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I media hanno largamente ripreso e discusso la notizia di una la nave e una Ong spagnola, che anche eddyburg aveva ripreso, la Proactiva Open Arms, che ha raccolto dei profughi nelle acque del mediterraneo, per lo più fuggitivi dai lager libici, lasciandoli sbarcare sulle coste della Sicilia. Ricordiamo il fatto: la nave di una Ong (organizzazione non governativa) spagnola, la “ProActiva Open Arms”, ha raccolto 218 migranti che tentavano di sfuggire dall’inferno di fame, miseria e terrore che aveva reso impossibile vivere nelle terre dei loro avi. La nave spagnola si era rifiutata di consegnare i profughi alla guardia costiera libica, per l’ottima ragione che – come è noto ormai a tutto il mondo – il governo dell’antica colonia italiana usa rinchiudere i profughi in campi di concentramento trattandolo molto peggio di come nei paesi schiavistici i padroni trattano le donne e gli uomini di cui sono venuti in possesso.
La nave spagnola, che aveva compiuto l’opera (che è difficile non definire caritatevole), ormeggiata nel porto siciliano di Pozzallo (Ragusa), è stata sequestrata dalla Procura della Repubblica di Catania. L’Ansa informa che l'approdo in Italia è al centro dell'inchiesta «per la mancata consegna alle motovedette libiche intervenute sul luogo del soccorso o a Malta e che il fermo della nave è stato eseguito su indagini della squadra mobile di Ragusa e del Servizio centrale operativo».
Ma la nave è solo un oggetto: non soffre troppo dall’essere sequestrata. Non è così per le persone che hanno concorso nelle operazioni di salvataggio. Essi sono oggetto di accuse molto gravi secondo gli incivili codici italiani: “associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina”, “violazione della legge e di accordi internazionali”. I profughi salvati (molti dei quali fuggivano proprio dai lager libici dove le autorità italiane avrebbero voluto rispedirli) hanno raccontato poi ai soccorritori delle "torture che avevano subito in Libia e di come i trafficanti hanno estorto le loro famiglie a pagare in cambio della loro liberazione".
I Kapò italiani non sono soddisfatti di ciò che è accaduto. Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, ormai famoso armigero della vasta truppa di quanti vogliono cancellare, nei fatti, il diritto delle persone a muoversi sulla terra, minaccia ricorsi e ritorsioni. Vedremo il loro esito Nel conflitto tra legalità e giustizia, di questi tempi, i net, i power, i precari, gli affamati, raramente vedono trionfare la giustizia.
Qualche giornale, nel raccontare questa storia sostiene che a essere tolleranti e ad aiutare i profughi si premiano i trafficanti che li taglieggiano. Giusta osservazione. Infatti c’è chi sostiene (a partire da Barbara Spinelli per finire con noi di eddyburg), che occorrerebbe che l’Europa, o i suoi stati, realizzassero dei corridoi protetti che rendessero umanamente sopportabile un esodo che non è contrastabile se non con una politica di lunga durata, esattamente opposta a quelle che l’esodo del XXI secolo ha provocato. Non ci è capitato di leggere analoghe valutazioni sulla stampa italiana. Ci dispiace.
Avvenire,
Secondo la Fao, dal 1990 al 2017 gli affamati nel mondo sono scesi da un miliardo a 815 milioni. Ma nello stesso periodo in Africa sono cresciuti da 182 a 243 milioni. Eppure, l’Africa è il continente con la maggior concentrazione di terre coltivabili. Di solito gli analisti attribuiscono la fame in Africa alla crescita della popolazione, alle calamità naturali, ai conflitti armati. Ma dimenticano la responsabilità della politica internazionale che ha trasformato l’Africa in un continente dipendente dalle importazioni di cibo, e pertanto sottomesso alle bizzarrie del mercato internazionale che nell’ultimo decennio ha registrato una tendenza al rialzo nel prezzo dei cereali.
Negli anni 80 del Novecento, la crisi dei debiti sovrani forzò molti Paesi africani ad adottare i programmi di aggiustamento strutturale imposti dalle istituzioni di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale) che in ambito agricolo chiedevano di privilegiare la produzione di caffè, cacao, olio di palma e altri prodotti per l’esportazione, piuttosto che la produzione di alimenti a uso interno. La tesi del Fondo monetario era che il cibo importato sarebbe costato meno di quello prodotto internamente, per cui i governi dovevano smettere di investire in agricoltura e soprattutto di assistere i contadini.
Detto fatto le importazioni alimentari crebbero del 3,4% all’anno, in gran parte cereali. In quegli stessi anni, in Africa gli investimenti pubblici in agricoltura erano paragonabili a quelli dell’America Latina, ma poi c’è stata la divaricazione: mentre in America Latina, fra il 1980 e il 2007, sono cresciuti due volte e mezzo, in Africa sono rimasti pressoché piatti. Quanto all’Asia sono stati da tre a otto volte più alti che in Africa.
Il che ha reso l’agricoltura africana non solo più debole, ma anche più vulnerabile difronte alle sfide dei cambiamenti climatici che si fanno sempre più minacciosi. In altre parole l’Africa è stata ridotta al pari di Haiti dove la produzione agricola è stata letteralmente distrutta dal cibo importato dall’Europa e Stati Uniti che, quando serve, possono truccare i prezzi grazie ai contributi alle esportazioni messi a disposizione dai rispettivi governi.
Lo affermò anche Bill Clinton, già presidente degli Stati Uniti, dopo il terremoto del 2010. I sostenitori delle politiche di aggiustamento strutturale hanno sempre buttato acqua sul fuoco sostenendo che i contraccolpi provocati dalle maggiori importazioni e dal taglio degli investimenti pubblici sarebbero stati compensati dagli investimenti privati. Ma il neoliberismo, che veniva presentato come il salvatore dell’umanità, in realtà si è rivelato un incubo con effetti sociali drammatici. Nonostante il boom delle estrazioni minerarie avvenuto fra il 2002 e il 2014, metà della popolazione africana vive ancora in povertà, il 35% addirittura in condizione di povertà assoluta, ossia incapace di soddisfare perfino i bisogni fondamentali.
Il Rapporto della Banca Mondiale, Poverty in a rising Africa, mostra che fra il 1990 e il 2012 il numero di africani in povertà estrema è aumentato di 100 milioni fino a raggiungere la cifra odierna di 389 milioni. Per ammissione generale i poveri del mondo saranno sempre più concentrati in Africa. Ciò nonostante vasti tratti di terra arabile rimangano inutilizzati a causa dello scarso impegno pubblico in agricoltura. Ma la soluzione offerta dalle istituzioni finanziarie internazionali è l’apertura agli investimenti da parte delle multinazionali dell’agroindustria.
La Banca Mondiale segnala un interesse crescente per le terre agricole africane da parte delle imprese straniere, soprattutto dopo l’impennata dei prezzi dei cereali avvenuta fra il 2007 e il 2008. Nel 2009 in tutto il mondo sono stati firmati accordi per la concessione di 56 milioni di ettari dei terra, un’enormità rispetto agli anni precedenti quando le richieste difficilmente superavano i 4 milioni all’anno. Il 70% dei contratti firmati riguarda l’Africa dove il latifondo straniero cresce ovunque. Valga come esempio il caso Feronia, un’impresa con base in Canada, ma posseduta da istituzioni finanziarie afferenti a vari governi europei, che nella Repubblica democratica del Congo possiede oltre 100mila ettari di piantagioni di palma da olio. O il caso Agro EcoEnergy, un’impresa svedese che in Tanzania possiede 20mila ettari per la coltivazione di canna da zucchero destinata alla produzione di bioetanolo.
I difensori del latifondo sostengono che gli investimenti stranieri hanno impatti locali positivi come la creazione di posti di lavoro e la costruzione di infrastrutture.Ma la riduzione di terre a disposizione delle popolazioni locali provoca ovunque conflitti e disuguaglianze crescenti. Difficilmente le comunità locali sono consultate prima di procedere alla concessione delle terre, mentre succede spesso che siano espropriate senza indennizzo e deportate con la forza altrove. Etiopia docet. Di sicuro non sarà il land grabbing a salvare l’Africa dalla povertà e dalla fame, ma la direzione indicata dal lavoro svolto da tante Ong che cercano di accrescere la produttività dei piccoli contadini attraverso un paziente lavoro di educazione e di promozione sociale. Del resto i poveri lo sanno: i soli su cui possono contare sono loro stessi, per cui sapere, solidarietà e vincoli comunitari sono le strade per uscire tutti insieme dalla miseria.
il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2018.
«Il silenzio dei governi sull’avanzata della Turchia rivela l’imbarazzo: nessuno vuole disturbare troppo Erdogan, temendo che un Paese membro della Nato finisca tra le braccia di Putin. E degli eroici curdi anti-Isis non importa più a nessuno»
Da Parigi a Venezia, da Brema a Creta, nel silenzio imbarazzato dei governi (tranne quello francese), si moltiplicano i presidî di solidarietà verso la città curda di Afrin, nel nordovest della Siria, che salvo colpi di coda della guerriglia, pare aver capitolato ieri mattina dopo settimane di attacchi e bombardamenti delle truppe turche, determinate ad assumere il controllo di tutta la fascia di confine. I morti (molti civili e bambini) sono centinaia, nel weekend è stato colpito l’ospedale, l’acqua e i medicinali non arrivavano da giorni, gli sfollati nell’ordine dei 150mila; si paventa il rischio di pulizia etnica, per alterare la maggioranza curda della regione.
Nell’accordo russo-turco-iraniano di Astana (marzo 2017) era previsto che la Turchia installasse 12 posti di osservazione nella regione di Idlib, l’unica ancora saldamente nelle mani dei ribelli anti-Assad, l’ex fronte Al-Nusra, ora Hayat Tahrir al-Sham, insomma jihadisti sunniti. Ma è l’enclave di Afrin, a Nord di Idlib lungo la frontiera, a detenere per i Turchi il più alto valore strategico: rappresenta dal 2012 l’avamposto occidentale della regione sotto controllo curdo che si estende da Kobane a Raqqa fino ai confini dell’Iraq: tutte zone a suo tempo difese o riconquistate con grandi sforzi dai combattenti dell’esercito curdo (YPG) contro l’Isis. La Turchia ha interesse a demolire questa continuità territoriale per scongiurare la creazione di uno stato curdo e per avere voce in capitolo se mai partiranno i colloqui per una nuova Siria: per questo, dal 20 gennaio scorso viola militarmente i confini del Paese confinante, e sfida gli Stati Uniti che da anni appoggiano i Curdi nel nord della Siria. Se i turchi, non paghi di Afrin, volessero ora avanzare verso est fino a Manbij (dove stavano già per entrare un anno fa, fermati dalla diplomazia), potrebbero cozzare contro duemila marines; ma forse in realtà i marines – se questa è stata davvero la garanzia strappata da Erdogan all’ormai ex segretario di Stato Rex Tillerson il 20 febbraio ad Ankara – saranno spostati a est oltre l’Eufrate. A Manbij, l’antica Bambyke, mille volte punto di frontiera e di frizione tra Romani e Parti, tra Bizantini e Sasanidi, tra Crociati e Arabi, l’Occidente pare votato alla sconfitta.
La Russia, storico alleato di Assad, ha interesse a indebolire i ribelli contro il regime (alleati di Erdogan), ma non a proteggere i curdi: potrebbe aver deciso di lasciare Afrin ai Turchi in cambio di un loro disimpegno nella più vitale regione di Idlib. Assad medesimo, che ha la testa alla sanguinosa macelleria di Ghouta, ha spedito ad Afrin ben poche truppe, dando la causa per persa.
Perché l’operazione turca contro Afrin, nota col nome paradossale di “Ramoscello d’ulivo”, è importante? Perché al tappeto stanno finendo per ora: la causa curda, ovvero non solo centinaia di combattenti e civili vittime dell’attacco di Erdogan contro i villaggi e le postazioni di quella che egli ritiene una fazione terroristica, ma anche la pratica quasi utopica del governo partecipato, federale ed egualitario del limitrofo Rojava curdo (da noi pare si sia persa la memoria di quando l’Occidente tutto tifava per Kobane e le sue donne combattenti contro l’Isis); quel che rimaneva della libertà di espressione in Turchia (lo stato di guerra ha autorizzato il fermo di decine di manifestanti, giornalisti e blogger); i rapporti Turchia-Usa, due Paesi della Nato che dal 2013 – tra la svolta autoritaria di Gezi Park e i sospetti di collusione con l’Isis – si sono ripetutamente scontrati; i minimi standard umanitari (molte fonti denunciano l’uso di gas tossici e bombardamenti su convogli umanitari o di sfollati); la minima stabilità nella regione (vittima dell’ambiguità dei Russi, che supportano Assad ma hanno stretto un’alleanza con il suo arcinemico Erdogan; e vittima soprattutto della mancanza di strategia degli Americani, che saltabeccano da una crisi all’altra senza essere in grado di assumere un ruolo attivo, nel terrore di lasciare un alleato Nato come la Turchia nelle braccia di Putin).
Al tappeto finisce anche il passato di questo fazzoletto di terra: ieri ad Afrin è stata abbattuta dai Turchi la statua di Kawa il fabbro, che nel 612 a.C., secondo la leggenda, liberò i Medi, che i Curdi riconoscono come progenitori, assassinando il sanguinario re assiro Dehak. Nel 2016 i bombardamenti russi contro i ribelli anti-Assad avevano semidistrutto la chiesa di San Simeone lo Stilita (V secolo d.C., a 15 km da Afrin), dove si conservava la colonna su cui il venerato asceta passò 30 anni di meditazione e di preghiera. E nel gennaio 2018, proprio alla periferia di Afrin le bombe turche hanno inflitto danni ferali (oltre il 60%) all’antico tempio neo-ittita di Ain Dara, ricco di sfingi e leoni di basalto, e probabilmente dedicato alla dea Ishtar: si pensa siano della dea le 4 enormi e misteriose impronte di piedi umani scavate nel pavimento in pietra del portico, in direzione della soglia di una cella ormai del tutto demolita. Nell’interminabile mattatoio siriano sembra che nemmeno gli dèi abbiano più un posto dove andare.
il Fatto Quotidiano
«1933-2017 A Torino si ricorda il grande giurista: per lui la Carta non era una dichiarazione di principi, ma un’agenda da applicare»
Stefano Rodotà era così popolare perché sapeva parlare con una palpabile, contagiosa passione civile. Fra tanti, un esempio. Commentando l’art. 3 della Costituzione, egli poneva a contrasto il primo e il secondo comma, ravvisandovi due componenti concettualmente e storicamente distinte. Nel primo comma (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”), riconosceva la costruzione di una soggettività astratta, che assevera ma non garantisce l’uguaglianza fra i cittadini.
Nel secondo comma (dove si assegna alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”) egli rintracciava, attraverso la nozione di persona, l’irruzione sulla scena di una prepotente corporeità, coi suoi desideri e i suoi bisogni, che trascina con sé una forte tensione verso l’uguaglianza, che la Costituzione indica come imprescindibile obiettivo dell’azione pubblica. Insomma, il primo comma dell’art. 3 configura una sorta di uguaglianza formale dei cittadini, mentre il secondo comma prende atto della loro diseguaglianza materiale e prescrive di rimuoverne le cause, ostacoli a una vera uguaglianza.
Perché questa linea interpretativa non apparisse troppo teorica a un pubblico digiuno di diritto, Rodotà adottava un’argomentazione narrativa, proiettando l’art. 3 all’indietro, su un dato di immediata esperienza comune, l’estensione del diritto di voto. Riservato all’inizio a una porzione ristretta della popolazione maschile, sulla base dell’istruzione e del censo, esso raggiunse tutti i cittadini (in particolare le donne) solo nel 1946. Nel 1861 votò il 2 per cento della popolazione italiana, nel 1946 l’89 per cento: un dato statistico che ci tocca da vicino.
La restrizione del diritto di voto creava una “cittadinanza censitaria”, contro lo spirito della democrazia; ma gli “ostacoli di ordine economico e sociale” venivano da lui additati come strumenti di una risorgenza della “cittadinanza censitaria”, possibile anche oggi date le crescenti ineguaglianze, le nuove povertà, le discriminazioni sociali mascherate da intolleranza religiosa o razziale. Per converso la rimozione di tali ostacoli concorre a caratterizzare la cittadinanza secondo i principi dell’art. 3, inclusa l’ “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Con trascinante convinzione e lucida onestà Rodotà ci spingeva a leggere nella Costituzione non un compromesso fra forze politiche, non il disegno di un futuro utopico, non una dichiarazione di principi senza immediata precettività. Ma come un’agenda di cose da fare, che tali in gran parte restano ancora oggi. Perciò egli contrastò duramente ogni interpretazione riduttiva del diritto al lavoro che, secondo l’art. 4 della Costituzione, la Repubblica “riconosce a tutti i cittadini”. Infatti, se l’art. 1 definisce l’Italia come “una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ogni menzione del lavoro nella Costituzione deve intendersi come costitutiva della democrazia e della cittadinanza, anzi della Repubblica. Lettura indubitabile, ma di cui i nostri governanti paiono essere inconsapevoli.
Evocando la propria giovinezza in una bella intervista di Antonio Gnoli, Rodotà racconta di aver studiato Giurisprudenza perché “attratto da quell’imponente e complicato edificio che è il diritto. (…) Senza la forza il diritto è inerme. Senza giustizia è cieco. Mi affascinava un diritto che fosse aperto alla società”. Perciò egli parlò sempre da giurista, ma anche da cittadino fra cittadini. Egli guardava sempre, come un generale dall’alto di una collina, la forma cangiante della società e il mutevole atteggiarsi del diritto. Sapeva che né l’una né l’altro possono essere ibernati in configurazioni immutabili. Pensava al diritto come il prodotto di momenti storici, economici, sociali, ma anche come una forza concettuale che plasma la società recependone tendenze, codificandone istituti, indirizzandone sviluppi. E pensava alla società come il prodotto di un perpetuo dialogo o conflitto fra il tessuto delle norme e l’esercito dei bisogni, dei desideri, delle aspirazioni, che devono esser calate entro le maglie del diritto, per poi fatalmente ribollire di nuovo. Fu in questo incrocio fra società e diritto che Rodotà vide la missione storica della Costituzione, evidenziandone la progettualità lungimirante, e per converso la sciagura dei molteplici tradimenti e dei ricorrenti oblii a cui va soggetto il testo della Carta, che pure ancor oggi si presterebbe a fungere da manifesto per il destino delle generazioni future.
In questa perpetua giovinezza della Costituzione si rispecchiava la perpetua giovinezza di Stefano Rodotà: nel limpido sguardo che egli si volgeva intorno quando, non senza un commovente imbarazzo, si vedeva candidato alla Presidenza della Repubblica, o quando combatteva con energia per il No al referendum. In quello sguardo c’era il desiderio di capire a fondo come la forma della società e l’evoluzione del diritto potessero, messi a dialogo sulla base della Carta fondamentale, costruire per le generazioni future un’Italia con un più alto senso della cittadinanza, dell’uguaglianza, della democrazia.
il manifesto
RICOMINCIO DA TRECENTOMILA
IL PIANO A DI POTERE AL POPOLO
«"Leelezioni erano un pretesto per metterci insieme, ora un coordinamento tra iterritori». «Assemblee sovrane», ma il sito sarà "lo strumento per allargare lapartecipazione»
Indietro non si torna» aveva detto Viola Carofalo, portavoce (maformalmente per la legge elettorale «capo politico») di Potere al popolo, dalpalco di piazza Dante a Napoli, alla festa di chiusura della campagnaelettorale per le politiche. A livello nazionale il 4 marzo Potere al popolo haottenuto l’1,13%, 370.320 alla camera.
A Napoli, città da cui è partita la lista grazie agli attivistidell’Ex Opg Je so’ pazzo, ha sfiorato la soglia di sbarramento con il 2,9%.Siccome indietro non si torna, stamattina a Roma al Teatro Italia la listariunisce associazioni, comitati e organizzazioni politiche per «festeggiare ilrisultato e programmare le mosse dei prossimi mesi».
Nelle due settimane post voto ci sono state circa un centinaiodi incontri da Nord a Sud e altrettanti sono programmati fino a fine mese, loscopo è darsi un’organizzazione sui territori che agisca in modo coordinato:«Le assemblee sono sovrane ma stiamo lavorando al sito di PaP per trasformarloin uno strumento operativo – spiega Chiara Capretti -. Chi non può parteciparedi persona alle riunioni potrà informarsi e dare contributi attraverso ilportale. Dobbiamo ragionare su temi di interesse generale creando gruppi dilavoro che sviluppino pratiche comuni e campagne nazionali».
Salute, migranti, diritti, lotta alle povertà e lavoro sono itemi su cui si impegnano gli attivisti dell’Ex Opg, attraverso progetti dimutualismo e solidarietà, da allargare su tutto il territorio.
Poi c’è la pratica del controllo popolare del voto, esercitata aNapoli alle scorse amministrative e alle politiche vegliando sulla regolaritàdelle operazioni di voto, che adesso dovrà essere adattata ed estesa aparlamentari e istituzioni nazionali. E poi l’opposizione al prossimo governo,tutti temi di discussione oggi al Teatro Italia.
«L’abbiamo detto nella nostra prima assemblea nazionale –commenta Viola Carofalo – quattro mesi fa: le elezioni sono state solol’inizio, la prima tappa di un progetto più grande di aggregazione di forzesociali, di mobilitazione di giovani e di disaffezionati della politica. Sonostate il pretesto per metterci insieme, farci vedere da milioni di persone».
Il risultato elettorale non ha prodotto uno sfaldamento deigruppi e delle organizzazioni che avevano aderito a PaP, complice anche unappeal inesistente da parte dei partiti di sinistra come Leu, ma anzi sonoarrivate nuove richieste di affiliazione: «Molti avevano partecipato alleassemblee ma poi non avevano aderito – prosegue Chiara – hanno atteso la provadel nove del voto. Visto com’è andata e la nostra volontà di andare avanti,hanno capito che potevano fidarsi e si sono fatti avanti. È quello che èsuccesso, ad esempio, con il collettivo del Barrio di Bergamo».
Resta il tema di come ripartire in un paese spaccato in due conal Nord la Lega e al Sud i 5S. Spiega Chiara: «Noi siamo andati su e giù per loStivale, gli altri candidati non li abbiamo mai incrociati, ma abbiamo parlatocon tanta gente che voleva solo mandare a casa la classe dirigente degli ultimi15 anni. Al Sud, in particolare, molti non sapevano neppure del reddito dicittadinanza, è stata una ribellione contro chi ha distrutto le loro condizionidi vita».
Come recuperare spazio d’azione? «Il linguaggio di sinistra diper sé non ha alcuna presa sui cittadini – conclude – perché gli elettori disinistra si sono sentiti fregati dai partiti che in passato l’hanno utilizzato.Per tracciare oggi una linea tra destra e sinistra, che ne riaffermi ledifferenze, è necessario ripartire dalle pratiche, tornare a fare comunitàfacendosi carico dei bisogni collettivi. Ci vuole un movimento popolare chepratichi, oltre a rappresentare, le differenzetra destra e sinistra».
VIOLA CAROFALO: «AIGRILLINI VOTI IN PRESTITO,
PER I COMUNI PAP CI SARÀ»
«"Ci saremmo aspettati qualcosina di più, i sondaggi ci davanosopra il 2%, ma non siamo andati male", spiega Viola Carofalo. Dopo unacampagna elettorale organizzata in soli quattro mesi PaP si è fermata all’1,3%».
Qualiindicazioni avete tratto dall’analisi del voto?
Tenuto conto della valanga di consensi intercettati dai 5S,anche in segmenti a noi vicini come i giovani, ne ricaviamo un quadro che non èmalvagio. Per esempio a Napoli, dove i pentastellati sono andati oltre il 50%,nei seggi prossimi ai luoghi dove facciamo attività abbiamo ottenuto risultatiottimi. In città abbiamo totalizzato il 2,96% ma, ad esempio, Chiara Caprettinell’uninominale al centro storico ha portato a casa il 3,69%. Nel quartierePorto siamo al 6,21%, all’Avvocata 5,7%, a San Giuseppe 5,81%, a Bagnoli 4,61%,a Montecalvario 4,39%. Bene nelle zone popolari, male nei quartieri borghesi diChiaia e Posillipo. Però al Vomero e all’Arenella, dove si è candidato lostorico Giuseppe Aragno, siamo sopra il 4%. Dove ci conoscono siamo statipremiati. Dove non siamo presenti, i mezzi di informazione non ci hanno aiutatoa farci conoscere.
OltreNapoli, com’è andato il voto?
Molto bene a Livorno e Firenze, dove siamo sopra il 3%. Pocosotto il 3 a Bologna e intorno al 2% a Roma. In generale, andiamo meglio neigrandi centri dove c’è un tessuto di attivisti. Siamo in difficoltà nei piccolicentri, dove avremmo dovuto investire fondi che non avevamo per volantinaggi emanifesti. Ma a noi non interessa fare propaganda, quello che vogliamo è attivarele comunità locali. È questa la strada da percorrere nel futuro.
Moltiattribuiscono la vittoria dei 5S al Sud alla richiesta di un nuovoassistenzialismo.
Venerdì ero a un dibattito con altri partiti. Allarappresentante del Pd ho spiegato che non è necessario scomodare gli analistiper scoprire i motivi del crollo dei partiti tradizionali di centrodestra ecentrosinistra, basta andare in un pronto soccorso. Al Sud gli elettori hannoutilizzato i 5S come strumento per buttare giù tutto: anche se Luigi Di Maiosta istituzionalizzando il Movimento, per gli elettori sono ancora quelli delVaffa Day. Non li hanno votati per il programma ma per rabbia, non è una sceltadi campo ma un comune sentire. Pap non è riuscita a intercettare questoelettorato, spiegando loro che avevamo una proposta politica strutturata. Inmolti ci hanno detto che avrebbero voluto votarci ma i 5S avevano lapossibilità di mandare tutti gli altri a casa. Attenzione, però, perché i votiai grillini sono in prestito e quindi contendibili.
Ilvoto mostra un’Italia spaccata in due, con il Nord alla Lega. È possibileriunire il paese su un programma comune?
Il Mezzogiorno, con la crisi innescata nel 2007, ha subito unmassacro che arrivava su un massacro precedente. Al Nord invece la crisi èstata uno choc: il fallimento delle piccole imprese ha fatto crescere il numerodi persone costrette ad accettare lavori con paghe basse, più lontano da casa econ meno diritti. Hanno subito effetti minori, rispetto alle popolazioni delSud, ma sono ugualmente arrabbiati. Sul lavoro si può costruire un percorsocomune per le due Italie. Dopo aver cancellato temi come l’equità sociale el’antirazzismo, la sinistra istituzionale è ridotta a una tabula rasa. Ènecessario ripartire dalle comunità, così rinasce anche la coscienza politica.
Inprimavera ci saranno le amministrative e poi nel 2019 le Europee. Cosa faràPap?
I territori che vorranno partecipare alle amministrative sarannoin campo, rispettando il metodo di lavoro che ci siamo dati per le politiche.Per le Europee, osserviamo cosa succede a sinistra. Non abbiamo partecipatoall’incontro con Varoufakis, Hamon e il sindaco Luigi de Magistris. Abbiamoinvece ospitato all’Ex Opg Mélenchon. Decideremo quando il quadro sarà piùchiaro.
Il Fatto Quotidian
Spieghiamo qui le ragioni per cui promuoviamo la creazione di un Governo Costituzionale di Salute Pubblica che dia al Paese agibilità democratica, dopo oltre sei anni di sospensione della democrazia. È un governo fondato sulle condizioni materiali che hanno determinato l’esito del voto e che inverte la prospettiva: le priorità politiche emerse dal voto definiscono la coalizione, e non viceversa.
Naturalmente, spetta al presidente della Repubblica indicarne la guida alla forza politica organizzata che rappresenta un terzo dell’elettorato del Paese, e conferirle l’incarico attuativo della volontà popolare. Infatti il Governo Costituzionale di Salute Pubblica non è uno strappo costituzionale, ma anzi ricompone il patto costitutivo della Repubblica, lacerato dalla reazione antidemocratica di Napolitano al referendum sui beni comuni del 2011, che indebolì Berlusconi, per cui fu rimosso e sostituito con tecnocrati, da Monti a Gentiloni.
Questa applicazione italiana del neoliberismo viene sconfitta ora una terza volta, dopo la sua seconda débâcle nel referendum costituzionale del 4 dicembre. Il nemico è chiaro e altrettanto lo sono le emergenze di salute pubblica che il Governo Costituzionale affronterà. La forza politica che per tre volte ha sconfitto il neoliberismo è quella del popolo contro l’élite.
I parlamentari che si schiereranno col popolo sovrano nel suo scontro mortale con il neoliberismo (si muore sul lavoro, per diseguaglianza, per indigenza) potranno contribuire a indicare le personalità più coerenti con l’implementazione del programma di Salute Pubblica. L’apparato di riferimento è nell’ Art. 1 (lavoro, democrazia e sovranità popolare) e nell’ Art. 3 della Costituzione: “È compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione... politica economica e sociale...”. Il Governo Costituzionale, e perciò antifascista, serve a chiudere la parentesi neoliberale e togliere le tracce dell’opera rifiutata a larga maggioranza dal popolo nei due referendum del 2011 e 2016 e infine in questo voto, con un’azione di legislatura nei seguenti ambiti
1. Lotta al lavoro precario
2. Abolizione della legge Fornero
3. Rinegoziazione radicale delle obbligazioni internazionali in primis quelle con Eurogruppo e per spese militari
4. Ripristino di spazi di democrazia effettiva contro decisionismi verticali, cosa che va oltre la sola legge elettorale
5. Grande piano di cura del territorio per generare la lavoro, beni comuni e ambiente
Le risorse per questo programma vengono dalla piena attuazione del principio di progressività fiscale, dalla lotta contro rendita, sprechi, privilegio e corruzione, dalla tassazione giusta ed efficace di colossi internazionali come Google, Facebook e Amazon, che oggi dominano vita politica ed economica e sostanzialmente non pagano tasse. Sarà prioritario denunciare, in un’Italia che è in avanzo primario dal 92, un debito pubblico che continua a crescere, e riconoscere e denunciare le sue componenti più odiose.
M5S è nato come critica radicale del neoliberismo, critica mutuata dai movimenti sociali e strutturata ai fini della rappresentanza politica: ambientalismo, decrescita, beni comuni, problemi della trasformazione tecnologica e della partecipazione diretta, lotta al privilegio.
Fin dal 2011 questo è ciò che la maggioranza del popolo vuole. La prima forza politica del paese deve intraprendere il cammino di salute pubblica. La maggioranza del popolo italiano rifiuta il neoliberismo e sosterrà i parlamentari che si impegneranno per superarlo, indipendentemente dal colore politico. Noi, intellettuali critici, vogliamo e dobbiamo contribuire alla mobilitazione popolare per emanciparsi dal neoliberismo.
«Il libro Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna (Pentragon, 2017), a cura di Ilaria Agostini e con la prefazione di Tomaso Montanari, raccoglie una serie di contributi (oltre che della curatrice, di Piergiovanni Alleva, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Paola Bonora, Sergio Caserta, Pier Luigi Cervellati, Paolo Dignatici, Anna Marina Foschi, Giovanni Losavio, Anna Marson, Cristina Quintavalla, Ezio Righi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano) sul progetto di legge urbanistica della Regione Emilia-Romagna, approvato senza sostanziali modifiche nel dicembre dello scorso anno (1). Tutti i testi sono focalizzati sulla strumentazione urbanistica comunale (sulla quale si concentra in sostanza la strategia della legge) e sugli aspetti in essa presenti attraverso i quali – si sostiene – viene operato “un irresponsabile salto di scala fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica” (Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia-Romagna del 12 dicembre 2016) e “l’eclissi del ruolo pubblico nella trasformazione delle città e dei territori” (Agostini, Caserta).Quali gli aspetti che portano i diversi interventi a questa conclusione?»
Un primo aspetto che viene evidenziato è il fatto che lo strumento urbanistico comunale previsto nel progetto di legge (il Piano urbanistico generale) – al quale è attribuita la competenza sulla disciplina dell’assetto edilizio del sistema insediativo esistente (2) – nel contesto urbano esercita tale competenza, con conseguente attribuzione dei diritti edificatori, limitatamente alle parti di territorio urbano consolidato (individuate dal Piano urbanistico generale) per le quali vengono previsti interventi attuabili direttamente (intervento edilizio diretto). Per gli interventi di “addensamento e sostituzione urbana”, invece, più significativi per le trasformazioni urbane, il Piano urbanistico generale “non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato né fissare la disciplina di dettaglio”, essendo questa competenza attribuita (“principalmente” – art. 38) agli “accordi operativi”. Sempre agli accordi operativi è attribuita l’individuazione e attuazione di nuovi insediamenti, per i quali è specificato che gli elaborati del Piano urbanistico generale “non contengono in nessun caso – si legge nel progetto di legge – una rappresentazione cartografica delle aree idonee ai nuovi insediamenti bensì indicano, attraverso apposita rappresentazione ideogrammatica […] le parti del territorio extraurbano, contermini al territorio urbanizzato, che non presentano fattori preclusivi o fortemente limitanti alle trasformazioni urbane e che beneficiano delle opportunità di sviluppo insediativo”. Poiché oggetto degli accordi operativi sono le proposte presentate da privati, la disciplina pianificatoria del Piano urbanistico generale nei contesti urbani viene esercitata, di fatto, dal Comune in ambiti circoscritti (dove sono previsti interventi diretti) e non sul territorio comunale nella sua interezza. “Il disegno di legge – osserva Losavio nel libro – sottrae ai comuni […] insieme compiti essenziali della pianificazione e capacità di iniziativa nella fase attuativa rimessa esclusivamente ai privati proprietari (attraverso l’accordo operativo che sostituisce i vigenti ma così soppressi piani urbanistici attuativi)”. In altri termini, “è introdotto […] l’espresso divieto della pianificazione urbanistica […] sulle più rilevanti trasformazioni del territorio urbanizzato, rimesse al libero accordo operativo con i proprietari-costruttori. La stessa urbanistica che, così disponendo, si nega”. Se le disposizioni in oggetto permarranno nel testo che sarà approvato dalla Assemblea legislativa regionale, è ritenuto ipotizzabile che il Governo voglia “sollevare conflitto di attribuzione (per violazione di principi fondamentali della materia e lesione di funzione comunale protetta) davanti al giudice delle leggi” (Losavio) in quanto “Il disegno di legge non esita a porsi in frontale contrasto con l’ordinamento nazionale, e violare con ciò la Costituzione” (lettera aperta sul Manifesto 10 marzo 2017 riportata nel libro).
Un altro aspetto critico evidenziato nel testo riguarda la disposizione relativa agli standard urbanistici differenziati (art. 9) che attribuisce al Piano urbanistico generale la facoltà di individuare ambiti nei quali gli interventi di ristrutturazione urbanistica e di addensamento e sostituzione urbana possono cedere aree per le dotazioni territoriali (artt. 3, 4, 5 del DM 2.4.68) in quantità inferiore non solo a quanto già prescritto dalla Regione fin dalla LR 47/78 (30 mq/ab) ma a quanto previsto dallo stesso decreto ministeriale (18 mq/ab). La deroga, consentita qualora sia dimostrato che il fabbisogno di attrezzature è soddisfatto all’interno degli ambiti o in aree contermini, è inserita “in attuazione della seconda parte dell’articolo 2-bis, comma 1, del DPR n. 380 del 2001”. Sempre in attuazione del medesimo articolo anche i limiti di altezza e densità del DM 2.4.68 possono essere derogati (“i permessi di costruire convenzionati relativi agli interventi di ristrutturazione urbanistica e gli accordi operativi che regolano interventi di addensamento e sostituzione urbana – si afferma nel progetto di legge – non sono tenuti all’osservanza dei limiti di densità edilizia e di altezza degli edifici”) (3). Si osserva che l’art. 2-bis del DPR 380/2001 (4) consente alle Regioni di prevedere deroghe al DM e impone che, in questo caso, le Regioni dettino disposizioni specifiche, il ché “non può certo significare, come invece pretende l’art.9, lettera c) del disegno di legge regionale – osserva Losavio – la liberazione da ogni prescrizione di densità, altezza degli edifici e distanza tra loro, la soppressione cioè di ogni limite, di ogni obiettivo criterio ordinativo per l’insediamento edilizio urbano”. L’art. 9 citato prevede quindi nella disciplina del territorio urbanizzato sia la sottrazione alla competenza comunale della regolamentazione a monte di parametri di riferimento per gli interventi di ristrutturazione urbanistica e per gli accordi operativi (“…non sono tenuti all’osservanza…), sia la facoltà del Piano urbanistico generale di disattendere l’obbligo relativo alla quantità minima inderogabile di aree pubbliche richieste dal decreto ministeriale (e anche di concedere a operatori privati l’utilizzo di aree pubbliche destinate a servizi diminuendo quindi la dotazione già esistente) e di ridurre la quantificazione delle aree pubbliche prevista fino ad oggi dalla legislazione regionale e fino ad oggi da quasi 50 anni seguita nella formazione dei piani comunali (5).
Se si considera che anche le stesse indicazioni relative ai contenuti strategici del Piano urbanistico generale, formulate nella cartografia di piano in modo “ideogrammatico”, sono da specificare - e quindi modificabili - in sede di accordi operativi senza che ci sia variazione al PUG (art 24), si deve concludere che l’elasticità/indeterminatezza delle disposizioni del Piano da una parte e il significativo ruolo della negoziazione (accordi operativi) dall’altra, riducono entro confini circoscritti la funzione pianificatoria del Comune relativa all’assetto urbano: il “DDL – osservano Alleva e Quintavalla - sottrae loro [ai Comuni] ogni capacità di intervento e di progettazione della città pubblica, quella che un piano urbanistico dovrebbe delineare a partire dall’idea che il territorio è un bene comune. Questo sistema […] aggraverà i processi di separatezza delle classi sociali all’interno del contesto urbano”. Rimanendo nell’ambito della disciplina del territorio urbanizzato, le critiche contenute nel libro si incentrano anche sul corposo ricorso a incentivi volumetrici e premialità varie (Rocchi) e l’esiguità delle disposizioni per i centri storici all’art. 32 (“che nulla dice sull’argomento”, Cervellati), che al comma 5 elenca i principi ai quali si deve conformare la disciplina e subito in sequenza successiva, al comma 6, la possibilità di derogare (attraverso accordi operativi) ai principi appena stabiliti “per motivi di interesse pubblico” (“compare – sottolinea Berdini – il passepartout, e cioè l’interesse pubblico, concetto molto elastico e discrezionale che ha fin qui prodotti infiniti lutti al territorio e al paesaggio italiano”).
Un terzo tema affrontato nel libro è il contenimento del consumo di suolo – che il progetto di legge pone come obiettivo primario – e l’effettiva risposta a tale obiettivo dell’articolato di legge. Il progetto di legge dispone (art. 6) che la pianificazione possa prevedere un consumo di suolo complessivo all’esterno del perimetro di territorio urbanizzato “pari al tre per cento della superficie del territorio urbanizzato […] esistente alla data di entrata in vigore della […] legge”. Poiché, in sintesi, gli elementi di riferimento per il consumo di suolo sono :
- la definizione di territorio urbanizzato, alla quale si rapporta il 3% (sono inclusi, oltre alle aree edificate con continuità e lotti interclusi, anche le aree di completamento del piano vigente contermini al territorio urbanizzato e i lotti inedificati di piani urbanistici attuativi in corso di attuazione),
- il peso degli interventi non costituenti consumo di suolo (art. 6) (lavori e opere pubbliche di interesse pubblico; interventi di ampliamento o nuova costruzione riguardanti attività economiche già insediate; insediamenti produttivi di interesse strategico regionale o individuati dal DPR 194/2016; parchi urbani; edifici rurali e recupero di edifici ex rurali; costruzione all’interno del perimetro di territorio urbanizzato o in aree contigue di edifici sostitutivi di edifici rurali demoliti), ai quali va aggiunta la quota di interventi esterni al perimetro di territorio urbanizzato ai quali corrisponde la “desigillazione” di aree all’interno del perimetro (art. 5),
- il peso degli interventi non computati nella quota massima consentita (artt. 6 e 4) (interventi previsti dal piano previgente: interventi diretti, strumenti attuativi approvati e accordi con i privati stipulati; strumenti attuativi e atti negoziali adottati nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore della legge e l’avvio del procedimento di approvazione del PUG),
consegue che “il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione” (da Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia-Romagna del 12 dicembre 2016, riportata nel libro). L’esemplificazione grafica del potenziale processo di progressiva urbanizzazione (Righi) riportato nel libro è particolarmente efficace; nello stesso intervento viene messa in evidenza la scarsa incisività concreta dei contenuti strategici del Piano urbanistico generale (espressi in forma ideogrammatica e modificabili dagli accordi operativi) a fronte delle proposte progettuali degli accordi operativi e quindi il ridotto potere di intervento/controllo dell’ufficio di piano (del Comune singolo o dell’unione di Comuni), al quale spetta entro 60 giorni dalla presentazione del progetto verificare la conformità al PUG e valutare la sussistenza dell’interesse pubblico: un “concetto molto elastico e discrezionale ” osserva Berdini.
Queste tre principali riflessioni critiche al progetto di legge della Regione Emilia-Romagna sono inserite, nel testo, in un quadro di riferimento che ne evidenzia le dissonanze tra obiettivi dichiarati e disposizioni normative (Dignatici) e ne valuta il rapporto con l’evoluzione del quadro legislativo e disciplinare (Salzano: I grandi tornanti della storia dell’urbanistica italiana; Marson: Il consumo di suolo nelle legislazioni regionali; Foschi: Il paesaggio e il Codice, la Regione e le Soprintendenze), con il contesto economico e finanziario (Bonora) e agricolo (Bevilacqua), con le presunte “fonti documentarie” (cioè il disegno di legge Lupi 2005 e il documento ANCE Emilia-Romagna 2016, Agostini).
Il quadro complessivo degli interventi del libro si è quindi focalizzato su quello che è l’oggetto principale e assolutamente prevalente del progetto di legge: gli interventi edilizi nei centri urbani. Giustamente Lorenzo Carapellese in un articolo del 15.5.2017 (
Il Manifesto) parla a proposito del progetto di legge di “nuova legge edilizia (non urbanistica)”. Le critiche evidenziano le distorsioni insite nella prefigurazione di una tipologia di strumento urbanistico comunale nel quale le trasformazioni più significative (nuovi insediamenti, interventi di rigenerazione urbana) vengono definite non per scelta pianificatoria del Comune ma attraverso accordi operativi su progetti presentati dai privati (“la presente legge valorizza la capacità negoziale dei Comuni” art. 1) per i quali le indicazioni strategiche del Piano urbanistico generale (con cartografia di carattere ideogrammatico) costituiscono solo riferimenti di massima, e nel quale la rigenerazione dei centri urbani viene promossa (Capo II) attraverso criteri che comprendono la riduzione degli standard urbanistici (dellalegge regionale oggi vigente e del DM 2.4.68) e la deroga ai parametri (densità, altezze) del medesimo decreto. L’obiettivo primario della legge – il contenimento del consumo di suolo – viene contraddetto dalle disposizioni normative che regolano la quota complessiva del consumo di suolo ammissibile nel dimensionamento del piano.
Tuttavia, le riflessioni del libro, seguendo le logiche del progetto di legge, hanno come oggetto esclusivo la disciplina del piano comunale relativa alle politiche edilizie nel contesto urbano e non si soffermano sul fatto che la proposta di legge non attribuisce al Piano urbanistico generale alcuna competenza su aspetti disciplinari che esulino dal mero aspetto edilizio: in base al “principio di competenza” il Piano urbanistico generale ha infatti, per il progetto di legge, il compito di “delineare le invarianze strutturali [non definite: sembra siano solo gli aspetti urbano/edilizi elencati all’art. 32] e le scelte strategiche di assetto e sviluppo urbano di propria competenza”, con l’obbligo di dotarsi della “tavola dei vincoli” (derivanti da altri piani o leggi o atti amministrativi) nella quale le componenti ambientali, paesaggistiche ecc. sono riassorbite nel ruolo di vincolo (all’edificazione).
Questa scelta del progetto di legge – che svuota la pianificazione comunale di competenze sul territorio che non siano edilizie - avrebbe potuto essere supportata e compensata dalla previsione di strumenti di pianificazione territoriale regionali profondamente incisivi sul piano pianificatorio/programmatico, portatori e attuatori del quadro delle politiche territoriali della Regione. Le norme del progetto di legge non prevedono questa strategia: i tre articoli dedicati alla pianificazione territoriale (Piano territoriale regionale PTR, Piano territoriale metropolitano PTM, Piano territoriale di area vasta PTAV, artt. 40. 41, 42) sono estremamente scarni: al Piano territoriale regionale (cfr art. 40) compete una “componente strategica” (“definizione degli obiettivi, indirizzi e politiche per garantire la tutela del valore paesaggistico, ambientale, culturale e sociale e per assicurare uno sviluppo economico e sociale sostenibile e inclusivo”) e una “componente strutturale” (“i sistemi paesaggistico, fisico- morfologico, ambientale, storico-culturale […] nonché le infrastrutture, i servizi e gli insediamenti”): nulla è detto sulle politiche della Regione per perseguire gli obiettivi strategici e sulla sistematizzazione delle conoscenze ai fini operativi: le formulazioni usate risultano così del tutto generiche.
La Regione Emilia-Romagna dispone di un corposo patrimonio di pregresse esperienze di pianificazione (la pianificazione della Regione non parte da zero) e di materiali conoscitivi, di un coerente percorso legislativo in materia di disciplina territoriale a partire dal 1978: sulla base di questi elementi avrebbe potuto esprimere attraverso la nuova legge la strategia maturata da queste esperienze per la pianificazione regionale futura (con una prospettiva - insieme disciplinare e politica, attenta ai processi in atto -, sulla modalità di lettura e di gestione del territorio). Una legge che si assume la responsabilità di esprimere la Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio, avrebbe potuto e dovuto (come in parte già presente nella vigente legge regionale 20/2000 e in recenti leggi di altre regioni) dare una formulazione esplicita degli indirizzi e delle politiche territoriali sulle quali si sarebbero dovuti strutturare gli strumenti di pianificazione, e avrebbe potuto, a questo scopo, indicare le modalità di lettura e sistematizzazione delle diverse componenti del patrimonio territoriale regionale. Niente di tutto questo. Sulla laconicità della proposta di legge in merito alle politiche territoriali, sulla mancanza di obiettivi programmatici per un progetto di territorio regionale inserito nel quadro dei problemi oggi emergenti (non riconducibili ai soli problemi delle semplificazioni procedurali e del contenimento del consumo di suolo attraverso la rigenerazione urbana, unici temi concretamente affrontati, in modo discusso e discutibile, dalla proposta di legge), il libro Consumo di luogo non si esprime, concentrando ed esaurendo la sua attenzione sull’aspetto – politicamente rilevante, ma non unico – della lesione, insita nella disciplina urbano/edilizia della proposta di legge, del principio della riserva della potestà urbanistica ai comuni, e sugli altri aspetti esaminati. Ma questo vuoto, questa constatazione dell’“assenza del territorio” nella proposta di legge urbanistica emiliana e nel dibattito critico che ne ha riguardato i contenuti, richiede una riflessione e l’esigenza di chiedersi quali siano, oggi, i contenuti e il ruolo della “pianificazione”, quali contributi possa o debba dare e su quali temi si debba responsabilizzare attraverso le sue specifiche competenze disciplinari.
La pianificazione oggi: problemi di carattere generale
La pianificazione di un qualsiasi contesto territoriale non può astrarre dalla presa d’atto che ogni singolo luogo, oltre a essere esso stesso portatore di problemi specifici, è coinvolto in problemi trasversali alle diverse realtà territoriali. Realtà territoriali che non costituiscono (o non costituiscono più) ambiti circoscritti non interessati da problemi che non li toccano direttamente, ma tasselli di un’unica realtà territoriale e umana dalla quale si riverberano in tutte le direzioni problemi e coinvolgimenti. Poiché si parla di pianificazione (6) ci si riferisce a problemi che hanno una diretta ricaduta sul territorio e sulle politiche “spaziali” che lo riguardano, e quindi rientranti in un ambito disciplinare ristretto rispetto al più vasto quadro dei problemi che coinvolgono le politiche sociali ed economiche con implicazioni solo marginali sugli assetti spaziali. Politiche “spaziali” e politiche economiche e sociali hanno tra loro linee di contatto e rapporti di interdipendenza che rendono artificiose le operazioni di distinzione, ma la distinzione risulta utile per concentrare l’attenzione sulle specifiche responsabilità e competenze di campi disciplinari autonomi. In ogni caso va assunta la consapevolezza (e le responsabilità conseguenti) che la pianificazione è politicamente rilevante per dare risposte a problemi ambientali e sociali.
I problemi “generali”, manifestatisi già a partire dalla fine del secolo scorso, che nella fase attuale, agli inizi del terzo millennio, coinvolgono le diverse aree del pianeta con una urgenza che travalica qualsiasi possibilità di deroga da parte delle politiche di pianificazione, in qualsiasi ambito territoriale, riguardano sostanzialmente la conservazione delle risorse ambientali e la garanzia di una produzione agricola che assicuri il soddisfacimento del fabbisogno alimentare. Il quadro delle condizioni che rendono oggi non differibile il problema della conservazione delle risorse ambientali (acqua, aria, suolo, biodiversità), dalle quali dipende la possibilità di permanenza della vita (degli uomini) sulla terra, così come oggi è ampiamente documentato (cambiamenti climatici, alterazione processi idraulici, contaminazione acque superficiali e falde acquifere, fenomeni di inquinamento marino, riduzione della diversità biologica), costituisce il punto di arrivo (e conferma) della lunga ondata delle analisi/previsioni che hanno avuto inizio con le valutazioni dei Limiti dello sviluppo degli anni ’70 e successivamente del Rapporto Brundtland ’87 (che introdusse la strategia/obiettivo dello sviluppo sostenibile basato sul mantenimento e l’uso oculato delle risorse ambientali).
Strettamente dipendente dalla conservazione delle risorse (in particolare suolo, acqua, biodiversità) è la continuità della produzione alimentare, anch’essa “risorsa” non comprimibile per le esigenze di vita delle popolazioni. Dalle teorie di Malthus della fine ‘700 relative al tema specifico del rapporto popolazione/risorse alimentari alle successive elaborazioni dei Limiti dello sviluppo fino alla progressiva messa a fuoco dei problemi connessi alla sicurezza alimentare del Rapporto Brundtland e dei successivi documenti della FAO, il problema della produzione agricola a fini alimentari è risultato sempre più emergente nel contesto del “problema demografico”. Se l’aumento della produzione agricola (la “rivoluzione verde” della seconda metà del ‘900) ha fino ad oggi differito il problema del rapporto popolazione/alimenti (a scala globale), oggi le dinamiche di crescita demografica a livello mondiale e la permanenza e aumento (7) della sottoalimentazione di vaste sacche di popolazione (aggravata da mutamenti ambientali - modifiche climatiche - e indotta da condizioni di povertà e disuguaglianze connesse e generatrici di instabilità politiche, demografiche, sociali) implica la necessità non differibile di perseguire un quadro di politiche finalizzate alla sicurezza alimentare che corresponsabilizza e coinvolge tutte le diverse parti del pianeta.
I due temi (risorse ambientali e alimenti) coinvolgono in modo trasversale tutti i paesi indipendentemente dalla loro specifica situazione: il degrado o la perdita di risorse ambientali, da qualunque parte abbia origine, ha ricadute (già oggi percepibili) a livello planetario (acidificazione degli oceani, inquinamento delle falde acquifere, modifiche climatiche, perdita di suolo ecc.) (8); d’altra parte la sicurezza alimentare di tutti i popoli nel loro complesso e di ogni singolo popolo (9) dipende sia dalle politiche di circolazione e commercio dei prodotti alimentari sia dalla quantità complessiva della produzione agricola per alimenti, che a sua volta è direttamente connessa alla quantità di terreni idonei all’uso agricolo, terreni la cui estensione sulla superficie terrestre non è più praticamente aumentabile e che dovrà supportare anche i futuri previsti incrementi demografici (10).
Questo implica che la pianificazione del territorio, qualunque parte o regione interessi, non potrà ignorare i due obiettivi “generali” – sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale
dell’uso del territorio (cioè: non sforare i limiti ambientali e assicurare le stesse qualità di vita, in primis di alimentazione, a tutte le popolazioni) (11) – che comportano nel governo delle singole aree il perseguimento di politiche di conservazione o rigenerazione delle risorse ambientali e di tutela dell’utilizzo agricolo (per produzioni alimentari e con modalità colturali sostenibili) (12) dei terreni suscettibili di produzioni agricole, in quanto parti di un patrimonio globale non aumentabile e non sostituibile.
La pianificazione territoriale non potrà rispondere agli obiettivi previsti – che si fondono nell’obiettivo unico della sopravvivenza del genere umano, cioè della sopravvivenza di ogni singolo popolo – se non unita a politiche e strategie strutturali (sociali ed economiche) adeguate, ma il raggiungimento degli obiettivi (cioè la sussistenza delle popolazioni) si basa necessariamente sulla disponibilità – a scala planetaria (quindi ogni singolo luogo è coinvolto, nessun luogo è un’isola autonoma) – delle risorse ambientali e dei suoli destinati alla produzione alimentare: la loro sussistenza è quindi programmaticamente da perseguire come conditio sine qua non: e questo rientra nello specifico campo di competenza della pianificazione, alla quale è dato il compito specifico di scelte relative agli spazi territoriali e alla loro regolamentazione. I singoli piani – e la pianificazione intesa come disciplina specifica – hanno quindi la responsabilità di individuare gli ambiti spaziali (13) che per le loro caratteristiche intrinseche sono da riservare in modo assolutamente prevalente o esclusivo a specifici processi ambientali e di definire discipline d’uso che in merito alle diverse risorse ambientali individuino modalità di salvaguardia raccordate ai diversi tipi di uso. Ai piani compete inoltre individuare gli ambiti idonei all’utilizzo agricolo e le strategie territoriali per il loro mantenimento quantitativo e qualitativo ai fini della produzione alimentare, nella consapevolezza che la produzione di alimenti unitamente a politiche relative al mercato dei prodotti agricoli fra i diversi paesi è lo strumento primario per il perseguimento della sicurezza alimentare (14).
Precede ed è implicita nella attribuzione di questi compiti al “piano” una prospettiva olistica nella disciplina della pianificazione: il piano, a qualunque scala territoriale si riferisca, non è assemblaggio di settori di intervento fra di loro comunicanti ma sostanzialmente autonomi (insediamenti urbani, territorio rurale ecc.) ma governo di un’area antropizzata nella quale i processi naturali, demografici ed economici rientrano in un processo unitario gestito dall’uomo nel quale sono interdipendenti le aree cosiddette “urbanizzate” e quelle “non urbanizzate”. Se consideriamo in particolare l’area europea – ma il discorso è estensibile a molte altre aree, nel presente e nel passato (15) – l’intero territorio nelle sue evoluzioni geografiche/storiche è il prodotto di interventi antropici che attraverso il controllo (e spesso la modifica) dei processi naturali, l’attività agricola e la formazione di agglomerati insediativi hanno dato luogo di fatto a un unico ambito “urbanizzato” (vocabolo qui utilizzato in modo estensivo e non letterale per definire un ambito territoriale interamente controllato, gestito e modificato dall’azione dell’uomo in funzione delle sue esigenze insediative). Oggi la medesima valutazione si estende a una realtà globale nella quale gli interventi sul singolo territorio vanno commisurati a ricadute che esulano dai confini locali.
Dato il rapporto che subordina la sussistenza degli insediamenti umani alle risorse della terra e dati gli esiti dei processi in atto, che minano le possibilità future, diviene necessario ribaltare il tradizionale criterio di pianificazione per cui sono le aree “urbanizzate” (le città, gli insediamenti antropici di qualunque tipologia e denominazione) che si ridefiniscono secondo le loro logiche interne (o secondo logiche demografiche/economiche i cui processi evolutivi seguono traiettorie trasversali ai confini amministrativi) modificando via via perimetri, usi e modalità d’uso del territorio “esterno”, per assumere invece la consapevolezza che i processi di crescita degli spazi fisici destinati agli insediamenti vanno di fatto subordinati alla sussistenza degli ambiti territoriali nei quali si rigenerano le risorse ambientali e si producono le risorse alimentari. Il governo – attraverso piani e strategie fortemente incisive (16) – di questi ambiti e processi territoriali, costituenti il sistema organico garante delle possibilità di sopravvivenza, deve quindi precedere e condizionare le espansioni degli spazi fisici interessati dagli insediamenti e conseguentemente condizionare i criteri di formazione dei piani, finora concentrati prioritariamente sulla programmazione delle future espansioni urbane – spesso non rapportate ad analisi delle richieste abitative e delle effettive disponibilità del patrimonio edilizio esistente – (17).
Il controllo rigoroso degli spazi da interessare con le urbanizzazioni diviene tanto più necessario quanto più aumenta il carico demografico e quindi la necessità di garantire la sussistenza delle popolazioni. Diviene necessario valutare la programmazione delle trasformazioni insediative in rapporto al “piano” delle aree “esterne” (intese come sistema di aree con un ruolo primario e dinamiche non comprimibili, e non come aree con diversa tipologia residenziale o di servizi all’urbano espulsi all’esterno degli abitati), e non più viceversa. Si manifesta sempre più funzionale alla gestione dei problemi attuali una pianificazione che, con una precisa assunzione di responsabilità, qualunque sia il livello del piano, introietti e ponga in primo piano e componga in un organico quadro territoriale/funzionale/paesaggistico aspetti delegati nel nostro Paese alle discipline parallele dalle quali discendono le tutele differenziate di competenza statale (18) - richiamate di solito dalla pianificazione urbanistica per gli aspetti vincolistici nei riguardi dell’edificazione - e non per la loro funzione reale e potenziale di conformazione/costruzione del territorio (19). È altresì necessario che nel quadro della tutela delle risorse il piano assuma la tutela dei suoli destinabili alla produzione alimentare come un obiettivo del governo del territorio (20), obiettivo rapportato a una programmazione agricola non subordinabile a dinamiche urbano/edilizie locali ma rapportata ai più concreti problemi della sostenibilità ambientale e della sicurezza alimentare che nella loro concretezza e urgenza e nelle loro ricadute coinvolgono tutti paesi e le loro interazioni.
Problemi di scala locale
L’attività di pianificazione (la disciplina urbanistica) è in genere prevalentemente rivolta al governo dei fenomeni che coinvolgono il particolare ambito territoriale oggetto del piano, in quanto i singoli luoghi, con le loro diverse realtà locali, sono caratterizzati dalla complessità di processi evolutivi che coinvolgono i diversi scenari delle loro identità (21). I diversi scenari, tra loro interconnessi, danno luogo a “domande” spesso tra loro contradditorie, alle quali la pianificazione è chiamata a dare risposte, anche se parziali e in ogni caso oggetto di verifiche e correzioni di tiro. Risposte mirate al raggiungimento di obiettivi che le stesse comunità interessate, attraverso le loro espressioni amministrative e partecipative (22), devono formulare come quadro di riferimento per la “qualità di vita” sul quale impegnare gli interventi operativi futuri. Obiettivi che pur se soggetti a verifiche/precisazioni rappresentano, per il periodo di tempo al quale si riferiscono, il patto fra amministrazione e cittadini i cui contenuti non sono negoziabili per interessi particolari.
Anche nella pianificazione relativa agli aspetti specifici delle realtà locali (demografia, tutela dei paesaggi, strutture sociali, fabbisogni abitativi, assetti occupazionali) emergono richieste alla scala locale che rimandano a temi di carattere “generale”. Una costante che si ritrova, pur con le differenze dovute alle differenze dei luoghi e delle comunità, è la richiesta di “città”. La vistosità del fenomeno del progressivo accelerato inurbamento della popolazione, qualunque sia la morfologia della urbanizzazione risultante, (con parallela produzione di molteplici analisi e interpretazioni relative ai contenuti dei vocaboli “città, metropoli, suburbanizzazione, periferie”) evidenzia le forme attuali dell’inarrestabile processo verso la “città” – fin dalle più lontane origini espressione dalla insopprimibile necessità dell’uomo, “animale sociale”, di sviluppare attraverso l’intreccio delle interrelazioni la complessità della vita sociale (economie e culture) e delle potenzialità individuali –. Indipendentemente dalla dimensione, morfologia e dinamiche evolutive che attraversano gli insediamenti, il processo di costruzione della città passa dall’agglomerazione di individui (e di scambi economici) alla realizzazione di una rete di spazi comuni/servizi/luoghi di rappresentanza (la “città pubblica”) nei quali si definisce nel tempo una specifica identità della comunità locale, e attraverso i quali vengono introiettate – anche attraverso processi conflittuali – le differenze portate da nuovi cittadini, nuove generazioni e nuove culture, in un divenire continuo che mette continuamente in discussione i confini sociali e culturali consolidati e contemporaneamente rafforza il senso e il ruolo della “città”. La città non è data una volta per tutte, non è il congelamento di luoghi, tradizioni, culture ma il continuo fluire di persone, idee, confronti/scontri, stili di vita interagenti con il passato ma non coincidenti con esso: la richiesta di città è la richiesta di continua ridefinizione dei processi sociali ed economici e delle loro contraddizioni e di ininterrotto progetto delle risposte e di riformulazione dei diritti. In questa accezione qualsiasi processo di agglomerazione (qualunque sia il termine che la qualifica) esprime la città, o l’attesa di città, o la città in divenire: cioè porta in sé, implicita, la richiesta della “città pubblica” come momento di ridefinizione dei processi di convivenza, città pubblica che nei diversi luoghi assumerà morfologie differenti in rapporto alle diverse identità locali e ai diversi problemi locali.
Questa richiesta della “città pubblica” implicita e latente negli inurbamenti interpella le competenze specifiche della pianificazione (in quanto disciplina rientrante nelle politiche pubbliche finalizzate agli interessi – alle aspirazioni – generali, cioè riguardanti la generalità delle componenti sociali) per quanto concerne la salvaguardia e continua articolazione e crescita del sistema di spazi pubblici, di servizi e attrezzature (23), ramificati nel tessuto urbano, aperti alla condivisione e coesistenza di tutte le diverse componenti della comunità nelle loro differenze; sistema di spazi ai quali la comunità, nelle sue diverse espressioni anche conflittuali, dà forma, significato e contenuti, trasformando gli spazi fisici in “luoghi” delle relazioni, contemporaneamente identitari e nello stesso tempo ricettori dei flussi di nuovi utenti, di attività innovative, di interessi differenziati e culture diverse. La “città pubblica” nelle sue diverse espressioni in quanto struttura morfologica e funzionale dell’insediamento (qualunque sia la terminologia con la quale lo si denomina), alla quale è connessa la trasformazione dell’agglomerato insediativo in “città”, dialoga con le diverse parti e tipologie del tessuto urbano all’interno delle quali si pone come luogo dell’incontro, del confronto, delle proposte e dei processi di discussione sulla gestione e utilizzo del territorio urbano, e della messa a fuoco dei problemi specifici delle singole parti (24).
La vita della comunità anche nel suo modificarsi (25) è profondamente innestata nel suo “spazio” di riferimento (anche se i singoli sono interconnessi al “mondo” attraverso forme di comunicazione che non necessitano dello spazio urbano, anche se la mobilità fra luoghi diversi caratterizza ampi segmenti di popolazione, anche se i poli di sviluppo economico tendono a essere riposizionati nel territorio in funzione di strategie sovralocali): esiste un rapporto biunivoco tra la vita sociale e la morfologia urbana così come tra gli insediamenti residenziali e le economie presenti. I processi di carattere economico o culturale – oggi e probabilmente sempre più in futuro inseriti in un orizzonte di connessioni “globali” – quando calano in un luogo si “territorializzano”, acquisiscono fisionomie specifiche raccordandosi alle preesistenze locali, e si traducono in morfologie urbane, culture identitarie, economie/tipologie occupazionali locali con relative politiche di difesa (26) , che esprimono e sviluppano una intrinseca progettualità urbana e sociale. Da qui la necessità di uno specifico quadro disciplinare per il contesto urbano e le progettualità locali, improntato alla consapevolezza che gli interventi concernenti le dinamiche delle urbanizzazioni sono costruttivi nella misura in cui, dall’interno della specifica originalità dei luoghi, si rapportano al quadro dei problemi generali in una dialettica continua di interrelazioni. E ancora, la necessità di una progettualità degli spazi pubblici urbani che corrisponda alla loro funzione di essere congiuntamente luogo emblematico della identità locale (o delle diverse identità che attraversano la comunità locale) e luogo emblematico della città intesa come categoria di spazi/interessi aperti alle identità plurali dei flussi di persone che la attraversano o che la vivono in fasi transitorie della loro vita.
L’urbanizzazione è il processo di territorializzazione di persone, economie, culture che si stratificano nel tempo e costituisce la componente spaziale di politiche che rivedono progressivamente le modalità con le quali recepire le preesistenze e programmare il futuro . Intesa in questo modo l’urbanizzazione, in quanto componente spaziale di politiche e culture – locali e generali – succedentisi nel tempo, è contemporaneamente documento degli assetti fisici che l’hanno conformata (a partire dalle componenti ambientali), la cui viscosità permane attraverso le modifiche, e documento delle culture che hanno inciso sui suoi assetti sociali; allo stesso modo i processi futuri si evolveranno a partire dal quadro espresso dalle culture attuali. Non va cioè sottovalutato il fatto che la conformazione spaziale dei luoghi e dei servizi pubblici (risultante e segno concreto delle differenze specifiche dei singoli insediamenti e dei processi sociali e culturali che li hanno attraversati) è fortemente pervasiva della cultura di un luogo e che i suoi processi di trasformazione – di conservazione, di qualificazione o di degrado – incideranno profondamente sulle forme di coesistenza urbana (oltre a esserne il prodotto e l’espressione).
Gli obiettivi del piano territoriale
I temi affrontati dalla pianificazione territoriale vertono oggi come in passato su obiettivi posti dalla
comunità e dalle sue articolazioni amministrative (enti istituzionali, portatori di interessi o di culture emergenti…) relativi all’ambito territoriale circoscritto oggetto dell’intervento di pianificazione. I contenuti della pianificazione agiscono contemporaneamente sul territorio come spazio fisico (definizione di ambiti e di modalità d’uso), sulla qualità di vita degli abitanti (individuazione di standard relativi alle attrezzature pubbliche, all’edilizia sociale, alle infrastrutturazioni; regolamentazione degli insediamenti e delle attività produttive; gestione del patrimonio storico e salvaguardia attiva dei paesaggi) e sulle modalità attuative degli obiettivi (formule prescrittive; negoziazioni pubblico/privato; proposte/progetti “dal basso”). In tutti gli aspetti oggetto di pianificazione (organizzazione dello spazio, risposte a fabbisogni sociali, modalità attuative degli obiettivi) il “piano” nella fase di elaborazione agisce in concorso e confronto con le discipline settoriali connesse e con i contributi partecipativi oltre che con le politiche perseguite, e nella successiva fase di attuazione è soggetto alle articolazioni indotte dalle modalità operative e gestionali. Articolato è quindi il quadro delle competenze e dei coinvolgimenti ai quali è affidato il processo di piano.
La complessità di questo processo e i problemi contingenti che lo condizionano non deve tuttavia offuscare la consapevolezza che nel momento attuale, e con l’attuale grado di conoscenza di alcuni problemi emergenti, alcune scelte debbano “preesistere” e costituire il “supporto” dell’intelaiatura del piano: scelte che possono risultare formulate – a parole – con espressioni in un certo senso convenzionali e astratte, ma concretissime nel loro risvolto sul territorio, ciascuna di esse portatrice di ricadute territoriali impegnative e di comportamenti che rimandano a contenuti e obiettivi definibili etici:
- la salvaguardia delle risorse ambientali (acqua, aria, suolo, biodiversità), finalizzata al mantenimento delle possibilità di vita in qualunque parte della terra. Le modalità della salvaguardia sono già state ampiamente dibattute a livello culturale e tradotte in strumenti operativi (gestione delle acque superficiali, profonde e marine; riduzione dei consumi energetici e di emissioni dei gas serra; riduzione del consumo e degrado del suolo; tutela della biodiversità) e sono oggi oggetto di programmi d’azione impegnativi e articolati (ONU: Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile - 2015; Italia: Strategia nazionale di sviluppo sostenibile - 2017). La ricaduta di questi programmi nella pianificazione è pervasiva sia negli assetti spaziali – individuazione degli ambiti da delegare pressoché esclusivamente a processi naturali in quanto scheletro fisiografico/funzionale del territorio(27) –, sia nella regolamentazione degli interventi antropici. L’attuazione di questi programmi attraverso le concrete scelte dei piani dipende dalla consapevolezza del problema e da una precisa volontà politica capace di incidere su modalità produttive e insediative consolidate e su interessi economici prevalenti;
- l’attribuzione ai terreni idonei all’agricoltura della destinazione d’uso della produzione ambientalmente sostenibile (28) di prodotti alimentari come destinazione d’uso prioritaria (o unica, a seconda dei luoghi) e programmaticamente permanente. La salvaguardia da ulteriori corrosioni dei terreni agricoli, connessa all’acquisizione dei criteri per l’aumento della produttività agricola a fini alimentari e alla revisione delle modalità del commercio mondiale dei prodotti agricoli, deve assicurare – all’interno del più generale obiettivo dello sradicamento della povertà – la sicurezza alimentare ai diversi popoli – e quindi la loro sopravvivenza nei propri territori, sul presupposto che sia loro garantito “un accesso sicuro ed equo” ai terreni (29) e, contemporaneamente, sia sempre assicurato “l’accesso al cibo anche nelle situazioni di crisi e di emergenza”(30) –;
- la salvaguardia e difesa della funzione storicamente primaria, e specifica, della città, (indipendentemente dalle nuove dimensioni e morfologie che stanno evolvendo nelle diverse parti della terra) di fornire un robusto scheletro di spazi di relazione pervasivo delle diverse parti urbane, di strutture sociali e servizi, attraverso i quali siano potenziate le possibilità di crescita individuale e collettiva, di confronto fra le diverse anime della città e con i flussi delle diverse culture per pervenire all’emersione e discussione dei problemi e alla discussione e condivisione e invenzione, se necessario, delle strategie di intervento: la città pubblica, sistema di reti interconnesse di luoghi pubblici, in grado di intercettare le espressioni di socialità e i problemi e le richieste dei diversi luoghi urbani.
Questi aspetti di fondo, e in un certo senso preliminari e prodromici alla attività di pianificazione specifica dei diversi livelli o tipi di piano, emergono come richieste non eludibili della situazione ambientale e sociale attuale. Nei diversi momenti della storia e nei diversi territori l’organizzazione e la gestione del territorio ha risposto a problemi specifici che nel tempo non si sono ripetuti uguali; i processi evolutivi hanno comportato la necessità di affrontare problemi sempre diversi: la consapevolezza dei caratteri originali e dei problemi specifici del momento attuale consentono anche una maggior lucidità nella rilettura del passato e delle ragioni alla base delle sue specifiche e differenti fisonomie; se viene meno la riflessione e la consapevolezza delle emergenze di fondo del momento attuale, la pianificazione rischia di essere una operazione di tecnica urbanistica e amministrativa non in grado di cogliere e perseguire gli obiettivi - non arbitrari - che l’oggi richiede. La fase storica attuale, e il quadro di conoscenze che ne abbiamo, ha portato in primo piano la consapevolezza del problema ambientale, il tema delle povertà/disuguaglianze e la richiesta di città intesa come luogo delle opportunità e del confronto sulle modalità dell’urbanizzazione e sui problemi sociali in essa confluenti: problemi comuni e trasversali ai diversi paesi, pur nella diversità dei luoghi e delle culture, e che nei diversi paesi richiedono risposte specifiche e anche, forse, il superamento di visioni troppo localistiche.
Al piano compete concretizzare obiettivi di fondo e scelte di futuro nelle loro implicazioni spaziali; un quadro certo (pur soggetto al progressivo aggiustamento connesso agli esiti dei monitoraggi e al divenire delle conoscenze), con chiare definizioni degli ambiti territoriali e del loro ruolo raccordato a obiettivi generali di interesse pubblico, consente l’irradiarsi nel tempo della complessità di forme di progettualità e delle reti degli usi da parte dei diversi “attori” del territorio (singoli, gruppi, comunità, enti) in autonomia ma in coerenza con obiettivi definiti di carattere generale. In assenza di un quadro territoriale organizzato in funzione degli obiettivi di fondo, o in presenza di formulazioni regolamentari tanto generali da lasciare aperto un incontrollato ventaglio di interventi
– o con l’introduzione di criteri di pianificazione (come vengono avanti, nel nostro paese, con forme progressivamente più estese ed incisive) che subordinano la discrezionalità delle pubbliche amministrazioni (e quindi si presuppone le finalità di interesse pubblico) a proposte insediative avulse da un quadro territoriale organico (31) - non si avrebbe un progetto di territorio né un quadro di impegni e confronto con le comunità interessate, e tantomeno un progetto rapportato all’obiettivo di un processo ambientalmente e socialmente sostenibile (32).
Il governo del territorio
L’espressione “governo del territorio” implica una prospettiva nella quale viene considerato il complesso delle azioni (strategie politiche e discipline pianificatorie) incidenti sul territorio in funzione di obiettivi che a seconda della tipologia dei beni considerati e delle disposizioni di riferimento vengono di volta in volta individuati come “tutela dal rischio idrogeologico”, “tutela delle acque dall’inquinamento”, “tutela del paesaggio”, “valorizzazione del patrimonio naturale”, “assetto e incremento edilizio dei centri abitati”, “costruzione di alloggi di carattere economico e popolare”, “sviluppo sostenibile”, “ordinato sviluppo del territorio”, ecc., obiettivi dei quali alcuni (la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) sono oggetto della legislazione esclusiva dello Stato (33), altri della legislazione concorrente Stato/Regioni (art. 117 Cost.).
La presenza di discipline diversificate per finalità e per ente competente, che agiscono tuttavia sul medesimo oggetto – il territorio – , comporta la necessità di una effettiva interrelazione fra i momenti conoscitivi e programmatici dei diversi ambiti disciplinari. Interrelazione che non può limitarsi d una stratificazione di strumenti distinti per ambito di competenza, ciascuno dei quali interferisce con gli altri attraverso vincoli ripresi spesso acriticamente dagli strumenti sottordinati e intesi come condizionamento all’attività edilizia (che sembra essere il principale oggetto di attenzione dei piani), ma deve confluire in uno strumento di pianificazione nel quale le discipline di tutela o rigenerazione delle componenti ambientali e paesaggistiche si completano nel quadro degli usi del territorio e delle trasformazioni urbanistiche che, in coordinamento e coerenza e concorso con le tutele, delinei i processi territoriali futuri [in assenza di questa simbiosi gli usi e le trasformazioni del piano galleggiano come attributi casuali senza il supporto sostantivo del territorio]. L’approfondimento di una tipologia di piano che riassorba in modo organico i diversi contributi disciplinari e ancor più la lungimiranza di atti normativi (nazionali e regionali) che colgano la complessità dei processi territoriali nelle loro interazioni, all’interno e con l’esterno dei perimetri di riferimento, è oggi necessaria per una pianificazione territoriale aperta ai problemi generali e concretamente costruttiva.
La finalità pubblica oggetto delle discipline concernenti la pianificazione – perché in ogni caso si tratta di discipline mirate all’interesse pubblico – riguarda temi che per la loro specifica natura interessano orizzonti temporali differenti. Alcuni temi (reti idrauliche, acque profonde, ecosistemi, beni culturali e paesaggistici) riguardano ambiti territoriali, conformativi della fisonomia del territorio, per i quali le discipline specifiche sono finalizzate ad assicurare processi evolutivi mirati al consolidamento o rigenerazione del loro specifico ruolo ambientale e/o paesaggistico, e quindi mirati al mantenimento nel tempo di processi o morfologie territoriali (naturali e antropiche), e per questo spesso definite “invarianti” (anche se gli stessi processi naturali o antropici che ne mantengono il ruolo ne escludono il carattere dell’invarianza o la circoscrivono ad aspetti specifici, differenti per i differenti oggetti). Per queste strutture territoriali, alla cui permanenza nel tempo sono connessi i processi ambientali e il mantenimento dei fondamenti identitari che supportano la continuità insediativa e la qualità di vita delle popolazioni, la pianificazione agisce con orizzonti temporali di lunga durata. Altri temi, quelli connessi all’avvicendamento delle obsolescenze insediative e occupazionali, delle emergenze e delle dinamiche sociali, comportano la necessità di riorganizzare assetti consolidati con cadenze temporali a volte ravvicinate.
In un medesimo contesto territoriale sono compresenti sia ambiti che rimandano a temi di respiro geografico/storico e a obiettivi generali sia ambiti soggetti a contingenze temporali e avvicendamenti più rapidi – il ché rientra nella logica della giustapposizione (e interazione) di fenomeni territoriali diversificati. Tuttavia a questi orizzonti temporali differenziati non può corrispondere una analoga scansione temporale nella disciplina pianificatoria, sia nella fase progettuale che nella fase operativa/gestionale: in tutti gli ambiti la finalità dell’interesse pubblico implicita nella pianificazione rende necessarie strategie di intervento continuative e costantemente affinate: che provvedono alla salvaguardia e al mantenimento di processi naturali in un quadro di profonde modifiche ambientali, al perseguimento di politiche agricole coerenti con gli obiettivi della sostenibilità e con il contesto delle economie mondiali, al miglioramento della qualità di vita negli agglomerati insediativi oggi attraversati da problemi sociali inediti. Gli interventi per la salvaguardia nel tempo di assetti storico/fisiografici (per esempio le attività connesse agli equilibri idraulici, o ai dissesti idrogeologici, o alla valorizzazione di siti storici) non sono (o non possono essere) meno incisivi o più discontinui delle modifiche colturali e delle politiche agricole o degli interventi nei tessuti urbani. In tutti i casi le azioni (e l’impegno decisionale e di lavoro connesso) e le scansioni temporali degli interventi devono rispondere a criteri di tempestività e continuità per confluire nella prospettiva della preservazione e vivibilità di un territorio (ambientale e sociale) che nella sua interezza rientra nel patrimonio della comunità locale e nel patrimonio della più vasta comunità umana. Prospettiva che è difficile definire nella articolazione dei suoi diversi contenuti, ma verso la quale, pur faticosamente e in presenza di conflittualità diffuse (fra paesi, fra emergenze diverse nei diversi paesi, fra gruppi sociali, fra diverse esigenze di inclusione, fra diverse prospettive occupazionali, fra diritti privati e diritti collettivi), le situazioni ambientali e sociali attuali, e l’interdipendenza tra i diversi territori (34), chiedono di procedere.
Il testo integrale dell'articolo, completo di note a piè di pagina, è raggiungibile qui sul sito della Casa della cultura di Milano
Potere al popolo, 5 marzo 2018un'analisi del voto del 4 marzo. Qualche parola per ciascuna delle liste che si sono presentate. Molti puntini sulle i e, per finire, qualche speranza se la novità positiva di queste elezioni Sto arrivando! durare, e moltiplicarsi
Il Pd, Liberi e Uguali.
D'Alema era certo di intercettare i voti in uscita dal Partito Democratico con Piero Grasso: “Puntiamo alla doppia cifra”. Il Pd è sceso al minimo storico, sotto al 20, ha gli stessi voti della Lega ma Leu ha rischiato di non entrare in Parlamento. Cosa non ha funzionato?
Bersani, Grasso, D’Alema, Speranza, Epifani non hanno intercettato i voti in uscita dal Pd perché, mentre quei voti uscivano, loro sono rimasti nel Pd a votare il Jobs Act, lo sblocca-Italia, il salva-banche e ogni altro provvedimento di stampo liberista, in linea con quelli approvati in precedenza.
Il voto segna il prevedibile tracollo del Pd e dei suoi fuoriusciti che hanno per anni condiviso le stesse politiche liberiste, cominciate ben prima dell’arrivo di Renzi: la precarizzazione del mercato del lavoro che Bersani e D’Alema rivendicano, le esternalizzazioni e le privatizzazioni che Bersani rivendica (“Io non sono mica Corbyn!! Io ho fatto le privatizzazioni!”), le guerre e le spese militari che D’Alema rivendica, l’aumento dell’età pensionabile, la Legge Fornero che ha svutato – prima che Renzi lo cancellasse definitivamente .- l’articolo 18, dando la possibilità alle imprese di licenziare ingiustamente i lavoratori in cambio di un indennizzo economico e che ha legalizzato lo sfruttamento delle false partite iva e dei giovani avvocati, architetti, giornalisti e tutti gli altri iscritti a un ordine professionale.
Non abbiamo assistito “alla frammentazione della sinistra”, come la definisce Cuperlo bensì alla frammentazione del Pd che unito, e con Bersani segretario, ha votato insieme a Berlusconi a favore del pareggio di bilancio in Costituzione e dei provvedimenti sopra citati e che per questo non viene più percepito “di sinistra” dagli elettori di sinistra.
Una minoranza della minoranza Pd è uscita dal partito solo quando ha compreso che Renzi non lo si poteva battere dall’interno e che per batterlo occorreva fare quello che Mdp ha fatto: un partito che indebolisse Renzi nel risultato elettorale per poi costringerlo alle dimissioni, e tornare in gioco ricostruendo il centrosnistra e il Pd. D’Alema, Bersani, Epifani hanno capito che l’unico modo per non essere trombati in fase di composizione delle liste – come è successo invece ai pochi “di sinistra” rimasti nel Pd a illudersi di poter fare la bataglia interna: Cuperlo, Manconi o Lo Giudice – era dare vita a un’altra lista dove avrebbero potuto decide loro e non Renzi le candidature.
Lo hanno fatto con grande trasparenza, senza mai nascondere che questo fosse il loro legittimo obiettivo, restando fino all’ultimo a sostenere la maggioranza di Gentiloni che andava benissimo perché rappresentava il Pd ma non era Renzi, in tempo utile per votare la fiducia sul decreto Minniti e le manovre che aumentavano i ticket sanitari e le spese militari più di quanto le avesse aumentate Renzi. Lo hanno fatto con grande trasparenza, scegliendo come leader Piero Grasso che fino al giorno prima era infatti nel Pd. Trasparenti al punto che le parole con le quali oggi Speranza chiude la conferenza stampa di Leu sono: “Ora bisogna costruire un centrosinistra più largo possibile”. È una scelta che non ho condiviso – ma mi sarei stupita a condividere le scelte di D’Alema – e che però, da un punto di vista tattico, ho compreso.
Non ho invece condiviso e nemmeno compreso la scelta di Sinistra Italiana, che era fuori dal Parlamento con Monti ma ne criticava l’indirizzo e poi cinque anni è stata coerentemente all’opposizione del Pd, esprimendosi contro tutti i provvedimenti che Renzi, Bersani, Epifani e prima D’Alema andavano votando. Non ho compreso la loro scelta di entrare in questa minoranza della minoranza del Pd chiaramente intenzionata a rifare il centrosinistra e riprendersi il Pd dopo che Sinistra Italiana aveva votato la linea esattamente opposta al suo congresso fondativo: “il centrosinistra è morto e noi siamo il quarto polo alternativo al Pd”.
Nemmeno ho compreso e condiviso la medesima scelta da parte di Possibile, i cui esponenti, a differenza di Bersani e D’Alema non erano compromessi con l’esperienza del Governo Monti e che in parlamento in questi anni hanno tentato di contrastare la deriva liberista presentando con Sinistra Iitaliana alcune ottime proposte di legge. Penso che le donne e gli uomini di sinistra di Sinistra Italiana e Possibile avrebbero avuto maggiori possibilità di entrare in parlamento se avessero preservato il percorso del Brancaccio. Ha prevalso una valutazione diversa, che condurrà molti che avrebbero fatto un buon lavoro in Parlamento a restarne fuori, e questo mi addolora.
I 5 Stelle
A queste elezioni non si registra il trionfo del centrodestra o dei 5 Stelle, piuttosto quello dell’antisistema: di quello che viene percepito dagli elettori come tale anche se poi, quando ha l’opportunità di governare, fa politiche in perfetta continuità con quelle del sistema liberista che ha scalzato e che dice di voler combattere.
Un terzo degli elettori che si definiscono “di sinistra”, di quelli che se ci fosse stata una sinistra forte e autentica come quella di Corbyn, Sanders, Melenchon l’avrebbero votata – hanno ripiegato sul Movimento 5 Stelle perché era l’unico con un rapporto di forza tale da consentire di far fuori il vecchio: Berlusconi, D’Alema, Renzi, Bersani, Casini. Molti elettori di sinistra hanno votato il Movimento 5 Stelle turandosi il naso, alcuni confortati dal fatto che tra gli esperti cooptati dai 5 Stelle per scrivere il programma ci fossero persone dichiaratamente di sinistra (De Masi, Aldo Gianuli, che ha votato Potere al popolo, Giorgio Cremaschi, candidato di Potere al popolo…).
Così avevo fatto anche io al ballottaggio a Roma, per le amministrative.
Ho votato 5 Stelle al ballottaggio a Roma perché avevano indicato Paolo Berdini come assessore all’urbanistica e ho immensa stima di lui. Berdini è stato fatto fuori per essersi opposto allo Stadio della Roma, lo Stadio si farà regalando ai palazzinari più di quanto avrebbero ottenuto da Alemanno e con i miei occhi e quelli di mio figlio ho visto sgomberare con gli idranti le famiglie dei richiedenti asilo, le donne e i bambini dalle loro case. Per questo e prima ancora che Di Maio definisse “Taxi del mare” le Ong, prima ancora che il Movimento 5 Stelle scegliesse di non partecipare alla manifestazione antifascista di Macerata e di inabissarsi dopo l’attentato fascista di Traini ho deciso che non avrei mai più votato 5 Stelle e come me – prima di me – tanti elettori.
Il boom dei 5 Stelle ha stupito il Pd e i suoi fuoriusciti che che lo hanno definito “un voto di destra”. Vi stupite se votano per un partito che non mette una riga sui contratti nel programma-lavoro (più o meno come avete fatto voi quando avete cancellato l’articolo 18)? Che definisce le Ong i taxi del mare (più o meno come avete fatto voi con il codice Minniti conrto le Ong)? Che promette la democrazia diretta ma se vince un candidato che non piace al capo viene sostituito con un altro come un qualunque concorrente di quiz a premi (più o meno come avete fatto voi paracadutando le pluricandidature)? Stupefacente è il vostro stupore.
La Lega
I 5 Stelle vincono a sud dove più ci si è impoveriti. A Nord, dove ancora c’è un poco di ricchezza e un poco di lavoro ai quali restre aggrappati, vince la Lega, l’altro partito percepito come “contro il sistema” pure se è alleato del più longevo e potente dei politici del sistema: Silvio Berlusconi.
Un risultato, anche questo, che ha stupito i dirigenti e i parlamentari “di sinistra” che hanno aumentato l’età pensionabile e trovato logico fare una moneta unica senza un’unità politica, che hanno creduto e detto che non c’era alternativa alla flessibilità e alla precarietà, all’aumento dell’età pensionabile, che hanno lasciato che montasse la propaganda delle destre l’hanno inseguita gridando all’emergenza-immigrazione invece di denunciare l’emergenza-emigrazione dovuta all’esodo di chi cerca lavoro all’estero perché quella stessa “sinistra” aveva reso troppo saltuario e mal pagato il lavoro.
Come sopra: vi stupite se gli operai votano per il solo che avete lasciato libero di promettere che avrebbe cancellato la riforma Fornero? Il solo che avete invitato sulle vostre tv a gridare che basta austerity delle oligarchiee europee, pure se è alleato di Berlusconi che ha votato a favore della Fornero e di tutti i provvedimenti di austerity del governo Monti imposti dalle olgarchie europee? Ma è colpa vostra! Vostra che quei provvedimenti li avete votati, insieme a Berlusconi. Chi vota Lega non vuole sparare ai neri anche se tace – esattamente come durante il Fascismo – tace e spesso acconsente quando qualcuno lo fa: rivuole il lavoro, il potere d’acquisto che il suo salario aveva quando c’era la lira, e siccome gli avete tolto gli strumenti per capire come sono andate le cose, siccome sui luoghi di lavoro li avete massacrati, non si fidano di quel che dice il sindacato; siccome in tv gli avete fatto vedere i cuochi e Cacciari e Barbara D’Urso e i telefilm sui carabinieri e Belpietro che dà la colpa della miseria agli immigrati a quello credono: quello sentono, quello sanno. Stupefacente è il vostro stupore.
Forza Italia.
Berlusconi tiene. Nonostante le condanne, l’incandidabilità, il bunga-bunga, le frodi fiscali, le cene eleganti, nonostante abbia votato come Bersani e D’Alema a favore dell’aumento dell’età pensionabile, della precarizzazione del lavoro, della libertà di licenziare, del pareggio di Bilancio in Costituzione. Tiene perché gli avete lasciato tre reti televisivi dalle quali raccontare a tutte le ore che aumenterà le pensioni minime a mille euro, taglierà le tasse e l’Iva sul cibo per cani, camminerà sull’acqua e il resto è colpa dei negri e ci pensa Salvini. È colpa vostra pure questa, pure per questo quelli di sinistra non votano più voi ma chi promette una legge contro il conflitto d’interessi.
Casapound
È sotto all’uno per cento ma ha fatto egemonia. Le cose che dice sugli immigrati e il decoro, la repressione e l’ordine le mettono in pratica tutti gli altri grandi partiti. Non serve aggiungere molto al Minniti di Crozza-Robecchi: “Non possiamo lasciare il fascismo ai fascisti”. Pure il fascismo quello di una volta non stava in piedi grazie alle camice nere ma ai tanti che davano loro ragione.
Più Europa
Più Europa ha perso, nonostante sia stata mostruosamente pompata, nostrante Emma Bonino avesse un patrimonio personale di credibilità per le sue battaglie a favore dei diritti civili che l’aveva portata a prendere il 9 per cento alle europee del 1999. Ha perso non tanto perché ha un programma economico che ricalca l’agenda del governo più impopolare della storia della Repubblica (nessuno li legge i programmi), ha perso perché la sua lista si chiama + Europa e gli italiani vogliono – Europa. O meglio, non è che gliene freghi molto dei confini o dell’Italia, figurarsi dell’Europa o del mondo intero, ma hanno registrato che da quando c’è l’Euro si sono impoveriti e sono giustamente preoccupati per la loro sorte e quella dei loro cari. Gli avete detto che bisognava andare in pensione più tardi e precarizzare il lavoro perché “Ce lo chiede l’Europa”, mica pensavate che la ringraziassero.
Casini
Casini è il vero vincitore di queste elezioni. l’Udc all’uno per cento, il Pd al minimo storico perché ha fatto cose dieci anni fa impensabili tipo candidare Casini a Bologna, lui eletto a Bologna con i voti del Pd. Chapeau.
Potere al popolo
Il risultato elettorale di Potere al popolo è deludente. Era difficile fare di più e lo sapevamo: la “capa politica”, come impone di chiamarla la legge elettorale, Viola Carofalo non è mai stata invitata, nemmeno una volta, da Formigli o da Floris o all’Aria che Tira o da Santoro o da Giletti o a in mezz’or da Lucia Annunciata come invece il leader di Casapound che ieri sera lamentava di essere stato poco in tv e Annunziata replicava: “Ma se sei stato da me!!”.
Viola ha parlato per pochi secondi a Cartabianca ospite di Bianca Berlinguer, ha partecipato a un’unica trasmissione su Mediaset e la stragrande maggioranza degli elettori, ancora oggi, si informa attraverso la tv. A differenza di tutte le altre liste che sono note a tutti (non essendoci uno che non sappia che cos’è Casapound, che cos’è il Partito Comunista o l’Udc, chi è Emma Bonino o il ministro Lorenzin, chi sono D’Alema e Bersani e le due più alte cariche dello stato con loro in Liberi e Uguali) il simbolo, il nome, il programma di Potere al popolo è ancora oggi sconosciuto alla stragrande maggioranza degli elettori.
Anche se all’interno di Potere al popolo ci sono piccole forze organizzate, come Rifondazione o l’Usb, queste hanno rinunciato al loro simbolo, pur sapendo che la rinuncia li avrebbe resi irriconoscibili a tanti elettori non militanti che ancora ieri chiedevano come mai non c’era Rifondazione sulla scheda. Trovare un nuovo nome, un nuovo linguaggio, era però necessario per anadare oltre il recinto degli elettori che si riconoscono nella falce e martello, e una forza politica che ha l’ambizione e di parlare agli sfruttati sa che molti di loro non hanno oggi gli strumenti per decifrare il senso di quel simbolo, per comprendere quel linguaggio. Sa che bisogna cercare e trovare il modo di farsi capire e di conivolgere nella lotta di classe chi sta subendo in silenzio, convinto che subire sia il suo destino. Quattrocentomila persone che hanno votato Potere al popolo sono oltre il 10 per cento di quelli che lo hanno conosciuto, in due mesi di campagna elettorale fatta senza soldi, casa per casa.
Qualcuno mi ha fatto notare che anche il Movimento 5 Stelle era sconosciuto quando è nato. Al contrario! Il Movimento 5 Stelle era il partito di Beppe Grillo e non c’era un italiano che non sapesse chi fosse Beppe Grillo e che dunque non fosse curioso di ascoltare che cosa aveva da dire. I talk di punta trasmettevano in prima serata lunghi spezzoni dei suoi comizi, senza alcun contraddittorio, poiché lui astutamente rifiutava il confronto diretto in studio. Così tutti hanno sentito che Grillo era contro “la casta” e tanto bastava e ancora basta, perché “la casta” è ancora la stessa ed è ancora lì.
Il risultato elettorale di Potere al popolo è deludente ma quello elettorale non è il solo né il principale risultato. Il risultato è aver mobilittato e entusisamato migliaia di persone che non si conoscevano e che ora si sentono legate e continueranno a lottare insieme contro l’austerity, per i diritti e contro i privilegi, per la solidarietà e contro l’inganno della guerra tra poveri che è invece una guerra ai poveri. Insieme e non più soli. Il risultato è stato aver creato questo protagonismo attraverso la mobilitazione dei non Tav, No Triv, No Muos, di chi lotta per la difesa dei posti di lavoro, per la scuola e la sanità pubblica, per le donne, e per i migranti, di chi non si sentiva più rappresentato e non si sarebbe mobilitato e tantomeno entusiasmato così solo per farsi rappresentare. Donne, ragazzi, anziani che non si sono arresi all’idea che non c’è alternativa, all’idea che non valga la pena combattere.
C’è uno scarto tra il pensarla così e l’agire di conseguenza. Il risultato di Potere al poplo è in quello scarto. Chi agisce, chi lotta, è già in salvo. Questo è poi lo scopo della sinistra: salvare i sommersi, uno per uno. Siamo a quota 400mila elettori in solo due mesi: andiamo avanti. Non c’è nulla di cui rallegrarsi nel risultato di queste elezioni solo per chi non ha beneficiato di questa ricchezza. Per noi, per me, è stata un dono immenso del quale ringrazio le compagnie e i compagni che si sono mobilitati. Sono felice di essermi battuta per costruire questa comunità di lotta, felice di vederla crescere, di stringere legami così solidi con persone così belle. È stata una gioia e un’emozione incancellabile e resta, nello sconforto, un più grande conforto. È quello che mi state scrivendo a decine e vi rispondo qui: grazie a voi, certo che andiamo avanti, c’è molto lavoro da fare e continueremo a batterci. Ci vediamo il 18 a Roma, teniamoci stretti.
il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2018. La "desecretazione" di documenti finora segreti rivela il ruolo della NATO nel sequestro e omicidio dello statista democristiano, con il dichiarato intento di impedire che il PCI vincesse le elezioni ed entrasse nel governo. un libro di Giovanni Fasanella,
Il puzzle Moro, rivela perché e come avvenne
«“Aldo Moro, i terroristi parte di un gioco più grande di loro”. Così le potenze Nato volevano sbarazzarsene. Prima delle Br. “Aldo Moro, i terroristi parte di un gioco più grande di loro”. Così le potenze Nato volevano sbarazzarsene. Prima delle Br»
Nel libro di Giovanni Fasanella, "Il Puzzle Moro", l'analisi di documenti inglesi e americano oggi desecretati. Raccontano che non erano le Brigate rosse le sole nemiche del presidente della Dc sequestrato il 16 marzo 1978 e ucciso 55 giorni dopo. Usa, Uk, Francia e Germania erano preoccupate dal rischio di un Pci al governo e dalla sua apertura verso il mondo arabo. Nei vertici al massimo livello l'ipotesi di intervenire anche con "metodi per noi ripugnanti"
Non è questione di dietrologia e complotti. Sono i documenti a parlare. E i documenti mostrano che non erano solo le Brigate rosse a vedere in Aldo Moro un nemico. E’ il filo conduttore del libro di Giovanni Fasanella Il puzzle Moro (Chiarelettere, 368 pagine, 17,60 euro), basato su testimonianze e documenti inglesi e americani oggi desecretati.
Negli anni Sessanta e Settanta Londra, Washington, Parigi e Berlino temono innanzitutto che in Italia il Partito comunista italiano più forte d’Europa possa andare al potere, sia pur legittimamente attraverso il voto, sconfiggendo una Dc minata da scandali e clientele. E neppure gradiscono le aperture del nostro Paese verso il mondo arabo, Libia e Palestina incluse. Moro era il volto che meglio incarnava questi pericoli, come dimostra il brano tratto dal libro che pubblichiamo di seguito per gentile concessione di Chiarelettere.
Questo non significa che le potenze straniere siano state partecipi del sequestro e dell’assassinio del presidente della Democrazia cristiana, avvenuti quarant’anni fa a Roma. Ma, scrive Fasanella, i brigatisti sono rimasti ancora oggi “convinti di essere stati il motore esclusivo di avvenimenti che sono invece più grandi di loro”, pur non ammettere il loro ruolo da “utili idioti”. Lasciati fare, in quei 55 giorni, in nome di altri interessi. E se l’ultima commissione parlamentare d’inchiesta ha concluso che quella accumulata finora dai processi è solo “la verità dicibile”, i documenti desecretati illuminano quella indicibile: “Ciò che non si poteva dire”, scrive ancora l’autore, “era che l’assassinio di Moro fu un vero e proprio atto di guerra contro l’Italia anche da parte di Stati amici e alleati, un attacco alla sovranità di una nazione e alle sue libertà politiche portato da interessi stranieri con la complicità di quinte colonne interne”. Ecco un estratto dal libro.
Il «direttorio politico» dei «Quattro», nato su iniziativa americana per decidere che fare per risolvere una volta per tutte il caso italiano, si riunì la prima volta a Helsinki il 31 luglio 1975. Subito dopo le elezioni amministrative che, in giugno, avevano decretato un clamoroso successo del Pci e una secca sconfitta della Dc, travolta da scandali a ripetizione. Nella capitale finlandese era in corso la conferenza sulla sicurezza europea. E in quell’occasione, i rappresentanti di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania approfittarono di una pausa per appartarsi e discutere lontani da occhi indiscreti. Si videro a pranzo nella sede dell’ambasciata inglese. Ma senza alcun risultato utile. Tutti erano d’accordo sui rischi che avrebbe corso l’Alleanza atlantica nel caso in cui il Pci si fosse avvicinato al governo. Tutti pensavano che si dovesse fare qualcosa. Ma quando cominciarono a esaminare le varie opzioni, la discussione si arenò. Prevalse un atteggiamento di prudenza fra gli europei, ancora molto «sensibili riguardo alla macchia di un’ingerenza così vicino a casa», come emerge dai documenti americani pubblicati dalla storica Lucrezia Cominelli. Così, l’unica decisione presa fu quella di tornare a incontrarsi un paio di mesi dopo, a New York.
L’appuntamento negli Usa fu fissato per il 5 settembre 1975. E anche quella volta i «Quattro» si videro nella sede diplomatica britannica. C’erano, oltre a Kissinger, i ministri degli Esteri inglese, James Callaghan, francese, Jean Sauvagnargues, e tedesco, Hans-Dietrich Genscher. In quel secondo incontro, le rispettive posizioni cominciarono a delinearsi con più chiarezza.
Il padrone di casa, Callaghan, prospettò un quadro drammatico della situazione. L’intera Europa meridionale rischiava di finire sotto l’influenza comunista, disse. Ma non per colpa dell’Urss, che «non sembra avere tutta questa fretta di aggiudicarsi altri costosi clienti», si affrettò a precisare. Anzi, secondo lui il Cremlino avrebbe accettato «una dottrina Brežnev rovesciata», in base alla quale l’Alleanza atlantica era autorizzata a intervenire con la mano pesante in un paese a rischio del proprio campo; così come il Patto di Varsavia aveva fatto in Cecoslovacchia in base al principio della «sovranità limitata» teorizzato da Leonid Brežnev per i satelliti dell’Urss. In ogni caso, per il ministro degli Esteri inglese, era necessario escogitare qualcosa che fosse «a metà strada fra metodi per noi ripugnanti e la necessità di scoraggiare l’influenza sovietica». Insomma, anche se dal Cremlino non arrivavano incoraggiamenti al Pci, un intervento era comunque necessario per frenare eventuali, future tentazioni.
Per Callaghan la situazione italiana era tale da non giustificare ulteriori esitazioni. Durante l’estate aveva incontrato Rumor (trasferitosi alla Farnesina dopo che Moro ne aveva preso il posto a Palazzo Chigi) e dal colloquio ne era uscito con l’impressione che non ci fosse niente, fra i metodi democratici, che potesse «fermare la presa del potere da parte dei comunisti». E allora, come impedirlo? Il ministro britannico non si sbilanciò. Probabilmente voleva che fossero gli altri a scoprirsi, per capire fino a che punto fossero disposti a spingersi. Sul tavolo, una delle opzioni per bloccare l’avanzata comunista era costringere la Dc a rinnovare la propria classe dirigente, troppo chiacchierata per la sua disinvolta gestione del potere. Ma Kissinger non nutriva molte speranze in proposito: «Mi sento bloccato, non ho alcuna idea brillante per riformare la Dc» disse. «Ci vorrebbe un partito che spazzasse via tutta la spazzatura» commentò Callaghan con un moto di sconforto. Una radicale riforma morale della Democrazia cristiana, ai «Quattro» doveva sembrare un’impresa davvero titanica, che richiedeva troppo tempo. Ma il tempo a disposizione si stava paurosamente consumando. E quell’opzione, benché auspicabile, non era certo la più efficace per una situazione che si era trasformata ormai in un’emergenza internazionale. (…)
L’ultima delle tre riunioni, quella del gennaio 1976, si tenne nel quartier generale della Nato, a Bruxelles. C’erano tutti i ministri degli Esteri, tranne il tedesco Genscher, che questa volta inviò a rappresentarlo un funzionario, Günther van Well. Il clima era ancora più cupo. Il Psi di Francesco De Martino, con una mossa a sorpresa, aveva appena provocato la crisi di governo, e Moro si era dimesso. La decisione socialista, in effetti, aveva complicato ancora di più le cose. De Martino si sentiva schiacciato nella morsa del dialogo a distanza tra Moro e Berlinguer. Non era più disposto ad accettare che, a sinistra, fosse solo il suo partito a pagare il prezzo elettorale per una politica economica di sacrifici. La rabbia dei ceti più deboli si stava scaricando sul Psi che, pur non avendo propri ministri nel governo Moro, lo aveva comunque appoggiato dall’esterno.
Insomma, De Martino non intendeva più dissanguarsi a vantaggio del Pci, che continuava a guadagnare consensi nell’opinione pubblica. Perciò fece sapere che non avrebbe più fatto parte di una maggioranza se anche i comunisti non si fossero assunti delle responsabilità dirette. La sua decisione gettò tutti nel panico. E fu giudicata intempestiva anche da Berlinguer.
Il quale, ben conscio dei condizionamenti internazionali e dei rischi che correva l’Italia, aveva tarato la sua strategia su tempi molto più lunghi, quindi non fremeva certo dal desiderio di vedere i comunisti nel governo. Né Moro, d’altra parte, ce li voleva. Ma De Martino era irremovibile. E l’Italia stava andando a passi veloci verso elezioni anticipate.
Al tavolo dei «Quattro», a Bruxelles, ora si stava materializzando lo scenario più drammatico che potessero immaginare: quello di una disfatta della Dc e, per la prima volta nella storia repubblicana, il sorpasso comunista, pronosticato ormai da tutti gli osservatori. Se il Pci fosse diventato il primo partito italiano, sarebbe stato impossibile escluderlo dal governo senza ricorrere a una soluzione alla cilena. Di qui il senso di impotenza e di frustrazione, come riferisce Lucrezia Cominelli. (…)
A Kissinger non interessava quanto Berlinguer fosse autonomo da Mosca, ma soltanto il grado di pericolosità della sua politica per Usa e Urss. Quanto agli inglesi, la preoccupazione principale, molto ben mimetizzata dietro la loro continua, sistematica esasperazione della minaccia comunista, era che la scena politica italiana continuasse a essere dominata dalla figura di Aldo Moro. E lo fecero capire ancora più chiaramente alla vigilia delle elezioni italiane.
I «Quattro» stavano valutando la possibilità di un nuovo vertice segreto. Prevaleva l’idea di tenerlo subito dopo il voto. Ma per Callaghan sarebbe stato troppo tardi. Disse al cancelliere tedesco Schmidt: «Se vogliamo cercare di avere una qualche influenza dovremmo farlo prima. In caso contrario avremmo il vecchio Moro seduto e mezzo addormentato per tutto il tempo come un primo ministro con la spina dorsale spezzata e i comunisti che hanno ottenuto un grande successo».
Ecco perché, fra i «Quattro», la Gran Bretagna spingeva con più forza. Voleva che gli alleati l’aiutassero a sbarazzarsi di Moro.
(da Il Puzzle Moro, di Giovanni Fasanella, Chiarelettere)
Avvenire,
La regione è l'estremo baluardo dell'opposizione al regime, è l'ultimo fronte ancora aperto, oltre ad Afrin, da dove sono fuggite 30mila persone
Sette anni dopo l’inizio della tragica guerra civile (
qui il bilancio), tutta la Siria – in un completo ribaltamento storico – si fronteggia nella Ghouta orientale. L’antica oasi a est della capitale, sotto assedio delle forze governative dal 2013 ed estremo baluardo dell’opposizione al regime, è l’ultimo fronte ancora aperto ad eccezione da quello turco-curdo di Afrine della
indomabile provincia di Idlib, divenuto rifugio di tutte le diverse opposizioni ad Assad.
Oggi dalla Ghouta orientale sono fuggiti almeno 20mila i civili. L’esodo è avvenuto attraverso un corridoio umanitario dalla città di Hamuriya, al centro della Ghouta. È il più grande spostamento di persone da quando il 18 febbraio scorso le truppe governative hanno lanciato il loro assalto finale all’enclave ribelle provocando circa 1.200 morti.
Nell’«oasi» di Damasco si scontrano per procura tutte le potenze regionali, Turchia compresa. I servizi di intelligence di Ankara, ha infatti dichiarato un portavoce del presidente turco Erdogan, sono al lavoro per rimuovere dalla Ghouta i miliziani jihadisti di al-Nusra e di altre formazioni, stimati tra «300 e 1.000 unità».
Se la Turchia rivendica una presenza nella battaglia nella zona ribelle a est di Damasco, oggi il portavoce di Erdogan ha pure dichiarato che «più del 70%» della regione di Afrin è stata «messa in sicurezza» con l’operazione “Ramoscello d’ulivo” delle Forze Armate turche e dei ribelli siriani alleati. Ankara auspica che «molto presto» il centro della città di Afrin – capoluogo dell’omonima enclave curdo-siriana – sia «liberato» dalla presenza dei «terroristi»: così il governo turco definisce le milizie curde dell’Ypg.
Nelle ultime 24 ore, riferisce sempre l’Osservatorio siriano, sono oltre 30mila i civili sono scappati dalla città di Afrin per sfuggire ai bombardamenti sulla città. L’operazione di Ankara ha sinora «neutralizzato» (uciso, ferito o arrestato) 3.524 «terroristi». Ma Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato che l’operazione attualmente condotta ad Afrin sarà poi estesa ad altre città chiave controllate dai curdi procedendo verso la frontiera con l’Iraq.
il manifesto
«Dopo il voto. Per evitare un possibile sfibramento del sistema politico o i 5Stelle scelgono la via consociativa (con la destra) o confluiscono come perno in un nuovo centrosinistra»
Secondo una visione prevalente, il deficit della sinistra era quello di avere paura del leader. E quindi la ricetta vincente consisteva nell’accelerare le procedure verso i riti di investitura del capo.
Esiste una slavina lunga che coinvolge Prodi, Veltroni e precipita sino a Renzi che ha scelto la destrutturazione di antiche cose della sinistra. Non solo le sezioni, ma persino i circoli erano sopravvivenze vetuste. Non si tratta di una semplice modellistica dell’organizzazione. L’opzione per le primarie aperte nella corsa verso il partito leggero presidenzializzato, che eliminava la parola stessa congresso sciogliendola nei gazebo, sanciva la de-ideologizzazione del soggetto politico e la sua omologazione alle pratiche di un partito delle cariche elettive, senza radici identitarie per la rinuncia ad ogni idea di società da progettare con la grande politica.
La slavina che ha disgregato
la sinistra politica
La marcia della Lega nelle antiche regioni dell’insediamento comunista rappresenta la più rilevante cesura in termini storico-politici avvenuta nel voto di marzo. La destra ha spiantato le ultime finzioni di un partito erede della tradizione del civismo del movimento operaio e contadino, e ha mutato radicalmente la geografia delle culture politiche. Non esiste più l’Italia rossa, e tutti i simulacri politici che la ricordavano sono stati falcidiati.
Le conseguenze di questa mutazione genetica dell’Italia di mezzo sono incalcolabili. Collassa ciò che di residuale restava ancora di una subcultura che anche come area di cuscinetto garantiva una sorta di collante nazionale capace di frenare le pulsioni di destra che nel nord produttivo erano diventate dominanti nella seconda repubblica. La differenziazione territoriale tra un centro nord a forte trazione leghista e un centro sud a trascinamento 5Stelle rappresenta una incognita nella capacità di persistenza del sistema politico. Se la polarizzazione tra destra e M5S è al tempo stesso una frattura tra gli spazi, e se le proposte economico-sociali alternative (reddito di cittadinanza o politiche redistributive e flat tax o Stato minimo in funzione dei produttori) si legano a un antagonismo a fondamento territoriale è evidente il rischio di sfibramento del sistema.
O si dà un approdo consociativo alla eruzione determinata dalle urne per ricucire il sistema (governabilità condivisa tra i due vincitori) o i Cinque stelle confluiscono, come componente egemonica, in un schieramento plurale di forze di centro e di sinistra ostili alla destra: oltre queste evoluzioni sistemiche, si restringono i margini per aggiustamenti disegnati da una forte spinta di sinistra.
L'altro grande malato: il sindacato
Ma il dato politico della crisi del sistema non può offuscare il volto dell’altro grande malato: il sindacato del conflitto. Malconcia, oltre a quella dei simulacri di partito, pare anche l’immagine del sindacato: non solo non orienta voti alle espressioni politiche “amiche”, ma palesa una perdita di insediamento e un deficit di cultura politica che ne dissolve la funzione storicaAl centro nord l’operaio atomizzato e senza classe è stato sedotto dal verbo leghista (con più marcate adesioni però, e anche tra i quadri, verso il simbolo del M5S) e al centro sud è stato attratto dalle rivendicazioni sociali del M5S. Solo in questi termini deteriori il sindacato conserva una parvenza di coesione nazionale.
Si sgretola la connessione tra classe e politica, e il sindacato privo di rappresentanza appare come destinatario di una pura delega corporativa. Ciò segna la crisi radicale del sindacato, che non riesce più a pensare in termini politici. Dinanzi alla lunga caduta del partito amico incapace di interpretare un ruolo nei conflitti della società, al sindacato restava una ined
ita opzione strategica, che però non è stata afferrata: invertire il rapporto gerarchico novecentesco tra partito guida e sua cinghia sindacale per farsi regista di un nuovo partito del lavoro, espresso dalle forze organizzate.La formula della «coalizione sociale» qualcosa del genere comportava, ma è scomparsa e non ha lasciato né invenzioni organizzative né precisazioni politiche. Se la Lega è il tribuno del Nord e il M5S diventa il tribuno del Sud ciò vuol dire che non solo la politica ma anche il sindacato ha contribuito alla crisi democratica.
Certi discorsi interrotti, su come innestare soggetti del pluralismo sociale con la ridotta identitaria che comunque ha consentito di varcare la soglia di sbarramento,vanno al più presto riannodati.
I sottotitoli sono nostri [n.d.r.]
La "mossa del cavallo di cui si parla La mossa del cavallo proposta da Paolo Flores d’Arcais a Luigi Di Maio potrebbe riuscire non solo a risolvere nel modo più avanzato lo stallo post-elettorale, ma darebbe anche corpo ai più profondi desideri del popolo della sinistra, oggi ridotto a «volgo disperso che nome non ha»: un governo composto e guidato da personalità esterne ai partiti, capace di attuare un programma di svolta nella direzione di una piena attuazione del progetto della Costituzione.
Un simile governo, argomenta Flores, non potrebbe che essere sostenuto da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali. Ora, è perfettamente legittimo che il Pd decida di rigettare questa proposta, ma è davvero impossibile condividere le considerazioni di ordine politico, e addirittura morale, che vengono in queste ore avanzate per giustificare un simile diniego.
Per bocca di molti suoi autorevoli dirigenti, il Pd ha affermato che sostenere un governo insieme ai 5 Stelle significherebbe tradire il mandato degli elettori, i quali – si dice – avrebbero voluto collocare il Pd all’opposizione. Per rispettare questo mandato, dunque, il Pd sarebbe disposto ad accettare l’eventualità di un governo del centrodestra a guida Salvini, o quella di una lunga assenza di un governo. «Siamo incompatibili con i 5 stelle», ha detto Andrea Orlando. «Non c’è bisogno di dire che siamo all’opposizione. C’è bisogno di dire che ci siamo presentati con una proposta alternativa ai Cinque Stelle e che, pertanto, non possiamo farci un governo», ha aggiunto Carlo Calenda.
Alla base di queste dichiarazioni non c’è solo l’intollerabile ipocrisia di chi – in regime maggioritario – ha governato con i voti di Verdini e formato governi con i vari Lupi e Alfano. C’è, più profondamente, una sostanziale incomprensione della legge elettorale voluta dallo stesso Partito Democratico, oltre che una radicale ignoranza dei meccanismi elementari del funzionamento di una repubblica parlamentare.
Il Rosatellum è una legge elettorale irrazionalmente complicata e, con ogni probabilità, incostituzionale. Ma questo non perché impedisca la creazione di una stabile maggioranza parlamentare, bensì, soprattutto, per i meccanismi di manipolazione dei voti espressi dagli elettori (liste incapienti, liste deficitarie/eccedentarie, divieto di voto disgiunto, pluricandidature) che fanno dubitare dell’uguaglianza, della libertà e persino della personalità del voto in spregio all’articolo 48 della Costituzione.
Invece, in queste ore si sta facendo strada nei commenti giornalistici e nell’opinione pubblica la convinzione che le urne abbiano restituito un Parlamento ingovernabile proprio a causa del Rosatellum. Una legge – è stato detto – fatta apposta affinché nessuno potesse vincere.
Dal voto emerge che nessun partito si avvicina, nemmeno lontanamente, alla soglia della maggioranza assoluta. Al meglio posizionato – il M5S – mancano 18 punti percentuali e anche ricomponendo il quadro politico per coalizioni la distanza dalla metà più uno dei consensi rimane abissale (la compagine di centrodestra, la più votata, avrebbe comunque bisogno di un ulteriore 13% dei consensi). La realtà è quella di un sistema politico che, fallito il tentativo di Liberi e Uguali, permane articolato su tre poli, sia pure di consistenza differente: il centrodestra (che pesa intorno al 37% dell’elettorato), il centrosinistra (pari a poco meno del 20% degli aventi diritto) e il M5S (che raccoglie il 32% dei voti). Tale realtà sostanzialmente si rispecchia nella distribuzione dei seggi parlamentari. Alla Camera: il centrodestra può contare su 260 deputati (pari al 41,2% del totale), il M5S su 221 (il 35,1%), il Pd su 112 (il 17,7%). Al Senato: 135 senatori vanno al centrodestra (il 42,8% del complesso), 112 al M5S (il 35,5%), 57 al Pd (18,1%).
In effetti, il Rosatellum ha funzionato come una legge essenzialmente proporzionale, producendo un Parlamento che rispecchia da vicino l’articolazione e la consistenza delle posizioni politiche presenti nel corpo elettorale.
Dati questi numeri, che cosa allora realmente significa accusare la legge vigente di essere stata congegnata per non far vincere nessuno? Evidentemente, auspicare una legge elettorale che permetta di determinare comunque un vincitore, nonostante l’articolazione tripolare del quadro politico. Vale a dire, non una legge “semplicemente” maggioritaria, ma una legge in ogni caso majority assuring. Una legge, cioè, strutturata in modo analogo a come lo era … l’Italicum!
Come si può leggere qui (e pur con tutte le cautele del caso), l’Istituto Cattaneo ha ipotizzato che con i risultati delle ultime elezioni nessuna forza politica avrebbe comunque conseguito la maggioranza assoluta né se si fosse votato con il Porcellum, né se si fosse votato con Consultellum. YouTrend ha esteso la simulazione al Mattarellum e alle leggi elettorali inglese, francese, tedesca, spagnola e greca: in tutti i casi, nessuna forza politica o coalizione sarebbe uscita dalle elezioni con una pattuglia di parlamentari idonea a sostenere il governo autonomamente. Da sottolineare il caso della legge francese, anch’essa improduttiva di una maggioranza assoluta posto che, accedendo al ballottaggio i partiti forti almeno del 12,5% al primo turno, in moltissimi collegi la sfida sarebbe comunque stata a tre e non a due. Niente governo «la sera stessa delle elezioni», dunque, né col proporzionale, né col premio di maggioranza, né col maggioritario a turno unico, né col maggioritario a doppio turno.
Torna, allora, la domanda poco sopra formulata: cosa significa addossare al Rosatellum la responsabilità dell’attuale situazione di ingovernabilità? Significa – nessun’altra risposta è possibile – invocare l’Italicum, la sola legge elettorale che, in virtù di un turno di ballottaggio nazionale, anziché di collegio, e ristretto ai due soli partiti più votati, avrebbe certamente assegnato più della metà del Parlamento al partito prescelto dall’elettorato nella seconda votazione.
Non è qui necessario tornare sulle ragioni di incostituzionalità di tale legge (basti ricordare che sono state dalla Consulta tra l’altro motivate proprio con riferimento alle modalità del ballottaggio, eccessivamente distorsive della volontà popolare). A rilevare, in questa sede, è il profilo politico della questione, il riflesso condizionato che oramai induce anche molti di coloro che si sono opposti alle riforme renziane a vedere nella «governabilità» il valore assoluto al quale affidarsi nei momenti di difficoltà.
La mentalità maggioritaria si è radicata in profondità nel tessuto sociale, penetrando anche nello strato della popolazione che dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei meccanismi istituzionali. Possibile sia tanto difficile cogliere che, a fronte di una società politicamente (e non solo) divisa come la nostra, l’urgenza è quella di ricomporre la frammentazione e non di attribuire, pro tempore, a uno dei frammenti il potere di spadroneggiare sugli altri? Nelle situazioni come quella in cui ci troviamo, il compromesso politico trasparente e argomentato non è soltanto una necessità, è un valore, perché veicola l’idea che gli «altri» non siano necessariamente nemici da combattere, ma (almeno alcuni) possano essere avversari da sfidare alla ricerca di punti di convergenza. L’accordo politico, in quest’ottica, è una dimostrazione di forza, non di debolezza. Solo chi è certo della propria identità, delle proprie idee, della propria visione del mondo può avere la sicurezza di sé necessaria a mettersi in discussione e di eventualmente accettare la realizzazione per il momento solo parziale dei propri ideali (altro è l’«inciucio», vale a dire l’accordo esclusivamente rivolto alla spartizione del potere).
Viene da sorridere a leggere che Pd e M5S non potrebbero allearsi perché i rispettivi elettorati «si stanno antipatici»… Ma è del Parlamento o di un asilo nido che stiamo parlando? Al momento del bisogno, il Pci di Berlinguer si astenne per far nascere un governo guidato da Andreotti, che, secondo la Corte di Cassazione, era (non antipatico, ma) un soggetto in rapporti organici con la mafia! Non è certo un caso che la massima capacità di incidere sull’assetto socio-economico dell’Italia si sia avuta quando massima fu la forza parlamentare dei partiti. Altro che governabilità! Dalla riforma della scuola media (1962) all’introduzione del Sistema sanitario nazionale (1978), passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenza sociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti dei lavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970), le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia (1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi (1978): tutte queste riforme furono realizzate quando massima fu la capacità di realmente rappresentare in Parlamento le molteplici articolazioni dell’elettorato.
Oggi l’Italia è divisa come, e forse più (date le crescenti diseguaglianze), di allora. A fronte di una sistema politico separato in tre orientamenti principali oscillanti tra il 20 e il 35% delle preferenze, qualsiasi meccanismo elettorale che trasformi artificialmente una minoranza in maggioranza finisce solo col costruire giganti con i piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società –, privi della capacità di costruire consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro il Palazzo. Quel che occorre, al contrario, è riscoprire la valenza profonda della funzione parlamentare, che è quella di far dialogare i diversi, non di metterne uno in condizione di prevalere a qualsiasi costo sugli altri.
E qui si tocca un punto cruciale per la tenuta stessa della nostra democrazia. L’articolo 67 della Costituzione stabilisce che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I vertici del Movimento 5 Stelle, sbagliando, vorrebbero sopprimere o limitare decisivamente questo articolo, sperando di fermare così la piaga del trasformismo parlamentare e di tagliare le unghie al dissenso interno. Ma per disincentivare decisivamente il trasformismo si possono usare altri mezzi assai efficaci (per esempio la riforma dei regolamenti parlamentari, come peraltro si è appena fatto al Senato), senza toccare questa fondamentale difesa del dissenso come forza vitale della democrazia. Ma il fascino del vincolo di mandato è oggi fortissimo: e proprio a causa della suggestione del modello maggioritario, che semplifica per via irriducibilmente oppositiva la dinamica parlamentare. In una sostanziale negazione della democrazia indiretta mediata dalla rappresentanza si pretende che l’elettore vincoli non solo il singolo parlamentare, ma tutto il gruppo e il partito, rendendo di fatto inutile l’esistenza stessa del parlamento (basterebbe far votare i capigruppo) e rendendo impossibile (in un sistema proporzionale) la creazione di un governo.
Ora, non sarà sfuggito che ad agire, di fatto, come se nessun vincolo ci fosse, e dunque a interpretare nel modo più maturo e virtuoso le dinamiche della democrazia indiretta e del libero gioco del Parlamento è oggi proprio il Movimento 5 Stelle con Luigi Di Maio. Mentre sono Matteo Renzi, la dirigenza Pd e una larga parte dei commentatori politici (per esempio su “Repubblica”) a pensare e ad esprimersi come se il vincolo di mandato ci fosse eccome, e dunque come se fossimo in una democrazia (più) diretta, negando ogni margine, e dunque ogni senso, alla dinamica del Parlamento.
Questo ribaltamento di ruoli è assai eloquente. Certo a causa della sua posizione di vantaggio, ma oggi è un fatto che il Movimento 5 Stelle sta dimostrando di saper giocare con senso di responsabilità istituzionale sulla scacchiera di un sistema parlamentare e proporzionale.
Si tratta ora di andare fino in fondo: fino ad accettare di compiere la mossa del cavallo proposta da Paolo Flores. A quel punto sarebbe il Pd a dover dimostrare che l’uscita di scena del plebiscitarismo renziano può segnare il ritorno alla pratica delle virtù politiche e alla piena accettazione del funzionamento di una democrazia parlamentare senza vincolo di mandato.
La mossa del cavallo sarà fatta? E la contromossa sarà adeguata?
Con il fascioleghismo che incombe e con il Paese devastato da povertà e diseguaglianze la posta di questo gioco è altissima: è il futuro della nostra stessa democrazia.
La “mossadel cavallo" (nel gioco degli scacchi il cavallo fa un passo avanti e uni di fianco) consisterebbe nel fatto che «il Movimento 5 stelle proponga al capodello Stato un governo con gli elementi portanti del proprio programma, la cuiguida sia affidata a una personalità fuori dei partiti, che scelga ministritutti della società civile. Sarebbe difficile, per i parlamentari Pd, anche serenziani, dire di no a una proposta che il presidente Mattarella presentasse (eche sarebbe) come la soluzione migliore per l'interesse generale».
la Nuova Venezia,
Leaty, posso farti una domanda?». Leaticia: «Certo, dimmi tutto». M.: «Ma cosa vuol dire negher?». Leaticia: «Perché me lo chiedi?». M.: «Perché oggi all'intervallo A. e G. mi hanno detto negher». Leaticia: «E tu cos'hai risposto?». M.: «Ehhh niente perché non so cosa vuol dire». Leaticia: «Ok... Allora, negher vuol dire negro». M.: «Ohhh!!!». Leaticia: «Eh sì, ti hanno detto che sei negro. Doveva essere un insulto. Magari credono di essere migliori di te perché loro sono bianchi. Ma tu non ci devi credere, perché non è vero. La prossima volta che te lo dicono, tu rispondi che sei fiero di essere negro. Capito?». M: «Sì».
Questa è una conversazione che ho avuto con il mio fratellino di otto anni al ritorno da scuola. Risiediamo a Bergamo con i nostri genitori, ma studio come fuori sede a Venezia e ci sentiamo spesso al telefono. In otto anni della sua vita, non ho mai pensato che avrei dovuto un giorno spiegargli il razzismo. Sono stata molto ingenua perché, dall'alto dei miei vent'anni, di episodi di razzismo ne ho vissuti. I primi si sono verificati quando avevo all'incirca dodici anni. Ma ero già grande e sapevo difendermi con le sole parole. Ma a otto anni, come si rielabora il razzismo? E io, da sorella maggiore, come lo semplifico il razzismo per un bambino ingenuo? Ancora non lo so. Ma devo trovare un modo di rendere mio fratello immune al razzismo. Proprio come sua sorella.
Sì, perché io mi ritengo immune al razzismo: non sono razzista e i razzisti non mi fanno paura, non mi fanno arrabbiare, non li detesto. E oltretutto, ho sviluppato una sottile arma per combattere il razzismo a modo mio. Io rispondo con l'ironia, anzi, il sarcasmo. Faccio fiumi di battute auto-razziste alle quali in generale la gente rimane di stucco. Non sa se ridere o meno. Perché verrebbe da ridere, ma ridere sarebbe politicamente scorretto. Quando la gente comincia a conoscermi, si abitua alle mie battute e comincia a ridere. Quando la gente ride e soprattutto quando la gente riesce a fare battute razziste, ritengo che il mio lavoro abbia avuto successo, semplicemente perché portando in superficie l'ignoranza e ridendone, la si demistifica.
Io sono immune al razzismo: questo mi sono sempre detta. E sono sempre stata fiera di aver sconfitto il razzismo. Imperdonabile ingenuità! Nei giorni scorsi nei bagni della biblioteca in cui lavoro come collaboratrice sono state trovate delle scritte fasciste e razziste. "W il duce, onore a Luca Traini. Uccidiamoli tutti sti negri".Wow. Un momento di profondo respiro. Rileggo la frase di nuovo. Per un bianco, o comunque un non negro, credo che questa affermazione possa suscitare ribrezzo, tristezza, rabbia. In verità non so cosa possa provare un bianco, e non so perché debba essere diverso da quello che può provare una negra quale sono io. Da negra, non mi sento offesa. Sono profondamente confusa che queste scritte si ritrovino in un luogo così culturale, e confusa soprattutto perché probabilmente l'autore è un mio coetaneo.
La biblioteca delle Zattere è anche chiamata Cultural Flow Zone: un ambiente giovane e vivace, dove, tra una pausa e l'altra dallo studio, si può spostarsi di sala e vedere una mostra, assistere alla presentazione di un libro o partecipare ad un cineforum. Devo dire che è un ambiente lavorativo umanamente parlando molto stimolante e si può proprio sentire la cultura fluire. Incontro persone diverse tra loro: dagli universitari ai liceali, dal personale tecnico ai docenti, dagli attori e cantanti ai corrieri. Questo ambiente non mi sembra un ambiente razzista, anzitutto perché altrimenti non avrei superato un colloquio in cui concorrevo con molti altri ragazzi bianchi. Tuttavia, è stato un colpo per me vedere queste scritte. Ho tentato a più riprese di immaginare la scena di un ragazzo che come molti altri mi chiede di fare una tessera giornaliera, e lo immagino come il probabile autore delle scritte. E voglio parlargli, capire perché mi voglia uccidere, visto che sono negra.
Sono impaurita, non perché io abbia paura di essere uccisa, ma mi spaventano le ragioni per cui verrei uccisa. Come puoi pensare di uccidere qualcuno solo per il colore della sua pelle? Cosa ti può distorcere così tanto da volere uccidere qualcuno perché non è bianco? Ho le vertigini solo a pensarci. Cosa otterresti dalla mia morte? Io vorrei solo capire. Vienimi a parlare. Voglio essere guardata dritto negli occhi e voglio sentire cosa ti affligge. Perché mi odi? Come mi uccideresti? Come ti sentiresti dopo la mia morte? Saresti felice? Voglio capire i tuoi sentimenti. Vienimi a parlare prima di uccidermi, cosicché io ti possa abbracciare e mostrare un po' di umanità.
Io non ti odio, non perché io sia gentile. È perché sono profondamente triste per te, provo pietà perché non so come tu sia giunto a questo punto. Mi dispiace per i fallimenti che ci sono stati nella tua educazione. Mi dispiace che qualcuno sia riuscito a manipolarti a tal punto e a convincerti di queste cose. Ti hanno avvelenato la mente e il cuore con questo odio insensato e questo suprematismo bianco. Ti hanno rubato la tua libertà intellettuale e questo non è giusto. Mi sono sempre ritenuta immune al razzismo, convinta che fosse una bassa manifestazione di odio dovuto alla mediocrità intellettuale. Ho sempre attribuito il razzismo ai bigotti. Dovrei sentirmi rassicurata e felice che tutti i miei amici e conoscenti non siano bigotti. Ma a me non basta. A me interessi tu, caro fascista, caro razzista.
Credo che tu viva in una grande farsa, un equivoco impensabile. Il valore più grande della tua umanità è l'universalità, perché di umanità ve n'è una sola. Non mi puoi uccidere solo perché sono negra. È una argomentazione inconsistente. Tu non sei fatto per l'ignoranza o l'oscurantismo, semplicemente perché sei umano e sarebbe un tradimento alla tua umanità. Un alto tradimento, imperdonabile a te stesso. Non devi uccidere me, devi uccidere quel mostro oscuro che si nutre delle tue paure e della tua ignoranza, ma anche della tua ingenuità. Ti auguro di sconfiggere questi mostri.
Gli occhi della guerra online. L'Impero sta mettendo a punto armi sempre più disumane e potenti. Il richiamo alla pace, è scomparso dai teatrini della politica. Ma con gli armamenti gli affari crescono
La guerra in Yemen , una delle peggiori tragedie umanitarie in corso nel mondo, ha prodotto un’impennata nell’uso di armi laser, in cui le varie fazioni testano le capacità laser offensive e difensive. E anche gli Stati Uniti, che con le forze navali operano nell’area, confermano che le loro attività s’inseriscono nel quadro di questa sorta di grande (e terribile) addestramento mondiale . A ricordarlo è il Marine Corps Times che riporta le parole del generale Robert Neller, comandante dei marine, davanti ai rappresentanti del Congresso.
Di fronte al House Appropriations Committee, il comandante del corpo dei marines ha detto che l’area al largo della costa del paese devastato dalla guerra è diventata un terreno di prova per una varietà di applicazioni laser. “Non è solo in mare, quello che sta accadendo al largo delle coste dello Yemen è una sorta di laboratorio a fuoco vivo“, ha detto Neller.
eller ha aggiunto che i marines già utilizzano la tecnologia laser, in particolare per i droni e altri dispositivi che vengono utilizzati per abbatterli o per “interrompere il collegamento”, cioè per interrompere il segnale tra il drone e il suo controller. Secondo quanto riferito dal Pentagono, la maggior parte di ciò che è usato attraverso queste piattaforme, proviene da “terroristi” che usano tecnologie standard per provare a distruggere i sistemi statunitensi.
Come ricorda Newsweek, nella stessa audizione, il segretario della Marina, Richard Spencer, e il capo delle operazioni navali, l’ammiraglio John Richardson, hanno riferito ai rappresentanti che la marina statunitense sta considerando l’utilizzo di una nuova “famiglia di laser” per combattere le minacce portate dai droni. Minacce che sono sia aeree che sottomarine, a detta della Difesa. E, proprio per questo motivo, il Pentagono è alla ricerca di nuovi fondi.
L’esercito americano, come tutti i maggiori eserciti del mondo, hanno studiato i sistemi laser per molti anni. I sistemi laser possono distruggere i bersagli causando il surriscaldamento delle parti e possono anche interrompere l’operatività dei sensori e così anche la navigazione. La nave da trasporto anfibia Uss Ponce è stata equipaggiata con un’arma laser da 30 kilowatt già nel 2014 e i test hanno dimostrato ch
Uss Ponce è stata equipaggiata con un’arma laser da 30 kilowatt già nel 2014 e i test hanno dimostrato che l’arma era anche in grado di distruggere gli obiettivi causandone il surriscaldamento e l’esplosione.
I giganti della difesa Boeing, Lockheed Martin, Northrop Grumman e Raytheon hanno tutti lavorato sui propri sistemi per il Pentagono. I progressi della tecnologia delle batterie per le automobili di Tesla, ad esempio, sono stati presi in prestito da queste aziende per offrire al Pentagono la possibilità di ottenere armi laser ad alta potenza. L’Air Force Research Laboratory ha stipulato un contratto con Lockheed Martin a novembre per sviluppare laser a fibra ad alta potenza che saranno testati su un jet da combattimento tattico entro il 2021. Insomma, il Pentagono ha mosso passi molto importanti.
In questa strategia delle forze armate americane, serve però un campo di addestramento, un luogo dove sia possibile testare queste armi nella pratica, nella realtà concreta. Ed ecco che la guerra in Yemen. Una guerra terrificante, dove non sembra esserci una via d’uscita e dove le potenze regionali sono coinvolte sia direttamente che per procura allo scopo di accaparrarsi il governo locale nella propria sfera d’influenza.
Intendiamoci, nessun Paese è innocente. Tutte le potenze internazionali usano le guerre per testare i propri nuovi sistemi d’arma. Lo fanno gli Stati Uniti, lo fa la Russia, lo potrebbe fare la Cina (che per adesso non è coinvolta direttamente in un conflitto) e lo fanno le potenze europee, soprattutto nei conflitti nordafricani come in Libia, o in Medio Oriente. In questo senso, l’ultima notizia riguardava proprio la Russia in Siria, dove si ritiene che i nuovi Su 57 siano stati schierati proprio allo scopo di testare le loro capacità stealth. Fa però riflettere il fatto che gli alti comandi americani parlino apertamente di un Paese, in questo caso lo Yemen, come di un “grande campo d’addestramento a fuoco vivo”. È possibile che una tragedia sia declinata nell’ambito del budget per la Difesa come “laboratorio“? Evidentemente sì. E la cosa, francamente, non porta solo amarezza ma anche una seconda domanda: chi ha interesse, veramente, a far finire questo conflitto?
«Durand e Spinelli - I due eurodeputati di sinistra ai Dem: “Compiacersi all’opposizione non è all’altezza della sfida”»
“Quando il 13 marzo Matteo Renzi ha annunciato le sue dimissioni dalla guida del Partito democratico dichiarando che il posizionamento naturale delPd sarà ora all’opposizione, ha incitato i sostenitori del negoziato con il Movimento Cinque Stelle a esprimersi apertamente.
E dunque noi osiamo dirlo apertamente. Pensiamo che il Partito democratico debba tentare un negoziato con M5S e Liberi e Uguali.
Noi, figli di militanti antifascisti, di chi ha resistito all’oppressione e all’odio, noi che ricordiamo ciò che i nostri genitori ci hanno raccontato: che il fascismo si alimenta sempre della codardia e della rassegnazione degli altri, oltre che dell’ostinazione a preservare, sia pure momentaneamente, l’illusoria purezza della loro immagine.
Noi, parlamentari europei, noi che a ogni scadenza elettorale vediamo l’estrema destra avanzare, i ripiegamenti identitari rafforzarsi, gli autoritarismi crescere, noi che vediamo la democrazia ovunque in pericolo.
Noi, responsabili politici espressi da movimenti e partiti diversi, che lavoriamo quotidianamente con gli eletti del Movimento Cinque Stelle e che sappiamo come le nostre voci si uniscano sempre nel Parlamento europeoquando si tratta di promuovere la solidarietà e la democrazia.
Noi, con l’umiltà e la gravità che ci conferisce il nostro mandato europeo, al servizio di 500 milioni di cittadine e cittadini europei, vi chiediamo di mettere per un istante da parte le posture e petizioni di principio, i calcoli elettorali o le valutazioni d’immagine e di tentare tutto ciò che è in vostro potere per permettere all’Italia di dotarsi di un governo nel quale l’estrema destra non avrà posto.
Le elezioni del 4 marzo hanno prodotto una sconfitta elettorale per il Partito democratico, non lo neghiamo. Ma gli sconfitti non escono dalle battaglie godendo di speciali esenzioni dalle proprie responsabilità Compiacersi in una confortevole opposizione, rinunciare a sporcarsi le mani col pretesto che i vostri alleati potenziali non sono di vostra convenienza, non è un comportamento all’altezza della sfida di oggi, cioè difendere in Europa i diritti e le libertà fondamentali, i principi comuni sui quali si è costruita l’unione del nostro continente.
Diceva Charles Péguy che la filosofia politica di Kant ha le mani pure ma è purtroppo sprovvista di mani. La stessa cosa si può dire di tutti i responsabili che scelgono di guardare altrove quando il fascismo è alle porte, con la scusa che per fare argine dovrebbero unire le proprie forze ad alleati troppo imperfetti.
Voi non siete obbligati a voltarvi dall’altra parte. Avete la capacità concreta di costruire nelle prossime settimane l’alternativa a un governo che aprirebbe le porte al nazionalismo, al razzismo, alla xenofobia. Forse non avrete successo. Ma avete la facoltà di tentare. E le radici filosofiche e politiche del Partito Democratico rendono questa facoltà un dovere. Cari amici del Partito democratico, ci sono scenari ben peggiori di quello, indicato da Renzi, di divenire “la stampella di un governo anti-sistema”. Potreste diventare il predellino di un governo neo-fascista.
Pascal Durand èeurodeputato francese dei Verdi. Barbara Spinelli è eurodeputata del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica (Gue/Ngl)
Corriere della sera online,
A proposito di fake news: il tema più cavalcato in campagna elettorale dal centrodestra è stato quello della sicurezza, sempre abbinato a quello dell’immigrazione. Dichiarazioni come: «L’Italia è in piena emergenza sicurezza!», oppure: «C’è da aver paura, anche nelle nostre case!», non sono mai state supportate da un dato, ma buona parte degli italiani ci ha creduto. I numeri del 2017, che il Corriere presenta in anteprima, dimostrano esattamente il contrario: rispetto al 2016 gli omicidi sono diminuiti dell’11,2%, le rapine dell’8,7%, i furti del 7%.
Se questi dati, forniti dal Ministero dell’Interno e non ancora consolidati, fossero stati disponibili un mese fa, avrebbero modificato il filo narrativo della propaganda? Forse no, perché quando si mette in moto una psicosi collettiva, nulla riesce più a fermarla. Eppure tutti i partiti sanno che in Italia, la tendenza alla diminuzione dei reati con maggiore allarme sociale si è innescata ben quattro anni fa, ma hanno preferito ignorarla. I numeri sono significativi: al netto del calo della popolazione (0,34%), dal 2014 al 2017 gli omicidi sono scesi del 25,3%, i furti del 20,4% e le rapine del 23,4%. Quindi negli ultimi anni l’Italia è diventata via via più sicura, nonostante l’aumento del numero di immigrati.
Più sicure le strade, meno sicure le mura di casa
Tornando ai numeri, si scopre che a essere meno sicure non sono le strade, ma le mura di casa: delle 355 vittime di omicidi commessi nel 2017, 140 sono donne. A ucciderle è sempre un familiare e, nel 75% dei casi, il partner o l’ex. Il dato purtroppo è stabile negli anni: 155 le vittime nel 2014, 143 nel 2015, 150 nel 2016. Lo dice l’ultimo rapporto sul femminicidio pubblicato dall’Eures, l’Istituto di Ricerche economiche e sociali. Analizzando il rapporto del Viminale, relativo agli anni 2014/2016, nelle Regioni dove c’è stato un aumento di omicidi, la percentuale è quasi completamente assorbita proprio dai delitti commessi in famiglia. Il dato del Trentino per esempio è impressionante: +200%. Se si guardano i numeri, però, si scopre che si è passati da 1 omicidio nel 2014 a 3 del 2016, e i 2 morti in più non sono imputabili a un fatto di ordinaria criminalità (e quindi ad una mancanza di sicurezza), ma ad un padre impazzito che ha ucciso la moglie e il figlio. Lo stesso discorso vale per l’Abruzzo (+50%), per il Veneto (+62%), Friuli Venezia Giulia (+600%): una crescita pressoché attribuibile ai femminicidi.
Italia campionessa europea dei furti
Secondo Eurostat, nei principali Paesi europei, esclusi gli atti di terrorismo, si nota invece una tendenza all’aumento dei reati. Sia nel caso dei furti sia in quello degli omicidi volontari. La società più violenta è quella tedesca con 9,22 omicidi per milione di abitanti nel 2016, mentre l’Italia è imbattibile nei furti, con un indice di 20.163 furti per milione di abitanti. Un indice che tuttavia nel nostro Paese è in costante calo, mentre in Francia, Germania e Spagna è in aumento.
L’aumento delle licenze di porto d’armi
Insomma, le dichiarazioni allarmanti, spesso innescate da un fatto di cronaca, riprese da giornali e tv, alla fine hanno insinuato nella testa di molti italiani la percezione di vivere in un Paese poco sicuro. E come si difendono? Armandosi? La fotografia del Viminale è chiara: un aumento del 41.63% delle richieste di licenze di porto d’armi a uso sportivo negli ultimi 4 anni. Solo nel 2017 le licenze in più, rispetto al 2016, sono state 80.416. Forse non proprio tutti appassionati di tiro al piattello o di tiro a segno, mentre è sicuro che questo tipo di licenza è la più facile da ottenere. In calo del 12,01% invece la licenza per difesa personale, dove la procedura è più complessa e viene concessa solo in casi gravi e comprovati ( di solito a chi esercita professioni a rischio rapina); mentre i numeri relativi alla caccia sono stabili negli anni.
Meglio una porta blindata di un’arma in casa
Non ci sono dati significativi connessi alla reale utilità di girare armati, e all’analisi dei delitti, perché non esiste un monitoraggio nazionale. L’unico andamento collegato e parallelo è quello relativo agli omicidi commessi tra le mura di casa, a causa della presenza di un’arma. Secondo l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia, nel 2017 ci sono stati 36 casi di omicidio, 19 tentati omicidi, 37 minacce di morte e 37 incidenti legati ad armi legalmente detenute. In conclusione: la sicurezza è un tema sul quale sarebbe bene non barare per scopi politici. Meglio placare la paura dei furti con una porta blindata e l’installazione di sistemi di allarme. Anche questo è un mercato in crescita: dal 2015 il fatturato sta aumentando di 200 milioni di euro l’anno, mentre la diciannovesima edizione della fiera sui sistemi di sicurezza che si tiene ogni anno a Milano, si è chiusa lo scorso novembre con un incremento del 35% dei visitatori e del 40% degli espositori.
Articolo tratto da Corriere della sera, qui raggiungibile con arricchimenti grafici e digitali in originale
Comune.info-net
«La mappa dell’Italia che ha votato ritrae soprattutto due fenomeni: paura e povertà. Paura e povertà, in questo strano intreccio, sono diventate le forze che disegnano la politica italiana. La paura che si afferma come ideologia della Lega; la povertà come condizione del successo dei Cinque stelle. Al posto di destra e sinistra»
La mappa dell’Italia che ha votato ritrae soprattutto due fenomeni: paura e povertà. Il centro-nord (Lazio compreso) si è affidato a un nuovo Centrodestra a egemonia leghista: nel nord della Lombardia e del Veneto è oltre il 50%, con la Lega che arriva a punte tra il 33 e il 38% nelle sue zone di insediamento tradizionale; nel Piemonte lontano da Torino il Centrodestra è vicino al 50%, con la Lega meno forte; nel resto del Nord è quasi ovunque oltre il 40%; in Emilia, Toscana e Umbria la percentuale è oltre il 35%; nel Lazio che esclude Roma è al 40%.
Il centro-sud (Marche comprese) vede dilagare i Cinque stelle: sfiorano il 50% in Sicilia e nel nord della Campania, sono oltre il 40% in Calabria, Basilicata, Puglia, Molise e Sardegna.
Più articolata è solo la fotografia dei collegi uninominali delle grandi città. Il Centrodestra ha vittorie in collegi a Torino, Milano, Venezia, Palermo. I Cinque stelle conquistano alcuni collegi a Torino, Genova, Palermo, Roma e hanno Napoli. Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma lasciano qualche circoscrizione al Pd.
Il 37-38% (rispettivamente alla Camera e al Senato) ottenuto dal Centrodestra viene dal successo della Lega, passata dal 4% delle elezioni politiche del 2013, al 6% delle elezioni europee del 2014, al 18% di oggi, mentre Forza Italia scende dal 22% del 2013 al 17% del 2014 e al 14% attuale. Il 32-33% (rispettivamente al Senato e alla Camera, con un elettorato più giovane) dei Cinque stelle va misurato con il 26% delle politiche del 2013 e con il 21% delle europee del 2014. La partecipazione al voto è stata analoga a cinque anni fa, intorno al 75%, mentre alle europee era scesa molto, al 57%.
Quelli di Centrodestra e Cinque stelle sono successi paralleli, alimentati da ingredienti comuni: il voto di protesta, la retorica populista, la critica all’Europa, l’astio contro gli immigrati. Nel Centrodestra queste spinte coesistono con interessi molto distanti – quelli del potere economico intorno a Berlusconi – e la definizione dei rapporti di forza interni alla coalizione sarà complicata, in termini di egemonia politica prima ancora che nella formazione del governo.
Nei Cinque stelle quegli ingredienti convivono con il tentativo di passare da movimento di protesta a partito di governo, anche qui con un’evoluzione dell’identità e dell’agenda politica ancora tutta da definire.
Spinte analoghe, tuttavia, prendono strade diverse al Nord e al Sud. Il radicamento leghista al Nord ha interpretato la difesa di un benessere a rischio, la richiesta di meno tasse, l’egoismo locale e nazionale. Il Sud ‘lasciato indietro’ dalla politica e dall’economia, abbandonato dalla nuova emigrazione, segnato dal degrado sociale e dai poteri criminali, prende la strada di una protesta che reclama un nuovo potere. L’operazione di Matteo Salvini per costruire un ‘Fronte nazionale’ alla Le Pen ha trovato in queste divaricazioni regionali il suo limite principale.
Dietro a tutto questo ci sono i dieci anni di crisi economica e sociale del paese. Il reddito pro capite in Italia è sceso ai livelli di vent’anni fa; dietro questa media c’è un vero e proprio crollo – del 30% circa – dei redditi del 25% più povero degli Italiani, quelli che abitano al Sud o nelle periferie in declino del Centro-Nord. Vent’anni di ristagno e declino vuol dire una generazione con aspettative di reddito, di lavoro e di vita sempre peggiori. L’impoverimento è diventato una realtà per una parte molto ampia degli italiani. Il voto ai Cinque stelle riflette la povertà del Sud – e si comprende bene il richiamo della loro richiesta di reddito minimo. Il voto alla Lega esprime la paura di impoverirsi del Nord. Solo nei centri delle città maggiori, dove vivono i più ricchi, i più istruiti, e l’economia va meglio, il voto prende direzioni diverse, verso Forza Italia e il Pd.
La povertà si accoppia alla paura: di stare peggio, di avere accanto immigrati e altri poveri con cui ci si trova in concorrenza per i lavori meno qualificati e per servizi pubblici più scarsi. In queste elezioni la paura più agitata è stata quella degli immigrati – gli sbarchi a Lampedusa, l’accoglienza impossibile, le tragedie di Macerata. Salvini ne ha fatto la sua bandiera più pericolosa, i Cinque stelle esprimono la stessa ostilità – i salvataggi delle Ong viste come ‘taxi del mare’, il rifiuto di riconoscere la cittadinanza alle seconde generazioni.
Paura e povertà, in questo strano intreccio, sono diventate le forze che disegnano la politica italiana. La paura che si afferma come ideologia della Lega; la povertà come condizione del successo dei Cinque stelle. Al posto di destra e sinistra, la politica della paura (anche quella di stare peggio) e il lamento degli impoveriti, degli esclusi dalla ‘casta’.
La tragedia della sinistra è che uguaglianza, sicurezza sociale e solidarietà sono state per duecento anni le sue insegne. Via via smarrite nella perdita di identità collettive, in pratiche politiche sempre meno coinvolgenti, in politiche di governo sempre più in contrasto con quei valori. In questo degrado politico va sottolineato che pulsioni pericolose come paura e povertà si siano espresse con gli strumenti della democrazia: il 75% di votanti e le file ai seggi sono l’unica buona notizia del 4 marzo 2018.
il manifesto,
«L’animo nostro informe. Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina»
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza. In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola. La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.
Non è una "sconfitta storica, storica", come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È piuttosto un "esodo". Allora il giorno dopo, come dice Luciana Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua, appunto.
Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).
D’altra parte un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che definiscono ogni comunità.
Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa (quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori, ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari, ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici…
Ora, con tutto questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo – del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
Invece niente: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
Si discuterà a lungo degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
Per questo non basta fare. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti. Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925 (millenovecentoventicinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
postilla
Forse se non si rimanesse ancorati a ciò che era la Sinistra nel millennio scorso e, partendo da una riflessione su quella preziosa eredità storica, si cercasse si comprendere quali sono oggi, nel nostrosecolo, le condizioni, le occasioni e i compiti di una politica che volesse significare oggi ciò che la sinistra storica ha espresso a suo tempo, si potrebbe fare qualche passo avanti. Noi l'abbiamo tentato, nell'articolo "La parola sinistra". Provate a leggerlo
comune.info-net
Il 16 febbraio il governo di Michel Temer ha consegnato la sicurezza di Río de Janeiro alle forze armate. Tutto sarà gestito dai militari, dai corpi di polizia fino ai pompieri e alle carceri. Il pretesto, come sempre, sono la violenza e il narcotraffico; che pure esistono e sono enormemente pericolosi per la popolazione.
Río de Janeiro è una delle città più violente del mondo. Nel 2017 sono stati contati 6.731 morti e 16 scontri a fuoco ogni giorno, ognuno con un saldo minimo di due persone uccise, quasi sempre neri. Tra le cinquanta città più violente del mondo, 19 sono brasiliane e 43 latinoamericane. Di pari passo, il Brasile è tra i dieci paesi con maggiori disuguaglianze nel mondo, alcuni di essi sono anche tra i più violenti, come Haiti, Colombia, Honduras, Panama e Messico (fonte Banca Mondiale, ndt).
Nel caso di Río de Janeiro, l’azione dei militari ha una caratteristica speciale: si focalizza nelle favelas, è diretta, dunque, contro la popolazione povera, nera e giovane. Nelle 750 favelas cittadine, vive un milione e mezzo dei sei milioni di abitanti di Río. I militari si posizionano alle uscite e fotografano ogni persona, gli chiedono i documenti e ne verificano l’identità. Non s’era mai fatto un controllo del genere in maniera tanto massiccia e specifica.
Non è la prima volta che i militari si fanno carico dell’ordine pubblico in Brasile. L’anno scorso a Río i militari sono intervenuti 11 volte, nel contesto delle missioni Garanzia della Legge e dell’Ordine (GLO), una legislazione che è stata applicata nei grandi eventi, come le visite del Papa e il Mondiale di Calcio. Dal 2008, in 14 occasioni hanno assunto funzioni di polizia. Adesso, però, si tratta di un’occupazione militare che comprende tutto lo Stato.
Molti analisti hanno sostenuto con vigore che l’intervento è destinato al fallimento, visto che i precedenti, sebbene realizzati in tempo, non sono serviti a molto. Un altro esempio sarebbe l’insuccesso delle Unità di Polizia della Pacificazione (UPP), che a suo tempo erano state vantate come la grande soluzione del problema dell’insicurezza, giacché si installavano nelle stesse favelas, come una specie di polizia del vicinato.
Gli analisti ricordano, intanto, che la guerra contro le droghe in Messico è uno strepitoso fallimento, che per ora si è chiuso con un saldo di oltre 200 mila morti e 30 mila desaparecidos, mentre il narcotraffico, ben lontano dall’esser stato sconfitto, è ancora più forte.
È necessario segnalare, tuttavia, che queste letture sono parziali, perché in realtà questi interventi conseguono un grande successo per raggiungere gli obiettivi non confessabili delle classi dominanti e dei loro governi: il controllo e lo sterminio della popolazione potenzialmente ribelle o comunque non integrabile. È questa la ragione che muove a militarizzare interi paesi in America Latina, senza toccare la disuguaglianza, che è la causa di fondo della violenza.
Quattro ragioni avallano l’impressione che siamo di fronte a interventi di straordinario successo, in Brasile, ma anche in Centroamerica, Messico e Colombia, solo per citare i casi più evidenti.
La prima è che la militarizzazione della sicurezza riesce a blindare lo Stato come garante degli interessi dell’uno per cento più ricco della popolazione, delle grandi multinazionali, degli apparati armati dello Stato e dei governi. C’è da chiedersi perché sia necessario, in questo periodo della storia, blindare quei settori. La risposta è che i due terzi della popolazione sono esposti alle intemperie, senza diritti sociali, grazie all’accumulazione per spoliazione/quarta guerra mondiale.
Il sistema non concede nulla alle maggioranze nere (che sono il 51 per cento della popolazione in Brasile), indigene e meticce. Solo povertà e pessimi servizi sanitari, educativi e dei trasporti. Non offre loro un lavoro dignitoso né remunerazioni adeguate, le spinge alla sottoccupazione e alla cosiddetta “informalità”. A lungo termine, una popolazione che non riceve nulla o quasi nulla dal sistema, viene chiamata a ribellarsi. Per questo militarizzano, un compito che stanno compiendo con successo, per ora.
La seconda ragione è che la militarizzazione a scala macro si completa con un controllo sempre più raffinato, che fa ricorso alle nuove tecnologie per vigilare da vicino e da dentro le comunità che considera pericolose. Non può essere un caso che in tutti i paesi sono i più poveri, cioè coloro che possono destabilizzare il sistema, quelli che vengono controllati nel modo più implacabile.
Un solo un esempio. Quando sono state “donate” le làmine metalliche per le case in Chiapas, le istituzioni statali si sono preoccupate di dipingerle perché dall’alto si potessero identificare le famiglie non zapatiste. Le politiche sociali che elogiano i progressisti fanno parte di quelle forme di controllo che, nei fatti, funzionano come metodi di contro-sovversione.
La terza questione è che il doppio controllo, macro e micro, generale e particolare, sta attanagliando le società in tutto il mondo. In Europa ci sono multe o carcere per quelli che escono dal copione assegnato. In America Latina ci sono morte e desaparición per chi si ribella o, semplicemente, denuncia e si mobilita. Non si reprimono più solo quelli che si sollevano in armi, com’è stato negli anni 60 e 70 del secolo scorso, ma tutta la popolazione.
Questa mutazione delle forme di controllo, isolando e sottomettendo i potenziali ribelli, o disobbedienti, è una delle trasformazioni più notevoli che il sistema sta applicando in questo periodo di caos. Un periodo che, nel lungo periodo, potrebbe anche farla finita con il capitalismo e il dominio dell’uno per cento sul resto della popolazione.
La quarta questione sono delle domande. Che vuol dire governare quando siamo di fronte a forme di controllo che accettano solo di votar ogni quattro, cinque o sei anni? A che serve mettere tutto l’impegno politico nelle urne se fanno frodi e consolidano il loro potere con i militari nelle strade, come succede in Honduras? Non dico che non si debba votare. Mi domando: per ottenere cosa?.
Si tratta di continuare a riflettere sulle nostre strategie. Lo Stato è un’idra mostruosa al servizio dell’uno per cento. Tutto questo non cambierà neppure se prendessimo il timone del comando, perché al vertice della piramide continueranno a restare gli stessi, con tutto il potere necessario a mandarci via quando lo riterranno conveniente.
Ripreso da comune.info-net, che l'ha tradotto la Jornada. Titolo originale: Brasil tras los pasos de México Traduzione per comune.info-net: Marco Calabria.
il manifesto,
“Ba-sta razzismò, ba-sta razzismò”. I tantissimi senegalesi in corteo lo ritmano lungo tutto il percorso, restituendo senso, una volta tanto, alle parole. Si manifesta per Idy Diéne, e come hanno chiesto le associazioni dei senegalesi di Toscana “questo vuol essere un ricordo doloroso di una persona cara, ma anche una affermazione collettiva del rifiuto dell’incitamento all’odio nei confronti dei migranti e rifugiati, che ha caratterizzato in modo marcato il dibattito pubblico nell’ultimo anno”. Per certo è un fiume intergenerazionale e arcobaleno quello che invade piazza Santa Maria Novella, via dei Fossi, i lungarni Vespucci e Soderini, il ponte alla Carraia e il ponte Vespucci. Lì dove il 54enne ambulante è stato usato come un bersaglio, prima di essere ammazzato, con il colpo di grazia alla testa, da un tipografo in pensione con l’hobby delle armi.
Sfilano in (molti) più di 10mila – numero della questura – e tutti sanno bene che nessuno potrà riportare in vita Idy Diéne. Ma essere qui può aiutare a combattere il razzismo, che sia dichiarato o strisciante poco conta, ormai sdoganato da forze che con la parola d’ordine del “prima gli italiani” portano migliaia di loro ad essere “eletti dal popolo” in Parlamento e negli enti locali. “Quell’uomo l’ha studiato, l’ha studiato (l’omicidio, ndr) – quasi urla un senegalese ai microfoni di Radio Popolare – lui quel giorno ha incontrato un milione di persone e poi ha sparato a un nero. Salvini, io ti vedo tutte le volte al telegiornale, tu parli solo male degli africani, questi sono i risultati”.
Agli angoli del ponte Vespucci, attaccato sul muro, un volantino racconta l’Italia di oggi vista con gli occhi di un migrante: “Cari fratelli e sorelle italiani, se avete fame oggi; se siete senza lavoro; se siete diventati poveri, noi neri, noi africani, non siamo colpevoli; non siamo responsabili delle vostre rogne. Cercate i responsabili da Sarkozy a Berlusconi, alleati hanno bombardato la Libia e il resto dell’Africa. Se le vostre bombe cadessero in Italia cosa fareste? Dov’era la colpa del povero Diéne Idy, il fatto di essere nero. Essere nero è un reato in Italia, basta!”.
La manifestazione è stata in forse fino a venerdì, anche questo è toccato vedere dopo che la parola razzismo è stata tabù per giorni, sindaco Nardella in testa. Invece dal direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, erano arrivate parole sensate: “Se qualcuno spara pallottole contro qualcun altro che ha la pelle di colore diverso, avendo incontrato prima anche altre persone, è chiaro che si tratta almeno di razzismo subliminale: questo è ovviamente inaccettabile e va debellato, così come il razzismo manifesto e proclamato”.
E’ stato un corteo talmente civile che a Nardella, anche lui in marcia, è stato dedicato solo un graffiante striscione: “Je suis fioriera”. In eterno ritardo, anche il sindaco ha finalmente capito: “Ho parlato con la famiglia di Idy, ha acconsentito a far svolgere una giornata funebre con una cerimonia funebre, e questo ci consente di programmare il lutto cittadino. In questo modo noi diamo un ulteriore segnale di sensibilità e vicinanza della nostra città”.
Nel lunghissimo corteo altri rappresentanti istituzionali (Enrico Rossi), la portavoce di Potere al popolo Viola Carofalo (“non si poteva non essere qui”), intellettuali (Adriano Sofri, Wlodek Goldkorn, Tomaso Montanari), i responsabili dell’Anpi dell’intera provincia, Gigi Remaschi in testa. Con loro la Cgil, l’Usb, i Cobas, l’Arci, la rete antirazzista fiorentina con le variegate anime della sinistra che resiste. E ancora Tommaso Fattori e Giacomo Trombi con lo striscione “Stay human”: restiamo umani. Senza dimenticare la realtà, fotografata dallo striscione di uno spezzone di corteo tutto al femminile: “Chi spara alla moglie, chi spara all’immigrato, è un maschio bianco, e va fermato”.
“Forza, dobbiamo parlare, dobbiamo farci sentire – spiega una ragazza senegalese alle sue compagne di corteo – perché queste tragedie non devono più succedere, non vogliamo piangere altri morti come Samb, come Diop, come Idy”. Perché Firenze è recidiva. Anche se la sua parte migliore, oggi in corteo, la pensa come il cartello portato dal manifestante ignoto: “Mio fratello non è figlio unico”.
Internazionale giornale,
Negli anni trenta mio padre ha perso due zii in una battaglia contro i fascisti ad Al Jawsh, un paesino nella Libia occidentale a ventisette chilometri circa da Shakshuk, la città d’origine di mio padre e della nostra tribù. Quel giorno per i tre fratelli era cominciato proprio come nella canzone Bella ciao: “Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor”. Mio nonno è stato l’unico a sopravvivere. Si chiamava Khalifa.
Non ho conosciuto mio nonno, tutto quello che so di lui viene dai racconti che me ne faceva mio padre quand’ero bambino. Quelle storie sono una delle poche cose che condividevamo. Io preferivo i racconti di mia madre, non solo perché mi è più vicina ma anche perché mi descriveva le persone e il loro modo di vestire, di camminare e di parlare, e poi i luoghi e gli odori, i colori e le sensazioni che lei provava.
Ricordo un cartone animato che io e mio fratello adoravamo guardare da piccoli. In uno degli episodi c’era la storia di due fratelli che litigano in continuazione e che per questo finiscono trasformati in cani (credo c’entrasse la magia, ma non lo ricordo con precisione). Mio padre, in silenzio fino a quel punto, sorrideva e diceva: “Visto cosa è successo? Se continuate a litigare capiterà lo stesso anche a voi”.
Gli ultimi testimoni
Ci sono alcune persone, come mio padre, che danno continuamente lezioni di vita, e altre, come mia madre, che ti raccontano una storia e poi lasciano che sia tu a trarre le conclusioni. Da quando sono diventato adulto, forse il periodo più lungo che ho trascorso da solo con mio padre è stato l’anno scorso, quando per qualche settimana è stato ricoverato in ospedale mentre Tripoli era sull’orlo di un’altra lotta tra milizie. Io e mio fratello avevamo deciso di fare turni di ventiquattr’ore per stare con lui, così da essere sicuri che non sarebbe rimasto da solo in caso gli scontri avessero bloccato le strade in direzione dell’ospedale.
Le ore in ospedale erano lunghe, perciò abbiamo cominciato a parlare davvero, tanto. Mi ha raccontato di nuovo tanti episodi che avevo ascoltato da bambino, ma stavolta mi ha dato la versione integrale e ha risposto alle mie domande.
Le ore in ospedale erano lunghe, perciò abbiamo cominciato a parlare davvero, tanto. Mi ha raccontato di nuovo tanti episodi che avevo ascoltato da bambino, ma stavolta mi ha dato la versione integrale e ha risposto alle mie domande.
Ho capito allora che i testimoni dell’epoca dell’occupazione italiana e della seconda guerra mondiale sono anziani, e che i ricordi di queste generazioni spariranno con loro. Senza le loro voci, nessuno potrà più parlare di quell’epoca a partire da un’esperienza personale e l’unica fonte a nostra disposizione resterà il sapere che ci ha trasmesso il regime, con una notevole “sintesi” storica. Questo ha determinato un divario tra le generazioni, e tutte le volte che si crea un divario si crea anche la necessità di riempirlo. Oggi il dibattito su quell’epoca è complicato, e nessuno è interessato a comprendere le complessità.
Per esempio, agli studenti a scuola non s’insegna che molti libici collaborarono con i fascisti, che intere brigate e molti capi tribù lavorarono e combatterono per loro e si divisero al proprio interno per questo. Non leggiamo delle reclute che marciarono al fianco dei soldati italiani per conquistare l’Etiopia. Per non parlare del dibattito sui crimini commessi contro gli ebrei libici: era ed è ancora un tabù. In realtà alcune delle famiglie più ricche nella Libia di oggi devono la loro prosperità a quel periodo, ai soldi e alle proprietà che rubarono agli ebrei costretti a lasciare il loro paese.
Alle generazioni postbelliche sono stati insegnati solo alcuni fatti, che non potevano in nessun modo essere contestati. Per più di quarant’anni il governo libico ha scelto di ignorarne alcuni e amplificarne altri. Lo strumento principale è stato il Centro nazionale per gli archivi e gli studi storici. Fondato nel 1977 con il nome di Centro per le ricerche e gli studi sul jihad libico, nel 1980 era diventato il Centro del jihad libico per gli studi storici. Questo centro è stato istituito soprattutto con l’obiettivo di “condurre ricerche di tipo documentario, raccogliere manoscritti, documenti e opere legate al suo scopo, e documentare tutte le fasi del jihad libico contro la colonizzazione italiana”. Il 24 marzo 2009 lo hanno unito al Centro nazionale per i manoscritti e gli archivi trasformandolo appunto in Centro nazionale per gli archivi e gli studi storici.
All’inizio del 2009 era stato diffuso un “annuncio importante”: “Il Centro del jihad libico sta registrando i nomi dei fratelli che hanno combattuto con l’Italia in Abissinia, Eritrea, Somalia e nella seconda guerra mondiale, e gli impiegati e gli operai libici che hanno collaborato con l’amministrazione coloniale italiana dal 1911 al 1942. I fratelli in questione, i loro nipoti o parenti devono affrettarsi per andare al centro del jihad di Tripoli o alle sue filiali in tutta la Jamahiriya (Libia) per riempire il modulo di registrazione”.
Perché questo improvviso interesse per un argomento fino ad allora trascurato? Il motivo per cui il Centro era stato incaricato di preparare quelle liste è che il governo italiano aveva accordato “il ripristino del pagamento delle pensioni ai titolari libici e ai loro eredi che, sulla base della vigente nominativa italiana, ne abbiano diritto”, secondo quanto si leggeva nel Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Libia e la repubblica italiana firmato a Bengasi nel 2008.
È come se annunciaste la possibilità di pagare i collaboratori del regime nazista nei paesi europei occupati dalla Germania durante la seconda guerra mondiale, compresi quelli che hanno lavorato nei campi di concentramento nazisti e quelli che hanno contribuito a reprimere la resistenza. Quante persone o familiari sarebbero orgogliosi di fare un passo avanti e annunciare che il loro padre o nonno hanno collaborato con i fascisti e ritirare la loro pensione? Non molti, immagino, ed era proprio questo lo scopo di quell’articolo: per quanto umiliante possa essere, non sarà mai davvero applicato, non è altro che un trucco dell’accordo.
L’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha dichiarato a proposito dell’accordo: “C’è un riconoscimento completo e morale dei danni inflitti alla Libia da parte dell’Italia durante il periodo coloniale”. Nonostante le dichiarazioni, esaminando gli articoli del trattato e prestando attenzione non solo a quello che è scritto ma anche a quello che non è scritto, si nota qualcos’altro.
“L’Italia, sulla base delle proposte avanzate dalla Grande Jamahiriya e delle successive discussioni intervenute, si impegna a reperire i fondi finanziari necessari per la realizzazione di progetti infrastrutturali di base che vengono concordati tra i due Paesi nei limiti della somma di cinque miliardi di dollari americani, per un importo annuale di 250 milioni di dollari americani per 20 anni”. Il pacchetto di risarcimento comprende progetti di costruzione, borse di studio per studenti (cento) e pensioni per i soldati libici che hanno prestato servizio nell’esercito italiano durante il periodo coloniale.
Se avessero davvero voluto risarcire le vittime dei fascisti, avrebbero dovuto offrirsi di pagare le vittime dei campi di concentramento e dei tribunali militari, che hanno condannato a morte tanti libici dopo processi sommari. Quello che è stato vagamente annunciato come un “risarcimento completo e morale” non è andato oltre quella frase.
Di fatto l’accordo non solo ha ignorato i crimini dei fascisti, ma ha cercato di premiare i libici che hanno contribuito a commetterli. In quei campi di concentramento è stato ucciso un terzo della popolazione della Cirenaica: quelli che non sono stati giustiziati o non sono morti a causa di epidemie, sono morti di fame o uccisi dalle lunghe marce forzate”. Tutto ebbe inizio quando Mussolini – “il più grande bluff d’Europa”, come lo definì Hemingway – assunse il controllo dell’Italia.
Il genocidio libico
Dopo la marcia su Roma, Mussolini dichiarò dal suo balcone che avrebbe reso di nuovo grande l’Italia. Forse offrì alla folla eccitata una delle sue pose da supereroe; per lui quel balcone era l’equivalente di un account Twitter. La Libia era il primo articolo da spuntare nella sua lista di cose da fare per rendere di nuovo grande l’Italia, e così iniziò la “pacificazione della Libia”, o meglio il “genocidio libico”.
La campagna partì nel 1923, quando soldati armati fino ai denti e sostenuti da aeroplani e mercenari marciarono contro i libici, che possedevano solo vecchi fucili ottomani, cavalli e cammelli. Alla fine del 1924 la Tripolitania era interamente sottomessa. Le tribù erano troppo impegnate a combattere le une contro le altre, e la resistenza disorganizzata ne rese più facile la sconfitta. Nel 1929 le due regioni e il Fezzan del nord furono unificate. La resistenza era ridotta a piccoli gruppi in Cirenaica, sotto la guida di Omar al Mukhtar. Continuarono a condurre una guerra di guerriglia sfruttando la loro conoscenza del territorio e la loro facilità di spostamento.
Distruggere ciò che restava della resistenza divenne la missione del generale Graziani. Per riuscirci era disposto a tutto, anche all’uso di bombe all’iprite, nonostante l’Italia avesse firmato nel 1925 la convenzione di Ginevra sulla messa al bando delle armi chimiche in battaglia. Pensava che il modo migliore per affrontare la resistenza fosse isolarla. Poi diede il via alle deportazioni di massa dei libici rinchiudendoli nei campi di concentramento.
Per descrivere uno di questi campi prenderò in prestito alcuni paragrafi scritti da un sopravvissuto al campo di concentramento di El Aghelia, Ibrahim al Arabi al Ghamari:
«La terra era desolata. Circondati da sabbia e acquitrini, priva di popolazione. C’era un piccolo forte per le ispezioni, circondato da torri, a loro volta circondate da filo spinato per poter contenere il maggior numero possibile di detenuti. C’era un cancello presidiato da agenti di polizia. Fuori a farmi la guardia c’erano contingenti di mercenari somali ed eritrei. Avevano costruito loro le torri con gli uffici del forte per il personale, era compito loro registrare i detenuti e ispezionarli, ogni mattina.
Ogni mattina tutti i detenuti dovevano presentarsi negli uffici del personale per registrare la loro presenza. Se qualcuno non si presentava, voleva dire che era he era morto. Malati e disabili invece dovevano essere portati sulle spalle senza discussione.
Ogni mattina dopo l’appello sceglievano i più giovani e quelli in grado di lavorare e li dividevano in quattro squadre: una era addetta alla pulizia degli uffici, delle latrine e delle stalle, e chi ne faceva parte doveva trasportare sulla schiena i rifiuti fuori dal campo. Un’altra squadra doveva pulire il campo e svolgere altri lavori. I membri di una terza squadra dovevano trasportare sulla schiena le merci dal porto ai negozi, destinati a rifornire soltanto i militari. A una quarta squadra spettava il compito di trasportare fino ai negozi la legna da ardere. Io appartenevo a quest’ultima squadra.
Agli anziani spettava il compito di trasportare i cadaveri e seppellirli.
Ogni giorno c’erano almeno centocinquanta morti. Venivano seppelliti in fosse poco profonde. Non avevano la forza di scavare buche profonde, perciò i cadaveri erano vulnerabili agli attacchi delle iene, dei lupi, delle volpi e dei cani. I corpi andavano in putrefazione e questo ha contaminato tutto il sito, costringendo i responsabili a trasferirlo a un chilometro di distanza.
Tra i detenuti era pericolosamente diffusa la carestia, e molti hanno iniziato a morire di fame. Dopo la morte di un gran numero di detenuti per la fame, la maggior parte dei quali anziani e bambini, le guardie hanno iniziato a distribuire grano importato dalla Tunisia. A ogni persona spettavano due chili di grano ogni due settimane. I detenuti lo cuocevano sul fuoco per migliorarne il sapore e bevevano l’acqua per riempirsi le pance. Molti avevano ulcere in bocca e gengive sanguinanti.
La diffusione di terribili malattie tra i detenuti ha eliminato quasi tutti gli altri. I pazienti venivano ricoverati in tende situate in una angolo lontano del campo, accanto al filo spinato. Se una persona mostrava i sintomi della malattia, la sua famiglia era obbligata a trasferirlo immediatamente in una di queste tende e lasciarlo lì a morire. Nessuno poteva stargli accanto, era proibito. Ogni mattina un parente andava a trovarlo. Se lo trovava morto doveva informare l’ufficio per la registrazione dei detenuti. Questa era l’unica cura consentita. Se una persona ammalata moriva a casa prima di essere stata trasferita nella tenda per i pazienti, venivano inflitte dalle 300 alle 500 frustate ai familiari, che venivano inoltre privati della razione settimanale di grano.
Abbiamo patito molto in queste condizioni disumane: fame, sete e umiliazione erano parte della nostra quotidianità. Non importava se davanti avevano un giovane o un anziano, un uomo o una donna, erano indifferenti a tutto. Le donne venivano frustate sulle gambe e gli uomini sul petto e sulla schiena, dopo averli legati a un palo conficcato per terra.
In occasione di una conferenza stampa durante la sua visita a Roma, Gheddafi ha detto “il mio amico Berlusconi, un amico che oggi tutti i libici conoscono, dopo che con le sue tante utilissime visite in Libia ha aperto la via a questo trattato”. Beh, tutti i libici conoscono Berlusconi solo per la squadra del Milan, e lo ricorderanno per sempre, dopo la sua visita in Libia per firmare il trattato, come il leader italiano che ha baciato la mano di Gheddafi. L’unico e solo canale televisivo nella Libia dell’epoca ha continuato a mandare in onda quel bacio all’infinito. Nel caso non lo aveste visto, ecco a voi un link.
Gheddafi voleva solo questo, apparire. Dal suo punto di vista, voleva dimostrare al mondo e ai suoi cittadini che era ancora “l’uomo di ferro”, come lo definiva Berlusconi. Ha sempre dichiarato di voler rendere di nuovo grande la Libia, addirittura ha rinominato il paese “Grande Jamahiriya araba”. Questa grandezza si manifestava soprattutto nell’ostilità contro le altre nazioni, nei discorsi di odio, nell’eliminazione di ogni opposizione e nell’acquisto di miliardi di dollari di armi con le ingenti riserve petrolifere della Libia.
L’accordo ha inoltre offerto a Gheddafi l’opportunità di ricompensare il suo amico per “’importante contributo dell’Italia al fine del superamento del periodo dell’embargo nei confronti della Grande Jamahiriya”, come sottolineato nell’introduzione all’accordo. Berlusconi non è solo un politico e uomo d’affari, è anche un uomo di spettacolo, come lo stesso Gheddafi, e ha così sintetizzato il vero scopo dell’accordo: “Grazie al trattato siglato oggi, l’Italia potrà vedere ridotto il numero dei clandestini che giungono sulle nostre coste e disporre anche di maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità”. In poche parole, finché farete scorrere il vostro petrolio e terrete i migranti nella vostra parte di Mediterraneo saremo amici e potremo far finta che nel vostro paese non succeda niente di male.
I nuovi campi
È paradossale che, oltre a ignorare i campi di concentramento e premiare i collaboratori che ci lavoravano, l’accordo abbia gettato le basi per una nuova epoca di campi di concentramento finanziati dall’Italia con l’aiuto di collaborazionisti libici che vengono pagati generosamente. L’unica differenza oggi è che eritrei e somali sono dentro quei campi e non fuori a fare la guardia.
Nel 2011, durante i suoi ultimi mesi al potere, Gheddafi ha spalancato la strada alle barche: chiunque avesse un’imbarcazione veniva pagato per riempirla di migranti e mandarli in mare. Quando il diavolo che conoscevano è andato via, la Libia si è divisa tra molti nuovi diavoli sconosciuti. Il nuovo accordo firmato con Al Sarraj ha revocato e cancellato molti articoli contenuti nella precedente versione. L’ultimo aggiornamento dell’accordo è andato ancora più dritto al punto: ridurre i migranti e tenerli in Libia in cambio di denaro. Stavolta però niente baciamano.
Però c’era un tranello: i nuovi diavoli non sono stati in grado di offrire quello che aveva offerto Gheddafi, ossia il silenzio più assoluto. Per quarant’anni di dittatura Gheddafi ha avuto il totale controllo dei mezzi d’informazione e ha represso tutte le voci, mentre i nuovi signori della guerra non possono controllare del tutto ciò che succede nel mondo. E non si può dire certo che non ci provino.
Tuttavia la parte di questo accordo che preferisco è questa: “A partire dal corrente anno, il giorno del 30 agosto viene considerato, in Italia e nella Grande Jamahiriya, Giornata dell’amicizia italo-libica”. Questa data segna e rappresenta esattamente il contrario, è un promemoria di questo accordo vergognoso e disonorevole. Niente al mondo mi farebbe più piacere oggi di un vero giorno per festeggiare l’amicizia tra Italia e Libia, per avviare una vera cooperazione, uno scambio culturale e un dialogo sincero, distante da loschi accordi disumani.
Libici e italiani non sono responsabili delle azioni dei peggiori tra i loro concittadini. Credo che le persone siano responsabili solo delle loro azioni, di ciò che hanno fatto e anche di ciò che non hanno fatto. Chi approva in silenzio è colpevole tanto quanto chi commette un crimine. Dopo aver letto un libro o guardato un film sulla seconda guerra mondiale e sui crimini orribili commessi da nazisti e fascisti, chiunque a un certo punto si sarà chiesto cosa avrebbe fatto se fosse stato lì, se fosse vissuto in quel periodo. Adesso abbiamo la possibilità di conoscere la risposta. Viviamo in tempi interessanti, oggi sta succedendo di nuovo. Cambiano i nomi e le giustificazioni, ma oggi di nuovo ci sono persone gettate nei campi di concentramento finanziati dai soldi dei contribuenti italiani (adesso mi sembro proprio mio padre).
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
LINKIESTA
«La docente della Columbia University spiega: “Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?”»
I partiti si sono indeboliti. La sinistra è in crisi profonda. Il populismo avanza. Mentre le elezioni italiane hanno celebrato la vittoria del Movimento cinque stelle e della Lega Nord, Nadia Urbinati, professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York, ha pubblicato l’ebook La sfida populista, curato insieme a Paul Blokker e Manuel Anselmi e presentato in occasione di “Democrazia Minima”, il primo forum sul futuro della politica e della cittadinanza attiva organizzato da Fondazione Feltrinelli.
«Dietro l’esito delle elezioni c’è certamente il declino della sinistra», spiega Urbinati. «Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?».
Professoressa, cosa è successo alla sinistra italiana?
«Dal Pd ai cosiddetti secessionisti, oggi la sinistra non è più un punto di riferimento per larghi strati della popolazione. È diventata (e considerata) a tutti gli effetti il partito delle classi medie e medio-alte ben integrate, non in tensione verso l’emancipazione (a parte i diritti civili), ma attenta a conservare il proprio status. Un Pd che vince ai Parioli e perde nei quartieri popolari fa pensare».
Ma è un problema solo italiano?
«No, in Germania come ci ha detto Wolfgang Merkel è accaduta la stessa cosa. Il problema è che la sinistra è diventata l’élite intellettuale liberal-cosmopolita con valori non radicati nel Paese ma nel mondo vario. E invece il popolo più bisognoso, o comunque con meno strumenti culturali ed economici, è attaccato a delle comunità. Che sia la nazione - da qui arriva la rinascita del nazionalismo - o la rabbia collettiva delle plebi contro chi sta dentro il Palazzo - anche questo è il populismo dei Cinque stelle».
Ma Cinque stelle e Lega sono in grado di andare a colmare questo spazio vuoto lasciato dalla sinistra?
«Un po’ ci stanno provando e anche bene, con una divisione del lavoro che è ben evidente in Italia. A Nord e Sud avevamo due sinistre (poiché ci sono sempre state differenza tra sinistra del Sud e del Nord, di stile e contenuti) e ora abbiamo due anti-sinistre. Dove la sinistra storica ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione, anche questi diversi geograficamente».
Partiamo dal Nord, dove ha prevalso la Lega.
«Al Nord avevamo una sinistra molto organizzata e radicata, con associazioni, solidarietà strutturata a livello istituzionale (municipale e regionale), con un sistema di servizi e di reti di supporto, dalle cooperative ai sindacati alle associazioni, che hanno fatto il benessere e l’emancipazione di tre generazioni, dalla Seconda guerra mondiale agli anni Settanta. Nel mondo che deve difendere se stesso da un lato contro il liberismo imperante, e dall’altro contro le frontiere che si aprono non solo per merci e denaro, ma anche per gli esseri umani, si registra un rischio di abbassamento del livello della vita e del lavoro. Le esigenze di protezione si traducono in attaccamento al corrispettivo contemporaneo del vecchio partito identitario, il Partito comunista, che è la Lega. La Lega è il Partito comunista rovesciato perché ha simili caratteristiche organizzative e territoriali, radicate e identitarie, ma non ha una identità di classe. I leghisti non sono universalisti, ma sono identitari-localisti, difendono l’identità nazionale con il famoso “prima gli italiani degli altri”. Danno così un’ancora a questi beneficiari dello stato sociale che vogliono mantenere la loro condizione contro i rischi nuovi che vengono da fuori. Questa è la sinistra del centro Nord che si è tramutata in un’altra forma di identità».
E al Sud?
Al Meridione c’è stata tradizionalmente un’altra sinistra, più movimentista e populista, più adatta ad aderire alle pieghe di una società meno organizzata e con forme di degrado non tipiche di una società industriale. Pensiamo a com’era il Partito comunista napoletano che ha vinto con Bassolino, molto diverso da quello del Nord. O a quello che si è manifestato in tante forme di ribellione e rivolta, da Portella della Ginestra fino alle rivolte dei disoccupati o contro il degrado ambientale. Il Sud è stato sempre una fucina di lotta e contestazione, più che di radicamento organizzativo come al Nord. Lì ha vinto con facilità il Movimento Cinque stelle. È chiaro che questa spiegazione è un idealtipo che non spiega ogni aspetto della realtà, ma come modello interpretativo può essere utile.
Però c’è anche molta destra in questi movimenti.
«Certo, c’è tanta destra. Come diceva Marx, se la classe non viene assunta all’interno di un discorso universalista di emancipazione e di rivoluzione, guarda al passato, quindi diventa identitaria, nazionalista, corporativa. Davanti alla povertà, alla necessità di soddisfare i bisogni fondamentali, ti rivolgi a coloro che ti sembrano più in sintonia al tuo sentire. Se non hai un’organizzazione politica che incanala i tuoi bisogni in un discorso di giustizia e di emancipazione, tu ti avvicini alla più limitrofa forma di sostegno. A quella più vicina alla tua condizione e al tuo linguaggio: al Nord, la nazione e la razza; al Sud l’appello generico a “noi cittadini”.
E il Pd sui territori non c’è?
«Non c’è davvero mai stato il Pd nei territori. Anzitutto ha abolito le sezioni, costruendo i circoli. I circoli sono entità neutre e con funzioni di incontro per chi è dentro o vicino al partito. Contrariamente alla sezione, i cui iscritti e soprattutto dirigenti conoscevano il loro territorio, le condizioni di vita e i problemi, i circoli si aprono e si chiudono in base alle necessità di discussione del partito.
«Non sono luoghi che raccolgono bisogni e problemi. Sono luoghi che servono a coloro che già fanno politica per incontrarsi, per fare le loro strategie. Però non sono legati ai territori, sono legati ai politici che già sono dentro la politica, a coloro che già sono iscritti, che fanno parte del gruppo. Ma non servono per avvicinare gli altri e nemmeno per fare un lavoro di conoscenza del territorio. Il passaggio da sezione a circolo è stata l’indicazione di un nuovo partito che non vuole tanto essere vicino ma lontano, per avvicinare l’elettore mediano. Il circolo non fa proselitismo e nemmeno fa discutere gli iscritti sulla linea nazionale (ci furono riunioni per discutere la proposta di riforma costituzionale?). Fa emergere potenziali candidati, è in funzione elettorale. C’è stato un divorzio tra dimensione nazionale e territoriale, causa di progressiva ignoranza dei bisogni di vita reale. Eppure, dice Gramsci, l’una senza l’altra non vive».
E qui si inseriscono Cinque stelle e Lega.
«Il Movimento Cinque stelle e la Lega non sono la causa, ma il segnale della transizione da un partito che aveva un progetto di emancipazione per tutti a un partito che è diventato un progetto di conservazione di chi sta bene. Un partito di centro – è la classe sociale di riferimento a dirlo. Se non hai un’organizzazione politica che incanala i tuoi bisogni in un discorso di giustizia e di emancipazione, tu ti avvicini alla più limitrofa forma di sostegno. A quella più vicina alla tua condizione e al tuo linguaggio: al Nord, la nazione e la razza; al Sud l’appello generico a “noi cittadini”»
Contrariamente a quel che si diceva inizialmente, però, l’analisi del voto dice che i Cinque stelle sono stati votati da molti laureati, giovani e giovanissimi, e non solo dai ceti meno abbienti e meno istruiti.
«Certo, ma bisogna fare delle differenze. Al Nord è prevalso il discorso che, se si voleva cambiare il Pd, non si poteva votare Leu perché era troppo limitrofo. Occorreva votare l'anti per eccellenza. Molti voti anti-Pd da ex-Pd sono andati a Cinque stelle: un voto di rivolta contro il Pd per far cambiare il Pd. Ma nell’altra parte del Paese, dove ci sono le situazioni di disagio, questo non importava. Non dimentichiamo che mezza Italia, dalle Marche al Molise, ha subito il terremoto. Noi ce lo siamo dimenticati, ma loro sono lì da due anni in attesa. Hanno vissuto e vivono in situazioni disumane, in alloggi provvisori. Poi c’è il Sud più profondo: Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. L’unica cosa che hanno ricevuto dal governo è stato aver chiuso gli occhi su una evasione fiscale mastodontica. Questa idea malsana di accettare una condizione di illegalità per il quieto vivere non funziona più perché la gente comunque non ha lavoro. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd? Vivere limitrofi dell’illecito è come un bonus ma non dà futuro.
Ma c’è differenza tra le due forze populiste, Cinque stelle e Lega?
«Ciò che tiene insieme questi movimenti è l’anti-establishment. Cioè la distinzione tra coloro che sono dentro e coloro che sono fuori. Riviviamo nelle forme moderne la polarizzazione che era dell’antica Roma con la distinzione tra la plebe e i patrizi. Un dualismo non tanto di classe ma tra inclusi e non inclusi, i molti e i pochi. La Lega però non è semplicemente populista, anche se usa stili retorici populisti, ma resta un partito tradizionale di destra con un’ideologia non ecumenica ma escludente. I Cinque stelle invece sono il nucleo di una forma democratica populista. Di Maio nella lettera a Repubblica ha parlato di “Repubblica di cittadini”, che è la stessa cosa che ha sottolineato Trump, quando è stato incoronato presidente, dicendo “non sono io è il popolo americano che è qui”. È come se senza questi leader non ci fosse la voce del popolo. I Cinque stelle sono il gentismo in assoluto: noi siamo tutti unificati perché contrapposti a loro. È la contrapposizione all’establishment, non l’appello alla nazione, che unifica i molti.
E come si esce ora dall’impasse in cui siamo?
«I Cinque stelle sono cresciuti e crescono nella critica e nell’attacco, per questo dovrebbero essere messi alla prova. Il problema di questo momento è che non c’è fiducia tra le parti. Nessuno si fida dell’altro, persino dentro le stesse coalizioni. Vogliono vincere tutti da soli, non vogliono allearsi con nessuno. È un fenomeno che ritorna in Italia periodicamente e che ricorda le fazioni delle antiche Repubbliche del Rinascimento: nessun gruppo si fidava dell’altro e l’unico obiettivo era quello di ostacolare gli avversari bloccando se necessario il governo e anche rinunciando alla libertà. Più che fare, bloccare il fare. E questo mi sembra sia ancora il modus operandi più praticato».
http://www.linkiesta.it/it/article/2018/03/10/nadia-urbinati-lega-e-cinquestelle-hanno-sostituito-la-sinistra-ce-lav/37387/
Barbara-Spinelli.it,
Per la sinistra, questo è stato un giorno di fallimenti monumentali ma anche di chiarimenti, di possibili ma lente riprese. La nascita di Potere al Popolo è un buon segnale, anche se in soli tre mesi non poteva raggiungere i risultati sperati. Resta la verità più profonda delle elezioni del 4 marzo: gli italiani hanno chiesto un radicale cambiamento di rotta, e la sinistra non è stata presente all’appello. Globalmente la sinistra esce distrutta e lacerata da questa prova, e rischia di consegnare il Paese – una volta che saranno contati esattamente i seggi – alla destra di Salvini e a una Lega radicalmente spostata verso posizioni xenofobe.
Sono almeno dieci anni che la sinistra storica perde sistematicamente e in maniera continuativa il proprio “popolo”, ormai saldamente e convintamente ancorato nel voto Cinque Stelle o nell’astensione. Con la sola esclusione di Potere al Popolo, ha inseguito la destra per quando riguarda sia la politica economica sia quella concernente i rifugiati, corteggiando un elettorato che su ambedue i temi ha preferito in definitiva votare l’originale, cioè la destra.