«Le centraline truccate sono un evidente strumento di competizione sul mercato. Le stesse regole, come talune normative comunitarie apparentemente generate dal delirio di qualche euroburocrate, nascondono in realtà piccole e grandi guerre commerciali».
Il manifesto, 23 settembre 2015 (m.p.r.)
Alla borsa dell’immagine, in questo travagliato 2015, la Germania balla senza sosta. Prima esibisce il volto spietato del rigore contabile e dell’austerità, poi quello umanitario dell’accoglienza e della solidarietà, infine quello truffaldino della spregiudicatezza commerciale.
Proporsi all’Europa come modello ed esempio è una pretesa che comporta qualche inconveniente. Cosicché lo scandalo delle emissioni truccate nelle auto smerciate dalla Volkswagen sul mercato americano, e chissà su quanti altri, assume un significato e una dimensione ben più vasta di una frode commerciale, sia pure commessa ed ammessa da uno “specchiato” gigante dell’industria mondiale. È l’intera strategia di marketing economico e politico perseguita da Berlino a rischiare di disfarsi. Nel paese dalla più sviluppata sensibilità ecologica e dalle più severe norme ambientali, il primo gruppo industriale, il fiore all’occhiello del successo tedesco, si ingegna nell’eludere l’una e le altre.
A poco vale allora mettersi alla caccia di responsabilità individuali, sostenere che i test, quando non rappresentino una farsa, non sono certo un impeccabile esempio di “neutralità della scienza”, ricordare che gli Stati uniti d’America, nonostante le aspirazioni verdi di Obama, restano un formidabile inquinatore planetario.
Il danno è compiuto e non saranno le multe salatissime o le dimissioni dell’amministratore delegato della casa di Wolfsburg, Martin Winterkorn a poterlo riparare.
Il fatto è che i tre volti del Modell Deutschland, sono in realtà uno solo. La politica di austerità, i bassi salari e le restrizioni del Welfare, imposti all’interno così come agli altri paesi dell’Unione europea, il bisogno di mano d’opera straniera, sia pure forzato nei suoi tempi e nei suoi modi da una pressione migratoria senza precedenti (non dal buon cuore di Angela Merkel) e l’aggressiva politica di sostegno all’export, costituiscono un insieme piuttosto coerente anche se non proprio “esemplare”. E per nulla al riparo da catastrofici incidenti di percorso.
Solo pochi giorni fa la Cancelliera aveva invitato le industrie automobilistiche tedesche ad assumere un alto numero di rifugiati. C’è da scommettere che a Wolfsburg (dove sono stati accantonati 6,5 miliardi, più della cifra complessiva stanziata da Berlino per l’emergenza migranti, allo scopo di far fronte a una parte delle multe che pioveranno su Volkswagen) prevalgano tutt’altre preoccupazioni. Le “spalle larghe” della Germania, sbandierate quotidianamente da Berlino, non sono certo il risultato di una virtuosa etica protestante, ma di una politica di protezione a oltranza delle banche e delle rendite tedesche, nonché di un’accumulazione di surplus commerciale a spese degli altri membri dell’eurozona che, come abbiamo visto, non è quel frutto immacolato dell’eccellenza produttiva teutonica che volevano farci credere. A meno di voler riconoscere anche alla tecnologia della frode una sua qualità di eccellenza.
Beninteso, è assai improbabile che il grande gruppo tedesco, sia stato il solo ad aggirare in un modo o nell’altro gli standard ambientali stabiliti. Solo l’idea, alimentata dall’autocelebrazione del liberismo, che la competitività sia un meccanismo “pulito”, una questione di “merito” e di efficienza, di capacità e di rigore, può farci accogliere con sorpresa lo “scandalo” Volkswagen. Le centraline truccate sono un evidente strumento di competizione sul mercato. Le stesse regole, come talune normative comunitarie apparentemente generate dal delirio di qualche euroburocrate, nascondono in realtà piccole e grandi guerre commerciali. Altrettanti tentativi di spostare il terreno della concorrenza a favore di determinati produttori. In questo gioco di sponda tra standard normativi e competizione sul mercato possono crearsi cortocircuiti e “danni collaterali” come quelli in cui sono incappati gli strateghi di Wolfsburg, anche se, per il momento, solo oltre Atlantico.
Ma per la Germania il cui governo diffonde senza sosta una idea “morale” e virtuosa della competitività, rimproverando i partner europei di non dedicarvi sufficienti energie e “riforme”, il guasto è davvero spaventoso. Chi considera il mercato come lo spazio deregolamentato di una concorrenza senza esclusione di colpi (i Repubblicani Usa, per esempio) non troverà in questa vicenda particolare motivo di stupore, stigmatizzando, semmai, più la frode come turbativa degli scambi che l’inquinamento come danno per la società. Ma per chi sostiene che il mercato rappresenta un “ordine” razionale e la competitività una disciplina che si esercita al suo interno secondo regole certe non sarà facile superare il trauma provocato dalla truffa ad alta tecnologia escogitata dalla Volkswagen e le sue probabili conseguenze commerciali. Di tanto in tanto quell’“ordine” si rivela, infatti, per quello che è: un rapporto di forza.
Se parliamo di politica e non di farfalle, allora bisogna ammettere che l'Alexis di"l'Altra Europa con Tsipras ha vinto, e che Syriza non ha nulla a che fare col PD di Matteo Renzi (né con la "sinistra tremula").
Il manifesto, 23 settembre 2015
Dopo una via crucis che avrebbe logorato qualunque altro governo nel mondo e che qui, invece, l’ha rafforzato. Volevano sterilizzare i loro lindi tavoli europei dalla presenza fastidiosa di un capo di governo non allineato ai loro voleri, e se lo ritrovano ora davanti, in questi stessi giorni, a quegli stessi tavoli, sopravvissuto al fuoco, a lottare per quello che ha sempre chiesto e che a luglio gli è stato negato: ristrutturazione del debito, abbandono delle folli politiche d’austerità, radicale riscrittura dei trattati, politiche redistributive, continuando a battersi lì per cambiare i termini del diktat «insostenibile» impostogli col ricatto e la minaccia a luglio. E insieme offrendo un punto di riferimento a tutte le forze che nello spazio europeo si battono per quegli obbiettivi.
Ed è questa la seconda ragione per gioire del risultato di Atene. Perché lì è nata, non più in embrione, ma ormai allo stato visibile, una sinistra europea, transnazionale e post-nazionale, dichiaratamente determinata a battersi nello spazio continentale della politica che viene, tendenzialmente maggioritaria perché impegnata a rappresentare l’enorme disagio che le politiche di questa Europa producono e a sfidare la «pratica del disumano» che le istituzioni europee contrappongono alla moltitudine sofferente che preme ai propri confini blindati. Sinistra nuova, diversa dai residui logori della vecchie social-democrazie, miseramente naufragate nella battaglia di luglio, fisicamente visibile sul palco di Piazza Syntagma dove si sono schierati i leader e le leader di Podemos e della Linke, dei Verdi tedeschi e del Partito della sinistra europea, stretti intorno a Tsipras in un patto che va al di là della tradizionale solidarietà internazionale, e che segna in potenza un «nuovo inizio».
Preoccupa, certo, nel quadro altrimenti confortante delle elezioni greche, l’alto livello dell’astensione. È, potremmo dire, il lato oscuro della forza, che i commentatori maligni di casa nostra non hanno mancato di sottolineare per tentare di ridimensionare il valore del risultato, pur essendo gli stessi che in ogni altra occasione ci avevano spiegato (ricordiamo l’Emilia Romagna, o le ultime regionali?) che è cosa normale, che le democrazie moderne funzionano bene così. Noi continuiamo a considerarlo, a differenza di loro, un grave problema, ovunque si manifesti, sapendo bene che, in particolare in questo caso, esso è sintomo di un fallimento, non certo dei greci (per i quali la notizia è tutt’al più l’altra, che abbiano continuato a votare a milioni e a crederci), ma dell’Europa. Della gabbia di ferro in cui ha chiuso i popoli, facendo di tutto per convincerli che la loro volontà (la «volontà popolare», appunto), non conta nulla. Che le regole che nessuno ha votato sono dogmi immodificabili. E funzionando così come una gigantesca macchina che erode e riduce ai minimi termini la democrazia, svuotandola di significato.
Indigna, d’altra parte, lo spettacolo, davvero indecente, della nostra stampa quotidiana. I commenti a caldo degli editorialisti embedded, impegnati in acrobazie spericolate per sostenere – sulla scia delle veline renziane — che la vittoria di Syriza e la sconfitta secca dei fuoriusciti di Unità popolare dimostrerebbe nientemeno che «non c’è spazio alla sinistra del Pd», come se Tsipras fosse Renzi (si sa benissimo che quel 12 luglio feroce Renzi era tra i ricattatori e Tsipras il ricattato, e nessuno può permettersi di nascondere la distanza abissale tra le politiche dei due, si tratti dei diritti del lavoro o dei rapporti con la Merkel). E come se, che ne so, Bersani e Cuperlo fossero Varoufakis (!). O Civati, Fratoianni e Ferrero Lafazanis. Sono, quei commenti senza pudore, la misura di quanto sgangherato sia il nostro sistema dell’informazione. Quanto servile, piegato ai voleri dei suoi tanti padroni, politici o economici. Ma soprattutto sono il frutto di una grande paura. Del timore che l’esempio greco possa diffondersi per contagio, e che cresca in Europa un’alternativa al sistema di privilegio di cui anche quel démi monde è parte.
Da quella «grande paura» dovremmo trarre uno stimolo. E una conferma della nostra possibile forza. Ad Atene, su quel palco europeo, la sinistra italiana non era rappresentata. Per il fatto che non c’è. O meglio: «non c’è ancora». Resta la grande attesa, sempre in costruzione, mai nella realtà. Non la si faccia prolungare troppo quell’attesa. C’è un grande lavorio, dal basso e non solo. Si discute di date, di eventi, di processi costituenti. Non facciamone un eterno Godot. Facciamo subito quello che dobbiamo fare: una sinistra capace di andare oltre i propri frammenti e di prendere in Italia e in Europa il posto vuoto che in tanti si aspettano che occupi. Chiunque rallentasse o ostacolasse questo processo, tanto più ora, si assumerebbe una responsabilità tremenda.
«Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata». L'intervista a Thomas Schmid e il reportage dalla “città dell'automobile” di Andrea Tarquini.
La Repubblica, 23 settembre 2015 (m.p.r.)
"IL NOSTRO GOVERNO DEVE SENTIRSI CORRESPONSABILE CON LA SUA GOLDEN SHARE"
«È un colpo durissimo a un simbolo della Germania, e senza giudizi morali mi rammenta come è nata Volkswagen, azienda dal passato non del tutto incolpevole: nacque come idea del Reich, “comunità di lavoro”». Thomas Schmid, ex direttore della “Welt” ed editorialista di punta dei media tedeschi, non nasconde il suo allarmato sconcerto.
Che peso ha lo scandalo per l’immagine del sistema Germania?
«Ha un peso devastante. Crea problemi anche alla costruzione dell’Europa politica. Per amara ironia, mi viene in mente che poco lontano da Wolfsburg nacque Hoffmann von Fallersleben, autore dei versi del nostro inno nazionale. Forse nessun’altra azienda come la Volkswagen è stata il simbolo della rinascita postbellica dell’industria tedesca: un’industria attendibile, seria, sinonimo di qualità e di concertazione, in una giovane ma forte democrazia. Adesso riparare il danno sarà difficilissimo. Nessuno poteva aspettarselo, ma da un’azienda e da un sistema-Paese privo di strutture criminali è nato un sofisticato sistema di truffa organizzata. Anzi, proprio dall’azienda simbolo della tecnica attendibile e dell’uso responsabile, ecologico, di ogni tecnologia. Scelta tanto più folle in quanto anche prima dello scandalo, Vw aveva difficoltà sul mercato Usa».
E simbolo anche della concertazione: c’è del marcio anche là?
«La concertazione è un cardine del sistema tedesco, ma in passato recente, proprio in Volkswagen si è visto che può anche diventare un po’ complicità, fino a viaggi di piacere di ogni tipo in Sudamerica pagati dall’azienda. La concertazione è valore costitutivo giusto nello spirito della nostra Costituzione. Diverso se riprende l’idea di comunità nazionale e di lavoro che fu propria del nazionalsocialismo ».
La macchia nera del caso Volkswagen è contagiosa per tutto il sistema Germania, anche per le altre grandi aziende global player tedesche?
«Al momento non ancora, o non tanto. Però deve essere fatta piena luce al più presto. È agghiacciante per noi tedeschi doversi domandare perché una tale energia criminale sia nata in un’azienda simbolo del nostro Paese».
Volkswagen è azienda semipubblica: che conseguenze?
«Serie. Appunto, lo scandalo non ha colpito i big privati come Bmw o Mercedes. Il potere politico è presente con la sua golden share, deve sentirsi corresponsabile. Anche del fatto che l’obiettivo di divenire numero uno mondiale sorpassando Gm e Toyota, iperambizioso anche prima, oggi sembra drammaticamente più lontano» . (a.t.)
Occhi bassi, musi grigi, mugugni che escono appena da bocche chiuse. Nessun capannello di tute blu che scherzi sul calcio o sugli ultimi amori, niente chiacchierate sulle prossime vacanze. Non è un giorno come un altro, qui al cancello numero 17 della gigantesca fabbrica in mattoni rossi che domina Wolfsburg, e con capannoni enormi tipo Detroit un tempo, palazzi uffici e ciminiere, sembra una Mirafiori infinita che sotto le basse nuvole grigie della fredda pianura di Bassa Sassonia si perde oltre l’orizzonte. E’triste, fa male come un trauma collettivo, il day after degli operai Volkswagen, fino a ieri i ‘Cipputi’ più felici del mondo. Ma se loro piangono, il padrone non ride: ai piani alti del cubo monolito a sedici piani col cerchio, la V e la W che lo sormontano, è lotta a coltello per il potere. Tra poche ore potremmo sapere chi è il vincitore, manovre dietro le quinte si susseguono, e il potere politico è qualcosa di più che non solo spettatore interessato. Il padrone è anche lui: la Bassa Sassonia, con la sua golden share, ha sempre bloccato ogni scalata ostile al colosso ora ferito dalla sua colpa.
I motivi per cui sarebbe necessario per l'italia uscire dall'a moneta unica europea (e sarebbe anzi inevitabile) e i modi in cui potrebbe accadere.
La Repubblica, 22 settembre 2015
Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo anno). Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 — continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non sono concepibili. In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella condizione degli Stati membri della Ue che attendono di entrare nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere dall’eurozona.
Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso stabilisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di recesso deve seguire. Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione.
Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) la recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione di recedere, determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già state predisposte in modo riservato.
Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione sia per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato sulla Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue — esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il principio per cui uno Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa.
Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato per la recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue. L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a nuove elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di ritorno della politica a temi quali la piena occupazione, la politica industriale, la difesa dello stato sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere alla disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa.
Il manifesto, 20 settembre 2015
Da questo punto di vista i troppo buoni direbbero che la montagna ha partorito il topolino, i pacati e gli equanimi che siamo di fronte a una truffa volgare.
A quel che si trae da notizie di stampa, l’accordo prevede che la durata del mandato dei senatori coincida con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, su indicazione degli elettori in base alle leggi elettorali regionali. Quanto alla coincidenza del mandato senatoriale con la durata di organi territoriali regionali o locali, nulla quaestio. È un principio che potrebbe essere reso compatibile anche con l’elezione popolare diretta dei senatori. I problemi vengono dopo.
Si rileva infatti che i senatori sono eletti dagli «organi delle istituzioni territoriali». Dunque, non dai cittadini nell’ambito territoriale di riferimento. Con questo si ribadisce il no all’elezione popolare diretta dei senatori, e si affida al consiglio regionale il potere di scegliere i rappresentanti in senato. Una conferma si trae dal fatto che agli elettori si attribuisce «l’indicazione». E, secondo il dizionario, con tale termine si intende una designazione, una proposta, una segnalazione, un suggerimento, non una decisione e tanto meno una scelta. I cittadini «indicano», il consiglio regionale «elegge». Una bella prova di democrazia mettere il popolo sovrano in una posizione di indiscutibile subalternità.
Si aggiunga che il tutto è rinviato alla disciplina posta con legge regionale, senza alcuna indicazione di principi di legge statale o comunque limiti da osservare. Tanto che sarebbe del tutto possibile una legge per cui il consiglio regionale scelga i senatori in una rosa più ampia formata dai candidati alla carica di consigliere regionale più votati, giungendo in concreto all’elezione dei senatori da parte dei consigli regionali al proprio interno, senza che la volontà espressa dal voto popolare sia in ultimo decisiva. Volendo evitare questo, e concedere al popolo sovrano di scegliere i propri rappresentanti, sarebbe quanto meno necessario prevedere in Costituzione un listino votato separatamente e la incompatibilità tra le cariche di consigliere regionale e senatore.
Per questo, siamo alla truffa volgare. Chi legge nel testo il ripristino della elezione popolare diretta dei senatori mente sapendo di mentire. L’essenza del senato voluto da Renzi non è toccata, e rimangono tutte le censure già argomentate su queste pagine. Ne gioirà Moody’s, che plaude alla riforma (e potremo ricordare che aveva già applaudito all’Italicum, e criticato la sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni). E abbiamo dimenticato J.P. Morgan, che già nel 2013 sollecitava ad abbandonare le costituzioni antifasciste del dopoguerra, inquinate da elementi di socialismo? I poteri forti della finanza internazionale non si curano della salute democratica del paese. Ma il governo della Repubblica dovrebbe.
Per le riforme eterodirette della Costituzione abbiamo già dato, con l’art. 81 e il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Ma qui vediamo una vicenda di piccole miserie. Può solo interessare che, se la proposta si tradurrà in un emendamento all’art. 2, questo potrà aprire la via anche ad altri emendamenti e a nuovi scenari di confronto parlamentare. Non è infatti pensabile che la modificabilità dell’art. 2 venga limitata al solo emendamento risultante dall’accordo interno Pd.
Capiamo, ma non apprezziamo, le ambasce della minoranza Pd. Se si piega ha fatto molto rumore per nulla. La mediazione rimane sotto la soglia della decenza. Questi coraggiosi — si fa per dire — alfieri della verità e della giustizia devono pur chiedersi se accettare, magari per il miraggio di un piatto di lenticchie, sia nel loro interesse collettivo e individuale. È davvero dubbio lo sia, per la perdita di faccia e di credibilità. Di sicuro, non è nell’interesse del paese.
Dove la sinistra non rifiuta la sua storia e i suoi valori (come invece è successo nell'Italia di Renzi) il suo abbraccio con il neoliberismo è mortale.
La Repubblica, 21 settembre 2015
Il caso inglese è perfino più radicale di quello spagnolo e greco perchè qui la sinistra ha ripreso le redini del suo partito tradizionale, scuotendone l’identità centrista. La quale, non il radicalismo della sinistra, è all’origine della crisi del Labour.
Posizionandosi al centro, il Labour di Miliband ha dimostrato di essere sostituibile con i conservatori. Competere per il centro non è una politica saggia quando le politiche centriste sono a tutti gli effetti conservatrici. Ecco perchè il cordone sanitario del centrismo nei confronti di Corbyn suggerisce un’altra lettura all’argomento per cui la sinistra ha bruciato il suo centro.
La ribellione contro il centrismo è un fenomeno non confinato all’Europa.
Bernie Sanders che sfida Hillary Clinton alle prossime primarie democratiche, si definisce socialista e conquista l’audience nel popolarissimo talk-show di Colbert. I sondaggi lo danno vincente in New Hampshire e Iowa anche se perderà senz’ombra di dubbio la nomination. Sanders come Corbyn punta il dito contro un tipo di moderatismo che è diventato un abito troppo stretto per i democratici, spronati dallo stesso moderato Barack Obama che, non va dimenticato, ha portato alla Casa Bianca una retorica di sinistra per riuscire a imporre la riforma sanitaria e le politiche a favore della classe media.
Quindi c’è un centrismo di sinistra. E quando viene praticato con determinazione riesce a contenere la sinistra più radicale e a essere una buona alternativa ai conservatori. È questo il centrismo che i partiti di sinistra hanno bruciato.
Il problema è stato ben individuato da Paul Krugman. Commentando la vittoria di Corbyn ha scritto che essa «non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour»; i candidati moderati che sfidavano Corbyn non avevano altro da offrire che il sostegno alle politiche di austerità del governo conservatore. Il “crollo morale” dei moderati interni alla sinistra è il fattore da considerare dunque. La sinistra sembra non avere più un centro suo, scegliendo di adottare quello proprio della destra.
Il centro al singolare è una categoria delle meno felici in politica perchè esso non è un’entità che sta al di sopra delle parti. È invece una pratica di moderazione rispetto a posizioni che sono specifiche e ideologicamente diverse. Il centro della sinistra non è lo stesso di quello della destra, perchè non consiste nell’annacquare con politiche di destra quelle di sinistra, per esempio limitando il diritto di sciopero o adottando politiche fiscali che favoriscono la casa invece che il lavoro.
La sinistra ha un suo centro e la sua erosione e scomparsa è all’origine delle due possibili risposte messe in campo finora: una risposta radicale nei partiti di sinistra che sono all’opposizione (da Podemos al Labour) e una risposta destrinista o ibridata con il centro della destra nei partiti di sinistra che sono al governo. Entrambi sono l’esito del “crollo morale” del centrismo di sinistra, e all’origine tanto del radicalismo quanto del destrinismo.
Una differenza che una volta era essenziale: «la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato».
La Repubblica, 21 settembre 2015
Infatti la questione fiscale è stata una discriminante fondamentale della contrapposizione tra destra e sinistra, liberali e socialisti (e liberal-democratici), tra liberisti e keynesiani, capitalisti e sindacati, nell’intero corso del ‘900, e lo è ancora.
Del resto, se si guarda agli Stati Uniti, Obama è attaccato dai repubblicani del tea-party proprio sulle tasse; ai suoi tempi il labour di Tony Blair era contestato dai conservatori per lo stesso motivo, ed in effetti quei governi aumentarono la pressione fiscale in Inghilterra di un paio di punti di Pil.
La contrapposizione riguarda la funzione pubblica nell’economia, e quindi soprattutto il sistema di : la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato col sostegno indiretto dello Stato, (istruzione privata, sanità privata, fondi pensione) e talvolta è semplicemente contraria.
La sinistra ritiene che una società coesa grazie al sia più efficiente e produttiva per effetto della riduzione dei rischi individuali. La destra ritiene che se si riducono le tasse e la spesa si responsabilizzano gli individui che sono spinti ad accrescere gli sforzi produttivi.
Per la sinistra l’eguaglianza è un obiettivo importante, ed essa è consapevole che le tasse in quanto tali non sono tecnicamente in grado di produrre un effetto perequativo rilevante, mentre un welfare ben costruito è fondamentale per la riduzione delle diseguaglianze: sono infatti le spese per la istruzione, la sanità, la previdenza, il sostegno nei periodi di disoccupazione e per l’assistenza ad assicurare l’effetto redistributivo della finanza pubblica.
Per la destra, invece, le diseguaglianze che si creano sul mercato riflettono in buona misura le differenze di produttività che esistono nel mercato stesso, per cui esse sono giustificabili, anzi funzionali allo sviluppo (salvo la tutela della povertà estrema, per cui è comunque preferibile per la destra il ricorso a meccanismi di elargizione volontaria (di natura caritatevole) fiscalmente incentivati.
«Nonostante la grande astensione Syriza resta primo partito e torna al governo con i nazionalisti di Anel. Tsipras festeggia in piazza e si prepara a giurare da primo ministro. Sonora sconfitta della scissione da Syriza di Lafazanis: Unità popolare fuori dal parlamento».
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
Alexis Tsipras vola, superando le più rosee previsioni: Syriza, con più della metà dei voti scrutinati, è al 35,5%, percentuale che le permette di eleggere 145 deputati, mentre il centrodestra di Nuova Democrazia segue a grande distanza, con il 28,7% e, al momento, 75 deputati. La principale conseguenza politica del voto è che Syriza, insieme ai Greci Indipendenti di Panos Kammenos, i quali sino ad ora sono al 3,7% con dieci deputati, potranno formare nuovamente, senza bisogno di altri partiti, un nuovo governo.
Il leader di Syriza e Kammenos si stanno per incontrare per sancire il proseguimento della loro “strana” alleanza, basata sulla lotta alla corruzione e alle politiche neoliberiste di austerità. Malgrado il difficile compromesso firmato ad agosto con i creditori, la chiusura delle banche dopo la riduzione della liquidità decisa dalla Bce e la martellante campagna televisiva di molti media contro la sinistra radicale, Syriza rimane protagonista della scena politica greca, e perde meno dell’1% rispetto alle trionfali elezioni di gennaio.
Si tratta, ovviamente, di un successo personale di Tsipras, che ha promesso di continuare a lottare contro le lobby corrotte, gli intrecci sotterranei tra economia e politica, per superare l’austerità e creare nuovi equilibri in Europa, anche se ci vorrà del tempo e sarà richiesta molta pazienza e tenacia.
Sino a questo momento, Unità Popolare, con a capo Panagiotis Lafazanis, formazione creata poche settimane fa dai dissidenti di Syriza, non riesce a entrare in parlamento: si ferma al 2,8%, mentre la soglia di sbarramento è in Grecia al 3%. È chiaro che sono rimasti schiacciati tra la scelta realista di chi ha voluto ridare fiducia alla Coalizione della Sinistra Radicale ellenica e chi, nella tradizione della sinistra comunista, è rimasto fedele al Kke.
Ex membri del governo che avevano lavorato con abnegazione, come la ministra aggiunto delle finanze Nadia Valavani, non sono riusciti a far arrivare ai greci, tramite Unità Popolare, una proposta fortemente identitaria. La bocciatura dell’Euro e la messa in discussione della stessa Unione europea, se necessario, non hanno pagato.
È senz’altro da non sottovalutare la forte astensione, che potrebbe superare il 45%, ma il grande successo del quarantunenne leader della sinistra greca sta nell’essere riuscito a convincere una grandissima parte degli indecisi: chi otto mesi fa aveva votato per lui e oggi era tentato di non andare ai seggi.
Fonti ufficiali di Syriza fanno sapere che entro tre giorni il nuovo governo sarà pronto per giurare e che domani mattina Tsipras riceverà dal presidente della Repubblica l’incarico di formare l’esecutivo.
Inquietante, anche se purtroppo non imprevedibile, il terzo posto dei neonazisti di Alba Dorata, che sinora sono al 7,1%, con 19 deputati. La retorica e la prassi della violenza, malgrado il pesante processo a cui è sottoposto il gruppo dirigente del partito, ha comunque attratto una parte dei delusi e di chi ha pagato le conseguenze della crisi, malgrado la sfrontata dichiarazione del capo neonazista, Nikos Michaloliakos, che tre giorni prima delle elezioni si è assunto la responsabilità politica dell’omicidio del rapper di sinistra Pavlos Fyssas, compiuto due anni fa da un membro di Alba Dorata.
Il Pasok, che è al 6,41%, e i centristi di Potami– il Fiume, i quali non vanno oltre il 3,9%, restano a guardare: speravano in un esecutivo di unità nazionale, o di essere comunque necessari per la governabilità del paese, ma non è stato così. Una loro partecipazione al governo avrebbe comunque posto seri problemi riguardo alla coesione sulla politica economica e la lotta ai grandi interessi.
La grande sfida ora, per Alexis, è gestire e mitigare le conseguenze del memorandum firmato un mese fa, lavorando, contemporaneamente, ad una nuova politica europea orientata alla crescita e al reale superamento dell’austerità.
La fiducia dei greci, questa fortissima iniezione di energia, non potrà che facilitargli il compito.
«10 mila arrivi in solo giorno, volontari instancabili. Paradossi: l'estrema destra Fpoe vola nei sondaggi, lo spirito d'accoglienza anche. L’Austria, paragonata a Italia e Grecia. 1500 soldati al confine con Ungheria e Slovenia svolgono soprattutto funzioni umanitarie e logistiche».
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
«Alle 5 porto 100 uova sode, 20 chili di feta e dolci di cioccolata» posta sul sito Train of hope uno dei migliaia di volontari che prestano assistenza 24 ore su 24 alle stazioni di Vienna. «Ho raccolto tende, sacchi a pelo e impermeabili, tante altre cose le ho comprate» si legge invece su Soskonvoi, sono cose richieste con urgenza che verranno portate lontano, a Bregona, al confine sloveno e a Tovarnik al confine tra Croazia e Ungheria. Lì l’iniziativa Soskonvoi diventata famosa per essere andata a prendere i rifugiati in Ungheria ha attrezzato un suo ufficio: sul posto manca tutto, raccontano, acqua, cibo, riparo.
Alla fine, venerdì notte i rifugiati intrappolati oltre confine sono approdati alla frontiera austriaca orientale, a Nickelsdorf e Heiligenkreuz, dopo la lunga disperata odissea tra Croazia e Ungheria. 10mila in un giorno solo, alcuni a piedi. Grazie alla mobilitazione continua della società civile è stato possibile gestire l’accoglienza. Approdati. Solo sabato sera, attesi lì fin da venerdì, arrivo di profughi a Spielfeld al confine sloveno, dove sono stati attrezzati in ogni dove posti letto per 4000 persone. Decine di autobus dell’esercito hanno portato i rifugiati a Vienna, Salisburgo e Graz. Per molti c’erano subito i treni pronti in direzione Germania.
Il controllo ai confini, oggetto di contrasto della coalizione di governo tra socialdemocratici (Spoe) e popolari (Oevp) avviene «a campione», o «per niente», come ha accusato il ministro degli interni della Baviera. L’Austria, paragonata a Italia e Grecia. I 1500 soldati austriaci schierati al confine con Ungheria e Slovenia svolgono soprattutto funzioni umanitarie e logistiche.
A Graz, capoluogo della Stiria, un’ora dal confine sloveno, venerdì sera una fiaccolata di solidarietà organizzata dai giovani socialisti (Sj) e Ong ha attraversato la città: «Non solo di solidarietà, ma contro l’odio, la discriminazione e l’istigazione. Per l’estrema destra di H.C. Strache il sostegno ai rifugiati è una posizione di minoranza. Non è così, la maggioranza, prima silenziosa ha alzato la voce».
Una manifestazione con candele e fiaccole ha attraversato venerdì anche Wiener Neustadt, capoluogo della Bassa Austria. Sabato tutto il pomeriggio e sera concerto in piazza per «ringraziare la popolazione che aiuta i rifugiati del centro di accoglienza di Traiskirchen». Dal canto suo la Fpoe, quasi scomparsa dai tg, su megacartelloni annuncia la «Oktoberrevolution» (rivoluzione d’ottobre, si riferisce all’11 ottobre, elezioni di Vienna). Il movimento welcome refugees gli contrappone la «rivoluzione di settembre», la solidarietà concreta largamente diffusa.
Rivoluzione di settembre o di ottobre? Nei sondaggi pubblicati dal settimanale Profil sabato, su scala nazionale il 33%, un terzo della popolazione, voterebbe per il partito di Strache, salito al primo posto. La Spoe del cancelliere Werner Faymann, attuale primo partito segue col solo 23%, l’alleato di governo, i popolari al 21%, i Verdi al 14%. Nello stesso sondaggio però un 72% condivide l’impegno della società civile verso i profughi, solo un 23% si sente rappresentato dalla xenofoba Fpoe su questo argomento. Il successo di questa dimensione della Fpoe, più e oltre la xenofobia il sondaggio lo riconduce alla impopolarità perdurante della grande coalizione fortemente divisa al suo interno, bloccata, considerata incapace di decidere e agire. In un altro sondaggio l’85% della popolazione si dichiara orgogliosa per il modo in cui l’Austria ha accolto i profughi.
Venerdì e sabato a Vienna, su invito del cancelliere Faymann si è svolto un minivertice di dirigenti di partiti socialdemocratici in vista del vertice europeo di mercoledì, con il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel, il primo ministro svedese Stefan Loefven e Martin Schulz. Ribadita la necessità di investire subito 5 miliardi per i campi profughi vicini alla Siria, e su scala europea, la difesa del lavoro e il rilancio di un Europa sociale.
«La sfida greca ha un’importanza che è stata colta solo negli ultimissimi giorni dagli italiani che vorrebbero un cambiamento anche qui. L’appello firmato l’altro ieri da alcuni protagonisti della sinistra è piccola cosa rispetto alle prospettive aperte da Tsipras».
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
A fronte dei muri e degli eserciti che l’Europa costruisce e schiera per respingere i migranti in fuga da guerre, violenze, fame e povertà, l’altra guerra, quella economica che l’ha attraversata e deformata, sembra quasi eclissata. E lontana dai riflettori è tornata la piccola Grecia che della oppressiva campagna finanziaria è stata, e ancora resta, la cavia da laboratorio delle politiche liberiste. Ma nella terra del Partenone la resistenza invece continua. E per la terza volta in pochi mesi, dopo le elezioni di gennaio e il referendum di luglio, oggi le urne si riapriranno affinché di nuovo i cittadini possano esprimere la loro volontà politica. Per dire chi li dovrà governare e chi potrà meglio difendere gli interessi di milioni di persone.
Alexis Tsipras si rivolge ai greci chiedendogli la fiducia e la forza elettorale necessarie per guidare il paese. Però né il leader che chiama il popolo a sostenerlo, né il popolo che deve decidere se tornare a votarlo, sono gli stessi di qualche mese fa. Sulle spalle del giovane politico grava soprattutto il macigno del memorandum imposto dall’Europa. Per sostenerne il peso senza essere schiacciato, Tsipras ha bisogno di una forza notevole, in grado di accompagnarlo nella difficile, solitaria sfida per applicare le richieste europee. E nello stesso tempo deve trovare il modo di proteggere le classi sociali più colpite. Un’impresa dunque. Resa, se possibile, ancora più ardua dall’escalation del tragico esodo dei migranti che ogni giorno approdano sulle isole greche. Non è lo stesso popolo che ha lottato per allontanare il giogo delle misure economiche che hanno ferito i bisogni primari del lavoro, della salute, delle speranze delle giovani generazioni.
Quanto sia più complicato riportare al voto — e alla fiducia nella democrazia — i greci che il 25 gennaio avevano tributato a Syriza oltre il 35 per cento del consenso, meglio di tutti lo sanno Tsipras e il gruppo dirigente che lo sostiene. È lo spettro di una rassegnata astensione il nemico da battere. Queste elezioni rappresentano lo snodo cruciale per il futuro di un popolo e, insieme, sono il banco di prova dell’agibilità politica di un governo di sinistra nelle condizioni peggiori. Eppure, proprio per questo, si tratta — come abbiamo capito e imparato dai lunghi mesi di lotta di Syriza contro l’austerità europea — di un cimento che oltrepassa i confini ateniesi. Nel mare aperto, senza rotte tracciate da precedenti navigatori, che Tsipras ha scelto di attraversare, navigano tutte le sinistre europee, comprese quelle che in Italia vorrebbero vedere la nascita di una forza certamente radicale e al tempo stesso di governo.
Ogni giorno sperimentiamo la difficoltà di un progetto così ambizioso e inedito, perché nelle fasi di crisi economica, è molto più facile assegnarsi il ruolo di opposizione contro le politiche liberiste dei governi. E non pochi considerano una follia assumere il compito di governare quando la crisi, anzi, quando il crollo di un intero sistema economico e sociale, cancella i diritti e gli assetti democratici novecenteschi.
Per Tsipras sarebbe più semplice, di fronte al prezzo politico e personale da pagare, lasciare la Grecia nelle mani dei politici che dal 2009 ne hanno sgovernato l’economia. Sarebbe anche stimolante tornare nella terra conosciuta delle piazze, magari per chiedere il ritorno alla dracma come adesso reclamano gli esponenti di Unità popolare, fuoriusciti da Syriza.
Per il leader il bilancio è durissimo. Quel memorandum che occupa Atene come un panzer ha spaccato il «partito» e ha indebolito il governo. E allora perché sfidare la sorte in elezioni molto incerte? «Perché chi sta lottando, anche se viene ferito, non smette di lottare». Sono le parole dette al manifesto da Nikos Kotziàs, l’ex ministro degli esteri del governo Tsipras, e racchiudono in un’immagine vera tutto il significato del voto.
La sofferenza del popolo greco non troverebbe giovamento con il centrodestra, perché solo un governo di sinistra può tentare di alleviare le misure dell’austerità. Ma questo risultato elettorale va ben oltre, perché se c’è un modo per portare l’Europa a discutere del debito dei paesi del lato sud del Continente serve una vittoria alle urne.
La sfida greca ha un’importanza che è stata colta solo negli ultimissimi giorni dagli italiani che vorrebbero un cambiamento anche qui. L’appello firmato l’altro ieri da alcuni protagonisti della sinistra è piccola cosa rispetto alle prospettive aperte da Tsipras. Perché dopo è venuta la Spagna con Podemos; perché un politico «socialista» ha vinto le primarie nel Labour Party; perché adesso in Italia finalmente si discute su come costruire una forza in grado di porsi come alternativa.
Dunque nel voto greco non è in gioco solo il destino di un leader e di un paese intero: c’è anche il futuro delle sinistre in Europa.
«Non si tratta solo di accogliere chi -dopo interminabili sofferenze - arriva ai confini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non riesce a fuggire e rischia la morte e la violazione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre frontiere non arriverà mai».
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
Lo scorso 11 settembre più di 250mila persone hanno manifestato a piedi scalzi in 71città italiane chiedendo diritti e accoglienza per i migranti e profughi, senza sé e senza ma. E’ stata prova di partecipazione e di mobilitazione straordinaria che ci consegna la domanda di come far vivere nei prossimi mesi un’azione di denuncia politica e di solidarietà concreta con i migranti. «La marcia delle donne e degli uomini scalzi non si fermerà. Continuerà anche dopo l’11 settembre».
Questo è stato detto nell’appello finale letto alla conclusione della manifestazione a Venezia: «E’ una marcia per la dignità, per la vita, per la libertà: per tutti quei valori per cui abbiamo voluto costruire un’Europa aperta al mondo e fondata sulla pace. Una speranza che vogliamo continuare a difendere e per cui vogliamo lottare».
I motivi ci sono tutti. Infatti, dopo qualche sussulto europeo, tra Berlino e Bruxelles, sull’onda dell’emozione della fuga dei profughi siriani, la Merkel ha annunciato che ora le frontiere si chiudono, i paesi dell’est europeo hanno ribadito che non accetteranno nessuna quota per l’accoglienza dei migranti, l’Ungheria finisce di costruire il muro, spara lacrimogeni e usa cannoni d’acqua contro i migranti, e la Francia minaccia nuovi raid aerei in Siria.
Invece sono altre le strade che andrebbero seguite per cercare di affrontare un flusso di profughi - che ormai avrà caratteristiche di permanenza - verso l’Europa. Sempre nell’appello conclusivo è stato affermato: «Molte sono le cose da fare e molti i rischi all’orizzonte. Bisogna creare un vero e proprio corridoio umanitario per chi scappa dalla guerra e bisogna istituire un diritto di asilo europeo che superi l’anacronistico regolamento di Dublino».
E proprio nella manifestazione conclusiva di Venezia, una delegazione della manifestazione di migranti e richiedenti asilo sono simbolicamente saliti sul red carpet della Mostra del cinema aprendo uno striscione davanti a fotografi e pubblico in attesa delle star: humanitarian corridors, now. E’ questa la priorità oggi. Questo il punto che non può essere più eluso. Non si tratta solo di accogliere chi -dopo interminabili sofferenze - arriva ai confini della nostra Europa, ma farsi carico anche chi non può, non riesce a fuggire e rischia la morte e la violazione dei diritti umani nelle zone di guerra. E alle nostre frontiere non arriverà mai.
Oggi i corridoi umanitari sono ineludibili. Ne servono almeno due: uno dalla Siria e l’altro dal Mediterraneo, assicurando in questo caso passaggi in mare sicuri. Ma su questa strada l’Europa e l’Italia per il momento non ci sentono e si barcamenano tra quote per la ripartizione dei profughi - quote molto modeste e non accettate - nuovi hot spot da istituire e che rischiano di produrre non maggiori tutele ma altre discriminazioni e nessuna resipiscenza sulla convenzione di Dublino.
Al governo Renzi dobbiamo chiedere di prendere una iniziativa che vada in questa direzione non solo in Europa, ma anche in Italia: chiudendo i centri di detenzione, introducendo il diritto di voto alle amministrative per i migranti, istituendo unilateralmente un corridoio umanitario dalle coste meridionali del Mediterraneo. Si tratta, dunque, di rilanciare una mobilitazione.
La marcia delle donne e degli uomini scalzi - con tutto il suo carico simbolico e di concretezza nella forma della partecipazione - ha dimostrato che c’è una grande disponibilità, che non va dispersa, ma rafforzata e sviluppata. Una grande alleanza delle donne e degli uomini scalzi che faccia argine alla xenofobia e al razzismo e che sia da ariete contro tutti quei fili spinati e muri che si cercano di alzare in Europa ancora una volta.
C’è un primo appuntamento: domani, 21 settembre manifesteremo alle 18 davanti all’ambasciata d’Ungheria a Roma (via dei Villini 12) e davanti ai consolati ungheresi in Italia (come a Milano, Venezia, Palermo, Trieste e altre città che si stanno aggiungendo) per dire basta ai muri e ai fili spinati, basta alla criminalizzazione dei profughi, basta all ipocrisie europee (qui info). Se c’è qualcuno che deve andare fuori dall’Europa non sono i migranti, ma Viktor Orban.
Gli ellenici tornano al voto per la terza volta in meno di un anno. Tsipras è ancora il favorito nei sondaggi ma deciderà l’astensionismo. Il leader della sinistra greca spera di arginare la scissione del partito dopo l’accordo con la Ue.
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
Atene ha accolto la vigilia del voto con una splendida giornata di sole che ha offerto agli ateniesi la tentazione di fuggire dalla campagna elettorale verso un bagno ristoratore nel golfo Saronico. Chi aveva deciso di astenersi prolungherà la breve evasione anche oggi, a urne aperte. La percentuale degli astensiosnisti deciderà anche il vincitore di queste elezioni perché si sa che la maggior parte di loro sono ex elettori di Syriza delusi e scoraggiati dal brutto esito della trattativa. Lo sa anche Alexis Tsipras, che si è speso come non mai in questa campagna pur di farli tornare da lui.
La manifestazione di chiusura a Syntagma, venerdì sera, ha dimostrato che non è stato tutto vano. La piazza era piena. Non pienissima come alla vigilia del referendum ma sicuramente ha visto la più grande partecipazione di tutta la campagna elettorale. Una parte consistente del suo elettorato è tornato a dare fiducia a Syriza. La vittoria è a portata di mano, anche se l’obiettivo della maggioranza assoluta sembra lontano.
I greci sono testardi e orgogliosi. Se uno vuole farli infuriare basta che faccia cenno alla loro presunta «immaturità politica» e alla conseguente necessità che si lascino guidare da forze «responsabili» perché ispirate da centri stranieri. Ecco in breve il ritratto della destra in cerca di rivincita, alzando la bandiera dell’«unità nazionale». Un espediente made in Germany per neutralizzare per sempre gli antagonisti. No, il gioco è talmente scoperto che nessuno ci è cascato. Nuova Democrazia ha recuperato alcuni elettori, ma erano voti suoi che a gennaio si erano presi una libera uscita: non segnano uno spostamento a destra dell’elettorato.
La sinistra può aver sbagliato, essere uscita sconfitta nel negoziato, ma è sempre quella che ha tenuto testa ai diktat di Bruxelles e di Berlino, è quella che ha dato battaglia, mentre la destra si inchinava servile di fronte alla Merkel. Cose ben vive nella memoria collettiva. Tsipras lo sa e per questo è apparso ieri rilassato e sorridente al tradizionale incontro «Un ouzo con il capo» con i giovani di Syriza, in un locale alternativo di Monastiraki, il quartiere tradizionale sotto l’Acropoli. Nessuna dichiarazione prelettorale (la legge lo proibisce) ma una chiacchierata con i pochi studenti rimasti nel partito dopo la defezione di tutta l’organizzazione giovanile verso Unità Popolare. Domanda: «Presidente sarà ridotto il servizio militare?», ora della durata di 9 mesi. Risposta sorridente di Tsipras: «Andate a difendere la patria, sfaccendati». Risata generale.
Il distacco di Syriza rispetto alla destra sarà di almeno quattro punti. Me lo conferma il direttore dell’agenzia di stampa ateniese Michalis Psilos, ossservatore neutrale ma disposto a scommettere anche in favore di una sconfitta ancora più umiliante per la destra. Che in questi ultimi giorni ha mostrato il suo volto peggiore: venerdì era il secondo anniversario dell’assassinio di Pavlos Fyssas e il fuhrer di Alba Dorata Michaloliakos ha rivendicato pubblicamente la «responsabilità politica» per l’uccisione. Alla fine di una delle tante manifestazioni per l’anniversario, un gruppo di anarchici ha assaltato a colpi di molotov il commissariato di Exarchia. Sette minorenni fermati sono stati selvaggiamente pestati dai poliziotti. Ecco la destra ellenica in tutta la sua magnificenza: pestaggi nei commissariati e gara con i nazisti su chi la spara più grossa nella retorica xenofoba. Il leader di Nuova Democrazia Vangelis Meimarakis aveva preso di mira anche l’ex ministra dell’Immigrazione Tasia Christodoulopoulou, rendendola un obiettivo visibile per le squadracce naziste.
All’incontro ha fatto la sua comparsa anche l’ex ministro della Cultura Nikos Xidakis, per tanti decenni responsabile delle pagine culturali di Kathimerini. E’ candidato di Syriza ma non è membro del partito. Anche lui è ottimista e mi espone con grande fervore la sua convinzione che la sinistra al governo greco può fare la differenza in Europa.
Ad Atene tutti sono convinti che i negoziati con i creditori non sono per niente finiti. Il terzo memorandum, quello sottoscritto da Tsipras il 13 luglio, non segue alcuna logica economica. E’ un testo messo su solo per ragioni politiche, per umiliare e delegittimare il governo di Atene. Ben presto quindi dovrà essere rivisto, se non si vuole continuare questo logorante braccio di ferro tra Atene e l’Ue per altri cinque anni. Se Tsipras riuscirà nel frattempo a portare avanti le riforme giuste, sarà in grado di rinegoziare gli aspetti più aspri. Con il vantaggio di aver ottenuto anche una seria ristrutturazione del debito, nei negoziati che iniziano a ottobre.
Tsipras insieme con chi? Le alleanze al governo sono il quiz della vigilia. I Greci Indipendenti, che hanno fatto la campagna Tv di gran lunga più spiritosa, rischiano di non superare la soglia del 3% e rimanere fuori dal Parlamento. In questo caso, oppure nell’eventualità che neanche i loro deputati siano sufficienti, ci sarebbe un accordo di massima già pronto. Non è con To Potami, come tutti credevamo, cioè la formazione di plastica del presentatore Tv Stavros Theodorakis, ma con i socialisti del Pasok. Secondo fonti di Syriza, la nuova leader Fofi Gennimatà ha ricevuto forti pressioni da alcuni partiti socialisti europei perché procedesse verso una rifondazione del socialismo ellenico. In pratica, mettere da parte gli esponenti più esposti e più chiacchierati, come l’ex leader Evangelos Venizelos, per poter collaborare con il premier Tsipras. Per la Gennimatà, politica inesperta e senza grande carisma, è un’occasione d’oro per affermare in pieno la sua leadership. Per Tsipras l’obiettivo sarebbe di condizionare gli equilibri interni del partito di centrosinistra in modo da sganciarlo dall’alleanza subalterna con la destra liberista europea.
E’ questa la politica sotto l’ombra del Partenone, antica passione dei greci, ora in mano a una sinistra che aspira a guidarla e condizionarla. Dal gennaio scorso molta acqua è passata sotto i ponti ma non inutilmente: «Sconfitta non è cadere per terra, sconfitta è non poter rialzarsi», ha gridato Tsipras nel suo ultimo comizio, parafrasando Humphrey Bogart. Stasera si rialzerà in piedi e getterà di nuovo il suo guanto di sfida all’Europa dell’austerità.
Un'intervista molto utile per rendersi conto del perché la sconfitta di Tsipras nella trattativa con gli avvoltoi dell'Unione europea non era evitabile, che cosa la vicenda abbia aiutato a comprendere, e quindi come si debba attrezzarsi nel continuare la lotta. S
bilanciamoci.info newsletter, 19 settembre 2015
“La firma del memorandum è stata una sconfitta, chi sostiene il contrario mente, ma la guerra non è finita e ora bisogna guardare avanti, alla prossima battaglia”. Come andrà è difficile da prevedere, molto dipende dal risultato che uscirà dalle urne greche domenica. Economista molto vicina a Syriza, membro del direttivo dell’Istituto Nicos Poulantzas e del coordinamento dell’EuroMemorandum Group, Marika Frangakis ha vissuto l’esperienza dei 5 mesi di governo sulla prima linea, membro del team di consiglieri economici del vicepresidente Dragasakis. La incontriamo a Roma, dove è arrivata per partecipare a una giornata di approfondimento sulla Grecia organizzata alla Camera da Le Belle Bandiere.
La Grecia va al voto di nuovo sotto il capital control, può spiegarci che cosa significa?
Il capital control è stato introdotto il 28 giugno scorso e si è reso necessario quando la Bce ha deciso di interrompere i prestiti alle banche greche. Per una economia come quella greca, basata sostanzialmente sul cash - basti pensare che prima del capital control appena il 5 per cento del denaro circolava tramite carte di credito o strumenti simili – questo ha creato un enorme problema di liquidità. Gli unici soldi in circolazione erano quelli della Banca nazionale greca e, senza misure di controllo dei capitali appunto, non sarebbero bastati nemmeno per due settimane. Perciò il capital control è stato lo strumento utilizzato per fare accettare l’accordo a Tsipras: se non avesse firmato avrebbe dovuto trovare liquidità altrimenti. Non è stata solo una forma di pressione ma un vero e proprio strangolamento. Le banche sono rimaste chiuse 3 settimane, hanno riaperto subito dopo la firma del memorandum ma il ritorno alla normalità è stato lento e ancora oggi c’è un limite ai prelievi che si possono effettuare dal proprio conto corrente: 60 euro al giorno, con la possibilità di prelevare una volta sola alla settimana. In più non bisogna dimenticare che il capital control era stato introdotto anche a Cipro e, a due anni dall’esplosione della crisi, è ancora in vigore. Temo che in Grecia ci aspetti qualcosa di simile.
Quindi il capital control continua ad essere uno strumento di pressione sulla politica greca?
Certo, la liquidità è un problema. Le banche hanno una liquidità limitata quindi la quantità di denaro in generale che serve all’economia è limitata e questo è un po’ paradossale perché la Grecia non ha un problema di solvibilità, ci sono molti asset di valore nel paese.
Come giudica il ruolo della Bce in questa crisi?
La Banca centrale europea ha mostrato la sua vera faccia. E a dirlo non sono analisti di sinistra ma commentari autorevoli come il professore belga Paul De Grauwe. Il compito della Bce dovrebbe essere quello di salvaguardare la stabilità del sistema monetario e non quello di fare pressione sul governo greco. Non dobbiamo dimenticare che il programma di Quantitative easing varato da Mario Draghi era appena iniziato quando Syriza è arrivata al governo. La tendenza generale era quella di immettere liquidità nel sistema – 60 miliardi circa in prestiti agli istituti di credito – ma quando è stato il turno della Grecia hanno semplicemente detto di no.
Parliamo dell’ipotesi di Grexit: conosceva il piano B di Varoufakis?
Certo, il programma elettorale di Syriza faceva menzione della possibilità di lasciare l’euro come strumento di pressione sui negoziati. Ma molto presto è diventato chiaro che anche i creditori avevano un piano per spingere la Grecia fuori dall’euro. A quel punto è stato chiaro che uscire dall’euro non era una valida alternativa. Aggiungo che una delle difficoltà, in genere poco considerate, è lo scarso appoggio che questo governo ha trovato all’interno dell’apparato dello Stato. Il settore pubblico, a cui il governo in genere si appoggia, in Grecia è, soprattutto ai suoi vertici, strettamente connesso ai partiti mainstream. Quindi apparentemente tutti erano estremamente gentili, ma quando si trattava di richiedere un dossier, dei dati aggintivi o altro i tempi si dilatavano inesorabilmente, tutto diventava impossibile, e alla fine eri costretto a lasciare perdere.
La crisi, anche quella greca, non è stata uguale per tutti. Che conseguenze ha avuto sulla società?
I dati ci dicono che la disoccupazione è cresciuta, come anche la povertà, le disuguaglianze, la distribuzione del reddito e della ricchezza. Questo perché le misure prese per il consolidamento fiscale fin dal 2010 hanno colpito la classe media e la parte più povera della popolazione. Le tasse sono aumentate e i tagli hanno colpito la sanità, l’istruzione, le pensioni, il salario minimo. Quindi tutto è andato nella direzione di un approfondimento delle disuguaglianze. Ai livelli alti gli effetti della crisi sono stati limitati perché quei salari che si aggirano sui 200 mila euro all’anno non sono stati colpiti. Il governo di Tsipras, anche se alla fine è capitolato, ha provato ad alzare le tasse sui redditi più alti, ma la troika era contraria. Era parte del gioco anche questo, un modo per i creditori di chiarire che le èlite come loro non sarebbero state colpite dalle misure, perché le èlite lavorano insieme.
Quale è dunque la lezione della Grecia per parafrasare un suo recente intervento?
Non credo che la sinistra abbia realizzato davvero quanto forti e intransigenti e inflessibili i creditori siano. Tu sei convinto di avere a che fare con persone ragionevoli quindi ti aspetti di riuscire a negoziare qualcosa. Quello che scopri invece è che loro sono disposti a tutto, persino a tollerare un danno economico, piuttosto che concedere qualcosa. Quindi la prima lezione è che se la sinistra vuole combattere l’austerità deve essere consapevole che gli avversari non sono persone ragionevoli ma persone disposte a tutto. La lezione numero due è che le persone in generale devono essere a conoscenza del modo decisamente poco trasparente in cui le istituzioni operano. Infine: bisogna porsi il problema di come influenzare il processo decisionale in un modo o nell’altro. In questo senso anche stare all’opposizione è importante.
La voce autorevole del giovane economista francese si aggiunge alle molte che ricordano l'utilità, per il miglioramento del livello di civiltà dell'Europa ma per la sua stessa sopravvivenza sociale, di accogliere le persone spinte dall'onda dell'esodo.
La Repubblica, 19 settembre 2015
LO SLANCIO di solidarietà in favore dei rifugiati osservato in queste ultime settimane è stato tardivo. Ma quanto meno ha avuto il merito di ricordare agli europei e al mondo una realtà fondamentale. Il nostro continente, nel XXI secolo, può e deve diventare una grande terra di immigrazione. Tutto concorre in tal senso: il nostro invecchiamento autodistruttivo lo impone, il nostro modello sociale lo consente e l’esplosione demografica dell’Africa abbinata al riscaldamento globale lo esigerà sempre di più. Tutte queste cose sono largamente note. Un po’ meno noto, forse, è che prima della crisi finanziaria l’Europa si avviava a diventare la regione più aperta del mondo in termini di flussi migratori. È la crisi, scatenatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ma da cui l’Europa non è mai riuscita a uscire per colpa di politiche sbagliate, che ha condotto all’aumento della disoccupazione e della xenofobia, e a una chiusura brutale delle frontiere. Il tutto in un momento in cui il contesto internazionale (Primavera Araba, afflusso di profughi) avrebbe giustificato, al contrario, una maggiore apertura.
Facciamo un passo indietro. Nel 2015 l’Unione Europea conta quasi 510 milioni di abitanti, contro circa 485 milioni nel 1995 (considerando le frontiere attuali dell’Unione). Questa progressione di 25 milioni di abitanti in vent’anni di per sé non ha niente di eccezionale (appena lo 0,2 per cento di crescita annuo, contro l’1,2 per cento della popolazione mondiale nel suo insieme nello stesso periodo). Ma il punto importante è che tale crescita è dovuta, per quasi tre quarti, all’apporto migratorio (più di 15 milioni di persone). Tra il 2000 e il 2010, l’Unione Europea ha accolto quindi un flusso migratorio (al netto degli espatri) di circa 1 milione di persone all’anno, un livello equivalente a quello degli Stati Uniti, con in più una maggiore diversità culturale e geografica (l’islam rimane marginale Oltreatlantico). In quell’epoca non così remota in cui il nostro continente sapeva mostrarsi ( relativamente) accogliente, la disoccupazione in Europa era in calo, almeno fino al 2007-2008. Il paradosso è che gli Stati Uniti, grazie al loro pragmatismo e alla loro flessibilità di bilancio e monetaria, si sono rimessi molto in fretta dalla crisi che essi stessi avevano scatenato.
Hanno rapidamente ripreso la loro traiettoria di crescita (il Pil del 2015 è del 10 per cento più alto di quello del 2007) e l’apporto migratorio si è mantenuto intorno a 1 milione di persone l’anno.
L’Europa, invece, impantanata in divisioni e posizioni sterili, non è mai riuscita a tornare al livello di attività economica precedente la crisi, e le conseguenze sono state la crescita della disoccupazione e la chiusura delle frontiere. L’apporto migratorio è precipitato drasticamente da 1 milione di persone l’anno fra il 2000 e il 2010 a meno di 400.000 fra il 2010 e il 2015. Che fare? Il dramma dei rifugiati potrebbe essere l’occasione, per gli europei, di uscire dalle loro piccole diatribe e dal loro egocentrismo. Aprendosi al mondo, rilanciando l’economia e gli investimenti (case, scuole, infrastrutture), respingendo i rischi deflazionistici, l’Unione Europea potrebbe tornare senza alcun problema ai livelli migratori registrati prima della crisi. L’apertura manifestata dalla Germania al riguardo è una notizia ottima per tutti coloro che si preoccupavano dell’ammuffimento e dell’invecchiamento dell’Europa. Certo, qualcuno potrebbe sostenere che la Germania non ha scelta, tenuto conto della sua bassissima natalità: secondo le ultime proiezioni demografiche dell’Onu, che pure sono basate su un flusso migratorio due volte più elevato in Germania che in Francia nei prossimi decenni, la popolazione tedesca passerebbe dagli 81 milioni odierni a 63 milioni di qui alla fine del secolo, mentre la Francia, nello stesso periodo, passerebbe da 64 a 76 milioni.
Qualcuno potrebbe ricordare anche che il livello di attività economica osservato in Germania è in parte la conseguenza di un gigantesco surplus commerciale, che per definizione non potrebbe essere esteso a tutta l’Europa (perché non ci sarebbe nessuno sul pianeta in grado di assorbire una tale quantità di esportazioni).
Ma questo livello di attività si spiega anche con l’efficacia del modello industriale tedesco, che si fonda in particolare su un fortissimo livello di coinvolgimento dei dipendenti e dei loro rappresentanti (che hanno la metà dei seggi nei consigli d’amministrazione), e a cui faremmo bene a ispirarci.
Soprattutto, l’atteggiamento di apertura verso il mondo manifestato dalla Germania invia un messaggio forte agli ex Paesi dell’Europa dell’est membri dell’Unione Europea, che non vogliono né bambini né migranti e la cui popolazione messa insieme, sempre secondo l’Onu, dovrebbe passare dagli attuali 95 milioni a poco più di 55 entro la fine del secolo. La Francia deve rallegrarsi di questo atteggiamento della Germania e cogliere l’opportunità per far trionfare in Europa una visione aperta e positiva verso i rifugiati, i migranti e il mondo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Lo scandalo c'è. Ma non è nell'assemblea organizzata dal sindacato e autorizzato dai rappresentanti del governo ai sensi di legge e con il dovuto preavviso, ma nella negligenza nell'informare con metodi adeguati i visitatori. Ma l'occasione è buona per colpire i lavoratori e le loro rappresentanze. Articoli di Arianna Di Genova e Riccardo Chiari.
Il manifesto, 19 settembre 2015
«Non più cultura in ostaggio dei sindacati», cinguetta Renzi. «La misura è colma», fa eco Franceschini. Anche il sindaco della capitale, Ignazio Marino, sembra su di giri: «è uno sfregio per il nostro paese», tuona. Franceschini e Renzi si spalleggiano, e mentre si professano paladini del Colosseo, chiuso per due ore a causa di un’assemblea sindacale già annunciata, nei fatti dichiarano guerra al patrimonio stesso. Perché per tenere aperti musei e siti archeologici, rendendoli quel prezioso biglietto da visita che in realtà sono per naturale dna, bisognerebbe prima di tutto sostenerli, trattarli davvero come beni comuni. Ma quella manciata di ore «rubate» ai turisti ha tenuto in scacco i vari proclami di Renzi&Co sulla cultura, divenuta una formidabile macchina per spremere consenso. Ha lacerato una maschera assai comoda da indossare, travolgendo un argomento così amabilmente «social». Il ritardo di apertura dell’Anfiteatro Flavio è rimbalzato in rete, un fiume in piena che ha rotto gli argini: i più smaliziati hanno trattato la notizia con ironia, altri con disappunto, diffusamente il «disagio» ha prestato il fianco a una denigrazione dei lavoratori, aizzata soprattutto dal governo.
A uno sguardo distratto, quella specie di tsunami che ha attraversato il Parlamento, scosso di fronte ai turisti in fila fuori dal Colosseo, dovrebbe far sperare per il meglio: i deputati, dopo anni di olgettine, feste e corruzione traversale hanno finalmente a cuore qualcosa che li rende più umani. Il soggetto, oltretutto, è bipartisan. Se il Pd nazionale ha gridato allo scandalo («non si chiude la cultura» ) e addirittura un pasionario come Pedica si è offerto volontario in veste di custode, altri a destra (e pure diversi a sinistra) ne hanno approfittato per attaccare il diritto di sciopero. Che poi era un’assemblea di due ore, come avviene in tutti i musei del mondo senza suscitare isterismi: la National Gallery di Londra ha serrato le porte per 50 volte in un anno di fronte alla minaccia di un passaggio in mani private.
Alla fine della giornata, è arrivata la schiarita: l’annuncio di un nuovo decreto-legge che inserisca la cultura fra i servizi essenziali. Bene, ha affermato il soprintendente Prosperetti, fermo restando il fatto che tutto era stato annunciato, non si è trattato di chiusura ma solo di un posticipo e avvisi multilingue erano stati esposti sui monumenti.
In vista di una privatizzazione dei beni culturali a cui si punta con ogni energia possibile – i commissariamenti sono stati una catastrofe, quindi una strada non più percorribile – ha preso forma un braccio di ferro tra sindacati e governo. Una volta ventilato lo sciopero nazionale, lo scontro è diventato epico: i custodi rivoltosi come tanti Spartaco che si rifiutano di avallare il nuovo hashtag, «la buona cultura». Vale la pena, però, fare un passo indietro per scavalcare l’onda emotiva e mediatica. E con un po’ di sano distacco, cercare di capire cosa sia realmente successo in una giornata politica la cui agenda ad hoc è stata costruita fin dal mattino.
I turisti, invece della consueta fila di almeno un’ora per entrare nel celebre monumento, ieri ne hanno fatta una un po’ più lunga. Il Colosseo — come altri siti italiani perché l’assemblea era nazionale — ha aperto più tardi rispetto al consueto a causa di un incontro fra lavoratori e sindacati. L’oggetto? La mancanza del pagamento da parte dello Stato – dal novembre scorso, quasi da un anno, del cosiddetto «salario accessorio», quello maturato per le aperture lungorario, e anche notturne. Era il frutto di un accordo che avrebbe permesso di non tenere, appunto, «la cultura in ostaggio», secondo lo slogan renziano. Però non è stato onorato: i 18,500 dipendenti del ministero aspettano le indennità accessorie (30% dello stipendio) da un’infinità di mesi. Oltretutto, siti importanti come Uffizi e Pompei non sono stati chiusi, per dare un segnale positivo. Palazzo Pitti sì: sebbene la città di Firenze pullulasse di turisti, nessuno è corso alle armi. Non sempre le richieste sindacali sono del tutto condivisibili, ma stavolta conoscere le ragioni può aiutare a dirimere la questione.
Il Colosseo è aperto sette giorni su sette, da marzo a ottobre (con visite guidate) anche di notte, eppure soffre dell’endemica e cronica malattia dei nostri beni culturali: la mancanza di organico, vuoi strumentale vuoi per difetto di finanze e tagli inconsulti susseguitisi a raffica. Se la riforma del Mibact è stata compiuta e pure strombazzata ai quattro venti – compreso il fiore all’occhiello dei vari direttori italiani e esteri insediati nei «posti chiave», – poco o nulla si è fatto per colmare quella sconfortante carenza di personale. Per fare un esempio: i custodi in ferie, durante l’estate sono stati sostituiti con persone che venivano pagate 3,5 euro l’ora, gettate nell’arena senza preparazione né alcun corso. Riempire i buchi, di corsa e con il minor danno possibile (in termini economici), continua ad essere la parola d’ordine. Nessun sistema strutturale per ovviare al disagio. Il «caso» l’ha creato il governo stesso, facendo la prima mossa, la più grave: non rispettando i patti. La cultura non c’entra proprio niente.
PROTESTE CHIUSE PER DECRETO
di Riccardo Chiari
Musei. Un’assemblea sindacale di due ore dei custodi del Colosseo scatena la vendetta premeditata del governo. Anche M5S contro i lavoratori. La Cgil attacca Renzi. La riunione era annunciata e autorizzata da tempo. Da mesi ai lavoratori non sono pagati gli straordinari. Ma il ministro ’costruisce’ il caso per un obiettivo che piace al governo: limitare il diritto di sciopero
«No alla cultura ostaggio dei sindacati». Passano gli anni, ma il “bomba” Renzi, così come lo avevano ben presto individuato i compagni di classe del liceo Dante, prosegue a spararle in libertà. Il problema, per gli italiani, è che in un modo o nell’altro il “bomba” è diventato presidente del consiglio. Succede così che una normale assemblea sindacale, chiesta per tempo — una settimana fa — e regolarmente autorizzata dalla Soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma, diventa casus belli. Di una guerra che ha come obiettivo finale il diritto di sciopero. Da limitare, al momento, con un decreto legge detonante. Da ammazzare, entro breve, con una raffica di disegni di legge, già all’ordine del giorno della commissione lavoro del Senato e a quella affari Costituzionali. Firmati dai soliti Maurizio Sacconi e Pietro Ichino.
Bastano le file all’entrata del Colosseo a creare il caso. Dal nulla, visto che nei principali poli museali italiani, quotidianamente presi d’assalto dai turisti, un paio di ore di coda sono fisiologiche. Chiedere per informazioni ai visitatori della Torre pendente di Pisa, costretti a passare uno per volta sotto il metal detector per motivi di sicurezza. E di due ore e mezzo era la durata dell’assemblea, puntualmente segnalata sui quotidiani, perché la comunicazione ufficiale della Soprintendenza era arrivata per tempo. Anche su alcune agenzie di stampa. Ma proprio una di esse — la principale — di buon mattino lancia già, con evidenza, la notizia: «Un’assemblea sindacale tiene chiusi i siti archeologici più importanti della Capitale: Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica».
Da quel momento prende forma un crescendo inarrestabile. Scatta per prima, ma quando i cancelli del Colosseo sono già stati riaperti, la forzista Lara Comi: «Il paese è bloccato dai sindacati». A ruota il capogruppo dem di Montecitorio, Ettore Rosato: «Il Colosseo chiuso per assemblea è uno sfregio all’impegno di Roma per competere con le grandi città europee». Il colpo grosso arriva dopo mezzogiorno: «La misura è colma», detta il ministro Dario Franceschini, pronto ad annunciare che, in accordo con Renzi, proporrà al consiglio dei ministri di inserire musei e luoghi della cultura nei servizi pubblici essenziali.
L’idea non è nuova. Renzi & Franceschini ci avevano già provato a luglio, quando avevano venduto come “selvaggia” un’altra assemblea indetta secondo le procedure di legge, a Pompei. Ma è proprio la legge, peraltro non certo permissiva, ad essere nel mirino del governo e dei suoi sodali. Fra questi ultimi spicca Sacconi: «Roma, caos turisti: ora fare legge su sciopero e diritti sindacali per proteggere utenti beni pubblici». A dargli manforte Angelino Alfano: «Approviamo subito le legge di Sacconi su regolazione sciopero a tutela utenti beni pubblici. Ieri è iniziato l’iter al Senato».
Chi non crede all’evidenza del pensiero unico avrà da pensare guardando il “sindaco antifascista” Ignazio Marino che si fa riprendere da una telecamera mentre dice: «Sono completamente d’accordo con Franceschini». Non fa una bella figura lo staff di Laura Boldrini, che le permette di dire: “È giusto svolgere l’attività sindacale, ma non si può senza preavviso». Desolanti i 5 Stelle: «Dopo Pompei, succede di nuovo e questa volta a Roma». Unica voce fuori dal coro Paolo Ferrero di Rifondazione: «Sono indecenti gli attacchi ai lavoratori del Colosseo e dei Fori. Franceschini dovrebbe occuparsi piuttosto dello stato in cui versa il nostro patrimonio artistico e culturale, che cade a pezzi. Sono le risorse che mancano e i tagli alla cultura che danneggiano il turismo, non l’assemblea dei lavoratori».
È allibito Claudio Meloni, coordinatore per la Fp Cgil del Mibact: «Non è possibile che il ministro Franceschini non sapesse che le assemblee avrebbero potuto comportare il rischio di aperture ritardate. A Roma l’assemblea è stata chiesta regolarmente l’11 settembre e regolarmente autorizzata dal soprintendente, con largo anticipo. Vorrei inoltre ricordare al ministro che i beni culturali già stanno nella legge che regolamenta i servizi pubblici essenziali».
Tutto inutile. A sera, finito il consiglio dei ministri, l’ineffabile Franceschini annuncia: «Il decreto legato alla vicenda del Colosseo prevede che sia aggiunta ai servizi pubblici essenziali anche l’apertura dei musei». Inutile anche lo sguardo fuori dai confini patri: «Iniziative analoghe avvengono in tutti i paesi d’Europa — ricordano Meloni, Giuliana Guidoni della Cisl Fp ed Enzo Feliciani della Uil Pa — ricordiamo il caso dei lavoratori della National Gallery di Londra, in mobilitazione da diversi mesi contro la privatizzazione dei servizi, o i lavoratori della Tour Eiffel a Parigi, che l’anno scorso hanno chiuso per ben tre giorni il monumento più visitato di Francia. Senza che a nessuno degli esponenti politici o dei media di questi paesi sia venuto in mente di mettere in discussione i diritti fondamentali dei lavoratori»
Ignoranza o menzogna? probabilmente il saldo intreccio tra l'una e l'altra. Ma la questione è sempre la stessa, tragica per chi è nato qui: agli italiani piace cosí.
Il Fatto quotidiano, 18 settembre 2015
Chissà quali libri hanno letto o quali sostanze hanno assunto i due somari che tengono in ostaggio la Costituzione, per farsi l’idea che 70 anni fa, cioè nel 1945, subito dopo la Liberazione dal nazifascismo e dalla guerra civile, gli italiani scendessero in strada scandendo slogan contro il bicameralismo paritario e contro il resto della Costituzione due anni prima che questa fosse scritta. Forse non guasterebbe la lettura di un manuale di storia, anche in formato Bignami, o qualche seduta in una comunità di recupero, per insegnare ai due padri ricostituenti qualche rudimento di cultura generale, utilissimo per colmare le loro lacune e risparmiare loro altre scemenze.
Il bicameralismo paritario – Camera e Senato con regole elettorali diverse, ma con funzioni analoghe – fu introdotto dalla Carta approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata cinque giorni dopo dal capo dello Stato ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Cioè 67 anni e mezzo fa. E si può serenamente escludere che negli anni successivi qualcuno invocasse una riforma della Costituzione appena varata.
Fu negli anni 70-80 che i partiti cominciarono a scaricare sul Parlamento le colpe della loro inconcludenza, corruzione e rissosità, spacciando alla gente l’illusione che eliminando il Senato o privandolo del voto di fiducia l’Italia sarebbe diventata una democrazia efficiente. Ma nessuno abboccò: l’opinione pubblica seguitò a fregarsene bellamente e nessuno versò una sola lacrima dinanzi al naufragio delle orribili riforme costituzionali tentate dalle varie commissioni bicamerali (Bozzi, De Mita-Iotti, D’Alema-Berlusconi). Anche perché i dati parlano chiaro: se certe leggi impiegano tanto a uscire approvate dal Parlamento non è perché ci siano due Camere anziché una e mezza, ma perché da sempre i partiti litigano fra loro, o più spesso al proprio interno.
Quando invece le maggioranze vanno d’accordo, i tempi sono rapidissimi. In media, fra Camera e Senato, 53 giorni per le leggi ordinarie, 46 per i decreti e 88 per le Finanziarie. Solo la loro misera penuria di argomenti può portare Renzi & Boschi a gabellare la loro schiforma per un evento epocale “atteso da 70 anni”. Ma atteso da chi? Secondo l’ul timo sondaggio Ipsos per il Corriere, solo il 3% degli italiani conosce la riforma del Senato “nel dettaglio”, un altro 28% “a grandi linee” e tutti gli altri – la stragrande maggioranza – non ne sanno nulla, per dire con quanta ansia la attendono da 70 anni.
Eppure la bella addormentata nei Boschi delira, sempre sul Corriere, di un non meglio precisato “impegno da mantenere con i cittadini”: e quando mai ha preso quell’impegno, e con quali cittadini, visto che il suo partito arrivò primo alle ultime elezioni del 2013 promettendo di far eleggere direttamente tutti i parlamentari dopo dieci anni di Porcellum? Poi vaneggia di una fantomatica “esigenza di rispettare la data del 15 ottobre” (fissata da chi? e perché non il 15 novembre, o dicembre, o gennaio?) dinanzi all’“Europa” che “ci riconosce spazi finanziari di flessibilità se in cambio facciamo le riforme”: come se la flessibilità sul rapporto deficit-Pil c’entrasse qualcosa col Senato.
Alla fine però la Boschi confessa: “Faccio sogni molto più belli che quello di fare il premier”. Ecco svelato l’arcano. Le boiate che dice e purtroppo scrive nella nuova Costituzione deve avergliele dettate in sogno qualcuno che a noi pare di conoscere: crapa pelata, mascella volitiva, mento e labbro inferiore sporgenti. La trovata delle riforme attese da 70 anni può venire soltanto da lui. Fu proprio 70 anni fa che l’Italia abolì il bicameralismo imperfetto creato da Mussolini: cioè la Camera dei Fasci e delle Corporazioni (membri non eletti, ma nominati dal Gran Consiglio del Fascismo presieduto dal Duce, dal Consiglio nazionale del Partito fascista presieduto dal Duce e dal Consiglio nazionale delle Corporazioni presieduto dal Duce) e il Senato del Regno (membri non eletti, ma nominati a vita dal Re su input del governo). Due Camere di nominati con funzioni diverse, ma relegate a un ruolo ancillare del governo.
Mutatis mutandis, è quello che ci aspetta con la Camera dei nominati (i capilista bloccati dell’Italicum) e il Senato dei nominati (i senatori paracadutati dalle Regioni). Manca solo l’articolo 2 della legge fascistissima 19.1.1939 n. 129: “Il Senato del Regno e la Camera dei Fasci e delle Corporazioni collaborano col governo alla formazione delle leggi”. Ma questo, oggi, è sottinteso.
Oltre ogni decenza. Per salvare il governo (e le loro poltrone) votano a favore dei razzisti. «Solo 10 votano contro il leghista, anche Sel si divide. Guerini chiama l’ex ministro. L’accusa di Manconi»La Repubblica, 18 settembre 2015
C’è chi ha scelto la ragion di Stato, chi ha votato al buio senza capire molto e chi invece aveva capito benissimo. Dopo aver salvato Roberto Calderoli, è l’imbarazzo a tenere assieme i senatori del Pd. Solo dieci - il 9% del gruppo, approssimando per eccesso - hanno giudicato razzismo quell’”orango” scagliato contro Cécile Kyenge. Gli altri dem - e mezza Sel- hanno bloccato l’azione della Procura e frustrato l’indignazione dell’ex ministra. Che infatti si lamenta: «Non si tratta di ricevere una chiamata da Renzi, che non c’è stata. Io mi aspetto dal partito una parola chiara per capire qual è la linea su questa vicenda».
C’è sconcerto. Nella base, in Rete, tra i militanti. Anche l’Unità pubblica in prima pagina un editoriale dell’eurodeputata, dal titolo inequivocabile: “Discriminazione razziale”. Il resto lo fanno i tabulati, che non mentono: ottantatre senatori del partito del premier (e naturalmente l’intero centrodestra) pigiano il pulsante verde: “Aggravante per odio razziale? Insindacabile”.
Solo dieci senatori della minoranza (più sei astenuti) la pensano diversamente. Tra loro Federico Fornaro e Doris Lo Moro, Felice Casson e Stefania Pezzopane. E a sorpresa lo storico garantista Luigi Manconi: «Ho votato sempre a favore della insindacabilità, ma stavolta no». Razzismo, e anche oltre: «La linea di confine tra la critica politica e la diffamazione con una simile aggravante - premette - non è lineare. Nonostante io rifiuti radicalmente il concetto di reato d’opinione, in questo caso ho valutato che quella linea di confine fosse individuabile e fosse stata ampiamente e violentemente superata. Le parole di Calderoli degenerano in scherno e denigrazione personale, oltretutto con un effetto discriminatorio per ragioni di appartenenza etnica ».
Non è così per tutti, però. Non per i renziani di Palazzo Madama - nessuno escluso - e neanche per alcuni esponenti della sinistra del Pd, come il regista dei bersaniani Maurizio Migliavacca e la capogruppo dei vendoliani Loredana De Petris. L’anomalia si annida soprattutto in quel voto disgiunto. «Che senso ha?», non si dà pace Dario Stefàno, che presiede la giunta per le immunità e sta studiando a fondo le carte. Corradino Mineo, poi, sceglie l’insindacabilità anche per la diffamazione, mentre contro Calderoli si esprimono i grillini e tre ex leghisti, oggi tosiani, capitanati da Patrizia Bisinella.
E la Kyenge? Nella prossima udienza il suo legale chiederà ai giudici di portare il caso all’attenzione della Corte costituzionale. Non basta una lunga telefonata di Lorenzo Guerini a chiudere l’incidente. Sulla permanenza del Pd, però, l’ex ministra frena: «Sono triste e amareggiata, ma non lascio il Pd perchè è casa mia. È chi ha sancito con il voto di ieri che il razzismo non è reato a doversi interrogare. Qualcosa di nemmeno concepibile in Europa». L’eurodeputata ha applausi solo per la base dem: «Mi hanno espresso la loro vicinanza con grandissimo affetto ».
Di certo non dimostra la stessa comprensione il leghista Davide Boni. Come se nulla fosse accaduto, sceglie Twitter per ironizzare sul possibile addio di Kyenge al Pd. E scomoda addirittura Luigi Tenco: «Ciao Amore, ciao Amore, ciao Amore, ciao...». Alla faccia di Manconi, che citando Karl Popper poco prima ricordava: «Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti».
L’eurodeputata: “Sono amareggiata ma resto, il Pd è casa mia. Altri devono interrogarsi”
SALVATO
Il Senato ha votato per l’insindacabilità delle parole di Roberto Calderoli
«». Lavoce.info
Un passo per cambiare Dublino
Alcuni giorni fa, la Germania ha adottato una decisione generosa riguardo al problema dei profughi, offrendosi di dare asilo ai siriani, in deroga al regolamento di Dublino, in base al quale la responsabilità spetterebbe allo stato membro di primo ingresso nel territorio Ue. A seguito di questa scelta, il governo tedesco si è trovato a fronteggiare un flusso assai meno controllabile di quanto immaginato. Ha quindi fatto una temporanea marcia indietro, richiamando gli altri paesi membri alla propria responsabilità in relazione alla ripartizione dei profughi.È possibile che il risultato netto di tutta l’operazione sarà un semplice ritorno alla soluzione (insoddisfacente) concordata a fine luglio: non una ripartizione “obbligatoria” in base alle capacità economiche e agli sforzi già sostenuti da ciascuno stato, come originariamente proposto dalla Commissione Ue, ma la ricollocazione di poche decine di migliaia di profughi, a parziale sgravio di Italia e Grecia, sulla base della (scarsa) disponibilità dimostrata da alcuni stati soltanto.
Rifugiati giovani e determinati
Questa soluzione avrebbe il vantaggio di rendere prevedibile lo sforzo richiesto, togliendo argomenti a coloro che paventano invasioni incontrollate. Lo svantaggio sarebbe invece rappresentato dal rischio di un approccio poco generoso. Per evitare che l’atteggiamento degli Stati più tirchi paralizzi l’intera Ue, si dovrebbe accettare che l’Unione proceda a diverse velocità, lasciando che ciascuno stato stabilisca da sé il limite numerico che lo riguarda (la cosa è già prevista dall’articolo 25 della direttiva 2001/55/Ce). Il successo di un approccio generoso servirebbe a mandare un segnale a quei paesi membri che lo sono di meno. Ma è credibile che la generosità si traduca in un successo per lo stato che la pratica? Se guardiamo alla straordinaria capacità, dimostrata da moltissimi profughi, di affrontare fatiche e pericoli, questo è possibile: si tratta di favorire l’inserimento sociale e lavorativo di una popolazione giovane e fortemente motivata. E un’economia vecchia e spenta come quella europea non potrebbe che giovarsi di questa iniezione di motivazione.
«Renzi continua a preferire l’aggiramento dell’ostacolo. La pressione sul presidente del senato perché non ammetta gli emendamenti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei senatori è continua».
Il manifesto, 18 settembre 2015
Renzi avverte: se il presidente apre agli emendamenti l’articolo 2 della legge di revisione costituzionale allora sapremo come regolarci. E la minaccia della fiducia o l'anticipo di una mossa per prendere in contropiede i dissidenti Pd, il cui voto in senato si conferma decisivo
Nel primo giorno di dibattito generale sulla riforma costituzionale, il governo conquista 179 voti di senatori contrari alle questioni pregiudiziali che avrebbero affossato il disegno di legge. La maggioranza renziana si rallegra: i numeri per vincere il braccio di ferro sulla Costituzione sembrano esserci. Ma nel voto sulle pregiudiziali, così come nel voto di mercoledì sul calendario dei lavori d’aula, la minoranza Pd ha deciso di seguire la disciplina di partito: se invece i trenta bersaniani, cuperliani e bindiani confermassero l’intenzione di votare contro l’articolo 2, neanche il risultato di ieri mette al riparo il governo da una clamorosa sconfitta. La campagna acquisti dei senatori di centrodestra — contro la quale ieri si è alzata la voce del senatore Scilipoti, simbolo di tutti i trasformismi — mette Renzi nelle condizioni di tentare il colpo. Ma a deciderne il risultato sarà ancora una volta la fronda del Pd. Reggerà?
Renzi continua a preferire l’aggiramento dell’ostacolo. La pressione sul presidente del senato perché non ammetta gli emendamenti all’articolo 2 per l’elezione diretta dei senatori è continua. Ieri due giornali — Stampa e Corriere — hanno riferito di un «piano B» di Renzi: cancellare del tutto il senato (mantenendo però la legge iper maggioritaria per la camera) e trasformare palazzo Madama in un museo. Palazzo Chigi ha smentito l’indiscrezione «volgare e assurda», Renzi non l’avrebbe mai «pensata né riferita». Grasso non ha creduto alla smentita e in pubblico ha attaccato il metodo di «far trapelare la prospettiva che si possa addirittura fare a meno delle istituzioni relegandole in un museo». «Ora Grasso deve decidere», ripete lo stuolo dei renziani, che anzi spiegano la mossa di saltare la commissione con l’indecisione del presidente del senato: aveva detto che avrebbe fatto la sua scelta solo una volta in aula, bene eccoci in aula. «Sono giorni convulsi e i prossimi temo che saranno anche peggio», prevede Grasso. Renzi lo sfida apertamente: «Se riaprirà la questione dell’articolo 2 ascolteremo le motivazioni e decideremo di conseguenza».
Può essere la minaccia della questione di fiducia sull’articolo 2, contro tutti gli emendamenti «pericolosi» sul senato elettivo. Un azzardo che il sottosegretario Pizzetti ha categoricamente esclusa e un po’ tutti ritengono uno strappo eccessivo e improbabile — ma è quello che si pensava prima che il governo mettesse la fiducia sulle leggi delega e sulla riforma elettorale. Oppure significa che se Grasso deciderà di aprire agli emendamenti anche qualche altra parte dell’articolo 2 oltre al comma 5 che è stato toccato alla camera, Renzi cercherà di addomesticare la decisione proponendo una modifica che rinvii la decisione sull’indicazione dei senatori-consiglieri alla legge ordinaria. Si potrebbe inserire al comma successivo, il 6, dove attualmente c’è la previsione assai fumosa che i seggi sono attribuiti regione per regione «in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio».
Una qualche apertura del premier alle richieste delle opposizioni è inevitabile, purché non sia sul cuore del dissenso, l’elettività diretta dei senatori. Servirà ad addolcire il passaggio con la maggioranza, o l’uscita dall’aula, di alcuni decisivi senatori di minoranza. Concessioni saranno fatte sulle competenze del senato (allargate) e sull’elezione degli organi di garanzia, Corte costituzionale e presidente della Repubblica (la minoranza Pd ha i suoi emendamenti in materia). Per il resto Renzi si prepara al referendum confermativo previsto per le leggi di revisione costituzionale. Ieri ha annunciato l’ennesimo calendario — lettura conforme della camera sulla riforma a gennaio e referendum in estate o autunno — esagerando in ottimismo. Perché se la camera approvasse effettivamente a gennaio senza toccare una virgola del testo del senato, la seconda lettura sarebbe possibile solo dopo tre mesi, al più presto in aprile, e da allora andrebbero calcolati i sette mesi necessari per il referendum: al più presto si finirebbe a novembre 2016.
«Italia. Dopo le polemiche sul "piano B" ora tutti fanno quadrato su Syriza. Anche Fassina: "Una sconfitta sarebbe la restaurazione"».
Il manifesto, 18 settembre 2015
Il voto greco si avvicina, i sondaggi prefigurano scenari cupi e la sinistra italiana, la sinistra-sinistra, fa quadrato intorno al leader greco. A Roma mercoledì scorso economisti e politici della famiglia rossa (ma anche di quella verde) si erano riuniti per un confronto con la greca Marika Frangakis, invitata dall’associazione «Le belle bandiere» e il gruppo di Sbilanciamoci a discutere del futuro dell’economia di Atene dopo la firma del Memorandum e alla vigilia di un probabile governo di coalizione.
Ieri però sono tornati tutti uniti. A tifare per Tsipras. Marciando divisi, per non perdere le abitudini della casa. «La riconferma di Syriza e ad Alexis Tsipras può far sì che non si spengano le speranze dei progressisti per un cambiamento profondo delle politiche europee. La loro sconfitta segnerebbe invece un brusco passo indietro ed un appiattimento completo sulle politiche di austerità», dice un nuovo appello firmato da Civati, Elly Schlein e Sergio Cofferati (europarlamentari ex Pd), Ferrero (Prc), Forenza e Maltese (due dei tre europarlamentari eletti con la lista Altra Europa per Tsipras, la terza è Barbara Spinelli che però a maggio ha abbandonato la lista ed è rimasta a Bruxelles da indipendente), Fratoianni e Vendola (Sel) e dai due sociologi Luciano Gallino e Marco Revelli.
Stessa musica, o quasi, anche da Stefano Fassina. Che resta convinto che il memorandum sia «insostenibile» ma sa che il risultato di domenica farà comunque la differenza: «La vittoria di Nuova democrazia comprometterebbe anche l’offensiva anti-corruzione e anti-evasione avviata dal governo Tsipras e metterebbe a rischio gli interventi umanitari introdotti. Il popolo greco con il voto può evitare la restaurazione», è la conclusione.
La ’brigata Kalimera’ partirà anche stavolta. Ma non sarà né affollata né spensierata come l’ultima volta. In piazza Syntagma, venerdì al comizio Tsipras, ci sarà di nuovo Revelli con la squadra dell’Altra Europa, Raffaella Bolini dell’Arci, Forenza e Ferrero e l’ex 5 Stelle Francesco Campanella. Anche dal resto d’Europa stavolta arriveranno molti meno militanti. E con molte ansie in più.
Ieri per definirsi papa Francesco ha usato una parola proibita e quasi temuta, in ambito ecclesiale: «Perdonatemi se sono un po’ femminista». Parlava a braccio a un’udienza ai giovani consacrati, e voleva ringraziare «la testimonianza delle donne consacrate».
Due giorni fa invece, nel concludere una settimana dedicata alla famiglia, ha demolito un mito tenace, Eva e il suo serpente che corrompono Adamo, l’uomo: «Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice» ha detto nell’omelia.
In passato aveva già parlato della «brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ’Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero?’ E lui: ’La donna me l’ha dato’». Ma c’è un orientamento, una direzione, o meglio un’intenzione in tutte le parole che dall’inizio del suo pontificato papa Bergoglio ha dedicato alle donne?
In verità non è facile orientarsi, e questo è sorprendente, in un pontefice che mostra una straordinaria chiarezza di predicazione, di pastorale e di politica.
Nell’omelia di due giorni fa la riflessione in realtà non era colloquiale, come altre sue battute. «Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». Un passaggio significativo, anche se non si può dimenticare che da anni tante teologhe lavorano in questa direzione, con risultati di altissima qualità.
Come importante è stata una considerazione di qualche tempo fa, quando ha detto che nulla può giustificare la disparità di retribuzione tra uomo e donna. «Perché si dà per scontato che le donne debbano guadagnare di meno degli uomini? Si tratta di maschilismo», ha commentato senza tanti di giri di parole, applaudito dalla folla di San Pietro.
Non c’è materiale sufficiente per delineare una “dottrina” del papa sulle donne, forse, ma abbastanza per accorgersi di un cambiamento profondo, che più che sui principi, si muove sui comportamenti, sul senso comune, sulla pratica quotidiana.
Certo, bisogna essere cattolici, praticanti o perlomeno formati in quel contesto, per “sentire” quanto queste parole siano forti, incongrue, fuori da qualunque tradizione precedente. Papa Francesco non è magniloquente, non proclama l’elogio del «genio femminile» come fece Woityla, ma ha deciso che con il Giubileo si «perdoni» il peccato di aborto. Anche questa decisione ha fatto molto discutere. A molte — e anche molti laici — è sembrata un’ insopportabile offesa, la riaffermazione di un principio. È comprensibile, ma è evidente che si tratta del contrario. Si tratta della derubricazione della colpa assoluta, demonizzata, e imperdonabile che ha agitato non solo lo stretto ambito del mondo cattolico in questi ultimi anni. Si potrebbe dire che a poco a poco, discorso dopo discorso, omelia dopo omelia, vengono ridotti — decostruiti per essere precisa — tutti gli elementi che fanno della donna un essere speciale e pericoloso. In una visione non solo cattolica, non solo teologica, e non solo mitica, su un terreno in cui ha senso richiamarsi alle radici cristiane dell’Europa e del mondo occidentale, perché è questa visione che ancora ne nutre l’immaginario.
Anche nella relazione con le donne papa Francesco ha portato la forza di una linguaggio quotidiano, semplice, diretto. È un uomo del nostro tempo e risulta evidente, da quello che dice e che fa, che conosce la vita, il mondo. Conosce gli uomini e le donne. È sufficiente a sciogliere la diffidenza, se non l’ostilità delle donne nei suoi confronti? Anzi, meglio sarebbe dire la delusione, impossibile comprendere il giudizio durissimo da lui espresso sulle «teorie del gender», che ha definito «espressione di una frustrazione», una forma di «colonizzazione ideologica».
Il 4 ottobre comincia il Sinodo ordinario, quello che dovrà operare le scelte pastorali sulla famiglia. Divorziati, omosessuali sono i principali temi sul tappeto. Nulla che riguardi le donne, neppure la contraccezione è stata discussa, l’anno scorso.
Papa Francesco è un uomo coraggioso. Abbiamo ammirato tutti la forza con cui propone alla sua Chiesa una pratica che corrisponda agli insegnamenti del Vangelo. L’accoglienza, mettere a disposizione ciò che si possiede, il rispetto delle leggi. Appena eletto, disse « mi chiamano comunista». Viene da pensare che dichiararsi «un po’ femminista» in un’istituzione che da due millenni è fatta da soli uomini, sia perfino più pericoloso.
». Il suo merito è stato di dimostrare che la soluzione di destra, sulla quale il Labour si era sdraiato, aveva portato dentro la crisi, non fuori.
La Repubblica, 16 settembre 2015
JEREMY Corbyn, da tempo dissidente della sinistra britannica, ha riportato una sbalorditiva vittoria nelle votazioni per la leadership del partito laburista. Per gli opinionisti politici questa scelta avrà esito nefasto sulle prospettive elettorali del Labour; potrebbero aver ragione, anche se non sono l’unico a domandarsi come possano questi commentatori che non hanno saputo prevedere il fenomeno Corbyn mostrare tanta sicurezza nell’analisi di ciò che implica.
Ma parliamo dell’implosione dei moderati del Labour. Sulla politica economica, in particolare, colpisce il fatto che tutti i candidati in lizza, eccetto Corbyn, fossero essenzialmente a favore della politica di austerità del governo conservatore.
Ancor peggio, tutti implicitamente accettavano la motivazione fasulla di tale politica, assumendosi in pratica la responsabilità di malefatte politiche in realtà non commesse dal Labour. È come se negli Usa i principali candidati alla nomination democratica del 2004 fossero andati in giro a dire che l’11 settembre era colpa del loro approccio debole alla sicurezza nazionale. Ci saremmo forse sorpresi se i voti delle primarie democratiche fossero andati a un candidato che rifiutava quella bufala, qualunque fosse la sua visione?
Le false accuse contro il Labour riguardano la politica fiscale, in particolare si sostiene che i governi laburisti al potere in Gran Bretagna dal 1997 al 2010 abbiano speso ben oltre i propri mezzi, causando un deficit e una crisi del debito che hanno portato alla più ampia crisi economica. La crisi fiscale, a sua volta, non avrebbe lasciato alternative ai drastici tagli alla spesa, soprattutto quella a sostegno dei poveri.
Queste tesi dei conservatori, va detto, sono state riprese e diffuse da quasi tutti i media giornalistici britannici. Non solo non le hanno sottoposte a un severo scrutinio, ma le hanno riportate come realtà. È stato straordinario assistere a quell’operazione — perché tutti gli elementi della narrazione usuale sono completamente fasulli.
Il governo laburista è stato irresponsabile sotto il profilo fiscale? La Gran Bretagna registrava un modesto deficit di bilancio alla vigilia della crisi economica del 2008, ma in percentuale sul Pil non era molto elevato — risulta circa pari al deficit di bilancio Usa dello stesso periodo. Il debito pubblico britannico era inferiore, in percentuale sul Pil, a quello registrato quando il Labour andò al governo dieci anni prima e inferiore rispetto a tutte le altre grandi economie avanzate, fatta eccezione per il Canada.
Oggi c’è chi afferma che la reale situazione fiscale fosse assai peggiore di quanto indicassero le cifre del deficit, perché l’economia britannica era gonfiata da una bolla insostenibile che incrementava le entrate. Ma nessuno all’epoca lo diceva. Al contrario, le valutazioni indipendenti, ad esempio ad opera del Fmi, indicavano l’opportunità di correggere lievemente il deficit, ma non evidenziavano segni di una gestione allegra delle finanze pubbliche.
È vero che il deficit britannico lievitò dopo il 2008, ma fu la conseguenza, non la causa della crisi. Anche il debito è cresciuto ma resta ben al di sotto dei livelli prevalenti in gran parte della storia moderna britannica. E non c’è mai stato alcun indizio che gli investitori, a differenza dei politici, fossero preoccupati della solvibilità britannica: i tassi di interesse sul debito sono rimasti molto bassi. Ciò significa che la presunta crisi fiscale non ha mai creato alcun reale problema economico e che non c’è mai stata la necessità di una sterzata in direzione dell’austerità.
In breve, l’intera narrazione circa la responsabilità del Labour relativamente alla crisi economica e circa l’ assoluta necessità dell’austerity è un’assurdità. Ma questa assurdità i media britannici l’hanno regolarmente presentata come realtà. E tutti i rivali di Corbyn nella corsa alla leadership laburista l’hanno presa per buona, accettando la tesi dei conservatori secondo cui il loro partito aveva gestito malissimo l’economia, cosa semplicemente non vera. Così il trionfo di Corbyn non sorprende poi tanto, vista la disponibilità dei politici laburisti moderati ad accettare false accuse al passato malgoverno.
Resta da capire come mai i moderati laburisti siano stati così sfortunati. Negli Usa fu diverso, le critiche sul deficit dominarono il dibattito a Washington nel 2010-11, senza però riuscire a dettare i termini del confronto politico, e la maggioranza dei democratici non assumeva toni da simpatizzanti repubblicani. La risposta sta in parte nel fatto che i media giornalistici statunitensi non sono stati altrettanto dediti a fantasie fiscali, anche se questo non risolve la questione. L’ establishment politico del Labour sembra però privo di convinzione, per motivi che non comprendo appieno. Significa che la vittoria di Corbyn non è legata a un’improvvisa svolta a sinistra da parte della base laburista, ma ha a che fare soprattutto con lo strano e triste crollo morale e intellettuale dei moderati del Labour.
Tra Palazzo Chigi e Senato l’attività è frenetica, la strategia si raffina di ora in ora. Oggi le riforme costituzionali arrivano nell’Aula di Palazzo Madama. Momento topico, atteso da mesi. E dopo un’estate di trattative sotto traccia, l’accordo politico non c’è. Il colpo di scena arriva nel primo pomeriggio. Il capogruppo leghista, Roberto Calderoli ritira i suoi 500mila emendamenti in Commissione. Toglie l’alibi al governo che vuole andare immediatamente in Aula, visto che in Commissione Affari costituzionali i numeri non ce li ha. «Tutta politica. Politica la presentazione, politica il ritiro», dice il presidente dei senatori Pd, Luigi Zanda. Poi tira diritto e nella capigruppo chiede comunque di andare in Aula.
Che fosse tutto un bluff, un trabocchetto per provare a metterlo con le spalle al muro, Pietro Grasso lo ha capito l’altroieri, quando ha sentito il discorso di Anna Finocchiaro in commissione Affari costituzionali: perché fare, due giorni prima del previsto, uno speech sull’ammissibilità degli emendamenti alla riforma del Senato quando la maggioranza ha già deciso di portare il ddl Boschi direttamente in aula? Così, ieri, nella riunione dei capigruppo, il presidente ha deciso di tentare il gran colpo: tentare di smascherare il gioco di Palazzo Chigi. Mentre è in corso l’incontro dei rappresentanti dei gruppi, Grasso convoca a sorpresa la presidente della commissione: «Lei ha detto che per garbo istituzionale non ha voluto votare l’ipotesi di istituire un comitato ristretto. Io, con lo stesso garbo istituzionale, le chiedo: perché?».