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La Repubblica, 28 settembre 2015

È STATO un alto testimone del Novecento, Pietro Ingrao, e al tempo stesso della storia del comunismo italiano nelle speranze e nei drammi di un secolo. Un alto testimone, anche, di contraddizioni brucianti. In Volevo la luna ha raccontato benissimo una parte del suo percorso.

Dagli anni giovanili, dall’adesione all’antifascismo e al Pci sino ai mesi terribili del rapimento di Moro, che visse come primo presidente comunista della Camera. Un percorso scandito dalla Resistenza, dalle speranze dell’immediato dopoguerra e poi dalla sconfitta elettorale delle sinistre nel 1948. Sino alla presa d’atto di una sconfitta ancor più grande, ed era il 1956: con le illusioni alimentate dal XX Congresso del partito comunista sovietico, prima, e poi con il trauma dell’invasione dell’Ungheria. L’ «indimenticabile 1956», fu lui a coniare quella definizione: una citazione di un vecchio film sovietico, ha ricordato (quasi una “richiesta d’aiuto” alla sua passione per il cinema nel momento più terribile). Iniziò da lì il vero dramma del comunismo italiano, iniziò nel momento in cui quella “rivelazione” non fu compresa per quel che era. Per le menzogne che lacerava, per le tragedie su cui gettava fasci di luce cruda. Ingrao l’ha vissuto per intero, quel dramma. In qualche modo ne è stato prigioniero, forse, ma ha vissuto la contraddizione con quel rigore intellettuale, quella coerenza morale, quell’ansia intellettuale che sono il suo segno distintivo più forte.

Iniziava a trasformarsi profondamente l’Italia, in quel declinare degli anni Cinquanta, e Ingrao fu fra i primi a dire all’interno del Pci che «l’arretratezza italiana» su cui il partito ancora insisteva stava diventando un ricordo del passato. Ed era quindi necessario misurarsi con la nuova «modernità» del Paese (con il neocapitalismo, per usare i termini di allora), con i nuovi squilibri che induceva ma anche con le sue potenzialità. Scompariva davvero la vecchia Italia, allora. Iniziava la fuga dalle campagne di quei braccianti e di quei mezzadri che avevano largamente aderito al “partito nuovo” togliattiano, la stessa classe operaia si trasformava profondamente ed erano messi in discussione gli orizzonti culturali su cui si era formata larga parte della classe dirigente della Repubblica.

La grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere “comunisti italiani” non si comprende neppure perché accettò poco più tardi l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato il manifesto (Natoli, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina e altri ancora). Un grande errore, ha riconosciuto poi, ma del tutto inscritto in una più lunga storia.

Ha risposto a quei nodi con una riflessione mai abbandonata sul rapporto fra socialismo e democrazia: sul rapporto fra “masse e potere”, per citare il titolo di un suo libro, sulle forme di democrazia partecipata e su altro ancora. Restando fedele al suo essere “comunista italiano” anche quando il comunismo internazionale e il Pci scomparvero insieme. Figlio del secolo, di nuovo: di quel secolo. Con quel rigore intellettuale e con quelle passioni intellettuali, dal cinema alla poesia, che lo hanno accompagnato fino all’ultimo.

Ripresentiamo un testo su Pietro Ingrao scritto per questo sito il 6 aprile 2005. Già allora eravamo nella fase in cui molti - troppi - faticavano a credere che la politica sia un'attività nobile.

eddyburg, 28 settembre 2015 (reprint)

Anche per me, come per molti che lo conoscono e ne hanno scritto, di Pietro Ingrao sembra esemplare soprattutto lo stile: il modo in cui esercita, e vive, il difficile mestiere del politico. Pensare a Ingrao significa pensare alla possibilità che la politica sia qualcosa di diverso - di profondamente e radicalmente diverso - dall’immagine corrente della politica (e dei politici) di oggi. Oggi, che la politica è diventata nel migliore dei casi politique politicienne (possiamo tradurre “la politica politicante”), nei peggiori, politica affaristica – e nella media, politica come personale affermazione sociale.

Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta, perciò, su tre versanti.

Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.

Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani, alla fine, lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.

E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Anche qui, un altro ricordo. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; seduto ad un angolo del lungo tavolo sul podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando in ciascuna delle questioni che erano state sollevate, delle proposte che erano state formulate, degli interventi che erano stati pronunciati. Il merito delle cose: al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile, era questo che contava. Con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.

Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un’eccezione).

Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano. Il manifesto online, 28 settembre 2015 (reprint)

Arti­colo uscito nel sup­ple­mento spe­ciale al mani­fe­sto per i cento anni di Pie­tro Ingrao il 31 marzo scorso.

Ricordo ancora niti­da­mente la prima volta che cele­brai un com­pleanno di Pie­tro Ingrao: era il 1965, lui com­piva cinquant’anni (un’età che mi parve avan­za­tis­sima) ed era mezzo secolo fa. Con San­dro Curzi, ambe­due non da molto usciti dalla irre­quieta Fede­ra­zione Gio­va­nile, gli rega­lammo il suo primo paio di mocas­sini, con una dedica che lo sol­le­ci­tava ad essere meno pru­dente: «Cam­mina coi tempi, cam­mina con noi».

Lo ricordo bene per­ché era­vamo in piena bat­ta­glia «ingra­iana», pro­prio alla vigi­lia del fati­dico XI con­gresso del Pci, quando i com­pa­gni che si rico­no­sce­vano nelle sue idee (non una cor­rente, per carità), usci­rono un po’ più allo sco­perto per soste­nerle; e lui stesso operò quella che fu defi­nita una ine­dita rot­tura. Disse con chia­rezza nel suo inter­vento con­gres­suale: «Sarei insin­cero se tacessi che il com­pa­gno Longo non mi ha per­suaso rifiu­tando di intro­durre nella vita del nostro par­tito il nuovo costume di una pub­bli­cità del dibat­tito, cosic­ché siano chiari a tutti i com­pa­gni non solo gli orien­ta­menti e le deci­sioni che pre­val­gono e tutti impe­gnano ma anche il pro­cesso dia­let­tico di cui sono il risultato».

Fu, come è noto, applau­di­tis­simo, ma tut­ta­via suc­ces­si­va­mente emar­gi­nato dal ver­tice del par­tito e «rele­gato» (allora Bot­te­ghe Oscure con­tava più di Mon­te­ci­to­rio) alla pre­si­denza del gruppo par­la­men­tare e poi della Camera dei Depu­tati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.

Lo ricordo bene per­ché in fondo fu allora che comin­ciò la sto­ria de «il mani­fe­sto», che pure vide la luce solo quat­tro anni più tardi. Senza Pie­tro, che come sem­pre nella sua vita ha fatto pre­va­lere sulle sue scelte poli­ti­che la pre­oc­cu­pa­zione di non abban­do­nare il «gorgo», quello entro cui si adden­sava il popolo comu­ni­sta. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sen­tire pro­fondo di tutto il par­tito, il timore di sacri­fi­care l’opinione col­let­tiva alla pro­pria indi­vi­duale.

Noi del mani­fe­sto alla fine lo facemmo, ma anche per­ché le nostre respon­sa­bi­lità nel Pci erano infi­ni­ta­mente minori e dun­que il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse con­se­guenze di quello di Ingrao. Ma non cre­diate che sia stato facile nep­pure per noi, fu anzi una scelta molto molto sof­ferta e tal­volta è capi­tato anche decenni dopo di inter­ro­garsi se non avremmo dovuto restare a com­bat­tere den­tro anzi­ché met­terci nelle con­di­zioni di essere messi fuori.

(Per favore non rea­gite, voi gio­vani, dicendo: ma che tempi, non si poteva nep­pure dichia­rare un dis­senso! È vero, non era bello. E però le opi­nioni nono­stante tutto pesa­vano più di adesso, la nostra radia­zione fu un trauma per tutto il par­tito. Ora si può dire di tutto, ma per­ché non conta più niente).

Oggi Pie­tro Ingrao di anni ne com­pie 100, e noi de il mani­fe­sto, se con­tiamo anche l’incubazione, 50.

Col tempo si è forse smar­rito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i gio­vani della reda­zione del gior­nale c’è ancora qual­cuno che sa di cosa si sia trat­tato. Non fu, badate, solo una bat­ta­glia per la demo­cra­tiz­za­zione del par­tito, il famoso diritto al dis­senso. C’era molto di più: si è trat­tato del ten­ta­tivo più serio del pen­siero comu­ni­sta di fare i conti con il capi­ta­li­smo nei suoi punti più alti, di indi­vi­duare le nuove, moderne con­trad­di­zioni e su que­ste — più che su quelle anti­che dell’Italietta rurale — far leva, non per «inse­guire mille rivoli riven­di­ca­tivi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di svi­luppo alternativo.

Si trat­tava della rot­tura con l’idea di uno svi­luppo lineare, col mito della «moder­nità acri­tica», che fu alla base della cul­tura neo­ca­pi­ta­li­sta (e cra­xiana) di que­gli anni. E, ancora, il ten­ta­tivo di capire che la crisi ita­liana non rap­pre­sen­tava una ano­ma­lia (un vizio tutt’ora dif­fuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capi­ta­li­smo avan­zato quale si stava svi­lup­pando nel mondo.

Dal giu­di­zio sulla fase discen­de­vano due diverse linee stra­te­gi­che e per que­sto il con­fronto non fu solo teo­rico, ma stret­ta­mente intrec­ciato con il che fare poli­tico: se biso­gnava agire per ren­dere l’Italia «nor­male», e cioè alli­nearla alla moder­nità euro­pea, o invece inci­dere su quel nesso anche per risol­vere i vec­chi pro­blemi e pre­pa­rare un’alternativa anche alla «nor­ma­lità» capitalistica.

La destra del Pci ovvia­mente si oppose a que­sta pro­spet­tiva. Quando il Pci, dopo la Bolo­gnina, fu avviato allo scio­gli­mento, pro­prio su que­sta neces­sa­ria inno­va­zione costruimmo — que­sta volta uffi­cial­mente assieme a Pie­tro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liqui­da­zione del par­tito si oppo­neva. Non in nome della con­ser­va­zione ma, al con­tra­rio, del cam­bia­mento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le raf­for­zava. Le vec­chie cate­go­rie non basta­vano più e Ingrao è sem­pre stato attento a non ripe­tere lita­nie ma a indi­vi­duare ogni volta le poten­zia­lità nuove offerte dallo svi­luppo sto­rico, i sog­getti anta­go­ni­sti, a capire come si for­mano e si aggre­gano per diven­tare classe diri­gente in grado di pro­spet­tare una società alter­na­tiva. Oggi e qui.

Come sapete, perdemmo.

Su quel nostro dibat­tito degli anni 60 — che trovò poi una siste­ma­zione nel 1970 pro­prio nelle «Tesi per il comu­ni­smo» del Mani­fe­sto (che non dis­sero che il comu­ni­smo era maturo nel senso di immi­nente, come qual­cuno equi­vocò — e iro­nizzò -, ma che non sarebbe stato più pos­si­bile dare solu­zione ai pro­blemi posti dalla crisi nel qua­dro del sistema capi­ta­li­stico sia pure ammodernato).

Que­sto fu l’XI con­gresso del Pci, quello spar­tiac­que delle cui emo­zioni, pas­sioni, sof­fe­renze Pie­tro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».

Nell’anniversario del suo cen­te­simo anno di vita avrei forse dovuto par­lare di Pie­tro Ingrao ricor­dan­done di più i suoi aspetti umani, la sua per­so­na­lità, il modo come ha dipa­nato la sua esi­stenza, e non invece andar subito dritta al noc­ciolo poli­tico della sua vita di comunista.

L’ho fatto per due ragioni: per­ché troppo spesso ormai nel cele­brare gli anni­ver­sari si tende a ridurre tutto ai tratti del carat­tere di chi si ricorda, alle sue qua­lità morali, e sem­pre meno a riflet­tere sulle loro scelte poli­ti­che. E poi per­ché Pie­tro in par­ti­co­lare, invec­chiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sini­stra ita­liana — ha finito per ricor­darsi sot­to­tono, per­sino con qual­che vezzo civet­tuolo, più come poeta che come diri­gente poli­tico. Che è invece stato e di primo piano.

Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pen­sare al suo modo di espri­mersi, mai poli­ti­chese, sem­pre attento a illu­mi­nare l’immaginazione e non a ripe­tere cate­chi­smi. Vi ricor­date la sua sor­pren­dente uscita nell’intervento al primo dei due con­gressi di scio­gli­mento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo cla­mo­roso «viventi non umani», per chie­dere atten­zione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poe­sia, che come tale suonò, del resto, in quel gri­gio e mesto dibat­tito di fine partita?

Pie­tro non usava il poli­ti­chese per­ché ascol­tava. Sem­bra banale, ma quasi nes­suno ascolta. E sic­come ascol­tava è stato anche ascol­tato da gene­ra­zioni assai più gio­vani, quelle che dei nostri dibat­titi all’XI con­gresso del Pci, e del Pci stesso, non sape­vano niente. Penso al Forum sociale euro­peo di Firenze nel 2002, per esem­pio, dove il suo discorso sulla pace con­qui­stò ragazzi che non sape­vano nep­pure chi fosse.

Ascol­tava per­ché della demo­cra­zia ha sem­pre sot­to­li­neato un ele­mento ormai in disuso, soprat­tutto il pro­ta­go­ni­smo delle masse, la partecipazione.

Può sem­brare curioso, ma molto del pen­siero poli­tico di Ingrao è stato segnato dalla sua ado­le­scen­ziale for­ma­zione cine­ma­to­gra­fica. Nei molti anni in cui per via del mio inca­rico nella pro­mo­zione del cinema ita­liano ho avuto con i big di Hol­ly­wood molti incon­tri e spesso la discus­sione sci­vo­lava sull’Italia e sul come era stato pos­si­bile che ci fos­sero tanti comu­ni­sti. Un po’ scher­zando e un po’ sul serio ho sem­pre finito per ricor­rere ad un para­dosso: «Badate — dicevo — il comu­ni­smo ita­liano è così spe­ciale per­ché oltre­ché a Mosca ha le sue radici qui a Hol­ly­wood, che dun­que ne porta le respon­sa­bi­lità». E poi rac­con­tavo loro la sto­ria, tante volte sen­tita da Pie­tro, della for­ma­zione di un pezzo non secon­da­rio di quello che poi diventò il gruppo diri­gente del Pci nel dopo­guerra: Mario Ali­cata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai ver­tici sul par­tito ave­vano avuto una for­tis­sima influenza, Visconti, Liz­zani, De San­tis. Tutti allievi del Cen­tro spe­ri­men­tale di cinematografia.

Rac­con­tavo loro, dun­que, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua gene­ra­zione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo pro­prio nel cinema. E, segna­ta­mente, nel grande cinema — e nella let­te­ra­tura — ame­ri­cani del New Deal, tor­tuo­sa­mente cono­sciuti pro­prio al Cen­tro gra­zie a una for­tuita cir­co­stanza: l’arrivo, come inse­gnante, di un sin­go­lare per­so­nag­gio, Ahr­n­heim, ebreo tede­sco sfug­gito al nazi­smo e chissà come appro­dato pro­prio lì, prima che le leggi raz­ziali fos­sero intro­dotte anche in Italia.

«Pro­prio quelle pel­li­cole — mi disse Pie­tro in occa­sione di un’intervista (per il set­ti­ma­nale Pace e guerra che allora diri­gevo) su una impor­tante mostra alle­stita a Milano sugli anni ’30 — mostra­vano cari­che di socia­lità, in cui c’era la classe ope­raia, la soli­da­rietà sociale, la lotta. Pro­prio gra­zie a quei film, che erano mezzi di comu­ni­ca­zione fra i movi­menti sociali e l’americano qua­lun­que, così diversi dalla cul­tura anti­fa­sci­sta ita­liana degli anni ’20 — eli­ta­ria, erme­tica — che ave­vamo amato, ma non ci aveva aiu­tato; pro­prio quei film che ci apri­vano una fine­stra sull’intellettuale impe­gnato, noi ci siamo poli­ti­ciz­zati. Sono stati il primo passo verso la poli­tica».

Que­sto nesso fra cul­tura e poli­tica è stato un tratto che ha distinto il comu­ni­smo ita­liano. E Pie­tro Ingrao ne è stato uno dei più signi­fi­ca­tivi interpreti.

Gra­zie e tanti auguri, Pietro.

Riferimenti

Su eddyburg, nella vecchia edizione, una cartella dedicata a Pietro Ingrao.

La Repubblica, 28 settembre 2015 (m.p.r.)

New York. Un “disgelo” Usa-Russia per cooperare sulla Siria, con sullo sfondo qualche novità per l’Ucraina? È l’ipotesi che agita le aspettative, dietro l’incontro di oggi tra Barack Obama e Vladimir Putin. L’occasione è l’assemblea generale Onu a New York. Putin non si faceva vedere da 10 anni qui al Palazzo di Vetro. E con Obama non ha vertici bilaterali da due anni, cioè dall’inizio della crisi ucraina (i due si sono salutati in occasione di summit internazionali, ma riducendo al minimo l’interazione). Ora tutto sta cambiando, per quel che accade in Siria. La Francia ha lanciato ieri il suo primo raid aereo contro lo Stato Islamico, nell’ambito della coalizione. Ma Obama prende atto che la sua strategia, fondata sulla “guerra dai cieli” più l’appoggio a ribelli locali, non funziona. Putin ne approfitta: ha lanciato un’escalation “logistica”, trasferendo navi militari, aerei da combattimento, reparti di marines e mezzi blindati nella base che i russi hanno in Siria da 44 anni. Da un momento all’altro possono entrare in azione.

Nemico comune per americani e russi è lo Stato Islamico e quindi le due superpotenze potrebbero combatterlo fianco a fianco, anche se gli Stati Uniti si limitano ai raid aerei. Ma i russi sono amici di Assad e non hanno intenzione di mollarlo, mentre Washington continua a chiedere che il dittatore siriano se ne vada (sia pure in un orizzonte temporale non più immediato). Come far quadrare il cerchio? E quali “ricompense” si attende Putin su altri fronti come l’Ucraina? Un allentamento delle sanzioni?
Obama fin dal suo arrivo ieri sera ha trovato una New York segnata dall’evoluzione dei rapporti geostrategici sul pianeta. Per la prima volta dai tempi di Roosevelt il presidente americano è stato “sfrattato” dal Waldorf Astoria. L’hotel storico di tutti i presidenti è diventato impraticabile, secondo il secret service: lo ha comprato un’azienda pubblica cinese. Obama si è dovuto rassegnare al Lotte Palace Hotel, meno blasonato ma più protetto dallo spionaggio elettronico.
Più preoccupante del cambio di albergo è l’accumulo di notizie negative dal fronte siriano. Una commissione d’indagine del Congresso accusa il Pentagono di aver sbagliato tutto: ha speso 500 milioni di dollari per addestrare forze ribelli in grado di combattere sia contro i jihadisti sia contro Assad, e si ritrova con un pugno di mosche in mano. I ribelli addestrati sono pochissimi, le armi fornite dall’America sono in parte finite allo Stato Islamico. E intanto cresce il flusso di combattenti stranieri in arrivo in Siria per rafforzare i jihadisti: aumentano al ritmo di mille al mese. Sono arrivati in 30.000 dal 2011. È un disastro che in parte coinvolge l’Onu. Proprio qui un anno fa Obama riuscì a far passare al Consiglio di sicurezza una risoluzione vincolante per bloccare l’afflusso di combattenti dal resto del mondo verso le zone controllate dallo Stato Islamico. E invece le frontiere di tutti i paesi (dalla Turchia alla Francia, agli stessi Stati Uniti) continuano ad essere dei colabrodo, per i militanti che partono ad arruolarsi sotto le bandiere della jihad. In quanto ai bombardamenti aerei lanciati dalla coalizione a guida Usa: forse hanno fermato l’espansione dello Stato Islamico in nuove aree, di certo non lo hanno messo in ginocchio. A conferma che la strategia americana è in una impasse, c’è la partenza improvvisa del generale John Allen che guidava la coalizione anti-Is.
È qui che interviene Putin. Il presidente russo accusa Obama di avere sbagliato: il problema della Siria non è Assad; qualsiasi azione per rovesciarlo rischia di riprodurre lo scenario della Libia quando un intervento militare occidentale eliminò Gheddafi per poi lasciare un vuoto riempito da guerra civile e fondamentalisti. Ieri Putin ha detto alla tv americana Cbs: «Non c’è un’altra soluzione alla crisi siriana che non il rafforzamento delle strutture di un governo effettivo e dargli aiuto nella lotta contro il terrorismo». Una posizione che trova allineato con la Russia anche l’Iran.
Obama sta valutando i pro e i contro dell’offerta di Putin. Facile elencare gli svantaggi. La Russia vuole rientrare in gioco come uno degli attori che contano in Medio Oriente. Puntellare Assad serve a consolidare l’unica base militare che Mosca possiede nel Mediterraneo. Dare l’avallo a un intervento russo può mettere l’America in posizione di grave imbarazzo, alla prima strage di civili (o di ribelli “laici”) perpetrata dai bombardieri di Putin. Come far digerire Assad, «macellaio del popolo siriano», all’opinione pubblica occidentale? Infine non c’è garanzia di successo: la guerra in Afghanistan persa dall’Urss ricorda che l’Armata rossa è tutt’altro che invincibile. Ma Obama è in una fase di ripensamento della strategia in Medio Oriente: se vuole evitare di essere risucchiato in un conflitto terrestre, e se lo Stato islamico è il pericolo numero uno, l’America deve appoggiarsi su combinazioni di alleanze. “Il nemico del mio nemico, è mio amico”, la vecchia regola della realpolitik sarà una delle opzioni nel faccia a faccia di oggi.
«Secondo le regole europee i rifugiati hanno diritto di scappare dalla guerra eppure una direttiva impedisce alle compagnie aeree di prenderli a bordo senza rischiare pesanti sanzioni».

Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2015 (m.p.r.)

Il mese scorso verrà ricordato come un momento di svolta nel dramma dei migranti in Europa. La Germania ha di fatto sospeso per i rifugiati siriani Dublino II, il trattato Ue che obbliga i richiedenti asilo a farsi registrare nel primo Paese in cui arrivano. Per di più si è impegnata a non mettere un tetto al numero dei rifugiati disposta ad accettare sfidando gli altri Paesi europei a fare un passo avanti. Da anni l’opinione pubblica vede rifugiati che muoiono in barconi sovraffollati e pericolanti che tentano di attraversare il Mediterraneo. Immagini del genere arriveranno ancora. I trafficanti di persone continueranno ancora a farsi pagare migliaia di dollari per imbarcare migranti disperati sulle loro carrette del mare.
Questo accade perché la principale ragione per cui i migranti scelgono le pericolose imbarcazioni, la Direttiva 51/2001/CE, non ha in vista emendamenti e non darà nemmeno adito ad un dibattito. La direttiva Ue è stata approvata nel 2001, stabilisce che i vettori - di compagnie aeree o navali - hanno la responsabilità di garantire che gli stranieri diretti verso l’Unione europea siano i possesso di documenti di viaggio validi. Qualora i viaggiatori arrivino nella Ue e vengano respinti, le compagnie aeree sono tenute a pagare il biglietto di ritorno in patria. Inoltre le compagnie aeree possono vedersi comminare un multa che va dai 3000 ai 5000 euro. Per evitare le sanzioni, le compagnie aeree sono diventate diligenti nell’impedire a chi non è provvisto di passaporto o visto d’ingresso di imbarcarsi sui loro aerei.
Pensata per combattere l’immigrazione clandestina, la direttiva sembra fare una eccezione per i richiedenti asilo: “l’applicazione di questa direttiva”, dispone l’articolo 3, “non modifica le obbligazioni derivanti dalla Convenzione di Ginevra per ciò che concerne lo status di rifugiati”. Ma il personale delle compagnie aeree non è qualificato per valutare lo status di chi sostiene di essere un rifugiato e le compagnie preferiscono sbagliare per eccesso di cautela. In pratica, la disposizione si riduce a poco più di una affermazione di principio senza conseguenze pratiche. Di conseguenza, grazie alla direttiva, l’Unione europea è riuscita a liberarsi della responsabilità di esaminare le richieste della maggior parte dei richiedenti asilo scaricandola sulle compagnie private.
La conseguenza è che il primo filtro invece di essere gestito da funzionari competenti è generalmente affidato agli impiegati dei check-in che dalle loro compagnie di appartenenza ricevono l’ordine di rifiutare l’imbarco a chiunque non dimostri in maniera inoppugnabile che ha il diritto di recarsi in un Paese europeo. Questo atteggiamento funge da deterrente – e spinge le persone nelle braccia delle carrette del mare. Le famiglie non hanno altre ragioni per pagare migliaia di euro per imbarcarsi su una trappola mortale galleggiante invece delle poche centinaia di euro che costerebbe un breve e comodo volo.
Se l'Europa vuole davvero impedire altri morti in Mediterraneo deve abrogare la direttiva o, quanto meno, sostituirla con disposizioni più umane e giuste. Tanto per cominciare la Ue i suoi Stati membri debbono assumersi la responsabilità di esaminare le richieste dei rifugiati invece di affidare questo compito alle compagnie aeree. La Ue deve anche eliminare le sanzioni a carico delle compagnie aeree che fanno entrare rifugiati in Europa. Infine, i costi del rimpatrio - laddove necessari - vanno suddivisi tra Stati membri e Ue. L’abolizione delle restrizioni sui viaggi aerei potrebbe potenzialmente far aumentare il numero di richiedenti asilo.
L’Europa dovrebbe essere in grado di fare fronte a tale incremento. La Germania sta già abolendo i tetti al numero di rifugiati che è disposta ad accogliere e promette di ridurre in maniera significativa i tempi di esame delle richieste di asilo. Altri Stati membri potrebbero seguire l’esempio introducendo procedure più rapide per l’esame delle richieste di asilo e, se necessario, per il rimpatrio. La Ue può sostenere i Paesi membri istituendo una infrastruttura europea con il compito fungere da primo filtro dei rifugiati – affidandola a funzionari pubblici esperti e non agli addetti al check-in degli aeroporti – e un fondo comune europeo per far fronte ai costi di rimpatrio.
Questo sistema moltiplicherebbe la documentazione, i controlli e la possibilità di seguire i casi: è più facile registrare e seguire gli spostamenti di chi arriva in un aeroporto che di coloro che sbarcano su spiagge deserte e fanno del loro meglio per non farsi individuare fino al raggiungimento della destinazione desiderata. In alternativa la Ue potrebbe creare strutture di accoglienza e controllo in Paesi sicuri fuori della Ue garantendo un viaggio senza rischi ai potenziali migranti – sebbene sia difficile individuare un Paese disposto a svolgere questo compito a beneficio dell’Unione Europea.
Se l'Europa desidera che non muoiano più migliaia di persone in Mediterraneo, non basta aspettare sulla spiaggia con le coperte o inviare imbarcazioni di salvataggio. Se l’Europa vuole che la gente smetta di annegare, deve consentire a questa gente di volare.
(Traduzione di Carlo Antonio Biscotto)

Dimi Reider è un giornalista e blogger israeliano, co-fondatore di

+972 Magazine. È anche un associate fellow del European Council on Fo re i g n Relations (ECFR), sul cui sito è pubblicata la version e integrale di questo articolo, uscito negli Usa sulla rivista Foreign Affairs

«I nazionalisti conquistano la maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento catalano. La cronaca e l'intervista di Alessandro Oppes a Fernando Savater: «Sono solo elezioni regionali, ma i secessionisti le hanno trasformate in un plebiscito sull’indipendenza». La Repubblica, 28 febbraio 2015 (m.p.r.)
NELLE VIE DI BARCELLONA L'ESULTANZA
“ABBIAMO VINTO. ORA L'INDIPENDENZA”
di Alessandro Oppes

Barcellona. Un boato squarcia la notte sulla Plaça Comercial. Poi l’applauso, lo slogan ritmato di “In-Inde-Independencia”, e subito la folla intona Els Segadors, l’inno nazionale di quello che sperano possa diventare presto un nuovo Stato. Bastano i primi exit-poll trasmessi alle 8 della sera sui maxischermi allestiti nella roccaforte separatista del quartiere del Born, davanti al vecchio mercato in stile modernista riconvertito in centro culturale icona delle rivendicazioni nazionaliste, per scaldare gli animi, per scatenare l’euforia. Qui il listone di Junts pel Sí , nato dall’accordo tra il president Artur Mas e il leader repubblicano Oriol Junqueras, ha stabilito il suo quartier generale nella speranza di poter celebrare una nottata storica. E i dati, poi confermati dal conteggio ufficiale delle schede, gli danno ragione.

Il fronte secessionista supera l’obiettivo minimo della maggioranza assoluta di 68 seggi (ne ottiene 73), indispensabile per restare al governo della regione. Contrariamente alle prime proiezioni che gli assegnavano anche la maggioranza assoluta dei voti, tanto più significativa se si considera l’altissima affluenza alle urne, la più alta di sempre, si ferma invece al 48 per cento. Un risultato che Mas celebra comunque come un trionfo, ballando tra i suoi fan a tarda notte sul palco del Born. «Ha vinto il sì e ha vinto la democrazia», esulta il presidente, che promette di amministrare la vittoria «con senso di concordia rispetto alla Spagna e all’Europa». È presto per sapere se forzerà i tempi della minacciata dichiarazione unilaterale di indipendenza o esplorerà tutte le possibili vie di dialogo. Il listone ottiene 62 seggi, a cui vanno aggiunti i 10 della Cup, la frangia di estrema sinistra del blocco indipendentista. Un raggruppamento ideologicamente distante dalle posizioni neoliberali di Mas, però unito a lui dalla rivendicazione di una Catalogna libera dall’abbraccio di Madrid.
Per il resto, sul fronte del “no” al divorzio dallo Stato centrale, risalta l’affermazione di Ciudadanos, il volto amabile dell’anti-nazionalismo (25 seggi contro i 9 di tre anni fa), in contrasto con il crollo verticale del Pp di Rajoy, che quasi vede dimezzati i voti (11 seggi, ne aveva 19) ed è ridotto a penultima forza con rappresentanza parlamentare. Resistono i socialisti, leggermente in calo ma meno di quanto ci si potesse aspettare, che con 16 seggi (nel 2012 ne ottennero 20) surclassano l’alleanza di sinistra Catalunya Sí que es Pot: un fiasco clamoroso per Podemos (non ha convinto il messaggio di Pablo Iglesias che non dice sì all’indipendenza ma propone un referendum se arriverà a conquistare la Moncloa a dicembre): l’apporto di Podemos alla coalizione è stato nullo, anzi penalizzante per gli eco-socialisti di Iniciativa per Catalunya, che tre anni fa da soli avevano conquistato 13 seggi, mentre questa volta con una campagna monopolizzata dalla formazione“viola” sono scivolati a 11.
Che la Catalogna vivesse una giornata potenzialmente storica, si è capito sin dal primo mattino, con lunghe code ai seggi (oltre il 77 per cento l’affluenza dieci punti in più rispetto al 2012). Nel cortile del Col-legi La Salle, a decine si accalcano in coda con la “papeleta” in mano. «Mai vista tanta gente», assicura un rappresentante di lista di Junts pel Sí, già convinto che possa essere un buon segnale per l’opzione secessionista. Siamo nel Barri de Gràcia, roccaforte indipendentista, dove tra vicoli e piazzette è difficile vedere anche un solo edificio che non abbia almeno una estelada esposta al balcone. Avvolto nell’emblema del “nou país”, lo Stato nuovo vagheggiato da Mas e soci, un anziano con barba bianca, pattini a rotelle ai piedi, gira come una trottola da un capo all’altro della Plaça de la Revolució, convinto probabilmente di aver scelto il posto giusto per celebrare una giornata decisiva.
Le operazioni di voto procedono in modo pacifico, senza incidenti di rilievo. La polizia nazionale, accorsa in forze da Madrid - 500 agenti inviati dal ministro dell’Interno - mantiene una presenza discreta: vigila sulle sedi degli edifici che ospitano uffici dell’amministrazione centrale e niente più, qui dell’ordine pubblico si occupa il corpo dei Mossos d’Esquadra, dipendente dal governo regionale. Qualche momento di tensione si vive sotto i riflettori di tv e fotografi quando il president Artur Mas arriva con la moglie Helena Rakosnik al seggio vicino al suo elegante appartamento di Carrer Tuset, nel quartiere alto-borghese di Sant Gervasi. Militanti di Vox, un partito irrilevante di ultradestra (roba da zero virgola) sfoderano due bandiere spagnole e inneggiano all’unità nazionale. I fan del “procés” separatista tuonano “independencia”. Espulsi i provocatori torna la calma. All’uscita, in un breve messaggio “urbi et orbi” in catalano, spagnolo, inglese e francese, Mas dice che, comunque andasse a finire, «la democrazia ha vinto, in Catalogna, in Spagna e in Europa».

"QUESTO VOTO È STATO UN IMBROGLIO. UN REFERENDUM L'AVREBBERO PERSO

intervista a Fernando Savater
di Alessandro Oppes

Dicano pure quello che vogliono, però quale che sia il risultato, si tratta di normali elezioni regionali trasformate in modo fraudolento in una sorta di referendum. È il filosofo Fernando Savater, attivo da sempre nel combattere ogni tipo di nazionalismo, a cominciare da quello che nel suo Paese Basco sfociò nella barbarie terroristica dell'Eta, non ci sta a fare concessioni al fronte vittorioso di Artur Mas.

Professor Savater, a questo punto cosa succede?
Il fatto che la vittoria di Junts pel S’ in una consultazione elettorale che legalmente doveva servire solo per rinnovare il Parlamento regionale venga interpretato come un avallo alle loro aspirazioni indipendentiste, è un qualcosa che non posso accettare.
Però il fatto di aver ottenuto un’ampia maggioranza, unito all’altissima affluenza alle urne, non potrebbe dare al governo catalano una maggiore forza per avviare un negoziato con Madrid?
Il governo centrale può negoziare ciò che gli è permesso dalle leggi. Non può trattare né sulla dissoluzione del paese né sul fatto che una parte dei cittadini perdano la loro cittadinanza. La cittadinanza è mia, non è del governo. Può al limite discutere su eventuali concessioni di carattere amministrativo che riguardano l'autonomia regionale.
Non pensa che ci si dovrebbe comunque attendere una proposta di qualche tipo da parte di Rajoy, fermo da tempo sulla linea della politica del muro contro muro?
A questo punto, forse dovremo aspettare le prossime elezioni legislative di dicembre, e vedere se sarà lui o qualcun altro a dover instaurare una fase di dialogo. Io non accetto che esistano questi "cittadini catalani” di cui si parla: questa è una regione che fa parte dell'amministrazione dello Stato spagnolo, e quelli che hanno votato sono cittadini spagnoli residenti in Catalogna e non altro. Non credo a un popolo catalano più o meno mitologico, non mi pare debbano avere diritti speciali, diversi rispetto a quelli del resto della popolazione spagnola. Culturalmente hanno una loro specificità, ma politicamente no.
Ma, conoscendo un po’ il percorso politico di Artur Mas, pensa che possa puntare già alla rottura definitiva, o che invece esistano margini perché si possa tornare indietro?
È difficile dirlo, perchè Mas ha cambiato idea tante volte, fino a convertirsi in tempi recenti all'indipendentismo. Ma per me fa lo stesso, perchè non credo che nessuno abbia il diritto di violare la legalità vigente.
Crede che il governo Rajoy abbia la capacità di far fronte alla sfida, ora che i separatisti si sentono molto forti?
Il governo dovrebbe servire per questo: per affrontare le sfide, per quanto complicate possano essere. Così come ha fatto fronte a situazioni particolarmente delicate come è stato ad esempio il terrorismo. Altrimenti, visto che fra tre mesi si vota per le legislative, bisognerà scegliere un esecutivo che sia in condizioni di risolvere i problemi.
Fino a pochi anni fa, il centro della sfida nazionalista al potere centrale era localizzato nel Paese Basco. Perché all’improvviso si è spostato verso la Catalogna?
È successo con l'inizio della crisi economica e quando sono cominciati a emergere gravi casi di corruzione in Catalogna. Quando le cose andavano bene e non c'erano scandali in vista, l'indipendentismo in Catalogna era una questione quasi folcloristica. Poi è arrivata la recessione, il governo Mas ha messo in pratica drastici tagli allo stato sociale e, al tempo stesso, il leader storico dei nazionalisti Jordi Pujol è stato travolto da uno scandalo monumentale. L'opzione separatista è emersa per tappare tutto questo.
Dovrà ammettere però che non è stata solo una mossa strategica di Mas: moltissima gente si è unita alla causa.
Sì, questo è vero. Però i catalani sono sette milioni. E poniamo pure che fossero tutti indipendentisti, cosa che ovviamente non è vera: non potranno mai imporre la loro volontà a 40 milioni di spagnoli.
Perché non piacciono ai catalani le “terze vie”, le soluzioni di compromesso?
Un po' perchè la propaganda a senso unico dei mezzi d'informazione pubblici non lascia spazio ai discorsi alternativi. E poi la terza via non si è mai capito bene che cosa sia. I socialisti, che la propongono, non l'hanno spiegata né bene né male, non l'hanno proprio spiegata. Figuriamoci se la possono capire gli elettori.
Più che sulla contrapposizione modello Europa, modello USA, si dovrebbe riflettere sul perché il "modello europa" abbia dato troppo peso ad un singolo stato, la Germania.

La Repubblica, 27 settembre 2015 (m.p.r.)

Lo scandalo Volkswagen è destinato ad avere ripercussioni gravissime per l’azienda e conseguenze per il prestigio e l’influenza della Germania. Tuttavia non va considerato solo un “brutto affare” tedesco. Il caso presenta alcuni aspetti trascurati che ci riguardano direttamente e dovrebbero suscitare interrogativi e incrinare certezze.

Nella Volkswagen lo Stato (della Bassa Sassonia) è azionista con il 20 per cento e con una golden share che gli concede di influire sul controllo. Qual è la vera ragione per la quale uno Stato vuole essere azionista di controllo di una azienda che opera sul mercato in concorrenza al privato?
Me lo sono recentemente domandato su queste colonne a proposito delle numerose imprese italiane a partecipazione pubblica. La risposta “alta” è che l’azionista pubblico garantirebbe una migliore governance aziendale, la possibilità di perseguire progetti pluriennali senza dover rincorrere utili di breve periodo, e il rispetto delle regole nell’interesse di tutti, e non dei soli azionisti e manager.
Il caso Volkswagen è la dimostrazione dell’esatto contrario: lo Stato azionista spesso si comporta peggio dei privati.
Come si è verificato in tante nostre partecipate pubbliche. Ora ne abbiamo una conferma dall’azienda modello della “cultura d’impresa” tedesca. La truffa mondiale della Volkswagen non dovrebbe essere un fulmine a ciel sereno: pochi anni fa, è stata al centro di uno dei più gravi scandali finanziari in Europa. Segno di una cultura d’impresa inquinata e di una governance a dir poco carente. Nel 2006 la Porsche, altra azienda simbolo tedesca, dell’omonima famiglia, comunica di avere il 30 per cento della molto più grande Volkswagen, alla cui guida c’è Ferdinand Piech, nipote del fondatore della Porsche.
Una partecipazione incomprensibile, vista l’enorme sproporzione dimensionale. Due anni dopo, la Porsche annuncia di aver rastrellato segretamente il 43 per cento e un altro 31 per cento attraverso derivati. La sorpresa fa esplodere la Borsa: in due giorni il titolo guadagna il 500 per cento! Una scalata incomprensibile, data l’esistenza della golden share della Bassa Sassonia (senza che alcun accordo venga comunicato), e finanziata con ben 13 miliardi di debiti, che si pensa di rimborsare attingendo alla cassa della Volkswagen, in puro stile Gordon Gekko. Poi arriva la crisi finanziaria, le banche chiedono alla Porsche di rientrare e l’azienda rischia il default. Chi la salva? La Volkswagen! Inizialmente con un prestito tenuto segreto per mesi, poi con un investimento in Porsche, per rimborsare i suoi debiti, e acquisirne il controllo; ma lasciando alla famiglia Porsche circa il 30% per cento del capitale.
Durante l’intera vicenda, Ferdinand Piech, indiscusso “re” di Volkswagen (fino a questo aprile), siede nei Consigli di amministrazione di entrambe le società, alla faccia del più clamoroso conflitto di interesse. Poi unisce le sue azioni a quelle dei Porsche in una holding acquisendo il 51 per cento della Volkswagen, che ora ingloba Porsche. L’allora capo di Porsche se ne esce con 77 milioni di buonuscita; quello odierno di Volkswagen con 33. Il tutto sotto gli occhi vigili dello Stato e dei sindacati grazie al famoso modello di cogestione dell’economia sociale di mercato che tanti proseliti fa in Italia.
L’enormità del caso dovrebbe far riflettere sul ruolo dello Stato azionista, che nulla ha a che fare con la difesa degli interessi nazionali o le politiche per lo sviluppo e il sostegno alle imprese. La seconda lezione che il caso Volkswagen dovrebbe impartirci riguarda la definizione degli standard in Europa.
La tendenza è di attribuire alla Commissione Europea e agli Stati Membri, la definizione o promozione degli standard per l’industria, nella convinzione che il coordinamento pubblico sia più efficiente del caos “distruttivo” della concorrenza tra standard che prevale negli Usa.
Il motore diesel, nonostante fosse notoriamente più inquinante, specie per le prestazioni elevate, è diventato in pochi anno lo standard europeo (oltre il 50 per cento delle vettura circolanti) grazie a un vantaggio di prezzo del diesel per via di un minor carico fiscale; un bollo auto che non è correlato al reale inquinamento; e certificazioni ambientali fasulle, che molte analisi e centri da tempi segnalavano, ma che nessuna autorità pubblica di nessun Paese europeo ha mai preso seriamente in considerazione.
Perché l’interesse dell’industria in Europa ha prevalso su quello dei cittadini. Come nel più arrembante capitalismo di mercato. Ma con un difetto in più: lo standard unico deciso dal centro facilita inizialmente le imprese, ma scoraggia poi l’innovazione creativa che deriva dalla concorrenza per ricercare standard alternativi che possano dare un vantaggio competitivo.
Così è la giapponese Toyota che ha inventato il motore ibrido, mentre la Tesla negli USA, con le sue auto sportive elettriche, vale in borsa 34 miliardi (contro i 22 di FCA). In Europa sarebbe stato impossibile. Un errore già fatto con il GSM: a differenza di Giappone e Usa, l’Europa scelse uno standard unico per la telefonia mobile, il GSM, che inizialmente permise all’industria del nostro continente di prevalere; ma grazie alla concorrenza creativa, in pochi anni americani e asiatici ci hanno raggiunto e superato.
Un ultimo punto riguarda la protezione dei consumatori. In Europa domina l’idea che debba farsene carico lo Stato, con una imponente struttura di regole, autorizzazioni e prescrizioni richieste da una qualche Autorità per poter avviare un’attività o commercializzare nuovi prodotti. La verifica a posteriori del rispetto delle regole, e le eventuali sanzioni, sono compito delle stesse Autorità di regolamentazione ( e del potere giudiziario in caso di illeciti). Negli Usa si attribuisce meno peso alla regolamentazione preventiva, a favore dell’iniziativa economica, e si punta su pesanti sanzioni, specialmente economiche, a posteriori. Inoltre la tutela dei diritti è anche nelle mani dei consumatori, che dispongono degli strumenti giuridici per farsi valere (per esempio, la class action). In poche parole, al vaglio preventivo dei burocrati e all’intervento delle procure, si preferisce il randello nodoso della sanzione che può portare al dissesto economico.
Un deterrente che funziona ma che in Italia è osteggiato perché potrebbe danneggiare la stabilità dell’impresa: gli interessi di soci, creditori e dipendenti da noi prevalgono sempre su quelli dei consumatori. Ai tanti fautori del modello europeo, vale la pena ricordare che la truffa della Volkswagen è stata scoperta grazie all’International Council on Clean Transportation: un ente privato, finanziato da privati.

l manifesto, 27 settembre 2015 (m.p.r.)

Le auto­rità Ue sape­vano degli stru­menti per truc­care le misu­ra­zioni delle emis­sioni auto fin dal 2013: lo afferma il quo­ti­diano bri­tan­nico Finan­cial Times, in una rico­stru­zione pub­bli­cata ieri. Tesi, peral­tro, già anti­ci­pata due giorni fa da un arti­colo di Gior­gio Fer­rari su il mani­fe­sto.

Il gior­nale inglese spiega che un rap­porto del Joint Research Cen­ter dell’Ue era stato messo a dispo­si­zione dei ver­tici comu­ni­tari già due anni fa (ma i primi dati risal­gono al 2011), e con­te­neva il sug­ge­ri­mento di effet­tuare i test sui gas inqui­nanti su strada e non “in labo­ra­to­rio”: le offi­cine attrez­zate, cioè, dove si simula l’andatura delle auto. Indi­ca­zione che arriva anche, da almeno un anno, dall’Inter­na­tio­nal Coun­cil on Clean Trans­por­ta­tion (Icct), ente finan­ziato dalle fon­da­zioni create da Bill Hew­lett e David Pac­kard (noti magnati dell’elettronica): è l’Icct, isti­tuto ame­ri­cano, ad aver sve­lato i truc­chi di Volk­swa­gen sul Nox, e ad aver spie­gato che le emis­sioni omo­lo­gate sono supe­rate da quelle su strada addi­rit­tura nell’ordine del 40%.

Il soft­ware, come è noto, era instal­lato nei motori die­sel, e atti­vava una sorta di blocco — o meglio, di forte limi­ta­zione - delle emis­sioni nocive solo quando la mac­china era sot­to­po­sta a dei test: rico­no­sci­bili per­ché la mac­china ha un’andatura più rego­lare e soprat­tutto non effet­tua curve, muo­ven­dosi sem­pre in una sorta di ret­ti­li­neo vir­tuale (la vet­tura è in realtà ferma, si muove su dei rulli, come un tapis rou­lant). Una volta in strada, l’emissione veniva di nuovo “libe­ra­liz­zata”: e via a un inqui­na­mento che, come detto, poteva supe­rare anche del 40% quello misu­rato sul per­corso del test.

Il Finan­cial Times punta il dito sulla lobby dei costrut­tori auto­mo­bi­li­stici, col­pe­vole a suo parere di aver truc­cato il sistema di rile­va­mento dei dati: «L’incapacità delle auto­rità rego­la­to­rie in tutta la Ue di denun­ciare que­sti truc­chi porta alla luce il potere delle lobby dell’industria auto­mo­bi­li­stica euro­pea che ha scom­messo molto sui die­sel - scrive l’Ft - Circa il 53% delle nuove auto ven­dute nella Ue sono die­sel, rispetto al circa 10% dei primi anni ’90».

Quindi, insomma, il die­sel è un grande affare, e così si com­pren­dono gli inte­ressi - e oggi i “drammi” indu­striali e finan­ziari - che gli girano intorno. E il potere delle lobby, a Bru­xel­les, è for­tis­simo, si sa: Green­peace indi­vi­dua una vera e pro­pria “lobby del die­sel”, che avrebbe inve­stito solo nel 2014 ben 18 milioni e mezzo di euro per soste­nere la pro­pria azione e difen­dere il pro­prio “credo”.

La Com­mis­sione Ue, dal canto suo, risponde a que­ste accuse tra­mite un por­ta­voce: spetta ai sin­goli stati, dicono a Bru­xel­les, sco­vare even­tuali truc­chi come quelli messi in piedi da Volk­swa­gen (e in effetti è vero che la rego­la­zione su que­sto ter­reno è lasciata molto agli Stati mem­bri, in par­ti­co­lare ai governi e ai mini­stri dell’Ambiente). Dall’altro lato, le stesse auto­rità della Ue spie­gano di aver voluto intro­durre i test su strada fin dal pros­simo anno: come dire, noi, il nostro, lo abbiamo fatto.

Dal fronte ita­liano ieri ha par­lato il mini­stro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Temo - ha detto - con­se­guenze che mi auguro siano limi­tate. A catena ci potreb­bero essere effetti sull’industria ita­liana che non ha colpa». Il pro­blema, ha sot­to­li­neato Padoan, «non è solo tede­sco ma anche euro­peo, oltre che ame­ri­cano. In que­sto momento l’Europa sta facendo molta fatica a uscire dalle con­se­guenze della reces­sione e se la fidu­cia viene intac­cata, la pro­pen­sione all’investimento si inde­bo­li­sce», men­tre «l’azione di poli­tica eco­no­mica di que­sto governo è volta a con­so­li­dare la fiducia».

Ma inie­zioni “ren­ziane” di fidu­cia o meno, sono comun­que circa 1 milione le auto con la cen­tra­lina truc­cata in Ita­lia, a fronte dei 2,8 milioni di vet­ture tede­sche. In tutto, Volk­swa­gen si pre­para a effet­tuare un maxi-richiamo, scri­vendo per­so­nal­mente a tutti i clienti, che poi potranno effet­tuare una revi­sione, ovvia­mente gratuita.

«Sono in corso i con­trolli per veri­fi­care il danno pro­vo­cato anche in Ita­lia da Volk­swa­gen — ha spie­gato ieri il vice­mi­ni­stro ai Tra­sporti, Ric­cardo Nen­cini — La pre­vi­sione è di chiu­dere que­sta inda­gine entro pochi mesi. C’è una stima di mas­sima che parla di circa 1 milione di vei­coli coinvolti»

Lo scandalo Volkswagen ha molte sfaccettature e si presta a diverse considerazioni. Per cui è giusto che si continui a parlarne e che anzi qualcuno possa indagare sulla materia investito di poteri giudiziari. Ma questa volta non c’è un giudice a Berlino. Né purtroppo altrove. Vincenzo Comito in un articolo sul manifesto di qualche giorno fa ha titolato mozartianamente “Così fan tutte”. E’ vero e questa è forse la prima lezione che si può trarre dall’affaire di Wolsburg. Un tempo si parlava della finanza come di un ambientaccio, frequentato da lupi di varia taglia e dimensione, pronti ad imbrogliarti sul Libor, come sul mercato dei cambi. Bertolt Brecht, citatissimo anche in tempi recenti, si domandava se era più criminale rapinare una banca o fondarla. Ora avviene che non solo l’economia di carta si è mangiata quella reale, ma ha travasato in essa i suoi vizi congeniti. L’imbroglio e il virtuale prevalgono sulla qualità e sul reale. Anche per ciò che concerne la quotatissima manifattura tedesca.

Certo. Un capitalista integralmente onesto sta solo nelle utopie calviniste e in qualche rarissima eccezione che appunto conferma una regola generale fatta di piccole e grandi miserie morali. Questo avviene ora con maggiore intensità perché il mercato dell’auto è da tempo un mercato sostitutivo più che accrescitivo. Vi sono limiti ambientali e sociali che inibiscono il dilagare dell’uso dell’automobile e quindi della sua commercializzazione nel mondo intero. Se i primi possono essere aggirati truccando i dati – come è avvenuto in questo caso e continua ad avvenire in tanti altri con la complicità generale – i secondi sono strutturali. Né in Africa, né in tante amplissime zone del mondo le persone hanno un reddito che neppure lontanamente può fare loro sperare di diventare possessori di un’automobile. Né il capitalismo globalizzato accenna minimamente ad assottigliare le diseguaglianze. Anzi le dilata in continuazione, come, da ultimo, ci ha ben spiegato e documentato Thomas Piketty.

Quindi la lotta della competitività nel campo dell’automotile avviene su un terreno relativamente ristretto. Appena un paese emergente apre i propri mercati ci si buttano a pesce. Quindi da un lato si cerca di sfondare laddove il mercato è già saturo con modelli innovativi (è il caso del motore a diesel negli Usa), dall’altro diventa feroce la competizione sui nuovi lembi di mercato che emergono. Non è forse un caso che la vicenda Volkswagen sia stata disvelata dall’Epa, l’agenzia statunitense incaricata dei controlli ambientali. Anche se qualche dietrologo punta di più sulla faida infinita tra i membri della famiglia Porsche – l’inventore del Maggiolino – e l’attuale management Volkswagen. Probabilmente gli Usa hanno voluto avvertire la Germania che non intendono assistere inerti al suo tentativo di affrontare da sola – asservendo l’Europa a questo disegno – le sfide della globalizzazione. La stessa ragione per cui, probabilmente, la Merkel come i suoi alleati, sapevano e tacevano.

Ma lo scandalo solleva un altro problema ancora più grosso, sia perché avviene alla vigilia del nuovo incontro internazionale di Parigi Cop21, dedicato all’abbassamento delle emissioni per diminuire il riscaldamento globale; sia perché sono in corso le trattative, peraltro segrete, per concludere un accordo di “libero scambio” fra le due sponde dell’Atlantico, il famoso Ttip. Serve agli Usa distruggere l’immagine di un’Europa virtuosa in materia ambientale, contrapposta ad un’America dalla manica più che larga e renitente a ogni forma di stringente accordo in questo campo.

Ma soprattutto, e questo riguarda in particolare il Ttip, lo scandalo Volkswagen ci dimostra ancora una volta – ce ne fosse bisogno – che il moderno capitalismo nel suo complesso, con accelerazioni e responsabilità dirette che dipendono dalle circostanze e dai momenti, non sopporta leggi e norme, né quelle dei singoli paesi in cui opera, né quelle contenute negli stessi trattati che firma. E’ proprio il caso della Germania in surplus esportativo da più di sei anni in barba ai vincoli del Trattato di Maastricht che invece viene fatto valere solo per chi sgarra sul debito. Nel trattato di libero scambio transatlantico si prevede che se la legislazione di un paese o di un ente locale entra in contraddizione con le esigenze esortative di una multinazionale, questa può fare ricorso e un minicomitato di “saggi” definito a livello internazionale può condannare l’istituzione elettiva a rivedere la propria normativa sulla materia. E’ la morte del diritto. E’ la legalizzazione dell’imbroglio, che fin qui è avvenuto per via pratica.

Ma le organizzazioni sindacali non hanno nulla da dire? Questo è il punto più delicato che la vicenda Volkswagen solleva. Infatti nell’industria tedesca, o meglio in parte di essa e certamente nella impresa di Wolsburg, vige la cosiddetta mitbestimmung, ossia la codeterminazione in virtù della quale i rappresentanti dei lavoratori siedono in un comitato di sorveglianza. La mitbestimmung è stata uno dei motivi di vanto dell’esperienza della socialdemocrazia tedesca, oggi peggio che opaca, proprio perché si basa non sull’assunzione del lavoro dentro la logica stretta dell’impresa – che è invece l’essenza del “marchionnismo” – ma sul riconoscimento di una dualità tra capitale e lavoro, dando però a quest’ultimo un ambito nel quale fare valere le sue ragioni anche sugli indirizzi e sulle scelte produttive. E’ lecito chiedersi e indagare su come è stata esercitata e se è stata esercitata, la sorveglianza in questo caso. Quello che è chiaro è che anche la mitbestimmung mostra la corda a fronte delle dimensioni multinazionali dell’impresa e della costruzione di spazi extrasindacali ed extragiudiziali internazionali da parte dell’impresa medesima. Per queste ragioni lo scandalo Volkswagen pone interrogativi seri al movimento sindacale nel suo complesso, ma a quello tedesco ed europeo in particolare.

Sindacati e sovrintendenze, burocrazia e Senato, Presidente del Senato e lavoratori: solo bersagli dell'arroganza del Monarca. Ma «Le ultime villanie del premier dicono qualcosa di nuovo su noi tutti: che ci stiamo assuefacendo a una volgarità e una violenza che dovrebbero destare allarme e forse scandalizzare». Il manifesto, 27 settembre 2015

Ne ha dette, ne dice gior­nal­mente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime ester­na­zioni del pre­si­dente del Con­si­glio urta i nervi in modo par­ti­co­lare, sì che si stenta a dimen­ti­car­sene. «I sin­da­cati deb­bono capire che la musica è cam­biata», ha sen­ten­ziato con rara ele­ganza a mar­gine dello «scan­dalo» dell’assemblea dei custodi del Colos­seo. Non sem­bra che la dichia­ra­zione abbia susci­tato rea­zioni, e que­sto è di per sé molto signi­fi­ca­tivo. Eppure essa appare per diverse ragioni sin­to­ma­tica, oltre che irricevibile.

In effetti la roz­zezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti deci­sa­mente per la parte dato­riale, degra­dando i lavo­ra­tori a fan­nul­loni e i sin­da­cati a gra­vame paras­si­ta­rio che si prov­ve­derà final­mente a ridi­men­sio­nare. È una cifra di que­sto governo un that­che­ri­smo ple­beo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui tra­bocca la società scom­po­sta dalla crisi. Sem­pre dac­capo il «capo del governo» si ripro­pone come ven­di­ca­tore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, com­plice la gran­cassa media­tica, a una pla­tea indi­stinta al cui cospetto agi­tare ogni volta il nuovo capro espiatorio.

Sin qui nulla di nuovo dun­que. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espres­siva. Un les­sico che si fa sem­pre più greve, pros­simo allo squa­dri­smo ver­bale di un novello Fari­nacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una demo­cra­zia costi­tu­zio­nale non ci si dovrebbe lasciare andare al man­ga­nello.

«La musica è cam­biata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimen­ti­care i benea­mati «gufi». Quest’uomo fu qual­che mese fa liqui­dato come un cafon­cello dal diret­tore del più palu­dato quo­ti­diano ita­liano. Quest’ultimo dovette poi pron­ta­mente slog­giare dal suo uffi­cio, a dimo­stra­zione che il per­so­nag­gio non è uno sprov­ve­duto. Sin qui gli scon­tri deci­sivi li ha vinti, e non sarebbe super­fluo capire sino in fondo per­ché. Ma la cafo­ne­ria resta tutta. E si accom­pa­gna alla scelta con­sa­pe­vole di sele­zio­nare un udi­to­rio di faci­no­rosi, di fru­strati, di sma­niosi di vin­cere con qual­siasi mezzo — magari ven­den­dosi e sven­den­dosi nelle aule parlamentari. Secondo un’idea della società che cele­bra gli spi­riti ani­mali e ripu­dia i vin­coli arcaici della giu­sti­zia, dell’equità, della soli­da­rietà.

Di fatto il tono si fa sem­pre più arro­gante, auto­ri­ta­rio, duce­sco. Gli altri deb­bono, lui decide. Ne sa qual­cosa il pre­si­dente del Senato, trat­tato in que­sti giorni come quan­tità tra­scu­ra­bile. E qual­cosa dovrebbe saperne anche il pre­si­dente della Repub­blica, che evi­den­te­mente ha altro a cui pen­sare, visto che non ha fatto una piega - un silen­zio fra­go­roso - quando Renzi ha minac­ciato di chiu­dere il Senato e tra­sfor­marne la sede in un museo - per for­tuna non più in «un bivacco di mani­poli». E forse pro­prio qui sta il punto, ciò che non per­mette di libe­rarsi di que­sto fasti­dioso rumore di fondo.
Que­sta enne­sima vil­la­nia non aggiunge gran­ché a quanto sape­vamo già dell’inquilino di palazzo Chigi, del suo pro­filo, del suo, diciamo, stile. Dice invece qual­cosa di nuovo e d’importante su noi tutti, che ci stiamo assue­fa­cendo, che ci disin­te­res­siamo, che regi­striamo e accet­tiamo come nor­male ammi­ni­stra­zione una vol­ga­rità e una vio­lenza che dovreb­bero destare allarme e forse scan­da­liz­zare. Tanto più che non si tratta, almeno for­mal­mente, del capo di una destra nerboruta.

Nes­suno ha pro­te­stato, nes­suno ha rea­gito: men che meno, ovvia­mente, gli espo­nenti della «sini­stra interna» del Pd, in teo­ria attenti alla qua­lità della nostra demo­cra­zia e alle ragioni e alla dignità del mondo del lavoro. Que­ste parole sono sci­vo­late come acqua sul marmo, segno che le si è assunte come del tutto nor­mali, cose giu­ste dette al momento giu­sto. In effetti da un certo punto di vista indub­bia­mente lo sono. Quest’ultima aggres­sione si armo­nizza appieno con la «musica» che que­sto governo suona da quando si è inse­diato. Ma la forma è sostanza, soprat­tutto in poli­tica. E il sovrap­più di aggres­si­vità e di vol­ga­rità che la con­trad­di­stin­gue stu­pi­sce non sia stato nem­meno rilevato.

Evi­den­te­mente ci va bene essere gover­nati da uno che - al netto delle sue scelte, sem­pre a favore di chi ha e può più degli altri - non sa aprir bocca senza minac­ciare insul­tare sfot­tere ridi­co­liz­zare. Ci va bene la tra­co­tanza, ci piace la sup­po­nenza, ci seduce l’arroganza. Apprez­ziamo la vio­lenza che scam­biamo per forza e per auto­re­vo­lezza. Dovremmo riflet­terci un po’ su. Dovremmo fare più atten­zione alle parole dette e ascol­tate, avere mag­giore rispetto per noi stessi. E chie­derci final­mente che cosa siamo diven­tati e rischiamo di diven­tare segui­tando di que­sto passo.

«Era difficile per i conduttori commentare la risposta del congresso, diviso e confuso sulle reazioni da palesare. Gli applausi che si alzavano dall’ala repubblicana ad ogni accenno di dissenso su aborto e matrimonio gay, si spegnevano subito quando il discorso si spostava su armi, povertà, cambiamento climatico, migranti». Il manifesto, 26 settembre 2015 (m.p.r.)

New York. U n vero tornado, popegaddon, popezilla, si sprecano aggettivi e neologismi per descrivere l’effetto che sta avendo questa visita del papa negli Stati Uniti. Accolto dalla popolazione più come un referente politico che come un leader spirituale, il papa ha di fatto spiazzato tutti i livelli dell’accoglienza ufficiale americana, ad incominciare dai media tradizionali, prima tra tutte la televisione. La diretta del discorso al congresso è stata trasmessa da tutti i network principali ed era palpabile un certo imbarazzo dei conduttori per un personaggio che ha mischiato le carte scontentando (molto) gli amici tradizionali ma anche (un poco) i nuovi amici.

Il network CBS come commento al discorso dove, partendo con l’appello al diritto di vita dalla sua origine, si è concluso con una diretta condanna sulla pena di morte, è partito parlando dei problemi di sciatica del santo padre, un modo per prendere tempo ed evitare un commento a caldo. Era obiettivamente difficile per i conduttori commentare la risposta del congresso, diviso e confuso sulle reazioni da palesare. Gli applausi che si alzavano dall’ala repubblicana ad ogni accenno di dissenso su aborto e matrimonio gay, si spegnevano subito quando il discorso si spostava su armi, povertà, cambiamento climatico, migranti. Tra tutti i repubblicani solo Ben Carson ha apprezzato il discorso e non ne ha preso esplicitamente le distanze. Ted Cruz invece non ha fatto mistero del proprio disappunto e così, anche se in toni più pacati, i Cattolici per Jeb.
I democratici hanno avuto più occasioni per sciogliersi in calorosi applausi ma anche per loro i momenti di imbarazzo non sono mancati, soprattutto sul tema della pena di morte, argomento delicatissimo in ogni momento, ma soprattutto durante una campagna elettorale di fatto già iniziata. La pena di morte, pur restando "cara" al popolo americano, è comunque scesa alla percentuale più bassa degli ultimi quarant’anni. Ma se i media americani tradizionali (non solo la tv, anche la stampa trasuda imbarazzo per la difficoltà di inquadrare un personaggio tradizionalmente intoccabile ma mai, prima d’ora, così poco collocabile) hanno problemi di rappresentazione dell’evento, i social media vivono l’evento come esperienza collettiva. I carattere più socio politico che spirituale è evidente.
L’hashtag #PopeinUs, su twitter, raggruppa, il pensiero collettivo americano iperconnesso, che si mostra meno disorientato e più felice di vedere argomenti pesanti come macigni scagliati nel dibattito. Se per il Wall Street Journal la visita del papa è stata un’occasione per interrogarsi su chi siano, oltre a Bergoglio, i leader contemporanei mondiali, come si legge nell’articolo di Aaron David Miller, e concludere che al di là di questo controverso personaggio non si vedono altre personalità globali capaci di creare aspettativa e dibattito, su i social media ci si interroga sul senso in sé dei temi toccati. E ancora una volta ne esce fuori la fotografia di un paese i cui abitanti sono più avanzati di chi li rappresenta.
Anche politici come Bernie Sanders o Hillary Clinton hanno affidato a Twitter il proprio consenso su i temi affrontati al congresso e la stessa Casa Bianca ha più volte sottolineato le convergenze fra il punto di vista del Vaticano e quello dell’attuale amministrazione, in special modo quelle raggruppate nell’hashtag #actonclimat, riguardanti i passi concreti da fare a difesa dell’ambiente. L’altro grande concorrente dei media tradizionali, in questo caso con la televisione in cima alla lista, è stato Periscope, il metodo di livestream incorporato agli smartphone che da aprile veicola in rete le immagini video dei momenti topici statunitensi. Nella sera di giovedì, così come ci si aspetta venerdì, gli incontri del papa con i cittadini, dalla messa a St Patrick alla visita a Ground Zero o all’incontro di Central park, sono trasmessi da centinaia di connessioni livestream. Quello che si vede è una massa dove i cattolici provenienti da ogni parte d’America non sono la maggioranza. E, oltre ai cori da chiesa, molti sono i commenti su cosa sarà del futuro americano. E soprattutto se anche il prossimo presidente avrà tante opinioni in comune con questo papa
«Le apparenze sono di rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è un suo svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua».

La Repubblica, 26 settembre 2015
VI è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni.

E non farsi soltanto fuorviare dalle non edificanti schermaglie intorno alle modalità di elezioni del Senato. Il meccanismo messo a punto è molto semplice. Il Governo chiede ed ottiene dal Parlamento una delega per regolare questioni della massima importanza, che riguardano la vita delle persone e i caratteri che viene assumendo la stessa democrazia. Le apparenze sono quelle di un pieno rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è quella di un suo non indifferente svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua. La voce del Parlamento torna poi a farsi sentire quando è chiamato ad esprimere un parere, sia pure non vincolante, sui decreti predisposti dal Governo.

Ma che cosa accade quando la delega è sostanzialmente in bianco, o tale da attribuiti una larghissima discrezionalità, e il parere parlamentare viene considerato del tutto ininfluente? Si determinano una espropriazione del Parlamento e un trasferimento al Governo della parola ultima e definitiva addirittura in materia di diritti fondamentali. Un corto circuito che svuota di senso la garanzia costituzionale, fa nascere un problema di legittimità di questo modo di legiferare e chiamerà in causa la Corte costituzionale.
Non dimentichiamo che i temi dei controlli a distanza e delle intercettazioni erano stati finora affidati a norme di leggi la cui approvazione aveva visto il Parlamento come unico protagonista. Ora assistiamo ad un ulteriore accentramento di poteri nelle mani del Governo, che così si libera del Parlamento di cui viene certificata l’irrilevanza. E tutto questo avviene all’insegna di una forte perdita di trasparenza del processo legislativo nel suo insieme con il passaggio dalla sede parlamentare, sempre controllabile dall’opinione pubblica, alle opache stanze del governo.
Si ricordi che la caduta della “ legge bavaglio” sulle intercettazioni, di cui questo giornale fu protagonista, fu resa possibile proprio dall’esistenza di una situazione istituzionale che consentiva di intervenire e mobilitare l’opinione pubblica mentre l’iter parlamentare di quella legge era ancora in corso. Inoltre, i due casi qui discussi mostrano che si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione quella dei principi e dei diritti, di cui a parole viene dichiarata l’intoccabilità. Si possono accettare questi slittamenti progressivi, questa strisciante erosione delle garanzie?
Controlli a distanza e intercettazioni riguardano la stessa materia, quella della tutela della sfera privata. Vale la pena di ricordare, allora, che la norma sui controlli a distanza si trovava nello Statuto dei lavoratori e che - insieme a quelle sulle informazioni relative alle opinioni, sulle informazioni e i controlli medici - aveva creato la prima disciplina sulla sfera privata delle persone. Storicamente considerata come un diritto dell’”età dell’oro della borghesia”, il diritto alla privacy entra nel sistema italiano attraverso i diritti dei lavoratori, ventisette anni prima del riconoscimento per tutti della tutela dei dati personali.
Aggiornarla per effetto dell’incidenza delle nuove tecnologie? Certo, ma non come ha fatto il Governo, che la ha mantenuta per i controlli con telecamere, mentre la ha sostanzialmente cancellata per i controlli sui lavoratori effettuati raccogliendo i dati relativi all’uso di computer, telefoni cellulari, iPhone, iPad. La logica avrebbe voluto che le antiche garanzie fossero estese alle nuove tecnologie, assai più invasive di quelle passate perché consentono una sorveglianza continua su ogni mossa del singolo lavoratore, così legato da una sorta di guinzaglio elettronico a chi vuole controllarlo.
Con una singolare, e rivelatrice, schizofrenia istituzionale, mentre la sfera personale dei lavoratori viene assoggettata ad una assoluta trasparenza, si vuol far diventare opaca la sfera personale delle persone intercettate. Intendiamoci. La tutela di persone estranee all’oggetto delle intercettazioni merita d’essere tutelata, a condizione però che tutto questo non determini una compressione del diritto costituzionale all’informazione sul suo duplice versante, quello di chi informa e quello di chi deve essere informato.
Non dimentichiamo che il codice sull’attività giornalistica, a suo tempo approvato dal Garante per la privacy, prevede che le informazioni riguardanti le figure pubbliche sono tutelate solo se non hanno “alcun rilievo” per l’informazione dei cittadini. Questo è un criterio di carattere generale, che ha come fine la possibilità di esercitare un controllo diffuso sia su chi ha responsabilità e ruoli pubblici, e per ciò non può pretendere coperture di segretezza, sia su chi è chiamato a dare un seguito alle informazioni raccolte, magistrati compresi. Inoltre, le modalità di selezione delle informazioni prodotte possono incidere sul diritto di difesa, precludendo l’accesso a materiali che le parti potrebbero ritenere necessari appunto per le strategie difensive.
La garanzia di tutti questi diritti fondamentali viene sottratta non solo alla competenza diretta del parlamento ma, chiusa come sarà in una commissione ministeriale, pure allo sguardo dell’opinione pubblica, alla quale viene sottratta la possibilità di seguire il modo in cui si inciderà su quei diritti e di contribuire beneficamente ad una migliore disciplina. Si deve poi aggiungere che, come molti hanno sottolineato, la delega presenta oscurità e lacune tali da configurare, dietro l’apparenza delle precisazioni, un’attribuzione di larga discrezionalità a chi dovrà attuarla.
Saggezza vorrebbe che si interrompesse un procedimento legislativo così contorto e pericoloso. Si stralci al Senato la parte sulle intercettazioni e si restituisca al Parlamento il pieno potere di legiferare e all’opinione pubblica quello di far sentire la sua voce.
«Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni)».

La Repubblica, 26 settembre 2015

La Camera ha approvato in questi giorni l’articolo del disegno di legge sulla giustizia penale che delega il Governo a riformare le norme in materia di intercettazioni telefoniche. In questa occasione il Pd ha votato compatto. Il disegno di legge recepisce un emendamento passato in commissione Giustizia, relatrice Donatella Ferranti (Pd), che espone questo provvedimento ad una giustificata critica e a richieste di modifica richiamando l’attenzione del pubblico sul potere che la legge delega concede al Governo in una materia così delicata per i nostri diritti.

Il testo approvato elimina la possibilità di un’udienza filtro nel corso della quale le parti (il giudice e gli avvocati) avrebbero dovuto decidere le intercettazioni rilevanti da portare al processo, prima di poterle depositare, ovvero renderle a tutti gli effetti visibili e soprattutto pubblicabili. La modifica del disegno di legge con questo emendamento è all’origine di quella che possiamo denotare come una gemmazione della mai domata tentazione di chi esercita il potere di mettere limiti al diritto di cronaca, rendendo più arduo il lavoro di chi ha la funzione di reperire informazioni e il dovere deontologico di farle conoscere con precisione ai cittadini.

Questo provvedimento limita il diritto all’informazione. Certo, non replica la logica falsificatrice e manipolatrice della legge bavaglio che il governo Berlusconi ha cercato, invano, di far passare (e che una straordinaria mobilitazione di cittadini o operatori della stampa e dell’editoria fermò). Esso lascia tuttavia aperta una falla sulla liceità della pubblicazione dei verbali delle intercettazioni che lo rende criticabile e non difendibile. Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni).
L’argomento portato dal Pd per giustificare questa decisione è che la possibilità di pubblicazione dei testi delle intercettazioni potrebbe essere lesiva dei diritti di tutti coloro che sono in qualche modo coinvolti nelle conversazioni, benché il prosieguo delle indagini ne dimostri poi l’estraneità al reato. Ma l’udienza filtro, che il provvedimento approvato elimina, serviva proprio ad ovviare a questo problema, che è indubbiamente serio perché mette a repentaglio la dignità della persona con il rischio palese di consegnare il suo nome alla gogna mediatica. L’udienza filtro avrebbe dovuto “selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine”.
Il Pd si difende appellandosi al principio della privacy. Sostiene che mentre le intercettazioni non si devono impedire, nell’ammetterle si deve prestare attenzione a conciliare due diritti: quello all’informazione e quello alla privacy. Ma il testo approvato alla Camera più che conciliare questi due diritti sembra essere sbilanciato a favore del secondo. Stabilisce tra l’altro che nell’attuazione della delega concessagli dal Parlamento, il governo preveda la reclusione fino a quattro anni come pena per “la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente”.
La questione da far valere criticando questo provvedimento non è genericamente il potere della casta. Molto più concretamente si tratta qui di una questione di diritti civili. È quindi in nostro nome, come cittadini, che dobbiamo criticare questo provvedimento e chiedere che venga cambiato. In nostro nome perché, come ha spiegato Ezio Mauro su Repubblica Tv, la pubblicazione di certe intercettazioni consente, per esempio, ai cittadini di avere una conoscenza preliminare più completa dei candidati presenti nelle liste dei partiti. Il diritto all’informazione è in questo senso al servizio del diritto politico, perché consente agli operatori della stampa di fornire agli elettori dati e notizie che serviranno loro costruirsi un’opinione quanto più possibile informata su chi votare o non votare.
Anche per questa ragione basilare, l’idea di limitare la pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie dovrebbe mobilitare il nostro giudizio critico fino a chiedere al Pd e alla maggioranza un ripensamento. La dignità della persona, che questo provvedimento giustamente rivendica, deve essere rispettata anche in relazione al cittadino nel suo diritto ad essere informato, tenendo conto del fatto che nelle società complesse nessuno di noi ha il potere di accedere direttamente alle fonti delle informazioni e deve poter quindi contare su una sfera pubblica aperta e libera. Deve certamente essere possibile evitare di esporre le conversazioni di terzi casualmente finiti nelle intercettazioni senza limitare il diritto di cronaca; ma questo deve e può essere ottenuto senza menomare il diritto all’informazione, un pilastro della dignità del cittadino.

«A un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari». L

a Nuova Sardegna, 26 settembre 2015

Nessuna obiezione all'Enciclica. Tutti d'accordo, pure chi non avrebbe vantaggi se prevalessero- come auspicato pure dall'ONU - “altri modi di intendere l’economia e il progresso” (Laudato si', § 16). E se il Papa decidesse di smascherare le adesioni più corrive, avrebbe un gran daffare. Pure in Sardegna servirebbe qualche sua autorevole precisazione, visto che la Saras di Moratti lo ha ringraziato in uno spot sulla propria singolare conversione ecologista.

È vero: a un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari: alla Syndial, che a Porto Torres ha disperso in terra e in mare non si sa quanti rifiuti tossici; ai colpevoli del disastro di Portoscuso, dove la catena alimentare è corrotta senza tornaconti. Una gran pena: scolpita nella faccia di chi è vittima dell'impoverimento di quei luoghi, lo stesso smarrimento descritto nella vignetta di Altan: “Cos'ho dottore?/Niente, ha perso tutto”.

La Sardegna non potrà essere risarcita da condanne - neppure all'inferno - di chi ha contaminato 450mila ettari di terra, trasformato spiagge e scogliere in piedistalli di brutte case, speculato oltre ogni limite su vento, sole, sottosuolo, tappato corsi d'acqua, simulato guerre con bombe vere, appiccato incendi senza tregua - l'ultimo nella costa di Alghero.

Fermare questa distruzione non è facile per amministrazioni locali spesso disarmate più che inerti (evviva se dopo 10 anni il governo Pigliaru attua le previsioni del Ppr per frenare la diffusione degli impianti eolici). Gli insuccessi sono più probabili senza lo schieramento di tutte le istituzioni dalla parte del buon governo del territorio, del quale più cose si sanno è meglio è. Ma la “coscienza di luogo” - presupposto per ogni progetto - manca da un po' in questo Paese, nel solco del difetto avvertito da Pasolini 40 anni fa: “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.

Una verità le devastazioni. Ampiamente sottostimate se si considera la bassa densità della popolazione (la Sardegna è tra le 4 Regioni in cima alla classifica degli abusi edilizi: quindi al primo posto). Inutile minimizzare il ciclo di trasformazioni subite, dipendenti da bisogni remoti; penso al 60% del patrimonio boschivo bruciato nell' '800 in Continente, per lo sviluppo lì; e mi interrogo sul programma di fare pellet dagli alberi del Marganai.

Nulla di nuovo, copio e incollo le parole Foucault: «il potere è localizzato in un centro sovrano che impone la sua legge dall’alto verso il basso». E il pensiero va dritto a SbloccaItalia, alla legge voluta da Renzi contro la quale 6 Regioni NO-Triv hanno deciso - dal basso - di ricorrere alla Consulta. Non la Sardegna (?) che conviene ora con i referendari, viste le proteste di molte comunità allarmate. Un' inquietudine più estesa di quanto si immagini, in un quadro reso più drammatico dallo spopolamento progressivo di vaste aree.

C'è chi vorrebbe premere il tasto reset, via dalla memoria le mappe delle aggressioni ai paesaggi e dei veleni; d'altra parte, si sa, mancano le risorse e non c'è bonifica che potrà restituirci il Sulcis com'era, a sicut erat. Nel frattempo siamo rassicurati dalle eccellenze ad uso del racconto sfuggente e del branding. La Sardegna all'Expo, buona e bella, leggendaria grazie alle eccezioni - statisticamente dappertutto - enfatizzate a dismisura. La longevità di alcune famiglie, qualche olivastro millenario, la vittoria del ciclista Aru, un pecorino esaltato dallo chef, non possono diventare banner per appannare la ordinaria mediocrità. Il cibo? Nell'isola agropastorale 8 bistecche su 10 vengono da fuori ed è molto lungo l'elenco di generi alimentari “tipici” che importiamo in questa misura.

Le eccellenze ruggenti all'Expo, come i leoni di Metro Goldwyn Mayer, preannunciano un bel film. Meglio guardarlo tutto. E sulle trivelle occhi spalancatati come quelli del gigante di Cabras. La campagna referendaria è compito nostro, il Papa ha già detto.

Una forte denuncia del comportamento dell'Ue di fronte al dramma e all'occasione storica dell'Esodo. «L’alternativa alla dissoluzione dell'Ue è l’abbandono dell’austerità e il varo di un piano per l’inserimento sociale e lavorativo di profughi, migranti e cittadini».

Il manifesto, 25 settembre 2015, con postilla

I governi dell’Unione euro­pea non ave­vano pre­vi­sto le con­se­guenze del caos e delle guerre che hanno gene­rato l’attuale flusso di pro­fu­ghi. Hanno pre­valso, ieri e oggi, cini­smo e irre­spon­sa­bi­lità. E gli ultimi ver­tici dell’Unione hanno preso o stanno per pren­dere tre deci­sioni mise­ra­bili: fare la guerra agli sca­fi­sti, pre­lu­dio all’estensione del fronte di guerra a tutta la Libia e oltre; ren­dere le fron­tiere esterne dell’Unione imper­mea­bili ai pro­fu­ghi (lo esige il pre­mier unghe­rese Orban); imporre quote obbli­ga­to­rie di pro­fu­ghi a tutti gli Stati mem­bri, come se ci fosse da spar­tirsi un carico di emis­sioni o di mate­riali inqui­nanti, e non per­sone al cul­mine delle loro sof­fe­renze. Ma l’accoglienza è un’altra cosa, richiede rispetto, dignità, diritti, e poi anche casa, lavoro, istru­zione e tutele, cose per cui la Com­mis­sione non pre­vede né stan­dard comuni né stan­zia­menti. La guerra agli sca­fi­sti libici è un alibi, un’infamia e un crimine.

E’ un alibi: si vuol far cre­dere che le maniere forti pos­sano sosti­tuire l’accoglienza che non c’è. E per ridi­men­sio­nare i flussi — e risol­vere la que­stione – si conta di acco­gliere i rifu­giati (quelli che pro­ven­gono da paesi “insi­curi”, in guerra) e di respin­gere i migranti (quelli che pro­ven­gono da paesi defi­niti “sicuri”). Anche Prodi ha ricor­dato che nes­suno Stato dell’Africa — e meno che mai Iraq, Afgha­ni­stan o Kur­di­stan – è sicuro; e anche il mini­stero degli esteri avverte i turi­sti che tutti i paesi da cui pro­ven­gono i migranti non sono sicuri. Se in tanti rischiano morte e vio­lenza per fug­gire dal loro paese è per­ché là non pos­sono più vivere.

E’ un’infamia, per­ché nasconde il fatto che se venis­sero appron­tati cor­ri­doi uma­ni­tari per per­met­tere a chi fugge di rag­giun­gere in sicu­rezza l’Europa, gli sca­fi­sti di mare e di terra non esi­ste­reb­bero e si sareb­bero evi­tate decine di migliaia di morti. E’ un cri­mine, per­ché fer­mare gli sca­fi­sti in Libia (nes­suno, però, ha pro­po­sto di bom­bar­dare quelli della Tur­chia, altret­tanto spie­tati), posto che sia fat­ti­bile, signi­fica ricac­ciare i pro­fu­ghi nel deserto, con­dan­nan­doli ai tanti modi di morire a cui si erano appena sottratti.

D’altronde gli hotspot pre­tesi da Jun­ker e Angela Mer­kel in cam­bio delle quote di rifu­giati da smi­stare in Europa sono la men­zo­gna con cui si intende dimez­zare il numero da acco­gliere, sba­raz­zan­dosi di coloro a cui non verrà rico­no­sciuto lo sta­tus di rifu­giati. Ma come si fa a rim­pa­triarne così tanti? E in paesi con cui non esi­stono accordi di rim­pa­trio e dove spesso non ci sono nem­meno auto­rità a cui ricon­se­gnarli? Appena sbar­cati, se non saranno impri­gio­nati o sop­pressi, ripren­de­ranno la strada per l’Europa a costo della vita: non hanno altra scelta.

Evi­dente è la gara tra gli Stati dell’Unione per sca­ri­carsi a vicenda l’onere di un’accoglienza che nes­suno vuole accol­larsi. Ma la vera con­tro­par­tita delle quote è che chi non rien­tra in esse dovrà restare dov’è: se non potrà, e non potrà, essere rim­pa­triato, dovrà far­sene carico il paese di arrivo: Ita­lia o Gre­cia; paesi che, anche se voles­sero, non potreb­bero cir­con­dare di filo spi­nato le pro­prie coste come l’Ungheria fa con i suoi con­fini. La Spa­gna l’ha già fatto a Ceuta e Melilla; la Gre­cia dell’ex mini­stro Avra­mo­pou­los, ai con­fini con la Tur­chia; Fran­cia e Regno Unito a Calais; la Bul­ga­ria ha schie­rato l’esercito; Ger­ma­nia, Austria, Slo­ve­nia, Croa­zia, Repub­blica Ceca e Fran­cia cer­cano di chiu­dere le fron­tiere… Così, anche se Angela Mer­kel lascia cre­dere di avere forze e mezzi per affron­tare la situa­zione, la solu­zione con cui ripro­pone la sua lea­der­ship sull’Unione ne asse­gna i van­taggi alla Ger­ma­nia e ne sca­rica i costi sui paesi più deboli ed espo­sti. Pro­prio come con l’euro.

San­zioni inci­sive, fino all’espulsione, con­tro gli Stati che rifiu­tano le quote — peral­tro già ora insuf­fi­cienti — sareb­bero altret­tanto rischiose per la coe­sione che accet­tare che cia­scuno vada per conto suo. Così, se il feroce brac­cio di ferro con la Gre­cia ha inferto un duro colpo all’immagine di un’Unione por­ta­trice di van­taggi e benes­sere per tutti i suoi mem­bri, la vicenda dei pro­fu­ghi sta dando il colpo di gra­zia all’unità di una aggre­ga­zione di Stati tenuti insieme solo dai debiti e dal potere della finanza.

Tra­sfor­mare l’Europa in for­tezza signi­fica aval­lare e pro­muo­vere lo ster­mi­nio per mare e soprat­tutto per terra di chi cer­cherà ancora di fug­gire dal suo paese; mol­ti­pli­care ai con­fini del con­ti­nente caos e guerre che tra­ci­me­ranno in Europa: con altri pro­fu­ghi, ma anche con ter­ro­ri­smo e aspri con­flitti sociali; e con­se­gnare al raz­zi­smo il governo degli Stati dell’Unione sem­pre più divisi. Chiun­que sia a gestirli: destre, cen­tri o “sinistre”.

Ma si può acco­gliere cen­ti­naia di migliaia, e domani milioni di pro­fu­ghi senza un pro­gramma di inse­ri­mento sociale: casa, lavoro, red­dito, istru­zione e diritti per tutti? Si può “tenerli lì” per anni a far niente, in siste­ma­zioni di for­tuna (che in Ita­lia stanno arric­chendo migliaia di pro­fit­ta­tori) o in car­ceri come i Cie? Ne va innan­zi­tutto della loro dignità di esseri umani. Ma è anche intol­le­ra­bile per tanti cit­ta­dini euro­pei che abi­tano e lavo­rano accanto a loro, o che sono già ora senza lavoro, o senza casa, o senza red­dito, abban­do­nati dallo Stato. E’ il modo migliore per ali­men­tare tra loro ran­core, rigetto e razzismo.

Il modo in cui l’Unione tratta i popoli dei suoi Stati più deboli, come quello greco, ma non solo, e sfrutta i paesi afri­cani e medio­rien­tali e i loro abi­tanti, e soprat­tutto cerca di sba­raz­zarsi di quelli di loro che vogliono diven­tare, e già si sen­tono, cit­ta­dini euro­pei, è la nega­zione di tutto ciò che la Comu­nità, e poi l’Unione euro­pea, sem­bra­vano pro­met­tere con il richiamo ideale allo spi­rito di Ven­to­tene. L’alternativa a que­sto pro­cesso di dis­so­lu­zione non può essere che l’abbandono delle poli­ti­che di auste­rità e il varo di un grande piano euro­peo per l’inserimento sociale e lavo­ra­tivo sia di pro­fu­ghi e migranti che dei milioni di cit­ta­dini euro­pei oggi senza lavoro, senza casa, senza red­dito, senza futuro; affi­dan­done la gestione a quelle strut­ture dell’economia sociale e soli­dale che hanno dimo­strato di saperlo fare. Ma è anche la con­di­zione irri­nun­cia­bile per aiu­tare i pro­fu­ghi a costi­tuirsi in base sociale e punto di rife­ri­mento poli­tico per la ricon­qui­sta alla pace e alla demo­cra­zia dei loro paesi di ori­gine; per l’allargamento all’area medi­ter­ra­nea e nor­da­fri­cana di un’Unione euro­pea da rifon­dare dalle radici.

I con­te­nuti di quel piano non pos­sono che essere le misure e gli inve­sti­menti neces­sari per far fronte agli impe­gni sul clima da assu­mere alla pros­sima “Cop-21″ di Parigi, se si vuole che l’Europa fac­cia la sua parte per argi­nare una cata­strofe immi­nente. Sono misure in grado di dare lavoro, red­dito e siste­ma­zione a tutti: pro­fu­ghi, migranti e cit­ta­dini euro­pei. Un piano del genere, che ha una dimen­sione eco­no­mica, ma deve avere soprat­tutto un risvolto sociale e una arti­co­la­zione fon­data sull’attenzione alle per­sone e alle vicende indi­vi­duali di cia­scuno, non può essere dele­gato né agli Stati, né agli organi dell’Unione, né alle logi­che del mer­cato. Deve nascere, rapi­da­mente, da un con­fronto tra tutte le forze sociali impe­gnate sul fronte del cam­bia­mento e tro­vare in un sog­getto attua­tore ade­guato. Che non può essere che la rete euro­pea dell’economia sociale e soli­dale. Per tra­dursi al più pre­sto in una piat­ta­forma poli­tica da pro­porre e soste­nere in alter­na­tiva alle scelte spie­tate e para­liz­zanti di que­sta Europa.

postilla

Non è la prima volta che Guido Viale (e molti degli intellettuali che hanno dato vita ad "Altra Europa con Tsipras") affrontano il tema del gigantesco trasferimenti di persone dal Sud del mondo all'Europa in connessione con la proposta di un "nuovo
New Deal" europeo. L'obiettivo della proposta non è solo quello di dare concreta ospitalità alle differenti forme e soggetti dell'Esodo del XXI secolo (persone in fuga per guerre guerreggiate, per lesione dei diretti umani, per miseria e carestie, persone che vedono l'Europa come una dimora transitoria oppure definitiva) ma è anche quella di trovare un impiego socialmente e umanamente utile alla gigantesca risorsa costituita dalla forza lavoro che affluisce verso l'Europa. e che è da ciechi, oltre che da miserabili, pensare di poter ridurre nella quantità. Certo, per immaginare e realizzare un simile programma occorrono due convinzioni pregiudiziali: (1) bisogna credere che il lavoro dell'uomo è una risorsa indispensabile per comprendere e trasformare il mondo; (2) bisogna aver appreso dai fatti che né il Mercato né uno Stato che del mercato sia lo strumento sono capaci di cimentarsi in una simile impresa.

«Quella di Volkswagen è una vicenda che può avere conseguenze disastrose per la casa tedesca e ricadute su tutta l’industria automobilistica. I tedeschi nella gestione della crisi europea hanno sempre anteposto la questione “morale” (chi sbaglia paga) a quella economica».

Lavoce.info, 25 settembre 2015 (m.p.r.)

Le conseguenze della truffa

C’è un solo aggettivo per definire quello che è successo alla Volkswagen: incredibile! Un gigante del settore automobilistico, in procinto di diventare il primo produttore al mondo, già emblema di qualità e affidabilità, ha truccato i motori diesel per ridurre artificialmente le emissioni inquinanti durante i test. L’imbroglio è stato scoperto e ora la casa di Wolfsburg è in guai seri, al punto da mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’impresa. Già molto è stato detto sull’argomento. Mi limito quindi pochi punti meno sottolineati nel dibattito.

Ho definito “incredibile” l’evento perché mette veramente a rischio l’esistenza di una delle società più importanti del mondo. Come è possibile che sia successo? Chi si è preso la responsabilità di mettere in atto una truffa di questo genere? Tanto più che il software è installato su 11 milioni di veicoli: come si poteva pensare che prima o poi qualcuno non se ne sarebbe accorto? Chi ha fatto questa scelta suicida doveva esserne consapevole. Siamo quindi di fronte a un fallimento eclatante della corporate governance dell’impresa, che ricorda per certi versi i casi di Enron o le truffe finanziare all’origine della grande crisi. Perseguire i colpevoli non è quindi solo un atto di giustizia. Servirà anche a capire quale sia stato il processo all’interno di Volkswagen che ha portato a questo disastro, possibilmente fornendo spunti per evitare che si ripetano casi del genere.
Le conseguenze per la Volkswagen sono di due tipi. Da un lato, ci rimette la reputazione. Ciò implica che la domanda di automobili a marchio Volkswagen potrebbe diminuire. Il danno, seppur grave, è rimediabile con una seria operazione di trasparenza interna e con un po’ di pazienza. I consumatori hanno la memoria corta. L’altra serie di conseguenze riguarda le possibili cause legali, le multe che possono essere comminate, i costi per mettere a norma le automobili in circolazione. A questo stadio sono aperte tutte le opzioni. I conti saranno sicuramente salati, ma è impossibile dire quanto. Negli Stati Uniti su questioni simili non ci vanno certo leggeri. In questo caso, poi, non si devono neppure preoccupare del fatto di danneggiare un’impresa americana, quindi non aspettiamoci sconti.
Non è ancora chiaro quanto la truffa sia diffusa al di fuori degli Stati Uniti, ma sembra che solo una piccola parte delle macchine truccate sia stata venduta negli Usa. Bisogna quindi vedere cosa succederà negli altri paesi. Nell’ipotesi più pessimistica, i costi potrebbero portare Volkswagen sul lastrico. L’Europa si trova quindi di fronte a un dilemma. Da una parte, punire un’impresa che ha imbrogliato i consumatori su un aspetto fondamentale per la saluta pubblica. Dall’altra, preservare il contributo dell’impresa alla società europea, particolarmente in termini di posti di lavoro. Non sarà un percorso facile. L’aspetto ironico della vicenda è che ora il cerino è nelle mani dei tedeschi, che nella gestione della crisi europea hanno sempre anteposto la questione “morale” (chi sbaglia paga) a quella economica. Anche da questo punto di vista sarà interessante seguire gli sviluppi.

Confusione nel mercato

L’aspetto più sorprendente della vicenda è stata, però, la reazione dei concorrenti. Normalmente, ci si aspetterebbe che problemi per Volkswagen significhino buone notizie per gli altri produttori, che si possono avvantaggiare della sua perdita di clienti. La reazione dei mercati è invece stata opposta, con i titoli di tutte le aziende del settore in forte perdita, anche se in maniera più contenuta rispetto al -30 per cento di Volkswagen.

Le ragioni possono essere molteplici. La prima possibile spiegazione è che gli investitori pensino che, se l’ha fatto l’impresa ritenuta un gigante di integrità e tecnologia, allora è possibile che anche altre imprese abbiamo adottato trucchi per aggirare le regolamentazioni sulle emissioni. Per ora non sono emersi altri casi, e auguriamoci che rimanga un fatto isolato. La seconda possibilità è che, in seguito allo scandalo, il sistema dei controlli divenga più rigido e gli standard più stringenti. Ciò porterebbe a un aumento dei costi di produzione per le imprese automobilistiche, con conseguenze negative sui loro rendimenti. Ad esempio, già si parla della fine dei motori diesel. Ci vuole molto sangue freddo. È opportuno rimettere mano alla regolamentazione delle emissioni inquinanti. Ciò dev’essere però fatto senza fini punitivi. Vanno chiuse eventuali falle nel sistema di controlli. Per determinare i livelli ottimali di limiti, bisogna utilizzare l’evidenza scientifica più recente sui danni alla salute e all’ambiente delle varie emissioni da una parte, e valutare i costi che le case automobilistiche devono sopportare per ridurle (che si traducono inevitabilmente in prezzi più alti per i consumatori) dall’altra.
L’ultima spiegazione del crollo di borsa delle imprese del settore è la più semplice: nei momenti di incertezza, gli investitori preferiscono vendere. E in questo momento il settore è totalmente nel caos. La confusione che regna può incentivare comportamenti di aggiotaggio: basta mettere in giro la voce che una casa automobilistica è coinvolta nello scandalo per farne crollare il prezzo. Le autorità di vigilanza devono stare all’erta, in particolare perché le azioni delle case automobilistiche entrano direttamente o indirettamente nel portafoglio di molti piccoli, incolpevoli risparmiatori.

il manifesto) e di Federico Rampini (la Repubblica), 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Il manifestoIL PAPA AL CONGRESSO: «BASTA VENDERE ARMI»

di Luca Celada

Alle camere riu­nite del Con­gresso, in pre­ce­denza ave­vano par­lato Chur­chill e De Gaulle, Boris Yel­tsin e qual­che mese fa, con note­vole stra­scico pole­mico, anche Ben­ja­min Nata­nyahu. Non era mai acca­duto però che lo facesse un lea­der reli­gioso come ha fatto ieri il papa nel secondo giorno del suo viag­gio ame­ri­cano. Pre­sen­tato come «il Papa, della Santa Sede» dallo spea­ker John Boeh­ner, è stato accolto con un calo­roso app­plauso dai 435 depu­tati e sena­tori del par­la­mento di Washing­ton a cui ha rivolto un discorso in inglese durato poco meno di un’ora.

Il papa ha rin­gra­ziato per l’invito a par­lare ai rap­pre­sen­tanti «nella terra dei liberi e la patria dei valo­rosi», cita­zione di una delle frasi più reto­ri­che dell’inno nazio­nale che in bocca al gesuita suda­me­ri­cano come Ber­go­glio ha acqui­sito un lieve sospetto di iro­nia, pur pro­du­cendo il primo di diversi applausi che lo hanno inter­rotto. Fran­ce­sco che si è dichia­rato «figlio dello stesso con­ti­nente» ha ripe­tu­ta­mente elo­giato il paese ospite senza rinun­ciare ad allu­dere indi­ret­ta­mente alle sue man­canze. Ha più volte invo­cato ad esem­pio la tra­di­zione demo­cra­tica e civile degli Usa cri­ti­cando allo stesso tempo il com­mer­cio di armi, xeno­fo­bia, disu­gua­glianza e mani­chei­smo che certo riguar­dano non poco gli Stati uniti come l’occidente tutto.

In alcuni pas­saggi il mes­sag­gio di Ber­go­glio è sem­brato indi­riz­zato più diret­ta­mente ancora all’Europa dell’emergenza rifu­giati che ha defi­nito «la più grave crisi dai temi della seconda guerra mon­diale». Par­lando delle mol­ti­tu­dini che si stanno river­sando a nord alla ricerca di vite migliori e mag­giori oppor­tu­nità, il papa ha detto che «non dob­biamo lasciarci spa­ven­tare dal loro numero, ma piut­to­sto vederle come per­sone, guar­dando i loro volti e ascol­tando le loro sto­rie» e «rispon­dere in un modo che sia sem­pre umano, giu­sto e fra­terno». Parole inci­sive nel paese in cui l’attuale front run­ner repub­bli­cano, Donald Trump, costrui­sce con­sensi con­ser­va­tori sulla pro­messa di edi­fi­care un muro sul con­fine mes­si­cano, ma forse rivolte ancor più diret­ta­mente all’Europa dei rigur­giti nazionalistici.

Ad ascol­tare in aula ieri erano pre­senti nume­rosi cat­to­lici (lo sono il 30% circa dei depu­tati) fra cui alcuni pre­ten­denti alla pros­sima pre­si­denza come i repub­bli­cani Chris Chri­stie e Marco Rubio. Il segre­ta­rio di stato e “part­ner diplo­ma­tico” del Vati­cano sul disgelo cubano, John Kerry, cui Fran­ce­sco ha tenuto a strin­gere la mano prima di salire sul podio affian­cato da Boeh­ner e dal vice­pre­si­dente Biden, entrambi cat­to­lici pra­ti­canti. Ai legi­sla­tori di un organo pro­fon­da­mente diviso lungo linee ideo­lo­gi­che il papa ha par­lato dei peri­coli della pola­riz­za­zione e del ridu­zio­ni­smo che divide il mondo in pre­cise cate­go­rie di bene e male, giu­sti e pec­ca­tori aggiun­gendo che la com­ples­sità del mondo con­tem­po­ra­neo con le sue «ferite aperte» esige distin­zioni più sot­tili della sem­plice demo­niz­za­zione dei nemici. «Imi­tare l’odio e la vio­lenza dei tiranni e degli assas­sini è il modo più sicuro per pren­dere il loro posto», ha aggiunto. «È (un mec­ca­ni­smo) che il popolo ame­ri­cano rifiuta».

È stato uno dei pas­saggi più simili dav­vero a una “pre­dica” fatta ai pro­pri ospiti, anzi visti i recenti tra­scorsi di inter­venti ame­ri­cani e di con­flitti utili solo a tra­ghet­tare intere regioni del mondo nel caos, è stato il momento in cui Fran­ce­sco si è avvi­ci­nato al discorso sha­ke­spe­riano di Marco Anto­nio nel Giu­lio Cesare: l’elogio reto­rico di Bruto per evi­den­ziarne i difetti. Non solo, infatti, gli Stati uniti – anche quelli del pro­gres­si­sta Barack Obama — danno scarse indi­ca­zioni di riflet­tere seria­mente sull’opportunità del pro­prio ege­mo­ni­smo geo­po­li­tico, ma il mani­chei­smo è un car­dine fon­da­men­tale della poli­tica e del carat­tere nazio­nale intriso di patriot­ti­smo ed eccezionalismo.

Un con­te­sto cioè in cui le affer­ma­zioni, pur mode­rate rispetto alla recente media di Fran­ce­sco, sono risal­tate mag­gior­mente. Davanti a un pub­blico che com­pren­deva nume­rosi pala­dini repub­bli­cani dello scon­tro di civiltà, il papa cat­to­lico ha rico­no­sciuto le atro­cità odierne com­messe nel nome di dio, aggiun­gendo che «nes­suna reli­gione è immune da forme di estre­mi­smo» e lan­ciando un monito con­tro ogni fon­da­men­ta­li­smo e ogni «vio­lenza per­pe­trata nel nome di una reli­gione, un’ideologia o un sistema eco­no­mico». Il papa non ha nomi­nato il capi­ta­li­smo, ma nella patria di Wall street sono ben note le sue vedute sul libe­ri­smo estremo e a Washing­ton le sue allu­sioni hanno avuto un peso particolare.

Non tutto nel discorso è stato obli­quo rife­ri­mento. Nell’ambito della tutela della vita in tutte le sue forme, il papa ha scelto di esporre senza ambi­guità la sua cri­tica alla pena di morte nel suo ultimo bastione occi­den­tale. Sull’immoralità del com­mer­cio di armi il papa è tor­nato ad inchio­dare l’ipocrisia dell’occidente: «Per­ché armi mor­tali sono ven­dute a coloro che pia­ni­fi­cano di inflig­gere indi­ci­bili sof­fe­renze a indi­vi­dui e societa?» Ha doman­dato. «Pur­troppo, la rispo­sta, come tutti sap­piamo, è sem­pli­ce­mente per denaro: denaro che è̀ intriso di sangue».

Un filo con­dut­tore del discorso è stata la giu­sti­zia sociale come valore asso­luto della poli­tica. «I nostri sforzi devono essere volti a ripor­tare la spe­ranza, ripa­rare le ingiu­sti­zie, man­te­nere gli impe­gni», ha detto il papa, «nello spi­rito di soli­da­rietà e della fra­tel­lanza». «Qual­siasi atti­vità poli­tica deve ser­vire e pro­muo­vere il bene della per­sona umana». «Ne con­se­gue che non può essere sot­to­messa al ser­vi­zio dell’economia e della finanza», ma deve invece espri­mere il «nostro insop­pri­mi­bile biso­gno di vivere insieme nell’unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comu­nità che sacri­fi­chi gli inte­ressi par­ti­co­lari per poter con­di­vi­dere, nella giu­sti­zia e nella pace, i suoi bene­fici». Dette in un aula dove anche la tutela pub­blica della salute viene rego­lar­mente denun­ciata come ana­tema socia­li­sta, le parole hanno ancora una volta assunto un peso par­ti­co­lare. Se fos­sero rima­sti dubbi su quale volto del cat­to­li­ce­simo voglia sdo­ga­nare nel suo viag­gio ame­ri­cano, Fran­ce­sco ieri ha scelto di ono­rare la memo­ria di quat­tro ame­ri­cani: Lin­coln, eman­ci­pa­tore degli schiavi, Mar­tin Luther King com­bat­tente per l’uguaglianza, l’intellettuale cister­cense Tho­mas Mer­ton e Doro­thy Day fon­da­trice del movi­mento Catho­lic Wor­ker, mili­tante paci­fi­sta, fem­mi­ni­sta e ope­rai­sta pro­ta­go­ni­sta di lotte sociali dalle suf­fra­gette all’opposizione alla guerra del Vietnam.

La Repubblica«NO ALLA PENA DI MORTE E AL COMMERCIO DI ARMI».
IL PAPA “PROGRESSISTA” AMMONISCE IL CONGRESSO
di Federico Rampini
Washington. «La maggior parte di noi sono stati stranieri. Ricordiamo la regola d’oro: fai agli altri ciò che vorresti sia fatto a te. L’America è stata grande quando ha difeso la libertà e i diritti per tutti, con Lincoln e Martin Luther King». Papa Francesco è il primo pontefice nella storia a parlare al Congresso americano a Camere riunite. Conquista Washington con un discorso appassionato e anche duro: chiede l’abolizione della pena di morte e della vendita di armi, invoca politiche di accoglienza per immigrati e profughi, un impegno contro le diseguaglianze, la lotta al cambiamento climatico. Sono i grandi temi del suo pontificato ma dentro l’aula del Congresso, di fronte ai legislatori della superpotenza mondiale, assumono un peso politico enorme.
Standing ovation”, è unanime l’applauso in piedi al suo arrivo, ma via via che il Papa pronuncia il suo discorso gli applausi diventano più schierati e selettivi. «Un discorso nettamente progressista», lo giudicano a caldo tutti i media americani dal New York Times al Washington Post, da Huffington Post a Politico.com. L’entusiasmo invece è travolgente e incondizionato nella folla che assiste fuori: in 50.000 lo seguono sui maxischermi montati appositamente nel West Lawn, vasto prato sulla collina del Campidoglio nella capitale federale.
Papa Bergoglio ha misurato il giorno prima le affinità elettive con Barack Obama. Ma è un’America diversa quella che lo aspetta al Congresso. Questa è la tana dei leoni, una maggioranza di repubblicani, in piena campagna per la nomination presidenziale: a destra è in voga la xenofobia di Donald Trump, il negazionismo climatico dei Fratelli Koch, il sostegno alla lobby delle armi e alla pena di morte, il rifiuto di politiche fiscali redistributive. Su ciascuno di questi temi il Papa non fa concessioni, non smussa le asperità. Parla davanti a un Congresso dove oltre a senatori e deputati ci sono governatori degli Stati, candidati presidenziali, e tanti Vip loro ospiti. Con una sovra-rappresentazione del mondo cattolico: sono cattolici il vicepresidente Joe Biden e il segretario di Stato John Kerry, il presidente della Camera (repubblicano John Boehner) e la capogruppo democratica Nancy Pelosi. 31% di cattolici al Congresso, mentre nella popolazione americana sono il 22%.
American Dream e accoglienza degli stranieri, è il primo tema forte del discorso, Bergoglio lo affronta partendo dalla sua biografia e lo declina parlando di Americhe al plurale. «Milioni di persone sono venute qui inseguendo il sogno di costruirsi un futuro nella libertà. Noi, i popoli di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri perché molti di noi lo erano. Ve lo dico da figlio di immigrati, sapendo che molti di voi discendono da immigrati. Migliaia di persone continuano a viaggiare verso Nord in cerca di una vita migliore, opportunità per sé e per i figli. Non è quello che vogliamo noi stessi?».
Prende di mira i quattro mali più gravi del nostro tempo: odio, avidità di denaro, povertà, inquinamento. Salta però un passaggio sul ruolo del denaro nella politica, e c’è un riconoscimento verso l’economia di mercato che viene notato dagli americani: «L’impresa ha una vocazione nobile, per sconfiggere la miseria bisogna creare ricchezza, ma le aziende devono essere al servizio del bene comune». Sulla tutela dell’ambiente il Papa chiama in causa direttamente il Congresso, dove tante riforme dell’Amministrazione Obama si sono arenate: «Non ho dubbio che gli Stati Uniti e questo Congresso hanno un ruolo importante da giocare, questo è il momento di azioni coraggiose per contrastare i più gravi effetti del degrado ambientale causati dall’attività umana».
E’ il passaggio sugli immigrati quello che rende più vistosa la differenza di reazioni. «Non devono spaventarci i loro numeri, dobbiamo guardarli come persone, osservare i loro volti, ascoltare le loro storie, reagire nel modo migliore alla loro situazione ». Dentro l’aula del Congresso solo i democratici applaudono. Fuori, sul grande prato, è un boato di consensi: molti ispanici sono venuti ad ascoltarlo da tutta l’America.
Gelo a destra anche quando il pontefice invoca l’abolizione della condanna capitale: «Chiedo che cessi ovunque nel mondo la condanna a morte, ogni essere umano ha una dignità inalienabile, la società può solo beneficiare dalla riabilitazione dei condannati per crimini ». Scottante l’intervento sulle armi: il Papa non condanna solo il grande traffico internazionale di armamenti ma anche le vendite individuali, un tema tabù per la destra americana allineata con la lobby della National Rifle Association. La destra applaude rinfrancata quando il Papa difende il valore tradizionale della famiglia.
E tuttavia anche qui Bergoglio inserisce un riferimento alla crisi economica, alla disoccupazione, alle diseguaglianze: «I giovani sono sotto pressione, non formano famiglie perché non vedono un futuro di possibilità». Denuncia la «spirale della povertà che intrappola tante persone»: tema centrale dell’Assemblea Onu a cui parlerà oggi. Le Nazioni Unite devono fare un bilancio del Millennium Goal. La Banca mondiale rileva che ci sono 148 milioni di poveri in più, se la soglia della povertà assoluta viene aggiornata.
Un discorso poco “religioso”: l’unico riferimento esplicito alle Scritture è una citazione di Mosé, cioè la figura biblica riconosciuta dalle tre religioni monoteiste ebrei cristiani e musulmani. Il discorso al Congresso si chiude con l’augurio che il Sogno Americano resti fedele alla sua ispirazione originaria: pace, libertà, difesa degli oppressi. Prima di volare a New York il papa celebra messa in spagnolo alla chiesa di San Patrizio dove sono radunate famiglie povere. Lì torna sul tema che gli è più caro: «Il figlio di Dio venne al mondo come un homeless . Seppe cosa voleva dire cominciare la vita senza un tetto ». Poche ore prima Los Angeles, metropoli glamour della ricchissima California, aveva dovuto prendere una misura senza precedenti: la proclamazione di uno stato d’emergenza per l’aumento degli homeless.
«Mi sento di fare un appello affinché questa progettualità comune si concretizzi in forme di accoglienza semplici e minime, ma diffuse in tutto il Paese e molto solide, strutturate e coordinate. Una rete umana in cui ogni soggetto partecipante garantisce di superare le differenze e gli steccati».

La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)

Traditi da un mercante menzognero, vanno, oggetto di scherno allo straniero. Bestie da soma, dispregiati iloti. Carne da cimitero. Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti». De Amicis nel 1882 cantava così ne Gli emigranti le esistenze di coloro che a Genova facevano la fila per salire sulle navi in partenza per altre terre, per scappare lontano da casa. È certo utile tener presente la nostra storia nel momento in cui non passa giorno in cui i media snocciolino il loro drammatico bollettino sulla tragedia che ben conosciamo. Una moltitudine di persone cerca di varcare confini chiusi, s’imbarca e s’incammina in cerca di futuro, scappa da orrori tremendi, o semplicemente dalla fame. Già, anche la fame causata dal landgrabbing e dall’ingordigia neocolonialista e non soltanto le guerre e la ferocia cieca e idiota di certi fanatici. Perché non si possono fare distinzioni tra migranti, profughi, rifugiati e le cause che li spingono a fuggire. Ciò che si può fare è prendere atto che quest’onda di umanità disperata non si fermerà, si protrarrà per anni e cambierà profondamente la geopolitica europea, la composizione sociale di interi territori e città. Ma rendersi pienamente contro della situazione è ciò che si può fare come minimo, mentre in verità è giunto il momento di non limitarsi ad aprire gli occhi.

Si può fare di più. Una società civile matura deve essere capace di superare ogni ostacolo e appartenenza, deve saper compattarsi e reagire con forza, senza esitazione e senza distinguo. In Italia questo tipo di realtà di base esiste, il terreno è fertile, ma non può dare frutto se non è dissodato. Mi sento di fare un appello affinché questa progettualità comune si concretizzi in forme di accoglienza semplici e minime, ma diffuse in tutto il Paese e molto solide, strutturate e coordinate. Una rete umana in cui ogni soggetto partecipante garantisce di superare le differenze e gli steccati che lo separano dagli altri suoi componenti e quindi in qualche modo rinuncia a un pezzo della propria “sovranità” per condividere - con le altre associazioni, sindacati, parrocchie, comitati locali, partiti e chiunque lo voglia - la missione civile di dare tutta l’assistenza, l’aiuto e l’amicizia di cui ha bisogno chi arriva, disperato, impaurito, scosso, morto di fatica e distrutto nell’anima. Un’aggregazione dal basso che si faccia carico di creare le condizioni per realizzare quell’accoglienza che non può essere lasciata nelle mani di prefetti e sindaci proprio perché non passa solo da strutture e numeri ma richiede una comunità accogliente.
Nel piccolo l’associazione che rappresento, Slow Food insieme alla rete di Terra Madre, sta rispondendo a livello europeo, in particolare in Germania, Francia e Belgio. Perché se da un lato c’è un preoccupante stallo della politica, finora inadeguata, dall’altro c’è anche un diffuso senso di impotenza da parte di chi invece è motivato da un afflato solidale. Tante persone che, al contrario di chi è animato da intolleranza ignorante, vorrebbero fare qualcosa di utile e solidale ma non sanno come agire o a chi rivolgersi. È necessario, improrogabile, auspicabile creare situazioni di accoglienza stabili e durature, per stemperare gli attriti, offrire risposte, lavorare in direzione di un’integrazione civile e pacifica. Bisogna attivarsi.
Nel mio Piemonte, dove in un passato neanche tanto lontano fatto di migrazioni interne si leggeva sui portoni delle case “non si affitta ai meridionali”, sono già tanti gli esempi virtuosi. Associazioni, parrocchie che hanno risposto all’appello del Papa, comitati spontanei, semplici cittadini che si sono mossi, e bene. L’Arci, per esempio, si sta attivando con tenacia accanto alla Caritas attraverso uno straordinario impegno di volontari. Cito ancora, sempre a mo’ di esempio, soltanto il caso del Centro policulturale Baobab in via Cupa a Roma, che ha saputo mettere insieme tante diverse realtà, compreso il quartiere in cui si trova, per accogliere moltitudini di bambini che viaggiano soli e che devono raggiungere le loro famiglie già in Europa, riuscendo anche a coinvolgere i migranti nella gestione del centro stesso. Tanti pezzi di quella che si descrive come società civile si stanno mettendo insieme, in maniera magari disordinata ma spontanea e generosa.
Penso che da questo punto di vista, in considerazione anche della grande tradizione solidaristica della sinistra italiana, si possa ricostruire e far nascere, in un contesto straordinario, per così dire “interassociativo”, un nuovo soggetto che nobiliti la politica nella sua capacità di essere concreta quando è fatta e ispirata dal basso, dall’intraprendenza dei semplici cittadini.
C’è bisogno di concretezza assoluta, velocità nell’agire, totale apertura verso l’altro, vicino o lontano che sia. Dobbiamo affrontare un disastro? Una crisi? No. È il mondo che cambia, che sembra impazzire in fretta. È la nuova Grande Guerra in corso. Non siamo adeguati a rispondere costruttivamente, per come sono organizzate le nostre società. C’è bisogno di generare casi virtuosi che diventino regola, struttura, il definitivo attraversamento dei confini tra le persone dovuti alle ideologie annacquate e al rimbambimento generale e strategico che certi soggetti propugnano ogni giorno. E allora la crisi, la Grande Guerra sparsa per il mondo - come l’ha definita il Papa -, le emergenze, diventeranno subito occasione di riscatto per tutti. Per parafrasare De Amicis, dovremmo fare in modo che i “lidi non siano ignoti” e che non vi si “campi più d’angoscia”. Perché il sollievo che se ne guadagnerà, alla fine, non varrà soltanto per chi arriva, ma anche per gli “indigeni”, i quali hanno finalmente l’opportunità di dare un nuovo senso, o almeno un nuovo orizzonte politico, alle proprie vite.
«L’Arabia Saudita lo ha arrestato quando aveva 17 anni per aver partecipato a una manifestazione. E ora è arrivato il verdetto: pena capitale. Le cancellerie occidentali protestano, ma nessuno ha il coraggio di spingersi oltre: la vita di un ragazzo vale meno dei ricchi».

La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)

Il caso fa le cose per bene: qualche giorno prima che Ali Mohammed Al Nimr, 20 anni, nipote di un oppositore sciita del regime dell’Arabia Saudita, fosse condannato a essere decapitato e poi crocifisso fino a putrefazione avvenuta, Faisal Bin Hassan Trad, l’ambasciatore saudita, è stato eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Da parte di questa istituzione sempre più inefficace è una forma di umorismo nero un po’ speciale. Un umorismo color petrolio. L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette sentenze di morte a ogni piè sospinto. È il paese che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Secondo i media e le associazioni per i diritti umani, quest’anno ci sono state 133 esecuzioni. Il crimine di questo ragazzo (al momento dell’arresto aveva 17 anni) è di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. La sentenza supera i limiti della comprensione. È un assassinio. Quel ragazzo non ha ucciso, né violentato, né rubato. Ha solo partecipato a una manifestazione nel corso della “primavera araba”. Se sarà giustiziato, le Nazioni unite dovrebbero perseguire l’Araba saudita. Ma non lo faranno.

Che cosa fare in questi casi? Lasciar correre, stare zitti, tenere un profilo basso per non perdere qualche contratto? Starsene dietro alla propria vigliaccheria e distogliere lo sguardo? Ma è inammissibile. Per giudicare i governanti che hanno commesso crimini contro l’umanità c’è la Corte penale internazionale: perché non viene denunciato chi amministra la giustizia in quel paese?
Già la condizione femminile è tra le più scandalose del mondo civile. Il fatto di esprimere un’opinione, di osare opporsi a un sistema arcaico, ancorché perfettamente aggiornato sotto il profilo tecnico, è punito con la morte. Ma nel caso del giovane Ali, la punizione è già cominciata: prima sarà decapitato, poi crocifisso e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione. Immaginiamo che cosa sta passando quest’uomo nell’anticamera della morte: è già mezzo morto, morto di paura, morto di calvario anticipato. È diventato il simbolo della vittima la cui vita è stata confiscata da un regime in cui i diritti umani rientrano nella sfera del virtuale.
Anche se quello Stato ascoltasse le proteste internazionali e annullasse la condanna, resterà il problema dell’esistenza di un sistema medievale che non si può né criticare dall’interno né esautorare dall’esterno. Perché è potente, molto potente. La ricchezza gli procura i miliardi sufficienti per comprare qualsiasi cosa, dai beni materiali alle coscienze. Nessun paese ha voglia di contrastare l’Arabia Saudita. Sì, c’è l’Iran, ma vorrebbe soppiantarla per diventare il guardiano dei luoghi sacri e dei diritti umani non gli importa un fico. Tutti i paesi occidentali hanno progetti di contratti con l’Arabia e non vogliono sacrificarli per la vita di un ragazzo. Certo diversi capi di Stato hanno chiesto di annullare l’esecuzione di Ali, ma non vogliono spingersi più in là di così. In quello risiede la potenza dell’Arabia Saudita. Fa quello che vuole e non dà retta a nessuno.
Questa sentenza ricorda stranamente la condanna e l’esecuzione del grande poeta sufi (mistico) del decimo secolo Al Hallaj. Condannato a morte per aver detto, parlando del suo amore per Dio, “Ana Al Haq” (Io sono la Verità), il suo corpo è stato evirato e crocifisso. È marcito al sole. Al Hallaj era impaziente di raggiungere Dio, perché la sua passione per la divinità l’aveva fatto rinunciare ai beni e ai piaceri materiali della vita. Ma se le autorità saudite hanno deciso di crocifiggere il giovane Ali non è in omaggio al poeta sufi ma semplicemente per crudeltà e arroganza. La loro potenza è nera come l’oro che li ricopre e che li rende così disumani.
Noam Chomsky e le convinzioni sulla rinascita di una sinistra radicale negli Usa, i germi di nuova sinistra in Europa continentale (Syriza e Podemos), Regno Unito (Jeremy Corbin) e USA (Bernie Sanders), sul potenziale della gente a produrre cambiamento radicale.

Jacobin, 22 settembre 2015

In una intervista di un paio di anni fa, lei ha detto che il movimento Occupy Wall Street aveva creato un raro sentimento di solidarietà negli Stati Uniti. Il 17 settembre è stato il quarto anniversario del movimento OWS. Qual è la tua valutazione dei movimenti socialicome OWS negli ultimi venti anni? Sono stati efficaci nel determinare il cambiamento? Come potrebbero migliorare?

«Hanno avuto un impatto; essi non si sono coalizzati in movimenti persistenti e continui. Si tratta di una società molto atomizzata. Ci sono pochissime organizzazioni continuative che hanno memoria istituzionale, che sanno come muoversi nella fase successiva e così via. Questo è in parte a causa della distruzione del movimento operaio, che era solito offrire una sorta di base fissa per molte attività; ormai, praticamente le uniche istituzioni persistenti sono le chiese. Tante cose sono basate sulla chiesa.

«E’ difficile per un movimento prendere piede. Ci sono spesso movimenti di giovani, che tendono ad essere transitori; d’altra parte c’è un effetto cumulativo, e non si sa mai quando qualcosa farà da scintilla per un grande movimento. E’ accaduto tante volte: il movimento per i diritti civili, il movimento delle donne. Quindi, continuate a provare fino a quando qualcosa decolla».

La crisi del 2008 ha dimostrato chiaramente i difetti della dottrina economica neoliberista. Tuttavia, il neoliberismo sembra ancora persistere ed i suoi principi sono ancora applicati in molti paesi. Perché, anche con i tragici effetti della crisi del 2008, la dottrina neoliberista sembra essere così resistente? Perché non vi è ancora stata una risposta forte come dopo la Grande Depressione?

«Prima di tutto, le risposte europee sono state molto peggio delle risposte degli Stati Uniti, il che è abbastanza sorprendente. Negli Stati Uniti ci sono stati lievi sforzi di stimolo, quantitative easing e così via, che lentamente hanno permesso all’economia di riprendersi. Infatti, la ripresa dalla Grande Depressione fu effettivamente più veloce in molti paesi di quanto lo sia oggi, per un sacco di motivi. Nel caso dell’Europa, uno dei motivi principali è che la creazione di una moneta unica è stato un disastro automatico, come molte persone hanno sottolineato. Meccanismi per rispondere alla crisi non sono disponibili in Europa: la Grecia, ad esempio, non può svalutare la propria moneta.

«L’integrazione europea ha avuto sviluppi molto positivi per certi aspetti ed è stata dannosa in altri, soprattutto quando è sotto il controllo di poteri economici estremamente reazionari, che impongono politiche economicamente distruttive e che sono fondamentalmente una forma di guerra di classe.

«Perché non c’è reazione? Beh, i paesi deboli non stanno ottenendo il sostegno degli altri. Se la Grecia avesse avuto il sostegno di Spagna, Portogallo, Italia e altri paesi avrebbero potuto essere in grado di resistere alle forze degli eurocrati. Questi sono i tipi di casi particolari che hanno a che fare con gli sviluppi contemporanei. Negli anni ’30, ricordate che le risposte non erano particolarmente attraenti: una di esse era il nazismo».

Alcuni mesi fa Alexis Tsipras, leader di Syriza, è stato eletto come primo ministro della Grecia. Alla fine, però, ha dovuto fare molti compromessi a causa della pressione imposta su di lui dai poteri finanziari, ed è stato costretto ad attuare dure misure di austerità. Pensi che, in generale, un vero cambiamento può venire quando un leader della sinistra radicale, come Tsipras arriva al potere, o gli stati nazionali hanno perso troppa sovranità e sono anche loro dipendenti dalle istituzioni finanziarie che possono disciplinarli se non seguono le regole del libero mercato?

«Come ho detto, nel caso della Grecia, se ci fosse stato il sostegno popolare per la Grecia da altre parti d’Europa, la Grecia avrebbe potuto essere in grado di resistere all’assalto dell’alleanza banca eurocrati. Ma la Grecia era sola – non ha avuto molte opzioni.

Ci sono ottimi economisti come Joseph Stiglitz che pensano che la Grecia avrebbe dovuto solo tirarsi fuori dalla zona euro. Si tratta di un passo molto rischioso. La Grecia è una piccola economia, non è granché un’economia di esportazione, e sarebbe troppo debole per resistere alle pressioni esterne. Ci sono persone che criticano la tattica di Syriza e la posizione che hanno preso, ma penso che sia difficile vedere quali opzioni avevano con la mancanza di supporto esterno».

Immaginiamo per esempio che Bernie Sanders vinca le elezioni presidenziali del 2016. Cosa pensi che accadrebbe? Potrebbe portare il cambiamento radicale delle strutture di potere del sistema capitalista?

«Supponiamo che Sanders vinca, che è piuttosto improbabile in un sistema di elezioni comprate. Lui sarebbe solo: non ha rappresentanti del Congresso, non ha governatori, che non ha il supporto nella burocrazia, non ha legislatori statali; e isolato in questo sistema, non potrebbe fare molto. Una vera alternativa politica dovrebbe essere generalizzata, non solo una figura alla Casa Bianca.

«Dovrebbe essere un ampio movimento politico. In effetti, la campagna Sanders penso che è preziosa – sta aprendo problemi, potrebbe forse spingere un po’ in una direzione progressista i Democratici mainstream , e sta mobilitando un sacco di forze popolari e il risultato più positivo sarebbe se rimangono mobilitate dopo le elezioni.

«E’ un grave errore essere solo orientati alla stravaganza elettorale quadriennale e poi tornare a casa. Non è questo il modo in cui i cambiamenti avvengono. La mobilitazione potrebbe portare ad una permanente organizzazione popolare che potrebbe forse avere un effetto nel lungo periodo».

Qual è il suo parere in merito alla comparsa di figure come Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Pablo Iglesias in Spagna, o Bernie Sanders negli Stati Uniti? È un nuovo movimento di sinistra in crescita, o queste sono solo reazioni sporadiche alla crisi economica?

«Dipende da quello che la reazione popolare è. Prendete Corbyn in Inghilterra: è sotto attacco feroce, e non solo dall’establishment conservatore, ma anche dalla classe dirigente del Labour. Si spera che Corbyn sarà in grado di sopportare questo tipo di attacco; questo dipende dal sostegno popolare. Se il pubblico è disposto a supportarlo a fronte della diffamazione e delle tattiche distruttive, allora può avere un impatto. Stessa cosa con Podemos in Spagna.

Come si può mobilitare un gran numero di persone che su tali questioni complesse?

«Non è così complesso. Il compito degli organizzatori e attivisti è quello di aiutare le persone a capire e far loro riconoscere che loro hanno il potere, che non sono impotenti. Le persone si sentono impotenti, ma questo deve essere superato. Questo è ciò intorno a cui ruota l’organizzare e l’attivismo . A volte funziona, a volte non riesce, ma non ci sono segreti. E’ un processo a lungo termine – è sempre stato il caso. E ha avuto successo. Nel corso del tempo c’è una sorta di traiettoria generale verso una società più giusta, con regressioni e inversioni di rotta.

Quindi tu diresti che, durante il corso della vita, l’umanità è progredita nella costruzione di una società un po ‘più giusta?

«Ci sono stati enormi cambiamenti. Basta guardare qui al MIT. Fate una passeggiata nella hall e date un’occhiata alla natura del corpo studentesco: circa la metà è composta da donne , un terzo dalle minoranze, vestiti informalmente, relazioni casuali tra le persone e così via. Quando sono arrivato qui nel 1955, se tu camminavi per la stesso sala ci sarebbero stati maschi bianchi, giacche e cravatte, molto educati, obbedienti, che non ponevano molte domande. Questo è un enorme cambiamento.
E non è solo qui – è dappertutto. Tu e io non avremmo avuto questo aspetto, e infatti probabilmente tu non saresti stato qui. Questi sono alcuni dei cambiamenti culturali e sociali che hanno avuto luogo grazie a coscienzioso e solerte attivismo .

«Altre cose non sono andate così, come il movimento operaio, che è stato sotto duro attacco durante tutta la storia americana e in particolare a partire dai primi anni ’50. E’ stato seriamente indebolito: nel settore privato è marginale, ed viene ora attaccato nel settore pubblico. Questa è una regressione.

Le politiche neoliberiste sono certamente una regressione. Per la maggior parte della popolazione negli Stati Uniti, c’è stata praticamente stagnazione e declino nell’ultima generazione. E non a causa di alcune leggi economiche. Queste sono le politiche. Proprio come l’austerità in Europa non è una necessità economica – in realtà, è una sciocchezza economica. Ma si tratta di una decisione politica intrapresa dai progettisti per i propri scopi. Penso che in fondo è una sorta di guerra di classe, e si può resistere, ma non è facile. La storia non va in linea retta».

Come pensi che il sistema capitalista sopravviverà, considerando la sua dipendenza dai combustibili fossili e il suo impatto sull’ambiente?

«Quello che è chiamato il sistema capitalista è molto lontano da qualsiasi modello di capitalismo o di mercato. Prendete le industrie dei combustibili fossili: c’era un recente studio del Fondo monetario internazionale, che ha cercato di stimare il contributo che le aziende energetiche ottengono da parte dei governi. Il totale era colossale. Penso che sia stato intorno a 5.000 miliardi $ all’anno. Questo non ha niente a che fare con i mercati e il capitalismo. Lo stesso vale per altre componenti del cosiddetto sistema capitalistico. Ormai, negli Stati Uniti e altri paesi occidentali, c’è stato, nel periodo neoliberista, un forte aumento della finanziarizzazione dell’economia. Le istituzioni finanziarie negli Stati Uniti avevano circa il 40 per cento dei profitti delle imprese, alla vigilia del crollo del 2008, per il quale avevano una grande parte di responsabilità.

«C’è un altro studio del Fmi che ha indagato i profitti delle banche americane, e ha scoperto che erano quasi completamente dipendenti sovvenzioni pubbliche implicite. C’è una sorta di garanzia – non è sulla carta, ma è una garanzia implicita – che se si trovano nei guai saranno tirate fuori fuori. Questo lo chiamano too big to fail.

E le agenzie di rating del credito naturalmente lo sanno, lo prendono in considerazione e con elevato merito creditizio le istituzioni finanziarie ottengono un accesso privilegiato al credito più conveniente, ricevono i sussidi se le cose vanno male e molti altri incentivi, che ammontano di fatto a forse il loro profitto totale . La stampa economica ha cercato di fare una stima di questo numero e si presume di circa $ 80 miliardi di dollari all’anno. Questo non ha niente a che fare con il capitalismo.
E’ lo stesso in molti altri settori dell’economia. Quindi la vera domanda è, questo sistema di capitalismo di Stato, che è quello che è, sopravviverà all’uso continuato dei combustibili fossili? E la risposta è, naturalmente, no.

«Ormai c’è un piuttosto forte consenso tra gli scienziati che dicono che la maggior parte dei combustibili fossili rimanenti, forse l’80 per cento, devono essere lasciati nel terreno, se speriamo di evitare un aumento della temperatura che sarebbe piuttosto letale. E non sta accadendo. Gli esseri umani possono stare distruggendo le loro possibilità di sopravvivenza decente. Non ucciderà tutti, ma cambierebbe il mondo in modo drammatico».

Riferimenti
Questo articolo, pubblicato sul sito della rivista Jacobin, è stato ripreso tradotto da Maurizio Acerbo sulla mailing listi di Altra Europa.

Una botta alla sanità pubblica, un affare per quella privata. Con il decreto del ministero della salute il governo Renzi vuole tagliare 13 miliardi. Un colpo secco al sistema della prevenzione. A pagarne il prezzo saranno i malati che non hanno mezzi per curarsi. In agitazione il settore, Articoli di Eleonora Martini, Ivan Cavicchi, Tonino Aceti. Il manifesto, 24 settembre 2015

TAGLI E MULTE MEDICI IN RIVOLTA
di Eleonora Martini

La ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga a 208 voci la lista di esami clinici da ridurre e sottrae altri 2,3 miliardi al Servizio sanitario nazionale. L’accusa è di eccesso di prescrizioni inappropriate. In preparazione altre norme per ridurre la medicina difensiva. I sindacati: manifestazione nazionale a novembre

Messo defi­ni­ti­va­mente in sof­fitta l’obiettivo prio­ri­ta­rio di pre­ve­nire le malat­tie che era alla base della riforma sani­ta­ria del 1978, la mini­stra della Salute Bea­trice Loren­zin allunga ulte­rior­mente fino a 208 voci, rispetto alle 108 dell’agosto scorso, l’elenco degli esami cli­nici - da inse­rire in un pros­simo decreto legge - che saranno coperti dal Sistema sani­ta­rio nazio­nale solo a deter­mi­nate con­di­zioni, pre­ve­dendo san­zioni per i medici che non rispet­tano i paletti impo­sti e per­se­ve­rano invece in quell’«eccesso di pre­scri­zioni» esploso negli ultimi anni con la cosid­detta “medi­cina difensiva”.

Un pro­blema, quello dell’appropriatezza delle pre­scri­zioni di test dia­gno­stici (ma di abuso di far­maci non parla più nes­suno) su cui tutti con­cor­dano, inclusi, con scarsa auto­cri­tica, i camici bian­chi, e che com­por­te­rebbe secondo i cal­coli gover­na­tivi uno spreco di risorse pub­bli­che pari a 13 miliardi ogni anno. I medici però non ci stanno ad accet­tare il «metodo repres­sivo» che limita la loro azione «in scienza e coscienza» e «rischia di incri­nare il rap­porto di fidu­cia col paziente». Ma soprat­tutto, si riper­cuote sulla salute pub­blica, aumen­tando il diva­rio tra le oppor­tu­nità di accesso alle cure a seconda del censo e della regione di appartenenza.

E allora la Fede­ra­zione nazio­nale degli Ordini dei medici annun­cia già per novem­bre una mani­fe­sta­zione nazio­nale di tutta la cate­go­ria per «richia­mare l’attenzione sulle cri­ti­cità emer­genti del Ssn», men­tre Mas­simo Cozza, segre­ta­rio nazio­nale Fp Cgil Medici chiama alla «mobi­li­ta­zione uni­ta­ria con i cit­ta­dini a difesa del Ssn e con­tro i tagli alla sanità camuf­fati come man­cati aumenti o risparmi annun­ciati da Renzi e Padoan».

Cozza spiega al mani­fe­sto: «Con quest’ultima mano­vra di luglio inse­rita nel decreto sugli enti locali, in appli­ca­zione del Patto sulla salute siglato da governo e regioni e da com­ple­tare appunto con l’elenco degli esami cli­nici sti­lato dal mini­stero, si tagliano 2,3 miliardi alla sanità pub­blica. Ma sono 30 i miliardi sot­tratti negli ultimi cin­que anni e non rein­ve­stiti sul Ssn». Inol­tre, il prov­ve­di­mento della mini­stra Loren­zin — che limita, per esem­pio, la pos­si­bi­lità di ripe­tere l’esame del cole­ste­rolo e dei tri­gli­ce­ridi nel san­gue a una volta ogni cin­que anni, a meno di par­ti­co­lari neces­sità cura­tive — sca­rica sulle regioni la messa a punto del modus ope­randi: chi con­trol­lerà, chi diri­merà even­tuali con­tro­ver­sie tra medico e con­trol­lore, quali san­zioni per il medico e chi le inflig­gerà. C’è da scom­met­tere che ogni regione si rego­lerà a modo suo. E così l’erogazione dei ser­vizi, già a mac­chia di leo­pardo, diven­terà tal­mente diso­mo­ge­nea da vio­lare il diritto costi­tu­zio­nale san­cito dall’articolo 32. In più, aggiunge Luigi Conte, segre­ta­rio Fnom­ceo, «molti dei 208 esami indi­cati nel prov­ve­di­mento come a rischio inap­pro­pria­tezza sono desueti e già non utilizzati».

Ribatte Loren­zin: «Non c’è una cac­cia al medico, tutt’altro. Gli diamo gli stru­menti per agire in modo più sereno. Le san­zioni ammi­ni­stra­tive sul sala­rio acces­so­rio scat­te­ranno dopo un eccesso rei­te­rato di pre­scri­zioni inap­pro­priate e solo dopo un con­trad­dit­to­rio con il medico che dovrà giu­sti­fi­care scien­ti­fi­ca­mente le sue scelte. Se non lo farà, solo allora scat­terà la san­zione». La mini­stra assi­cura inol­tre che i «pro­to­colli che sta­bi­li­scono come e quando fare gli esami sono stati decisi dalle società scien­ti­fi­che e rivi­sti dal Con­si­glio supe­riore di sanità». E invece l’associazione dei medici diri­genti Anaao «con­ferma la pro­pria totale con­tra­rietà ad affron­tare il tema dell’appropriatezza cli­nica per via poli­tica e ammi­ni­stra­tiva - afferma il segre­ta­rio nazio­nale Costan­tino Troise - Senza con­tare i veri e pro­pri stra­fal­cioni pre­senti nella parte tec­nica del decreto, che la dicono lunga sulle com­pe­tenze e sull’attenzione riser­vate alla materia».

Non sono poche invece le orga­niz­za­zioni che plau­dono al prov­ve­di­mento con­si­de­rato «utile alla lotta agli spre­chi». Ma men­tre i sin­da­cati dei radio­logi, per esem­pio, chie­dono di «risol­vere rapi­da­mente la que­stione della respon­sa­bi­lità pro­fes­sio­nale», per il Coda­cons i medici «appa­iono total­mente tute­lati e pos­sono ricor­rere anche a forme par­ti­co­lari di assi­cu­ra­zione», «il pro­blema sem­mai è garan­tire un livello di assi­stenza sani­ta­ria ade­guata evi­tando distor­sioni a danno degli utenti».

L’elenco di Loren­zin comun­que, secondo Mas­simo Cozza, «non rap­pre­senta in alcun modo un limite alla medi­cina difen­siva». E infatti il governo sta già lavo­rando, come ha riba­dito ieri, ad una serie di norme da inse­rire nella legge di sta­bi­lità per aiu­tare i medici a tute­larsi dalle cause teme­ra­rie che sareb­bero, secondo i sin­da­cati, il 97% di quelle inten­tate da pazienti.

E ORA SCIOPERO GENERALE DELLA SANITÀ
di Ivan Cavicchi
Mobilitazione generale. Con questo decreto sulla "appropriatezza prescrittiva" si passa dalla centralità del malato a quella dei vincoli amministrativi
Il decreto messo a punto dal mini­stero della salute è uno schiaffo in piena fac­cia alla pro­fes­sione medica. E’ la ridu­zione della cli­nica a una sorta di medi­cina di Stato quindi di medi­cina ammi­ni­strata. E’ para­dos­sal­mente la nega­zione di una medi­cina dav­vero ade­guata verso la com­ples­sità espressa dal malato. E’ la fine di qual­siasi reto­rica su uma­niz­za­zione e per­so­na­liz­za­zione delle cure.

Con que­sto decreto sulla “appro­pria­tezza pre­scrit­tiva” si passa dalla cen­tra­lità del malato, dalla alleanza tera­peu­tica, dal valore della per­sona, alla cen­tra­lità dei vin­coli ammi­ni­stra­tivi ai quali tutti gli atti medici dovranno con­for­marsi pena la pos­si­bi­lità (fino ad ora solo dichia­rata) di pena­liz­zare i malati e i medici con san­zioni pecu­nia­rie. Così i medici diven­tano dei dispen­ser buro­cra­ti­ca­mente ete­ro­gui­dati, una sorta di distri­bu­tori di ben­zina, che pre­scri­vono non più in scienza e coscienza ma secondo pro­to­colli stan­dar­diz­zati. Così la cli­nica diventa l’esercizio di atti dia­gno­stici e tera­peu­tici stan­dard, i malati per­dono la loro indi­vi­dua­lità diven­tando astra­zioni sta­ti­sti­che. Come si è arri­vati a tutto questo?

Con il decreto lo Stato intende recu­pe­rare almeno 10/13 mld dalla spesa sani­ta­ria cor­rente spe­rando di azze­rare quel feno­meno defi­nito “medi­cina difen­siva” per il l quale almeno l’80 % dei medici (inda­gini fatte dalla cate­go­ria) adotta com­por­ta­menti oppor­tu­ni­sti per pre­ve­nire rischi di con­ten­ziosi legali: pre­scri­vono ana­lisi, far­maci e rico­veri anche quando non servono.

Che i medici abbiano la coda di paglia lo si capi­sce dalle loro dichia­ra­zioni: da una parte stig­ma­tiz­zano il decreto ma dall’altra si dichia­rano dispo­ni­bili a “trat­tare” cor­reg­gendo sin­goli punti, soprat­tutto pre­oc­cu­pati di evi­tare le san­zioni eco­no­mi­che anzi­ché scen­dere in piazza per respin­gere que­sto inu­si­tato attacco alla loro cre­di­bi­lità, al loro ruolo e alla loro autonomia.

Il decreto è il più for­mi­da­bile atto di dele­git­ti­ma­zione della pro­fes­sione medica e in par­ti­co­lare dei medici di medi­cina gene­rale, che dalle inda­gini della Fnom­ceo, risul­tano coloro che più degli altri adot­tano com­por­ta­menti oppor­tu­ni­sti, ma anche quelli che sul piano poli­tico sin­da­cale in que­sti anni si sono oppo­sti più degli altri a qual­siasi ripen­sa­mento del loro status.

Que­sti medici pre­ziosi e inso­sti­tui­bili ma anche nel loro com­plesso ter­ri­bil­mente cor­po­ra­tivi (a un tempo con le libertà dei liberi pro­fes­sio­ni­sti e con le garan­zie dei pub­blici dipen­denti), con il decreto sulle pre­sta­zioni inap­pro­priate rischiano di diven­tare degli ossi­mori cioè dei liberi pro­fes­sio­ni­sti senza auto­no­mia, quindi dei dipen­denti di fatto ma che ope­rano nei loro studi personali.

Nello stesso tempo è evi­dente che i camici bian­chi rischiano di essere maciul­lati dal mai risolto pro­blema del con­ten­zioso legale e della respon­sa­bi­lità pro­fes­sio­nale. Sor­prende a que­sto pro­po­sito che l’Istituto supe­riore di sanità abbia dato il via libera ad un prov­ve­di­mento tanto discu­ti­bile quanto rischioso anche rispetto ai suoi pro­fili di scien­ti­fi­cità. Que­sta strana e ina­spet­tata dispo­ni­bi­lità da una parte spiega la diva­ri­ca­zione che c’è tra la medi­cina acca­de­mica e la medi­cina in trin­cea, cioè tra scienza e realtà, ma dall’altra spiega la com­pia­cenza di un orga­ni­smo scien­ti­fico nei con­fronti del mini­stero, che per gran parte è stato lot­tiz­zato con logi­che tutt’altro che scien­ti­fi­che e che oggi di fatto copre le scelte del mini­stero ma non i diritti dei malati e meno che mai un’idea uma­niz­zata di medi­cina.

E il malato? E’ l’innocente che paga i vizi e gli errori degli altri. Egli deve avere la for­tuna di rien­trare den­tro le regole di Stato ma se per ragioni gene­ti­che per­so­nali situa­zio­nali o con­tin­genti non vi rien­tra (il che è più comune di quello che si creda) egli o non riceve le cure appro­priate o per avere cure appro­priate deve pagare anche se la ragione per cui paga altro non è che il suo diritto.
Voglio ricor­dare a pro­po­sito di costi pri­vati impo­sti ai malati, che nelle regioni, in par­ti­co­lare in Toscana, sono in atto stra­te­gie per spin­gere i cit­ta­dini, soprat­tutto per le pre­sta­zioni spe­cia­li­sti­che, verso il pri­vato. La Toscana si è accor­data con il pri­vato per far costare le pre­sta­zioni spe­cia­li­sti­che meno del costo del tic­ket pro­prio per incen­ti­vare i malati a lasciare il pubblico.

Tor­nando al decreto sulle pre­sta­zioni inap­pro­priate, la pos­si­bi­lità per il malato di rien­trare nella regola pre­scrit­tiva dipende in genere dal grado di sin­go­la­rità della sua malat­tia. Sic­come l’appropriatezza pre­scrit­tiva del mini­stero non è in fun­zione del malato ma del rispar­mio, è facile pre­ve­dere che mol­tis­simi malati saranno ingiu­sta­mente pena­liz­zati, cioè la medi­cina di Stato per essere appro­priata con la spesa sarà cli­ni­ca­mente inap­pro­priata con il malato.

Mi chiedo cosa altro deve essere fatto con­tro i malati e le pro­fes­sioni, con­tro l’art 32 della Costi­tu­zione, per con­vin­cerci a dare corso ad uno scio­pero gene­rale del set­tore. Ormai la sanità pub­blica è bom­bar­data da tempo da una serie di atti con­tro­ri­for­ma­tori: con­tro il lavoro, con rior­dini regio­nali che distrug­gono ogni ter­ri­to­ria­lità, con liste di attesa abnormi, ser­vizi messi in ginoc­chio da anni di blocco del turn over, con regioni mani­fe­sta­mente immo­rali e inca­paci di gover­nare e con in più con­ti­nui tagli lineari ai fab­bi­so­gni della nostra popolazione.

Natu­rale sarebbe dare seguito a uno scio­pero gene­rale della sanità per bloc­care la con­tro­ri­forma e per ripen­sare il nostro sistema pub­blico che ha biso­gno di fun­zio­nare meglio, costare di meno e con­ti­nuare a essere soli­dale e universale.

RENZI TAGLIA LE PRESTAZIONI SANITARIE
PER FINANZIARE L’ABBATTIMENTODELLE TASSE»
Roberto Ciccarelli intervista Tonino Aceti

Sanità. Intervista al portavoce del Tribunale per i diritti del malato: «Con il decreto sull'appropriatezza prescrittiva il governo intende reperire le risorse per il piano sulle tasse annunciato dal Presidente del Consiglio e scarica i costi sulle spalle dei cittadini e del Welfare». «Questo decreto è inadeguato rispetto all’evoluzione della medicina contemporanea»
Tonino Aceti, por­ta­voce del tri­bu­nale per i diritti del malato-CittadinanzaAttiva, con­te­sta l’esistenza di un’emergenza creata dall’eccesso di pre­sta­zioni sani­ta­rie che coste­rebbe allo Stato 13 miliardi di euro all’anno. In base a que­sta cifra, il governo Renzi ha deciso di tagliare 208 pre­scri­zioni con­si­de­rate «esami inu­tili». «Parto da un dato incon­te­sta­bile per­ché isti­tu­zio­nale – afferma Aceti — Nel 2014 per l’Istat il 9,5% della popo­la­zione ha rinun­ciato a una pre­sta­zione sani­ta­ria di cui aveva biso­gno a causa delle lun­ghe liste di attesa, dell’inefficienza orga­niz­za­tiva e del costo dei tic­ket. Non è un fatto di poco conto: il dato è aumen­tato in un anno dello 0,5%. Nel 2013 riguar­dava il 9% dei cit­ta­dini. Que­sto allarme lan­ciato dalla mini­stra della Sanità Loren­zin per noi è esat­ta­mente l’opposto: in Ita­lia esi­ste una dif­fi­coltà ad acce­dere alle pre­sta­zioni, non un loro eccesso».
Se è così per­ché il governo ha lan­ciato l’allarme?
Per fare cassa e finan­ziare l’abbattimento delle tasse annun­ciate dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi. Il decreto sull’appropriatezza è neces­sa­rio per repe­rire le risorse, sca­ri­cando i costi sulle spalle dei cit­ta­dini e del Wel­fare. Le cose vanno chia­mate con il loro nome: con la scusa di que­sto decreto si sta attuando una revi­sione dei livelli essen­ziali di assi­stenza e del paniere delle pre­sta­zioni del Sistema Sani­ta­rio nazionale.

Non crede che sia neces­sa­rio miglio­rare l’appropriatezza delle pre­scri­zioni?
Ma non si può aggre­dire que­sto pro­blema con un decreto. Il miglio­ra­mento va pro­mosso dal Sistema sani­ta­rio nazio­nale attra­verso un piano stra­te­gico che pre­veda la for­ma­zione del per­so­nale, l’informazione indi­pen­dente dei pro­fes­sio­ni­sti, i pro­to­colli dia­gno­stici tera­peu­tici assi­sten­ziali. Quello che è certo è che non si taglia l’assistenza come fa que­sto decreto. In un momento in cui aumenta la dif­fi­coltà di accesso alla sanità, i red­diti sono sotto stress per la crisi, sarebbe neces­sa­rio un soste­gno al Wel­fare. Tra tagli alla sanità e decreti come que­sto invece si dimi­nui­scono le tutele dei cit­ta­dini e dei pazienti.

Quali potreb­bero essere le con­se­guenze del decreto?
Aprire un’autostrada ai pri­vato e alle assi­cu­ra­zioni sulle salute. Con 208 pre­scri­zioni vie­tate potrebbe essere lo stesso medico a con­si­gliare al paziente di rivol­gersi a loro. Il pro­blema è che con i red­diti che dimi­nui­scono, e con la povertà che aumenta, aumen­te­ranno anche le per­sone che scel­gono di non curarsi per­ché non hanno i soldi per farlo.

Qual è il cri­te­rio usato nella scelta delle pre­sta­zioni da tagliare?
Que­sta ope­ra­zione è scol­lata dalla realtà e ina­de­guata rispetto alle evo­lu­zioni della medi­cina. Oggi si va sem­pre di più verso la medi­cina di genere e per­so­na­liz­zata. Non si capi­sce per­ché, in que­sto caso, il governo abbia scelto di stan­dar­diz­zare le pre­sta­zioni. Ogni cit­ta­dino è diverso e ha biso­gno di pre­sta­zioni per­so­na­liz­zate. Que­sta deci­sione tra­sfor­merà i medici in buro­crati ammi­ni­stra­tivi che dovranno ese­guire le pre­sta­zioni nel rispetto di una tabella mini­ste­riale. Se non lo farà, il medico è pas­si­bile di una san­zione. Dal punto di vista dell’etica pro­fes­sio­nale que­sto è gravissimo.

Come cam­bierà il rap­porto tra il cit­ta­dino e il medico?
Si potrebbe inne­scare un più alto livello di con­flit­tua­lità come già accade per l’accesso a alcuni far­maci gra­tuiti. Il medico si trova costretto, in alcune situa­zioni, a rifiu­tare la pre­scri­zione. Il cit­ta­dino non accetta le sue moti­va­zioni, si sente truf­fato e deluso dal Sistema sani­ta­rio Nazio­nale che gli ciò che gli serve e lo obbliga ad andare dal pri­vato. Non si può esclu­dere che la stessa cosa possa acca­dere con le pre­scri­zioni e che il cit­ta­dino agi­sca con­tro il medico.

In tri­bu­nale?
Non lo escludo. Ci si potrebbe rivol­gere al giu­dice per capire se il cit­ta­dino ha il diritto a una pre­sta­zione garan­tita dall’ordinamento costi­tu­zio­nale. Que­sta con­flit­tua­lità potrebbe coin­vol­gere anche i diret­tori gene­rali delle strut­ture sani­ta­rie, anche loro col­piti dalle misure pre­vi­ste dal decreto.

I sin­da­cati dei medici hanno annun­ciato l’intenzione di fare uno scio­pero. Voi cosa farete?
L'intervento in aula di un senatore che conosciamo e stimiamo. Siamo certi che è tra quelli che non voteranno l'orrida proposta di cui illustra l'intima nefandezze e la pesante lesione delle regole della convivenza democratica, e quindi contribuirà a bocciarla. Ma ci domandiamo ancora una volta come faccia a rimanere in quel partito

Quando gli storici di diritto costituzionale studieranno questa revisione della Carta, noteranno un'anomalia che noi non possiamo oppure non vogliamo vedere. Con i voti di un premio di maggioranza viziato da illegittimità si riscrive quasi tutta la seconda parte. La famosa sentenza della Corte raccomandava di approvare subito la legge elettorale per andare a votare al più presto, ma non chiedeva di riscrivere la Carta. Lo fa la classe politica proprio per evitare le elezioni. So di dire una cosa che suona sgradevole e mi viene quasi di scusarmi con voi. È come se ci fosse un inconsapevole accordo a non parlarne qui. Che la dice lunga sullo straniamento di questo dibattito.

Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l'approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l'Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.

Si affidano le sorti del paese all'arbitrio di una minoranza che diventa maggioranza per i rinforzi artificiali del premierato invece che per i consensi liberamente espressi dai cittadini. Si crea un governo maggioritario in una democrazia minoritaria, segnata sempre più da una disaffezione elettorale che allontana dalle urne ormai quasi la metà della popolazione.

I giuristi sono soliti fare la prova di resistenza delle leggi, cioè di valutarne gli esiti nello scenario peggiore. Proviamo anche noi. Un leader che raccoglie meno di un terzo dei consensi conquista il banco, è in grado di governare da solo - e fin qui si può accettare - ma può anche modificare le regole fondamentali con spirito di parte senza essere costretto a discuterne con tutti. Può decidere da solo sui diritti fondamentali di libertà, sull'indipendenza della Magistratura, sulle regole dell'informazione, sui principi dell'etica pubblica, sulla dichiarazione di guerra, sulle prerogative del ceto politico, e infine riscrivere le leggi elettorali e perfino ulteriori revisioni costituzionali al fine di prolungare sine die la vittoria che lo ho portato al potere.

Per tutto ciò il premier dispone di una maggioranza ubbidiente di parlamentari che ha scelto personalmente come capilista. D'altro canto, con l'Italicum i tre quarti dei parlamentari, sempre nel worst case scenario, sono sottratti al controllo degli elettori, non solo al momento del voto ma durante il mandato. Al contrario il premier riceve un'investitura diretta, seppure minoritaria, nel ballottaggio. Si crea così un forte squilibrio di legittimazione tra il capo del governo e l'assemblea, che si traduce in supremazia del potere esecutivo sopra il legislativo e indirettamente anche sull'ordinamento giudiziario.

I tre poteri fondamentali di una democrazia sono decisamente fuori equilibrio, e il principale fattore di questo squilibrio è il numero dei deputati. La Camera - unica depositaria del voto di fiducia - è sei volte più grande del Senato. Di fatto è un monocameralismo. Niente di male in linea di principio, lo proponeva con ardore anche il mio caro maestro, il presidente Pietro Ingrao, e tanti altri nella Prima Repubblica, ma tutti lo compensavano con legge elettorale proporzionale. Nessuno lo avrebbe mai accettato con una legge ipermaggioritaria. Eppure, eliminare lo squilibrio numerico sarebbe facile e doveroso. In nessun paese europeo si arriva a 630 deputati. E la proposta iniziale del governo faceva della riduzione dei parlamentari la priorità della revisione costituzionale. Perché allora non si riduce il numero dei deputati? Perché si cambia tutto tranne il numero della Camera? Da più di un anno questa domanda rimane senza risposta. Mi rivolgo in extremis alla ministra Boschi: abbia almeno la cortesia istituzionale di dare in quest'aula una spiegazione seria e convincente.

Il risultato è un Senato senza funzioni e senza autorevolezza. Anzi un vero pasticcio: da un lato un eccesso di potere costituzionale, improprio per un'assemblea composta anche da figure amministrative, e dall'altro la mancanza di poteri ordinamentali e soprattutto di penetranti controlli - inchieste, audizioni dei dirigenti, analisi dei risultati ecc. - che andrebbero a pennello per il ramo sprovvisto della fiducia e quindi più libero dal condizionamento di governo. Che senso ha mantenere in vita una gloriosa istituzione svuotata di prestigio? Meglio allora eliminarla del tutto. Non c'è niente di peggio di un'assemblea senza poteri, con il rischio che li ottenga tramite il consociativismo col governo, degradando ulteriormente la trasparenza e l'efficienza del sistema.

Non rinnego il Senato elettivo a base proporzionale che ho sostenuto insieme ad altri. Rimango convinto che avrebbe rinsaldato il rapporto tra eletti ed elettori, oggi essenziale per ricostituire la fiducia nelle istituzioni. Avrebbe ricordato al premier - che è assoluto nei poteri ma carente nei consensi - quali siano gli orientamenti popolari profondi. La presidente Finocchiaro lo considera un freno inaccettabile, ma sarebbe un importante contrappeso. In questo senso abbiamo parlato di un Senato di garanzia, per i poteri e per il mandato elettorale diretto.

Ma non mi innamoro delle proposte. In teoria la garanzia si può ottenere anche in una sola camera, magari eletta con i collegi uninominali, ricorrendo a voti qualificati, superiori al premio di maggioranza, nella legislazione dei diritti fondamentali. E i costituzionalisti sarebbero in grado di suggerire tanti altri modi di compensazione. È dirimente l'equilibrio generale, non la singola proposta, neppure quella a me cara del Senato elettivo. La legislazione costituzionale non è altro che produzione di sistema. La qualità di una legge costituzionale si misura nell'effetto di sistema. Qui la misura è negativa sotto i punti di vista; anche la mediazione che si affaccia sulla quasi elezione dei senatori, un passo avanti certamente positivo, non è in grado di modificare l'impianto, non riduce lo squilibrio del premierato assoluto. Non cancella la mia valutazione negativa.

Si è persa anche l'occasione della riforma del bicameralismo. Perché si è raccontato un falso all'opinione pubblica da almeno trent'anni. Le famose navette che vanno da una camera all'altra riguardano solo il 3% delle proposte di legge, per lo più a causa di testi scritti male dal governo. Non è vero che ci sia un problema di velocità del procedimento legislativo, anzi è vero esattamente il contrario: è troppo facile, c’è una bulimia delle leggi, se ne scrive una nuova prima che la precedente sia applicata. Lo sanno bene i cittadini, le amministrazioni e le imprese ormai sommersi da un'alluvione normativa che soffoca la vita quotidiana. Il nuovo bicameralismo dovrebbe aumentare la qualità e non la velocità, per produrre poche leggi organiche, brevi e leggibili anche per i cittadini.

A tale compito dovrebbe dedicarsi un nuovo Senato di alta legislazione, per curare i grandi Codici, lasciando alla Camera la responsabilità di attuare il programma di governo entro una cornice solida ed efficace. Questa è la riforma mancata del bicameralismo. Non si è potuto neppure discuterne perché c'è il feticcio del Senato federale. Era una grande idea, certo dell'Ulivo e di altri. Molti di noi hanno speso le migliori energie giovanili per una Repubblica federale. Ma si è rivelato un disegno disastroso, le regioni oggi sono al punto più basso di credibilità come dimostra la bassa partecipazione alle ultime elezioni; nel frattempo gli squilibri territoriali, a cominciare da quello Nord-Sud, si sono aggravati.

Si doveva fare un bilancio serio del fallimento del federalismo in sede parlamentare. Il governo lo ha fatto da solo, togliendo poteri alle regioni e compensando il ceto politico con il pennacchio del Senato. Il risultato è deprimente. Non abbiamo più il vecchio regionalismo, non abbiamo più il federalismo, rimane solo un rapporto confuso che diventerà ancora più litigioso con le funzioni ripartite secondo una doppia competenza esclusiva, che - lo dice la logica - è difficile da mediare. Bisogna invece ridurre il numero delle regioni, come propongo con un emendamento. Una decina di macroregioni potrebbero trovare un rapporto più costruttivo con lo Stato, rendendo più compatto il sistema paese nella competizione internazionale.

Sulla base di queste considerazioni di sistema, e non solo per il Senato elettivo, lo scorso anno ho espresso il mio disagio, insieme ad altri, non partecipando al voto, sperando che nei passaggi successivi si potesse migliorare. L'equilibrio, a mio avviso, è peggiorato, il debole passo avanti sul senato elettivo è vanificato dall'approvazione dell'Italicum e dal diniego della riduzione del numero dei deputati. Alla seconda lettura siamo chiamati a una valutazione definitiva, per questo il mio voto sarà contrario, non essendoci sulla materia costituzionale un vincolo di partito.

Sento già il ritornello - “allora vuoi far cadere il governo?” È la domanda più stupida che si legge sui giornali. È una strabiliante inversione tra causa ed effetto. È inaudito che il governo ponga in sede politica una sorta di fiducia sul cambiamento della Costituzione. Non è mai accaduto nella storia della Repubblica. Il fatto che oggi venga considerato normale, che si dia quasi per scontato, che venga messo all'indice chi si sottrae, è la conferma che il dibattito pubblico italiano è malato, che già nell'agenda di discussione, prima ancora che nelle soluzioni, si vede un pericoloso sbandamento dei principi e di valori.

Si è costruita artificiosamente un'emergenza costituzionale per conferire una legittimazione politica a un governo sprovvisto di un diretto mandato degli elettori. È l'ennesima anomalia italiana. In un paese normale il governo non si occupa della Costituzione. In un paese normale l'esecutivo governa secondo un programma presentato agli elettori. Si può derogare a queste semplici regole in situazioni straordinarie e per breve tempo. Da noi lo stato d'eccezione durerà per quasi tutto questo decennio.

Non si può dare la colpa solo agli ultimi venuti. Da venti anni si cambia la Costituzione per contingenti finalità politiche; prima il centrosinistra col titolo V per inseguire la Lega, poi Berlusconi nel 2005 per sigillare la sua maggioranza, poi lo ius sanguinis del voto all'estero per legittimare Fini e poi i tentativi di Tremonti di salvarsi modificando l'articolo 41. Tutte riforme costituzionali fallite, perché sbagliato era il metodo. Ma già negli anni ottanta, da quando persero la capacità di governo, i partiti hanno preso il vezzo di dire che non era colpa loro ma della Costituzione. Per non affrontare la crisi della politica hanno aperto la crisi delle istituzioni. Hanno cominciato a sfogliare l'atlante del modello francese, inglese, tedesco, spagnolo e americano.

Il perfettismo istituzionale è un sintomo della malattia della politica. Le Costituzioni sane sono imperfette perché prodotte dalla storia. Il modello decisionale americano è pazzesco, non prevede neppure il decreto legge, eppure ha gestito un impero. Le imperfezioni sono compensate dalla volontà politica, che è come il coraggio di don Abbondio, chi non ce l'ha non se la può dare. Da trent'anni la classe politica italiana invece di governare si consola con l'orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali.

Quando il presidente Renzi si vanta di fare le cose in programma da venti anni, non si accorge di parlare da conservatore. È il paradosso dei rottamatori che applicano l'agenda dei rottamati. Ripetono l'errore più grave, quello di servirsi della revisione costituzionale per finalità politiche contingenti.

La Carta sarebbe da cambiare in tante cose - non sono tra coloro che ne fanno un altare. Ma ci vuole umiltà. Cambiare la Costituzione significa servirla, non servirsene. La mia generazione non è stata all’altezza del compito. La notizia triste è che neppure la generazione dopo di noi se ne mostra capace. Forse devono ancora nascere i riformatori di domani in grado di migliorare il capolavoro ricevuto in eredità.

«Non lo ammetteranno mai, ma le autorità americane hanno fatto alla Volkswagen ciò che le autorità italiane hanno fatto all'Ilva: le hanno beccate a inquinare». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

Italiani state sereni. Il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti ha diffuso una minacciosa nota per dirci che «sta chiedendo, attraverso i suoi uffici, rassicurazioni a Volkswagen Italia sull’effettivo rispetto della normativa in materia di emissioni e inquinamento». Galletti chiede all'oste se il vino è buono perché nessuno gli ha spiegato che il governo americano non ha chiesto rassicurazioni ma, attraverso “i suoi uffici”, ha preso delle Volkswagen e le ha smontate. Ma Galletti non lo può fare, perché se smontasse le Volkswagen dovrebbe anche andare a vedere che cosa succede a Taranto, e invece è così contento di starne fuori e di non essere nemmeno invitato ai vertici di palazzo Chigi sull’Ilva.

Il ministro dell'Ambiente ha un'idea tutta sua dell'ambiente. Quando arrestarono i Riva e misero l'Ilva sotto sequestro (peraltro solo teorico) applaudì il pugno di ferro del suo predecessore Corrado Clini che trattò i pm come teppisti con pervicacia, prima di essere arrestato. Anche il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi denuncia un certo strabismo. Il 20 luglio scorso ammonì la magistratura di fare il proprio lavoro «avendo chiaro l'impatto delle decisioni che prende». Ieri non ha sgridato il governo americano, se l’è presa con la Volkswagen: «Se le accuse fossero confermate, sarebbe un grande danno di immagine il non aver ottemperato alle regole». Strano, quando erano i Riva a non ottemperare il danno di immagine era tutto per la magistratura.
Tra i tanti errori gravi, la Volkswagen ne ha fatto uno veniale che ci regala momenti di ilarità: non ha finanziato partiti e giornali italiani come Emilio Riva buonanima. Non ha nemmeno agevolato reportage su funzionari e soprattutto funzionarie della Environmental Protection Agency per vederli sputtanati con titoli come La zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva, dedicato a una Gip di Taranto. Così quelli che inveivano contro la magistratura tarantina adesso possono dare sfogo alla loro natura vendicativa e manettara. Matteo Salvini naturalmente è il battistrada. Compitò su Twitter: «Un giudice di Taranto decide di sequestrare 900 milioni alla famiglia Riva, quella delle acciaierie e dell'Ilva, ma a pagare saranno 1.500 lavoratori che rischiano di perdere il posto di lavoro, soprattutto al Nord. Italia paese di merda». Ieri mica ha detto «America paese di merda!». Anzi, era contento: «Volkswagen falsificava dati su emissioni. Beccati, 'correttezza' tedesca...».
Non lo ammetteranno mai, ma le autorità americane hanno fatto alla Volkswagen ciò che le autorità italiane hanno fatto all'Ilva: le hanno beccate a inquinare. Titolo del Foglio (noto organo giustizialista) di ieri: Volkswagen truffa i consumatori? Don't worry, arrivano i nostri. Spiegazione: «Un regolatore americano dà lezioni di ecologia a Berlino». Appunto, il colosso tedesco non ha truffato i consumatori, ha inquinato, con emissioni di ossido di azoto 40 volte superiori alla norma. Se invece è un magistrato italiano che becca l'Ilva che inquina Il Foglio non perdona: Il pregiudizio ecologista della magistratura non è sostenibile. I giudici sono diventati agenti destabilizzanti dell’economia (titolo di luglio).
Non possiamo neppure sperare che a difenderci intervenga un giudice americano, o almeno europeo. Ci ha provato la Commissione Europea, aprendo due anni fa una procedura d'infrazione contro il governo italiano per non aver difeso i tarantini dall'inquinamento dell'Ilva. La procedura è ancora aperta, nessuno ne parla perché disturba il manovratore che deve salvare l'acciaieria di Taranto senza tanti impicci ecologisti. Poi sapete com'è, l'Europa non è trendy. E infatti Matteo Renzi, tra le cui capacità spiccano a pari merito l'intuito demagogico e il cattivo gusto, li ha così mandati al diavolo: «Se l'Europa vuole impedire di salvare i bambini di Taranto ha perso la strada per tornare a casa. Io sono più fedele agli impegni con quei bambini che a qualche regolamento astruso dell'Ue». Dove si capisce la differenza. Se c'è chi inquina, Obama lo mette sotto inchiesta, il governo italiano difende i posti di lavoro.

Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

Si scrive riforma, si legge pasticcio. E quella mediazione che è l’ossessione del Pd potrebbe anche peggiorarlo. Ufficialmente e renzianamente, la riforma del Senato è la via per arrivare a una democrazia efficiente, nella quale «il procedimento legislativo sarà più snello ed efficace» (Maria Elena Boschi dixit). Fuor di propaganda, è un ginepraio contraddittorio, da cui potrebbe scaturire una seconda Camera che conterà poco o nulla. Soprattutto, composta di nominati. «Questa riforma è un capolavoro di dilettantismo», scandisce l’amministrativista Gianluigi Pellegrino.

Ma quale elettività: articoli che sbattono
Il cuore della riforma è l’articolo 2 del disegno di legge costituzionale, e in particolare il secondo comma, approvato in doppia lettura conforme (senza modifiche) nelle due Camere: “I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori”. Renzi ha blindato il comma in base al regolamento di Palazzo Madama, secondo cui non si possono cambiare le norme già approvate in entrambi i rami del Parlamento. La possibile mediazione tra il premier e la minoranza del Pd, che invoca un Senato elettivo, sarebbe un nuovo comma 5. Ossia una norma in base a cui i cittadini sceglieranno i consiglieri regionali da inviare a Palazzo Madama tramite un listino. I Consigli di ogni singola Regione dovrebbero poi ratificare le nomine.
Ma Pellegrino stronca questa soluzione: «Il comma 2 prevede che i Consigli regionali eleggano i senatori con metodo proporzionale, ossia dando maggiore spazio ai gruppi politici più folti in Regione. Bene, secondo il nuovo comma 5, i cittadini dovrebbero votare i senatori con un listino. Ma come faranno a sapere quale sarà la composizione dei futuri gruppi in Consiglio, che dipende dall’esito del voto? È evidente che sulla volontà popolare prevarrà il criterio proporzionale, e quindi molti voti di preferenza saranno inutili». Come se ne esce? «Renzi non vuole toccare il comma 2, per non far ripartire da capo l’iter del testo. Ma se si punta a un sistema coerente la norma va modificata. Se il testo verrà approvato così, i senatori saranno dei nominati. E il comma 5 sarà superfluo».
Una transizione troppo scivolosa
Le contraddizioni proseguono: «Se si vuole davvero dare la parola ai cittadini va cambiato anche l’articolo 38 del ddl, già approvato in doppia lettura conforme, che è una norma transitoria (ossia colma il vuoto nel passaggio da una normativa all’altra, ndr). e che stabilisce la composizione del primo, nuovo Senato. Prevede che, finché non verranno eletti i nuovi Consigli regionali, ogni consigliere potrà scegliere i senatori ‘votando per una sola lista di candidati, formata da consiglieri e sindaci dei rispettivi territori’. Ma come combacia questa norma con la volontà popolare? Tanto più che c’è un rischio: perché entrino in vigore le nuove norme sull’elezione del Senato, bisognerà attendere una legge di attuazione. Poniamo che non si accordino sul testo: rischiamo di ritrovarci per anni con Palazzo Madama eletto solo dai consiglieri regionali».
Il ruolo di Grasso e quel precedente
Obiezione: il regolamento del Senato esclude cambiamenti per norme approvate in doppia lettura. Ma il legale replica: «Il regolamento afferma che si può intervenire sulle norme cambiate e su quelle a esse connesse. E allora, dato che Montecitorio ha notevolmente ridotto le funzioni del Senato, è ovvio che debbano cambiare anche gli articoli sulla composizione. Competenze e composizione vanno assieme». Non solo: «C’è il precedente del 1993, quando l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano ammise gli emendamenti sul nuovo articolo 68 della Carta. Come spiegò la Giunta per il regolamento, ciò era giustificato ‘dall’atipicità della revisione costituzionale». Quindi, il presidente del Senato Grasso dovrebbe ammettere tutti gli emendamenti all’articolo 2? «Certamente. Sarebbe inaudito se ne impedisse la discussione”. Infine: “Se si prevede che siano comunque i Consigli regionali a designare i senatori, sia pure su indicazione dei cittadini, si lascia spazio a un potenziale sovvertimento del voto”.
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