national party che vuole affossare la superflui e costosi missili Trident, l’elettrizzante discorso d’esordio della ventenne Mhairi Black che ha sfidato i Tories… Tutto ciò ha aiutato la campagna di Corbyn. Se funziona in Scozia, perché non in Inghilterra?
Dopo che ll Labour ha eletto il loro leader più di sinistra, la stragrande maggioranza del gruppo parlamentare laburista è nella stretta mortale della destra. Chiunque abbia ascoltato l’intervento di Sadiq Khan dopo essere stato scelto dal Labour come candidato sindaco di Londra si è accorto della differenza con la campagna di Corbyn. Gli argomenti di Khan erano tutti puntati su quanto isolato sarebbe stato Corbyn nel Plp.
Corbyn chiederà al partito di unirsi dietro di lui. Ma non c’è modo di eludere il fatto che la maggioranza del Plp si oppone alle sue politiche. Credo che cercheranno di forzarlo a un compromesso dopo l’altro con l’intento di screditarlo (su modello di Alexis Tsipras in Grecia), ma dubito che possano avere successo.
Corbyn comprende gli argomenti chiave sui quali non è possibile alcun compromesso. Ci ha fatto campagna sopra abbastanza a lungo. La sua vicinanza all’agenda dei Verdi non è un segreto, e il solo parlamentare dei Verdi adesso ha nel nuovo leader laburista un solido sostenitore. Riprendersi i trasporti pubblici dagli speculatori è un altro elemento. Un’edilizia pubblica a buon mercato per i giovani e gli anziani aiuta a ricostruire le comunità.
Un robusto regime fiscale che inverta decenni di privilegi accordati ai ricchi scatenerà la furiosa offensiva della City, dei suoi media e dei suoi accoliti politici, ma è considerata assolutamente necessaria. Fin dalla fine degli anni Settanta, la redistribuzione della ricchezza a favore dei ricchi e dei più ricchi ha continuato a crescere in Gran Bretagna, in modo superiore a tutti I paese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Corbyn non è interessato al potere per sé o per aumentare il suo personale patrimonio.
Insieme al Partito Corbyn può davvero riportare in auge la democrazia. É l’unico modo per chi sostiene i Labour, di ritrovarsi rappresentati propriamente in parlamento. Ma niente di tutto questo sarà facilmente realizzabile, per questo è fondamentale che ci sia un movimento potente fuori dal parlamento; è l’unico modo per assicurare che l’agenda di Corbyn possa essere pienamente onorata.
Niente può accadere nel giro di una notte: bisogna essere pazienti. Alcuni membri laburisti del parlamento diserteranno. Dopo tutto, avevano sostenuto, convinti, le misure di austerity. Ma ormai sarà impossibile, perfino per l’auto censura della Bbc, tenere fuori dagli schermi il nuovo leader Labour. I morti viventi hanno perso. La politica inglese è tornata a vivere.
L’Europa si gioca la propria credibilità. Non possiamo rimanere impassibili quando la morte incombe quotidianamente sulle nostre spiagge, mentre migliaia di famiglie che fuggono dalla guerra in Africa, Medio Oriente e Asia Centrale si ammassano nei porti, nelle stazioni, nei treni e nelle strade in attesa di una risposta umanitaria da parte dell’Europa.
Siamo responsabili di fronte ai nostri cittadini che esigono da noi misure urgenti e pongono a nostra disposizione le risorse e i mezzi per facilitare l’accoglienza. Siamo responsabili di fronte ai paesi limitrofi che accolgono rifugiati molto oltre le proprie possibilità — solo in Libano ci sono 1,1 milioni di rifugiati, ovvero il 25% della popolazione del paese. Siamo responsabili di fronte all’idea stessa che ha fatto nascere l’Europa, fondata sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, sulla vergogna dell’olocausto e sulla sconfitta dei fascismi, per assicurare un futuro di pace, prosperità e fraternità per le future generazioni. Dobbiamo essere all’altezza della promessa fatta di fronte al nostro continente in rovina: «Mai più».
La nostra maggior responsabilità è di fronte al genere umano. Se continuiamo ad alzare muri, chiudere frontiere, lasciando il lavoro sporco ad altri stati perché siano loro a fare da gendarmi delle nostre frontiere, che messaggio lanciamo al mondo? Che volto dell’Europa riflette questo Mare Mediterraneo coperto da corpi senza vita?
Noi, le città europee, siamo pronte a diventare luoghi d’accoglienza. Noi, le città europee, vogliamo dare il benvenuto ai rifugiati e alle rifugiate. Sono gli Stati a riconoscere lo statuto d’asilo, ma sono le città a dare sostegno. Sono i municipi lungo le frontiere, come le isole di Lampedusa, Kos e Lesbos, i primi a ricevere i flussi delle persone rifugiate; e sono i municipi europei che dovranno accogliere queste persone e garantirgli di poter iniziare una vita, lontano dai pericoli da cui sono riusciti a scappare.
Per ciò disponiamo di spazio, servizi e, la cosa più importante, della volontà dei cittadini di farlo. I nostri servizi municipali stanno già lavorando in piani di accoglienza per assicurare pane, tetto e dignità a chi fugge dalla guerra e dalla fame. Manca solo l’aiuto degli Stati.
Come sostiene UNGHR, siamo di fronte alla più grande crisi di rifugiati fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Da Voi, governi degli Stati e dell’Unione Europea, dipende che questa crisi umanitaria non si trasformi in una crisi di civiltà, una crisi dei valori fondamentali delle nostre democrazie. Durante anni, i governi europei hanno destinato la maggioranza dei fondi per l’asilo e le politiche migratorie a blindare le nostre frontiere, convertendo l’Europa in una fortezza.
Questa politica sbagliata è la causa del fatto che il Mediterraneo si sia convertito in una tomba per migliaia di rifugiati che provano ad avvicinarsi e condividere la nostra libertà. È venuto il momento di cambiare le priorità: destinare i fondi necessari per garantire l’accoglienza dei rifugiati in transito, appoggiare con risorse le città che si sono offerte come luoghi di rifugio. Non è il momento delle parole e dei discorsi vuoti, è il momento di agire.
Ieri si è svolto a Bruxelles il summit dei Ministri degli Interni e di Giustizia dei paesi membri della Ue per discutere la crisi dei rifugiati. Abbiamo chiesto loro di non girare le spalle alle città, di ascoltare il clamore che si alza nelle nostre strade. Abbiamo bisogno dell’appoggio e la cooperazione degli Stati, dell’Unione Europea e delle istituzioni internazionali per assicurare l’accoglienza.
È tempo di costruire la storia di un’Europa per la quale essere riconosciuti dal resto dei popoli del mondo e ricordati dalle generazioni che verranno. Non lasciateli soli, non lasciateci sole.
Ada Colau sindaca di Barcellona
Anne Hidalgo sindaca di Parigi
Spyros Galinos sindaco di Lesbo
Hanno inoltre aderito al manifesto Manuela Carmena, sindaca di Madrid; Xulio Ferreiro, sindaco di La Coruña; José María González, “Kichi”, sindaco di Cadice; Martiño Noriega, sindaco di Santiago de Compostela, Pedro Santisteve, sindaco di Saragozza.
La libera circolazione rischia di venire travolta dal panico in cui sta cadendo la Ue in queste ore. I ministri degli Interni dei 28 paesi Ue mettono la sordina sulle “quote obbligatorie”, mentre la Germania, domenica, seguita ieri da Austria, Slovacchia, Repubblica ceca e nel tardo pomeriggio anche dall’Olanda, ha sospeso Schengen ristabilendo i controlli alle frontiere. Polonia e Belgio potrebbero fare la stessa scelta nelle prossime ore. Il ministro degli Interni francese, Bernard Cazeneuve, si piega alle richieste delle destre e afferma da Bruxelles che “sono già state disposizioni” per ripristinare i controlli alla frontiera con l’Italia “se si ripeterà una situazione simile a quella di alcune settimane fa” (a Ventimiglia), ma giudica “stupido” fare la stessa cosa al confine con la Germania. L’Ungheria da oggi impone lo stato d’emergenza, con l’arresto per chi entra illegalmente, l’utilizzazione di containers per ospitare i tribunali alla frontiera con la Serbia che giudicano senza la presenza di interpreti i profughi trattati come criminali, richiusi in campi di detenzione.
La decisione più concreta di ieri, presa in mattinata prima dell’incontro dei ministri degli Interni (e della Giustizia) a Bruxelles, è stato il varo della fase 2 della missione navale EuNavForMed, che permette l’uso della forza contro gli scafisti. Le operazioni dovrebbero partire da inizio ottobre. Per la redistribuzione dei profughi, invece, i ministri degli Interni si riuniscono di nuovo l’8–9 ottobre, ma già si parla di “flessibilità” nell’applicazione del ricollocamento dei 120mila del piano Juncker. Se i blocchi continuano, dovrà venire convocato un vertice dei capi di stato e di governo, che rischia di sancire la frattura che ormai mina la Ue.
Francia e Germania, che cercano di mantenere una parvenza di unione anche se la decisione di Berlino di sospendere Schengen è stata accolta come una sberla da Parigi, chiedono “immediatamente” l’apertura di hotspots in Italia e Grecia (e Ungheria, ma Orban si autoesclude), e affermano che faranno un forte “pressing” sui partner. Per François Hollande, “far rispettare le frontiere esterne è la condizione per poter accogliere degnamente i rifugiati”. Il ministro degli Interni della Baviera, Joachim Herrmann, che non risparmia critiche a Merkel per aver incitato i profughi a venire in Germania, punta il dito contro Italia e Grecia, paesi di primo arrivo, secondo lui responsabili del “caos”.
In pratica, riprende alla grande nella Ue lo scaricabarile dei profughi. Angelino Alfano chiede che “i rimpatri” vengano organizzati da Frontex “con i soldi Ue”. Bruxelles promette che “gli stati invieranno subito funzionari di collegamento” per aiutare i paesi di primo arrivo a fare la distinzione tra chi ha diritto all’asilo e chi deve venire espulso. Cazeneuve parla di “umanità e responsabilità”, sperando di convincere i reticenti alla distribuzione. Per il momento, c’è il programma presentato a giugno, per la ricollocazione di 40mila persone (con offerte solo “volontarie” per ricollocare 24mila persone già presenti in Italia e 16mila che sono in Grecia), mentre è sempre in alto mare il meccanismo di ripartizione per “quote” di altri 120mila. Nei fatti, gli arrivi delle ultime settimane rendono ormai caduche queste cifre, inferiori di molto alla realtà. La Commissione ha messo nel cassetto la minaccia di multe per chi non partecipa alla redistribuzione.
Le richieste dell’Onu, ancora ribadite ieri, per “quote obbligatorie” e gli appelli della Commissione a favore di una soluzione “comune” rischiano di cadere nel vuoto, cosi’ come l’allarme del gruppo S&D: “la politica comune di immigrazione e asilo è l’unica strada per salvare l’Europa dalla disintegrazione”. La posizione tedesca si è di fatto indebolita, con il voltafaccia di Angela Merkel di domenica, anche se sembra fosse destinato a far pressione sull’est reticente. Il portavoce di Merkel, Steffen Steibert, assicura che rimettere i controlli alle frontiere “era necessario, ma nulla cambia” nella politica di accoglienza di Berlino. Per il ministro degli Interni, Thomas de Maizière, deve essere pero’ chiaro che “i richiedenti asilo devono accettare il fatto che non possono scegliere il paese europeo a cui chiedere protezione”. Per il ministro degli Esteri polacco, Rafal Trzaskowski, “l’Europa rischia una crisi istituzionale se impone quote obbligatorie”, impegno ormai sfumato nei documenti di Bruxelles. Il fronte del “no” al piano Juncker sulla ridistribuzione dei 120mila profughi si è ricompattato, Ungheria ormai fuori dalle regole Ue, con Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia, Romania (c’è anche la Danimarca, ma il paese ha l’opt out su questi temi, come Gran Bretagna e Irlanda). In Francia, l’ex presidente Nicolas Sarkozy chiede uno statuto speciale per i rifugiati di guerra, che dovrebbero rientrare in patria una volta tornata la pace (questa clausola in effetti esiste, ma è la Commissione a doverla attivare).
"La mossa di Angela Merkel è stata abile, e sacrosanta: ha permesso a migliaia di profughi di raggiungere la loro meta e ad altre migliaia di cittadini europei. Ma quella mossa non tarderà a rivelarsi un bluff".
Il manifesto, settembre 2016
L’accoglienza è destinata a diventare per l’Unione il problema maggiore: divide tra loro gli Stati membri impegnati a rimpallarsi le quote di profughi da ammettere; e fomenta al loro interno quello scontro sociale di cui si alimenta la xenofobia. Innanzitutto l’Unione non potrà avere una politica comune per accogliere profughi e migranti perché ha adottato da anni politiche che negano l’accoglienza - casa, lavoro, reddito e sicurezza - a una quota crescente dei suoi cittadini. Quando il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 20 per cento, e in alcuni paesi il 50, è a un’intera generazione - anzi ormai a due - che vengono negate le forme basilari della cittadinanza. In queste condizioni è difficile pensare a una politica di inclusione per centinaia di migliaia o milioni di migranti: quanti se ne possono realisticamente aspettare sia che si aprano loro le porte, sia che si punti su respingimenti inefficaci e spietati.
Ma la ragione vera della dissoluzione dell’Unione è un’altra: per anni i suoi Governi hanno assistito ignavi, quando non vi hanno partecipato direttamente o non hanno addirittura preso l’iniziativa, a massacri e guerre scatenate ai confini dell’Europa: quasi che la cosa non li riguardasse, impegnati com’erano, e sono, a perseguire politiche di bilancio sempre più prive di respiro, di prospettive, di futuro. Se a rappresentare la politica estera dell’Unione figure insignificanti non è solo perché quella materia ogni Governo vuole riservarla per sé. Il fatto è che - a parte gli accordi commerciali, soprattutto per procurarsi petrolio e metano - nessuna forza politica europea ha mai formulato un disegno sensato sui rapporti con l’area mediorientale, mediterranea e nordafricana: quella che nel corso degli anni si andava avvitando in crisi e conflitti che non potevano che sfociare nella dissoluzione delle rispettive compagini sociali. Il flusso di migranti in cerca di sopravvivenza in terra europea è la prima – ma non l’unica – conseguenza di questa politica tirchia e insipiente. Ma ogni giorno che passa spegnere quegli incendi è più difficile. Francia e Regno Unito stanno già pensando a unirsi alla guerra in Siria, come se non fossero stati loro a scatenare quella in Libia: che hanno perso, creando un caos di cui nessuno riesce più a venire a capo.
Ora, che siano i vertici dell’Unione e dei suoi Governi a risolvere il problema creato da centinaia di migliaia di esseri umani alla ricerca della propria sopravvivenza è del tutto irrealistico. L’Unione europea vorrebbe respingerne la maggioranza, ma non è in grado di farlo: troppo alto è il prezzo di sofferenze e di vite che sta già facendo pagare alle sue vittime per potersene assumere la responsabilità. Così cerca di nascondere il problema dietro la falsa distinzione tra profughi e migranti economici: come se una ragazza sfuggita alle bande di Boko Haram in Nigeria, o un contadino che sta morendo di fame e di sete – sì, anche di sete – in uno stato subsahariano fossero diversi, nelle loro motivazioni alla fuga, da un siriano che scappa dalle bombe dell’Isis, o di Assad, o di Erdogan, o degli Usa, o di tutti e quattro.
Ma le politiche di respingimento, oggi impersonate da Orban, ma anche da tante forze politiche non solo di destra, e programmate, solo in modo un po’ meno brutale, da molti governi, sono state per qualche giorno rovesciate e sconfitte dalla straordinaria mobilitazione di un popolo europeo solidale con i profughi in marcia sull’autostrada che porta a Vienna, o al loro arrivo nelle stazioni austriache e tedesche; un popolo che da qualche giorno ha occupato la scena facendo tutt’uno con quei profughi. Papa Francesco ha aggiunto la sua voce, ma i protagonisti restano loro. Perché dietro a quelle manifestazioni che hanno bucato lo schermo ci sono altre migliaia di volontari che - senza distinguere tra profughi e migranti economici - hanno cercato e cercano di alleviare le sofferenze di una moltitudine immensa respinta o abbandonata a se stessa: a Calais, a Ventimiglia, a Kos, a Lampedusa, a Subotica, a Milano e in mille altri luoghi a cui stampa e media non avevano dedicato in sei mesi un decimo dello spazio riservato ogni giorno alle infamie di Salvini e dei suoi compagni di merende.
Laici e cristiani, di destra (ci sono anche quelli) e di sinistra, giovani e anziani, occupati e disoccupati (senza timore di vedersi portare via un posto che non c’è più per nessuno), zingari perseguitati da Orban e musulmani già insediati in Europa hanno costruito con la loro mobilitazione le basi di una nuova cittadinanza europea che include, senza mediazioni, quei profughi in marcia dietro la bandiera europea. Un unico popolo: consapevole, a differenza di molti suoi governanti (in sei mesi di Presidenza europea Renzi non aveva rivolto una sola parola alla soluzione del problema dei profughi) che l’accoglienza affettuosa di coloro che sono in fuga da guerre e fame è condizione irrinunciabile della convivenza civile nelle comunità e nei territori dove si insedieranno; e che lo sviluppo sociale dell’Europa non può prescindere dalla creazione, qui, dove sono arrivati, di una cittadinanza europea comune a tutti coloro che ne condividono l’aspirazione.
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Si affaccia anche nel Regno unito una sinistra che ha compreso i problemi nuovi senza abbandonare i valori antichi. Promettente il successo ottenuto tra i giovani, e le nuove adesioni al Labour party dopo l'affermazione di Corbyn.
La Repubblica, 14 settembre 2015
L’ELEZIONE della leadership laburista è stata una straordinaria prova di democrazia popolare e di partecipazione pubblica dal basso, che ha dimostrato l’infondatezza dell’opinione prevalente al riguardo della politica. Abbiamo attirato il sostegno di centinaia di migliaia di persone di tutte le età, di ogni ambiente sociale, in tutto il Paese, ben oltre i ranghi degli attivisti di lunga data e di chi fa campagna. Chi può seriamente affermare, adesso, che i giovani si disinteressano di politica o che non c’è un intenso desiderio di un nuovo tipo di politica? Più di ogni altra cosa, ha dimostrato che milioni di persone vogliono un’alternativa reale, e non che le cose proseguano come al solito, sia dentro sia fuori dal Partito laburista.
La speranza di un cambiamento e di nuove grandi idee è tornata al centro della politica: porre fine all’austerità, affrontare e risolvere le disuguaglianze, lavorare per la pace e la giustizia sociale in patria e all’estero. Ecco i motivi per i quali oltre un secolo fa fu fondato il Labour. Questa elezione ha infuso nuovo vigore per il XXI secolo all’obiettivo che portò alla sua fondazione: un Partito laburista che dia voce al 99 per cento della popolazione.
Abbiamo combattuto e vinto sulla base di proposte politiche, non di personalità, senza abusi e senza astio. Volendo pienamente fugare ogni dubbio, la mia leadership sarà improntata alla coesione, farà affidamento su tutti i talenti — la metà del governo ombra laburista sarà formato da donne — e lavoreremo insieme a tutti i livelli del partito. Il nostro obiettivo è riportare nel cuore del Labour le centinaia di migliaia di persone che hanno preso parte alle primarie. Riusciremo a far tornare ancora una volta il Labour un movimento sociale.
La leadership del partito si sforzerà di mettere al centro la democrazia: non sarà il leader a emettere editti dall’alto. Raccoglierò idee da tutti i livelli del partito e del movimento laburista, prendendo ispirazione da un partito allargato alle varie comunità e mettendo a frutto i talenti di tutti per dar vita a una linea politica capace di costruire un valido sostegno a favore del cambiamento.
Noi siamo in grado di dar vita a un nuovo tipo di politica: più educata, più rispettosa, ma anche più coraggiosa. Possiamo cambiare le mentalità, possiamo cambiare la politica, possiamo migliorare le cose.
Il messaggio più importante che la mia elezione offre a milioni di persone per mandare a casa i conservatori è che il partito adesso è incondizionatamente al loro fianco. Noi comprendiamo le aspirazioni e sappiamo che le nostre aspirazioni potranno realizzarsi soltanto tutte insieme.
Tutti aspirano ad avere una casa a un prezzo accessibile, un posto di lavoro sicuro, standard di vita migliori, un sistema sanitario fidato e una pensione dignitosa. La mia generazione ha considerato scontate queste cose e così dovrebbero fare le generazioni future.
I conservatori stanno introducendo una legge sulle organizzazioni sindacali che renderà più difficoltoso per i lavoratori ottenere un equo contratto di lavoro, combattere per un salario onesto e per un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata. Le organizzazioni sindacali sono una forza che si adopera per il bene, una forza che si batte per una società più giusta. Unito, il Labour voterà contro questo attacco antidemocratico ai membri delle associazioni sindacali.
Domani il governo presenterà le sue proposte per tagliare i crediti d’imposta, che lascerebbero migliaia di famiglie di operai in condizioni peggiori. I crediti d’imposta sono un’ancora di salvezza vitale per molte famiglie e il Labour si opporrà a questi tagli. È chiaro anche che il Primo ministro presto tornerà a chiederci di bombardare la Siria. Questo non aiuterà i rifugiati. Anzi, ne creerà in maggior numero.
Lo Stato Islamico è assolutamente raccapricciante, e il regime del presidente Assad ha commesso delitti atroci. Ma noi dobbiamo opporci anche alle bombe saudite che cadono sullo Yemen e alla dittatura del Bahrain, armata da noi, che stermina il movimento democratico del paese.
Il nostro ruolo è fare campagna per la pace e per il disarmo in tutto il mondo.
Per i conservatori, il deficit altro non è che una scusa per rifilarci la vecchia agenda Tory di sempre: abbassare i salari, tagliare le tasse ai più ricchi, lasciare che i prezzi degli immobili aumentino fino a essere improponibili, svendere i nostri asset nazionali e attaccare le organizzazioni sindacali. Non ci sono scorciatoie per la prosperità, la si deve costruire investendo in infrastrutture moderne, nelle persone e nelle loro competenze. Bisogna dare sfogo a idee innovative, concretizzando nuove proposte per affrontare e risolvere il cambiamento climatico. E proteggere così il nostro ambiente e il nostro futuro.
Il nostro compito è dimostrare che l’economia e la nostra società possano essere a beneficio di tutti. Insorgeremo contro le ingiustizie ogni volta che le incontreremo. E le combatteremo per un futuro più equo e più democratico, che soddisfi le esigenze di chiunque.
La risposta umana della gente di tutta Europa nelle ultime settimane ha dimostrato l’intenso desiderio di un tipo diverso di politica e di società. I valori della compassione, della giustizia sociale, della solidarietà e dell’internazionalismo sono stati al centro della recente esplosione di democrazia in un Labour sempre più influente.
Quei valori sono profondamente radicati nella cultura del popolo britannico. Il nostro obiettivo, adesso, è mettere a frutto quello spirito e chiedere ardentemente il cambiamento, in tutto il paese.
Traduzione di Anna Bissanti
Ancora sul documento dei 4 della sinistra europea. «La moneta è importante in un sistema capitalistico di produzione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema economico e nel paese che rappresenta».
Il manifesto, 13 settembre 2015
Nel documento diffuso urbi et orbi da Varoufakis, Lafontaine, Melenchon e Fassina si legge che: «Nessun paese europeo può operare la propria liberazione in modo isolato». Appunto. Peccato che il documento non sia molto coerente con questo assunto. Esso vede la luce a pochi giorni dalle nuove elezioni greche e non si può davvero dire che sia una mano d’aiuto a Syriza e a Tsipras. Peraltro se questi ultimi dovessero perdere, non si comprende quale possa essere la maggioranza in grado di portare avanti il piano B sostenuto dagli autori del documento. Per attuarlo non bastano forze minoritarie.
Il confronto fra Tsipras e la Ue è avvenuto precisamente nell’isolamento internazionale. Un paese contro 18. Né i movimenti sono riusciti ad esprimere una solidarietà così forte da incidere sui rapporti di forza. Né i grandi paesi esterni alla Ue, ognuno con i propri diversi motivi, non gli Usa, né la Russia, tantomeno la Cina avevano interesse e possibilità di sostenere la Grecia in uno spericolato sganciamento dall’euro.
In questo quadro si è giunti non a un accordo, ma alla consumazione di un ricatto. Tspiras lo ha detto al suo popolo e al parlamento in modo spietato. L’introduzione di Syriza al programma di governo del 2015, che si propone di indebolire se non neutralizzare le conseguenze più regressive del nuovo Memorandum, affonda ancora il coltello nella piaga. Dopo un impietoso esame delle condizioni nelle quali la Grecia a luglio si trovava si afferma: «Dovevamo scegliere tra una ritirata tattica, in maniera da preservare la speranza di vincere una battaglia politica asimmetrica, oppure imporre alla sinistra un fallimento storico che avrebbe trasformato il paese in un deserto sociale. Ci siamo presi la nostra parte di responsabilità e abbiamo scelto la prima opzione».
Scegliere l’altra avrebbe significato cadere nelle braccia della Grexit di Schauble. Le conseguenze di un’uscita dall’euro sono oggetto di discussione — perché non ci sono precedenti né è prevista dai trattati -, ma mi sembra difficile non assistere in quel caso a una ulteriore fuga dei capitali, a pesanti manovre speculative, a un balzo dell’inflazione pure in presenza di alti tassi di disoccupazione, quindi a una diminuzione drastica e brusca del valore reale di salari e pensioni già al lumicino. Per impedire questo, disse Varoufakis a New Statesman, si era pensato a un piano B, con la necessaria riservatezza, salvo verificare che mancavano forze e mezzi per garantirne il risultato.
Cambierebbe in meglio il quadro se al posto di una Conferenza europea sul debito non solo greco, che è quanto ha sempre voluto Syiriza e che in parte ha ottenuto al termine della mortificante trattativa con i prossimi appuntamenti autunnali — ai quali giustamente i greci chiedono la presenza del parlamento europeo in quanto tale, unica struttura elettiva — si realizzasse una conferenza per il piano B, proposta dagli estensori del documento? Non credo proprio, poiché la pubblicità stessa dell’atto — al di là delle buone intenzioni e prima ancora degli esiti del medesimo — sposterebbe l’attenzione dal piano A — ovvero battersi dentro l’Eurozona — al piano B, cioè alla uscita dall’euro.
In modo assai discutibile, i fautori del Piano B paragonano l’azione della Ue nei confronti della Grecia e dei paesi mediterranei alla «sovranità limitata» praticata da Breznev con i carri armati a Praga. Ma davvero la fuoriuscita dall’euro sarebbe la liberazione dalla gabbia? Vi sono paesi che hanno la loro moneta, come la Polonia, eppure non sono che un’articolazione del sistema produttivo tedesco. D’altro canto alla gabbia dell’euro si sostituirebbe quella non certo più tenera dei mercati finanziari internazionali.
Per una sinistra la disputa euro-non euro non dovrebbe avere di per sé un peso così dirimente. Dovrebbero esserlo molto di più le politiche produttive. Certo, l’euro è stato costruito in un’area monetaria non ottimale che favorisce la potenza esortativa della Germania. Sarebbe meglio — ci si potrebbe arrivare senza disfare l’Europa, rafforzando l’unità di paesi e di sinistre (auguri Corbyn!) — avere una moneta comune in luogo di una moneta unica. Un’attualizzazione del Bancor pensato da Keynes. La moneta è importante in un sistema capitalistico di produzione, ma non è tutto. La forza di una moneta non è in sé, ma nel sistema economico e nel paese che rappresenta. Ce lo insegna la storia del rapporto fra Usa e Dollaro, ora si potrebbe dire fra la Cina e Renminbi.
In una transizione egemonica mondiale fra Ovest e Est, ove le guerre sono all’ordine del giorno e una deflagrazione mondiale è dietro l’angolo, il ruolo di un’Europa federale e democratica, dotata di una propria forza economica, quindi anche di una moneta, è decisiva. Se si trasformasse in un protettorato tedesco più ristretto, come vogliono i vari Schauble, sarebbe una sciagura non solo per l’economia ma per i già traballanti rapporti geopolitici mondiali.
«».
Il manifesto
Il segretario del Pcf, Pierre Laurent, ha cercato di mantenere una parvenza di unità alla sinistra della sinistra. Ma alla Fête de l’Humanité, malgrado la notizia della vittoria di Corbyn, è andata ieri in onda la divisione. Non sull’accoglienza dei rifugiati, perché la solidarietà resta per fortuna un valore condiviso, né tanto sull’azione per far fronte al disordine climatico, anche se su questo fronte le sensibilità sono a volte lontane, ma la lacerazione è sull’Europa e sull’euro. Lo scontro in corso in Grecia, a una settimana dalle elezioni anticipate, si è invitato sotto la pioggia della festa a La Courneuve. Jean-Luc Mélenchon, leader del Front de Gauche, ha accolto in una tavola rotonda l’ex ministro Yanis Varoufakis, con Oskar Lafontaine di Die Linke e Stefano Fassina. Nessun esponente del Pcf, che pure fa parte del Front de Gauche, a questo dibattito. Pierre Laurent, del resto, ha invitato al dibattito “Insieme per un’altra Europa”, l’ex ministro greco, George Katrougalos, rimasto fedele a Tsipras, oltre a rappresentanti di Podemos, Izquierda Unida e anche Die Linke. Laurent ha visto in un breve incontro Varoufakis, ma la divisione di fondo resta: la sinistra della sinistra, che pure è d’accordo sulla necessità di trovare un’altra strada nell’Europa dell’austerità, essenzializza la moneta unica e si lacera.
Mélenchon, Varoufakis, Lafontaine e Fassina affermano di “essere determinati a rompere con questa Europa”, hanno un “piano A” per ottenere “un completo rinegoziato” dei Trattati. Ma, vista l’improbabilità di questa strada (per riformare i Trattati ci vuole l’unanimità nella Ue), propongono un “piano B”, che non esclude l’uscita dall’euro. Mélenchon vorrebbe organizzare un vertice europeo, già a novembre, per proporre questo “piano B”. E precisa: se dovessi scegliere “tra l’euro e la sovranità nazionale” sceglierei la seconda ipotesi. Mélenchon ha appena pubblicato un libro, Le Hareng de Bismarck, dove mette sotto accusa la Germania. Anche Varoufakis è su questa linea: per l’ex ministro, la minaccia di Grexit e i diktat imposti ad Atene da Berlino e Bruxelles hanno come obiettivo quello di piegare qualsiasi velleità di cambiamento, mirando ad obbligare in primo luogo la Francia ad accettare una completa austerità.
Per Laurent, invece, “Syriza non si è piegata all’austerità”, ma Tsipras è stato lasciato “solo contro tutti”. Laurent aggiunge: “continuo a credere che un’uscita dall’euro non avrebbe migliorato i rapporti di forza in Grecia”.
La proposta del “Piano B” di Mélenchon-Varoufakis arriva in Francia dopo la forte polemica sollevata dall’economista Jacques Sapir, vicino al Front de Gauche. Sapir propone un “fronte repubblicano” per l’abbandono della moneta unica, che potrebbe anche non escludere l’estrema destra. Per Sapir, non è più possibile ignorare la forza del Fronte nazionale, che alle ultime europee è stato il partito più votato. “Creando uno spartiacque pro o contro l’euro andiamo a sbattere contro un muro”, afferma Clémentine Autin, portavoce di Ensemble, la terza componente del Front de Gauche. “C’è piena coscienza delle divisioni, ma la domanda per Ps, Pcf, Parti de Gauche, Verdi è come rispondere all’aspirazione popolare per la lotta alla disoccupazione, alle ineguaglianze, alla crescita della povertà”, riassume l’ex ministro socialista, Benoît Hamon (ormai vicino alla “fronda” contro il governo Valls, ma sulla lista Ps per le regionali di dicembre). Il Front de Gauche è lacerato, Europa-Ecologia sta perdendo i pezzi (i capogruppo all’Assemblea e al Senato, François de Rugy e Jean-Vincent Placé sono appena usciti dal partito per fondare Ecologistes!, una formazione più centrista). L’imminenza delle elezioni regionali di dicembre, con alleanze a geometria variabile nelle varie regioni tra Ps, Verdi e Front de Gauche, non ha favorito ieri una discussione razionale.
Lo scrittore nigeriano, premio Nobel, parla della crisi dei migranti. “È un’eredità del colonialismo, ora però le tragedie dell’Africa sono sotto gli occhi del mondo. Come accade per le ragazze rapite da Boko Haram”.
La Repubblica, 13 settembre 2015
C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: ubuntu e’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia. Wole Soyinka, poeta e scrittore nigeriano, nel 1986 premio Nobel per la Letteratura, la usa spesso nel suo ultimo libro, “dell’Africa”, uno dei testi più importanti fra quelli presentati al Festivaletteratura di Mantova. Mentre sulle pagine dei giornali e alla tv si susseguono le immagini dei profughi che cercano di arrivare in Europa, e’ impossibile non iniziare una conversazione con Soyinka senza parlare di ubuntu .
Le sembra una parola appropriata per le giornate che stiamo vivendo?«È un’espressione che hanno spesso usato persone come Mandela e Desmond Tutu: volevano dire che qualunque persona sia in stato di necessità deve essere aiutata. Che la solidarietà è obbligatoria e che siamo tutti responsabili. Altrimenti perdiamo la nostra umanità. È una parola adeguata a queste giornate, a patto di metterla nella giusta prospettiva. È dovere dei paesi da cui i migranti fuggono, e mi riferisco in particolare a quelli africani, creare le condizioni sociali perché queste persone abbiano sempre meno motivi per scappare. Ed è dovere del mondo esterno capire che la relazione che ha avuto con l’Africa, il lascito del colonialismo è alla base delle migrazioni».
Cosa pensa della reazione dell’Europa di fronte ai profughi?
«Sono sorpreso che l’Europa non abbia capito prima quello che stava per accadere. Da tempo i rifugiati interni ai paesi dove si combatte erano milioni, era naturale che prima o poi la crisi si espandesse. Ora ci sono moltissime persone pronte ad affrontare una morte quasi certa per mare per la speranza di una vita migliore».
L’Europa manca dunque di prospettiva, di uno sguardo di lunga durata?
«Penso all’Africa, e Le rispondo che qualche volta è bello essere dimenticati, lasciati a risolvere i propri problemi: non si può sempre essere assistiti. Ma qualche volta l’attenzione serve. Le faccio un esempio: qualche anno fa il mondo si indignò per Amina, una donna che stava per essere lapidata per adulterio in Nigeria. Fu una cosa importante, perché anche quelli che fino a quel momento avevano fatto finta di nulla furono costretti ad ammettere che stava accadendo qualcosa di sbagliato».
Direbbe lo stesso del clamore suscitato dal rapimento delle ragazze di Chibok da parte di Boko Haram?
«Quella e’ una storia talmente grande che era impossibile da ignorare. Ha colpito tutti, perché ha richiamato alle sue responsabilità una società che non era stata in grado di proteggere delle ragazze nel luogo dove avrebbero dovuto essere più sicure, e un governo che non si è mosso in tempo. Ha costretto tutti ad aprire gli occhi su un fenomeno, che io chiamo del bokoharamismo, che era lì davanti a tutti: la diffusione di un gruppo che è incapace di guardare all’essere umano se non attraverso le lenti strettissime della sua visione religiosa estremista. Abbiamo visto l’intolleranza crescere sotto i nostri occhi e la religione diventare uno scudo per fare quello che si voleva. Lo abbiamo visto nel silenzio totale delle autorità: nessuno e’ stato chiamato a rispondere del fatto che qualche anno fa gruppi di estremisti abbiano messo Abuja a ferro e fuoco per protestare contro un concorso di bellezza. Nessuno ha pagato. Chibok e’ stato il caso più brutale. Il messaggio era: “facciamo ciò che vogliamo con quello che di più caro avete”. Con i riflettori del mondo addosso il governo non ha più potuto far finta di niente».
A 500 giorni da quel rapimento in Nigeria qualcosa e’ cambiato?
«Sta cambiando. Mai abbastanza per me, ma qualcosa si sta muovendo. La gente non dice più le stesse cose di prima, i politici stanno più attenti a giocare la carta delle divisioni religiose. Tutto questo non è più possibile dopo Chibok, come non è più possibile ignorare il fatto che la diffusione dell’estremismo è un problema reale».
Wole Soyinka scrittore e poeta nigeriano premio Nobel per la Letteratura nel 1986
Prosegue il dibattito sulla costruzione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Un intervento che richiama provvidamente l'attualità pensiero di un gigante, più studiato e apprezzato all'estero che nel suo paese.
Il manifesto, 12 settembre 2015
Gramsci, come risorsa per la definizione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Sembra che si sia finalmente giunti alla decisione di costituire in Italia un nuovo soggetto politico di Sinistra. Provo allora ad elencare qualche snodo decisivo come contributo alla discussione. E’ importante partire con idee chiare, superando ogni sorta di perplessità e attendismo. In questo contesto ci può aiutare la ricchezza dell’attività giornalistica e politica di Gramsci degli anni torinesi. Le questioni affrontate, poi, da Gramsci nei Quaderni, sono tante e complesse che rimandano ai temi di stretta attualità dei giorni nostri, là dove Gramsci descrive una classe borghese che diventa casta, e per mantenersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sottovalutati i temi storici della «teoria della prassi» e i nodi concettuali di «società civile», «egemonia», «rivoluzione passiva».
Vorrei però oggi soffermarmi sull’analisi gramsciana di «coscienza di classe» e «ruolo e funzione del partito». Come spunto di riflessione per la costruzione in Italia di un nuovo soggetto politico a Sinistra, che rivendichi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.
Gramsci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del contesto storico) non ci sia soggettività, quindi sia inevitabile la subalternità al potere dominante. Senza coscienza di classe, la massa è indissolubilmente legata al dominio della borghesia capitalistica. La conquista della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel processo che potrà portare a costruire un nuovo soggetto politico di Sinistra, poiché significa divenire consapevoli del conflitto sociale e politico in atto. Così come lo sono stati il partito Giacobino nella Rivoluzione francese del 1789, i Mille di Garibaldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il partito bolscevico nella Rivoluzione d’Ottobre il nuovo soggetto politico è chiamato a svolgere una funzione pedagogica in termini egemonici e non autoritari, con l’autorevolezza e il prestigio della direzione.
Compito primo di questa nuova forza politica di Sinistra è, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo, quindi concepire da subito i germi della nuova società, iniziando a costruire linguaggi alternativi, codici, forme, relazioni, esperienze sottratte al dominio dello sfruttamento capitalistico e finanziario. Quindi ribadire con forza i temi della Sinistra: ruolo pubblico nel mercato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pensioni, scuola pubblica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gramsci il partito è un insieme di dirigenti all’altezza delle necessità e in grado di stare nel conflitto.
«Coscienza e organizzazione» costituiscono per Gramsci un binomio indissolubile. Il dovere più urgente, dice Gramsci, è il problema di organizzazione, di forza, di corpi fisici e di cervello, di organizzazione delle menti cioè formazione e coordinamento. Per Gramsci organizzare è sinonimo di direzione, di consapevolezza, di competenza delle conoscenze e di coerenza sul piano pratico.
Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», caratteristico e fondante della teoria gramsciana del partito. Lavorare tra le masse vuol dire essere continuamente presenti, essere in prima fila in tutte le lotte. Strategico e decisivo è quindi creare gruppi dirigenti «organici e adeguati» per la creazione e la formazione di un’autonomia culturale e politica che sappia dare risposte concrete, qui e ora al «Socialismo del XXI secolo». In questo arcipelago di movimenti di Sinistra, fondamentale sarà la presenza di un forte e nuovo Partito Comunista.
LLa Repubblica, 12 settembre 2015
Ma qualunque sia l’esito di questo conflitto, è il suo stesso sorgere che sembra inammissibile, quando in realtà esso non rappresenta altro che la fisiologia della politica. Quando mai c’è stato unanimismo nei partiti, democratici e non? Per decenni il Pci è stato accusato di scarsa o nulla democrazia interna a causa del suo “centralismo democratico”, una pratica in base alla quale dopo aver discusso negli organi interni, tutti dovevano seguire la linea decisa, pena l’espulsione. Invece, al suo interno, i conflitti, benché ovattati dentro le mura di Botteghe Oscure, divampavano, eccome. E in alcune occasioni venivano alla luce. Ad ogni modo, il fatto che le opinioni difformi da quelle della leadership non potessero organizzarsi in correnti, contrariamente a quanto accadeva agli altri partiti, era indice di grande intolleranza. Sembra passato un secolo da quel clima politico. Certo, un conto è il dibattito interno ad un partito, un conto il comportamento di voto in Parlamento, perché alle Camere è in gioco la maggioranza di governo. Qui la compattezza ha un valore ben più alto. Tuttavia, a parte la curiosa “regressione” del Pd a partito di massa classico, quando il segretario comandava sui parlamentari annullandone l’autonomia di giudizio, l’enfasi sull’obbedienza martellata dai supporter di Matteo Renzi ha uno sgradevole retrogusto plebiscitario.
In realtà, il voto difforme rispetto a quello del proprio partito non è una cosa inaudita nei parlamenti democratici. Per partire dal caso più recente, nel Bundestag tedesco molti parlamentari del partito della cancelliera Angela Merkel hanno votato contro gli aiuti alla Grecia: sia a febbraio che ad agosto circa un 20 per cento di deputati si è rifiutato di sostenere il governo su questo punto. In Gran Bretagna, durante la sessione parlamentare 2013/14, nel 31 percento delle votazioni, deputati appartenenti alla coalizione che sosteneva David Cameron hanno voto contro il loro governo. Il maggior numero di disubbidienti si trova tra i Conservatori: sono stati più di 20 in 8 casi, e più di 30 in tre casi. E questo ha determinato la sconfitta del governo in tre occasioni.
Ancora più significativo il caso della “fiducia” al governo di Manuel Valls, ripresentatosi in Parlamento con una nuova compagine governativa dopo le dimissioni, richieste e ottenute, di alcuni ministri riottosi. Il 16 settembre scorso, alla fine dell’illustrazione del nuovo programma (non una vera fiducia, in realtà, perché non è prevista in Francia), ben 31 deputati hanno votato contro. Per loro, come negli altri casi, nessuna sanzione. E men che meno è andato in crisi il governo.
Questi esempi ci dicono che i voti in dissenso rispetto alla leadership sono la norma in occasione di grandi dibattiti. Non scandalizzano più di tanto. Eppure il conflitto interno al Pd in merito alla riforma del Senato ha assunto toni apocalittici con aberrazioni che vanno dall’accusa di lesa maestà, da un lato, alle grida per l’attacco alla democrazia, dall’altro. Se al di là del contenuto del conflitto c’è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Matteo Renzi. Perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. La spada di Brenno appartiene ai barbari, l’ agorà all’alba della civiltà. Per questo, anche per questo, un senatus può servire.
Qualche migliaio di manifestanti, rigorosamente a piedi nudi, hanno attraversato il Lido: tante donne, ragazzi e ragazze, tra loro decine di migranti. Soprattutto dall’Africa: Nigeria, Gambia, Senegal. Si vedono anche bandiere del sindacato: spiccano quelle verdi della Cisl, ma ci sono pure iscritti della Uil, e una nutrita rappresentanza della Cgil, con in testa la segretaria Susanna Camusso.
Folto anche il drappello di politici, ma se si eccettua il vignettista Staino dell’Unità, della galassia renziana non si vede nessuno. In qualche modo, si tratta di “ex”: l’ex segretario di Sel Nichi Vendola, la ex ministra Livia Turco, gli ex piddini Stefano Fassina e Pippo Civati. Avvistato anche l’ex sindaco di Padova ed ex ministro Flavio Zanonato. A riassumere la piattaforma della manifestazione è Giulio Marcon, di Sel, che con il regista Andrea Segre, altri attori e artisti, un vasto arco di associazioni, ha organizzato in pochi giorni le marce in tutta Italia: «La prima urgenza — spiega — è quella di allestire corridoi umanitari sicuri e protetti, a livello europeo. Si dovrebbe poter fare già nei paesi di origine, o a pochi chilometri dalle coste, intercettando i barconi per salvare chi fugge. E accogliere tutti, innanzitutto, calibrando poi l’intervento a seconda che si tratti di rifugiati o di migranti economici”.
Il tema mainstream, quello che nella versione Merkel, o in quella di Salvini, impone una netta distinzione tra chi accogliere e chi rimandare a casa, qui non sembra porre dubbi: tutti concordano sulla necessità di non discriminare. Lo spiegano Rita e Filomena, due giovani sorelle della Congregazione Charles de Foucauld di Fermo, casa di accoglienza per migranti: «Gli uomini sono tutti uguali, e non puoi selezionare. Poi anche chi fugge dalla fame, chi tenta di sopravvivere con i propri figli, è come se venisse da una guerra. Noi cerchiamo di far integrare le persone che stanno da noi: adesso alcuni di loro stanno creando una cooperativa con diversi mestieri».
«Da Venezia a Kobane, da Budapest a Bruxelles: #apiediscalzi #refugeeswelcome». «Io non sono un pericolo, io sono in pericolo». «Abbiamo bisogno di documenti». Tanti gli slogan portati sui cartelli dai migranti, mentre i centri sociali del Nordest — tra loro Luca Casarini — scandiscono «La nostra Europa non ha confini, siamo tutti clandestini», con la doppia versione finale: «siamo tutti cittadini». A metà strada vengono messe a disposizione diverse bacinelle di tempere colorate: chi vuole può bagnarsi i piedi e lasciare le proprie orme sul vialone che porta al Casinò.
Sankung, un ragazzo del Gambia, spiega di essere ospite con altri 50 immigrati in un albergo di Chioggia: le procedure per vagliare le loro richieste di asilo sono lentissime, così c’è chi è da oltre un anno in attesa. E visto che non hanno documenti, per il momento non possono neanche cercarsi un lavoro regolare. Il gruppo è accompagnato da Elena Favaretto, dell’associazione di volontariato Migrantes: spiega che la commissione di Padova, che ha in carico le loro richieste, concede gli asili con il contagocce. Gianluca Schiavon, del Prc, spiega che il suo partito sta sperimentando l’accoglienza nelle sedi locali in diverse città.
Tra i bonghi e i canti dei migranti e le musiche diffuse dal camioncino dell’organizzazione, risuonano le parole dell’appello letto dall’attrice Ottavia Piccolo: «Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi. Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di sopravvivere. E’ difficile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo. Ma la migrazione assoluta richiede esattamente questo: spogliarsi completamente della propria identità per poter sperare di trovarne un’altra. Abbandonare tutto, mettere il proprio corpo e quello dei tuoi figli dentro ad una barca, ad un tir, ad un tunnel e sperare che arrivi integro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno». In attesa del vertice Ue di lunedì, gli italiani e i migranti che hanno marciato oggi in tutto il Paese sperano che si apra uno spiraglio per una politica comune dell’asilo e l’istituzione immediata di corridoi umanitari.
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. La Repubblica, 12 settembre 2015
LA REAZIONE nel complesso positiva della popolazione tedesca all’afflusso di rifugiati segna un’importante discontinuità con lo stato d’animo imperante nel Paese all’inizio degli anni ‘90. Dimostra che una leadership politica risoluta – di cui finora, con la Merkel, abbiamo sentito la mancanza – può condurre nel lungo periodo l’opinione pubblica e la società civile a manifestare il loro sostegno e la loro volontà di venire in aiuto a queste popolazioni.
L’asilo politico non è una questione di valori – le chiacchiere sul tema dei “valori” mi esasperano – ma un diritto, e un diritto fondamentale. Questo diritto non può essere garantito solo dai Governi. Dev’essere rispettato dalla popolazione nella sua interezza. I Governi possono non riuscire a far fronte alla sfida attuale, per scoraggiamento o per mancanza di sostegno da parte dei loro mezzi di informazione e dei loro cittadini. E a volte anche per calcoli meschini e per la pusillanimità dei partiti politici di fronte alla pigrizia, l’egoismo e la mancanza di una visione alta nella popolazione.
Per il momento, vediamo che i Paesi membri dell’Unione Europea non riescono, complessivamente, ad accordarsi su una linea d’azione comune. L’onesta proposta del presidente Hollande e della cancelliera Merkel non incontra consenso. Si tratta indubbiamente di un segnale allarmante e vergognoso, ma che la dice anche lunga sul reale stato politico di una comunità che non è diretta da un Parlamento e un Governo comuni, bensì da compromessi stipulati tra ventotto Governi nazionali.
Le diverse reazioni nazionali al problema urgentissimo che dovrebbe oggi vedere una risposta comune testimoniano anche realtà di cui bisogna tener conto: la differente anzianità di appartenenza all’Unione, le differenze economiche importanti – troppo importanti – fra Paesi membri, e soprattutto le differenti storie nazionali e le differenti culture politiche.
L’Europa, di fronte a questo disaccordo insormontabile sulla sfida politica e morale rappresentata dalla crisi migratoria, non deve fallire, col rischio di uscirne alla lunga devastata. E a tale scopo vedo solo una strada realistica: la Francia e la Germania devono prendere l’iniziativa e riunire i Paesi strettamente legati fra loro dall’euro e dalla crisi che attraversa questa moneta per proporre delle soluzioni comuni. La Francia e la Germania devono dimostrare che esiste un nocciolo duro dell’Europa in grado di agire e di andare avanti unito.
Un successo simile potrebbe portare anche, finalmente, a un cambiamento dell’atteggiamento del Governo tedesco, da cui dipende in toto un esito positivo, più a lungo termine, della crisi monetaria stessa. La Francia, se adottasse una linea di condotta energica sulla crisi dei profughi, oltre a restare fedele alla sua tradizione politica darebbe una spinta al Governo tedesco, in modo indiretto: non è solo questione di mostrarsi solidali con quelli che cercano asilo politico, perché una solidarietà di questo tipo è un dovere giuridico; una solidarietà finanziaria è anche una necessità politica in seno a una comunità monetaria che può sopravvivere solo con una politica fiscale, economica e sociale comune.
Traduzione di Fabio Galimberti
Il caso Grecia ha mostrato che la vera natura dell'Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche».
Sbilanciamocie.info, newsletter 11 settembre 2015
La piccola Grecia è stata il primo terreno di questa esperienza, la vittoria elettorale di Syriza ha permesso di formare, con l’aiuto di una modesta forza eterogenea, un governo di grande consenso, che ha sperato di trovare nel continente un’udienza favorevole, fino a spingere a non accettare come interlocutore la Troika – Bce, Fmi e Commissione – perché non rappresentano un organo eletto, quindi non formalmente valido. Era un rifiuto simbolico, perché di fatto questo trio è stato il rappresentante di Bruxelles e si è presentato come controparte, ma anche un simbolo ha un valore politico per cui la cosa ha irritato sommamente le autorità europee e la loro stampa.
Il programma del governo di Syriza è stato costituito da una serie di misure favorevoli ai ceti più deboli ed è stato accompagnato dalla richiesta di ristrutturare il debito pubblico e di ottenere dalla Germania la restituzione degli ingenti danni di guerra. Tali misure, presentate dal primo ministro Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, sono state tutte respinte proponendo come condizione preliminare a ogni discussione alcune riforme strutturali destinate a soddisfare i creditori.
Il dialogo non è stato possibile. Anzi, nel corso di alcuni mesi venuti a scadenza nell’agosto 2015 le richieste di rimborso si sono fatte ultimative portando il governo greco a scontrarsi con Angela Merkel e il ministro delle finanze tedesco Schauble, ambedue – e specie il secondo – irritatissimi con le tesi e il modo di presentarsi di Varoufakis che ha sostenuto la linea greca anche con la sua autorità di economista contro la filosofia dell’austerità.
In breve l’Ue, piacesse o no ad Atene, è stata rappresentata dalla Troika che ha fatto scudo contro Tsipras fino a rendere del tutto evidente che parte dell’Europa avrebbe preferito, piuttosto che accedere alla sue richieste, un’uscita dall’euro, detta “grexit” dall’alfabeto barbarico ora in uso.
Non sono mancati i rilievi sulle storture finanziarie del piccolo paese, ereditate dai governi precedenti: una fiscalità disordinata, che per esempio esentava, scrivendolo nientemeno che nella Costituzione, gli armatori e la chiesa ortodossa dalle imposte, nonché una quantità giudicata eccessiva di spese per il personale pubblico e soprattutto per la difesa, e una struttura industriale debolissima, situazioni che Tsipras si proponeva di risanare chiedendo qualche tempo e qualche mezzo per far fronte ai bisogni più impellenti: «Privatizzate, rinunciate alla spesa pubblica e abbassate le pensioni» è stata la risposta di Bruxelles accanto alla richiesta del rimborso del debito da concordare con i creditori, l’ultimo incontro con i quali si è rivelato insostenibile.
Nello scontro con questi inflessibili giganti, la Grecia è rimasta isolata, la esibita disponibilità del rappresentante francese, di Juncker e della stessa Merkel è rimasta strettamente limitata sul piano personale (qualche pacca sulle spalle e qualche buffetto esibiti davanti alle camere televisive nell’incontro con Tsipras), dall’Italia neanche questo, il tentativo di ottenere aiuti finanziari dai Brics si è risolto in nulla, la Russia essendo oggetto di sanzioni da parte dell’Europa.
A Tsipras non è rimasta altra scelta che mangiar quella minestra o saltare dalla finestra. Varoufakis si è ritirato dopo il successo al referendum di luglio e Tsipras doveva accettare o rifiutare i no della Troika su tutto il fronte. Tsipras ha preferito restare al suo posto combattendo metro per metro ma proponendo che il 20 settembre il popolo greco gli confermi o tolga la fiducia in straordinarie elezioni politiche.
L’Ue e la stampa dei suoi governi sono andati fuori dai gangheri: mossa cinica, come è cinico il personaggio è stato il rimprovero più moderato che gli è stato mosso. Varoufakis resta fuori e Syriza si è spaccata in due. Con soddisfazione di tutti i paesi europei che non avevano nascosto il timore di imitazione da parte di altri paesi del sud della linea di Tsipras, cioè l’ostinato rifiuto delle condizioni poste dalla Troika e in genere dalla linea dell’austerità.
Incombono le lezioni spagnole; Podemos simpatizza con Syriza, e la sua vittoria sul partito popolare di Rajoy è per Bruxelles una prospettiva più pericolosa della rivolta greca. Le dimensioni della Spagna sono ben più vaste e un’infezione di democrazia spaventa l’establishment europeo. Meglio l’Europa a due velocità, auspicata dal ministro delle finanze tedesco. Ben diversa da una scelta dei popoli verso la quale premono anche alcune delle sinistre extraparlamentari italiane, per le quali un’uscita dall’euro e il ritorno a una piena sovranità per ogni stato sembra auspicabile al di là dei prezzi da pagare.
«».
Perché non possiamo uscire dallUE, ma dobbiamo conquistarla. «Tutti i paesi, se perdiamo l’Europa, tanto più quelli più piccoli, finirebbero per fluttuare come fuscelli alla mercé delle selvagge leggi del mercato». Nonostante le aggressioni e gli abbandoni (da destra e da sinistra) dobbiamo continuare a sostenere Tsipras.S
bilanciamoci.info, newsletter, 11 settembre 20l5
Sono oramai quasi cinque anni da quando è deflagrato il problema greco, reso clamoroso dalla crisi mondiale ma da quella solo in minima parte causato: già da quando il paese, nel 1981, era entrato nella Comunità europea, primo fra i nuovi sud mediterranei, era risultato evidente che l’allargamento a questa nuova zona dell’Europa avrebbe dovuto indurre cambiamenti di non poco conto nella politica di Bruxelles. Con l’ingresso della Grecia, e qualche anno dopo della Spagna e del Portogallo, tutti e tre peraltro appena usciti dalla dittatura, la nord-centrica entità avrebbe dovuto fare i conti con un ineludibile problema: quello nord-sud (cui solo l’Italia era familiare). Che molti di loro avevano conosciuto solo nei termini del colonialismo.
Con lucidità, quando qualche mese dopo esser diventata membro della Cee la Grecia divenne titolare della sua presidenza di turno, il suo ministro degli esteri Charampopulos, dichiarò: «Accettiamo le responsabilità che ci derivano dalla presidenza, ma non possiamo per questo venir meno ai nostri vecchi giudizi... L’Europa dei sei e poi dei nove era l’Europa dei ricchi, del nord. L’Europa dei dieci e ancor più quella dei dodici sarà un’Europa che vivrà in modo acuto i problemi nord-sud che non possono esser risolti se non attraverso un massiccio trasferimento di risorse e un intervento pubblico pianificatore che condizioni il gioco selvaggio del mercato, destinato ad approfondire la polarizzazione».
Charampopulos rappresentava il primo governo socialista del paese, quello di Andreas Papandreu, che tuttavia, dopo un buon esordio, dimenticò molte cose. Fra queste l’impegno a trarre le conseguenze dalla realistica considerazione espressa all’inizio dell’avventura europea. Era ancora lui al governo, e perciò membro del Consiglio dei Ministri europeo, quando questo, nel 1986, assunse una delle decisioni più cariche di conseguenze negative: la liberalizzazione del movimento dei capitali senza che alcuna altra misura compensativa delle sue possibili conseguenze fosse presa. E non risulta che Atene abbia obiettato, così come, del resto, nessuno dei molti governi socialisti che a quel tempo governavano. Così come assai poco obiettarono anche le sinistre all’opposizione, come nel caso italiano. La speranza di un’intesa mediterranea non si concretizzò mai.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, nel 1993, per non parlare dell’Eurozona, il divario nord-sud diventa cronico. A questo punto anche ove fosse ipotizzabile il massiccio trasferimento auspicato dalla Grecia nel 1981, non sarebbe più sufficiente. Sarebbe necessaria una ridefinizione complessiva del modello e della strategia dell’Unione. Che come sappiamo non ci fu, né c’è tantomeno oggi.
Le risorse dell’Unione furono così sfruttate con spregiudicatezza per operazioni speculative, sovvenzioni a investimenti privati non programmati e non produttivi e un po’ di demagogica spesa pubblica elettorale.
Sappiano tutti cosa è accaduto dopo: nel 1998, quando la Grecia chiede di entrare nel sistema monetario europeo, il suo deficit è al 4,6 % e il suo debito pubblico al 108,5. Cifre troppo negative per ottenere il diritto all’ingresso nell’esclusivo club. Ma il nuovo governo socialista, quello di Simitis, dichiara, solo due anni più tardi, di aver messo tutto in regola e ottiene di entrare nell’Eurozona. E però non era vero, il bilancio era stato falsato. Da allora cresce un’abnorme evasione fiscale, sperpero e corruzione, mentre il paese viene posto sotto la miope tutela di Bruxelles, tanto più interessata a non vedere la realtà perché chi comanda in Europa sono i compagni di partito di quelli al governo ad Atene.
Poi la serie di prestiti micragnosi e condizionati da inaccettabili misure di politica economica: nel 2009 110 miliardi di euro (80 dall’Ue,30 dal Fmi) sulla base del Memorandum of Understanding, da ripagare in 13 tranches. Molto lucrativo per i creditori, soprattutto tedeschi. Inutile per la Grecia. Così come il secondo piano del 2010, basato su prestiti del Fondo Europeo di Stabilità Monetaria, dell’Fmi, e del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, e così come tutte le altre misure d’emergenza caoticamente e affannosamente varate in questi ultimi anni senza alcuna legittimazione democratica dei procedimenti posti in atto. Perché sempre finalizzate alla restituzione del debito, mai a creare le condizioni necessarie a far sì che tale restituzione fosse possibile: una profonda ristrutturazione dell’economia del paese e un rilancio degli investimenti per uno sviluppo sensato.
Il resto, quanto avviene nella società greca e i mutamenti politici che si innescano, fino alla controffensiva democratica di Syriza, è cronaca attuale.
Ma a questo punto non siamo più al dramma greco, siamo alla crisi dell’Unione Europea tutta: investita da proteste, scetticismo, perduta credibilità. Cui Bruxelles risponde accentuando ulteriormente la tendenza a escludere la politica, e dunque il controllo democratico, dalle decisioni. Siamo oramai nel pieno del modello post-parlamentare e post-democratico, quello auspicato dalla Trilateral più di quaranta anni fa, quando, con la fine della convertibilità del dollaro, ci fu il primo segnale della crisi epocale che viviamo ancor oggi. C’è troppa democrazia, il sistema non può sopportarla – proclamarono allora gli esponenti dell’Occidente, consigliando di non lasciare le questioni economiche in mano a parlamenti incompetenti, perché troppo delicate e complesse.
Di questo modello l’Ue è diventata anticipatrice, sollecitando i governi nazionali dei paesi membri a seguire un’analoga indicazione. (Quello di Matteo Renzi è il miglior allievo).
Era inevitabile che una vicenda che ha prodotto drammi sociali così gravi aprisse un dibattito acceso sulla strategia da perseguire per rendere meno pesante il ricatto cui il paese è stato sopposto anche con il chiaro intento di liberarsi di un governo «pericoloso» come quello di Tsipras: uscire dall’euro e fatalmente dall’Ue, oppure subire il compromesso e cercare di gestirlo per recuperare un rapporto di forza che renda possibile un’alternativa.
Gli articoli, le interviste, i documenti pubblicati nelle pagine di questo e-book aiuteranno ciascuno a farsi un’opinione più circostanziata. La questione ha tanti e drammatici risvolti che non c’è da meravigliarsi se si sono verificati, in Grecia e non solo, dissensi anche aspri e rotture.
Confesso di far fatica a entrare nel dibattito greco perché capisco le perplessità di chi in questi anni ha forse pensato che la strada sarebbe stata più facile e oggi si trova invece difronte a scelte durissime. Capisco la sofferenza di chi vive in prima persona la lacerazione di Syriza la cui unità è stata, anche per noi, un esempio e una speranza. Sono tutti, da una parte e dall’altra, compagni che stimo, moltissimi che conosco da tempo e per cui nutro anche molto affetto. Ma proprio perché la vicenda non è ormai più solo greca ma europea, e dunque riguarda anche noi non greci, non posso esimermi dal dare un giudizio, avere un’opinione. Che tiene conto del fatto che, nel giudicare, mi preoccupa il come riorganizzeremo le forze di un fronte di sinistra in grado di combattere per una diversa Unione europea.
Ho detto Unione e non solo Europa, perché credo sarebbe una catastrofe se ciascuno decidesse di andarsene, così perdendo il terreno comune di lotta, il quadro entro cui, per difficile che sia, si deve combattere. Tenendo a mente soprattutto che se c’è, nell’era della globalizzazione, una speranza di conservare un qualche controllo politico sulle sorti delle nostre società, dobbiamo continuare a puntare su una articolazione macroregionale del mondo, al cui livello non è pensabile possa esser costruito un ordinamento democratico.
Tutti i paesi, se perdiamo l’Europa, tanto più quelli più piccoli, finirebbero per fluttuare come fuscelli alla mercé delle selvagge leggi del mercato. (La Germania, forse, potrebbe permettersi un’uscita dall’Ue, né la Grecia e nemmeno l’Italia, costi quel che costi. Il prezzo di un exit sarebbe molto più caro.)
Non perdere l’Europa, anche perché – come ha scritto Balibar in questo volume – l’Europa è stata condotta dalla storia dei suoi movimenti sociali (delle dure lotte di classe che vi si sono svolte) a un grado di riconoscimento istituzionale dei diritti sociali come diritti fondamentali senza uguali. Non a caso la cosa che abbiamo più in comune per davvero in Europa è proprio il nostro sindacalismo, non mero agente del prezzo della forza lavoro, ma portatore di un’etica che ha penetrato il buonsenso comune. È vero che questo patrimonio è ormai gravemente minacciato, ma proprio per questo dobbiamo cercare di non lasciare che ce lo portino definitivamente via.
Per tutte queste ragioni sono d’accordo con la difficile scelta di Tsipras. Anche perché la sua sfida mi tiene, come sinistra italiana ed europea, dentro la battaglia. Che è buona cosa per noi non greci, ma anche – credo – per i greci. Sebbene sia consapevole che quanto fino ad ora abbiamo fatto sia così poco; e quello che siamo riusciti a imporre ai nostri governi niente.
La disintegrazione dell'autorità pubblica è una delle cause principale dei flussi dall'Africa e dal Medio Oriente. «Non è una disgrazia casuale ma uno dei modi con i quali le grandi potenze esercitano il loro colonialismo economico. Il genere umano dovrebbe prepararsi a vivere in modo più “flessibile” e nomade». Le idee del filosofo sloveno per un programma paneuropeo che tenga conto della realtà.
La Repubblica, 11 settembre 2015
NEL suo saggio “La morte e il morire” Elisabeth Kübler- Ross proponeva il famoso schema delle cinque fasi con le quali reagiamo alla notizia di avere una malattia terminale, ovvero negazione, rabbia, negoziazione (la speranza di poter rimandare in qualche modo il fatto), depressione, accettazione.
La reazione dell’opinione pubblica e delle autorità dell’Europa occidentale al flusso di rifugiati proveniente da Africa e Medio Oriente non è una mescolanza alquanto simile di reazioni disparate? C’è (sempre meno) la negazione: «Non si tratta di un fenomeno così serio, basta ignorarlo ». C’è la rabbia: «I rifugiati sono una minaccia per il nostro stile di vita, tra di loro si nascondono fondamentalisti musulmani, dovrebbero essere fermati a tutti i costi». C’è la negoziazione: «Va bene, stabiliamo delle quote e diamo un sostegno economico per realizzare campi profughi nei loro stessi Paesi». C’è la depressione: «Siamo perduti, l’Europa si sta trasformando nell’Europastan ». Unica assente è l’accettazione che, in questo caso, avrebbe voluto dire mettere a punto un piano pan-europeo coerente che prevedesse le modalità con le quali affrontare il flusso di rifugiati.
La prima cosa da fare è rammentare che la maggior parte dei rifugiati proviene da “stati falliti”, stati nei quali l’autorità pubblica è più o meno inerte, quanto meno in ampie zone (Siria, Libano, Iraq, Libia, Somalia, Congo). Questa disintegrazione del potere statale non è un fenomeno locale, bensì la conseguenza di pratiche economiche e politiche internazionali, e in alcuni casi, come in Libia e Iraq, è la conseguenza diretta degli interventi occidentali. L’ascesa degli “stati falliti” non è una disgrazia casuale ma uno dei modi con i quali le grandi potenze esercitano il loro colonialismo economico. Oltre a ciò, si dovrebbe tenere presente che i semi degli “stati falliti” mediorientali vanno fatti risalire all’arbitrario disegno dei confini dopo la Prima guerra mondiale a opera di Regno Unito e Francia: in definitiva, unendo i sunniti in Siria e in Iraq, l’Is sta rimettendo insieme ciò che fu diviso dalle potenze coloniali.
I rifugiati non stanno semplicemente scappando dalla loro patria lacerata dalla guerra: coltivano anche un sogno preciso. I rifugiati nel sud dell’Italia non vogliono trattenersi lì: la maggior parte di loro vuole vivere nei Paesi scandinavi. Alle migliaia di rifugiati accampati intorno a Calais non piace l’idea di restare in Francia: sono disposti a rischiare la vita pur di entrare nel Regno Unito. Le decine di migliaia di rifugiati nei Balcani vogliono raggiungere almeno la Germania. Tutti costoro manifestano apertamente questo loro sogno come un diritto incondizionato, chiedendo alle autorità europee non soltanto cibo adeguato e assistenza medica, ma anche i mezzi di trasporto necessari per raggiungere le destinazioni scelte. In questa loro richiesta impossibile c’è qualcosa di enigmaticamente utopistico, come se l’Europa avesse il dovere di realizzare il loro sogno.
Si può osservare qui quanto sia paradossale questa utopia: proprio quando la gente si ritrova in povertà, in difficoltà, in pericolo, e ci si aspetterebbe che si accontentasse di un minimo di sicurezza e di benessere, l’utopia assoluta esplode. I rifugiati devono imparare la dura lezione: “La Norvegia non esiste”. Anche in Norvegia. Dovranno dunque imparare a censurare i loro sogni: invece di inseguirli nella realtà, dovrebbero concentrarsi e cercare di cambiare la realtà.
A questo proposito, è indispensabile essere molto chiari: si deve abbandonare una volta per tutto il concetto secondo cui la tutela di uno specifico stile di vita personale è inquadrabile di per sé in una categoria proto-fascista o razzista. Se non abbandoneremo questo concetto, spianeremo la strada all’ondata dei populisti contrari all’immigrazione che monta in tutta Europa. Si dovrebbe evitare di cadere nella trappola del gioco liberale del “quanta tolleranza siamo in grado di permetterci?”. È necessario dunque allargare la prospettiva: i rifugiati sono il prezzo da pagare per l’economia globale. Nel nostro mondo globale, i prodotti circolano liberamente, ma non così le persone, e nascono nuove forme di apartheid. L’argomento dei muri permeabili, del rischio di essere invasi dagli stranieri, è intrinseco e immanente al capitalismo globale. È un indice di ciò che c’è di falso al riguardo della globalizzazione capitalista. È come se i rifugiati volessero estendere la libera circolazione globale dai prodotti agli individui.
La lezione più importante da apprendere, dunque, è che il genere umano dovrebbe prepararsi a vivere in modo più “flessibile” e nomade. La sovranità nazionale dovrà essere ridefinita radicalmente e si dovranno inventare nuovi livelli di cooperazione globale. Nella civile accoglienza dei rifugiati in Austria e in Germania dovremmo vedere un barlume di speranza, ma siamo ancora molto lontani dall’approccio pan-europeo.
Prima di tutto l’Europa dovrà riaffermare il suo impegno a fornire i mezzi per una decorosa sopravvivenza dei rifugiati. E qui non si dovrebbero fare compromessi: le grandi migrazioni sono il nostro futuro, e l’unica alternativa a questo impegno è una nuova barbarie (quello che alcuni chiamano “scontro di civiltà”).
Secondo, in conseguenza di tale impegno l’Europa dovrà necessariamente organizzarsi, e imporre regole e regolamenti chiari. Dovrebbe arrivare a realizzare un controllo governativo del flusso dei rifugiati tramite un vasto network amministrativo che abbracci tutta l’Unione europea (per evitare barbarie locali come quelle delle autorità ungheresi e slovacche). Ai rifugiati occorrerà dare garanzie circa la loro sicurezza, ma si dovrà anche far capire che dovranno accettare il Paese nel quale saranno destinati dalle autorità europee, e che dovranno rispettare le leggi e le usanze degli stati europei: non ci sarà tolleranza alcuna per le violenze perpetrate per motivi religiosi, di genere, o etnici, per nessuno, e non ci sarà il diritto di imporre agli altri il proprio stile di vita o la propria fede, dovendo prevalere il rispetto di ogni libertà dell’individuo, qualora questi intenda abbandonare i propri usi. Se una donna sceglierà di coprirsi il volto, la sua scelta dovrà essere rispettata, ma se sceglierà di non farlo, dovrà essere garantita anche la sua libertà di non farlo. È vero: questo insieme di regole sotto sotto privilegia lo stile di vita dell’Europa occidentale, ma è il prezzo dell’ospitalità europea.
Queste regole dovrebbero essere enunciate chiaramente e chiaramente fatte rispettare, anche con misure repressive, se necessario (tanto nei confronti dei fondamentalisti stranieri, quanto dei nostri stessi razzisti contrari all’immigrazione).
Terzo, si dovrà escogitare un nuovo tipo di intervento internazionale oltre a quello militare e quello economico, che si sottragga alle trappole del neocolonialismo. Potremmo pensare a forze di pace dell’Onu addette a tenere sotto controllo la situazione in Libia, Siria o Congo? I casi di Iraq, Siria e Libia dimostrano come il tipo sbagliato di intervento (in Iraq e in Libia) e così pure viceversa il non-intervento (in Siria, dove dietro la facciata del non-intervento di fatto sono presenti e attive varie potenze straniere, dalla Russia all’Arabia Saudita) possono portare al medesimo punto morto.
Quarto, il compito più difficile e importante è un radicale cambiamento economico che dovrebbe cancellare una volta per tutte le condizioni che creano il fenomeno dei rifugiati. La causa ultima dell’ondata di rifugiati è il capitalismo globale odierno stesso, con i suoi giochetti geopolitici. Se non cambieremo drasticamente le cose, presto ai rifugiati dall’Africa si uniranno i migranti greci e di altri Paesi europei.
(Traduzione di Anna Bissanti)
«Sinistre. Fuori dall'euro: lo propone un manifesto firmato Varoufakis, Lafontaine, Mélenchon e Stefano Fassina. Lanciano una conferenza internazionale. Propongono di dire basta ai trattati-capestro». Positivo allargare lo sguardo e il conflitto dalla Grecia all'Europa, ma negativo sarebbe praticare un Grexit da sinistra.
Il manifesto, 11 settembre 2015
«Un piano B per la Grecia» era quello di Yanis Varoufakis, quello della famosa «moneta parallela», quando da ministro dell’economia, nel corso delle trattative tra il suo paese e la Ue, cercava di convincere il primo ministro Alexis Tsipras a non cedere al ricatto delle istituzioni europee e cercare strade alternative a quella che lui considerava una resa. «Un plan B» è lo slogan usato in queste settimane da Jean-Luc Mélenchon, leader del Parti de Gauche francese, nel Front de Gauche, per indicare una strada alternativa a quella dell’obbedienza, anche obtorto collo, ai trattati europei. «Un piano B in Europa» è il titolo di un dibattito sbocciato ieri a sorpresa nel programma della Fête de l’Humanité, storico appuntamento della sinistra francese in corso in questi giorni alla Corneuve, alle porte di Parigi. Si terrà domani alle 16 e 30. E sarà un evento per le sinistre di tutta Europa. I protagonisti sono un poker d’assi dei cultori del genere. Nessuno di provenienza ’estremista’, anzi: sono tutti ex socialisti o socialdemocratici. Ma sono tutti usciti dai rispettivi partiti contro la loro irresistibile e inarrestabile «deriva a destra».
Naturalmente il padrone di casa sarà Mélenchon, deputato francese e già leader del Front de Gauche; con lui Varoufakis, oggi ancora dentro Syriza ma in rotta di collisione con le politiche del suo governo; Oskar Lafontaine, ex ministro delle finanze tedesco, fondatore della Linke; e infine per l’Italia ci sarà Stefano Fassina, ex responsabile economico del Pd, ex viceministro dell’economia del governo Letta, oggi fuori dal partito di Renzi e tra i leader della “sinistra radicale”. Tutti e quattro ex tifosi di Alexis Tsipras, che però dopo la firma del memorandum non seguono più. Ma soprattutto tutti e quattro ormai convinti dell’impossibilità di mettere concretamente in atto politiche di redistribuzione della ricchezza, di creazione di lavoro, di transizione ecologica e ricostruzione della partecipazione democratica senza «rompere con questa Europa» ovvero «dentro i vincoli di questa Ue». Dopo le vicende greche e alla vigilia di un nuovo voto ad Atene, il tema dell’accettazione delle regole agita la discussione di tutte le sinistre radicali europee, inclusa quella nostrana. E a sinistra le discussioni si intavolano su un piano inclinato che porta alle scissioni.
L’intento naturalmente è opposto. I quattro hanno scritto nero su bianco un manifesto che verrà reso pubblico forse già oggi, alla vigilia del dibattito. Di fatto è il lancio, se non l’atto di nascita, di una nuova organizzazione della sinistra europea. O di un nuovo movimento. Delinea un programma di massima per «levarsi di dosso la camicia di forza del neoliberismo» che passa per l’abolizione del fiscal compact e l’opposizione al Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti.
Fino a qui sembrerebbero i soliti i fondamentali delle sinistre già raccolte all’europarlamento nel Gue e nella Sinistra europea. Ma stavolta c’è una netta scelta di campo: basta con i trattati, è il senso del discorso, mai più firme dei governi alle condizioni capestro proposte dalle istituzioni europee, basta capitolazioni sotto la minaccia del «rullo compressore» di «una parte» della Bce.
L’invito, cioè il Piano A, è a una campagna di disobbedienza civile europea contro le scelte e le «regole» fino all’ottenimento della rinegoziazione. I governi che rappresentano le oligarchie — è questo il ragionamento — hanno un loro piano A, ovvero piegare la resistenza dei paesi in crisi, e un piano B, ovvero espellerli dall’eurozona nelle peggiori condizioni distruggendone il sistema bancario e l’economia, come hanno minacciato di fare con la Grecia. Per questo le sinistre debbono attrezzarsi. Dotandosi di un piano A, appunto il tentativo di negoziare il cambiamento dei trattati, ma anche e soprattutto di un piano B: se l’euro non può essere democratizzato serve un modo per non dover cedere al ricatto, per assicurare che gli europei abbiano un sistema monetario che operi a loro vantaggio. Il documento evita i dettagli ’tecnici’, ma non si sottrae agli esempi: valute parallele, digitalizzazione delle transazioni, fino all’uscita dall’euro e la sua trasformazione da moneta unica a valuta comune.
In ogni caso tutto questo sarebbe impossibile, ragionano i quattro autori, senza un’azione europea coordinata e «internazionalista». Per questo domani a Parigi lanceranno la proposta di una conferenza aperta a tutti, cittadini, partiti e organizzazioni, da tenersi in tempi brevi, già a novembre.
Visto da Atene, è un dito nell’occhio di Alexis Tsipras, alla vigilia delle elezioni in cui si gioca l’osso del collo, e un incoraggiamento ai fuoriusciti di Unione popolare. Ma il manifesto non può essere letto solo in traduzione greca e suona assai più ambizioso. L’autorevolezza dei quattro autori è incontestabile. E anche il colpo di scena per tutte le sinistre europee, tormentate dalla discussione sull’uscita dall’euro, fin qui bandiera quasi esclusiva delle destre radicali e di pochi gruppi a sinistra.
I grandi ritornano. Le ragioni dell'attualità dell'analisi del colonialismo e dell'esperienza personale dell'intellettuale nei drammi del mondo di oggi.
Comune-info, newsletter, 11 settembre 2015
Non è certo la prima volta che le idee e la breve esistenza di Frantz Fanon sembrano capaci di far luce tra i dedali intricati e complessi dei percorsi di una realtà contemporanea. Viviamo un tempo in cui l’accumulazione del capitale espropria dei beni comuni interi popoli e depreda la natura in una forma che ripropone diversi aspetti della dominazione coloniale. Una forma che spesso non si limita più a sottomettere i dominati ma non esita a sterminarli, qualora oppongano resistenza e minaccino di sfuggire al suo controllo. Alla decolonizzazione del pensiero critico e delle pratiche di emancipazione ispirate dallo psichiatra nero della Martinica, Raúl Zibechi ha dedicato il suo ultimo libro. In questo articolo riassume le cinque principali ragioni della straordinaria attualità politica della lezione antirazzista e antieurocentrica di Fanon, un pensatore lontano dall’accademia che ha messo la vita intera al servizio della lotta anticoloniale in Algeria e nel mondo
Il pensiero di Frantz Fanon è ritornato. A cinquant’anni dalla morte, i suoi libri tornano ad essere letti nelle università e negli spazi dei settori popolari organizzati. Alcune delle sue riflessioni centrali illuminano aspetti delle nuove realtà e contribuiscono alla comprensione del capitalismo, in questa fase di sangue e di dolore per los de abajo.
La riedizione di alcune delle sue opere come Piel negra, mascaras blancas (Akal 2009) [Pelle nera maschere bianche, Marco Tropea, ndt], con commenti di Immanuel Wallerstein, Samir Amin, Judith Butler, Lewis R. Gordon, Ramón Grosfoguel, Nelson Maldonado-Torres, Sylvia Wynter e Walter Mignolo, ha contribuito alla diffusione del suo pensiero, così come le periodiche ristampe della sua opera principale, I dannati della Terra, con la prefazione di Jean Paul Sartre. Sarebbe necessaria anche la riedizione del suo libro Sociologia di una rivoluzione, pubblicato nel 1966 (in Messico, ndt) dalla Editorial Era (in Italia da Einaudi nel 1963, ndt)
Il rinnovato interesse per Fanon, tuttavia, va ben al di là dei suoi libri e dei suoi scritti. Si tratta, credo, di un interesse epocale, nel duplice significato del periodo attuale che attraversano le nostre società e della nascita di forti movimenti antisistemici che vedono come protagonisti i diversi abajos. Voglio dire che ci troviamo di fronte a un interesse politico più che a una curiosità accademica o letteraria.
A mio parere, ci sono cinque ragioni che spiegano l’attualità di Fanon.
La prima è che nella sua fase attuale, centrata sull’accumulazione per espropriazione (o quarta guerra mondiale), il capitalismo ripropone alcuni aspetti della dominazione coloniale. Alcuni di questi aspetti sono l’occupazione di enclave territoriali da parte di imprese multinazionali e l’occasionale ma importante occupazione militare da parte degli imperialismi di vari paesi con la scusa della guerra contro il terrorismo.
Nella misura in cui accumula rubando i beni comuni di interi popoli, il capitalismo ci permette di dire che ci troviamo di fronte a un neocolonialismo, sebbene, a essere rigorosi, si tratta della fase di decadenza del sistema, che non aspira più ad assorbire le classi dominate bensì, semplicemente, a controllarle e sterminarle nel caso in cui oppongano resistenza.
La seconda [ragione] è che appare sempre più evidente che la società attuale si divide, come dice Grosfoguel basandosi su Fanon, in due zone: la zona dell’essere, dove i diritti delle persone vengono rispettati e dove la violenza è un’eccezione, e la zona del non-essere, dove la violenza è la regola. Il pensiero di Fanon ci aiuta a riflettere su questa realtà che pone la massima distanza tra il capitalismo del XXI secolo e quello dello Stato sociale.
La terza è la critica che Fanon fa ai partiti di sinistra del centro del mondo, nel senso che le loro modalità di azione si rivolgono esclusivamente a un’élite delle classi lavoratrici, lasciando da parte i diversi abajos che nel marxismo sono liquidati come appartenenti al sottoproletariato. Al contrario, Fanon ripone la sua più grande speranza nella gente comune de abajo quale possibile soggetto della sua autoemancipazione o dell’emancipazione tout-court.
In quarto luogo, Fanon non era un intellettuale né un accademico. Metteva la sua conoscenza al servizio di un popolo in lotta come quello algerino, la cui causa ha servito fino al giorno della morte. Questa figura di pensatore-militante, o come si voglia chiamare chi si impegna in modo incondizionato con los de abajo, è un contributo straordinario alla lotta dei settori popolari.
A questo proposito, è bene sottolineare la critica all’eurocentrismo delle sinistre, alla pretesa di trasferire in modo meccanico nel mondo del non-essere, proposte e analisi nate nel mondo dell’essere. La nascita nel continente americano di femminismi indigeni, neri e popolari è una dimostrazione dei limiti di quel primo (e fondamentale) femminismo europeo che, tuttavia, aveva bisogno di essere reinventato tra le donne del colore della terra, in base alle loro specifiche tradizioni e realtà, tra le quali la centralità della famiglia nel mondo femminile latinoamericano.
Sebbene questo breve riassunto trascuri diversi importanti aspetti dell’opera di Fanon, come ad esempio le riflessioni sulla violenza degli oppressi, mi sembra necessario sottolineare un ulteriore aspetto, che ritengo centrale nel pensiero critico attuale. Ci si interroga sulle ragioni per le quali l’uomo nero voglia schiarire la sua pelle, sul perchè la donna nera desideri essere bionda o far parte di una coppia il più bianca possibile. Il dominato, il perseguitato, dice Fanon, non solo cerca di recuperare la tenuta di cui si è appropriato il padrone, ma vuole il posto del padrone. È evidente che, dopo il fallimento della rivoluzione russa e di quella cinese, questa considerazione deve occupare un posto centrale nella lotta anticapitalista.
Non condivido il ruolo che Fanon attribuisce alla violenza de los de abajo nel processo di trasformazione in soggetti delle proprie vite, nel processo di liberazione dall’oppressione. La violenza è necessaria ma non è la soluzione, come rileva giustamente Wallerstein giustamente nel suo commento a Pelle nera, maschere bianche.
Credo che dobbiamo approfondire questa discussione: come fare per non riprodurre la storia nella quale gli oppressi ripetono più volte l’oppressione di cui sono stati vittime. A mio parere, si tratta di creare qualcosa di nuovo, un mondo nuovo o nuove realtà, che non siano la fotocopia del mondo de los de arriba e che siano sufficientemente potenti da dissolvere, dall’immaginario collettivo, il posto centrale che occupa l’oppressore, il padrone, il proprietario. Continuo a credere che l’esperienza delle basi di appoggio dell’EZLN sia un esempio in questa direzione.
Riferimenti
Fonte: La Jornada. Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento, è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. L’edizione italiana del suo ultimo libro, Alba di mondi altri, è stata stampata in Italia in luglio dalle edizioni Museodei. Molti altri articoli inviati da Zibechi a Comune-info sono qui.
Chissà se e quando capiranno che l'esodo non caccia verso 'Europa solo il Medio oriente, ma anche tutta l'Africa subsahariana e le altre regioni saccheggiate dal Primo mondo e assoggettate a regimi tirannici e corrotti promossi di nostri governi
. La Repubblica, 10 settembre 2015
«Dalla Germania solo e sempre cattive notizie» amava ripetere Tacito: evidentemente il grande storico romano non aveva previsto Angela Merkel. Colei che ancora solo poche settimane or sono nell’immaginario collettivo del Vecchio continente veniva raffigurata come “matrigna d’Europa”, arcigna espressione di una visione senza cuore della po-litica, si è come d’incanto trasformata in motivo di stupefatta sorpresa. In qualche caso persino di entusiastica ammirazione e il timore di una “egemonia tedesca” in speranza che la Germania assuma finalmente la guida del processo di unificazione europeo. Certo: l’epocale svolta nella politica della accoglienza e dell’integrazione che la Merkel è riuscita nel giro di pochissime ore a imporre al suo paese ha una portata le cui conseguenze potremo valutare solo nei prossimi mesi o addirittura anni. Tanto più importante adesso, quando
Ungheria e Danimarca guidano il fronte di chi rifiuta l’accoglienza. Essa infatti ridisegna non solo l’atlante geo-economico dell’area tra l’Europa e la costa meridionale del Mediterraneo ma ridefinisce anche i parametri etici dell’agire politico di una componente decisiva, l’Unione europea, del mondo occidentale. Non è per questo esagerato paragonare la scelta della Merkel che ha trasformato la sua persona e il suo paese in motivo di speranza per centinaia di migliaia di profughi al gesto rivoluzionario compiuto da Willy Brandt il 7 dicembre del 1970 quando l’ex borgomastro di Berlino diventato cancelliere si inginocchiò dinnanzi al monumento in memoria della rivolta del ghetto di Varsavia. Un gesto grazie al quale la Germania fece pace con se stessa e col mondo.
Anche se drammatici fattori contingenti hanno avuto un peso non indifferente di questa “metamorfosi Merkel” è possibile razionalmente delineare la genesi. Ha cioè precise origini e spiegazioni che hanno a che fare con la vicenda storica tedesca ma anche con la natura specialissima della leadership politica che sta lentamente trasformando il cancellierato della Merkel in un fenomeno per i manuali di politologia.
La convinzione della Merkel e di tutto il governo tedesco di poter affrontare e risolvere («faremo tutto il necessario e ci riusciremo » questa l’impegnativa promessa della Merkel) la sfida di integrare 800mila migranti si fonda su due certezze: le precedenti esperienze storiche. E il solido funzionamento del sistema sociale, economico e politico-istituzionale.
Anche senza ritornare alle drammatiche vicende degli anni tra il 1944 e il 1950 quando milioni di profughi lasciarono le terre ex prussiano-tedesche cercando rifugio e integrazione nelle regioni ad occidente dell’Elba ci sono due altre esperienze che possono essere di utile riferimento. In primo luogo l’ integrazione a partire dagli anni ‘50 di milioni di lavoratori provenienti da Italia, Turchia e poi via via da Spagna, Grecia e Jugoslavia.
Ma la grande svolta avvenne alla fine degli anni ‘90 grazie al governo o guidato da Schröder e da Joschka Fischer. Grazie alle importanti riforme realizzate dopo la riunificazione del paese dal governo “rosso-verde”, la Germania è diventata la nazione in Europa in cui la pratica del riconoscimento è una filosofia messa in atto anche nelle realtà più estreme di degrado urbano. Infatti la politica di integrazione sociale e culturale (religiosa) degli immigrati procede seguendo una sorta di “terza via” differenziandosi sia dal modello francese di “universalismo” assoluto che da quello “multiculturalista” inglese (e anglosassone in genere). Da quello francese che mira a una integrazione intesa come totale assimilazione ai valori della nation française e nega in tal modo qualsiasi riconoscimento delle differenze culturali. Ma parimenti anche dal modello inglese del Londonistan, basato sulla presa d’atto delle esistenza di una pluralità di realtà: è il multiculturalismo di ghetti contigui ma reciprocamente impenetrabili.
L’abbandono da parte della Germania del mito arcaico e barbaro dello jus sanguinis è stato possibile grazie all’azione di “stedeschizzazione” della morale collettiva compiuta dai Verdi. C’è poi un’altra ragione. All’inizio di questo secolo-millennio la Germania era “il malato d’Europa”: basso tasso di crescita, alto tasso di disoccupazione, debito pubblico fuori controllo, disaffezione degli investimenti privati. Oggi grazie alle riforme dell’Agenda 2010 volute da Schröder la Germania è il centro di gravità democratico del Vecchio Continente: caso forse unico in Europa, nessuna formazione politica dichiaratamente xenofoba ha rappresentanza parlamentare (questo ovviamente non significa affatto che non esistano organizzazioni neonaziste). Certo le distanze tra l’Ovest e l’Est continuano ad esistere: ma chi viaggi oggi tra Lipsia e Dresda non può non prendere atto che quelle regioni hanno conosciuto una trasformazione davvero stupefacente.
Ma il vero arcano del Modell Deutschland consiste nella sistematica ricerca del “compromesso” a livello politico, sociale e istituzionale per assicurare la stabilità del sistema di cui quella della moneta e quella del governo sono le metafore per eccellenza. La segreta “teologia politica” di un paese che ha scelto, dopo averne fatto diretta e tragica esperienza, di mettere “fuori legge” la primitiva logica della contrapposizione “amico-nemico” tanto cara a Carl Schmitt, è un programmatico antidecisionismo.
E poi c’è il fattore Merkel: negli anni la Cancelliera è riuscita a costruire un rapporto di fiducia con l’elettorato come nessuno mai prima di lei. Né Adenauer o Kohl per la Cdu o Brandt e Schmidt per la Spd. E non è la prima volta che tagliando corto con la sua proverbiale prudenza la Merkel è stata capace nel giro di poche ore di proporre un orizzonte totalmente differente all’azione politica. Ma questo successo apparentemente irresistibile della Merkel ha anche un suo “lato oscuro” su cui prima o poi converrà iniziare a interrogarsi. Intanto a dar vita al vero “partito della nazione” ci ha pensato lei.
Europa e migranti. Finalmente una visione consapevole del dramma che stiamo vivendo: non è solo la Siria, non sono solo le guerre guerreggiate, è la guerra ostinata degli stati capitalisti del Nord e del Sud, dell'Est e dell'Ovest che ha generato per decenni miseria e oppressione, e prosegue ancora oggi.
Il manifesto, 10 settembre 2015
Quando la globalizzazione cessa di presentarsi sotto forma di merci e di capitali, e assume l’aspetto di umani individui, addirittura di popoli in fuga, allora il pensiero unico neoliberale precipita in confusione. La libertà della sua assordante retorica riguarda i soldi e le cose, non gli uomini. Per le persone, la libertà di transito non può essere uguale a quella delle merci. È faccenda più complicata. E dunque la coerenza teorica viene abbandonata e si passa all’uso delle mani.
Di fronte al fenomeno migratorio il ceto politico europeo, salvo rare eccezioni, è caduto negli ultimi mesi assai al di sotto dell’intelligenza normale delle cose, della capacità di cogliere non tanto la sovrastante e incontrastabile potenza di un processo storico. In questo la miseria morale del suo atteggiamento, che ha assunto la faccia truce dell’intransigenza contro i derelitti del mondo, col tempo resterà incancellabile più per il lato ridicolo che per la ferocia. Leader e uomini di governo ci sono apparsi nell’atto di voler svuotare l’oceano con il cucchiaino. Ma segno ancor più rilevante di una mediocrità politica senza precedenti è l’incapacità di rappresentare gli interessi di lungo periodo dei rispettivi capitalismi nazionali, di cui sono i solerti servitori. Ossessionati dalla conservazione del loro potere, con l’occhio sempre fisso ai dati del consenso personale, governanti e politici di varia taglia hanno di mira il solo scopo di vincere la competizione elettorale in cui sono perennemente impegnati contro avversari e sodali. E perciò sono spaventati dalle difficoltà dei problemi organizzativi che l’arrivo dei migranti pongono nell’immediato.
La loro campagna elettorale può riceverne solo danno. Se negli ultimi giorni le barriere sono cadute è perché – come è apparso chiaro – la vastità di massa e l’irruenza incontenibile del movimento di popolo poteva, da un momento all’altro, precipitare in un massacro. Rischiava di rappresentare agli occhi del mondo, ancora in Europa, una nuova forma di olocausto nel glorioso terzo millennio. E la Germania, soprattutto la Germania, con il suo passato, non poteva permetterselo.
Ma chi ha la testa sollevata al di sopra della palude della nanopolitica sa che il fenomeno migratorio è di lunga data, è solo esploso a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che «« Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato.»» E i maggiori e quasi esclusivi centri di attrazione erano e sono gli Usa e l’Europa.Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa 1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate. Come potrebbe essere diversamente? Il capitalismo usa due potenti leve per sradicare i popoli dalle proprie terre.
La prima è quella dello “sviluppo”, la trasformazione delle economie agricole in primo luogo, la distruzione della piccola proprietà coltivatrice a favore delle grandi aziende meccanizzate, la nascita di poli industriali, lo svuotamento delle campagne, la formazione di megalopoli e di sconfinate bidonville. E lo sviluppo, che in tanti paesi avanza attraverso vasti diboscamenti e la rottura di equilibri naturali secolari, il saccheggio neocoloniale delle risorse, genera anche altre migrazioni: quella dei profughi ambientali, che fuggono da inondazioni o da prolungate siccità.
L’altra leva, sempre più attiva, è il potere incontenibile di attrazione che le società prospere dell’Occidente esercitano sulle menti delle popolazioni immiserite, deportate, segregate che si agitano nei vari angoli del mondo. Occorre tenerlo bene in mente: ogni giorno, anche nel più remoto villaggio africano, grazie a un’antenna satellitare va in onda lo spettacolo della più flagrante ingiustizia che lacera il destino delle genti sul nostro pianeta. Uno spettacolo grandiosamente tragico che i dannati della Terra non avevano mai visto nei secoli e nei decenni passati. I miserabili, gli affamati, gli invalidi, i reclusi, le donne segregate, possono vedere dall’altra parte del mondo i loro simili, uomini e donne come loro, ricchi, sazi, sani, liberi. E questo spettacolo genera due scelte, ormai ben evidenti: l’estremismo terrorista o la fuga di massa.
Ma il ceto politico europeo, che vive alla giornata – non quello governativo americano, che dispone di centri di analisi strategica e di proiezioni di lungo periodo – non comprende, per specifica miseria intellettuale, neppure l’interesse del capitalismo che ha scelto di rappresentare. Dimentica, ad esempio, che l’immigrazione di popolazione “latina” negli Usa è stata una delle grandi leve del boom economico degli anni ’90 in quel paese. Ma soprattutto non comprende quali vantaggi una forza lavoro giovane e abbondante procurerà alle imprese europee nei prossimi anni. E qui è evidente che il problema riguarda tutti noi, la sinistra politica, il sindacato. Siamo stati certamente encomiabili nel difendere i diritti dei migranti, il valore di civiltà del libero spostamento delle persone oltre le frontiere.
Ma l’arrivo di tanta forza lavoro a buon mercato non solo ci impone di vedere le persone umane, i titolari di diritti intangibili, oltre le braccia da fatica – cosa che in Italia abbiamo ben fatto, anche se solo a parole e senza alcuna mobilitazione — ma di cogliere per tempo la sfida che tutto questo ci pone. Sfida di organizzazione, di proposte, di soluzioni, di politiche. O facciamo un ulteriore salto di civiltà, tutti insieme, secondo le logiche della nuova storia del mondo, o regrediamo tutti insieme. Per strano che possa sembrare, la sinistra, in Italia, ha la possibilità, la possibilità teorica, di fornire delle risposte strategiche con cui rispondere allo scenario turbolento e difficile che si apre. Ci ritornerò prossimamente in maniera mirata.
Nonostante il lutto per la perdita della madre, morta domenica sera, Juncker ha declinato l’offerta del Parlamento di rinviare il discorso e ha voluto presentarsi puntuale a Strasburgo anche per sottolineare la gravità della situazione e l’importanza delle decisioni che attendono l’Europa. «Mia madre, che è morta, e mio padre, che è gravemente malato, hanno lavorato tutta la loro vita. E così faccio io: lavoro. Per questo sono qui», si è giustificato con voce tremante per la commozione. Ed ha lanciato un appello agli europei perché non dimentichino il proprio passato e i propri valori: «Noi europei dovremmo ricordare che questo è un continente dove tutti, in un momento o in un altro della nostra storia, siamo stati profughi».
Il presidente della Commissione ha criticato i Paesi che cercano di fermare l’afflusso dei disperati. «Fino a che ci sarà la guerra in Siria, questo problema non scomparirà da un giorno all’altro, e nessun muro fermerà l’afflusso dei profughi. Stiamo combattendo l’Is, come possiamo non accogliere quelli che fuggono l’Is?». Ma ha anche criticato quanti si dicono disposti ad accettare solo rifugiati cristiani: «In passato l’Europa ha già fatto l’errore di distinguere tra ebrei, musulmani e cristiani: non c’è religione, non c’è credo e non c’è filosofia quando si parla di profughi».
Il discorso sullo stato dell’Unione si è trasformato così, attraverso le parole di Juncker, in una grande seduta di autocoscienza di fronte al dramma dei migranti. «L’Europa è il panettiere di Kos che regala panini ai rifugiati che arrivano, sono gli studenti che offrono il loro aiuto nelle stazioni tedesche, e coloro che alla stazione di Monaco hanno accolto i profughi siriani con applausi. L’Europa in cui voglio vivere è quella incarnata da queste persone; l’Europa in cui non vorrei mai vivere è quella di chi rifiuta la solidarietà».
Ma il presidente della Commissione ha anche cercato di ridimensionare la portata del problema: «la massa di chi cerca riparo da noi rappresenta lo 0,1 per cento della popolazione europea. In Libano, che ha un reddito pari ad un quinto del nostro, i rifugiati sono il 25 per cento della popolazione. L’Europa ha i mezzi per fare fronte a questa emergenza».
Nalla sostanza, il piano di Juncker è quello anticipato nei giorni scorsi. Oltre ai 40 mila richiedenti asilo ripartiti a luglio per alleggerire Grecia e Italia, la Commissione propone di redistribuirne altri 120 mila: 16 mila attualmente in Italia, 54 mila in Ungheria e 50 mila in Grecia. Germania, Francia e Spagna dovranno accoglierne la maggior parte. Ma ogni Paese si vedrà attribuire una quota obbligatoria, calcolata in base al reddito, alla popolazione, al tasso di occupazione e ai profughi già ospitati. Le quote, in base ai Trattati, non si applicheranno a Gran Bretagna e Danimarca, mentre l’Irlanda, che pure sarebbe esentata, ha detto di voler partecipare alla redistribuzione. Per tutti gli altri, invece, i contingenti saranno obbligatori. Un Paese può, per gravi e comprovati motivi, chiedere alla Commissione di essere esonerato dalla condivisione. Bruxelles valuterà il caso e potrebbe concedere una esclusione temporanea, ma in questo caso il Paese esentato dovrà pagare un contributo di solidarietà proporzionale alla sua ricchezza. Per ogni profugo accolto, i governi riceveranno dalla Commissione un contributo di seimila euro.
Juncker ha anche annunciato una serie di altri misure per far fronte all’emergenza, spiegando che, all’inizio dell’anno prossimo la Commissione presenterà un progetto complessivo per la gestione dell’immigrazione economica «di cui abbiamo comunque bisogno». Il passo più importante sarà il rafforzamento di Frontex, che dovrà occuparsi anche dei rimpatri di chi non ha diritto all’asilo: «dobbiamo fare un passo ambizioso verso la creazione di una Guardia di frontiera e di una Guardia costiera europea prima della fine dell’anno», ha detto il presidente della Commissione. Infine, già al prossimo consiglio, Bruxelles presenterà una lista di Paesi considerati “sicuri”, che comprenderà la Turchia e i Balcani, i cui cittadini non potranno chiedere di ricevere asilo politico in Europa.