La Repubblica, 28 settembre 2015
È STATO un alto testimone del Novecento, Pietro Ingrao, e al tempo stesso della storia del comunismo italiano nelle speranze e nei drammi di un secolo. Un alto testimone, anche, di contraddizioni brucianti. In Volevo la luna ha raccontato benissimo una parte del suo percorso.
Dagli anni giovanili, dall’adesione all’antifascismo e al Pci sino ai mesi terribili del rapimento di Moro, che visse come primo presidente comunista della Camera. Un percorso scandito dalla Resistenza, dalle speranze dell’immediato dopoguerra e poi dalla sconfitta elettorale delle sinistre nel 1948. Sino alla presa d’atto di una sconfitta ancor più grande, ed era il 1956: con le illusioni alimentate dal XX Congresso del partito comunista sovietico, prima, e poi con il trauma dell’invasione dell’Ungheria. L’ «indimenticabile 1956», fu lui a coniare quella definizione: una citazione di un vecchio film sovietico, ha ricordato (quasi una “richiesta d’aiuto” alla sua passione per il cinema nel momento più terribile). Iniziò da lì il vero dramma del comunismo italiano, iniziò nel momento in cui quella “rivelazione” non fu compresa per quel che era. Per le menzogne che lacerava, per le tragedie su cui gettava fasci di luce cruda. Ingrao l’ha vissuto per intero, quel dramma. In qualche modo ne è stato prigioniero, forse, ma ha vissuto la contraddizione con quel rigore intellettuale, quella coerenza morale, quell’ansia intellettuale che sono il suo segno distintivo più forte.
Iniziava a trasformarsi profondamente l’Italia, in quel declinare degli anni Cinquanta, e Ingrao fu fra i primi a dire all’interno del Pci che «l’arretratezza italiana» su cui il partito ancora insisteva stava diventando un ricordo del passato. Ed era quindi necessario misurarsi con la nuova «modernità» del Paese (con il neocapitalismo, per usare i termini di allora), con i nuovi squilibri che induceva ma anche con le sue potenzialità. Scompariva davvero la vecchia Italia, allora. Iniziava la fuga dalle campagne di quei braccianti e di quei mezzadri che avevano largamente aderito al “partito nuovo” togliattiano, la stessa classe operaia si trasformava profondamente ed erano messi in discussione gli orizzonti culturali su cui si era formata larga parte della classe dirigente della Repubblica.
La grande eresia di Pietro Ingrao fu quella di dire che non si poteva comprendere e trasformare quel mondo con il centralismo (anti)democratico vigente nel partito. Fu il tema che portò sino alla tribuna dell’XI congresso del Pci, nel 1966, nonostante i durissimi attacchi che aveva ricevuto all’interno del gruppo dirigente e sapendo bene che avrebbe pagato di persona. Fu sconfitto, e quella sconfitta lo segnò in profondità. Se non si comprende cos’ha significato essere “comunisti italiani” non si comprende neppure perché accettò poco più tardi l’espulsione del gruppo, cresciuto alla sua scuola, che aveva fondato il manifesto (Natoli, Rossanda, Pintor, Magri, Castellina e altri ancora). Un grande errore, ha riconosciuto poi, ma del tutto inscritto in una più lunga storia.
Ha risposto a quei nodi con una riflessione mai abbandonata sul rapporto fra socialismo e democrazia: sul rapporto fra “masse e potere”, per citare il titolo di un suo libro, sulle forme di democrazia partecipata e su altro ancora. Restando fedele al suo essere “comunista italiano” anche quando il comunismo internazionale e il Pci scomparvero insieme. Figlio del secolo, di nuovo: di quel secolo. Con quel rigore intellettuale e con quelle passioni intellettuali, dal cinema alla poesia, che lo hanno accompagnato fino all’ultimo.
Ripresentiamo un testo su Pietro Ingrao scritto per questo sito il 6 aprile 2005. Già allora eravamo nella fase in cui molti - troppi - faticavano a credere che la politica sia un'attività nobile.
eddyburg, 28 settembre 2015 (reprint)
Pietro Ingrao significa politica come mestiere nobile. Politica aperta, perciò, su tre versanti.
Sul versante del forte radicamento a ideali di miglioramento delle condizioni della vita, materiale e morale, dell’umanità. Lavori per il tuo vicino, ma lavori insieme per il mandarino lontano del quale non ti è affatto indifferente la morte; lavori per l’uomo di oggi, e lavori per l’uomo di domani, dei “domani che cantano”. Pietro Ingrao è infatti comunista, e italiano. Di quei comunisti italiano che furono così profondamente diversi da moltissimi altri comunisti, e da moltissimi altri italiani, come Enrico Berlinguer orgogliosamente rivendicò. Di quelli che maturarono la propria coscienza morale, e fecero il loro apprendistato politico, negli anni della lotta clandestina, della Resistenza, della costruzione della democrazia in Italia.
Sul versante della capacità di parlare ai suoi simili, agli uomini e alle donne ai quali sa trasmettere, insieme alle idee, l’entusiasmo per esse, e su questa base l’impegno per la loro diffusione, per il loro trionfo. Sul versante, quindi, del dare mani e piedi alle idee. Ricordo un comizio con lui a Roma, Centocelle, nel 1966. Ero un giovane e sconosciuto candidato come indipendente per le comunali; per farmi conoscere mi facevano partecipare a qualche comizio con i compagni più amati: Giancarlo Pajetta, Giorgio Amendola, e lui, Ingrao. Ricordo il suo discorso, trascinante sugli ideali dell’internazionalismo e la solidarietà con i popoli oppressi; e ricordo come poi i compagni più giovani, alla fine, lo presero in spalla dal palco, lo portarono in trionfo mentre lui tentava di schivarsi.
E sul versante dell’analisi, dell’apprendimento, dell’ascolto. Anche qui, un altro ricordo. Nel 1969, alla vigilia del grande sciopero generale su quei medesimi temi, un convegno del PCI su casa, urbanistica, servizi, al Teatro Centrale a Roma, organizzato dal suo vice, il bravo Alarico Carrassi. Ero tra i relatori, Ingrao presiedeva; seduto ad un angolo del lungo tavolo sul podio prendeva diligentemente appunto di tutti gli interventi, su un grande quaderno formato protocollo. Le conclusioni furono assolutamente di merito, entrando in ciascuna delle questioni che erano state sollevate, delle proposte che erano state formulate, degli interventi che erano stati pronunciati. Il merito delle cose: al di là delle etichette, degli schieramenti, dello slogan facile, era questo che contava. Con la pazienza, l’attenzione ai linguaggi diversi da quelli a lui consueti, la capacità di ascoltare, di comprendere, di proporre una sintesi.
Si può essere d’accordo con lui o no, nelle singole scelte e posizioni (per esempio, non ero d’accordo con una certa sua resistenza alla linea di Berlinguer alla fine degli anni Settanta), ma è certamente un esempio per chiunque creda che la politica serve agli uomini, e perciò bisogna essere uomini compiuti per esercitare questo difficile mestiere: utile come pochi altri. (E aggiungo in limine: nel Partito comunista italiano un esempio, non un’eccezione).
Ricordo ancora nitidamente la prima volta che celebrai un compleanno di Pietro Ingrao: era il 1965, lui compiva cinquant’anni (un’età che mi parve avanzatissima) ed era mezzo secolo fa. Con Sandro Curzi, ambedue non da molto usciti dalla irrequieta Federazione Giovanile, gli regalammo il suo primo paio di mocassini, con una dedica che lo sollecitava ad essere meno prudente: «Cammina coi tempi, cammina con noi».
Lo ricordo bene perché eravamo in piena battaglia «ingraiana», proprio alla vigilia del fatidico XI congresso del Pci, quando i compagni che si riconoscevano nelle sue idee (non una corrente, per carità), uscirono un po’ più allo scoperto per sostenerle; e lui stesso operò quella che fu definita una inedita rottura. Disse con chiarezza nel suo intervento congressuale: «Sarei insincero se tacessi che il compagno Longo non mi ha persuaso rifiutando di introdurre nella vita del nostro partito il nuovo costume di una pubblicità del dibattito, cosicché siano chiari a tutti i compagni non solo gli orientamenti e le decisioni che prevalgono e tutti impegnano ma anche il processo dialettico di cui sono il risultato».
Fu, come è noto, applauditissimo, ma tuttavia successivamente emarginato dal vertice del partito e «relegato» (allora Botteghe Oscure contava più di Montecitorio) alla presidenza del gruppo parlamentare e poi della Camera dei Deputati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.
Lo ricordo bene perché in fondo fu allora che cominciò la storia de «il manifesto», che pure vide la luce solo quattro anni più tardi. Senza Pietro, che come sempre nella sua vita ha fatto prevalere sulle sue scelte politiche la preoccupazione di non abbandonare il «gorgo», quello entro cui si addensava il popolo comunista. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sentire profondo di tutto il partito, il timore di sacrificare l’opinione collettiva alla propria individuale.
Noi del manifesto alla fine lo facemmo, ma anche perché le nostre responsabilità nel Pci erano infinitamente minori e dunque il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse conseguenze di quello di Ingrao. Ma non crediate che sia stato facile neppure per noi, fu anzi una scelta molto molto sofferta e talvolta è capitato anche decenni dopo di interrogarsi se non avremmo dovuto restare a combattere dentro anziché metterci nelle condizioni di essere messi fuori.
(Per favore non reagite, voi giovani, dicendo: ma che tempi, non si poteva neppure dichiarare un dissenso! È vero, non era bello. E però le opinioni nonostante tutto pesavano più di adesso, la nostra radiazione fu un trauma per tutto il partito. Ora si può dire di tutto, ma perché non conta più niente).
Oggi Pietro Ingrao di anni ne compie 100, e noi de il manifesto, se contiamo anche l’incubazione, 50.
Col tempo si è forse smarrito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i giovani della redazione del giornale c’è ancora qualcuno che sa di cosa si sia trattato. Non fu, badate, solo una battaglia per la democratizzazione del partito, il famoso diritto al dissenso. C’era molto di più: si è trattato del tentativo più serio del pensiero comunista di fare i conti con il capitalismo nei suoi punti più alti, di individuare le nuove, moderne contraddizioni e su queste — più che su quelle antiche dell’Italietta rurale — far leva, non per «inseguire mille rivoli rivendicativi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di sviluppo alternativo.
Si trattava della rottura con l’idea di uno sviluppo lineare, col mito della «modernità acritica», che fu alla base della cultura neocapitalista (e craxiana) di quegli anni. E, ancora, il tentativo di capire che la crisi italiana non rappresentava una anomalia (un vizio tutt’ora diffuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capitalismo avanzato quale si stava sviluppando nel mondo.
Dal giudizio sulla fase discendevano due diverse linee strategiche e per questo il confronto non fu solo teorico, ma strettamente intrecciato con il che fare politico: se bisognava agire per rendere l’Italia «normale», e cioè allinearla alla modernità europea, o invece incidere su quel nesso anche per risolvere i vecchi problemi e preparare un’alternativa anche alla «normalità» capitalistica.
La destra del Pci ovviamente si oppose a questa prospettiva. Quando il Pci, dopo la Bolognina, fu avviato allo scioglimento, proprio su questa necessaria innovazione costruimmo — questa volta ufficialmente assieme a Pietro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liquidazione del partito si opponeva. Non in nome della conservazione ma, al contrario, del cambiamento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le rafforzava. Le vecchie categorie non bastavano più e Ingrao è sempre stato attento a non ripetere litanie ma a individuare ogni volta le potenzialità nuove offerte dallo sviluppo storico, i soggetti antagonisti, a capire come si formano e si aggregano per diventare classe dirigente in grado di prospettare una società alternativa. Oggi e qui.
Come sapete, perdemmo.
Su quel nostro dibattito degli anni 60 — che trovò poi una sistemazione nel 1970 proprio nelle «Tesi per il comunismo» del Manifesto (che non dissero che il comunismo era maturo nel senso di imminente, come qualcuno equivocò — e ironizzò -, ma che non sarebbe stato più possibile dare soluzione ai problemi posti dalla crisi nel quadro del sistema capitalistico sia pure ammodernato).
Questo fu l’XI congresso del Pci, quello spartiacque delle cui emozioni, passioni, sofferenze Pietro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».
Nell’anniversario del suo centesimo anno di vita avrei forse dovuto parlare di Pietro Ingrao ricordandone di più i suoi aspetti umani, la sua personalità, il modo come ha dipanato la sua esistenza, e non invece andar subito dritta al nocciolo politico della sua vita di comunista.
L’ho fatto per due ragioni: perché troppo spesso ormai nel celebrare gli anniversari si tende a ridurre tutto ai tratti del carattere di chi si ricorda, alle sue qualità morali, e sempre meno a riflettere sulle loro scelte politiche. E poi perché Pietro in particolare, invecchiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sinistra italiana — ha finito per ricordarsi sottotono, persino con qualche vezzo civettuolo, più come poeta che come dirigente politico. Che è invece stato e di primo piano.
Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pensare al suo modo di esprimersi, mai politichese, sempre attento a illuminare l’immaginazione e non a ripetere catechismi. Vi ricordate la sua sorprendente uscita nell’intervento al primo dei due congressi di scioglimento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo clamoroso «viventi non umani», per chiedere attenzione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poesia, che come tale suonò, del resto, in quel grigio e mesto dibattito di fine partita?
Pietro non usava il politichese perché ascoltava. Sembra banale, ma quasi nessuno ascolta. E siccome ascoltava è stato anche ascoltato da generazioni assai più giovani, quelle che dei nostri dibattiti all’XI congresso del Pci, e del Pci stesso, non sapevano niente. Penso al Forum sociale europeo di Firenze nel 2002, per esempio, dove il suo discorso sulla pace conquistò ragazzi che non sapevano neppure chi fosse.
Ascoltava perché della democrazia ha sempre sottolineato un elemento ormai in disuso, soprattutto il protagonismo delle masse, la partecipazione.
Può sembrare curioso, ma molto del pensiero politico di Ingrao è stato segnato dalla sua adolescenziale formazione cinematografica. Nei molti anni in cui per via del mio incarico nella promozione del cinema italiano ho avuto con i big di Hollywood molti incontri e spesso la discussione scivolava sull’Italia e sul come era stato possibile che ci fossero tanti comunisti. Un po’ scherzando e un po’ sul serio ho sempre finito per ricorrere ad un paradosso: «Badate — dicevo — il comunismo italiano è così speciale perché oltreché a Mosca ha le sue radici qui a Hollywood, che dunque ne porta le responsabilità». E poi raccontavo loro la storia, tante volte sentita da Pietro, della formazione di un pezzo non secondario di quello che poi diventò il gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra: Mario Alicata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai vertici sul partito avevano avuto una fortissima influenza, Visconti, Lizzani, De Santis. Tutti allievi del Centro sperimentale di cinematografia.
Raccontavo loro, dunque, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua generazione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo proprio nel cinema. E, segnatamente, nel grande cinema — e nella letteratura — americani del New Deal, tortuosamente conosciuti proprio al Centro grazie a una fortuita circostanza: l’arrivo, come insegnante, di un singolare personaggio, Ahrnheim, ebreo tedesco sfuggito al nazismo e chissà come approdato proprio lì, prima che le leggi razziali fossero introdotte anche in Italia.
«Proprio quelle pellicole — mi disse Pietro in occasione di un’intervista (per il settimanale Pace e guerra che allora dirigevo) su una importante mostra allestita a Milano sugli anni ’30 — mostravano cariche di socialità, in cui c’era la classe operaia, la solidarietà sociale, la lotta. Proprio grazie a quei film, che erano mezzi di comunicazione fra i movimenti sociali e l’americano qualunque, così diversi dalla cultura antifascista italiana degli anni ’20 — elitaria, ermetica — che avevamo amato, ma non ci aveva aiutato; proprio quei film che ci aprivano una finestra sull’intellettuale impegnato, noi ci siamo politicizzati. Sono stati il primo passo verso la politica».
Questo nesso fra cultura e politica è stato un tratto che ha distinto il comunismo italiano. E Pietro Ingrao ne è stato uno dei più significativi interpreti.
Grazie e tanti auguri, Pietro.
La Repubblica, 28 settembre 2015 (m.p.r.)
New York. Un “disgelo” Usa-Russia per cooperare sulla Siria, con sullo sfondo qualche novità per l’Ucraina? È l’ipotesi che agita le aspettative, dietro l’incontro di oggi tra Barack Obama e Vladimir Putin. L’occasione è l’assemblea generale Onu a New York. Putin non si faceva vedere da 10 anni qui al Palazzo di Vetro. E con Obama non ha vertici bilaterali da due anni, cioè dall’inizio della crisi ucraina (i due si sono salutati in occasione di summit internazionali, ma riducendo al minimo l’interazione). Ora tutto sta cambiando, per quel che accade in Siria. La Francia ha lanciato ieri il suo primo raid aereo contro lo Stato Islamico, nell’ambito della coalizione. Ma Obama prende atto che la sua strategia, fondata sulla “guerra dai cieli” più l’appoggio a ribelli locali, non funziona. Putin ne approfitta: ha lanciato un’escalation “logistica”, trasferendo navi militari, aerei da combattimento, reparti di marines e mezzi blindati nella base che i russi hanno in Siria da 44 anni. Da un momento all’altro possono entrare in azione.
«Secondo le regole europee i rifugiati hanno diritto di scappare dalla guerra eppure una direttiva impedisce alle compagnie aeree di prenderli a bordo senza rischiare pesanti sanzioni».
Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2015 (m.p.r.)
Dimi Reider è un giornalista e blogger israeliano, co-fondatore di
+972 Magazine. È anche un associate fellow del European Council on Fo re i g n Relations (ECFR), sul cui sito è pubblicata la version e integrale di questo articolo, uscito negli Usa sulla rivista Foreign Affairs
Barcellona. Un boato squarcia la notte sulla Plaça Comercial. Poi l’applauso, lo slogan ritmato di “In-Inde-Independencia”, e subito la folla intona Els Segadors, l’inno nazionale di quello che sperano possa diventare presto un nuovo Stato. Bastano i primi exit-poll trasmessi alle 8 della sera sui maxischermi allestiti nella roccaforte separatista del quartiere del Born, davanti al vecchio mercato in stile modernista riconvertito in centro culturale icona delle rivendicazioni nazionaliste, per scaldare gli animi, per scatenare l’euforia. Qui il listone di Junts pel Sí , nato dall’accordo tra il president Artur Mas e il leader repubblicano Oriol Junqueras, ha stabilito il suo quartier generale nella speranza di poter celebrare una nottata storica. E i dati, poi confermati dal conteggio ufficiale delle schede, gli danno ragione.
"QUESTO VOTO È STATO UN IMBROGLIO. UN REFERENDUM L'AVREBBERO PERSO
Dicano pure quello che vogliono, però quale che sia il risultato, si tratta di normali elezioni regionali trasformate in modo fraudolento in una sorta di referendum. È il filosofo Fernando Savater, attivo da sempre nel combattere ogni tipo di nazionalismo, a cominciare da quello che nel suo Paese Basco sfociò nella barbarie terroristica dell'Eta, non ci sta a fare concessioni al fronte vittorioso di Artur Mas.
Più che sulla contrapposizione modello Europa, modello USA, si dovrebbe riflettere sul perché il "modello europa" abbia dato troppo peso ad un singolo stato, la Germania.
La Repubblica, 27 settembre 2015 (m.p.r.)
Lo scandalo Volkswagen è destinato ad avere ripercussioni gravissime per l’azienda e conseguenze per il prestigio e l’influenza della Germania. Tuttavia non va considerato solo un “brutto affare” tedesco. Il caso presenta alcuni aspetti trascurati che ci riguardano direttamente e dovrebbero suscitare interrogativi e incrinare certezze.
l manifesto, 27 settembre 2015 (m.p.r.)
Le autorità Ue sapevano degli strumenti per truccare le misurazioni delle emissioni auto fin dal 2013: lo afferma il quotidiano britannico Financial Times, in una ricostruzione pubblicata ieri. Tesi, peraltro, già anticipata due giorni fa da un articolo di Giorgio Ferrari su il manifesto.
Il giornale inglese spiega che un rapporto del Joint Research Center dell’Ue era stato messo a disposizione dei vertici comunitari già due anni fa (ma i primi dati risalgono al 2011), e conteneva il suggerimento di effettuare i test sui gas inquinanti su strada e non “in laboratorio”: le officine attrezzate, cioè, dove si simula l’andatura delle auto. Indicazione che arriva anche, da almeno un anno, dall’International Council on Clean Transportation (Icct), ente finanziato dalle fondazioni create da Bill Hewlett e David Packard (noti magnati dell’elettronica): è l’Icct, istituto americano, ad aver svelato i trucchi di Volkswagen sul Nox, e ad aver spiegato che le emissioni omologate sono superate da quelle su strada addirittura nell’ordine del 40%.
Il software, come è noto, era installato nei motori diesel, e attivava una sorta di blocco — o meglio, di forte limitazione - delle emissioni nocive solo quando la macchina era sottoposta a dei test: riconoscibili perché la macchina ha un’andatura più regolare e soprattutto non effettua curve, muovendosi sempre in una sorta di rettilineo virtuale (la vettura è in realtà ferma, si muove su dei rulli, come un tapis roulant). Una volta in strada, l’emissione veniva di nuovo “liberalizzata”: e via a un inquinamento che, come detto, poteva superare anche del 40% quello misurato sul percorso del test.
Il Financial Times punta il dito sulla lobby dei costruttori automobilistici, colpevole a suo parere di aver truccato il sistema di rilevamento dei dati: «L’incapacità delle autorità regolatorie in tutta la Ue di denunciare questi trucchi porta alla luce il potere delle lobby dell’industria automobilistica europea che ha scommesso molto sui diesel - scrive l’Ft - Circa il 53% delle nuove auto vendute nella Ue sono diesel, rispetto al circa 10% dei primi anni ’90».
Quindi, insomma, il diesel è un grande affare, e così si comprendono gli interessi - e oggi i “drammi” industriali e finanziari - che gli girano intorno. E il potere delle lobby, a Bruxelles, è fortissimo, si sa: Greenpeace individua una vera e propria “lobby del diesel”, che avrebbe investito solo nel 2014 ben 18 milioni e mezzo di euro per sostenere la propria azione e difendere il proprio “credo”.
La Commissione Ue, dal canto suo, risponde a queste accuse tramite un portavoce: spetta ai singoli stati, dicono a Bruxelles, scovare eventuali trucchi come quelli messi in piedi da Volkswagen (e in effetti è vero che la regolazione su questo terreno è lasciata molto agli Stati membri, in particolare ai governi e ai ministri dell’Ambiente). Dall’altro lato, le stesse autorità della Ue spiegano di aver voluto introdurre i test su strada fin dal prossimo anno: come dire, noi, il nostro, lo abbiamo fatto.
Dal fronte italiano ieri ha parlato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Temo - ha detto - conseguenze che mi auguro siano limitate. A catena ci potrebbero essere effetti sull’industria italiana che non ha colpa». Il problema, ha sottolineato Padoan, «non è solo tedesco ma anche europeo, oltre che americano. In questo momento l’Europa sta facendo molta fatica a uscire dalle conseguenze della recessione e se la fiducia viene intaccata, la propensione all’investimento si indebolisce», mentre «l’azione di politica economica di questo governo è volta a consolidare la fiducia».
Ma iniezioni “renziane” di fiducia o meno, sono comunque circa 1 milione le auto con la centralina truccata in Italia, a fronte dei 2,8 milioni di vetture tedesche. In tutto, Volkswagen si prepara a effettuare un maxi-richiamo, scrivendo personalmente a tutti i clienti, che poi potranno effettuare una revisione, ovviamente gratuita.
«Sono in corso i controlli per verificare il danno provocato anche in Italia da Volkswagen — ha spiegato ieri il viceministro ai Trasporti, Riccardo Nencini — La previsione è di chiudere questa indagine entro pochi mesi. C’è una stima di massima che parla di circa 1 milione di veicoli coinvolti»
Certo. Un capitalista integralmente onesto sta solo nelle utopie calviniste e in qualche rarissima eccezione che appunto conferma una regola generale fatta di piccole e grandi miserie morali. Questo avviene ora con maggiore intensità perché il mercato dell’auto è da tempo un mercato sostitutivo più che accrescitivo. Vi sono limiti ambientali e sociali che inibiscono il dilagare dell’uso dell’automobile e quindi della sua commercializzazione nel mondo intero. Se i primi possono essere aggirati truccando i dati – come è avvenuto in questo caso e continua ad avvenire in tanti altri con la complicità generale – i secondi sono strutturali. Né in Africa, né in tante amplissime zone del mondo le persone hanno un reddito che neppure lontanamente può fare loro sperare di diventare possessori di un’automobile. Né il capitalismo globalizzato accenna minimamente ad assottigliare le diseguaglianze. Anzi le dilata in continuazione, come, da ultimo, ci ha ben spiegato e documentato Thomas Piketty.
Quindi la lotta della competitività nel campo dell’automotile avviene su un terreno relativamente ristretto. Appena un paese emergente apre i propri mercati ci si buttano a pesce. Quindi da un lato si cerca di sfondare laddove il mercato è già saturo con modelli innovativi (è il caso del motore a diesel negli Usa), dall’altro diventa feroce la competizione sui nuovi lembi di mercato che emergono. Non è forse un caso che la vicenda Volkswagen sia stata disvelata dall’Epa, l’agenzia statunitense incaricata dei controlli ambientali. Anche se qualche dietrologo punta di più sulla faida infinita tra i membri della famiglia Porsche – l’inventore del Maggiolino – e l’attuale management Volkswagen. Probabilmente gli Usa hanno voluto avvertire la Germania che non intendono assistere inerti al suo tentativo di affrontare da sola – asservendo l’Europa a questo disegno – le sfide della globalizzazione. La stessa ragione per cui, probabilmente, la Merkel come i suoi alleati, sapevano e tacevano.
Ma lo scandalo solleva un altro problema ancora più grosso, sia perché avviene alla vigilia del nuovo incontro internazionale di Parigi Cop21, dedicato all’abbassamento delle emissioni per diminuire il riscaldamento globale; sia perché sono in corso le trattative, peraltro segrete, per concludere un accordo di “libero scambio” fra le due sponde dell’Atlantico, il famoso Ttip. Serve agli Usa distruggere l’immagine di un’Europa virtuosa in materia ambientale, contrapposta ad un’America dalla manica più che larga e renitente a ogni forma di stringente accordo in questo campo.
Ma soprattutto, e questo riguarda in particolare il Ttip, lo scandalo Volkswagen ci dimostra ancora una volta – ce ne fosse bisogno – che il moderno capitalismo nel suo complesso, con accelerazioni e responsabilità dirette che dipendono dalle circostanze e dai momenti, non sopporta leggi e norme, né quelle dei singoli paesi in cui opera, né quelle contenute negli stessi trattati che firma. E’ proprio il caso della Germania in surplus esportativo da più di sei anni in barba ai vincoli del Trattato di Maastricht che invece viene fatto valere solo per chi sgarra sul debito. Nel trattato di libero scambio transatlantico si prevede che se la legislazione di un paese o di un ente locale entra in contraddizione con le esigenze esortative di una multinazionale, questa può fare ricorso e un minicomitato di “saggi” definito a livello internazionale può condannare l’istituzione elettiva a rivedere la propria normativa sulla materia. E’ la morte del diritto. E’ la legalizzazione dell’imbroglio, che fin qui è avvenuto per via pratica.
Ma le organizzazioni sindacali non hanno nulla da dire? Questo è il punto più delicato che la vicenda Volkswagen solleva. Infatti nell’industria tedesca, o meglio in parte di essa e certamente nella impresa di Wolsburg, vige la cosiddetta mitbestimmung, ossia la codeterminazione in virtù della quale i rappresentanti dei lavoratori siedono in un comitato di sorveglianza. La mitbestimmung è stata uno dei motivi di vanto dell’esperienza della socialdemocrazia tedesca, oggi peggio che opaca, proprio perché si basa non sull’assunzione del lavoro dentro la logica stretta dell’impresa – che è invece l’essenza del “marchionnismo” – ma sul riconoscimento di una dualità tra capitale e lavoro, dando però a quest’ultimo un ambito nel quale fare valere le sue ragioni anche sugli indirizzi e sulle scelte produttive. E’ lecito chiedersi e indagare su come è stata esercitata e se è stata esercitata, la sorveglianza in questo caso. Quello che è chiaro è che anche la mitbestimmung mostra la corda a fronte delle dimensioni multinazionali dell’impresa e della costruzione di spazi extrasindacali ed extragiudiziali internazionali da parte dell’impresa medesima. Per queste ragioni lo scandalo Volkswagen pone interrogativi seri al movimento sindacale nel suo complesso, ma a quello tedesco ed europeo in particolare.
Ne ha dette, ne dice giornalmente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime esternazioni del presidente del Consiglio urta i nervi in modo particolare, sì che si stenta a dimenticarsene. «I sindacati debbono capire che la musica è cambiata», ha sentenziato con rara eleganza a margine dello «scandalo» dell’assemblea dei custodi del Colosseo. Non sembra che la dichiarazione abbia suscitato reazioni, e questo è di per sé molto significativo. Eppure essa appare per diverse ragioni sintomatica, oltre che irricevibile.
In effetti la rozzezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti decisamente per la parte datoriale, degradando i lavoratori a fannulloni e i sindacati a gravame parassitario che si provvederà finalmente a ridimensionare. È una cifra di questo governo un thatcherismo plebeo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui trabocca la società scomposta dalla crisi. Sempre daccapo il «capo del governo» si ripropone come vendicatore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, complice la grancassa mediatica, a una platea indistinta al cui cospetto agitare ogni volta il nuovo capro espiatorio.
Sin qui nulla di nuovo dunque. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espressiva. Un lessico che si fa sempre più greve, prossimo allo squadrismo verbale di un novello Farinacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una democrazia costituzionale non ci si dovrebbe lasciare andare al manganello.
«La musica è cambiata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimenticare i beneamati «gufi». Quest’uomo fu qualche mese fa liquidato come un cafoncello dal direttore del più paludato quotidiano italiano. Quest’ultimo dovette poi prontamente sloggiare dal suo ufficio, a dimostrazione che il personaggio non è uno sprovveduto. Sin qui gli scontri decisivi li ha vinti, e non sarebbe superfluo capire sino in fondo perché. Ma la cafoneria resta tutta. E si accompagna alla scelta consapevole di selezionare un uditorio di facinorosi, di frustrati, di smaniosi di vincere con qualsiasi mezzo — magari vendendosi e svendendosi nelle aule parlamentari. Secondo un’idea della società che celebra gli spiriti animali e ripudia i vincoli arcaici della giustizia, dell’equità, della solidarietà.
«Era difficile per i conduttori commentare la risposta del congresso, diviso e confuso sulle reazioni da palesare. Gli applausi che si alzavano dall’ala repubblicana ad ogni accenno di dissenso su aborto e matrimonio gay, si spegnevano subito quando il discorso si spostava su armi, povertà, cambiamento climatico, migranti». Il manifesto, 26 settembre 2015 (m.p.r.)
New York. U n vero tornado, popegaddon, popezilla, si sprecano aggettivi e neologismi per descrivere l’effetto che sta avendo questa visita del papa negli Stati Uniti. Accolto dalla popolazione più come un referente politico che come un leader spirituale, il papa ha di fatto spiazzato tutti i livelli dell’accoglienza ufficiale americana, ad incominciare dai media tradizionali, prima tra tutte la televisione. La diretta del discorso al congresso è stata trasmessa da tutti i network principali ed era palpabile un certo imbarazzo dei conduttori per un personaggio che ha mischiato le carte scontentando (molto) gli amici tradizionali ma anche (un poco) i nuovi amici.
«Le apparenze sono di rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è un suo svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua».
La Repubblica, 26 settembre 2015
VI è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni.
E non farsi soltanto fuorviare dalle non edificanti schermaglie intorno alle modalità di elezioni del Senato. Il meccanismo messo a punto è molto semplice. Il Governo chiede ed ottiene dal Parlamento una delega per regolare questioni della massima importanza, che riguardano la vita delle persone e i caratteri che viene assumendo la stessa democrazia. Le apparenze sono quelle di un pieno rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è quella di un suo non indifferente svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua. La voce del Parlamento torna poi a farsi sentire quando è chiamato ad esprimere un parere, sia pure non vincolante, sui decreti predisposti dal Governo.
«Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni)».
La Repubblica, 26 settembre 2015
La Camera ha approvato in questi giorni l’articolo del disegno di legge sulla giustizia penale che delega il Governo a riformare le norme in materia di intercettazioni telefoniche. In questa occasione il Pd ha votato compatto. Il disegno di legge recepisce un emendamento passato in commissione Giustizia, relatrice Donatella Ferranti (Pd), che espone questo provvedimento ad una giustificata critica e a richieste di modifica richiamando l’attenzione del pubblico sul potere che la legge delega concede al Governo in una materia così delicata per i nostri diritti.
Il testo approvato elimina la possibilità di un’udienza filtro nel corso della quale le parti (il giudice e gli avvocati) avrebbero dovuto decidere le intercettazioni rilevanti da portare al processo, prima di poterle depositare, ovvero renderle a tutti gli effetti visibili e soprattutto pubblicabili. La modifica del disegno di legge con questo emendamento è all’origine di quella che possiamo denotare come una gemmazione della mai domata tentazione di chi esercita il potere di mettere limiti al diritto di cronaca, rendendo più arduo il lavoro di chi ha la funzione di reperire informazioni e il dovere deontologico di farle conoscere con precisione ai cittadini.
«A un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari». L
a Nuova Sardegna, 26 settembre 2015
Nessuna obiezione all'Enciclica. Tutti d'accordo, pure chi non avrebbe vantaggi se prevalessero- come auspicato pure dall'ONU - “altri modi di intendere l’economia e il progresso” (Laudato si', § 16). E se il Papa decidesse di smascherare le adesioni più corrive, avrebbe un gran daffare. Pure in Sardegna servirebbe qualche sua autorevole precisazione, visto che la Saras di Moratti lo ha ringraziato in uno spot sulla propria singolare conversione ecologista.
È vero: a un pontefice non si può chiedere di entrare nel merito di ogni caso, ed è curioso che tanti miscredenti, come me, si trovino ad auspicare iniziative di Francesco dirette e appuntite. Che so, un paio di scomuniche esemplari: alla Syndial, che a Porto Torres ha disperso in terra e in mare non si sa quanti rifiuti tossici; ai colpevoli del disastro di Portoscuso, dove la catena alimentare è corrotta senza tornaconti. Una gran pena: scolpita nella faccia di chi è vittima dell'impoverimento di quei luoghi, lo stesso smarrimento descritto nella vignetta di Altan: “Cos'ho dottore?/Niente, ha perso tutto”.
La Sardegna non potrà essere risarcita da condanne - neppure all'inferno - di chi ha contaminato 450mila ettari di terra, trasformato spiagge e scogliere in piedistalli di brutte case, speculato oltre ogni limite su vento, sole, sottosuolo, tappato corsi d'acqua, simulato guerre con bombe vere, appiccato incendi senza tregua - l'ultimo nella costa di Alghero.
Fermare questa distruzione non è facile per amministrazioni locali spesso disarmate più che inerti (evviva se dopo 10 anni il governo Pigliaru attua le previsioni del Ppr per frenare la diffusione degli impianti eolici). Gli insuccessi sono più probabili senza lo schieramento di tutte le istituzioni dalla parte del buon governo del territorio, del quale più cose si sanno è meglio è. Ma la “coscienza di luogo” - presupposto per ogni progetto - manca da un po' in questo Paese, nel solco del difetto avvertito da Pasolini 40 anni fa: “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”.
Una verità le devastazioni. Ampiamente sottostimate se si considera la bassa densità della popolazione (la Sardegna è tra le 4 Regioni in cima alla classifica degli abusi edilizi: quindi al primo posto). Inutile minimizzare il ciclo di trasformazioni subite, dipendenti da bisogni remoti; penso al 60% del patrimonio boschivo bruciato nell' '800 in Continente, per lo sviluppo lì; e mi interrogo sul programma di fare pellet dagli alberi del Marganai.
Nulla di nuovo, copio e incollo le parole Foucault: «il potere è localizzato in un centro sovrano che impone la sua legge dall’alto verso il basso». E il pensiero va dritto a SbloccaItalia, alla legge voluta da Renzi contro la quale 6 Regioni NO-Triv hanno deciso - dal basso - di ricorrere alla Consulta. Non la Sardegna (?) che conviene ora con i referendari, viste le proteste di molte comunità allarmate. Un' inquietudine più estesa di quanto si immagini, in un quadro reso più drammatico dallo spopolamento progressivo di vaste aree.
C'è chi vorrebbe premere il tasto reset, via dalla memoria le mappe delle aggressioni ai paesaggi e dei veleni; d'altra parte, si sa, mancano le risorse e non c'è bonifica che potrà restituirci il Sulcis com'era, a sicut erat. Nel frattempo siamo rassicurati dalle eccellenze ad uso del racconto sfuggente e del branding. La Sardegna all'Expo, buona e bella, leggendaria grazie alle eccezioni - statisticamente dappertutto - enfatizzate a dismisura. La longevità di alcune famiglie, qualche olivastro millenario, la vittoria del ciclista Aru, un pecorino esaltato dallo chef, non possono diventare banner per appannare la ordinaria mediocrità. Il cibo? Nell'isola agropastorale 8 bistecche su 10 vengono da fuori ed è molto lungo l'elenco di generi alimentari “tipici” che importiamo in questa misura.
Le eccellenze ruggenti all'Expo, come i leoni di Metro Goldwyn Mayer, preannunciano un bel film. Meglio guardarlo tutto. E sulle trivelle occhi spalancatati come quelli del gigante di Cabras. La campagna referendaria è compito nostro, il Papa ha già detto.
Una forte denuncia del comportamento dell'Ue di fronte al dramma e all'occasione storica dell'Esodo. «L’alternativa alla dissoluzione dell'Ue è l’abbandono dell’austerità e il varo di un piano per l’inserimento sociale e lavorativo di profughi, migranti e cittadini».
Il manifesto, 25 settembre 2015, con postilla
E’ un alibi: si vuol far credere che le maniere forti possano sostituire l’accoglienza che non c’è. E per ridimensionare i flussi — e risolvere la questione – si conta di accogliere i rifugiati (quelli che provengono da paesi “insicuri”, in guerra) e di respingere i migranti (quelli che provengono da paesi definiti “sicuri”). Anche Prodi ha ricordato che nessuno Stato dell’Africa — e meno che mai Iraq, Afghanistan o Kurdistan – è sicuro; e anche il ministero degli esteri avverte i turisti che tutti i paesi da cui provengono i migranti non sono sicuri. Se in tanti rischiano morte e violenza per fuggire dal loro paese è perché là non possono più vivere.
E’ un’infamia, perché nasconde il fatto che se venissero approntati corridoi umanitari per permettere a chi fugge di raggiungere in sicurezza l’Europa, gli scafisti di mare e di terra non esisterebbero e si sarebbero evitate decine di migliaia di morti. E’ un crimine, perché fermare gli scafisti in Libia (nessuno, però, ha proposto di bombardare quelli della Turchia, altrettanto spietati), posto che sia fattibile, significa ricacciare i profughi nel deserto, condannandoli ai tanti modi di morire a cui si erano appena sottratti.
D’altronde gli hotspot pretesi da Junker e Angela Merkel in cambio delle quote di rifugiati da smistare in Europa sono la menzogna con cui si intende dimezzare il numero da accogliere, sbarazzandosi di coloro a cui non verrà riconosciuto lo status di rifugiati. Ma come si fa a rimpatriarne così tanti? E in paesi con cui non esistono accordi di rimpatrio e dove spesso non ci sono nemmeno autorità a cui riconsegnarli? Appena sbarcati, se non saranno imprigionati o soppressi, riprenderanno la strada per l’Europa a costo della vita: non hanno altra scelta.
Evidente è la gara tra gli Stati dell’Unione per scaricarsi a vicenda l’onere di un’accoglienza che nessuno vuole accollarsi. Ma la vera contropartita delle quote è che chi non rientra in esse dovrà restare dov’è: se non potrà, e non potrà, essere rimpatriato, dovrà farsene carico il paese di arrivo: Italia o Grecia; paesi che, anche se volessero, non potrebbero circondare di filo spinato le proprie coste come l’Ungheria fa con i suoi confini. La Spagna l’ha già fatto a Ceuta e Melilla; la Grecia dell’ex ministro Avramopoulos, ai confini con la Turchia; Francia e Regno Unito a Calais; la Bulgaria ha schierato l’esercito; Germania, Austria, Slovenia, Croazia, Repubblica Ceca e Francia cercano di chiudere le frontiere… Così, anche se Angela Merkel lascia credere di avere forze e mezzi per affrontare la situazione, la soluzione con cui ripropone la sua leadership sull’Unione ne assegna i vantaggi alla Germania e ne scarica i costi sui paesi più deboli ed esposti. Proprio come con l’euro.
Sanzioni incisive, fino all’espulsione, contro gli Stati che rifiutano le quote — peraltro già ora insufficienti — sarebbero altrettanto rischiose per la coesione che accettare che ciascuno vada per conto suo. Così, se il feroce braccio di ferro con la Grecia ha inferto un duro colpo all’immagine di un’Unione portatrice di vantaggi e benessere per tutti i suoi membri, la vicenda dei profughi sta dando il colpo di grazia all’unità di una aggregazione di Stati tenuti insieme solo dai debiti e dal potere della finanza.
Trasformare l’Europa in fortezza significa avallare e promuovere lo sterminio per mare e soprattutto per terra di chi cercherà ancora di fuggire dal suo paese; moltiplicare ai confini del continente caos e guerre che tracimeranno in Europa: con altri profughi, ma anche con terrorismo e aspri conflitti sociali; e consegnare al razzismo il governo degli Stati dell’Unione sempre più divisi. Chiunque sia a gestirli: destre, centri o “sinistre”.
Ma si può accogliere centinaia di migliaia, e domani milioni di profughi senza un programma di inserimento sociale: casa, lavoro, reddito, istruzione e diritti per tutti? Si può “tenerli lì” per anni a far niente, in sistemazioni di fortuna (che in Italia stanno arricchendo migliaia di profittatori) o in carceri come i Cie? Ne va innanzitutto della loro dignità di esseri umani. Ma è anche intollerabile per tanti cittadini europei che abitano e lavorano accanto a loro, o che sono già ora senza lavoro, o senza casa, o senza reddito, abbandonati dallo Stato. E’ il modo migliore per alimentare tra loro rancore, rigetto e razzismo.
Il modo in cui l’Unione tratta i popoli dei suoi Stati più deboli, come quello greco, ma non solo, e sfrutta i paesi africani e mediorientali e i loro abitanti, e soprattutto cerca di sbarazzarsi di quelli di loro che vogliono diventare, e già si sentono, cittadini europei, è la negazione di tutto ciò che la Comunità, e poi l’Unione europea, sembravano promettere con il richiamo ideale allo spirito di Ventotene. L’alternativa a questo processo di dissoluzione non può essere che l’abbandono delle politiche di austerità e il varo di un grande piano europeo per l’inserimento sociale e lavorativo sia di profughi e migranti che dei milioni di cittadini europei oggi senza lavoro, senza casa, senza reddito, senza futuro; affidandone la gestione a quelle strutture dell’economia sociale e solidale che hanno dimostrato di saperlo fare. Ma è anche la condizione irrinunciabile per aiutare i profughi a costituirsi in base sociale e punto di riferimento politico per la riconquista alla pace e alla democrazia dei loro paesi di origine; per l’allargamento all’area mediterranea e nordafricana di un’Unione europea da rifondare dalle radici.
I contenuti di quel piano non possono che essere le misure e gli investimenti necessari per far fronte agli impegni sul clima da assumere alla prossima “Cop-21″ di Parigi, se si vuole che l’Europa faccia la sua parte per arginare una catastrofe imminente. Sono misure in grado di dare lavoro, reddito e sistemazione a tutti: profughi, migranti e cittadini europei. Un piano del genere, che ha una dimensione economica, ma deve avere soprattutto un risvolto sociale e una articolazione fondata sull’attenzione alle persone e alle vicende individuali di ciascuno, non può essere delegato né agli Stati, né agli organi dell’Unione, né alle logiche del mercato. Deve nascere, rapidamente, da un confronto tra tutte le forze sociali impegnate sul fronte del cambiamento e trovare in un soggetto attuatore adeguato. Che non può essere che la rete europea dell’economia sociale e solidale. Per tradursi al più presto in una piattaforma politica da proporre e sostenere in alternativa alle scelte spietate e paralizzanti di questa Europa.
postilla
Non è la prima volta che Guido Viale (e molti degli intellettuali che hanno dato vita ad "Altra Europa con Tsipras") affrontano il tema del gigantesco trasferimenti di persone dal Sud del mondo all'Europa in connessione con la proposta di un "nuovo New Deal" europeo. L'obiettivo della proposta non è solo quello di dare concreta ospitalità alle differenti forme e soggetti dell'Esodo del XXI secolo (persone in fuga per guerre guerreggiate, per lesione dei diretti umani, per miseria e carestie, persone che vedono l'Europa come una dimora transitoria oppure definitiva) ma è anche quella di trovare un impiego socialmente e umanamente utile alla gigantesca risorsa costituita dalla forza lavoro che affluisce verso l'Europa. e che è da ciechi, oltre che da miserabili, pensare di poter ridurre nella quantità. Certo, per immaginare e realizzare un simile programma occorrono due convinzioni pregiudiziali: (1) bisogna credere che il lavoro dell'uomo è una risorsa indispensabile per comprendere e trasformare il mondo; (2) bisogna aver appreso dai fatti che né il Mercato né uno Stato che del mercato sia lo strumento sono capaci di cimentarsi in una simile impresa.
«Quella di Volkswagen è una vicenda che può avere conseguenze disastrose per la casa tedesca e ricadute su tutta l’industria automobilistica. I tedeschi nella gestione della crisi europea hanno sempre anteposto la questione “morale” (chi sbaglia paga) a quella economica».
Lavoce.info, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Le conseguenze della truffa
C’è un solo aggettivo per definire quello che è successo alla Volkswagen: incredibile! Un gigante del settore automobilistico, in procinto di diventare il primo produttore al mondo, già emblema di qualità e affidabilità, ha truccato i motori diesel per ridurre artificialmente le emissioni inquinanti durante i test. L’imbroglio è stato scoperto e ora la casa di Wolfsburg è in guai seri, al punto da mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’impresa. Già molto è stato detto sull’argomento. Mi limito quindi pochi punti meno sottolineati nel dibattito.
Confusione nel mercato
L’aspetto più sorprendente della vicenda è stata, però, la reazione dei concorrenti. Normalmente, ci si aspetterebbe che problemi per Volkswagen significhino buone notizie per gli altri produttori, che si possono avvantaggiare della sua perdita di clienti. La reazione dei mercati è invece stata opposta, con i titoli di tutte le aziende del settore in forte perdita, anche se in maniera più contenuta rispetto al -30 per cento di Volkswagen.
il manifesto) e di Federico Rampini (la Repubblica), 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Il manifestoIL PAPA AL CONGRESSO: «BASTA VENDERE ARMI»
Alle camere riunite del Congresso, in precedenza avevano parlato Churchill e De Gaulle, Boris Yeltsin e qualche mese fa, con notevole strascico polemico, anche Benjamin Natanyahu. Non era mai accaduto però che lo facesse un leader religioso come ha fatto ieri il papa nel secondo giorno del suo viaggio americano. Presentato come «il Papa, della Santa Sede» dallo speaker John Boehner, è stato accolto con un caloroso appplauso dai 435 deputati e senatori del parlamento di Washington a cui ha rivolto un discorso in inglese durato poco meno di un’ora.
Il papa ha ringraziato per l’invito a parlare ai rappresentanti «nella terra dei liberi e la patria dei valorosi», citazione di una delle frasi più retoriche dell’inno nazionale che in bocca al gesuita sudamericano come Bergoglio ha acquisito un lieve sospetto di ironia, pur producendo il primo di diversi applausi che lo hanno interrotto. Francesco che si è dichiarato «figlio dello stesso continente» ha ripetutamente elogiato il paese ospite senza rinunciare ad alludere indirettamente alle sue mancanze. Ha più volte invocato ad esempio la tradizione democratica e civile degli Usa criticando allo stesso tempo il commercio di armi, xenofobia, disuguaglianza e manicheismo che certo riguardano non poco gli Stati uniti come l’occidente tutto.
In alcuni passaggi il messaggio di Bergoglio è sembrato indirizzato più direttamente ancora all’Europa dell’emergenza rifugiati che ha definito «la più grave crisi dai temi della seconda guerra mondiale». Parlando delle moltitudini che si stanno riversando a nord alla ricerca di vite migliori e maggiori opportunità, il papa ha detto che «non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie» e «rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno». Parole incisive nel paese in cui l’attuale front runner repubblicano, Donald Trump, costruisce consensi conservatori sulla promessa di edificare un muro sul confine messicano, ma forse rivolte ancor più direttamente all’Europa dei rigurgiti nazionalistici.
Ad ascoltare in aula ieri erano presenti numerosi cattolici (lo sono il 30% circa dei deputati) fra cui alcuni pretendenti alla prossima presidenza come i repubblicani Chris Christie e Marco Rubio. Il segretario di stato e “partner diplomatico” del Vaticano sul disgelo cubano, John Kerry, cui Francesco ha tenuto a stringere la mano prima di salire sul podio affiancato da Boehner e dal vicepresidente Biden, entrambi cattolici praticanti. Ai legislatori di un organo profondamente diviso lungo linee ideologiche il papa ha parlato dei pericoli della polarizzazione e del riduzionismo che divide il mondo in precise categorie di bene e male, giusti e peccatori aggiungendo che la complessità del mondo contemporaneo con le sue «ferite aperte» esige distinzioni più sottili della semplice demonizzazione dei nemici. «Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo più sicuro per prendere il loro posto», ha aggiunto. «È (un meccanismo) che il popolo americano rifiuta».
È stato uno dei passaggi più simili davvero a una “predica” fatta ai propri ospiti, anzi visti i recenti trascorsi di interventi americani e di conflitti utili solo a traghettare intere regioni del mondo nel caos, è stato il momento in cui Francesco si è avvicinato al discorso shakesperiano di Marco Antonio nel Giulio Cesare: l’elogio retorico di Bruto per evidenziarne i difetti. Non solo, infatti, gli Stati uniti – anche quelli del progressista Barack Obama — danno scarse indicazioni di riflettere seriamente sull’opportunità del proprio egemonismo geopolitico, ma il manicheismo è un cardine fondamentale della politica e del carattere nazionale intriso di patriottismo ed eccezionalismo.
Un contesto cioè in cui le affermazioni, pur moderate rispetto alla recente media di Francesco, sono risaltate maggiormente. Davanti a un pubblico che comprendeva numerosi paladini repubblicani dello scontro di civiltà, il papa cattolico ha riconosciuto le atrocità odierne commesse nel nome di dio, aggiungendo che «nessuna religione è immune da forme di estremismo» e lanciando un monito contro ogni fondamentalismo e ogni «violenza perpetrata nel nome di una religione, un’ideologia o un sistema economico». Il papa non ha nominato il capitalismo, ma nella patria di Wall street sono ben note le sue vedute sul liberismo estremo e a Washington le sue allusioni hanno avuto un peso particolare.
Non tutto nel discorso è stato obliquo riferimento. Nell’ambito della tutela della vita in tutte le sue forme, il papa ha scelto di esporre senza ambiguità la sua critica alla pena di morte nel suo ultimo bastione occidentale. Sull’immoralità del commercio di armi il papa è tornato ad inchiodare l’ipocrisia dell’occidente: «Perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e societa?» Ha domandato. «Purtroppo, la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è̀ intriso di sangue».
Un filo conduttore del discorso è stata la giustizia sociale come valore assoluto della politica. «I nostri sforzi devono essere volti a riportare la speranza, riparare le ingiustizie, mantenere gli impegni», ha detto il papa, «nello spirito di solidarietà e della fratellanza». «Qualsiasi attività politica deve servire e promuovere il bene della persona umana». «Ne consegue che non può essere sottomessa al servizio dell’economia e della finanza», ma deve invece esprimere il «nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme nell’unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i suoi benefici». Dette in un aula dove anche la tutela pubblica della salute viene regolarmente denunciata come anatema socialista, le parole hanno ancora una volta assunto un peso particolare. Se fossero rimasti dubbi su quale volto del cattolicesimo voglia sdoganare nel suo viaggio americano, Francesco ieri ha scelto di onorare la memoria di quattro americani: Lincoln, emancipatore degli schiavi, Martin Luther King combattente per l’uguaglianza, l’intellettuale cistercense Thomas Merton e Dorothy Day fondatrice del movimento Catholic Worker, militante pacifista, femminista e operaista protagonista di lotte sociali dalle suffragette all’opposizione alla guerra del Vietnam.
«Mi sento di fare un appello affinché questa progettualità comune si concretizzi in forme di accoglienza semplici e minime, ma diffuse in tutto il Paese e molto solide, strutturate e coordinate. Una rete umana in cui ogni soggetto partecipante garantisce di superare le differenze e gli steccati».
La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Traditi da un mercante menzognero, vanno, oggetto di scherno allo straniero. Bestie da soma, dispregiati iloti. Carne da cimitero. Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti». De Amicis nel 1882 cantava così ne Gli emigranti le esistenze di coloro che a Genova facevano la fila per salire sulle navi in partenza per altre terre, per scappare lontano da casa. È certo utile tener presente la nostra storia nel momento in cui non passa giorno in cui i media snocciolino il loro drammatico bollettino sulla tragedia che ben conosciamo. Una moltitudine di persone cerca di varcare confini chiusi, s’imbarca e s’incammina in cerca di futuro, scappa da orrori tremendi, o semplicemente dalla fame. Già, anche la fame causata dal landgrabbing e dall’ingordigia neocolonialista e non soltanto le guerre e la ferocia cieca e idiota di certi fanatici. Perché non si possono fare distinzioni tra migranti, profughi, rifugiati e le cause che li spingono a fuggire. Ciò che si può fare è prendere atto che quest’onda di umanità disperata non si fermerà, si protrarrà per anni e cambierà profondamente la geopolitica europea, la composizione sociale di interi territori e città. Ma rendersi pienamente contro della situazione è ciò che si può fare come minimo, mentre in verità è giunto il momento di non limitarsi ad aprire gli occhi.
«L’Arabia Saudita lo ha arrestato quando aveva 17 anni per aver partecipato a una manifestazione. E ora è arrivato il verdetto: pena capitale. Le cancellerie occidentali protestano, ma nessuno ha il coraggio di spingersi oltre: la vita di un ragazzo vale meno dei ricchi».
La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Il caso fa le cose per bene: qualche giorno prima che Ali Mohammed Al Nimr, 20 anni, nipote di un oppositore sciita del regime dell’Arabia Saudita, fosse condannato a essere decapitato e poi crocifisso fino a putrefazione avvenuta, Faisal Bin Hassan Trad, l’ambasciatore saudita, è stato eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Da parte di questa istituzione sempre più inefficace è una forma di umorismo nero un po’ speciale. Un umorismo color petrolio. L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette sentenze di morte a ogni piè sospinto. È il paese che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Secondo i media e le associazioni per i diritti umani, quest’anno ci sono state 133 esecuzioni. Il crimine di questo ragazzo (al momento dell’arresto aveva 17 anni) è di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. La sentenza supera i limiti della comprensione. È un assassinio. Quel ragazzo non ha ucciso, né violentato, né rubato. Ha solo partecipato a una manifestazione nel corso della “primavera araba”. Se sarà giustiziato, le Nazioni unite dovrebbero perseguire l’Araba saudita. Ma non lo faranno.
Noam Chomsky e le convinzioni sulla rinascita di una sinistra radicale negli Usa, i germi di nuova sinistra in Europa continentale (Syriza e Podemos), Regno Unito (Jeremy Corbin) e USA (Bernie Sanders), sul potenziale della gente a produrre cambiamento radicale.
Jacobin, 22 settembre 2015
In una intervista di un paio di anni fa, lei ha detto che il movimento Occupy Wall Street aveva creato un raro sentimento di solidarietà negli Stati Uniti. Il 17 settembre è stato il quarto anniversario del movimento OWS. Qual è la tua valutazione dei movimenti socialicome OWS negli ultimi venti anni? Sono stati efficaci nel determinare il cambiamento? Come potrebbero migliorare?
«Hanno avuto un impatto; essi non si sono coalizzati in movimenti persistenti e continui. Si tratta di una società molto atomizzata. Ci sono pochissime organizzazioni continuative che hanno memoria istituzionale, che sanno come muoversi nella fase successiva e così via. Questo è in parte a causa della distruzione del movimento operaio, che era solito offrire una sorta di base fissa per molte attività; ormai, praticamente le uniche istituzioni persistenti sono le chiese. Tante cose sono basate sulla chiesa.
«E’ difficile per un movimento prendere piede. Ci sono spesso movimenti di giovani, che tendono ad essere transitori; d’altra parte c’è un effetto cumulativo, e non si sa mai quando qualcosa farà da scintilla per un grande movimento. E’ accaduto tante volte: il movimento per i diritti civili, il movimento delle donne. Quindi, continuate a provare fino a quando qualcosa decolla».
La crisi del 2008 ha dimostrato chiaramente i difetti della dottrina economica neoliberista. Tuttavia, il neoliberismo sembra ancora persistere ed i suoi principi sono ancora applicati in molti paesi. Perché, anche con i tragici effetti della crisi del 2008, la dottrina neoliberista sembra essere così resistente? Perché non vi è ancora stata una risposta forte come dopo la Grande Depressione?
«Prima di tutto, le risposte europee sono state molto peggio delle risposte degli Stati Uniti, il che è abbastanza sorprendente. Negli Stati Uniti ci sono stati lievi sforzi di stimolo, quantitative easing e così via, che lentamente hanno permesso all’economia di riprendersi. Infatti, la ripresa dalla Grande Depressione fu effettivamente più veloce in molti paesi di quanto lo sia oggi, per un sacco di motivi. Nel caso dell’Europa, uno dei motivi principali è che la creazione di una moneta unica è stato un disastro automatico, come molte persone hanno sottolineato. Meccanismi per rispondere alla crisi non sono disponibili in Europa: la Grecia, ad esempio, non può svalutare la propria moneta.
«L’integrazione europea ha avuto sviluppi molto positivi per certi aspetti ed è stata dannosa in altri, soprattutto quando è sotto il controllo di poteri economici estremamente reazionari, che impongono politiche economicamente distruttive e che sono fondamentalmente una forma di guerra di classe.
«Perché non c’è reazione? Beh, i paesi deboli non stanno ottenendo il sostegno degli altri. Se la Grecia avesse avuto il sostegno di Spagna, Portogallo, Italia e altri paesi avrebbero potuto essere in grado di resistere alle forze degli eurocrati. Questi sono i tipi di casi particolari che hanno a che fare con gli sviluppi contemporanei. Negli anni ’30, ricordate che le risposte non erano particolarmente attraenti: una di esse era il nazismo».
Alcuni mesi fa Alexis Tsipras, leader di Syriza, è stato eletto come primo ministro della Grecia. Alla fine, però, ha dovuto fare molti compromessi a causa della pressione imposta su di lui dai poteri finanziari, ed è stato costretto ad attuare dure misure di austerità. Pensi che, in generale, un vero cambiamento può venire quando un leader della sinistra radicale, come Tsipras arriva al potere, o gli stati nazionali hanno perso troppa sovranità e sono anche loro dipendenti dalle istituzioni finanziarie che possono disciplinarli se non seguono le regole del libero mercato?
«Come ho detto, nel caso della Grecia, se ci fosse stato il sostegno popolare per la Grecia da altre parti d’Europa, la Grecia avrebbe potuto essere in grado di resistere all’assalto dell’alleanza banca eurocrati. Ma la Grecia era sola – non ha avuto molte opzioni.
Ci sono ottimi economisti come Joseph Stiglitz che pensano che la Grecia avrebbe dovuto solo tirarsi fuori dalla zona euro. Si tratta di un passo molto rischioso. La Grecia è una piccola economia, non è granché un’economia di esportazione, e sarebbe troppo debole per resistere alle pressioni esterne. Ci sono persone che criticano la tattica di Syriza e la posizione che hanno preso, ma penso che sia difficile vedere quali opzioni avevano con la mancanza di supporto esterno».
Immaginiamo per esempio che Bernie Sanders vinca le elezioni presidenziali del 2016. Cosa pensi che accadrebbe? Potrebbe portare il cambiamento radicale delle strutture di potere del sistema capitalista?
«Supponiamo che Sanders vinca, che è piuttosto improbabile in un sistema di elezioni comprate. Lui sarebbe solo: non ha rappresentanti del Congresso, non ha governatori, che non ha il supporto nella burocrazia, non ha legislatori statali; e isolato in questo sistema, non potrebbe fare molto. Una vera alternativa politica dovrebbe essere generalizzata, non solo una figura alla Casa Bianca.
«Dovrebbe essere un ampio movimento politico. In effetti, la campagna Sanders penso che è preziosa – sta aprendo problemi, potrebbe forse spingere un po’ in una direzione progressista i Democratici mainstream , e sta mobilitando un sacco di forze popolari e il risultato più positivo sarebbe se rimangono mobilitate dopo le elezioni.
«E’ un grave errore essere solo orientati alla stravaganza elettorale quadriennale e poi tornare a casa. Non è questo il modo in cui i cambiamenti avvengono. La mobilitazione potrebbe portare ad una permanente organizzazione popolare che potrebbe forse avere un effetto nel lungo periodo».
Qual è il suo parere in merito alla comparsa di figure come Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Pablo Iglesias in Spagna, o Bernie Sanders negli Stati Uniti? È un nuovo movimento di sinistra in crescita, o queste sono solo reazioni sporadiche alla crisi economica?
«Dipende da quello che la reazione popolare è. Prendete Corbyn in Inghilterra: è sotto attacco feroce, e non solo dall’establishment conservatore, ma anche dalla classe dirigente del Labour. Si spera che Corbyn sarà in grado di sopportare questo tipo di attacco; questo dipende dal sostegno popolare. Se il pubblico è disposto a supportarlo a fronte della diffamazione e delle tattiche distruttive, allora può avere un impatto. Stessa cosa con Podemos in Spagna.
Come si può mobilitare un gran numero di persone che su tali questioni complesse?
«Non è così complesso. Il compito degli organizzatori e attivisti è quello di aiutare le persone a capire e far loro riconoscere che loro hanno il potere, che non sono impotenti. Le persone si sentono impotenti, ma questo deve essere superato. Questo è ciò intorno a cui ruota l’organizzare e l’attivismo . A volte funziona, a volte non riesce, ma non ci sono segreti. E’ un processo a lungo termine – è sempre stato il caso. E ha avuto successo. Nel corso del tempo c’è una sorta di traiettoria generale verso una società più giusta, con regressioni e inversioni di rotta.
Quindi tu diresti che, durante il corso della vita, l’umanità è progredita nella costruzione di una società un po ‘più giusta?
«Ci sono stati enormi cambiamenti. Basta guardare qui al MIT. Fate una passeggiata nella hall e date un’occhiata alla natura del corpo studentesco: circa la metà è composta da donne , un terzo dalle minoranze, vestiti informalmente, relazioni casuali tra le persone e così via. Quando sono arrivato qui nel 1955, se tu camminavi per la stesso sala ci sarebbero stati maschi bianchi, giacche e cravatte, molto educati, obbedienti, che non ponevano molte domande. Questo è un enorme cambiamento.
E non è solo qui – è dappertutto. Tu e io non avremmo avuto questo aspetto, e infatti probabilmente tu non saresti stato qui. Questi sono alcuni dei cambiamenti culturali e sociali che hanno avuto luogo grazie a coscienzioso e solerte attivismo .
«Altre cose non sono andate così, come il movimento operaio, che è stato sotto duro attacco durante tutta la storia americana e in particolare a partire dai primi anni ’50. E’ stato seriamente indebolito: nel settore privato è marginale, ed viene ora attaccato nel settore pubblico. Questa è una regressione.
Le politiche neoliberiste sono certamente una regressione. Per la maggior parte della popolazione negli Stati Uniti, c’è stata praticamente stagnazione e declino nell’ultima generazione. E non a causa di alcune leggi economiche. Queste sono le politiche. Proprio come l’austerità in Europa non è una necessità economica – in realtà, è una sciocchezza economica. Ma si tratta di una decisione politica intrapresa dai progettisti per i propri scopi. Penso che in fondo è una sorta di guerra di classe, e si può resistere, ma non è facile. La storia non va in linea retta».
Come pensi che il sistema capitalista sopravviverà, considerando la sua dipendenza dai combustibili fossili e il suo impatto sull’ambiente?
«Quello che è chiamato il sistema capitalista è molto lontano da qualsiasi modello di capitalismo o di mercato. Prendete le industrie dei combustibili fossili: c’era un recente studio del Fondo monetario internazionale, che ha cercato di stimare il contributo che le aziende energetiche ottengono da parte dei governi. Il totale era colossale. Penso che sia stato intorno a 5.000 miliardi $ all’anno. Questo non ha niente a che fare con i mercati e il capitalismo. Lo stesso vale per altre componenti del cosiddetto sistema capitalistico. Ormai, negli Stati Uniti e altri paesi occidentali, c’è stato, nel periodo neoliberista, un forte aumento della finanziarizzazione dell’economia. Le istituzioni finanziarie negli Stati Uniti avevano circa il 40 per cento dei profitti delle imprese, alla vigilia del crollo del 2008, per il quale avevano una grande parte di responsabilità.
«C’è un altro studio del Fmi che ha indagato i profitti delle banche americane, e ha scoperto che erano quasi completamente dipendenti sovvenzioni pubbliche implicite. C’è una sorta di garanzia – non è sulla carta, ma è una garanzia implicita – che se si trovano nei guai saranno tirate fuori fuori. Questo lo chiamano too big to fail.
E le agenzie di rating del credito naturalmente lo sanno, lo prendono in considerazione e con elevato merito creditizio le istituzioni finanziarie ottengono un accesso privilegiato al credito più conveniente, ricevono i sussidi se le cose vanno male e molti altri incentivi, che ammontano di fatto a forse il loro profitto totale . La stampa economica ha cercato di fare una stima di questo numero e si presume di circa $ 80 miliardi di dollari all’anno. Questo non ha niente a che fare con il capitalismo.
E’ lo stesso in molti altri settori dell’economia. Quindi la vera domanda è, questo sistema di capitalismo di Stato, che è quello che è, sopravviverà all’uso continuato dei combustibili fossili? E la risposta è, naturalmente, no.
«Ormai c’è un piuttosto forte consenso tra gli scienziati che dicono che la maggior parte dei combustibili fossili rimanenti, forse l’80 per cento, devono essere lasciati nel terreno, se speriamo di evitare un aumento della temperatura che sarebbe piuttosto letale. E non sta accadendo. Gli esseri umani possono stare distruggendo le loro possibilità di sopravvivenza decente. Non ucciderà tutti, ma cambierebbe il mondo in modo drammatico».
Riferimenti
Questo articolo, pubblicato sul sito della rivista Jacobin, è stato ripreso tradotto da Maurizio Acerbo sulla mailing listi di Altra Europa.
TAGLI E MULTE MEDICI IN RIVOLTA
di Eleonora Martini
La ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga a 208 voci la lista di esami clinici da ridurre e sottrae altri 2,3 miliardi al Servizio sanitario nazionale. L’accusa è di eccesso di prescrizioni inappropriate. In preparazione altre norme per ridurre la medicina difensiva. I sindacati: manifestazione nazionale a novembre
Messo definitivamente in soffitta l’obiettivo prioritario di prevenire le malattie che era alla base della riforma sanitaria del 1978, la ministra della Salute Beatrice Lorenzin allunga ulteriormente fino a 208 voci, rispetto alle 108 dell’agosto scorso, l’elenco degli esami clinici - da inserire in un prossimo decreto legge - che saranno coperti dal Sistema sanitario nazionale solo a determinate condizioni, prevedendo sanzioni per i medici che non rispettano i paletti imposti e perseverano invece in quell’«eccesso di prescrizioni» esploso negli ultimi anni con la cosiddetta “medicina difensiva”.
Un problema, quello dell’appropriatezza delle prescrizioni di test diagnostici (ma di abuso di farmaci non parla più nessuno) su cui tutti concordano, inclusi, con scarsa autocritica, i camici bianchi, e che comporterebbe secondo i calcoli governativi uno spreco di risorse pubbliche pari a 13 miliardi ogni anno. I medici però non ci stanno ad accettare il «metodo repressivo» che limita la loro azione «in scienza e coscienza» e «rischia di incrinare il rapporto di fiducia col paziente». Ma soprattutto, si ripercuote sulla salute pubblica, aumentando il divario tra le opportunità di accesso alle cure a seconda del censo e della regione di appartenenza.
E allora la Federazione nazionale degli Ordini dei medici annuncia già per novembre una manifestazione nazionale di tutta la categoria per «richiamare l’attenzione sulle criticità emergenti del Ssn», mentre Massimo Cozza, segretario nazionale Fp Cgil Medici chiama alla «mobilitazione unitaria con i cittadini a difesa del Ssn e contro i tagli alla sanità camuffati come mancati aumenti o risparmi annunciati da Renzi e Padoan».
Cozza spiega al manifesto: «Con quest’ultima manovra di luglio inserita nel decreto sugli enti locali, in applicazione del Patto sulla salute siglato da governo e regioni e da completare appunto con l’elenco degli esami clinici stilato dal ministero, si tagliano 2,3 miliardi alla sanità pubblica. Ma sono 30 i miliardi sottratti negli ultimi cinque anni e non reinvestiti sul Ssn». Inoltre, il provvedimento della ministra Lorenzin — che limita, per esempio, la possibilità di ripetere l’esame del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue a una volta ogni cinque anni, a meno di particolari necessità curative — scarica sulle regioni la messa a punto del modus operandi: chi controllerà, chi dirimerà eventuali controversie tra medico e controllore, quali sanzioni per il medico e chi le infliggerà. C’è da scommettere che ogni regione si regolerà a modo suo. E così l’erogazione dei servizi, già a macchia di leopardo, diventerà talmente disomogenea da violare il diritto costituzionale sancito dall’articolo 32. In più, aggiunge Luigi Conte, segretario Fnomceo, «molti dei 208 esami indicati nel provvedimento come a rischio inappropriatezza sono desueti e già non utilizzati».
Ribatte Lorenzin: «Non c’è una caccia al medico, tutt’altro. Gli diamo gli strumenti per agire in modo più sereno. Le sanzioni amministrative sul salario accessorio scatteranno dopo un eccesso reiterato di prescrizioni inappropriate e solo dopo un contraddittorio con il medico che dovrà giustificare scientificamente le sue scelte. Se non lo farà, solo allora scatterà la sanzione». La ministra assicura inoltre che i «protocolli che stabiliscono come e quando fare gli esami sono stati decisi dalle società scientifiche e rivisti dal Consiglio superiore di sanità». E invece l’associazione dei medici dirigenti Anaao «conferma la propria totale contrarietà ad affrontare il tema dell’appropriatezza clinica per via politica e amministrativa - afferma il segretario nazionale Costantino Troise - Senza contare i veri e propri strafalcioni presenti nella parte tecnica del decreto, che la dicono lunga sulle competenze e sull’attenzione riservate alla materia».
Non sono poche invece le organizzazioni che plaudono al provvedimento considerato «utile alla lotta agli sprechi». Ma mentre i sindacati dei radiologi, per esempio, chiedono di «risolvere rapidamente la questione della responsabilità professionale», per il Codacons i medici «appaiono totalmente tutelati e possono ricorrere anche a forme particolari di assicurazione», «il problema semmai è garantire un livello di assistenza sanitaria adeguata evitando distorsioni a danno degli utenti».
L’elenco di Lorenzin comunque, secondo Massimo Cozza, «non rappresenta in alcun modo un limite alla medicina difensiva». E infatti il governo sta già lavorando, come ha ribadito ieri, ad una serie di norme da inserire nella legge di stabilità per aiutare i medici a tutelarsi dalle cause temerarie che sarebbero, secondo i sindacati, il 97% di quelle intentate da pazienti.
L'intervento in aula di un senatore che conosciamo e stimiamo. Siamo certi che è tra quelli che non voteranno l'orrida proposta di cui illustra l'intima nefandezze e la pesante lesione delle regole della convivenza democratica, e quindi contribuirà a bocciarla. Ma ci domandiamo ancora una volta come faccia a rimanere in quel partito
Quando gli storici di diritto costituzionale studieranno questa revisione della Carta, noteranno un'anomalia che noi non possiamo oppure non vogliamo vedere. Con i voti di un premio di maggioranza viziato da illegittimità si riscrive quasi tutta la seconda parte. La famosa sentenza della Corte raccomandava di approvare subito la legge elettorale per andare a votare al più presto, ma non chiedeva di riscrivere la Carta. Lo fa la classe politica proprio per evitare le elezioni. So di dire una cosa che suona sgradevole e mi viene quasi di scusarmi con voi. È come se ci fosse un inconsapevole accordo a non parlarne qui. Che la dice lunga sullo straniamento di questo dibattito.
Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l'approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l'Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.
Si affidano le sorti del paese all'arbitrio di una minoranza che diventa maggioranza per i rinforzi artificiali del premierato invece che per i consensi liberamente espressi dai cittadini. Si crea un governo maggioritario in una democrazia minoritaria, segnata sempre più da una disaffezione elettorale che allontana dalle urne ormai quasi la metà della popolazione.
Per tutto ciò il premier dispone di una maggioranza ubbidiente di parlamentari che ha scelto personalmente come capilista. D'altro canto, con l'Italicum i tre quarti dei parlamentari, sempre nel worst case scenario, sono sottratti al controllo degli elettori, non solo al momento del voto ma durante il mandato. Al contrario il premier riceve un'investitura diretta, seppure minoritaria, nel ballottaggio. Si crea così un forte squilibrio di legittimazione tra il capo del governo e l'assemblea, che si traduce in supremazia del potere esecutivo sopra il legislativo e indirettamente anche sull'ordinamento giudiziario.
I tre poteri fondamentali di una democrazia sono decisamente fuori equilibrio, e il principale fattore di questo squilibrio è il numero dei deputati. La Camera - unica depositaria del voto di fiducia - è sei volte più grande del Senato. Di fatto è un monocameralismo. Niente di male in linea di principio, lo proponeva con ardore anche il mio caro maestro, il presidente Pietro Ingrao, e tanti altri nella Prima Repubblica, ma tutti lo compensavano con legge elettorale proporzionale. Nessuno lo avrebbe mai accettato con una legge ipermaggioritaria. Eppure, eliminare lo squilibrio numerico sarebbe facile e doveroso. In nessun paese europeo si arriva a 630 deputati. E la proposta iniziale del governo faceva della riduzione dei parlamentari la priorità della revisione costituzionale. Perché allora non si riduce il numero dei deputati? Perché si cambia tutto tranne il numero della Camera? Da più di un anno questa domanda rimane senza risposta. Mi rivolgo in extremis alla ministra Boschi: abbia almeno la cortesia istituzionale di dare in quest'aula una spiegazione seria e convincente.
Il risultato è un Senato senza funzioni e senza autorevolezza. Anzi un vero pasticcio: da un lato un eccesso di potere costituzionale, improprio per un'assemblea composta anche da figure amministrative, e dall'altro la mancanza di poteri ordinamentali e soprattutto di penetranti controlli - inchieste, audizioni dei dirigenti, analisi dei risultati ecc. - che andrebbero a pennello per il ramo sprovvisto della fiducia e quindi più libero dal condizionamento di governo. Che senso ha mantenere in vita una gloriosa istituzione svuotata di prestigio? Meglio allora eliminarla del tutto. Non c'è niente di peggio di un'assemblea senza poteri, con il rischio che li ottenga tramite il consociativismo col governo, degradando ulteriormente la trasparenza e l'efficienza del sistema.
Non rinnego il Senato elettivo a base proporzionale che ho sostenuto insieme ad altri. Rimango convinto che avrebbe rinsaldato il rapporto tra eletti ed elettori, oggi essenziale per ricostituire la fiducia nelle istituzioni. Avrebbe ricordato al premier - che è assoluto nei poteri ma carente nei consensi - quali siano gli orientamenti popolari profondi. La presidente Finocchiaro lo considera un freno inaccettabile, ma sarebbe un importante contrappeso. In questo senso abbiamo parlato di un Senato di garanzia, per i poteri e per il mandato elettorale diretto.
Ma non mi innamoro delle proposte. In teoria la garanzia si può ottenere anche in una sola camera, magari eletta con i collegi uninominali, ricorrendo a voti qualificati, superiori al premio di maggioranza, nella legislazione dei diritti fondamentali. E i costituzionalisti sarebbero in grado di suggerire tanti altri modi di compensazione. È dirimente l'equilibrio generale, non la singola proposta, neppure quella a me cara del Senato elettivo. La legislazione costituzionale non è altro che produzione di sistema. La qualità di una legge costituzionale si misura nell'effetto di sistema. Qui la misura è negativa sotto i punti di vista; anche la mediazione che si affaccia sulla quasi elezione dei senatori, un passo avanti certamente positivo, non è in grado di modificare l'impianto, non riduce lo squilibrio del premierato assoluto. Non cancella la mia valutazione negativa.
Si è persa anche l'occasione della riforma del bicameralismo. Perché si è raccontato un falso all'opinione pubblica da almeno trent'anni. Le famose navette che vanno da una camera all'altra riguardano solo il 3% delle proposte di legge, per lo più a causa di testi scritti male dal governo. Non è vero che ci sia un problema di velocità del procedimento legislativo, anzi è vero esattamente il contrario: è troppo facile, c’è una bulimia delle leggi, se ne scrive una nuova prima che la precedente sia applicata. Lo sanno bene i cittadini, le amministrazioni e le imprese ormai sommersi da un'alluvione normativa che soffoca la vita quotidiana. Il nuovo bicameralismo dovrebbe aumentare la qualità e non la velocità, per produrre poche leggi organiche, brevi e leggibili anche per i cittadini.
A tale compito dovrebbe dedicarsi un nuovo Senato di alta legislazione, per curare i grandi Codici, lasciando alla Camera la responsabilità di attuare il programma di governo entro una cornice solida ed efficace. Questa è la riforma mancata del bicameralismo. Non si è potuto neppure discuterne perché c'è il feticcio del Senato federale. Era una grande idea, certo dell'Ulivo e di altri. Molti di noi hanno speso le migliori energie giovanili per una Repubblica federale. Ma si è rivelato un disegno disastroso, le regioni oggi sono al punto più basso di credibilità come dimostra la bassa partecipazione alle ultime elezioni; nel frattempo gli squilibri territoriali, a cominciare da quello Nord-Sud, si sono aggravati.
Si doveva fare un bilancio serio del fallimento del federalismo in sede parlamentare. Il governo lo ha fatto da solo, togliendo poteri alle regioni e compensando il ceto politico con il pennacchio del Senato. Il risultato è deprimente. Non abbiamo più il vecchio regionalismo, non abbiamo più il federalismo, rimane solo un rapporto confuso che diventerà ancora più litigioso con le funzioni ripartite secondo una doppia competenza esclusiva, che - lo dice la logica - è difficile da mediare. Bisogna invece ridurre il numero delle regioni, come propongo con un emendamento. Una decina di macroregioni potrebbero trovare un rapporto più costruttivo con lo Stato, rendendo più compatto il sistema paese nella competizione internazionale.
Sulla base di queste considerazioni di sistema, e non solo per il Senato elettivo, lo scorso anno ho espresso il mio disagio, insieme ad altri, non partecipando al voto, sperando che nei passaggi successivi si potesse migliorare. L'equilibrio, a mio avviso, è peggiorato, il debole passo avanti sul senato elettivo è vanificato dall'approvazione dell'Italicum e dal diniego della riduzione del numero dei deputati. Alla seconda lettura siamo chiamati a una valutazione definitiva, per questo il mio voto sarà contrario, non essendoci sulla materia costituzionale un vincolo di partito.
Sento già il ritornello - “allora vuoi far cadere il governo?” È la domanda più stupida che si legge sui giornali. È una strabiliante inversione tra causa ed effetto. È inaudito che il governo ponga in sede politica una sorta di fiducia sul cambiamento della Costituzione. Non è mai accaduto nella storia della Repubblica. Il fatto che oggi venga considerato normale, che si dia quasi per scontato, che venga messo all'indice chi si sottrae, è la conferma che il dibattito pubblico italiano è malato, che già nell'agenda di discussione, prima ancora che nelle soluzioni, si vede un pericoloso sbandamento dei principi e di valori.
Si è costruita artificiosamente un'emergenza costituzionale per conferire una legittimazione politica a un governo sprovvisto di un diretto mandato degli elettori. È l'ennesima anomalia italiana. In un paese normale il governo non si occupa della Costituzione. In un paese normale l'esecutivo governa secondo un programma presentato agli elettori. Si può derogare a queste semplici regole in situazioni straordinarie e per breve tempo. Da noi lo stato d'eccezione durerà per quasi tutto questo decennio.
Non si può dare la colpa solo agli ultimi venuti. Da venti anni si cambia la Costituzione per contingenti finalità politiche; prima il centrosinistra col titolo V per inseguire la Lega, poi Berlusconi nel 2005 per sigillare la sua maggioranza, poi lo ius sanguinis del voto all'estero per legittimare Fini e poi i tentativi di Tremonti di salvarsi modificando l'articolo 41. Tutte riforme costituzionali fallite, perché sbagliato era il metodo. Ma già negli anni ottanta, da quando persero la capacità di governo, i partiti hanno preso il vezzo di dire che non era colpa loro ma della Costituzione. Per non affrontare la crisi della politica hanno aperto la crisi delle istituzioni. Hanno cominciato a sfogliare l'atlante del modello francese, inglese, tedesco, spagnolo e americano.
Il perfettismo istituzionale è un sintomo della malattia della politica. Le Costituzioni sane sono imperfette perché prodotte dalla storia. Il modello decisionale americano è pazzesco, non prevede neppure il decreto legge, eppure ha gestito un impero. Le imperfezioni sono compensate dalla volontà politica, che è come il coraggio di don Abbondio, chi non ce l'ha non se la può dare. Da trent'anni la classe politica italiana invece di governare si consola con l'orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali.
Quando il presidente Renzi si vanta di fare le cose in programma da venti anni, non si accorge di parlare da conservatore. È il paradosso dei rottamatori che applicano l'agenda dei rottamati. Ripetono l'errore più grave, quello di servirsi della revisione costituzionale per finalità politiche contingenti.
La Carta sarebbe da cambiare in tante cose - non sono tra coloro che ne fanno un altare. Ma ci vuole umiltà. Cambiare la Costituzione significa servirla, non servirsene. La mia generazione non è stata all’altezza del compito. La notizia triste è che neppure la generazione dopo di noi se ne mostra capace. Forse devono ancora nascere i riformatori di domani in grado di migliorare il capolavoro ricevuto in eredità.
«Non lo ammetteranno mai, ma le autorità americane hanno fatto alla Volkswagen ciò che le autorità italiane hanno fatto all'Ilva: le hanno beccate a inquinare». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015 (m.p.r.)
Italiani state sereni. Il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti ha diffuso una minacciosa nota per dirci che «sta chiedendo, attraverso i suoi uffici, rassicurazioni a Volkswagen Italia sull’effettivo rispetto della normativa in materia di emissioni e inquinamento». Galletti chiede all'oste se il vino è buono perché nessuno gli ha spiegato che il governo americano non ha chiesto rassicurazioni ma, attraverso “i suoi uffici”, ha preso delle Volkswagen e le ha smontate. Ma Galletti non lo può fare, perché se smontasse le Volkswagen dovrebbe anche andare a vedere che cosa succede a Taranto, e invece è così contento di starne fuori e di non essere nemmeno invitato ai vertici di palazzo Chigi sull’Ilva.
Si scrive riforma, si legge pasticcio. E quella mediazione che è l’ossessione del Pd potrebbe anche peggiorarlo. Ufficialmente e renzianamente, la riforma del Senato è la via per arrivare a una democrazia efficiente, nella quale «il procedimento legislativo sarà più snello ed efficace» (Maria Elena Boschi dixit). Fuor di propaganda, è un ginepraio contraddittorio, da cui potrebbe scaturire una seconda Camera che conterà poco o nulla. Soprattutto, composta di nominati. «Questa riforma è un capolavoro di dilettantismo», scandisce l’amministrativista Gianluigi Pellegrino.