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«Le cen­tra­line truc­cate sono un evi­dente stru­mento di com­pe­ti­zione sul mer­cato. Le stesse regole, come talune nor­ma­tive comu­ni­ta­rie appa­ren­te­mente gene­rate dal deli­rio di qual­che euro­bu­ro­crate, nascon­dono in realtà pic­cole e grandi guerre com­mer­ciali».

Il manifesto, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

Alla borsa dell’immagine, in que­sto tra­va­gliato 2015, la Ger­ma­nia balla senza sosta. Prima esi­bi­sce il volto spie­tato del rigore con­ta­bile e dell’austerità, poi quello uma­ni­ta­rio dell’accoglienza e della soli­da­rietà, infine quello truf­fal­dino della spre­giu­di­ca­tezza commerciale.

Pro­porsi all’Europa come modello ed esem­pio è una pre­tesa che com­porta qual­che incon­ve­niente. Cosic­ché lo scan­dalo delle emis­sioni truc­cate nelle auto smer­ciate dalla Volk­swa­gen sul mer­cato ame­ri­cano, e chissà su quanti altri, assume un signi­fi­cato e una dimen­sione ben più vasta di una frode com­mer­ciale, sia pure com­messa ed ammessa da uno “spec­chiato” gigante dell’industria mon­diale. È l’intera stra­te­gia di mar­ke­ting eco­no­mico e poli­tico per­se­guita da Ber­lino a rischiare di disfarsi. Nel paese dalla più svi­lup­pata sen­si­bi­lità eco­lo­gica e dalle più severe norme ambien­tali, il primo gruppo indu­striale, il fiore all’occhiello del suc­cesso tede­sco, si inge­gna nell’eludere l’una e le altre.

A poco vale allora met­tersi alla cac­cia di respon­sa­bi­lità indi­vi­duali, soste­nere che i test, quando non rap­pre­sen­tino una farsa, non sono certo un impec­ca­bile esem­pio di “neu­tra­lità della scienza”, ricor­dare che gli Stati uniti d’America, nono­stante le aspi­ra­zioni verdi di Obama, restano un for­mi­da­bile inqui­na­tore planetario.

Il danno è com­piuto e non saranno le multe sala­tis­sime o le dimis­sioni dell’amministratore dele­gato della casa di Wol­fsburg, Mar­tin Win­ter­korn a poterlo riparare.

Il fatto è che i tre volti del Modell Deu­tschland, sono in realtà uno solo. La poli­tica di auste­rità, i bassi salari e le restri­zioni del Wel­fare, impo­sti all’interno così come agli altri paesi dell’Unione euro­pea, il biso­gno di mano d’opera stra­niera, sia pure for­zato nei suoi tempi e nei suoi modi da una pres­sione migra­to­ria senza pre­ce­denti (non dal buon cuore di Angela Mer­kel) e l’aggressiva poli­tica di soste­gno all’export, costi­tui­scono un insieme piut­to­sto coe­rente anche se non pro­prio “esem­plare”. E per nulla al riparo da cata­stro­fici inci­denti di percorso.

Solo pochi giorni fa la Can­cel­liera aveva invi­tato le indu­strie auto­mo­bi­li­sti­che tede­sche ad assu­mere un alto numero di rifu­giati. C’è da scom­met­tere che a Wol­fsburg (dove sono stati accan­to­nati 6,5 miliardi, più della cifra com­ples­siva stan­ziata da Ber­lino per l’emergenza migranti, allo scopo di far fronte a una parte delle multe che pio­ve­ranno su Volk­swa­gen) pre­val­gano tutt’altre pre­oc­cu­pa­zioni. Le “spalle lar­ghe” della Ger­ma­nia, sban­die­rate quo­ti­dia­na­mente da Ber­lino, non sono certo il risul­tato di una vir­tuosa etica pro­te­stante, ma di una poli­tica di pro­te­zione a oltranza delle ban­che e delle ren­dite tede­sche, non­ché di un’accumulazione di sur­plus com­mer­ciale a spese degli altri mem­bri dell’eurozona che, come abbiamo visto, non è quel frutto imma­co­lato dell’eccellenza pro­dut­tiva teu­to­nica che vole­vano farci cre­dere. A meno di voler rico­no­scere anche alla tec­no­lo­gia della frode una sua qua­lità di eccellenza.

Benin­teso, è assai impro­ba­bile che il grande gruppo tede­sco, sia stato il solo ad aggi­rare in un modo o nell’altro gli stan­dard ambien­tali sta­bi­liti. Solo l’idea, ali­men­tata dall’autocelebrazione del libe­ri­smo, che la com­pe­ti­ti­vità sia un mec­ca­ni­smo “pulito”, una que­stione di “merito” e di effi­cienza, di capa­cità e di rigore, può farci acco­gliere con sor­presa lo “scan­dalo” Volk­swa­gen. Le cen­tra­line truc­cate sono un evi­dente stru­mento di com­pe­ti­zione sul mer­cato. Le stesse regole, come talune nor­ma­tive comu­ni­ta­rie appa­ren­te­mente gene­rate dal deli­rio di qual­che euro­bu­ro­crate, nascon­dono in realtà pic­cole e grandi guerre com­mer­ciali. Altret­tanti ten­ta­tivi di spo­stare il ter­reno della con­cor­renza a favore di deter­mi­nati pro­dut­tori. In que­sto gioco di sponda tra stan­dard nor­ma­tivi e com­pe­ti­zione sul mer­cato pos­sono crearsi cor­to­cir­cuiti e “danni col­la­te­rali” come quelli in cui sono incap­pati gli stra­te­ghi di Wol­fsburg, anche se, per il momento, solo oltre Atlantico.

Ma per la Ger­ma­nia il cui governo dif­fonde senza sosta una idea “morale” e vir­tuosa della com­pe­ti­ti­vità, rim­pro­ve­rando i part­ner euro­pei di non dedi­carvi suf­fi­cienti ener­gie e “riforme”, il gua­sto è dav­vero spa­ven­toso. Chi con­si­dera il mer­cato come lo spa­zio dere­go­la­men­tato di una con­cor­renza senza esclu­sione di colpi (i Repub­bli­cani Usa, per esem­pio) non tro­verà in que­sta vicenda par­ti­co­lare motivo di stu­pore, stig­ma­tiz­zando, sem­mai, più la frode come tur­ba­tiva degli scambi che l’inquinamento come danno per la società. Ma per chi sostiene che il mer­cato rap­pre­senta un “ordine” razio­nale e la com­pe­ti­ti­vità una disci­plina che si eser­cita al suo interno secondo regole certe non sarà facile supe­rare il trauma pro­vo­cato dalla truffa ad alta tec­no­lo­gia esco­gi­tata dalla Volk­swa­gen e le sue pro­ba­bili con­se­guenze com­mer­ciali. Di tanto in tanto quell’“ordine” si rivela, infatti, per quello che è: un rap­porto di forza.

Se parliamo di politica e non di farfalle, allora bisogna ammettere che l'Alexis di"l'Altra Europa con Tsipras ha vinto, e che Syriza non ha nulla a che fare col PD di Matteo Renzi (né con la "sinistra tremula").

Il manifesto, 23 settembre 2015

Con la netta vit­to­ria elet­to­rale di dome­nica, Syriza e Ale­xis Tsi­pras si affer­mano sal­da­mente alla guida della Gre­cia e al cen­tro della poli­tica euro­pea. E’ un risul­tato straor­di­na­rio per tutti noi, in primo luogo per­ché dimo­stra che il piano degli oli­gar­chi, greci ed euro­pei, per­se­guito con ottusa arro­ganza fin dal 25 di gen­naio, è fal­lito. Vole­vano libe­rarsi dell’anomalia greca. Dell’unico governo di sini­stra che si oppo­neva al loro modello fal­li­men­tare. E se lo ritro­vano più vivo che mai nelle urne, legit­ti­mato da un nuovo, testardo, indi­scu­ti­bile con­senso elettorale.

Dopo una via cru­cis che avrebbe logo­rato qua­lun­que altro governo nel mondo e che qui, invece, l’ha raf­for­zato. Vole­vano ste­ri­liz­zare i loro lindi tavoli euro­pei dalla pre­senza fasti­diosa di un capo di governo non alli­neato ai loro voleri, e se lo ritro­vano ora davanti, in que­sti stessi giorni, a que­gli stessi tavoli, soprav­vis­suto al fuoco, a lot­tare per quello che ha sem­pre chie­sto e che a luglio gli è stato negato: ristrut­tu­ra­zione del debito, abban­dono delle folli poli­ti­che d’austerità, radi­cale riscrit­tura dei trat­tati, poli­ti­che redi­stri­bu­tive, con­ti­nuando a bat­tersi lì per cam­biare i ter­mini del dik­tat «inso­ste­ni­bile» impo­sto­gli col ricatto e la minac­cia a luglio. E insieme offrendo un punto di rife­ri­mento a tutte le forze che nello spa­zio euro­peo si bat­tono per que­gli obbiettivi.

Ed è que­sta la seconda ragione per gioire del risul­tato di Atene. Per­ché lì è nata, non più in embrione, ma ormai allo stato visi­bile, una sini­stra euro­pea, trans­na­zio­nale e post-nazionale, dichia­ra­ta­mente deter­mi­nata a bat­tersi nello spa­zio con­ti­nen­tale della poli­tica che viene, ten­den­zial­mente mag­gio­ri­ta­ria per­ché impe­gnata a rap­pre­sen­tare l’enorme disa­gio che le poli­ti­che di que­sta Europa pro­du­cono e a sfi­dare la «pra­tica del disu­mano» che le isti­tu­zioni euro­pee con­trap­pon­gono alla mol­ti­tu­dine sof­fe­rente che preme ai pro­pri con­fini blin­dati. Sini­stra nuova, diversa dai resi­dui logori della vec­chie social-democrazie, mise­ra­mente nau­fra­gate nella bat­ta­glia di luglio, fisi­ca­mente visi­bile sul palco di Piazza Syn­tagma dove si sono schie­rati i lea­der e le lea­der di Pode­mos e della Linke, dei Verdi tede­schi e del Par­tito della sini­stra euro­pea, stretti intorno a Tsi­pras in un patto che va al di là della tra­di­zio­nale soli­da­rietà inter­na­zio­nale, e che segna in potenza un «nuovo inizio».

Pre­oc­cupa, certo, nel qua­dro altri­menti con­for­tante delle ele­zioni gre­che, l’alto livello dell’astensione. È, potremmo dire, il lato oscuro della forza, che i com­men­ta­tori mali­gni di casa nostra non hanno man­cato di sot­to­li­neare per ten­tare di ridi­men­sio­nare il valore del risul­tato, pur essendo gli stessi che in ogni altra occa­sione ci ave­vano spie­gato (ricor­diamo l’Emilia Roma­gna, o le ultime regio­nali?) che è cosa nor­male, che le demo­cra­zie moderne fun­zio­nano bene così. Noi con­ti­nuiamo a con­si­de­rarlo, a dif­fe­renza di loro, un grave pro­blema, ovun­que si mani­fe­sti, sapendo bene che, in par­ti­co­lare in que­sto caso, esso è sin­tomo di un fal­li­mento, non certo dei greci (per i quali la noti­zia è tutt’al più l’altra, che abbiano con­ti­nuato a votare a milioni e a cre­derci), ma dell’Europa. Della gab­bia di ferro in cui ha chiuso i popoli, facendo di tutto per con­vin­cerli che la loro volontà (la «volontà popo­lare», appunto), non conta nulla. Che le regole che nes­suno ha votato sono dogmi immo­di­fi­ca­bili. E fun­zio­nando così come una gigan­te­sca mac­china che erode e riduce ai minimi ter­mini la demo­cra­zia, svuo­tan­dola di significato.

Indi­gna, d’altra parte, lo spet­ta­colo, dav­vero inde­cente, della nostra stampa quo­ti­diana. I com­menti a caldo degli edi­to­ria­li­sti embed­ded, impe­gnati in acro­ba­zie spe­ri­co­late per soste­nere – sulla scia delle veline ren­ziane — che la vit­to­ria di Syriza e la scon­fitta secca dei fuo­riu­sciti di Unità popo­lare dimo­stre­rebbe nien­te­meno che «non c’è spa­zio alla sini­stra del Pd», come se Tsi­pras fosse Renzi (si sa benis­simo che quel 12 luglio feroce Renzi era tra i ricat­ta­tori e Tsi­pras il ricat­tato, e nes­suno può per­met­tersi di nascon­dere la distanza abis­sale tra le poli­ti­che dei due, si tratti dei diritti del lavoro o dei rap­porti con la Mer­kel). E come se, che ne so, Ber­sani e Cuperlo fos­sero Varou­fa­kis (!). O Civati, Fra­to­ianni e Fer­rero Lafa­za­nis. Sono, quei com­menti senza pudore, la misura di quanto sgan­ghe­rato sia il nostro sistema dell’informazione. Quanto ser­vile, pie­gato ai voleri dei suoi tanti padroni, poli­tici o eco­no­mici. Ma soprat­tutto sono il frutto di una grande paura. Del timore che l’esempio greco possa dif­fon­dersi per con­ta­gio, e che cre­sca in Europa un’alternativa al sistema di pri­vi­le­gio di cui anche quel démi monde è parte.

Da quella «grande paura» dovremmo trarre uno sti­molo. E una con­ferma della nostra pos­si­bile forza. Ad Atene, su quel palco euro­peo, la sini­stra ita­liana non era rap­pre­sen­tata. Per il fatto che non c’è. O meglio: «non c’è ancora». Resta la grande attesa, sem­pre in costru­zione, mai nella realtà. Non la si fac­cia pro­lun­gare troppo quell’attesa. C’è un grande lavo­rio, dal basso e non solo. Si discute di date, di eventi, di pro­cessi costi­tuenti. Non fac­cia­mone un eterno Godot. Fac­ciamo subito quello che dob­biamo fare: una sini­stra capace di andare oltre i pro­pri fram­menti e di pren­dere in Ita­lia e in Europa il posto vuoto che in tanti si aspet­tano che occupi. Chiun­que ral­len­tasse o osta­co­lasse que­sto pro­cesso, tanto più ora, si assu­me­rebbe una respon­sa­bi­lità tremenda.

«Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata». L'intervista a Thomas Schmid e il reportage dalla “città dell'automobile” di Andrea Tarquini.

La Repubblica, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

"IL NOSTRO GOVERNO DEVE SENTIRSI CORRESPONSABILE CON LA SUA GOLDEN SHARE"

Intervista a Thomas Schmid di Andrea Tarquini

«È un colpo durissimo a un simbolo della Germania, e senza giudizi morali mi rammenta come è nata Volkswagen, azienda dal passato non del tutto incolpevole: nacque come idea del Reich, “comunità di lavoro”». Thomas Schmid, ex direttore della “Welt” ed editorialista di punta dei media tedeschi, non nasconde il suo allarmato sconcerto.

Che peso ha lo scandalo per l’immagine del sistema Germania?
«Ha un peso devastante. Crea problemi anche alla costruzione dell’Europa politica. Per amara ironia, mi viene in mente che poco lontano da Wolfsburg nacque Hoffmann von Fallersleben, autore dei versi del nostro inno nazionale. Forse nessun’altra azienda come la Volkswagen è stata il simbolo della rinascita postbellica dell’industria tedesca: un’industria attendibile, seria, sinonimo di qualità e di concertazione, in una giovane ma forte democrazia. Adesso riparare il danno sarà difficilissimo. Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata. Anzi, proprio dall’azienda simbolo della tecnica attendibile e dell’uso responsabile, ecologico, di ogni tecnologia. Scelta tanto più folle in quanto anche prima dello scandalo, Vw aveva difficoltà sul mercato Usa».

E simbolo anche della concertazione: c’è del marcio anche là?
«La concertazione è un cardine del sistema tedesco, ma in passato recente, proprio in Volkswagen si è visto che può anche diventare un po’ complicità, fino a viaggi di piacere di ogni tipo in Sudamerica pagati dall’azienda. La concertazione è valore costitutivo giusto nello spirito della nostra Costituzione. Diverso se riprende l’idea di comunità nazionale e di lavoro che fu propria del nazionalsocialismo ».

La macchia nera del caso Volkswagen è contagiosa per tutto il sistema Germania, anche per le altre grandi aziende global player tedesche?
«Al momento non ancora, o non tanto. Però deve essere fatta piena luce al più presto. È agghiacciante per noi tedeschi doversi domandare perché una tale energia criminale sia nata in un’azienda simbolo del nostro Paese».

Volkswagen è azienda semipubblica: che conseguenze?
«Serie. Appunto, lo scandalo non ha colpito i big privati come Bmw o Mercedes. Il potere politico è presente con la sua golden share, deve sentirsi corresponsabile. Anche del fatto che l’obiettivo di divenire numero uno mondiale sorpassando Gm e Toyota, iperambizioso anche prima, oggi sembra drammaticamente più lontano» . (a.t.)

RABBIA DEGLI OPERAI E FAIDA TRA I MANAGER.
ADDIO ALLA FABBRICA-FELIX
di Andrea Tarquini

Occhi bassi, musi grigi, mugugni che escono appena da bocche chiuse. Nessun capannello di tute blu che scherzi sul calcio o sugli ultimi amori, niente chiacchierate sulle prossime vacanze. Non è un giorno come un altro, qui al cancello numero 17 della gigantesca fabbrica in mattoni rossi che domina Wolfsburg, e con capannoni enormi tipo Detroit un tempo, palazzi uffici e ciminiere, sembra una Mirafiori infinita che sotto le basse nuvole grigie della fredda pianura di Bassa Sassonia si perde oltre l’orizzonte. E’triste, fa male come un trauma collettivo, il day after degli operai Volkswagen, fino a ieri i ‘Cipputi’ più felici del mondo. Ma se loro piangono, il padrone non ride: ai piani alti del cubo monolito a sedici piani col cerchio, la V e la W che lo sormontano, è lotta a coltello per il potere. Tra poche ore potremmo sapere chi è il vincitore, manovre dietro le quinte si susseguono, e il potere politico è qualcosa di più che non solo spettatore interessato. Il padrone è anche lui: la Bassa Sassonia, con la sua golden share, ha sempre bloccato ogni scalata ostile al colosso ora ferito dalla sua colpa.

Wolfsburg. Il giorno dopo: qui nella ‘Golf city’, l’incredibile scandalo della truffa col software che falsava i dati d’inquinamento, tentata con energia criminale e ingenuità pazzesche contro le iperattente authorities americane, e su undici milioni di vetture, «ha messo sotto shock una città intera»,, mi dice Herr Heinz, il collega della Wolfsburger Allgemeine che narra ogni giorno le cronache della fabbrica attorno a cui nacque una città moderna da brumosi pascoli e campagne. Passeggiamo insieme davanti al cancello numero 17, ascoltiamo operai e operaie sotto shock. Teste piegate in giù, qualcuno ha la voce roca e gli occhi lucidi. «Sedici miliardi di multa », mormora Ursula, da anni alla catena di montaggio, madre di famiglia, «temo che quei troppi costi schiacceranno la Volkswagen, la spingeranno a risparmiare tagliando posti di lavoro e rinunciando a nuovi modelli, quindi al nostro futuro».
Clima pesante, lo cogli in ogni angolo dell’unica città operaia d’Europa che la ricchezza del gigante globale e la forza, difesa dall’IgMetall, dei suoi dipendenti, ha reso negli ultimi dieci anni centro abitato borghese: dal centro culturale dove di solito i giovani universitari del posto si contendono i biglietti di concerti rock al museo d’arte con esposizioni itineranti di livello mondiale, dalle strade pedonali tutte boutiques, vinerie italiane e agenzie di viaggio alla sala concerti che sembra una Filarmonica di Berlino in miniatura. «Vedimi dice Ingo, caporeparto alle presse carrozzeria - da dieci anni almeno la città è decollata con i successi di Volkswagen, per questo adesso abbiamo paura, per noi e per i nostri figli».
Breaking news seguite dagli operai più giovani sugli smartphones accesi appena usciti dal “diciassette”: l’ad Winterkorn si scusa ma vuole restare… «Miliardi e miliardi persi in Borsa». “Ma che diavolo», sbotta il venticinquenne Wolfgang, tuta blu da pochi anni dopo lunghi e duri corsi di formazione, «noi operai di Wolfsburg lavoriamo bene, siamo simbolo di qualità attendibile, siamo gente seria, capisci come avendoci fatto montare quei trucchi elettronici a nostra insaputa hanno mostrato disprezzo per noi? Ci sentiamo malissimo, beffati e imbrogliati come chi ha comprato quelle auto col trucco nascosto dentro. Mio nonno montava i Maggiolini, mio padre le prime Golf, io i modelli attuali…quel rapporto di fiducia tra operai e l’azienda, tramandato da generazioni, ora è rotto. Winterkorn deve andarsene, ma del futuro non ho più certezza».
Clima cupo, nella ‘Golf City’ a un’ora d’alta velocità da Berlino che da anni era una piacevole, vivace cittadina allegra col volto e l’animo rivolto ottimista al futuro. E l’attesa della riunione, tra poche ore, del comitato ristretto del Consiglio di sorveglianza, getta i settantamila abitanti o giù di lì, glie lo vedi in volto a tutti, in una tensione al calor bianco, sull’orlo d’una crisi di nervi loro abituati alla tranquilla società di consensi e compromessi. Ai chioschi, alla stazione, negli shopping center, i titoli d’apertura di prima dei grandi quotidiani del mattino – “La Volkswagen vacilla”(Die Welt), “Tonfo in Borsa Vw, pericolo europeo” (Faz), esasperano la Angst, l’angoscia collettiva.
Tra poche ore, la resa dei conti. Un nuovo scontro al vertice, dopo quello che due mesi fa Winterkorn vinse contro Ferdinand Piech, il vecchio patriarca. «Ogni esito è aperto, ma l’attuale ad di Porsche, Matthias Mueller, appare favorito», mi assicura il collega del giornale locale. Il potente capo del Consiglio di fabbrica, Bernd Osterloh, in una lettera aperta agli operai, ha chiesto «chiarezza totale, e che i responsabili paghino». E nell’attesa ansiosa, molti ripensano in un flash back agli ultimi mesi: forse Piech aveva aperto lo scontro con Winterkorn, ritirandogli la fiducia, perché sapeva del trucco criminale elettronico montato sulle auto? E perché mai, mi fa notare Andreas Schweiger delle Wolfsburger Nachrichten, al suo ultimo discorso al salone dell’auto di Francoforte Winterkorn, oratore piatto ma di solito sempre sicuro di sé, quasi balbettava e biascicava o storpiava parole? Forse un timore lo rendeva nervoso? Così la bella Wolfsburg va a dormire, con tanti interrogativi tremendi, in uno shock che unisce tutti, e sentendosi improvvisamente derubata d’un futuro di speranza.
I motivi per cui sarebbe necessario per l'italia uscire dall'a moneta unica europea (e sarebbe anzi inevitabile) e i modi in cui potrebbe accadere.

La Repubblica, 22 settembre 2015

L’ITALIA ha due buoni motivi per uscire dall’euro, un tema di cui si parla ormai in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che, sovrapponendosi alle debolezze strutturali della nostra economia, l’euro si è rivelato una camicia di forza idonea solo a comprimere i salari, peggiorare le condizioni di lavoro, tagliare la spesa per la protezione sociale, soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione tecnologica e, alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica progressista.

Risultato: otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di quasi 300 miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25% di produzione industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è difficile dire quale sia l’aspetto peggiore fra tre milioni di disoccupati, tre-quattro di precari e due o tre di occupati in nero. Grazie ai quali l’Italia detiene il primato dell’economia sommersa tra i Paesi sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200 miliardi di redditi non dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro superano i vantaggi.

Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo anno). Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 — continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non sono concepibili. In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella condizione degli Stati membri della Ue che attendono di entrare nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere dall’eurozona.

Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso stabilisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di recesso deve seguire. Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione.

Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) la recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione di recedere, determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già state predisposte in modo riservato.

Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione sia per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato sulla Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue — esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il principio per cui uno Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa.

Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato per la recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue. L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a nuove elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di ritorno della politica a temi quali la piena occupazione, la politica industriale, la difesa dello stato sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere alla disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa.

Prosegue veloce l'erezione di barriere di cemento, acciaio, filospinato, soldati e cani attorno alla fortezza Europa. La Repubblica, 22 settembre 2015

Lubiana alza una barriera davanti alla Croazia. Caos profughi in Austria, oltre 24mila arrivi. Mattarella: “I fili spinati non servono, adesso decisioni forti”. Oggi nuovo vertice sulle quote
Per difendere i suoi muri anti-migranti, Viktor Orbán userà l’esercito sul confine meridionale. Anzi, farà di più: il Parlamento ungherese, con un voto a larghissima maggioranza, ha autorizzato i soldati all’uso delle armi pur di mantenere saldi le frontiere del paese. Lacrimogeni, idranti, proiettili di gomma, pistole lancia rete, bombe assordanti e accecanti accoglieranno chiunque cerchi di varcare la doppia barriera che blinda il paese da Croazia e Serbia. L’Ungheria ha fatto pubblicare sui giornali libanesi un chiaro avvertimento: non venite, siamo buoni ma inflessibili con gli illegali. Se vi becchiamo dentro i confini vi arrestiamo. E intanto la Slovenia ha iniziato ad alzare un muro al confine con la Croazia, all’altezza del valico di Bregana. L’obiettivo, fa sapere Zagabria, è di evitare che «i migranti entrino in modo indiscrimato nel Paese attraverso campi e boschi, invece di restare in attesa negli accampamenti alla frontiera».
Decisioni dure, di fronte a un fenomeno che non si può trattare da semplice emergenza: in due mesi sono transitate 120mila persone sulla rotta balcanica. Dal castello di Waterburg, nella Turingia tedesca, per il vertice di Arroiolos assieme ad altri 10 Capi di Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo spiega bene: «Siamo di fronte a fenomeni epocali di dimensioni immense che vanno affrontati con scelte lungimiranti. Ricorrere agli strumenti del passato non ha senso». La soluzione, dice, «non è la chiusura delle frontiere e il filo spinato». E invita i Paesi dell’Ue a concentrarsi sulle scelte che verranno fatte nelle prossime ore: «Si tratta di decisioni forti e importanti». «Il mondo è in marcia- aggiunge Mattarella - Moltitudini di uomini, donne e bambini si avviano verso l’Europa fuggendo dalla disperazione».
In vista del vertice di stamani al tavolo del Consiglio Interni, si sondano gli umori, ma l’Europa arriva spaccata sul ricollocamento di 120mila migranti, soluzione verso cui spinge la cancelliera Angela Merkel. Ci sono ancora delle resistenze. Soprattutto dal blocco dei paesi dell’est che davanti a questo dramma si sono mostrati più ostici a un compromesso. Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria restano contrarie ad accogliere una parte dei profughi. Ma sono anche pronte a cedere quando capiscono che chiunque faccia parte della grande comunità europea dovrà comunque versare il suo contributo in denaro (si parla di una “multa” di 6.500 euro per ogni profugo “rifiutato”). Lubiana è indecisa. Forse spaventata. Nell’attesa decide anche lei di avviare la costruzione di una barriera alla frontiera.
Il fronte, tuttavia, inizia ad incrinarsi e l’Ungheria finisce per restare sempre più isolata. Per il momento si limita a trasferire, con autobus scortati e treni blindati, tutti i rifugiati e i migranti che gli vengono consegnati alla frontiera dalla Croazia. Li accompagna ai confini con l’Austria che nei fatti è diventato il primo “hotspot” dell’Unione. Tra sabato e domenica ha dovuto accogliere 21.200 persone che ieri sono diventate 24 mila. Non tutto è semplice per i profughi. Molti sono reduci da mesi di viaggio. Si sono dovuti adattare. Improvvisano giacigli e cercano cibo dove lo trovano. Il centro medico universitario di Hannover ha segnalato 30 casi di intossicazione da funghi velenosi in una sola notte. Chi li ha raccolti aveva fame. Non li conosceva. Li ha visti sparpagliati nei boschi e li hacucinati. Sono finiti tutti in ospedale.
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SBARRAMENTI

Il manifesto, 20 settembre 2015

Fanfare e rulli di tamburo annunciano la possibile intesa nel Partito democratico. Ma è vera gloria? L’intesa in sé riguarda segmenti di ceto politico e forse la sorte del governo. Questioni importanti, certo. Ma quel che conta è la qualità dell’intesa, il suo contenuto e l’effetto ultimo sulle istituzioni e sul paese.

Da questo punto di vista i troppo buoni direbbero che la montagna ha partorito il topolino, i pacati e gli equanimi che siamo di fronte a una truffa volgare.

A quel che si trae da notizie di stampa, l’accordo prevede che la durata del mandato dei senatori coincida con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, su indicazione degli elettori in base alle leggi elettorali regionali. Quanto alla coincidenza del mandato senatoriale con la durata di organi territoriali regionali o locali, nulla quaestio. È un principio che potrebbe essere reso compatibile anche con l’elezione popolare diretta dei senatori. I problemi vengono dopo.

Si rileva infatti che i senatori sono eletti dagli «organi delle istituzioni territoriali». Dunque, non dai cittadini nell’ambito territoriale di riferimento. Con questo si ribadisce il no all’elezione popolare diretta dei senatori, e si affida al consiglio regionale il potere di scegliere i rappresentanti in senato. Una conferma si trae dal fatto che agli elettori si attribuisce «l’indicazione». E, secondo il dizionario, con tale termine si intende una designazione, una proposta, una segnalazione, un suggerimento, non una decisione e tanto meno una scelta. I cittadini «indicano», il consiglio regionale «elegge». Una bella prova di democrazia mettere il popolo sovrano in una posizione di indiscutibile subalternità.

Si aggiunga che il tutto è rinviato alla disciplina posta con legge regionale, senza alcuna indicazione di principi di legge statale o comunque limiti da osservare. Tanto che sarebbe del tutto possibile una legge per cui il consiglio regionale scelga i senatori in una rosa più ampia formata dai candidati alla carica di consigliere regionale più votati, giungendo in concreto all’elezione dei senatori da parte dei consigli regionali al proprio interno, senza che la volontà espressa dal voto popolare sia in ultimo decisiva. Volendo evitare questo, e concedere al popolo sovrano di scegliere i propri rappresentanti, sarebbe quanto meno necessario prevedere in Costituzione un listino votato separatamente e la incompatibilità tra le cariche di consigliere regionale e senatore.

Per questo, siamo alla truffa volgare. Chi legge nel testo il ripristino della elezione popolare diretta dei senatori mente sapendo di mentire. L’essenza del senato voluto da Renzi non è toccata, e rimangono tutte le censure già argomentate su queste pagine. Ne gioirà Moody’s, che plaude alla riforma (e potremo ricordare che aveva già applaudito all’Italicum, e criticato la sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni). E abbiamo dimenticato J.P. Morgan, che già nel 2013 sollecitava ad abbandonare le costituzioni antifasciste del dopoguerra, inquinate da elementi di socialismo? I poteri forti della finanza internazionale non si curano della salute democratica del paese. Ma il governo della Repubblica dovrebbe.

Per le riforme eterodirette della Costituzione abbiamo già dato, con l’art. 81 e il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Ma qui vediamo una vicenda di piccole miserie. Può solo interessare che, se la proposta si tradurrà in un emendamento all’art. 2, questo potrà aprire la via anche ad altri emendamenti e a nuovi scenari di confronto parlamentare. Non è infatti pensabile che la modificabilità dell’art. 2 venga limitata al solo emendamento risultante dall’accordo interno Pd.

Capiamo, ma non apprezziamo, le ambasce della minoranza Pd. Se si piega ha fatto molto rumore per nulla. La mediazione rimane sotto la soglia della decenza. Questi coraggiosi — si fa per dire — alfieri della verità e della giustizia devono pur chiedersi se accettare, magari per il miraggio di un piatto di lenticchie, sia nel loro interesse collettivo e individuale. È davvero dubbio lo sia, per la perdita di faccia e di credibilità. Di sicuro, non è nell’interesse del paese.

Dove la sinistra non rifiuta la sua storia e i suoi valori (come invece è successo nell'Italia di Renzi) il suo abbraccio con il neoliberismo è mortale.

La Repubblica, 21 settembre 2015

UNO degli argomenti più intriganti suggeriti dalla vittoria di Jeremy Corbyn alla leadership del Labour Party è il seguente: la sinistra ha bruciato il suo centro consegnando il governo ai Tory per i prossimi anni. Questa diagnosi può essere interpretata in due modi diversi. Il primo è quello che si ricava dalle parole del capo storico del centrismo laburista, Tony Blair, il quale con malcelato egocentrismo ha identificato l’elezione di Corbyn con una reazione contro di lui e ha preso la penna per scongiurare i laburisti a “ detestarlo” liberamente ma a confermare la sua linea centrista non votando per Corbyn. Detestato per la sua entusiasta partecipazione alla guerra di Bush in Iraq, il fondatore del New Labour non ha fatto che rafforzare la Corbymania. E il centrismo ha alzato un cordone sanitario intorno al nuovo leader.

Il caso inglese è perfino più radicale di quello spagnolo e greco perchè qui la sinistra ha ripreso le redini del suo partito tradizionale, scuotendone l’identità centrista. La quale, non il radicalismo della sinistra, è all’origine della crisi del Labour.

Posizionandosi al centro, il Labour di Miliband ha dimostrato di essere sostituibile con i conservatori. Competere per il centro non è una politica saggia quando le politiche centriste sono a tutti gli effetti conservatrici. Ecco perchè il cordone sanitario del centrismo nei confronti di Corbyn suggerisce un’altra lettura all’argomento per cui la sinistra ha bruciato il suo centro.

La ribellione contro il centrismo è un fenomeno non confinato all’Europa.

Bernie Sanders che sfida Hillary Clinton alle prossime primarie democratiche, si definisce socialista e conquista l’audience nel popolarissimo talk-show di Colbert. I sondaggi lo danno vincente in New Hampshire e Iowa anche se perderà senz’ombra di dubbio la nomination. Sanders come Corbyn punta il dito contro un tipo di moderatismo che è diventato un abito troppo stretto per i democratici, spronati dallo stesso moderato Barack Obama che, non va dimenticato, ha portato alla Casa Bianca una retorica di sinistra per riuscire a imporre la riforma sanitaria e le politiche a favore della classe media.

Quindi c’è un centrismo di sinistra. E quando viene praticato con determinazione riesce a contenere la sinistra più radicale e a essere una buona alternativa ai conservatori. È questo il centrismo che i partiti di sinistra hanno bruciato.

Il problema è stato ben individuato da Paul Krugman. Commentando la vittoria di Corbyn ha scritto che essa «non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour»; i candidati moderati che sfidavano Corbyn non avevano altro da offrire che il sostegno alle politiche di austerità del governo conservatore. Il “crollo morale” dei moderati interni alla sinistra è il fattore da considerare dunque. La sinistra sembra non avere più un centro suo, scegliendo di adottare quello proprio della destra.

Il centro al singolare è una categoria delle meno felici in politica perchè esso non è un’entità che sta al di sopra delle parti. È invece una pratica di moderazione rispetto a posizioni che sono specifiche e ideologicamente diverse. Il centro della sinistra non è lo stesso di quello della destra, perchè non consiste nell’annacquare con politiche di destra quelle di sinistra, per esempio limitando il diritto di sciopero o adottando politiche fiscali che favoriscono la casa invece che il lavoro.

La sinistra ha un suo centro e la sua erosione e scomparsa è all’origine delle due possibili risposte messe in campo finora: una risposta radicale nei partiti di sinistra che sono all’opposizione (da Podemos al Labour) e una risposta destrinista o ibridata con il centro della destra nei partiti di sinistra che sono al governo. Entrambi sono l’esito del “crollo morale” del centrismo di sinistra, e all’origine tanto del radicalismo quanto del destrinismo.

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Una differenza che una volta era essenziale: «la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato».

La Repubblica, 21 settembre 2015

CARO direttore, un dibattito alquanto confuso, e in cui sembra assente ogni consapevolezza storica e culturale, si sta svolgendo sul problema delle “tasse”. Si è detto e scritto che la sinistra italiana rappresenta il “partito delle tasse”, orientato al “tax and spend”, e cioè allo spreco e alla persecuzione dei contribuenti. Ma si tratta ovviamente di una deformazione caricaturale e polemica di questioni piuttosto serie.

Infatti la questione fiscale è stata una discriminante fondamentale della contrapposizione tra destra e sinistra, liberali e socialisti (e liberal-democratici), tra liberisti e keynesiani, capitalisti e sindacati, nell’intero corso del ‘900, e lo è ancora.

Del resto, se si guarda agli Stati Uniti, Obama è attaccato dai repubblicani del tea-party proprio sulle tasse; ai suoi tempi il labour di Tony Blair era contestato dai conservatori per lo stesso motivo, ed in effetti quei governi aumentarono la pressione fiscale in Inghilterra di un paio di punti di Pil.

La contrapposizione riguarda la funzione pubblica nell’economia, e quindi soprattutto il sistema di : la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato col sostegno indiretto dello Stato, (istruzione privata, sanità privata, fondi pensione) e talvolta è semplicemente contraria.

La sinistra ritiene che una società coesa grazie al sia più efficiente e produttiva per effetto della riduzione dei rischi individuali. La destra ritiene che se si riducono le tasse e la spesa si responsabilizzano gli individui che sono spinti ad accrescere gli sforzi produttivi.

Per la sinistra l’eguaglianza è un obiettivo importante, ed essa è consapevole che le tasse in quanto tali non sono tecnicamente in grado di produrre un effetto perequativo rilevante, mentre un welfare ben costruito è fondamentale per la riduzione delle diseguaglianze: sono infatti le spese per la istruzione, la sanità, la previdenza, il sostegno nei periodi di disoccupazione e per l’assistenza ad assicurare l’effetto redistributivo della finanza pubblica.

Per la destra, invece, le diseguaglianze che si creano sul mercato riflettono in buona misura le differenze di produttività che esistono nel mercato stesso, per cui esse sono giustificabili, anzi funzionali allo sviluppo (salvo la tutela della povertà estrema, per cui è comunque preferibile per la destra il ricorso a meccanismi di elargizione volontaria (di natura caritatevole) fiscalmente incentivati.

Per la sinistra è opportuno che il sistema tributario sia “informato a criteri di progressività”, e quindi occorre tassare più i ricchi che i poveri, più i patrimoni che i redditi, più i capitali che il lavoro, più il reddito che il consumo. In tale contesto la sinistra è storicamente favorevole all’imposta progressiva. Per la destra valgono principi opposti: la tassazione non deve “distorcere” il funzionamento dei mercati, e anzi il sistema fiscale deve agevolare l’attività economica, anche se così facendo si aumentano le diseguaglianze; infatti se i ricchi stanno bene, alla fine anche i poveri ne trarranno benefici. La progressività delle imposte va eliminata a favore di imposte “piatte” (proporzionali).
«Nonostante la grande astensione Syriza resta primo partito e torna al governo con i nazionalisti di Anel. Tsipras festeggia in piazza e si prepara a giurare da primo ministro. Sonora sconfitta della scissione da Syriza di Lafazanis: Unità popolare fuori dal parlamento».

Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)

Ale­xis Tsi­pras vola, supe­rando le più rosee pre­vi­sioni: Syriza, con più della metà dei voti scru­ti­nati, è al 35,5%, per­cen­tuale che le per­mette di eleg­gere 145 depu­tati, men­tre il cen­tro­de­stra di Nuova Demo­cra­zia segue a grande distanza, con il 28,7% e, al momento, 75 depu­tati. La prin­ci­pale con­se­guenza poli­tica del voto è che Syriza, insieme ai Greci Indi­pen­denti di Panos Kam­me­nos, i quali sino ad ora sono al 3,7% con dieci depu­tati, potranno for­mare nuo­va­mente, senza biso­gno di altri par­titi, un nuovo governo.

Il lea­der di Syriza e Kam­me­nos si stanno per incon­trare per san­cire il pro­se­gui­mento della loro “strana” alleanza, basata sulla lotta alla cor­ru­zione e alle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste di auste­rità. Mal­grado il dif­fi­cile com­pro­messo fir­mato ad ago­sto con i cre­di­tori, la chiu­sura delle ban­che dopo la ridu­zione della liqui­dità decisa dalla Bce e la mar­tel­lante cam­pa­gna tele­vi­siva di molti media con­tro la sini­stra radi­cale, Syriza rimane pro­ta­go­ni­sta della scena poli­tica greca, e perde meno dell’1% rispetto alle trion­fali ele­zioni di gennaio.

Si tratta, ovvia­mente, di un suc­cesso per­so­nale di Tsi­pras, che ha pro­messo di con­ti­nuare a lot­tare con­tro le lobby cor­rotte, gli intrecci sot­ter­ra­nei tra eco­no­mia e poli­tica, per supe­rare l’austerità e creare nuovi equi­li­bri in Europa, anche se ci vorrà del tempo e sarà richie­sta molta pazienza e tenacia.

Sino a que­sto momento, Unità Popo­lare, con a capo Pana­gio­tis Lafa­za­nis, for­ma­zione creata poche set­ti­mane fa dai dis­si­denti di Syriza, non rie­sce a entrare in par­la­mento: si ferma al 2,8%, men­tre la soglia di sbar­ra­mento è in Gre­cia al 3%. È chiaro che sono rima­sti schiac­ciati tra la scelta rea­li­sta di chi ha voluto ridare fidu­cia alla Coa­li­zione della Sini­stra Radi­cale elle­nica e chi, nella tra­di­zione della sini­stra comu­ni­sta, è rima­sto fedele al Kke.

Ex mem­bri del governo che ave­vano lavo­rato con abne­ga­zione, come la mini­stra aggiunto delle finanze Nadia Vala­vani, non sono riu­sciti a far arri­vare ai greci, tra­mite Unità Popo­lare, una pro­po­sta for­te­mente iden­ti­ta­ria. La boc­cia­tura dell’Euro e la messa in discus­sione della stessa Unione euro­pea, se neces­sa­rio, non hanno pagato.

È senz’altro da non sot­to­va­lu­tare la forte asten­sione, che potrebbe supe­rare il 45%, ma il grande suc­cesso del qua­ran­tu­nenne lea­der della sini­stra greca sta nell’essere riu­scito a con­vin­cere una gran­dis­sima parte degli inde­cisi: chi otto mesi fa aveva votato per lui e oggi era ten­tato di non andare ai seggi.

Fonti uffi­ciali di Syriza fanno sapere che entro tre giorni il nuovo governo sarà pronto per giu­rare e che domani mat­tina Tsi­pras rice­verà dal pre­si­dente della Repub­blica l’incarico di for­mare l’esecutivo.

Inquie­tante, anche se pur­troppo non impre­ve­di­bile, il terzo posto dei neo­na­zi­sti di Alba Dorata, che sinora sono al 7,1%, con 19 deputati. La reto­rica e la prassi della vio­lenza, mal­grado il pesante pro­cesso a cui è sot­to­po­sto il gruppo diri­gente del par­tito, ha comun­que attratto una parte dei delusi e di chi ha pagato le con­se­guenze della crisi, mal­grado la sfron­tata dichia­ra­zione del capo neo­na­zi­sta, Nikos Micha­lo­lia­kos, che tre giorni prima delle ele­zioni si è assunto la respon­sa­bi­lità poli­tica dell’omicidio del rap­per di sini­stra Pavlos Fys­sas, com­piuto due anni fa da un mem­bro di Alba Dorata.

Il Pasok, che è al 6,41%, e i cen­tri­sti di Potami– il Fiume, i quali non vanno oltre il 3,9%, restano a guar­dare: spe­ra­vano in un ese­cu­tivo di unità nazio­nale, o di essere comun­que neces­sari per la gover­na­bi­lità del paese, ma non è stato così. Una loro par­te­ci­pa­zione al governo avrebbe comun­que posto seri pro­blemi riguardo alla coe­sione sulla poli­tica eco­no­mica e la lotta ai grandi interessi.

La grande sfida ora, per Ale­xis, è gestire e miti­gare le con­se­guenze del memo­ran­dum fir­mato un mese fa, lavo­rando, con­tem­po­ra­nea­mente, ad una nuova poli­tica euro­pea orien­tata alla cre­scita e al reale supe­ra­mento dell’austerità.

La fidu­cia dei greci, que­sta for­tis­sima inie­zione di ener­gia, non potrà che faci­li­tar­gli il compito.

«10 mila arrivi in solo giorno, volontari instancabili. Paradossi: l'estrema destra Fpoe vola nei sondaggi, lo spirito d'accoglienza anche. L’Austria, para­go­nata a Ita­lia e Gre­cia. 1500 sol­dati al con­fine con Unghe­ria e Slo­ve­nia svol­gono soprat­tutto fun­zioni uma­ni­ta­rie e logistiche».

Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)

«Alle 5 porto 100 uova sode, 20 chili di feta e dolci di cioc­co­lata» posta sul sito Train of hope uno dei migliaia di volon­tari che pre­stano assi­stenza 24 ore su 24 alle sta­zioni di Vienna. «Ho rac­colto tende, sac­chi a pelo e imper­mea­bili, tante altre cose le ho com­prate» si legge invece su Soskon­voi, sono cose richie­ste con urgenza che ver­ranno por­tate lon­tano, a Bre­gona, al con­fine slo­veno e a Tovar­nik al con­fine tra Croa­zia e Unghe­ria. Lì l’iniziativa Soskon­voi diven­tata famosa per essere andata a pren­dere i rifu­giati in Unghe­ria ha attrez­zato un suo uffi­cio: sul posto manca tutto, rac­con­tano, acqua, cibo, riparo.

Alla fine, venerdì notte i rifu­giati intrap­po­lati oltre­ con­fine sono appro­dati alla fron­tiera austriaca orien­tale, a Nic­kel­sdorf e Hei­li­gen­kreuz, dopo la lunga dispe­rata odis­sea tra Croa­zia e Unghe­ria. 10mila in un giorno solo, alcuni a piedi. Gra­zie alla mobi­li­ta­zione con­ti­nua della società civile è stato pos­si­bile gestire l’accoglienza. Appro­dati. Solo sabato sera, attesi lì fin da venerdì, arrivo di pro­fu­ghi a Spiel­feld al con­fine slo­veno, dove sono stati attrez­zati in ogni dove posti letto per 4000 per­sone. Decine di auto­bus dell’esercito hanno por­tato i rifu­giati a Vienna, Sali­sburgo e Graz. Per molti c’erano subito i treni pronti in dire­zione Germania.

Il con­trollo ai con­fini, oggetto di con­tra­sto della coa­li­zione di governo tra social­de­mo­cra­tici (Spoe) e popo­lari (Oevp) avviene «a cam­pione», o «per niente», come ha accu­sato il mini­stro degli interni della Baviera. L’Austria, para­go­nata a Ita­lia e Gre­cia. I 1500 sol­dati austriaci schie­rati al con­fine con Unghe­ria e Slo­ve­nia svol­gono soprat­tutto fun­zioni uma­ni­ta­rie e logistiche.

A Graz, capo­luogo della Sti­ria, un’ora dal con­fine slo­veno, venerdì sera una fiac­co­lata di soli­da­rietà orga­niz­zata dai gio­vani socia­li­sti (Sj) e Ong ha attra­ver­sato la città: «Non solo di soli­da­rietà, ma con­tro l’odio, la discri­mi­na­zione e l’istigazione. Per l’estrema destra di H.C. Stra­che il soste­gno ai rifu­giati è una posi­zione di mino­ranza. Non è così, la mag­gio­ranza, prima silen­ziosa ha alzato la voce».

Una mani­fe­sta­zione con can­dele e fiac­cole ha attra­ver­sato venerdì anche Wie­ner Neu­stadt, capo­luogo della Bassa Austria. Sabato tutto il pome­rig­gio e sera con­certo in piazza per «rin­gra­ziare la popo­la­zione che aiuta i rifu­giati del cen­tro di acco­glienza di Trai­skir­chen». Dal canto suo la Fpoe, quasi scom­parsa dai tg, su mega­car­tel­loni annun­cia la «Oktoberrevolution» (rivoluzione d’ottobre, si rife­ri­sce all’11 otto­bre, ele­zioni di Vienna). Il movi­mento wel­come refu­gees gli con­trap­pone la «rivo­lu­zione di set­tem­bre», la soli­da­rietà con­creta lar­ga­mente diffusa.

Rivo­lu­zione di set­tem­bre o di otto­bre? Nei son­daggi pub­bli­cati dal set­ti­ma­nale Pro­fil sabato, su scala nazio­nale il 33%, un terzo della popo­la­zione, vote­rebbe per il par­tito di Stra­che, salito al primo posto. La Spoe del can­cel­liere Wer­ner Fay­mann, attuale primo par­tito segue col solo 23%, l’alleato di governo, i popo­lari al 21%, i Verdi al 14%. Nello stesso son­dag­gio però un 72% con­di­vide l’impegno della società civile verso i pro­fu­ghi, solo un 23% si sente rap­pre­sen­tato dalla xeno­foba Fpoe su que­sto argo­mento. Il suc­cesso di que­sta dimen­sione della Fpoe, più e oltre la xeno­fo­bia il son­dag­gio lo ricon­duce alla impo­po­la­rità per­du­rante della grande coa­li­zione for­te­mente divisa al suo interno, bloc­cata, con­si­de­rata inca­pace di deci­dere e agire. In un altro son­dag­gio l’85% della popo­la­zione si dichiara orgo­gliosa per il modo in cui l’Austria ha accolto i profughi.

Venerdì e sabato a Vienna, su invito del can­cel­liere Fay­mann si è svolto un mini­ver­tice di diri­genti di par­titi social­de­mo­cra­tici in vista del ver­tice euro­peo di mer­co­ledì, con il vice­can­cel­liere tede­sco Sig­mar Gabriel, il primo mini­stro sve­dese Ste­fan Loe­f­ven e Mar­tin Schulz. Riba­dita la neces­sità di inve­stire subito 5 miliardi per i campi pro­fu­ghi vicini alla Siria, e su scala euro­pea, la difesa del lavoro e il rilan­cio di un Europa sociale.

«La sfida greca ha un’importanza che è stata colta solo negli ulti­mis­simi giorni dagli ita­liani che vor­reb­bero un cam­bia­mento anche qui. L’appello fir­mato l’altro ieri da alcuni pro­ta­go­ni­sti della sini­stra è pic­cola cosa rispetto alle pro­spet­tive aperte da Tsi­pras».

Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)

A fronte dei muri e degli eser­citi che l’Europa costrui­sce e schiera per respin­gere i migranti in fuga da guerre, vio­lenze, fame e povertà, l’altra guerra, quella eco­no­mica che l’ha attra­ver­sata e defor­mata, sem­bra quasi eclis­sata. E lon­tana dai riflet­tori è tor­nata la pic­cola Gre­cia che della oppres­siva cam­pa­gna finan­zia­ria è stata, e ancora resta, la cavia da labo­ra­to­rio delle poli­ti­che libe­ri­ste. Ma nella terra del Par­te­none la resi­stenza invece con­ti­nua. E per la terza volta in pochi mesi, dopo le ele­zioni di gen­naio e il refe­ren­dum di luglio, oggi le urne si ria­pri­ranno affin­ché di nuovo i cit­ta­dini pos­sano espri­mere la loro volontà poli­tica. Per dire chi li dovrà gover­nare e chi potrà meglio difen­dere gli inte­ressi di milioni di persone.

Ale­xis Tsi­pras si rivolge ai greci chie­den­do­gli la fidu­cia e la forza elet­to­rale neces­sa­rie per gui­dare il paese. Però né il lea­der che chiama il popolo a soste­nerlo, né il popolo che deve deci­dere se tor­nare a votarlo, sono gli stessi di qual­che mese fa. Sulle spalle del gio­vane poli­tico grava soprat­tutto il maci­gno del memo­ran­dum impo­sto dall’Europa. Per soste­nerne il peso senza essere schiac­ciato, Tsi­pras ha biso­gno di una forza note­vole, in grado di accom­pa­gnarlo nella dif­fi­cile, soli­ta­ria sfida per appli­care le richie­ste euro­pee. E nello stesso tempo deve tro­vare il modo di pro­teg­gere le classi sociali più col­pite. Un’impresa dun­que. Resa, se pos­si­bile, ancora più ardua dall’escalation del tra­gico esodo dei migranti che ogni giorno appro­dano sulle isole gre­che. Non è lo stesso popolo che ha lot­tato per allon­ta­nare il giogo delle misure eco­no­mi­che che hanno ferito i biso­gni pri­mari del lavoro, della salute, delle spe­ranze delle gio­vani generazioni.

Quanto sia più com­pli­cato ripor­tare al voto — e alla fidu­cia nella demo­cra­zia — i greci che il 25 gen­naio ave­vano tri­bu­tato a Syriza oltre il 35 per cento del con­senso, meglio di tutti lo sanno Tsi­pras e il gruppo diri­gente che lo sostiene. È lo spet­tro di una ras­se­gnata asten­sione il nemico da bat­tere. Que­ste ele­zioni rap­pre­sen­tano lo snodo cru­ciale per il futuro di un popolo e, insieme, sono il banco di prova dell’agibilità poli­tica di un governo di sini­stra nelle con­di­zioni peg­giori. Eppure, pro­prio per que­sto, si tratta — come abbiamo capito e impa­rato dai lun­ghi mesi di lotta di Syriza con­tro l’austerità euro­pea — di un cimento che oltre­passa i con­fini ate­niesi. Nel mare aperto, senza rotte trac­ciate da pre­ce­denti navi­ga­tori, che Tsi­pras ha scelto di attra­ver­sare, navi­gano tutte le sini­stre euro­pee, com­prese quelle che in Ita­lia vor­reb­bero vedere la nascita di una forza cer­ta­mente radi­cale e al tempo stesso di governo.

Ogni giorno spe­ri­men­tiamo la dif­fi­coltà di un pro­getto così ambi­zioso e ine­dito, per­ché nelle fasi di crisi eco­no­mica, è molto più facile asse­gnarsi il ruolo di oppo­si­zione con­tro le poli­ti­che libe­ri­ste dei governi. E non pochi con­si­de­rano una fol­lia assu­mere il com­pito di gover­nare quando la crisi, anzi, quando il crollo di un intero sistema eco­no­mico e sociale, can­cella i diritti e gli assetti demo­cra­tici novecenteschi.

Per Tsi­pras sarebbe più sem­plice, di fronte al prezzo poli­tico e per­so­nale da pagare, lasciare la Gre­cia nelle mani dei poli­tici che dal 2009 ne hanno sgo­ver­nato l’economia. Sarebbe anche sti­mo­lante tor­nare nella terra cono­sciuta delle piazze, magari per chie­dere il ritorno alla dracma come adesso recla­mano gli espo­nenti di Unità popo­lare, fuo­riu­sciti da Syriza.

Per il lea­der il bilan­cio è duris­simo. Quel memo­ran­dum che occupa Atene come un pan­zer ha spac­cato il «par­tito» e ha inde­bo­lito il governo. E allora per­ché sfi­dare la sorte in ele­zioni molto incerte? «Per­ché chi sta lot­tando, anche se viene ferito, non smette di lot­tare». Sono le parole dette al mani­fe­sto da Nikos Kotziàs, l’ex mini­stro degli esteri del governo Tsi­pras, e rac­chiu­dono in un’immagine vera tutto il signi­fi­cato del voto.

La sof­fe­renza del popolo greco non tro­ve­rebbe gio­va­mento con il cen­tro­de­stra, per­ché solo un governo di sini­stra può ten­tare di alle­viare le misure dell’austerità. Ma que­sto risul­tato elet­to­rale va ben oltre, per­ché se c’è un modo per por­tare l’Europa a discu­tere del debito dei paesi del lato sud del Con­ti­nente serve una vit­to­ria alle urne.

La sfida greca ha un’importanza che è stata colta solo negli ulti­mis­simi giorni dagli ita­liani che vor­reb­bero un cam­bia­mento anche qui. L’appello fir­mato l’altro ieri da alcuni pro­ta­go­ni­sti della sini­stra è pic­cola cosa rispetto alle pro­spet­tive aperte da Tsi­pras. Per­ché dopo è venuta la Spa­gna con Pode­mos; per­ché un poli­tico «socia­li­sta» ha vinto le pri­ma­rie nel Labour Party; per­ché adesso in Ita­lia final­mente si discute su come costruire una forza in grado di porsi come alternativa.

Dun­que nel voto greco non è in gioco solo il destino di un lea­der e di un paese intero: c’è anche il futuro delle sini­stre in Europa.

«Non si tratta solo di acco­gliere chi -dopo inter­mi­na­bili sof­fe­renze - arriva ai con­fini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non rie­sce a fug­gire e rischia la morte e la vio­la­zione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre fron­tiere non arri­verà mai».

Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)

Lo scorso 11 set­tem­bre più di 250mila per­sone hanno mani­fe­stato a piedi scalzi in 71città ita­liane chie­dendo diritti e acco­glienza per i migranti e pro­fu­ghi, senza sé e senza ma. E’ stata prova di par­te­ci­pa­zione e di mobi­li­ta­zione straor­di­na­ria che ci con­se­gna la domanda di come far vivere nei pros­simi mesi un’azione di denun­cia poli­tica e di soli­da­rietà con­creta con i migranti. «La mar­cia delle donne e degli uomini scalzi non si fer­merà. Con­ti­nuerà anche dopo l’11 settembre».

Que­sto è stato detto nell’appello finale letto alla con­clu­sione della mani­fe­sta­zione a Vene­zia: «E’ una mar­cia per la dignità, per la vita, per la libertà: per tutti quei valori per cui abbiamo voluto costruire un’Europa aperta al mondo e fon­data sulla pace. Una spe­ranza che vogliamo con­ti­nuare a difen­dere e per cui vogliamo lottare».

I motivi ci sono tutti. Infatti, dopo qual­che sus­sulto euro­peo, tra Ber­lino e Bru­xel­les, sull’onda dell’emozione della fuga dei pro­fu­ghi siriani, la Mer­kel ha annun­ciato che ora le fron­tiere si chiu­dono, i paesi dell’est euro­peo hanno riba­dito che non accet­te­ranno nes­suna quota per l’accoglienza dei migranti, l’Ungheria fini­sce di costruire il muro, spara lacri­mo­geni e usa can­noni d’acqua con­tro i migranti, e la Fran­cia minac­cia nuovi raid aerei in Siria.

Invece sono altre le strade che andreb­bero seguite per cer­care di affron­tare un flusso di pro­fu­ghi - che ormai avrà carat­te­ri­sti­che di per­ma­nenza - verso l’Europa. Sem­pre nell’appello con­clu­sivo è stato affer­mato: «Molte sono le cose da fare e molti i rischi all’orizzonte. Biso­gna creare un vero e pro­prio cor­ri­doio uma­ni­ta­rio per chi scappa dalla guerra e biso­gna isti­tuire un diritto di asilo euro­peo che superi l’anacronistico rego­la­mento di Dublino».

E pro­prio nella mani­fe­sta­zione con­clu­siva di Vene­zia, una dele­ga­zione della mani­fe­sta­zione di migranti e richie­denti asilo sono sim­bo­li­ca­mente saliti sul red car­pet della Mostra del cinema aprendo uno stri­scione davanti a foto­grafi e pub­blico in attesa delle star: huma­ni­ta­rian cor­ri­dors, now. E’ que­sta la prio­rità oggi. Que­sto il punto che non può essere più eluso. Non si tratta solo di acco­gliere chi -dopo inter­mi­na­bili sof­fe­renze - arriva ai con­fini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non rie­sce a fug­gire e rischia la morte e la vio­la­zione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre fron­tiere non arri­verà mai.

Oggi i cor­ri­doi uma­ni­tari sono ine­lu­di­bili. Ne ser­vono almeno due: uno dalla Siria e l’altro dal Medi­ter­ra­neo, assi­cu­rando in que­sto caso pas­saggi in mare sicuri. Ma su que­sta strada l’Europa e l’Italia per il momento non ci sen­tono e si bar­ca­me­nano tra quote per la ripar­ti­zione dei pro­fu­ghi - quote molto mode­ste e non accet­tate - nuovi hot spot da isti­tuire e che rischiano di pro­durre non mag­giori tutele ma altre discri­mi­na­zioni e nes­suna resi­pi­scenza sulla con­ven­zione di Dublino.

Al governo Renzi dob­biamo chie­dere di pren­dere una ini­zia­tiva che vada in que­sta dire­zione non solo in Europa, ma anche in Ita­lia: chiu­dendo i cen­tri di deten­zione, intro­du­cendo il diritto di voto alle ammi­ni­stra­tive per i migranti, isti­tuendo uni­la­te­ral­mente un cor­ri­doio uma­ni­ta­rio dalle coste meri­dio­nali del Medi­ter­ra­neo. Si tratta, dun­que, di rilan­ciare una mobilitazione.

La mar­cia delle donne e degli uomini scalzi - con tutto il suo carico sim­bo­lico e di con­cre­tezza nella forma della par­te­ci­pa­zione - ha dimo­strato che c’è una grande dispo­ni­bi­lità, che non va dispersa, ma raf­for­zata e svi­lup­pata. Una grande alleanza delle donne e degli uomini scalzi che fac­cia argine alla xeno­fo­bia e al raz­zi­smo e che sia da ariete con­tro tutti quei fili spi­nati e muri che si cer­cano di alzare in Europa ancora una volta.

C’è un primo appun­ta­mento: domani, 21 set­tem­bre mani­fe­ste­remo alle 18 davanti all’ambasciata d’Ungheria a Roma (via dei Vil­lini 12) e davanti ai con­so­lati unghe­resi in Ita­lia (come a Milano, Vene­zia, Palermo, Trie­ste e altre città che si stanno aggiun­gendo) per dire basta ai muri e ai fili spi­nati, basta alla cri­mi­na­liz­za­zione dei pro­fu­ghi, basta all ipo­cri­sie euro­pee (qui info). Se c’è qual­cuno che deve andare fuori dall’Europa non sono i migranti, ma Vik­tor Orban.

Gli ellenici tornano al voto per la terza volta in meno di un anno. Tsipras è ancora il favorito nei sondaggi ma deciderà l’astensionismo. Il leader della sinistra greca spera di arginare la scissione del partito dopo l’accordo con la Ue.

Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)

Atene ha accolto la vigi­lia del voto con una splen­dida gior­nata di sole che ha offerto agli ate­niesi la ten­ta­zione di fug­gire dalla cam­pa­gna elet­to­rale verso un bagno risto­ra­tore nel golfo Saro­nico. Chi aveva deciso di aste­nersi pro­lun­gherà la breve eva­sione anche oggi, a urne aperte. La per­cen­tuale degli asten­sio­sni­sti deci­derà anche il vin­ci­tore di que­ste ele­zioni per­ché si sa che la mag­gior parte di loro sono ex elet­tori di Syriza delusi e sco­rag­giati dal brutto esito della trat­ta­tiva. Lo sa anche Ale­xis Tsi­pras, che si è speso come non mai in que­sta cam­pa­gna pur di farli tor­nare da lui.

La mani­fe­sta­zione di chiu­sura a Syn­tagma, venerdì sera, ha dimo­strato che non è stato tutto vano. La piazza era piena. Non pie­nis­sima come alla vigi­lia del refe­ren­dum ma sicu­ra­mente ha visto la più grande par­te­ci­pa­zione di tutta la cam­pa­gna elet­to­rale. Una parte con­si­stente del suo elet­to­rato è tor­nato a dare fidu­cia a Syriza. La vit­to­ria è a por­tata di mano, anche se l’obiettivo della mag­gio­ranza asso­luta sem­bra lontano.

I greci sono testardi e orgo­gliosi. Se uno vuole farli infu­riare basta che fac­cia cenno alla loro pre­sunta «imma­tu­rità poli­tica» e alla con­se­guente neces­sità che si lascino gui­dare da forze «respon­sa­bili» per­ché ispi­rate da cen­tri stra­nieri. Ecco in breve il ritratto della destra in cerca di rivin­cita, alzando la ban­diera dell’«unità nazio­nale». Un espe­diente made in Ger­many per neu­tra­liz­zare per sem­pre gli anta­go­ni­sti. No, il gioco è tal­mente sco­perto che nes­suno ci è cascato. Nuova Demo­cra­zia ha recu­pe­rato alcuni elet­tori, ma erano voti suoi che a gen­naio si erano presi una libera uscita: non segnano uno spo­sta­mento a destra dell’elettorato.

La sini­stra può aver sba­gliato, essere uscita scon­fitta nel nego­ziato, ma è sem­pre quella che ha tenuto testa ai dik­tat di Bru­xel­les e di Ber­lino, è quella che ha dato bat­ta­glia, men­tre la destra si inchi­nava ser­vile di fronte alla Mer­kel. Cose ben vive nella memo­ria col­let­tiva. Tsi­pras lo sa e per que­sto è apparso ieri rilas­sato e sor­ri­dente al tra­di­zio­nale incon­tro «Un ouzo con il capo» con i gio­vani di Syriza, in un locale alter­na­tivo di Mona­sti­raki, il quar­tiere tra­di­zio­nale sotto l’Acropoli. Nes­suna dichia­ra­zione pre­let­to­rale (la legge lo proi­bi­sce) ma una chiac­chie­rata con i pochi stu­denti rima­sti nel par­tito dopo la defe­zione di tutta l’organizzazione gio­va­nile verso Unità Popo­lare. Domanda: «Pre­si­dente sarà ridotto il ser­vi­zio mili­tare?», ora della durata di 9 mesi. Rispo­sta sor­ri­dente di Tsi­pras: «Andate a difen­dere la patria, sfac­cen­dati». Risata generale.

Il distacco di Syriza rispetto alla destra sarà di almeno quat­tro punti. Me lo con­ferma il diret­tore dell’agenzia di stampa ate­niese Micha­lis Psi­los, oss­ser­va­tore neu­trale ma dispo­sto a scom­met­tere anche in favore di una scon­fitta ancora più umi­liante per la destra. Che in que­sti ultimi giorni ha mostrato il suo volto peg­giore: venerdì era il secondo anni­ver­sa­rio dell’assassinio di Pavlos Fys­sas e il fuh­rer di Alba Dorata Micha­lo­lia­kos ha riven­di­cato pub­bli­ca­mente la «respon­sa­bi­lità poli­tica» per l’uccisione. Alla fine di una delle tante mani­fe­sta­zioni per l’anniversario, un gruppo di anar­chici ha assal­tato a colpi di molo­tov il com­mis­sa­riato di Exar­chia. Sette mino­renni fer­mati sono stati sel­vag­gia­mente pestati dai poli­ziotti. Ecco la destra elle­nica in tutta la sua magni­fi­cenza: pestaggi nei com­mis­sa­riati e gara con i nazi­sti su chi la spara più grossa nella reto­rica xeno­foba. Il lea­der di Nuova Demo­cra­zia Van­ge­lis Mei­ma­ra­kis aveva preso di mira anche l’ex mini­stra dell’Immigrazione Tasia Chri­sto­dou­lo­pou­lou, ren­den­dola un obiet­tivo visi­bile per le squa­dracce naziste.

All’incontro ha fatto la sua com­parsa anche l’ex mini­stro della Cul­tura Nikos Xida­kis, per tanti decenni respon­sa­bile delle pagine cul­tu­rali di Kathi­me­rini. E’ can­di­dato di Syriza ma non è mem­bro del par­tito. Anche lui è otti­mi­sta e mi espone con grande fer­vore la sua con­vin­zione che la sini­stra al governo greco può fare la dif­fe­renza in Europa.

Ad Atene tutti sono con­vinti che i nego­ziati con i cre­di­tori non sono per niente finiti. Il terzo memo­ran­dum, quello sot­to­scritto da Tsi­pras il 13 luglio, non segue alcuna logica eco­no­mica. E’ un testo messo su solo per ragioni poli­ti­che, per umi­liare e dele­git­ti­mare il governo di Atene. Ben pre­sto quindi dovrà essere rivi­sto, se non si vuole con­ti­nuare que­sto logo­rante brac­cio di ferro tra Atene e l’Ue per altri cin­que anni. Se Tsi­pras riu­scirà nel frat­tempo a por­tare avanti le riforme giu­ste, sarà in grado di rine­go­ziare gli aspetti più aspri. Con il van­tag­gio di aver otte­nuto anche una seria ristrut­tu­ra­zione del debito, nei nego­ziati che ini­ziano a ottobre.

Tsi­pras insieme con chi? Le alleanze al governo sono il quiz della vigi­lia. I Greci Indi­pen­denti, che hanno fatto la cam­pa­gna Tv di gran lunga più spi­ri­tosa, rischiano di non supe­rare la soglia del 3% e rima­nere fuori dal Par­la­mento. In que­sto caso, oppure nell’eventualità che nean­che i loro depu­tati siano suf­fi­cienti, ci sarebbe un accordo di mas­sima già pronto. Non è con To Potami, come tutti cre­de­vamo, cioè la for­ma­zione di pla­stica del pre­sen­ta­tore Tv Sta­vros Theo­do­ra­kis, ma con i socia­li­sti del Pasok. Secondo fonti di Syriza, la nuova lea­der Fofi Gen­ni­matà ha rice­vuto forti pres­sioni da alcuni par­titi socia­li­sti euro­pei per­ché pro­ce­desse verso una rifon­da­zione del socia­li­smo elle­nico. In pra­tica, met­tere da parte gli espo­nenti più espo­sti e più chiac­chie­rati, come l’ex lea­der Evan­ge­los Veni­ze­los, per poter col­la­bo­rare con il pre­mier Tsi­pras. Per la Gen­ni­matà, poli­tica ine­sperta e senza grande cari­sma, è un’occasione d’oro per affer­mare in pieno la sua lea­der­ship. Per Tsi­pras l’obiettivo sarebbe di con­di­zio­nare gli equi­li­bri interni del par­tito di cen­tro­si­ni­stra in modo da sgan­ciarlo dall’alleanza subal­terna con la destra libe­ri­sta europea.

E’ que­sta la poli­tica sotto l’ombra del Par­te­none, antica pas­sione dei greci, ora in mano a una sini­stra che aspira a gui­darla e con­di­zio­narla. Dal gen­naio scorso molta acqua è pas­sata sotto i ponti ma non inu­til­mente: «Scon­fitta non è cadere per terra, scon­fitta è non poter rial­zarsi», ha gri­dato Tsi­pras nel suo ultimo comi­zio, para­fra­sando Hum­ph­rey Bogart. Sta­sera si rial­zerà in piedi e get­terà di nuovo il suo guanto di sfida all’Europa dell’austerità.

Un'intervista molto utile per rendersi conto del perché la sconfitta di Tsipras nella trattativa con gli avvoltoi dell'Unione europea non era evitabile, che cosa la vicenda abbia aiutato a comprendere, e quindi come si debba attrezzarsi nel continuare la lotta. S

bilanciamoci.info newsletter, 19 settembre 2015

Per la seconda volta, dopo il referendum di luglio, la Grecia va al voto con la liquidità a singhiozzo.Un inedito strumento di pressione della Banca centrale europea sulla politica greca. Intervista a Marika Frangakis, economista vicina a Syriza e membro del team di consiglieri economici del vicepresidente Dragasakis

“La firma del memorandum è stata una sconfitta, chi sostiene il contrario mente, ma la guerra non è finita e ora bisogna guardare avanti, alla prossima battaglia”. Come andrà è difficile da prevedere, molto dipende dal risultato che uscirà dalle urne greche domenica. Economista molto vicina a Syriza, membro del direttivo dell’Istituto Nicos Poulantzas e del coordinamento dell’EuroMemorandum Group, Marika Frangakis ha vissuto l’esperienza dei 5 mesi di governo sulla prima linea, membro del team di consiglieri economici del vicepresidente Dragasakis. La incontriamo a Roma, dove è arrivata per partecipare a una giornata di approfondimento sulla Grecia organizzata alla Camera da Le Belle Bandiere.

La Grecia va al voto di nuovo sotto il capital control, può spiegarci che cosa significa?

Il capital control è stato introdotto il 28 giugno scorso e si è reso necessario quando la Bce ha deciso di interrompere i prestiti alle banche greche. Per una economia come quella greca, basata sostanzialmente sul cash - basti pensare che prima del capital control appena il 5 per cento del denaro circolava tramite carte di credito o strumenti simili – questo ha creato un enorme problema di liquidità. Gli unici soldi in circolazione erano quelli della Banca nazionale greca e, senza misure di controllo dei capitali appunto, non sarebbero bastati nemmeno per due settimane. Perciò il capital control è stato lo strumento utilizzato per fare accettare l’accordo a Tsipras: se non avesse firmato avrebbe dovuto trovare liquidità altrimenti. Non è stata solo una forma di pressione ma un vero e proprio strangolamento. Le banche sono rimaste chiuse 3 settimane, hanno riaperto subito dopo la firma del memorandum ma il ritorno alla normalità è stato lento e ancora oggi c’è un limite ai prelievi che si possono effettuare dal proprio conto corrente: 60 euro al giorno, con la possibilità di prelevare una volta sola alla settimana. In più non bisogna dimenticare che il capital control era stato introdotto anche a Cipro e, a due anni dall’esplosione della crisi, è ancora in vigore. Temo che in Grecia ci aspetti qualcosa di simile.

Quindi il capital control continua ad essere uno strumento di pressione sulla politica greca?
Certo, la liquidità è un problema. Le banche hanno una liquidità limitata quindi la quantità di denaro in generale che serve all’economia è limitata e questo è un po’ paradossale perché la Grecia non ha un problema di solvibilità, ci sono molti asset di valore nel paese.

Come giudica il ruolo della Bce in questa crisi?

La Banca centrale europea ha mostrato la sua vera faccia. E a dirlo non sono analisti di sinistra ma commentari autorevoli come il professore belga Paul De Grauwe. Il compito della Bce dovrebbe essere quello di salvaguardare la stabilità del sistema monetario e non quello di fare pressione sul governo greco. Non dobbiamo dimenticare che il programma di Quantitative easing varato da Mario Draghi era appena iniziato quando Syriza è arrivata al governo. La tendenza generale era quella di immettere liquidità nel sistema – 60 miliardi circa in prestiti agli istituti di credito – ma quando è stato il turno della Grecia hanno semplicemente detto di no.

Parliamo dell’ipotesi di Grexit: conosceva il piano B di Varoufakis?

Certo, il programma elettorale di Syriza faceva menzione della possibilità di lasciare l’euro come strumento di pressione sui negoziati. Ma molto presto è diventato chiaro che anche i creditori avevano un piano per spingere la Grecia fuori dall’euro. A quel punto è stato chiaro che uscire dall’euro non era una valida alternativa. Aggiungo che una delle difficoltà, in genere poco considerate, è lo scarso appoggio che questo governo ha trovato all’interno dell’apparato dello Stato. Il settore pubblico, a cui il governo in genere si appoggia, in Grecia è, soprattutto ai suoi vertici, strettamente connesso ai partiti mainstream. Quindi apparentemente tutti erano estremamente gentili, ma quando si trattava di richiedere un dossier, dei dati aggintivi o altro i tempi si dilatavano inesorabilmente, tutto diventava impossibile, e alla fine eri costretto a lasciare perdere.

La crisi, anche quella greca, non è stata uguale per tutti. Che conseguenze ha avuto sulla società?

I dati ci dicono che la disoccupazione è cresciuta, come anche la povertà, le disuguaglianze, la distribuzione del reddito e della ricchezza. Questo perché le misure prese per il consolidamento fiscale fin dal 2010 hanno colpito la classe media e la parte più povera della popolazione. Le tasse sono aumentate e i tagli hanno colpito la sanità, l’istruzione, le pensioni, il salario minimo. Quindi tutto è andato nella direzione di un approfondimento delle disuguaglianze. Ai livelli alti gli effetti della crisi sono stati limitati perché quei salari che si aggirano sui 200 mila euro all’anno non sono stati colpiti. Il governo di Tsipras, anche se alla fine è capitolato, ha provato ad alzare le tasse sui redditi più alti, ma la troika era contraria. Era parte del gioco anche questo, un modo per i creditori di chiarire che le èlite come loro non sarebbero state colpite dalle misure, perché le èlite lavorano insieme.

Quale è dunque la lezione della Grecia per parafrasare un suo recente intervento?

Non credo che la sinistra abbia realizzato davvero quanto forti e intransigenti e inflessibili i creditori siano. Tu sei convinto di avere a che fare con persone ragionevoli quindi ti aspetti di riuscire a negoziare qualcosa. Quello che scopri invece è che loro sono disposti a tutto, persino a tollerare un danno economico, piuttosto che concedere qualcosa. Quindi la prima lezione è che se la sinistra vuole combattere l’austerità deve essere consapevole che gli avversari non sono persone ragionevoli ma persone disposte a tutto. La lezione numero due è che le persone in generale devono essere a conoscenza del modo decisamente poco trasparente in cui le istituzioni operano. Infine: bisogna porsi il problema di come influenzare il processo decisionale in un modo o nell’altro. In questo senso anche stare all’opposizione è importante.

La voce autorevole del giovane economista francese si aggiunge alle molte che ricordano l'utilità, per il miglioramento del livello di civiltà dell'Europa ma per la sua stessa sopravvivenza sociale, di accogliere le persone spinte dall'onda dell'esodo.

La Repubblica, 19 settembre 2015

LO SLANCIO di solidarietà in favore dei rifugiati osservato in queste ultime settimane è stato tardivo. Ma quanto meno ha avuto il merito di ricordare agli europei e al mondo una realtà fondamentale. Il nostro continente, nel XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia, e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe giustificato, al contrario, una maggiore apertura.

Facciamo un passo indietro. Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi stessi avevano scatenato.

Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno.

L’Europa, invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere. L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare? Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione, per gli europei, di uscire dalle loro piccole diatribe e dal loro egocentrismo. Aprendosi al mondo, rilanciando l’economia e gli investimenti (case, scuole, infrastrutture), respingendo i rischi deflazionistici, l’Unione Europea potrebbe tornare senza alcun problema ai livelli migratori registrati prima della crisi. L’apertura manifestata dalla Germania al riguardo è una notizia ottima per tutti coloro che si preoccupavano dell’ammuffimento e dell’invecchiamento dell’Europa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che la Germania non ha scelta, tenuto conto della sua bassissima natalità: secondo le ultime proiezioni demografiche dell’Onu, che pure sono basate su un flusso migratorio due volte più elevato in Germania che in Francia nei prossimi decenni, la popolazione tedesca passerebbe dagli 81 milioni odierni a 63 milioni di qui alla fine del secolo, mentre la Francia, nello stesso periodo, passerebbe da 64 a 76 milioni.

Qualcuno potrebbe ricordare anche che il livello di attività economica osservato in Germania è in parte la conseguenza di un gigantesco surplus commerciale, che per definizione non potrebbe essere esteso a tutta l’Europa (perché non ci sarebbe nessuno sul pianeta in grado di assorbire una tale quantità di esportazioni).

Ma questo livello di attività si spiega anche con l’efficacia del modello industriale tedesco, che si fonda in particolare su un fortissimo livello di coinvolgimento dei dipendenti e dei loro rappresentanti (che hanno la metà dei seggi nei consigli d’amministrazione), e a cui faremmo bene a ispirarci.

Soprattutto, l’atteggiamento di apertura verso il mondo manifestato dalla Germania invia un messaggio forte agli ex Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Unione Europea, che non vogliono né bambini né migranti e la cui popolazione messa insieme, sempre secondo l’Onu, dovrebbe passare dagli attuali 95 milioni a poco più di 55 entro la fine del secolo. La Francia deve rallegrarsi di questo atteggiamento della Germania e cogliere l’opportunità per far trionfare in Europa una visione aperta e positiva verso i rifugiati, i migranti e il mondo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Guido Viale, Piero Bevilacqua, Massimo Livi Bacci, ancora Guido Viale, Tonino Guerra e Alfonso Gianni.

Lo scandalo c'è. Ma non è nell'assemblea organizzata dal sindacato e autorizzato dai rappresentanti del governo ai sensi di legge e con il dovuto preavviso, ma nella negligenza nell'informare con metodi adeguati i visitatori. Ma l'occasione è buona per colpire i lavoratori e le loro rappresentanze. Articoli di Arianna Di Genova e Riccardo Chiari.

Il manifesto, 19 settembre 2015


COLOSSEO, LA MACCHINA DEL CONSENSO È INCRINATe
di Arianna Di Genova
Beni culturali. L'assemblea al Colosseo mette in crisi Renzi e Franceschini: ma per fregiarsi della cultura, bisogna sostenerla e pagarla

«Non più cul­tura in ostag­gio dei sin­da­cati», cin­guetta Renzi. «La misura è colma», fa eco Fran­ce­schini. Anche il sin­daco della capi­tale, Igna­zio Marino, sem­bra su di giri: «è uno sfre­gio per il nostro paese», tuona. Fran­ce­schini e Renzi si spal­leg­giano, e men­tre si pro­fes­sano pala­dini del Colos­seo, chiuso per due ore a causa di un’assemblea sin­da­cale già annun­ciata, nei fatti dichia­rano guerra al patri­mo­nio stesso. Per­ché per tenere aperti musei e siti archeo­lo­gici, ren­den­doli quel pre­zioso biglietto da visita che in realtà sono per natu­rale dna, biso­gne­rebbe prima di tutto soste­nerli, trat­tarli dav­vero come beni comuni. Ma quella man­ciata di ore «rubate» ai turi­sti ha tenuto in scacco i vari pro­clami di Renzi&Co sulla cul­tura, dive­nuta una for­mi­da­bile mac­china per spre­mere con­senso. Ha lace­rato una maschera assai comoda da indos­sare, tra­vol­gendo un argo­mento così ama­bil­mente «social». Il ritardo di aper­tura dell’Anfiteatro Fla­vio è rim­bal­zato in rete, un fiume in piena che ha rotto gli argini: i più sma­li­ziati hanno trat­tato la noti­zia con iro­nia, altri con disap­punto, dif­fu­sa­mente il «disa­gio» ha pre­stato il fianco a una deni­gra­zione dei lavo­ra­tori, aiz­zata soprat­tutto dal governo.

A uno sguardo distratto, quella spe­cie di tsu­nami che ha attra­ver­sato il Par­la­mento, scosso di fronte ai turi­sti in fila fuori dal Colos­seo, dovrebbe far spe­rare per il meglio: i depu­tati, dopo anni di olget­tine, feste e cor­ru­zione tra­ver­sale hanno final­mente a cuore qual­cosa che li rende più umani. Il sog­getto, oltre­tutto, è bipar­ti­san. Se il Pd nazio­nale ha gri­dato allo scan­dalo («non si chiude la cul­tura» ) e addi­rit­tura un pasio­na­rio come Pedica si è offerto volon­ta­rio in veste di custode, altri a destra (e pure diversi a sini­stra) ne hanno appro­fit­tato per attac­care il diritto di scio­pero. Che poi era un’assemblea di due ore, come avviene in tutti i musei del mondo senza susci­tare iste­ri­smi: la Natio­nal Gal­lery di Lon­dra ha ser­rato le porte per 50 volte in un anno di fronte alla minac­cia di un pas­sag­gio in mani pri­vate.

Alla fine della gior­nata, è arri­vata la schia­rita: l’annuncio di un nuovo decreto-legge che inse­ri­sca la cul­tura fra i ser­vizi essen­ziali. Bene, ha affer­mato il soprin­ten­dente Pro­spe­retti, fermo restando il fatto che tutto era stato annun­ciato, non si è trat­tato di chiu­sura ma solo di un posti­cipo e avvisi mul­ti­lin­gue erano stati espo­sti sui monumenti.

In vista di una pri­va­tiz­za­zione dei beni cul­tu­rali a cui si punta con ogni ener­gia pos­si­bile – i com­mis­sa­ria­menti sono stati una cata­strofe, quindi una strada non più per­cor­ri­bile – ha preso forma un brac­cio di ferro tra sin­da­cati e governo. Una volta ven­ti­lato lo scio­pero nazio­nale, lo scon­tro è diven­tato epico: i custodi rivol­tosi come tanti Spar­taco che si rifiu­tano di aval­lare il nuovo hash­tag, «la buona cul­tura». Vale la pena, però, fare un passo indie­tro per sca­val­care l’onda emo­tiva e media­tica. E con un po’ di sano distacco, cer­care di capire cosa sia real­mente suc­cesso in una gior­nata poli­tica la cui agenda ad hoc è stata costruita fin dal mat­tino.

I turi­sti, invece della con­sueta fila di almeno un’ora per entrare nel cele­bre monu­mento, ieri ne hanno fatta una un po’ più lunga. Il Colos­seo — come altri siti ita­liani per­ché l’assemblea era nazio­nale — ha aperto più tardi rispetto al con­sueto a causa di un incon­tro fra lavo­ra­tori e sin­da­cati. L’oggetto? La man­canza del paga­mento da parte dello Stato – dal novem­bre scorso, quasi da un anno, del cosid­detto «sala­rio acces­so­rio», quello matu­rato per le aper­ture lun­go­ra­rio, e anche not­turne. Era il frutto di un accordo che avrebbe per­messo di non tenere, appunto, «la cul­tura in ostag­gio», secondo lo slo­gan ren­ziano. Però non è stato ono­rato: i 18,500 dipen­denti del mini­stero aspet­tano le inden­nità acces­so­rie (30% dello sti­pen­dio) da un’infinità di mesi. Oltre­tutto, siti impor­tanti come Uffizi e Pom­pei non sono stati chiusi, per dare un segnale posi­tivo. Palazzo Pitti sì: seb­bene la città di Firenze pul­lu­lasse di turi­sti, nes­suno è corso alle armi. Non sem­pre le richie­ste sin­da­cali sono del tutto con­di­vi­si­bili, ma sta­volta cono­scere le ragioni può aiu­tare a diri­mere la questione.

Il Colos­seo è aperto sette giorni su sette, da marzo a otto­bre (con visite gui­date) anche di notte, eppure sof­fre dell’endemica e cro­nica malat­tia dei nostri beni cul­tu­rali: la man­canza di orga­nico, vuoi stru­men­tale vuoi per difetto di finanze e tagli incon­sulti sus­se­gui­tisi a raf­fica. Se la riforma del Mibact è stata com­piuta e pure strom­baz­zata ai quat­tro venti – com­preso il fiore all’occhiello dei vari diret­tori ita­liani e esteri inse­diati nei «posti chiave», – poco o nulla si è fatto per col­mare quella scon­for­tante carenza di per­so­nale. Per fare un esem­pio: i custodi in ferie, durante l’estate sono stati sosti­tuiti con per­sone che veni­vano pagate 3,5 euro l’ora, get­tate nell’arena senza pre­pa­ra­zione né alcun corso. Riem­pire i buchi, di corsa e con il minor danno pos­si­bile (in ter­mini eco­no­mici), con­ti­nua ad essere la parola d’ordine. Nes­sun sistema strut­tu­rale per ovviare al disa­gio. Il «caso» l’ha creato il governo stesso, facendo la prima mossa, la più grave: non rispet­tando i patti. La cul­tura non c’entra pro­prio niente.

PROTESTE CHIUSE PER DECRETO
di Riccardo Chiari

Musei. Un’assemblea sindacale di due ore dei custodi del Colosseo scatena la vendetta premeditata del governo. Anche M5S contro i lavoratori. La Cgil attacca Renzi. La riunione era annunciata e autorizzata da tempo. Da mesi ai lavoratori non sono pagati gli straordinari. Ma il ministro ’costruisce’ il caso per un obiettivo che piace al governo: limitare il diritto di sciopero

«No alla cul­tura ostag­gio dei sin­da­cati». Pas­sano gli anni, ma il “bomba” Renzi, così come lo ave­vano ben pre­sto indi­vi­duato i com­pa­gni di classe del liceo Dante, pro­se­gue a spa­rarle in libertà. Il pro­blema, per gli ita­liani, è che in un modo o nell’altro il “bomba” è diven­tato pre­si­dente del con­si­glio. Suc­cede così che una nor­male assem­blea sin­da­cale, chie­sta per tempo — una set­ti­mana fa — e rego­lar­mente auto­riz­zata dalla Soprin­ten­denza spe­ciale per il Colos­seo, il Museo Nazio­nale Romano e l’Area Archeo­lo­gica di Roma, diventa casus belli. Di una guerra che ha come obiet­tivo finale il diritto di scio­pero. Da limi­tare, al momento, con un decreto legge deto­nante. Da ammaz­zare, entro breve, con una raf­fica di dise­gni di legge, già all’ordine del giorno della com­mis­sione lavoro del Senato e a quella affari Costi­tu­zio­nali. Fir­mati dai soliti Mau­ri­zio Sac­coni e Pie­tro Ichino.

Bastano le file all’entrata del Colos­seo a creare il caso. Dal nulla, visto che nei prin­ci­pali poli museali ita­liani, quo­ti­dia­na­mente presi d’assalto dai turi­sti, un paio di ore di coda sono fisio­lo­gi­che. Chie­dere per infor­ma­zioni ai visi­ta­tori della Torre pen­dente di Pisa, costretti a pas­sare uno per volta sotto il metal detec­tor per motivi di sicu­rezza. E di due ore e mezzo era la durata dell’assemblea, pun­tual­mente segna­lata sui quo­ti­diani, per­ché la comu­ni­ca­zione uffi­ciale della Soprin­ten­denza era arri­vata per tempo. Anche su alcune agen­zie di stampa. Ma pro­prio una di esse — la prin­ci­pale — di buon mat­tino lan­cia già, con evi­denza, la noti­zia: «Un’assemblea sin­da­cale tiene chiusi i siti archeo­lo­gici più impor­tanti della Capi­tale: Colos­seo, Foro Romano e Pala­tino, Terme di Dio­cle­ziano e Ostia Antica».

Da quel momento prende forma un cre­scendo inar­re­sta­bile. Scatta per prima, ma quando i can­celli del Colos­seo sono già stati ria­perti, la for­zi­sta Lara Comi: «Il paese è bloc­cato dai sin­da­cati». A ruota il capo­gruppo dem di Mon­te­ci­to­rio, Ettore Rosato: «Il Colos­seo chiuso per assem­blea è uno sfre­gio all’impegno di Roma per com­pe­tere con le grandi città euro­pee». Il colpo grosso arriva dopo mez­zo­giorno: «La misura è colma», detta il mini­stro Dario Fran­ce­schini, pronto ad annun­ciare che, in accordo con Renzi, pro­porrà al con­si­glio dei mini­stri di inse­rire musei e luo­ghi della cul­tura nei ser­vizi pub­blici essenziali.

L’idea non è nuova. Renzi & Fran­ce­schini ci ave­vano già pro­vato a luglio, quando ave­vano ven­duto come “sel­vag­gia” un’altra assem­blea indetta secondo le pro­ce­dure di legge, a Pom­pei. Ma è pro­prio la legge, peral­tro non certo per­mis­siva, ad essere nel mirino del governo e dei suoi sodali. Fra que­sti ultimi spicca Sac­coni: «Roma, caos turi­sti: ora fare legge su scio­pero e diritti sin­da­cali per pro­teg­gere utenti beni pub­blici». A dar­gli man­forte Ange­lino Alfano: «Appro­viamo subito le legge di Sac­coni su rego­la­zione scio­pero a tutela utenti beni pub­blici. Ieri è ini­ziato l’iter al Senato».

Chi non crede all’evidenza del pen­siero unico avrà da pen­sare guar­dando il “sin­daco anti­fa­sci­sta” Igna­zio Marino che si fa ripren­dere da una tele­ca­mera men­tre dice: «Sono com­ple­ta­mente d’accordo con Fran­ce­schini». Non fa una bella figura lo staff di Laura Bol­drini, che le per­mette di dire: “È giu­sto svol­gere l’attività sin­da­cale, ma non si può senza pre­av­viso». Deso­lanti i 5 Stelle: «Dopo Pom­pei, suc­cede di nuovo e que­sta volta a Roma». Unica voce fuori dal coro Paolo Fer­rero di Rifon­da­zione: «Sono inde­centi gli attac­chi ai lavo­ra­tori del Colos­seo e dei Fori. Fran­ce­schini dovrebbe occu­parsi piut­to­sto dello stato in cui versa il nostro patri­mo­nio arti­stico e cul­tu­rale, che cade a pezzi. Sono le risorse che man­cano e i tagli alla cul­tura che dan­neg­giano il turi­smo, non l’assemblea dei lavoratori».

È alli­bito Clau­dio Meloni, coor­di­na­tore per la Fp Cgil del Mibact: «Non è pos­si­bile che il mini­stro Fran­ce­schini non sapesse che le assem­blee avreb­bero potuto com­por­tare il rischio di aper­ture ritar­date. A Roma l’assemblea è stata chie­sta rego­lar­mente l’11 set­tem­bre e rego­lar­mente auto­riz­zata dal soprin­ten­dente, con largo anti­cipo. Vor­rei inol­tre ricor­dare al mini­stro che i beni cul­tu­rali già stanno nella legge che rego­la­menta i ser­vizi pub­blici essenziali».

Tutto inu­tile. A sera, finito il con­si­glio dei mini­stri, l’ineffabile Fran­ce­schini annun­cia: «Il decreto legato alla vicenda del Colos­seo pre­vede che sia aggiunta ai ser­vizi pub­blici essen­ziali anche l’apertura dei musei». Inu­tile anche lo sguardo fuori dai con­fini patri: «Ini­zia­tive ana­lo­ghe avven­gono in tutti i paesi d’Europa — ricor­dano Meloni, Giu­liana Gui­doni della Cisl Fp ed Enzo Feli­ciani della Uil Pa — ricor­diamo il caso dei lavo­ra­tori della Natio­nal Gal­lery di Lon­dra, in mobi­li­ta­zione da diversi mesi con­tro la pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi, o i lavo­ra­tori della Tour Eif­fel a Parigi, che l’anno scorso hanno chiuso per ben tre giorni il monu­mento più visi­tato di Fran­cia. Senza che a nes­suno degli espo­nenti poli­tici o dei media di que­sti paesi sia venuto in mente di met­tere in discus­sione i diritti fon­da­men­tali dei lavoratori»

Ignoranza o menzogna? probabilmente il saldo intreccio tra l'una e l'altra. Ma la questione è sempre la stessa, tragica per chi è nato qui: agli italiani piace cosí.

Il Fatto quotidiano, 18 settembre 2015

Lo sapevate? “Questa riforma è attesa da 70 anni”. L’ha detto Matteo Renzi, che non sembra ma è il presidente del Consiglio e il segretario del Pd, parlando della legge costituzionale in conferenza stampa con il premier lussemburghese Xavier Bettel, che immaginiamo interessatissimo al tema. E l’aveva già detto sempre ieri Maria Elena Boschi, che non sembra ma è il ministro delle Riforme istituzionali, in una spassosa intervista al Corriere: “Sono 70 anni che stiamo aspettando la fine del bicameralismo paritario”.

Chissà quali libri hanno letto o quali sostanze hanno assunto i due somari che tengono in ostaggio la Costituzione, per farsi l’idea che 70 anni fa, cioè nel 1945, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo e dalla guerra civile, gli italiani scendessero in strada scandendo slogan contro il bicameralismo paritario e contro il resto della Costituzione due anni prima che questa fosse scritta. Forse non guasterebbe la lettura di un manuale di storia, anche in formato Bignami, o qualche seduta in una comunità di recupero, per insegnare ai due padri ricostituenti qualche rudimento di cultura generale, utilissimo per colmare le loro lacune e risparmiare loro altre scemenze.

Il bicameralismo paritario – Camera e Senato con regole elettorali diverse, ma con funzioni analoghe – fu introdotto dalla Carta approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata cinque giorni dopo dal capo dello Stato ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Cioè 67 anni e mezzo fa. E si può serenamente escludere che negli anni successivi qualcuno invocasse una riforma della Costituzione appena varata.

Fu negli anni 70-80 che i partiti cominciarono a scaricare sul Parlamento le colpe della loro inconcludenza, corruzione e rissosità, spacciando alla gente l’illusione che eliminando il Senato o privandolo del voto di fiducia l’Italia sarebbe diventata una democrazia efficiente. Ma nessuno abboccò: l’opinione pubblica seguitò a fregarsene bellamente e nessuno versò una sola lacrima dinanzi al naufragio delle orribili riforme costituzionali tentate dalle varie commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema-Berlusconi). Anche perché i dati parlano chiaro: se certe leggi impiegano tanto a uscire approvate dal Parlamento non è perché ci siano due Camere anziché una e mezza, ma perché da sempre i partiti litigano fra loro, o più spesso al proprio interno.

Quando invece le maggioranze vanno d’accordo, i tempi sono rapidissimi. In media, fra Camera e Senato, 53 giorni per le leggi ordinarie, 46 per i decreti e 88 per le Finanziarie. Solo la loro misera penuria di argomenti può portare Renzi & Boschi a gabellare la loro schiforma per un evento epocale “atteso da 70 anni”. Ma atteso da chi? Secondo l’ul timo sondaggio Ipsos per il Corriere, solo il 3% degli italiani conosce la riforma del Senato “nel dettaglio”, un altro 28% “a grandi linee” e tutti gli altri – la stragrande maggioranza – non ne sanno nulla, per dire con quanta ansia la attendono da 70 anni.

L’unica cosa che tutti hanno capito è che il Senato non sarà più eletto, infatti il 73% vuole continuare a eleggerlo, in piena sintonia con la minoranza Pd e i partiti d’opposizione. Evidentemente Renzi & Boschi frequentano gli unici due o tre squilibrati che non vedono l’ora di non eleggere più i senatori per farli nominare da quelle associazioni per delinquere che sono quasi tutti i consigli regionali, con l’aggiunta dell’immunità parlamentare.

Eppure la bella addormentata nei Boschi delira, sempre sul Corriere, di un non meglio precisato “impegno da mantenere con i cittadini”: e quando mai ha preso quell’impegno, e con quali cittadini, visto che il suo partito arrivò primo alle ultime elezioni del 2013 promettendo di far eleggere direttamente tutti i parlamentari dopo dieci anni di Porcellum? Poi vaneggia di una fantomatica “esigenza di rispettare la data del 15 ottobre” (fissata da chi? e perché non il 15 novembre, o dicembre, o gennaio?) dinanzi all’“Europa” che “ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme”: come se la flessibilità sul rapporto deficit-Pil c’entrasse qualcosa col Senato.

Alla fine però la Boschi confessa: “Faccio sogni molto più belli che quello di fare il premier”. Ecco svelato l’arcano. Le boiate che dice e purtroppo scrive nella nuova Costituzione deve avergliele dettate in sogno qualcuno che a noi pare di conoscere: crapa pelata, mascella volitiva, mento e labbro inferiore sporgenti. La trovata delle riforme attese da 70 anni può venire soltanto da lui. Fu proprio 70 anni fa che l’Italia abolì il bicameralismo imperfetto creato da Mussolini: cioè la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (membri non eletti, ma nominati dal Gran Consiglio del Fascismo presieduto dal Duce, dal Consiglio nazionale del Partito fascista presieduto dal Duce e dal Consiglio nazionale delle Corporazioni presieduto dal Duce) e il Senato del Regno (membri non eletti, ma nominati a vita dal Re su input del governo). Due Camere di nominati con funzioni diverse, ma relegate a un ruolo ancillare del governo.

Mutatis mutandis, è quello che ci aspetta con la Camera dei nominati (i capilista bloccati dell’Italicum) e il Senato dei nominati (i senatori paracadutati dalle Regioni). Manca solo l’articolo 2 della legge fascistissima 19.1.1939 n. 129: “Il Senato del Regno e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Ma questo, oggi, è sottinteso.

Oltre ogni decenza. Per salvare il governo (e le loro poltrone) votano a favore dei razzisti. «Solo 10 votano contro il leghista, anche Sel si divide. Guerini chiama l’ex ministro. L’accusa di Manconi»La Repubblica, 18 settembre 2015

C’è chi ha scelto la ragion di Stato, chi ha votato al buio senza capire molto e chi invece aveva capito benissimo. Dopo aver salvato Roberto Calderoli, è l’imbarazzo a tenere assieme i senatori del Pd. Solo dieci - il 9% del gruppo, approssimando per eccesso - hanno giudicato razzismo quell’”orango” scagliato contro Cécile Kyenge. Gli altri dem - e mezza Sel- hanno bloccato l’azione della Procura e frustrato l’indignazione dell’ex ministra. Che infatti si lamenta: «Non si tratta di ricevere una chiamata da Renzi, che non c’è stata. Io mi aspetto dal partito una parola chiara per capire qual è la linea su questa vicenda».

C’è sconcerto. Nella base, in Rete, tra i militanti. Anche l’Unità pubblica in prima pagina un editoriale dell’eurodeputata, dal titolo inequivocabile: “Discriminazione razziale”. Il resto lo fanno i tabulati, che non mentono: ottantatre senatori del partito del premier (e naturalmente l’intero centrodestra) pigiano il pulsante verde: “Aggravante per odio razziale? Insindacabile”.

Solo dieci senatori della minoranza (più sei astenuti) la pensano diversamente. Tra loro Federico Fornaro e Doris Lo Moro, Felice Casson e Stefania Pezzopane. E a sorpresa lo storico garantista Luigi Manconi: «Ho votato sempre a favore della insindacabilità, ma stavolta no». Razzismo, e anche oltre: «La linea di confine tra la critica politica e la diffamazione con una simile aggravante - premette - non è lineare. Nonostante io rifiuti radicalmente il concetto di reato d’opinione, in questo caso ho valutato che quella linea di confine fosse individuabile e fosse stata ampiamente e violentemente superata. Le parole di Calderoli degenerano in scherno e denigrazione personale, oltretutto con un effetto discriminatorio per ragioni di appartenenza etnica ».

Non è così per tutti, però. Non per i renziani di Palazzo Madama - nessuno escluso - e neanche per alcuni esponenti della sinistra del Pd, come il regista dei bersaniani Maurizio Migliavacca e la capogruppo dei vendoliani Loredana De Petris. L’anomalia si annida soprattutto in quel voto disgiunto. «Che senso ha?», non si dà pace Dario Stefàno, che presiede la giunta per le immunità e sta studiando a fondo le carte. Corradino Mineo, poi, sceglie l’insindacabilità anche per la diffamazione, mentre contro Calderoli si esprimono i grillini e tre ex leghisti, oggi tosiani, capitanati da Patrizia Bisinella.

E la Kyenge? Nella prossima udienza il suo legale chiederà ai giudici di portare il caso all’attenzione della Corte costituzionale. Non basta una lunga telefonata di Lorenzo Guerini a chiudere l’incidente. Sulla permanenza del Pd, però, l’ex ministra frena: «Sono triste e amareggiata, ma non lascio il Pd perchè è casa mia. È chi ha sancito con il voto di ieri che il razzismo non è reato a doversi interrogare. Qualcosa di nemmeno concepibile in Europa». L’eurodeputata ha applausi solo per la base dem: «Mi hanno espresso la loro vicinanza con grandissimo affetto ».

Di certo non dimostra la stessa comprensione il leghista Davide Boni. Come se nulla fosse accaduto, sceglie Twitter per ironizzare sul possibile addio di Kyenge al Pd. E scomoda addirittura Luigi Tenco: «Ciao Amore, ciao Amore, ciao Amore, ciao...». Alla faccia di Manconi, che citando Karl Popper poco prima ricordava: «Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti».

L’eurodeputata: “Sono amareggiata ma resto, il Pd è casa mia. Altri devono interrogarsi”

SALVATO

Il Senato ha votato per l’insindacabilità delle parole di Roberto Calderoli

«». Lavoce.info

Un passo per cambiare Dublino
Alcuni giorni fa, la Germania ha adottato una decisione generosa riguardo al problema dei profughi, offrendosi di dare asilo ai siriani, in deroga al regolamento di Dublino, in base al quale la responsabilità spetterebbe allo stato membro di primo ingresso nel territorio Ue. A seguito di questa scelta, il governo tedesco si è trovato a fronteggiare un flusso assai meno controllabile di quanto immaginato. Ha quindi fatto una temporanea marcia indietro, richiamando gli altri paesi membri alla propria responsabilità in relazione alla ripartizione dei profughi.È possibile che il risultato netto di tutta l’operazione sarà un semplice ritorno alla soluzione (insoddisfacente) concordata a fine luglio: non una ripartizione “obbligatoria” in base alle capacità economiche e agli sforzi già sostenuti da ciascuno stato, come originariamente proposto dalla Commissione Ue, ma la ricollocazione di poche decine di migliaia di profughi, a parziale sgravio di Italia e Grecia, sulla base della (scarsa) disponibilità dimostrata da alcuni stati soltanto.

In questo caso, non vi sarà alcuna variazione sostanziale del meccanismo imposto dal regolamento Dublino e il carico continuerà a gravare sui paesi membri di primo ingresso, senza che gli altri vedano motivi per abbandonare il loro atteggiamento defilato. Qualora invece si arrivi ad approvare la soluzione proposta dalla Commissione (con una vera ripartizione degli oneri) e il flusso conservi i ritmi attuali, è possibile che, nel volgere di un paio d’anni, si possa vedere una revisione della normativa Ue, col mantenimento di un diritto d’asilo esigibile senza limiti numerici per i soli soggetti personalmente perseguitati (i rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951). Per quanti fuggano da una guerra, oggi titolari di un pieno diritto alla protezione sussidiaria non appena abbiano messo piede nel territorio della Ue, resterebbe lo strumento della protezione temporanea, concessa entro limiti fissati volta per volta.

Rifugiati giovani e determinati
Questa soluzione avrebbe il vantaggio di rendere prevedibile lo sforzo richiesto, togliendo argomenti a coloro che paventano invasioni incontrollate. Lo svantaggio sarebbe invece rappresentato dal rischio di un approccio poco generoso. Per evitare che l’atteggiamento degli Stati più tirchi paralizzi l’intera Ue, si dovrebbe accettare che l’Unione proceda a diverse velocità, lasciando che ciascuno stato stabilisca da sé il limite numerico che lo riguarda (la cosa è già prevista dall’articolo 25 della direttiva 2001/55/Ce). Il successo di un approccio generoso servirebbe a mandare un segnale a quei paesi membri che lo sono di meno. Ma è credibile che la generosità si traduca in un successo per lo stato che la pratica? Se guardiamo alla straordinaria capacità, dimostrata da moltissimi profughi, di affrontare fatiche e pericoli, questo è possibile: si tratta di favorire l’inserimento sociale e lavorativo di una popolazione giovane e fortemente motivata. E un’economia vecchia e spenta come quella europea non potrebbe che giovarsi di questa iniezione di motivazione.

Un ostacolo potrebbe essere costituito da un atteggiamento eccessivamente assistenziale, che si preoccupi solo di fornire alloggio e sostentamento ai profughi, con grandi oneri per le finanze pubbliche e scarsi incentivi all’inserimento lavorativo per i beneficiari. Per aggirarlo si dovrebbe superare il tradizionale timore di esporre l’istituto dell’asilo a un uso strumentale da parte di migranti economici, oggi oggetto di uno stigma generalizzato quanto ipocrita (non è forse una submigrazione economica quella che spinge i profughi siriani a muoversi da paesi di primo rifugio, nei quali non corrono più pericolo immediato, verso la Germania o la Francia?). Si dovrebbe anzi favorire in ogni modo l’accesso al lavoro dei richiedenti asilo (in questa direzione si muove il decreto legislativo 142/2015, appena pubblicato), in modo che i loro mezzi di sostentamento provengano, in misura prevalente, proprio dalla retribuzione di prestazioni lavorative.
Gli stati che soffrono di alti livelli di disoccupazione interna incontrerebbero naturalmente maggiori difficoltà nel percorrere questa strada. Ugualmente, essendo questi stati gli stessi nei quali in genere più fragili sono le strutture di welfare a disposizione dei cittadini più deboli, esistono ampi margini per far emergere una domanda di servizi alla persona, oggi inespressa, da parte di fasce della popolazione bisognose, non in grado di remunerarli: lo stato potrebbe allora fungere da sponsor per queste fasce, finanziando i servizi necessari.
Se si giungesse a constatare che l’afflusso di stranieri fortemente determinati a migliorare attivamente la propria condizione di vita può costituire un fattore di sviluppo economico per l’Unione Europea, si potrebbe provare a vedere sotto nuova, più coraggiosa, luce l’immigrazione puramente economica e a estendere all’immigrazione straniera molti dei meccanismi che oggi regolano quella comunitaria.
«Renzi con­ti­nua a pre­fe­rire l’aggiramento dell’ostacolo. La pres­sione sul pre­si­dente del senato per­ché non ammetta gli emen­da­menti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei sena­tori è con­ti­nua».

Il manifesto, 18 settembre 2015

Renzi avverte: se il presidente apre agli emendamenti l’articolo 2 della legge di revisione costituzionale allora sapremo come regolarci. E la minaccia della fiducia o l'anticipo di una mossa per prendere in contropiede i dissidenti Pd, il cui voto in senato si conferma decisivo

Nel primo giorno di dibat­tito gene­rale sulla riforma costi­tu­zio­nale, il governo con­qui­sta 179 voti di sena­tori con­trari alle que­stioni pre­giu­di­ziali che avreb­bero affos­sato il dise­gno di legge. La mag­gio­ranza ren­ziana si ral­le­gra: i numeri per vin­cere il brac­cio di ferro sulla Costi­tu­zione sem­brano esserci. Ma nel voto sulle pre­giu­di­ziali, così come nel voto di mer­co­ledì sul calen­da­rio dei lavori d’aula, la mino­ranza Pd ha deciso di seguire la disci­plina di par­tito: se invece i trenta ber­sa­niani, cuper­liani e bin­diani con­fer­mas­sero l’intenzione di votare con­tro l’articolo 2, nean­che il risul­tato di ieri mette al riparo il governo da una cla­mo­rosa scon­fitta. La cam­pa­gna acqui­sti dei sena­tori di cen­tro­de­stra — con­tro la quale ieri si è alzata la voce del sena­tore Sci­li­poti, sim­bolo di tutti i tra­sfor­mi­smi — mette Renzi nelle con­di­zioni di ten­tare il colpo. Ma a deci­derne il risul­tato sarà ancora una volta la fronda del Pd. Reggerà?

Renzi con­ti­nua a pre­fe­rire l’aggiramento dell’ostacolo. La pres­sione sul pre­si­dente del senato per­ché non ammetta gli emen­da­menti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei sena­tori è con­ti­nua. Ieri due gior­nali — Stampa e Cor­riere — hanno rife­rito di un «piano B» di Renzi: can­cel­lare del tutto il senato (man­te­nendo però la legge iper mag­gio­ri­ta­ria per la camera) e tra­sfor­mare palazzo Madama in un museo. Palazzo Chigi ha smen­tito l’indiscrezione «vol­gare e assurda», Renzi non l’avrebbe mai «pen­sata né rife­rita». Grasso non ha cre­duto alla smen­tita e in pub­blico ha attac­cato il metodo di «far tra­pe­lare la pro­spet­tiva che si possa addi­rit­tura fare a meno delle isti­tu­zioni rele­gan­dole in un museo». «Ora Grasso deve deci­dere», ripete lo stuolo dei ren­ziani, che anzi spie­gano la mossa di sal­tare la com­mis­sione con l’indecisione del pre­si­dente del senato: aveva detto che avrebbe fatto la sua scelta solo una volta in aula, bene eccoci in aula. «Sono giorni con­vulsi e i pros­simi temo che saranno anche peg­gio», pre­vede Grasso. Renzi lo sfida aper­ta­mente: «Se ria­prirà la que­stione dell’articolo 2 ascol­te­remo le moti­va­zioni e deci­de­remo di conseguenza».

Può essere la minac­cia della que­stione di fidu­cia sull’articolo 2, con­tro tutti gli emen­da­menti «peri­co­losi» sul senato elet­tivo. Un azzardo che il sot­to­se­gre­ta­rio Piz­zetti ha cate­go­ri­ca­mente esclusa e un po’ tutti riten­gono uno strappo ecces­sivo e impro­ba­bile — ma è quello che si pen­sava prima che il governo met­tesse la fidu­cia sulle leggi delega e sulla riforma elet­to­rale. Oppure signi­fica che se Grasso deci­derà di aprire agli emen­da­menti anche qual­che altra parte dell’articolo 2 oltre al comma 5 che è stato toc­cato alla camera, Renzi cer­cherà di addo­me­sti­care la deci­sione pro­po­nendo una modi­fica che rin­vii la deci­sione sull’indicazione dei senatori-consiglieri alla legge ordi­na­ria. Si potrebbe inse­rire al comma suc­ces­sivo, il 6, dove attual­mente c’è la pre­vi­sione assai fumosa che i seggi sono attri­buiti regione per regione «in ragione dei voti espressi e della com­po­si­zione di cia­scun Consiglio».

Una qual­che aper­tura del pre­mier alle richie­ste delle oppo­si­zioni è ine­vi­ta­bile, pur­ché non sia sul cuore del dis­senso, l’elettività diretta dei sena­tori. Ser­virà ad addol­cire il pas­sag­gio con la mag­gio­ranza, o l’uscita dall’aula, di alcuni deci­sivi sena­tori di mino­ranza. Con­ces­sioni saranno fatte sulle com­pe­tenze del senato (allar­gate) e sull’elezione degli organi di garan­zia, Corte costi­tu­zio­nale e pre­si­dente della Repub­blica (la mino­ranza Pd ha i suoi emen­da­menti in mate­ria). Per il resto Renzi si pre­para al refe­ren­dum con­fer­ma­tivo pre­vi­sto per le leggi di revi­sione costi­tu­zio­nale. Ieri ha annun­ciato l’ennesimo calen­da­rio — let­tura con­forme della camera sulla riforma a gen­naio e refe­ren­dum in estate o autunno — esa­ge­rando in otti­mi­smo. Per­ché se la camera appro­vasse effet­ti­va­mente a gen­naio senza toc­care una vir­gola del testo del senato, la seconda let­tura sarebbe pos­si­bile solo dopo tre mesi, al più pre­sto in aprile, e da allora andreb­bero cal­co­lati i sette mesi neces­sari per il refe­ren­dum: al più pre­sto si fini­rebbe a novem­bre 2016.

Quanto ai temi della cam­pa­gna per il Sì, anche su que­sto Renzi ha for­nito un’anticipazione: «Ai cit­ta­dini basta dire che con la riforma ci sono meno poli­tici, le regioni hanno poteri più chiari, i con­si­glieri regio­nali pren­dono meno e il pro­ce­di­mento di legge è più sem­plice». Nulla di vero, dun­que: le pro­po­ste di legge alter­na­tive che il pre­mier ha rifiu­tato ridu­ce­vano ulte­rior­mente il numero dei par­la­men­tari, tagliando anche i depu­tati; le regioni avranno meno poteri; il rispar­mio che doveva essere di un miliardo oscilla secondo i cal­coli tra i 45 e i 90 milioni; il pro­ce­di­mento legi­sla­tivo pre­vi­sto dall’articolo 70 della Costi­tu­zione prima era descritto in una sola riga, adesso in più di cinquanta.
«Italia. Dopo le polemiche sul "piano B" ora tutti fanno quadrato su Syriza. Anche Fassina: "Una sconfitta sarebbe la restaurazione"».

Il manifesto, 18 settembre 2015

Il voto greco si avvi­cina, i son­daggi pre­fi­gu­rano sce­nari cupi e la sini­stra ita­liana, la sinistra-sinistra, fa qua­drato intorno al lea­der greco. A Roma mer­co­ledì scorso eco­no­mi­sti e poli­tici della fami­glia rossa (ma anche di quella verde) si erano riu­niti per un con­fronto con la greca Marika Fran­ga­kis, invi­tata dall’associazione «Le belle ban­diere» e il gruppo di Sbi­lan­cia­moci a discu­tere del futuro dell’economia di Atene dopo la firma del Memo­ran­dum e alla vigi­lia di un pro­ba­bile governo di coa­li­zione.

Dibat­tito franco e aperto, come si usa dire in que­sti casi: infatti le distanze fra la dire­zione obbli­gata imboc­cata dal governo di Syriza e l’ormai famoso «piano B» per un’uscita coo­pe­ra­tiva dall’euro (fir­mato Varou­fa­kis, Mélen­chon, Lafon­taine e Fas­sina) si erano misu­rate in maniera anche ruvida. All’appuntamento, che si svol­geva in una sala di Mon­te­ci­to­rio, ad un certo punto è com­parso anche Gianni Cuperlo, lea­der della cor­rente Sini­stra­dem del Pd che alle scorse ele­zioni aveva tifato per Tsi­pras, «spe­ranza e oppor­tu­nità per l’Europa». Non c’era invece Pippo Civati ma solo per­ché in que­sti giorni è impe­gnato nella rac­colta di firme su otto refe­ren­dum sui quali invece quasi tutto il resto della com­pa­gnia si è disimpegnato.

Ieri però sono tor­nati tutti uniti. A tifare per Tsi­pras. Mar­ciando divisi, per non per­dere le abi­tu­dini della casa. «La ricon­ferma di Syriza e ad Ale­xis Tsi­pras può far sì che non si spen­gano le spe­ranze dei pro­gres­si­sti per un cam­bia­mento pro­fondo delle poli­ti­che euro­pee. La loro scon­fitta segne­rebbe invece un bru­sco passo indie­tro ed un appiat­ti­mento com­pleto sulle poli­ti­che di auste­rità», dice un nuovo appello fir­mato da Civati, Elly Schlein e Ser­gio Cof­fe­rati (euro­par­la­men­tari ex Pd), Fer­rero (Prc), Forenza e Mal­tese (due dei tre euro­par­la­men­tari eletti con la lista Altra Europa per Tsi­pras, la terza è Bar­bara Spi­nelli che però a mag­gio ha abban­do­nato la lista ed è rima­sta a Bru­xel­les da indi­pen­dente), Fra­to­ianni e Ven­dola (Sel) e dai due socio­logi Luciano Gal­lino e Marco Revelli.

Dopo il nego­ziato dif­fi­cile, l’isolamento, la «rea­zione puni­tiva delle forze con­ser­va­trici», scri­vono, Tsi­pras ha dovuto accet­tare il Memo­ran­dum «per evi­tare con­se­guenze ancora più gravi al popolo greco»; oggi una sua scon­fitta «sarebbe una vit­to­ria per le forze con­ser­va­trici che hanno impo­sto misure duris­sime per la popo­la­zione greca».

Stessa musica, o quasi, anche da Ste­fano Fas­sina. Che resta con­vinto che il memo­ran­dum sia «inso­ste­ni­bile» ma sa che il risul­tato di dome­nica farà comun­que la dif­fe­renza: «La vit­to­ria di Nuova demo­cra­zia com­pro­met­te­rebbe anche l’offensiva anti-corruzione e anti-evasione avviata dal governo Tsi­pras e met­te­rebbe a rischio gli inter­venti uma­ni­tari intro­dotti. Il popolo greco con il voto può evi­tare la restau­ra­zione», è la conclusione.

La ’bri­gata Kali­mera’ par­tirà anche sta­volta. Ma non sarà né affol­lata né spen­sie­rata come l’ultima volta. In piazza Syn­tagma, venerdì al comi­zio Tsi­pras, ci sarà di nuovo Revelli con la squa­dra dell’Altra Europa, Raf­faella Bolini dell’Arci, Forenza e Fer­rero e l’ex 5 Stelle Fran­ce­sco Cam­pa­nella. Anche dal resto d’Europa sta­volta arri­ve­ranno molti meno mili­tanti. E con molte ansie in più.

Ieri per defi­nirsi papa Fran­ce­sco ha usato una parola proi­bita e quasi temuta, in ambito eccle­siale: «Per­do­na­temi se sono un po’ fem­mi­ni­sta». Par­lava a brac­cio a un’udienza ai gio­vani con­sa­crati, e voleva rin­gra­ziare «la testi­mo­nianza delle donne con­sa­crate».

Due giorni fa invece, nel con­clu­dere una set­ti­mana dedi­cata alla fami­glia, ha demo­lito un mito tenace, Eva e il suo ser­pente che cor­rom­pono Adamo, l’uomo: «Esi­stono molti luo­ghi comuni, alcuni anche offen­sivi, sulla donna ten­ta­trice» ha detto nell’omelia.

In pas­sato aveva già par­lato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma per­ché hai man­giato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orien­ta­mento, una dire­zione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pon­ti­fi­cato papa Ber­go­glio ha dedi­cato alle donne?

In verità non è facile orien­tarsi, e que­sto è sor­pren­dente, in un pon­te­fice che mostra una straor­di­na­ria chia­rezza di pre­di­ca­zione, di pasto­rale e di politica.

Nell’omelia di due giorni fa la rifles­sione in realtà non era col­lo­quiale, come altre sue bat­tute. «Invece c’è spa­zio per una teo­lo­gia della donna che sia all’altezza di que­sta gene­ra­zione di Dio». Un pas­sag­gio signi­fi­ca­tivo, anche se non si può dimen­ti­care che da anni tante teo­lo­ghe lavo­rano in que­sta dire­zione, con risul­tati di altis­sima qualità.

Come impor­tante è stata una con­si­de­ra­zione di qual­che tempo fa, quando ha detto che nulla può giu­sti­fi­care la dispa­rità di retri­bu­zione tra uomo e donna. «Per­ché si dà per scon­tato che le donne deb­bano gua­da­gnare di meno degli uomini? Si tratta di maschi­li­smo», ha com­men­tato senza tanti di giri di parole, applau­dito dalla folla di San Pietro.

Non c’è mate­riale suf­fi­ciente per deli­neare una “dot­trina” del papa sulle donne, forse, ma abba­stanza per accor­gersi di un cam­bia­mento pro­fondo, che più che sui prin­cipi, si muove sui com­por­ta­menti, sul senso comune, sulla pra­tica quotidiana.

Certo, biso­gna essere cat­to­lici, pra­ti­canti o per­lo­meno for­mati in quel con­te­sto, per “sen­tire” quanto que­ste parole siano forti, incon­grue, fuori da qua­lun­que tra­di­zione pre­ce­dente. Papa Fran­ce­sco non è magni­lo­quente, non pro­clama l’elogio del «genio fem­mi­nile» come fece Woi­tyla, ma ha deciso che con il Giu­bi­leo si «per­doni» il pec­cato di aborto. Anche que­sta deci­sione ha fatto molto discu­tere. A molte — e anche molti laici — è sem­brata un’ insop­por­ta­bile offesa, la riaf­fer­ma­zione di un prin­ci­pio. È com­pren­si­bile, ma è evi­dente che si tratta del con­tra­rio. Si tratta della deru­bri­ca­zione della colpa asso­luta, demo­niz­zata, e imper­do­na­bile che ha agi­tato non solo lo stretto ambito del mondo cat­to­lico in que­sti ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, ome­lia dopo ome­lia, ven­gono ridotti — deco­struiti per essere pre­cisa — tutti gli ele­menti che fanno della donna un essere spe­ciale e peri­co­loso. In una visione non solo cat­to­lica, non solo teo­lo­gica, e non solo mitica, su un ter­reno in cui ha senso richia­marsi alle radici cri­stiane dell’Europa e del mondo occi­den­tale, per­ché è que­sta visione che ancora ne nutre l’immaginario.

Anche nella rela­zione con le donne papa Fran­ce­sco ha por­tato la forza di una lin­guag­gio quo­ti­diano, sem­plice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evi­dente, da quello che dice e che fa, che cono­sce la vita, il mondo. Cono­sce gli uomini e le donne. È suf­fi­ciente a scio­gliere la dif­fi­denza, se non l’ostilità delle donne nei suoi con­fronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delu­sione, impos­si­bile com­pren­dere il giu­di­zio duris­simo da lui espresso sulle «teo­rie del gen­der», che ha defi­nito «espres­sione di una fru­stra­zione», una forma di «colo­niz­za­zione ideologica».

Il 4 otto­bre comin­cia il Sinodo ordi­na­rio, quello che dovrà ope­rare le scelte pasto­rali sulla fami­glia. Divor­ziati, omo­ses­suali sono i prin­ci­pali temi sul tap­peto. Nulla che riguardi le donne, nep­pure la con­trac­ce­zione è stata discussa, l’anno scorso.

Papa Fran­ce­sco è un uomo corag­gioso. Abbiamo ammi­rato tutti la forza con cui pro­pone alla sua Chiesa una pra­tica che cor­ri­sponda agli inse­gna­menti del Van­gelo. L’accoglienza, met­tere a dispo­si­zione ciò che si pos­siede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chia­mano comu­ni­sta». Viene da pen­sare che dichia­rarsi «un po’ fem­mi­ni­sta» in un’istituzione che da due mil­lenni è fatta da soli uomini, sia per­fino più pericoloso.

». Il suo merito è stato di dimostrare che la soluzione di destra, sulla quale il Labour si era sdraiato, aveva portato dentro la crisi, non fuori.

La Repubblica, 16 settembre 2015

JEREMY Corbyn, da tempo dissidente della sinistra britannica, ha riportato una sbalorditiva vittoria nelle votazioni per la leadership del partito laburista. Per gli opinionisti politici questa scelta avrà esito nefasto sulle prospettive elettorali del Labour; potrebbero aver ragione, anche se non sono l’unico a domandarsi come possano questi commentatori che non hanno saputo prevedere il fenomeno Corbyn mostrare tanta sicurezza nell’analisi di ciò che implica.

Ma parliamo dell’implosione dei moderati del Labour. Sulla politica economica, in particolare, colpisce il fatto che tutti i candidati in lizza, eccetto Corbyn, fossero essenzialmente a favore della politica di austerità del governo conservatore.

Ancor peggio, tutti implicitamente accettavano la motivazione fasulla di tale politica, assumendosi in pratica la responsabilità di malefatte politiche in realtà non commesse dal Labour. È come se negli Usa i principali candidati alla nomination democratica del 2004 fossero andati in giro a dire che l’11 settembre era colpa del loro approccio debole alla sicurezza nazionale. Ci saremmo forse sorpresi se i voti delle primarie democratiche fossero andati a un candidato che rifiutava quella bufala, qualunque fosse la sua visione?

Le false accuse contro il Labour riguardano la politica fiscale, in particolare si sostiene che i governi laburisti al potere in Gran Bretagna dal 1997 al 2010 abbiano speso ben oltre i propri mezzi, causando un deficit e una crisi del debito che hanno portato alla più ampia crisi economica. La crisi fiscale, a sua volta, non avrebbe lasciato alternative ai drastici tagli alla spesa, soprattutto quella a sostegno dei poveri.

Queste tesi dei conservatori, va detto, sono state riprese e diffuse da quasi tutti i media giornalistici britannici. Non solo non le hanno sottoposte a un severo scrutinio, ma le hanno riportate come realtà. È stato straordinario assistere a quell’operazione — perché tutti gli elementi della narrazione usuale sono completamente fasulli.

Il governo laburista è stato irresponsabile sotto il profilo fiscale? La Gran Bretagna registrava un modesto deficit di bilancio alla vigilia della crisi economica del 2008, ma in percentuale sul Pil non era molto elevato — risulta circa pari al deficit di bilancio Usa dello stesso periodo. Il debito pubblico britannico era inferiore, in percentuale sul Pil, a quello registrato quando il Labour andò al governo dieci anni prima e inferiore rispetto a tutte le altre grandi economie avanzate, fatta eccezione per il Canada.

Oggi c’è chi afferma che la reale situazione fiscale fosse assai peggiore di quanto indicassero le cifre del deficit, perché l’economia britannica era gonfiata da una bolla insostenibile che incrementava le entrate. Ma nessuno all’epoca lo diceva. Al contrario, le valutazioni indipendenti, ad esempio ad opera del Fmi, indicavano l’opportunità di correggere lievemente il deficit, ma non evidenziavano segni di una gestione allegra delle finanze pubbliche.

È vero che il deficit britannico lievitò dopo il 2008, ma fu la conseguenza, non la causa della crisi. Anche il debito è cresciuto ma resta ben al di sotto dei livelli prevalenti in gran parte della storia moderna britannica. E non c’è mai stato alcun indizio che gli investitori, a differenza dei politici, fossero preoccupati della solvibilità britannica: i tassi di interesse sul debito sono rimasti molto bassi. Ciò significa che la presunta crisi fiscale non ha mai creato alcun reale problema economico e che non c’è mai stata la necessità di una sterzata in direzione dell’austerità.

In breve, l’intera narrazione circa la responsabilità del Labour relativamente alla crisi economica e circa l’ assoluta necessità dell’austerity è un’assurdità. Ma questa assurdità i media britannici l’hanno regolarmente presentata come realtà. E tutti i rivali di Corbyn nella corsa alla leadership laburista l’hanno presa per buona, accettando la tesi dei conservatori secondo cui il loro partito aveva gestito malissimo l’economia, cosa semplicemente non vera. Così il trionfo di Corbyn non sorprende poi tanto, vista la disponibilità dei politici laburisti moderati ad accettare false accuse al passato malgoverno.

Resta da capire come mai i moderati laburisti siano stati così sfortunati. Negli Usa fu diverso, le critiche sul deficit dominarono il dibattito a Washington nel 2010-11, senza però riuscire a dettare i termini del confronto politico, e la maggioranza dei democratici non assumeva toni da simpatizzanti repubblicani. La risposta sta in parte nel fatto che i media giornalistici statunitensi non sono stati altrettanto dediti a fantasie fiscali, anche se questo non risolve la questione. L’ establishment politico del Labour sembra però privo di convinzione, per motivi che non comprendo appieno. Significa che la vittoria di Corbyn non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour.

er ora, vince sempre lui. Articoli di Wanda Marra e Paolo Zanca, Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2015
LA RIFORMA SI FA DI CORSA
RENZI SGAMBETTA GRASSO
di Wanda Marra

Tra Palazzo Chigi e Senato l’attività è frenetica, la strategia si raffina di ora in ora. Oggi le riforme costituzionali arrivano nell’Aula di Palazzo Madama. Momento topico, atteso da mesi. E dopo un’estate di trattative sotto traccia, l’accordo politico non c’è. Il colpo di scena arriva nel primo pomeriggio. Il capogruppo leghista, Roberto Calderoli ritira i suoi 500mila emendamenti in Commissione. Toglie l’alibi al governo che vuole andare immediatamente in Aula, visto che in Commissione Affari costituzionali i numeri non ce li ha. «Tutta politica. Politica la presentazione, politica il ritiro», dice il presidente dei senatori Pd, Luigi Zanda. Poi tira diritto e nella capigruppo chiede comunque di andare in Aula.

Il Presidente del Senato, Pietro Grasso non è convinto, ritiene la situazione sia cambiata dopo la mossa del senatore del Carroccio. Viene chiamata la presidente di Commissione, Anna Finocchiaro. Convocazione irrituale. Mentre prende l’ascensore per scendere alla riunione, la Presidente è tesissima. Ma ribadisce che «bisogna passare ai piani alti della politica».
Presentazione degli emendamenti in Aula entro mercoledì 23. Il voto probabilmente dalla settimana dopo. E dunque, gli uomini del premier alternano messaggi rassicuranti e minacce finali. «I numeri in Aula ci sono», andavano dicendo ieri Renzi e i suoi per tutto il giorno. Ritornello talmente ossessivo da risultare sospetto. Il pallottoliere ufficiale conterebbe tra 155 e 165 voti, e 150 assenze (alcune vere, altre strategiche. E se si sbaglia, magari manca il numero legale). Ma nello stesso tempo il premier è pronto a qualsiasi cosa. Prima di tutto ha convocato per lunedì la direzione del Pd: metterà in campo la disciplina di partito e si farà votare un ordine del giorno, per piegare (definitivamente) la minoranza.
La pressione su Grasso perché dichiari inemendabile l’articolo 2 ormai è stellare. Si fa circolare la voce che sono in gioco le dimissioni della Finocchiaro. Perché l’incidente (o il complotto) in quel caso verrebbe considerato quasi certo. Subordinata quasi non ammessa. «Ne va dell’equilibrio istituzionale, della legislatura, della posizione dell’Italia nella comunità internazionale». E poi, a questo punto, ragionano, dopo la decisione della Finocchiaro, la forzatura sarebbe la sua. Calderoli, dalla sua, annuncia 8 milioni di emendamenti. Perché poi non c’è solo l’articolo 2, ma anche il primo, quello sul quale il premier ha concesso aperture. Sui voti segreti, rischio agguati. «Abbiamo gli strumenti parlamentari per fronteggiare questa situazione» assicurano Francesco Verducci, e il sottosegretario alle riforme Luciano Pizzetti. Un riferimento a tutti gli escamotage del Regolamento, dal canguro in poi per aggirare l'ostruzionismo. E alla fine, resta la minaccia finale delle elezioni anticipate.
Il premier entra in gioco in prima persona nella trattativa ieri mattina. Incontra Tosi e con un accordo di massima su una modifica dell’Italicum recupera i 3 voti di Fare. «È un po’come Letta stai sereno - ragiona Gaetano Quagliariello di Ncd - io sulla richiesta di modifica dell’Italicum vado diritto. Voglio una rassicurazione formale, che si riaprirà sul premio alla coalizione e non alla lista». Per farsi aiutare nella mediazione con i centristi, Renzi vede pure Franceschini. Grasso, dunque, dirà la sua solo tra una decina di giorni. In mezzo, la trattativa è aperta. «Ci siono in gioco il quadro politico, gli equilibri della maggioranza, la natura dei partiti», si sfoga un senatore.
Ma intanto il premier ha vinto il primo round col presidente del Senato e da Palazzo Chigi arrivano i numeri del pallottoliere di governo: dei 112 senatori del Pd, il governo pianifica di poter contare su 90 voti favorevoli (almeno 6 dei 28 firmatari del documento di minoranza sull’articolo 2 si sfileranno). Quanto a Ncd, su 35 senatori, in 30 voteranno col governo, secondo i calcoli di Palazzo Chigi. Del Gruppo autonomie su 19 senatori, 15 staranno col governo. Renzi sa di poter contare su tutti i 10 voti del gruppo di Denis Verdini. Sarebbero in arrivo altri 5 senatori da FI. E poi tra Misto, Gal e Idv, un’altra decina di voti. Oggi intanto, missione Emilia per Renzi: riunione sull’alluvione a Piacenza, visita a una piscina a Carpi, con Gregorio Paltrinieri, campione del mondo di nuoto sui 1.500 metri. E infine cena a Modena con Hollande, nell’osteria Francescana del super chef Massimo Bottura. Di photo opportunity ce ne saranno per tutti i gusti.
LA FINOCCHIARO “PROCESSATA”
PER IL BLITZ IN COMMISSIONE
di Paolo Zanca

Che fosse tutto un bluff, un trabocchetto per provare a metterlo con le spalle al muro, Pietro Grasso lo ha capito l’altroieri, quando ha sentito il discorso di Anna Finocchiaro in commissione Affari costituzionali: perché fare, due giorni prima del previsto, uno speech sull’ammissibilità degli emendamenti alla riforma del Senato quando la maggioranza ha già deciso di portare il ddl Boschi direttamente in aula? Così, ieri, nella riunione dei capigruppo, il presidente ha deciso di tentare il gran colpo: tentare di smascherare il gioco di Palazzo Chigi. Mentre è in corso l’incontro dei rappresentanti dei gruppi, Grasso convoca a sorpresa la presidente della commissione: «Lei ha detto che per garbo istituzionale non ha voluto votare l’ipotesi di istituire un comitato ristretto. Io, con lo stesso garbo istituzionale, le chiedo: perché?».

Raccontano che se non fossero stati in una stanza di Palazzo Madama, la conversazione avrebbe assunto tutt’altro tono. La guerra è aperta, e pazienza se qui dentro tocca mantenere un certo stile. Ferma e composta, come sempre, la Finocchiaro ha descritto la palude della commissione che presiede. E ha spiegato che non può che esserci bisogno di un luogo di discussione “alta” come l’aula del Senato per portare la riforma fuori dal pantano. Inutile il tentativo – andato avanti per quasi due ore, protagonista Grasso in persona – di convincere il Pd e i suoi alleati che il ddl Boschi poteva riprendere il cammino tradizionale, anche perché nel frattempo Roberto Calderoli aveva levato dal tavolo mezzo milione di emendamenti e le richieste di modifica rimaste in piedi erano solo 3 mila “lorde” (comprese le inammissibili).
Niente da fare: per questo, a riunione finita, la convinzione a proposito del bluff non è svanita per nulla. Anzi. Non solo Grasso ha fatto sapere di essere “dispiaciuto” per l’ennesima mediazione sfumata. Ma i vertici di Palazzo Madama si sono ulteriormente irritati perché la Finocchiaro, con il suo discorso, avrebbe sminuito il ruolo della commissione, descritta come un luogo incapace di sbrogliare la matassa e di trovare una sintesi tra le diverse posizioni. E poi, insistono, basta con questa storia che se Grasso dovesse decidere diversamente da lei sull’emendabilità della riforma, sarebbe uno scontro tra cariche dello Stato. «Io sono il presidente del Senato – sostiene Grasso – al massimo mi scontro con il capo dello Stato, con il presidente del Consiglio: la presidente di una commissione non è mia pari grado».
Ecco, per capire, il livello in cui sta precipitando la faccenda, basterebbe questo. Tant’è che a Palazzo Madama sono già alla ricerca della serie di precedenti in cui un presidente del Senato ha deciso in maniera difforme da un presidente di commissione. La verità è che i guai, per Pietro Grasso, sono appena cominciati. Ormai è chiaro a tutti: qualunque cosa lui decida, sarà rivolta. Se ammette gli emendamenti all’articolo 2 della riforma si scatenano i renziani. Se non li ammette gridano allo scandalo gli anti-renziani. Lui sta nel mezzo. E per ora non si sbilancia. L’annuncio lo darà solo in aula e, secondo il calendario stabilito, il suo intervento non arriverà prima della fine del mese. A quel punto mancheranno poco più di due settimane al 15 ottobre, data stabilita da Renzi come termine ultimo per l’approvazione.
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