«È chiaro che siamo di fronte alla liquidazione del diritto del lavoro – alla sua equiparazione nel migliore dei casi al diritto commerciale – e dei diritti dei lavoratori, considerati sia singolarmente che collettivamente».
Il manifesto, 7 ottobre 2015
Da un lato il governo lavora per snaturare e limitare il diritto di sciopero. Esso, contrariamente alla nostra Costituzione, non sarebbe più un diritto in capo al lavoratore, ma un atto consentito solo a sindacati aventi un certo livello di rappresentanza e di consenso tra i dipendenti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cambierebbe. Il grimaldello sarebbe la questione della «rappresentanza», vecchio nodo irrisolto. Solo che qui si parla di una rappresentanza rovesciata. Non quella rispetto ai lavoratori, in base alla quale si dovrebbe giungere all’ovvia conclusione che almeno gli accordi per avere validità erga omnes dovrebbero essere approvati da un voto referendario di tutti i lavoratori cui si riferiscono. E magari bocciati, come è successo recentemente alla Fca di Marchionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garanzia che ciò che le sigle sindacali firmano diventi per ciò stesso norma imposta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scrivere di proprio pugno le regole della contrattazione.
Senza neppure il parere delle organizzazioni sindacali e della Confindustria, che comunque con Squinzi si allinea preventivamente. L’occasione sarebbe fornita da uno dei decreti delegati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla introduzione del salario minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Grazie a questo si cancellerebbe la contrattazione salariale nazionale e quindi si toglierebbe linfa vitale al contratto collettivo nazionale di lavoro, mentre l’incremento salariale sarebbe abbandonato alla contrattazione aziendale – per chi se la può permettere -, ma vincolato agli aumenti di produttività.
Mettendo insieme i due elementi qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liquidazione del diritto del lavoro – alla sua equiparazione nel migliore dei casi al diritto commerciale – e dei diritti dei lavoratori, considerati sia singolarmente che collettivamente. Al più grande e organico attacco al movimento operaio mai portato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accompagnerebbe alla aziendalizzazione del welfare state, poiché alla contrattazione aziendale verrebbe affidata anche quella per la sanità e gli altri istituti di welfare integrativi.
Intendiamoci, non è il salario minimo orario ad essere di per sé il responsabile di questa perfida costruzione. La sua introduzione in tutt’altro quadro sarebbe positiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per parafrasare i giuristi, avverrebbe con quel «velo di ignoranza» verso la struttura contrattuale, non diventando così il pretesto per smantellarla. In effetti al giovane, o meno giovane o all’immigrato, che non è protetto da un contratto collettivo nazionale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scendere è un elemento di difesa. Con il pregio della universalità. Su questa base si potrebbe immaginare una riforma della contrattazione tale da ridurre gli attuali 380 contratti collettivi nazionali a quei 5 o 6 in settori fondamentali entro i quali concentrare le forza per ottenere dal punto di vista retributivo e normativo misure accrescitive, da migliorare poi in un eventuale contrattazione di secondo livello.
Di questo si parla da tempo nelle organizzazioni sindacali. In particolare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le responsabilità, è inutile nasconderselo, sono anche interne al movimento sindacale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rappresentanza, ove il sindacato degli iscritti modello Cisl si è scontrato con il sindacato di tutti i lavoratori mutuato dai momenti migliori della storia del movimento sindacale; sia per quanto riguarda il tema del salario minimo, ove la paura di perdere ruolo ha paralizzato ogni proposta.
Il governo ne approfitta per cercare di cancellare del tutto contrattazione e sindacato. Reagire con uno sciopero generale sarebbe necessario.
, La Repubblica, 6 ottobre 2015 (m.p.r.)
FRANCESCO: IL SINODO NON è UN PARLAMENTO
SCONTRO SUI DIVORZIATI
di Marco Ansaldo
Alla vigilia di ogni legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale ritrova un suo asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però oltre una materia buona per demagoghi e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità sembra fermo da decenni e, soprattutto, saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della «regressività» del sistema fiscale e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti da Landais, Piketty e Saez (Per una rivoluzione fiscale, La scuola, 2014).
eddyburg i testi apparsi sulla stampa alla data stessa della pubblicazione. A volte la bellezza o l'interesse del testo, se sono sfuggiti nell'immediato alla nostra attenzione li presentiamo lo stesso. Così facciamo perla commemorazione di Pietro Ingrao pronunciata da Alfredo Reichlin. Il manifesto, 1° ottobre 2015
Vorrei esprimere il più grande rammarico per la scomparsa di Pietro Ingrao. Per l’uomo che egli è stato, il grumo di pensieri e di affetti anche familiari che ha rappresentato, ma soprattutto per il segno così profondo e tuttora aperto e vivo che egli ha lasciato nella vita italiana.
«È morto il capo della sinistra comunista», così, con questo flash, la Tv dava domenica pomeriggio la notizia. In questa estrema semplificazione e nei commenti di questi giorni io ho visto qualcosa che fa riflettere.
Vuol dire che dopotutto questo paese ha una storia. Non è solo una confusa sommatoria di individui che si distinguono tra loro solo per i modi di vivere e di consumare. Ha una grande storia di idee, di lotte e di passioni, di comunità, e di persone, anche se questa storia noi non l’abbiamo saputa custodire.
Perché volevamo la luna? Oppure perché non l’abbiamo voluta abbastanza?
Non lo so. So però che adesso siamo giunti a un passaggio molto difficile e incerto della nostra storia. E che la gente è confusa e torna a porsi grandi domande e ad esprimere un bisogno insopprimibile di nuovi bisogni e significati della vita.
Si affaccia sulla scena una nuova umanità. E io credo sia questa la ragione per cui la morte di Pietro Ingrao (un uomo che taceva da quasi 20 anni) ha così colpito l’opinione pubblica.
Perché era di sinistra? Di questa antica parola si sono persi molti significati. E tuttora non quello fondamentale: la lotta per l’emancipazione del lavoro, il cammino di liberazione dell’uomo dalle paure e dai dogmi; la libertà dal bisogno e al tempo stesso la assunzione di responsabilità verso gli altri.
Forse mi sbaglio ma sento rinascere il bisogno di uomini che pensano e guardano lontano, che dicono la verità, che non sono dei rompiscatole, che certamente si rendono conto che il vecchio non può più ma vedono anche lucidamente che il nuovo non c’è ancora. E che perciò si interrogano su come riempire questo vuoto molto pericoloso, il lacerarsi del tessuto che tiene insieme popoli e Stati.
Pietro Ingrao non ci ha dato ovviamente la risposta a questi quesiti ma ci ha detto una cosa fondamentale: che la politica non si può ridurre a mercato o a lotte di potere tra le persone. Che ad essa bisogna dare una nuova dimensione, anche etica e culturale.
Questa è la lezione di Pietro Ingrao. Una lezione che resta, e anzi appare più che mai necessaria. E’ la riscoperta della politica non come mito e orizzonte irraggiungibile ma come consapevolezza della propria vita.
La più grande passione laica: la costruzione di una nuova soggettività, e quindi di uno sguardo più profondo attraverso il quale leggere le cose, la realtà. E quindi agire. Per assumere il compito che la vicenda storica reale pone davanti a noi.
Tutti parlano di Ingrao come l’uomo del dubbio. Lo farò anch’io. Ma prima di tutto Pietro, per me, è stato questo: la fusione tra politica e vita, la politica come storia in atto. Noi volevamo la luna? In effetti di parole troppo grosse come rivoluzione non si parlava mai. Si parlava molto però, e con enorme passione, della lotta per cambiare il tessuto profondo, anche culturale e morale, del paese. L’idea di un avvento delle classi lavoratrici al potere per una propria strada.
L’essenziale era partire dagli ultimi, come renderli protagonisti e come dar vita a nuove strutture sindacali, politiche, culturali, cooperative. Come non lasciare gli uomini soli di fronte alla potenza del denaro.
Questa fu la nostra grande passione. Immergersi nell’Italia vera, aderire a «tutte le pieghe della società». E questa passione io non l’ho vista in nessuno così assillante come Pietro Ingrao. Fu Pietro Ingrao, una mente libera, cocciuta e assetata di conoscenza. È tutto qui il famoso uomo del dubbio. Non era uno scettico: voleva capire. Non era un ingenuo, sapeva lottare e colpire (dirigeva dopotutto un grande giornale popolare che era un’arma formidabile) ma sapeva che per vincere bisogna prima di tutto capire quel tanto di verità che c’è sempre, in fondo, e in qualche misura, nel tuo avversario. Insomma, l’egemonia.
Ingrao l’uomo giusto.
Credo che questo spieghi il paradosso per cui colui che le dicerie consideravano il delfino di Togliatti è lo stesso che comincia a sentire l’insufficienza della grande lettura togliattiana dell’Italia come paese arretrato in cui il compito storico dei comunisti era risolvere le grandi «questioni» storiche: il Mezzogiorno, la questione agraria, il rapporto col Vaticano.
Questa lettura, nell’insieme, non riusciva più a dare conto delle trasformazioni che cominciavano a cambiare radicalmente il volto dell’Italia: il passaggio da paese agricolo a paese industriale, una biblica emigrazione che svuotava le campagne del Sud, l’avvento dei consumi di massa, la rivoluzione dei costumi.
Poi ci furono molte altre vicende e anche rotture. Le nostre strade si divaricarono. Fummo tutti travolti dalla contraddizione lacerante tra la potenza crescente dell’economia che si mondializzava e con i mercati senza regole che governano le ricchezze del mondo e il potere della politica che non riesce a darsi nuovi strumenti sovranazionali.
Ma questa è materia ormai degli storici. È la mondializzazione, il terreno nuovo su cui se fosse ancora tra noi Pietro Ingrao ci inviterebbe a scendere.
Una cosa è certa. Abbiamo bisogno di nuovi dubbi e di nuove analisi. Abbiamo bisogno di nuovi giovani come Ingrao. Sono le cronache delle tragedie disperate dei migranti le quali ci dicono che si sta formando una nuova umanità.
Abbraccio i figli, la sorella, i nipoti e i pronipoti del mio vecchio amico, che da stasera riposerà in pace nella sua Lenola.
Gli orrori accadono. Ma qui si è trattato, nella migliore delle ipotesi, di un gravissimo errore. ..
«In un luogo dove c’è una situazione di guerra radicata come l’Afghanistan, la verità è molto difficile da dedurre: perché ce ne sono molte. Ma che si sia trattato di un incidente o di un attacco deliberato, è senz’altro un atto gravissimo».
Il capo delle operazioni militari americane ha detto che l’attacco è avvenuto per fermare i Taliban che sparavano sui militari. Colpire i terroristi vale la morte di così tanti civili?
«Un attacco aereo che distrugge un intero ospedale non è certo una risposta adeguata. Purtroppo non è la prima volta che accade. Il clamore oggi è dato dal fatto che è l’ospedale di una importante organizzazione occidentale di cui io stesso ho molta stima. Ma ci sono stati altri ospedali distrutti durante questa guerra di cui nessuno ha parlato. Altri ”danni collaterali”, altre vittime che finiscono per essere solo statistiche».
Parlare di “danni collaterali” è un modo per dire che la vita di un innocente vale meno di quella di un soldato?
«C’è da stupirsi? È in questo che consistono le guerre. Questo episodio è solo l’ennesimo ripugnante episodio. Certo, in luoghi dove non c’è guerra il concetto di “danni collaterali” sembra impensabile: ma per assicurarsi la morte di un terrorista questo tipo di “danni” sono avvenuti anche in città pachistane che non sono in guerra. Questo attacco ci ricorda che ormai il mondo è diviso in due: chi vive in pace, anche se magari martoriato dalla crisi. E chi vive in guerra un orrore quotidiano che può arrivare da ogni parte».
Cosa intende?
«Nella parte di mondo in guerra, diritto e dignità umana sono ormai stati abbandonati. E per la gente in Afghanistan, ma anche in Siria, in Iraq, i cattivi possono cambiare continuamente: la gente martoriata di volta in volta dagli Stati Uniti, dalla Russia dallo Stato Islamico, dai Taliban dall’esercito locale. Per questo la gente fugge, ci sono milioni di rifugiati alle porte d’Europa: la gente vuol lasciare il mondo della guerra e andare nel mondo della pace. Vuole vivere: andare in luoghi dove non è accettabile bombardare ospedali e uccidere civili».
Medici senza frontiere è un’organizzazione così rispettata per il suo impegno da aver vinto il Nobel per la pace nel 1999. Non è paradossale che a bombardare il suo ospedale sia stato l’esercito che ha come comandante in capo un altro Nobel per la pace, il Presidente Obama?
«I medici e i volontari di Msf e altre organizzazioni simili sono veri eroi. La loro scelta di credere nella vita così tanto da affrontare i rischi di una guerra ci ricorda che ciascuno di noi può fare cose straordinarie. Quanto ad Obama, continuo a credere che abbia un ruolo storico importante. Né credo che questo bombardamento gli sia imputabile, anche se naturalmente condivido il paradosso. Lo ritengo ancora un uomo di buona volontà, quel che ha fatto con Cuba e l’Iran lo dimostra: ma che si trova davanti a un mondo complicato. Una guerra infinita che nessuno vince e non accenna a finire. Dove servirebbero nuove soluzioni».
Il New York Times denuncia il fallimento del programma americano per formare forze afgane affidabili. Cosa non funziona?
«Quella afgana è una società ferita e violenta. I suoi nodi sono profondi e difficili da risolvere. Non è la guerra la soluzione. È una società che avrebbe bisogno di strumenti per maturare: scuole, lavoro. Solo allora, e nel giro di almeno una, due generazioni, cambierà qualcosa. Se invece continui a ritrovarti fra una guerra e l’altra, cerchi solo di capire a quale carro del vincitore è meglio attaccarti per sopravvivere».
Anais Ginori intervista Bernard Kouchner, il fondatore di Medici senza frontiere. Intanto, dichiarazioni dagli Usa e dai governativi afgani rivelano che il bombardamento fu voluto e prolungato.
La Repubblica, 5 ottobre 2015
«Esprimo tutta la mia indignazione. Le condoglianze di Barack Obama sono il minimo, ora bisognerà accertare le responsabilità ». Bernard Kouchner ha aspettato qualche ora prima di commentare i raid americani sull’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, a Kunduz, in cui sono morte 22 persone, tra cui 12 impiegati dell’ong. «Volevo avere più elementi per farmi un’idea, tanto mi sembrava incredibile» spiega l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Msf nel lontano 1971.
L’esercito americano riconosce solo un “danno collaterale”. È sufficiente?
«Gli errori in guerra purtroppo ci sono sempre, tanto più con i bombardamenti aerei. Ma in questo caso è incomprensibile, sono indignato da questa spiegazione. L’ospedale di Msf a Kunduz era segnalato ed esisteva da tempo. Un errore non è possibile, a meno che i piloti non guardassero le carte».
Nonostante l’allerta di Msf, i bombardamenti sono continuati. Era dunque un raid mirato?
«Non so se fosse possibile fermare il raid in diretta. Sarebbe stato necessario risalire la catena di comando. Il problema è chi ha preparato e ordinato quel bombardamento».
Le autorità afgane parlano di Taliban rifugiati nell’ospedale. È plausibile?
«Si tratterebbe di false informazioni diffuse apposta per mettere in pericolo il lavoro di Msf. Sarebbe molto preoccupante sapere che gli americani compiono un bombardamento fidandosi di notizie non verificate, sapendo che coinvolge un obiettivo civile e protetto come un ospedale».
È possibile che ci fossero combattenti Taliban in quell’ospedale?
«Un ospedale è fatto per curare tutti. E Medici Senza Frontiere non ha mai fatto differenze tra feriti di un gruppo combattente piuttosto che l’altro. Se ci fossero a Kunduz feriti Taliban andrebbero curati come nell’ospedale di Msf come tutti gli altri. Per un medico il soccorso è un dovere. E’ un principio morale che non dovrebbe mai essere rimesso in discussione, neppure in guerra».
Rispettare il lavoro e la protezione delle ong in zone di conflitti è diventato più difficile?
«Il personale umanitario lavora in condizioni sempre più pericolose. Non c’è più rispetto per lo statuto delle ong, che è al di sopra delle parti. Oggi la guerra è diventata sempre più feroce e cieca. Ha ragione l’Onu che parla di un crimine di guerra».
La neutralità delle Ong non viene riconosciuta?
» Non si combatte a terra ma dal cielo. I raid hanno molte più probabilità di fare i cosiddetti danni collaterali. Anche Vladimir Putin che ha bombardato a Raqqa per colpire i miliaziani dello Stato islamico potrebbe aver fatto vittime tra i civili. Tutti lo sappiamo. Questo però non giustifica i raid su Kunduz. In questo caso è diverso: è stato colpito un ospedale ».
Obama ha promesso un’inchiesta. Sarà possibile avere la verità sul bombardamento di Kunduz?
«La verità è necessaria per salvare l’onore dell’esercito americano. Il massacro di Kunduz è uno scandalo».
L’esercito americano lascerà l’Afghanistan l’anno prossimo. Cosa accadrà?
«Il mondo occidentale ha perso tutte le guerre degli ultimi anni. E’ inevitabile che Obama attui il ritiro dei soldati, così come ha promesso in campagna elettorale. Abbiamo tentato di aiutare le forze democratiche in Afghanistan ma non ce ne sono molte. E’ così anche in Siria, dove credo alla fine dovremo scendere a patti con Putin e Assad».
«Non abbiamo bisogno di dare altre garanzie ai parlamentari, ma di farli diventare sempre più normali». Firmato Matteo Renzi, il 14 febbraio 2013: era ancora rottamatore (e sindaco di Firenze). È passata un po’ di acqua sotto i ponti: il giovane rampante che contestava i privilegi di deputati e senatori si è fatto largo a spallate fino a Palazzo Chigi. Ma i parlamentari, nel frattempo, non sono diventati “più normali” di prima.
«Aumentano i deserti chiamati pace e la disperazione umana che fugge senza meta verso un immaginario Occidente, ricco ma crudele e responsabile delle tragedie in corso»
. Articoli di Tommaso di Francesco ed Emanuele Giordano, e una dichiarazione di Gino Strada. Il manifesto, 15 ottobre 2015
«Scusate tanto, è stato un errore», così i comandi dell’aviazione Usa e Nato si sono rivolti all’opinione pubblica afghana e internazionale e all’organizzazione Medici Senza Frontiere, dopo che i «nostri» cacciabombardieri, della nostra coalizione dei buoni, ha colpito ieri una, due tre volte l’ospedale di Kunduz che tutti conoscono, visibile da chilometri e nelle mappe di ogni amministrazione civile o militare. Assassinati 12 medici e 7 pazienti, anche bambini tra le vittime.
È la guerra afghana che dura più di quella del Vietnam, giustificata per vendicare l’11 settembre con decine di migliaia di vittime e nella quale gli effetti collaterali, vale dire le vittime civili dei raid aerei, sono stati un elemento strutturale del terrore «necessario» dei bombardamenti aerei. Con risultati politici determinanti, come la delegittimazione dell’alleato presidente Hamid Karzai, poi uscito di scena, che, dopo stragi con centinaia di morti e le proteste popolari sulle quali è cresciuto il ruolo dei talebani, si era scagliato contro il Pentagono, cioè l’ufficiale pagatore che lo teneva al potere.
Torna il paradigma della guerra mai conclusa. Un obiettivo della destra americana neocon che appare più che realizzato. Il mondo torna a slabbrarsi lì dove «ci stiamo ritirando, la pace è fatta».
C’è la Siria al centro, no torna l’Afghanistan e di Iraq meglio tacere, com’è meglio oscurare lo smacco in primo luogo italiano in Libia. Aumentano i deserti chiamati pace e la disperazione umana che fugge senza meta verso un immaginario Occidente, ricco ma crudele e responsabile delle tragedie in corso.
È così, gli «effetti collaterali» afghani riverberano sul presente della crisi in Siria l’intero specchio delle stragi commesse dall’alto di migliaia di piedi, dal cielo — è l’eroismo dei top gun, quello di non scendere sul campo con gli stivali dopo la propaganda negativa delle bare di rientro dei militari occidentali. Ma come si fa a raccontare ancora la favola degli errori o meglio degli «effetti collaterali»?
Se per colpire ipotetici terroristi — così ora «giustifica» l’alleato il governo di Kabul -– si bombarda dentro una città intera con missili Cruise e micidiali Cluster bomb? Ora Kunduz resterà come una macchia, ancora impunita, sulla fedina sporca del militarismo umanitario, l’ideologia bellicista che domina l’Occidente democratico. Con in più stavolta l’evidenza di avere fatto strage dell’umanitario vero che legittimamente opera sul campo, come Medici Senza Frontiere o come è già accaduto per Emergency.
Il fatto è che la guerra e le armi invece dell’effetto appaiono sempre più come il difetto collaterale e nascosto di un Occidente impegnato nei diktat economici per la govervance globale del capitalismo rimasto.
A dominare, per chi vuole vedere, è lo specchio delle malefatte che si rifrangono una dentro l’altra. Che impedisce perfino ad Obama di parlare serenamente e strategicamente della guerra in Siria, ancora raccontata come il campo dei raid nostri «buoni» (che tutt’al più fanno appunto «effetti collaterali») e quelli cattivi, russi (che uccidono civili); dove ci sarebbe un terrorismo «combattente e buono», organizzato dalla Cia e che quindi non va colpito, e quello cattivo del «nemico» Isis, ormai target comune. Dimenticando che per entrambi c’è stata la coalizione degli «Amici della Siria» che grazie ai fondi dell’Arabia saudita e delle petromonarchie del Golfo, ha acceso il fuoco di quel conflitto da almeno tre anni. E infatti Obama non ci riesce, non riesce ad uscire dal militarismo umanitario ed è costretto a subire l’intervento russo che — sempre sanguinoso è, non dimentichiamolo — spariglia almeno la partita e si muove per una soluzione che non può essere, nemmeno in Siria, militare. E mentre è all’ordine del giorno la Siria, Obama è costretto a vedere che c’è in casa, negli Stati uniti, un nemico che fa più vittime del Califfato: il terrorismo domestico di una guerra civile strisciante americana che fa 11mila morti l’anno.
Meglio non vedere questo difetto collaterale allora. E silenziare — avete visto un giornalone ancorché giustizialista che ne parli? — il fatto che da ieri l’Italia, con Spagna e Portogallo, sia per un mese il «campo di battaglia»» delle più grandi manovre militari Nato — la stessa dei raid sull’ospedale di Kunduz — dalla caduta del Muro di Berlino. Pronto a nuove avventure, distruzioni e spese militari. Finché c’è guerra c’è speranza.
«La guerra è crudeltà senza regole né rispetto per nessuno e dunque senza regole e rispetto per gli ospedali o per i feriti» È il commento a caldo che Gino Strada, un chirurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il manifesto. Ma c’è soprattutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fondatore di Emergency, e il primo italiano ad aver appena vinto per la sua attività umanitaria il Right Livelihood Award del Parlamento svedese (il cosiddetto Nobel alternativo).
«Sì - aggiunge - pura crudeltà: un ospedale viene bombardato dalle forze Nato in Afghanistan. Per errore, certo, come per errore in questi anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà - dice Strada riferendosi al recente caso di Msf a Kunduz - non esistono convenzioni e non esiste diritto umanitario che possa impedire alla guerra di rivelarsi per quello che è: un massacro di civili, donne, bambini, medici e infermieri. Nessuno viene risparmiato. Il bombardamento di un ospedale è l’evidenza stessa della brutalità della guerra».
Quando gli chiediamo se ritenga che il bombardamento dell’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz sia o meno un atto deliberato, risponde così: «Non voglio nemmeno entrare in considerazioni di questo tipo per un fatto che è comunque inaccettabile: se poi si è trattato di un atto deliberato o se invece è stato un errore, se si è trattato di una scelta fatta a tavolino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sbaglio, tutto questo mi sembra totalmente irrilevante quanto inaccettabile. Tutto – conclude – è già nella guerra ed è inutile stupirsi. È inutile svegliarsi improvvisamente per una cosa che è sempre successa, succede e succederà se c’è una guerra. La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire».
«La guerra è crudeltà senza regole né rispetto per nessuno e dunque senza regole e rispetto per gli ospedali o per i feriti» È il commento a caldo che Gino Strada (nella foto), un chirurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il manifesto.
Ma c’è soprattutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fondatore di Emergency, e il primo italiano ad aver appena vinto per la sua attività umanitaria il Right Livelihood Award del Parlamento svedese (il cosiddetto Nobel alternativo).
«Sì – aggiunge — pura crudeltà: un ospedale viene bombardato dalle forze Nato in Afghanistan. Per errore, certo, come per errore in questi anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà – dice Strada riferendosi al recente caso di Msf a Kunduz — non esistono convenzioni e non esiste diritto umanitario che possa impedire alla guerra di rivelarsi per quello che è: un massacro di civili, donne, bambini, medici e infermieri. Nessuno viene risparmiato. Il bombardamento di un ospedale è l’evidenza stessa della brutalità della guerra».
Quando gli chiediamo se ritenga che il bombardamento dell’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz sia o meno un atto deliberato, risponde così: «Non voglio nemmeno entrare in considerazioni di questo tipo per un fatto che è comunque inaccettabile: se poi si è trattato di un atto deliberato o se invece è stato un errore, se si è trattato di una scelta fatta a tavolino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sbaglio, tutto questo mi sembra totalmente irrilevante quanto inaccettabile. Tutto – conclude – è già nella guerra ed è inutile stupirsi. È inutile svegliarsi improvvisamente per una cosa che è sempre successa, succede e succederà se c’è una guerra. La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire».
Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)
La Fiat non si chiamapiù Fiat. LaChrysler non sichiama più Chrysler. Lehanno fuse eadesso c’èun gruppoautomobilisticotra imaggiorinel mondoche si chiamaFca: Fiat Chrysler Automobiles.È successo il 29gennaio 2014, tra poco sarannodue anni. Ma la notizianon è arrivata nelleredazioni dei grandi giornaliitaliani, a quanto pare.Cosicché i loro lettoripotrebbero non aver capitoche il gruppo guidato daJohn Elkann e SergioMarchionne è coinvoltocome tutti gli altri gigantimondiali dell’auto nelloscandalo detto diesel-gate.
Se i lettori del Fattohanno amici o parenti trai lettori del Corriere dellaSera, della Repubblica odella Stampa faccianoun’opera buona, li informino.Perché ieri il Corriere titolava “Indaginesu altri cinque marchi”,per poi specificare chetrattasi di Bmw,Chrysler, Gm, Land Rovere Mercedes Benz. Anchela Repubblica annuncia“Usa, indagini allargate”,ma tralascia di ricordareche quellaChrysler distrattamentenominata è quella meravigliosaazienda salvatada Marchionne per farneun orgoglio dell’industriaitaliana che si affermaal l’estero. Naturalmentenon si poteva aspettaremaggior precisione giornalisticada parte dellaStampa, che come gli altrimette nel mirino laChrysler, senza ricordareche è un marchio della Fca,ex Fiat, padrona delgiornale.
Per fortuna c’è Il Sole24 Ore che nella foga didare un’informazione economicacompleta inciampanell’imperdonabileerrore. Dopo aver accuratamenteevitato laparola Fca in articoli e titoli,piazza lì la tabelladella auto che sarannocontrollate anche in Italia.E gli scappa il nome diFca che c’è dentro fino alcollo. Anche perché l’elencodei modelli non perdona:Panda, Punto, 500,Giulietta... Ah ecco. Comediceva Totò, questa faccianon mi è nuova.
Intervista a Toni Morrison: «Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano».
La Repubblica, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)
«Lo chiamavano il test della carta del droghiere: chi aveva la pelle più chiara sapeva che avrebbe goduto del “white privilege” - il privilegio bianco. Nei negozi ti avrebbero sorriso e servito prima: i ragazzi ti avrebbero considerato più bella». Nella sua casa di Grand View on Houdson, l’ex rimessa di barche trasformata in un delizioso villino con vista sul fiume, nel cuore di un villaggio di duecento abitanti a mezz’ora di auto da Manhattan, Toni Morrison, ottantaquattro anni e undici romanzi, l’unico Nobel per la letteratura afroamericano, ricorda di quando scoprì per la prima volta il razzismo: dei neri.
Ciò di cui più abbiamo bisogno è produrre nuovi punti di vista, non arrenderci al presente, riuscire ad incrinare l’unica narrazione rimasta.
La sinistra è morta se non riesce ad immaginare il cambiamento, ad interpretare non solo un generico e diffuso malessere, ma a prospettare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pensiero critico ha perduto la sua radicalità, schiacciata dal peso del presente. I diritti arretrano, le nostre forze scemano. Se siamo giunti sin qui è inutile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo interpretare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è servito a nulla, nulla abbiamo difeso.
Ora, che poco abbiamo da perdere, dovremmo cercare di uscire dalla palude, per misurarci con le nostre idee e non più solo con la razionalità del reale. Dovremmo riprendere seriamente in considerazione la distinzione tra strategia e tattica (la doppiezza togliattiana?). La prima per la ricostruzione di una prospettiva di sinistra che sappia aggregare le forze politiche e i soggetti sociali necessari per il cambiamento futuro; la seconda per resistere e per contrastare la politica dominante.
La mia impressione è che una grande colpa della sinistra sia stata quella di non credere in se stessa, nella sua capacità di cambiare. Gran parte di essa (la sinistra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lottare, soddisfatta delle conquiste ottenute nel corso del Novecento, si è limitata a governare il presente, cercando — ben che fosse — di ostacolare gli spiriti più selvaggi, frenare gli arretramenti più vistosi. Alla fine, però, ha perduto se stessa. Rinunciando a produrre una sua narrazione, non poteva che venir attratta fatalmente dal potere costituito, dalla forze dominati.
Una giustificazione è stata data per motivare questo chiudersi nei palazzi della sinistra di governo, richiamando una autorevole e tutt’altro che banale tradizione politica e culturale italiana: l’autonomia della politica come strumento per imporre il cambiamento. Se non lo strappo rivoluzionario, almeno le ragione del progresso si sarebbero potute affermare dentro le istituzioni per poi conquistare una società che non sempre dà prova di civiltà o di essere in sintonia con i principi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dunque che si potesse «costruire» il popolo attraverso la politica dall’alto, l’intermediazione del leader. Lasciamo perdere la discussione teorica, che coinvolgerebbe figure che hanno fatto la storia della sinistra del nostro paese (da Antonio Gramsci a Mario Tronti) e che oggi trovano peraltro nuove consonanze (Ernesto Laclau, Chantal Mouffe); limitiamoci a rilevare quel che è stato l’effetto sul piano più strettamente politico. La definitiva cesura tra popolo e suoi rappresentanti.
Uno iato che si è sempre più esteso e che dimostra la miopia — il fallimento — della classe dirigente della sinistra. Dimentichi di una vecchia lezione della storia: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vincono gli interessi costituiti. Se non si voleva ricordare Pericle, sarebbe stato sufficiente non dimenticare Berlinguer.
Per chi si proponeva di trasformare il reale, è stato questo l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme promosse dalla sinistra hanno finito per peggiorare le condizioni del suo popolo, mentre la crisi economica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci prevale sulla tutela dei diritti fondamentali. In Italia, ma non solo.
Il popolo della sinistra nel frattempo s’è sperduto, guarda altrove o non guarda più da nessuna parte. È rimasto solo il leader che pensa alla nazione, riflettendo su se stesso, sulla propria immagine, come allo specchio.
Chi, nonostante tutto, ha conservato uno spirito critico ha provato a reagire. Ha ottenuto importanti successi (il referendum sull’acqua, quello sulle riforme costituzionali), ha combattuto con intransigenza (no Tav), ha maturato esperienze culturali di rottura (i beni comuni). Tutte esperienze che hanno incontrato però un limite: tutte hanno sottovalutato la questione della necessità di una rappresentanza politica. Rimanendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lontane dalla politica istituzionale, le lotte più innovative e di rottura non sono riuscite a rendersi egemoni, anzi alla lunga hanno mostrato le proprie debolezze. Le vittorie referendarie sono state presto dimenticate e non hanno trovato un necessario seguito istituzionale, le esperienze locali sono rimaste tali e alla fine si condannano all’esaurimento.
Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movimenti la questione del rapporto con il «potere» e la necessità della mediazione istituzionale delle lotte sociali. Terreno scivoloso, non gradito a chi nella lotta esaurisce il proprio orizzonte polemico. Anche in questo caso si è attinto a piene mani ad una tradizione politica e culturale che ha attraversato l’intera storia della sinistra, quella più radicale e combattiva. Non sempre quella vincente. Così, l’autogoverno, la democrazia partecipativa, l’esaltazione del comune sono state unilateralmente assunte, senza nulla apprendere dalle criticità che la storia ha evidenziato, sin dalla comune di Parigi.
Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripartire ponendo al centro della nostra riflessione proprio la questione dei limiti dell’autonomia della politica e quella della rappresentanza politica. L’autonomia della politica potrebbe essere intesa come capacità di progettare il futuro, distaccandosi dall’immediatamente rilevante, mentre la rappresentanza politica dovrebbe essere assunta come la necessaria «misura» di questa capacità di progettazione entro un contesto istituzionale.
Vediamo di sintetizzare con una sola esemplificazione un discorso che meriterebbe di essere altrimenti sviluppato.
Pensiamo — ad esempio — alla riforma della costituzione. Se è vero, come su questo giornale abbiamo ripetuto tante volte, che la revisione in corso è espressione di un complessivo disegno regressivo, che, se approvata, ci poterà indietro nel tempo, verticalizzerà le dinamiche politiche, aprirà a scenari non rassicuranti, se queste sono le nostre convinzioni, come possiamo pensare che la soluzione di ogni male sia far eleggere i senatori anziché farli votare dai Consigli regionali?
E se poi va a finire che il «principe» concede la grazia e accetta l’elezione diretta dei senatori avremmo per caso un buon Senato e una accettabile riforma del testo della costituzione? Ma non scherziamo. Avremmo soltanto allungato la nostra agonia e data nuova linfa al leader indiscusso del pensiero unico e di governo.
Alziamo allora lo sguardo e lottiamo per la nostra riforma, accettiamo e rilanciamo la sfida, mostrando ai finti innovatori il nostro volto «rivoluzionario». È vero, il bicameralismo perfetto è da superare, ma per ragioni opposte a quelle che la retorica politica dominante afferma. Va superato sia per affermare la centralità del parlamento contro il dominio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rappresentanza politica offesa da un sistema elettorale che ne nega il valore sublimandolo nel feticcio della governabilità. Che ci si batta allora per una soluzione che meglio ha espresso nel corso della storia questa doppia esigenza: un sistema monocamerale affiancato da una legge elettorale proporzionale per ritessere le fila della rappresentanza politica strappata.
Sono proposte fuori dall’agenda politica del momento. E dunque qualcuno si potrebbe chiedere: chi ci ascolterebbe? Ma perché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipenderà da noi.
Se sapremo raccontare una storia per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo conquistarla. Potremmo, ad esempio, andare al referendum costituzionale del prossimo anno non per difendere un parlamento in agonia, ma per provare a cambiare lo stato di cose presenti.
Nella Grecia antica si distingueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vissuta (bios). Più che chiederci se c’è vita a sinistra dovremmo interrogarci su quale vita ci sia a sinistra.
IL REGOLAMENTO DEL PIÙ FORTE
di Andrea Fabozzi
Costituzione. Emendamenti abbattuti a pacchi, voti segreti pericolosi per il governo scansati senza scrupolo. Il presidente Grasso garante della riforma di Renzi. In poche ore la guida del senato è passato da bestia nera del governo a strumento per la marcia trionfale dell’esecutivo
La tracimazione dei senatori dal gruppo di Forza Italia a quello ormai stabilmente in maggioranza di Verdini, il negoziato con la minoranza Pd che ha ridotto il dissenso interno da una trentina di senatori a due o tre sono cose che certamente aiutano. Ma probabilmente non sarebbero bastate al governo per far approvare la legge di revisione costituzionale entro il 13 ottobre, data sulla quale Renzi non transige. Ci voleva una grossa mano da parte del presidente del senato, quel Pietro Grasso con il quale nell’ultimo mese il presidente del Consiglio ha più volte cercato lo scontro istituzionale, lanciando avvertimenti e ultimatum. Evidentemente andati a segno, perché quella mano è arrivata. Anche più generosa del passato. Grasso ha consentito qualsiasi strappo al regolamento e ha seguito passo dopo passo il percorso tracciato dai tecnici di palazzo Chigi e di palazzo Madama per aggirare gli ostacoli alzati dalle opposizioni contro un governo che non accetta modifiche alla «sua» riforma costituzionale. Ieri sera, prima dell’ultima interpretazione del regolamento utile ad allontanare pericolose votazioni segrete dal cammino dell’articolo 2, il presidente del senato non si è fatto scrupolo di riunirsi a palazzo Madama con la ministra Boschi per studiare assieme le strategie d’aula.
E così la riscrittura di oltre un terzo della Costituzione procede spedita. Ieri è stato approvato l’articolo 1 che stabilisce la funzioni del senato, grazie alla riscoperta della tecnica dell’emendamento «killer». Grasso lo aveva già consentito all’inizio dell’anno sulla legge elettorale, allora reggeva ancora il «patto del Nazareno» e l’emendamento Esposito servì a piegare la minoranza Pd. Ieri l’emendamento Cociancich ha scansato il rischio di votazioni segrete. Il prodotto finale è un lungo testo di 30 righe in gran parte mai discusso né in aula né in commissione, e mai neanche difeso dalla maggioranza cui interessava solo votarlo prima di tutti gli altri emendamenti. Sarà il nuovo articolo 55 della Costituzione italiana che oggi è quello scritto da Costantino Mortati in due commi e cinque righe in tutto.
Così sono stati abbattuti emendamenti a pacchi e la tensione in aula ha continuato a salire per tutta la giornata, tra le polemiche per il sostegno dei «transfughi» e gli attacchi dei 5 Stelle al presidente. Che, impassibile, ha continuato a rispondere di no a ogni richiesta delle opposizione. La riforma della Costituzione ha preso così le forme già viste di un assedio della minoranza al fortino (sempre più largo) della maggioranza, tanto rumoroso quanto vano. Impossibile ogni discussione nel merito di modifiche importantissime, ma la responsabilità va divisa tra l’esecutivo che ha escluso ogni apertura reale e la guida dell’assemblea che ha dimostrato di saper tutelare solo gli interessi del governo. Introducendo, come se non bastasse, precedenti assai pericolosi. Sia il voto sull’emendamento Cociancich che quello sul complesso dell’articolo 1 hanno testimoniato il buon lavoro fatto da Verdini e dal sottosegretario Lotti: il governo è rimasto sempre sopra la soglia della maggioranza assoluta. E non è esatto dire che i voti degli ultimi arrivati sono solo «aggiuntivi», come si consola la minoranza Pd ricondotta all’ordine, visto che nel successivo passaggio servirà proprio la maggioranza assoluta per lanciare la riforma verso il referendum confermativo. Non ha torto Sel quando, anticipando uno slogan referendario, attacca «la Costituzione di Renzi e Verdini».
Anche perché non è affatto finita, nella prossima settimana dovranno arrivare altre forzature. Già ieri sera Grasso ha trovato il modo di affossare cinque voti segreti che aveva precedentemente dichiarato di voler accogliere. Sull’articolo 2 è ormai noto che la presidenza ha ammesso solo emendamenti al comma 5, ma tanto la senatrice De Petris di Sel quanto il leghista Candiani avevano trovato il modo di infilare in quel punto il ritorno all’elezione diretta dei senatori e anche il voto segreto. Gli emendamenti diventavano così assai pericolosi per la tenuta del governo. Ma Grasso si è messo di traverso con un’interpretazione ancora una volta spericolata del regolamento. Oggi si vota sull’articolo 2.
Il presidente del Consiglio può dunque far trapelare la sua grande tranquillità. Ma nel Pd manca ancora l’accordo su due punti: l’elezione del presidente della Repubblica e la norma transitoria (articolo 39) che affida ancora ai consiglieri regionali la scelta esclusiva dei senatori (con buona pace del recupero della «volontà dei cittadini»). Sul primo punto si è parlato di un possibile nuovo emendamento killer, sempre di Cociancich, ma la proposta in realtà è assai più impegnativa e introdurrebbe un sistema di candidature ufficiali per il Quirinale. Il governo è stato costretto a dissociarsi.
«Questa è la riforma della Costituzione Renzi-Verdini»: Peppe De Cristofaro, Sel, rigira il coltello nell’unica ferita che deturpa la vittoria piena del premier. Non è finita. Ci saranno altri momenti incandescenti, nuovi passaggi a rischio. Il più pericoloso sarà sull’articolo 21: materia del contendere le modalità di elezione del capo dello Stato. Ma si può scommettere che si ripeterà la sceneggiata degli ultimi due giorni. Roberto Cociancich, il presidente degli scout cattolici che come hobby falcidia voti segreti, ha già presentato l’apposito «canguro». Renzi la spunterà ancora su tutti i fronti.
I voti a favore sono stati sempre tra i 171 e 172, esattamente come previsto dall’ex berlusconiano conquistato da Verdini Vincenzo D’Anna. Non sono pochi: sorpassano di una decina e passa la maggioranza assoluta e offrono la prova provata che la riforma sarebbe passata anche senza la resa della minoranza Pd. Però gli esperti scommettono che al momento del voto finale i sì saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190. Un po’ perché non ci saranno le assenze degli ultimi giorni, un po’ perché l’arrembaggio al carro del vincitore, anzi al taxi guidato da Verdini che verso quel carro traghetta i profughi della destra, è in pieno svolgimento.
I dissensi nel Pd non sono andati oltre quei tre voti ampiamente preventivati: Felice Casson, Corradino Mineo e Walter Tocci. Nell’Ncd, nonostante gli sfracelli minacciati, nemmeno quelli. Nessun voto contrario, tutt’al più qualche assenza strategica destinata probabilmente a rientrare nel voto finale.
Ciliegina prelibata sulla torta di don Matteo, la resa incondizionata e totale del presidente del Senato. Arrivato alla stretta decisiva, con le debite pressioni esercitate sino all’ultimo secondo dalla ministra Boschi, Piero Grasso ha abbandonato ogni resistenza, senza curarsi più neppure di salvare le apparenze, e ha lasciato mani totalmente libere alla maggioranza e al governo. Cociancich, l’uomo-canguro, giura di essersi scritto da solo gli emendamenti killer, ma in aula sia Loredana De Petris, Sel, che Maurizio Gasparri, Forza Italia, hanno detto apertamente quello che tutti i senatori si ripetevano nei corridoi, cioè che dietro non quegli emendamenti ma dietro l’intera strategia della maggioranza in aula ci sono direttamente i funzionari del Senato. E se la vox populi, come spesso capita, ci piglia, il fatto non sarebbe certo possibile senza l’assenso del presidente di palazzo Madama.
Resta appunto solo una ferita aperta: il ruolo determinante di Denis Verdini e della sua truppa mercenaria. Certo, il voto sulla riforma non comporta l’appartenenza a una maggioranza, però quando ieri il capogruppo Barani ha annunciato il voto a favore confermando tuttavia che «noi restiamo all’opposizione», gli ex compagni azzurri si sono scatenati in una gara di fischi, i leghisti hanno sventolato banconote, i pentastellati hanno rumorosamente segnalato al Pd, minoranza inclusa, quali sono i nuovi compagni di strada. Ma gli stessi senatori di Renzi, pur sforzandosi di restare seri, sapevano perfettamente che si trattava di una barzelletta.
Certo, il voto di Verdini non è stato sinora e non sarà in futuro determinante. Però senza quei voti, senza la garanzia che la riforma sarebbe stata comunque approvata grazie agli ascari del fiorentino, la rotta della minoranza Pd non ci sarebbe stata, o almeno sarebbe stata meno totale e sgangherata. La cambiale arriverà inesorabilmente a scadenza, e si sommerà alla necessità di offrire una zattera ai naufraghi dell’Ncd. In Parlamento quei rinforzi sono preziosi, fuori dal palazzo potrebbero rivelarsi esiziali. Secondo un già celebre sondaggio della Ghisleri, che ieri a palazzo Madama era sulla bocca di tutti, l’alleanza con Verdini e Alfano costerebbe al Pd addirittura il 7% dei consensi, facendolo precipitare al 25%. Certo, quel sondaggio è in qualche misura drogato. Parla di «partito della nazione», mette Renzi e Verdini quasi sullo stesso piano. I risultati, di conseguenza sono probabilmente esagerati. Ma, anche se in dimensioni meno rovinose, il patto col diavolo che il premier ha scelto di firmare per garantirsi la vittoria rischia comunque di costare parecchio in termini di voti.
Qualche prezzo dovrebbe pagarlo anche per aver modificato la Costituzione con i trucchi e i carri armati, a colpi di canguramenti più o meno super, di violazioni del regolamento consentite senza pudore da Piero Grasso, di aggiramenti sfacciati di ogni voto anche solo potenzialmente minaccioso. Ma con un sistema mediatico genuflesso o intimidito e con l’alibi incautamente offerto da Calderoli e dai suoi milioni e milioni di emendamenti, su quel fronte Renzi è certo di riuscire a evitare ogni ritorno d’immagine dannoso. Ma nascondere Verdini, Alfano e tutti gli altri, quello è un altro paio di maniche.
Quando fu presentato per l’Italicum il noto emendamento Esposito, fu chiaro che si poneva un precedente pericoloso, tale da poter stroncare non solo l’ostruzionismo, ma qualsiasi dibattito o confronto parlamentare. Riassumere un dettato normativo in un emendamento da anteporre e da votare prima degli altri ha infatti la conseguenza, secondo una lettura notarile dei regolamenti, di far cadere ogni altro emendamento perché l’Aula ha ormai deciso. Scrissi allora su queste pagine che il presidente avrebbe dovuto dichiarare l’emendamento Esposito inammissibile, per carenza di contenuto normativo. Fece diversamente.
Vicenda simile abbiamo ora con l’emendamento Cocianchic (1.203). Non importa chi l’abbia scritto. Calderoli ha riferito in Aula voci per cui Cociancich «avrebbe detto a più persone che ignorava il contenuto ovvero la portata del suo emendamento».
Non sappiamo se sia vero. Comunque, non ci voleva un genio del diritto parlamentare per infilarsi nel varco aperto allora dalla decisione del presidente del senato sull’emendamento Esposito. La cosa fu già grave con l’Italicum. È ancor più grave adesso, con una riforma della Costituzione di grande momento. E non si può ribadire abbastanza che il senso della Costituzione, ed in specie dell’art. 138, non è certo quello di favorire i trucchetti per stroncare il dibattito, e arrivare in qualunque modo alla decisione.
Dopo tanto esitare, il presidente Grasso è sceso in campo per il governo. Per la verità, qualche sospetto l’avevamo. Ne troviamo ora conferma nelle decisioni sull’ordine delle votazioni e sui subemendamenti.
Qual era il corretto ordine di votazione degli emendamenti? Secondo principio, gli emendamenti si votano a partire dal più lontano fino al più vicino al testo da emendare. In Aula, è stata contestata a Grasso la scelta di mettere in prima fila l’emendamento 1.203, e il presidente in realtà non ha risposto. Ancor più significativa la decisione di precludere ogni subemendamento al Cociancich. Va infatti considerato che gli emendamenti di maggioranza (quelli concordati in casa Pd) sono stati portati a conoscenza dei senatori all’ultimo momento. Molti sono andati in Aula senza nemmeno averli visti. Il presidente ha deciso che i termini per la presentazione di subemendamenti erano già scaduti. Forse vero, ma le condizioni reali del dibattito avrebbero certo suggerito, se non imposto, almeno una breve riapertura dei termini. Approvato il Cociancich, Grasso ha anche respinto il tentativo di subemendarlo attraverso l’art. 100, comma 5, reg. sen., norma raramente invocata, che però avrebbe potuto consentire una almeno parziale riapertura del confronto.
Il trucco c’è, e si vede. Con queste decisioni, l’approvazione del nuovo art. 55 della Costituzione si è sostanzialmente risolta nel voto sull’emendamento Cociancich, che ha precluso tutti gli altri, mentre veniva contestualmente impedito ai senatori di opposizione qualsiasi intervento in via di subemendamento. È stata così anche superata una raffica di voti segreti, rischiosi per il governo. All’accusa di avere consentito l’uso strumentale dell’emendamento 1.203 contro le opposizioni — avanzata da molti nella seduta di giovedì — Grasso ha reagito con stizza, ma senza porre argomenti. E nemmeno ha raccolto le ripetute e insistite richieste di riunire la Giunta per il regolamento. Non a caso. Come sappiamo, i numeri della Giunta non sono blindati per il governo, e il passaggio poteva rivelarsi pericoloso. Analoghe manovre si preannunciano per gli articoli successivi al primo. A quanto leggiamo, per i subemendamenti all’art. 2 il tempo concesso è mezz’ora.
Grasso protagonista, dunque. Avremmo pensato che il primo dovere di un presidente di assemblea fosse nei confronti dell’istituzione presieduta. Dobbiamo ricrederci. Possiamo forse capire l’atteggiamento tenuto verso gli 82 milioni di emendamenti Calderoli, per cui poteva valere l’argomento che non si può mai favorire la paralisi dell’istituzione. Ma questo era ieri. Oggi, vediamo Grasso schierato al fianco del governo. Erano possibili scelte diverse, e letture di regolamento secundum constitutionem, più attente alla necessità che una Costituzione nasca da un confronto reale, e non per il sostegno acritico di maggioranze occasionali e raccogliticce, popolate di anime morte e di voltagabbana.
Quanto accade ci conferma che la fu minoranza Pd ha sbagliato facendosi riassorbire nel gruppone, e sostanzialmente scomparendo nel gorgo della rottamazione costituzionale. Un pezzo del paese non accetta la Costituzione di Renzi, senza se e senza ma perché quella che abbiamo è di gran lunga migliore. Il senatore Cociancich ci comunica in una intervista di preferire la precisione e non la quantità come Calderoli. Rispetto ad entrambi, preferiamo l’intelligenza.
«Su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese».
La Repubblica Milano, 2 ottobre 2015
È difficile fare politiche mirate ed efficaci se mancano dati basilari sulla realtà su cui si vuole intervenire. Un chiaro esempio riguarda la condizione dei giovani. Ne abbiamo sempre meno e ne perdiamo sempre di più, nel senso che proprio non sappiamo dove sono e cosa fanno. Ci riferiamo in particolare a due categorie in forte crescita di under 35, identificate con termini non utilizzati nelle generazioni precedenti a testimonianza delle specificità che le caratterizzano. Si tratta dei Neet e gli Expat.
In entrambi i casi sappiamo che non sono più a scuola e non sono nemmeno all’interno del mondo del lavoro italiano. Sono altrove, finiti fuori dal radar del sistema Paese. I Neet sono soprattutto giovani con istruzione medio-bassa che conclusi con più o meno successo gli studi non riescono a trovare pieno inserimento nel mercato del lavoro. Nei Paesi con sistemi informativi e politiche più efficienti, chi cerca lavoro è in larga parte registrato nei servizi pubblici per l’impiego e chi abbandona precocemente gli studi viene inserito in una base dati apposita ed entra in un programma specifico di monitoraggio e supporto. In Italia solo una piccola quota si iscrive ai centri per l’impiego e dopo un anno e mezzo dall’avvio, anche il Piano Garanzia giovani è riuscito solo in minor parte a raggiungerli.
Il dato più recente indica circa 800 mila registrati su un totale di circa due milioni e quattrocento mila Neet. Ci sono quindi oltre un milione e mezzo di giovani che non studiano e non lavorano che, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte.
Andrebbero poi aggiunti anche gli inattivi tra i 30 e i 34 anni dei quali il progetto GaranzIa giovani non si occupa ma che rappresentano almeno un altro milione di persone.
Gli Expat sono invece i giovani dinamici e intraprendenti, spesso con alto capitale umano, che hanno lasciato l’Italia per cercare qualche opportunità di ulteriore formazione o miglior lavoro all’estero. Secondo l’Istat nei soli ultimi cinque anni hanno lasciato l’Italia, formalizzando tale scelta con il trasferimento di residenza, quasi 100mila giovani tra i 15 e i 34 anni. Secondo l’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) in tale fascia d’età i connazionali che risiedono in un altro Paese sono nel complesso oltre un milione.
Come ben noto l’Anagrafe estera da un lato contempla anche i nati all’estero da cittadini italiani, d’altro lato sottostima fortemente gli Expat. Va sottolineato che negli anni più recenti i flussi di uscita riguardano le regioni più avanzate, come la Lombardia, e le persone più qualificate. Sempre secondo l’Istat la percentuale di dottori di ricerca emigrati è quasi raddoppiata, dal 7 per cento di chi ha conseguito il titolo nel 2006 al 13 per cento di chi si è dottorato nel 2010. Non esiste però un registro che individualmente ci dica chi sono, dove si trovino e cosa stiano facendo. Molti di loro sarebbero interessati e disponibili a instaurare rapporti di collaborazione con il Paese di origine, ma anch’essi, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte. Di fatto su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese e sconnessi dal modello di sviluppo italiano. Potenziali risorse ignorate e inutilizzate.
Uno dice: Antonio Gramsci. E quel nome gli apre agli occhi della mente un grande paesaggio, come accade con pochi altri nomi dell’intera storia civile e vita intellettuale italiana. Di Gramsci si legge e su Gramsci si riflette nel mondo intero. E c’è almeno una cosa che tutti sanno di lui: che, chiuso in una prigione fascista e impedito di agire nella lotta politica e nei conflitti sociali del ‘900 europeo di cui era uno dei protagonisti, si dedicò a un’opera di pensiero
destinata al futuro: fece insomma, si direbbe coi versi di Dante che Benedetto Croce dedicò a Palmiro Togliatti, «come quei che va di notte che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Di quell’opera si impadronì un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore. C’è un rivolo di devozione che ha veicolato l’immagine di quel giovane uomo occhialuto con la grande testa incassata nelle spalle aureolandola della corona del martirio. Immagine adatta a un «santo leader morto in carcere», come scrive con amara ironia Giorgio Fabre nel suo nuovo e densissim libro Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (Sellerio editore); un’opera importante che affronta con decisione e con robusta ricerca un tema da tempo presente nelle discussioni intorno alla vita e all’opera di Gramsci: i tentativi di liberarlo dal carcere.
La vicenda fece la sua comparsa notevolmente tardi arrivando non proprio dal centro degli studi gramsciani legati al Pci: fu nel 1966 che un bel libro di Giuseppe Fiori raccontò del tentativo di Gramsci di ottenere la liberazione elaborando il piano di uno scambio di prigionieri e affidandolo alla mediazione della Chiesa cattolica. Ci vollero altri undici anni perché una storiografia di partito in cauteloso avvicinamento alle regole della pratica storiografica accademica e agli angoli oscuri del proprio passato partorisse il libro di Paolo Spriano su Gramsci in carcere e il partito . Da allora si è aperta una discussione spesso vivacemente polemica che ha investito in modo speciale il nodo dei rapporti tra il partito comunista e il suo leader. Allora non si diceva “leader” ma “capo”: una parola molto più forte, osserva giustamente Giorgio Fabre. È una precisazione che nasce dallo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel «furibondo cavallo ideologico» (come diceva Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio.
La proposta dello scambio era stata avanzata dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli il 1° ottobre 1927. Giorgio Fabre ha approfondito questa pista con ottimi frutti e ha potuto raccontare per intero l’andamento e l’esito fallimentare di quel tentativo. Si approfondisce così come nel gioco della trattativa intervenissero diversi personaggi: tra gli altri il gesuita Pietro Tacchi Venturi, allora il tramite del papato con Mussolini. E si capisce come e perché la trattativa si chiudesse in maniera doppiamente negativa per Gramsci. Di fatto il Vaticano decise di lasciar cadere l’offerta in ragione di un diverso orientamento della sua politica verso l’Unione Sovietica. Ma intanto l’occhio attento del carceriere di Gramsci, Benito Mussolini, colse l’occasione per imprimere una svolta al processo in corso che aggravò le imputazioni a carico di Gramsci e ne chiuse a doppia mandata le porte del carcere.
Il giudizio di Fabre è che qui si coglie un primo errore di Gramsci: un errore legato in qualche modo a quella sua speciale considerazione della Chiesa di Roma che ha lasciato tracce anche nei Quaderni . Altri errori sono rilevati nella sua strategia successiva, soprattutto nel tentativo “grande”, quello del 1933 per ottenere la libertà condizionale. E ci furono anche le iniziative — non richieste né desiderate — del gruppo dirigente del Pci che mandarono a vuoto i progetti di un Gramsci sempre più sospettoso dopo la celebre vicenda della lettera di Ruggero Grieco, fino a fargli nascere il dubbio che i compagni avessero deciso di sacrificarlo. Molte le verità amare che Giorgio Fabre racconta in questo libro, molti e tenaci i silenzi, le mezze verità e le deformazioni del gruppo dirigente del Partito comunista.
Va detto tuttavia, a scanso di equivoci, che questa non è la rancorosa revisione di una vicenda interna a un partito. Le limpide e robuste pagine di Fabre non mandano mai i rancidi sapori del reducismo. La storia che qui emerge ha le robuste fondamenta di nuove conoscenze documentarie ma anche l’ampiezza di respiro che si conviene a una vicenda di dimensioni pienamente europee. Un solo esempio: per capire quello che avvenne col primo tentativo di scambio del 1927 Fabre ricostruisce l’intero quadro della situazione religiosa della Russia sovietica e della conseguente strategia vaticana in materia: il che ci permette di situare nel contesto grande la strategia di Gramsci e di capire quante e quali contraddizioni ne ostacolassero il successo. È una bella lezione di quale dovrebbe essere la pratica della ricerca storica sull’età contemporanea.
Al centro del libro resta lui, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico. L’indagine sui pensieri e comportamenti suoi in questi tentativi ne rivela le doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini. E da parte dello storico c’è anche, inutile dirlo, un sentimento di perdita, un rimpianto di quello che la storia avrebbe potuto essere e non è stata: la possibile storia di un Gramsci che lascia l’Italia da uomo libero e in Italia torna con la Liberazione da grande e riconosciuto capo della sinistra comunista per agire nella nuova realtà del nostro paese. Una storia che non c’è stata, una perdita di cui noi italiani siamo stati tutti vittime.
Il manifesto, 29 settembre 2015
Il senso di inadeguatezza che provo nello scrivere queste righe deriva innanzitutto dal fatto che quando Pietro Ingrao decise che ormai il gorgo era altrove rispetto alle varie mutazioni dell’ormai ex Pci, nel 1993, io non avevo ancora compiuto un anno. Mentre mi affacciavo al mondo la sua vita politica prendeva l’ultima, importante, svolta. Per me, per la mia generazione, Pietro Ingrao è stato innanzitutto un uomo del Novecento - un secolo che, osservato dalla sua prospettiva, sembra essere affatto breve - e delle sue incommensurabili contraddizioni. Sarebbe un esercizio inutile ripercorrere, senza scadere in banalità o ridondanze, le sue scelte di vita e in particolare di vita politica: altri ne hanno ben più titolo. È forse più interessante trarre lezioni dall’enfasi del suo raccontare, dalla sua straordinaria capacità critica e autocritica.
Proprio calcando la mano sulle vicende più discusse del suo impegno nel Pci e in particolare sul suo voto favorevole all’espulsione del gruppo del Manifesto nel 1969, in molti ritengono di poter confinare il racconto della figura di Ingrao nella dimensione collocabile tra l’eclettismo analitico e l’etica del Partito, una dimensione ormai sepolta dalla caduta del Muro e dalla fine della Prima Repubblica. In questa ricostruzione le contraddizioni che egli stesso amava indagare e mettere in tensione, sottoponendole alla prova dell’intelletto umano e della sua capacità di illuminare gli angoli più oscuri della realtà, risultano irrimediabilmente spianate. Quella di Ingrao, dunque, sarebbe una figura dalla quale oggi è possibile trarre al limite qualche elemento di rilevanza storica, vagamente mitologica e agiografica, ma nessun insegnamento concreto, nessuno strumento da mettere nella cassetta degli attrezzi per smontare le brutture di questo mondo.
Mi sento di poter dissentire. Dal pensiero e dall’azione di Pietro Ingrao sto ancora imparando molte cose, e tante credo di poterne imparare. Innanzitutto su cos’è il dubbio, cosa significa provare a farne strumento potente in una società in cui esso è molto evocato e assai poco praticato. Era più difficile mettere in dubbio, interrogarsi e interrogare, dissentire, fare tutto ciò in forma produttiva, con una continua tensione verso la trasformazione della realtà, nell’epoca dello scontro tra ideologie contrapposte? Oppure oggi, nell’epoca del dominio incontrastato dell’ideologia unica del libero mercato? Per questo credo che questo primo insegnamento non sia affatto scontato.
Ancora, credo sia grazie a Ingrao che è diventato per me un po’ più chiaro cosa sia la luna. La luna, per alcuni, sarebbe la cifra della sconfitta di Ingrao: per me è piuttosto il segno di una battaglia che è ancora aperta. Lungi dall’essere un luogo situato in una posizione indefinita tra l’astrazione dalla realtà e l’eterna sconfitta, come qualche detrattore mascherato vuole far passare in alcuni coccodrilli, essa è piuttosto quella direzione verso la quale far avanzare ancora l’orizzonte delle aspettative. La luna è possibile? Sì, lottando dentro il continuo sviluppo della società, dentro le vecchie forme di dominio e le nuove possibilità di liberazione, sapendo che «in fondo, a ben vedere, certi guardiani, per forti e feroci che siano, sono tuttavia alla fine abbastanza stupidi», come disse Ingrao al XIX Congresso del PCI, nel 1990.
Ciò che ancora non credo di aver colto in tutta la sua complessità è il significato primo dell’indicazione di «rimanere nel gorgo». Quando mi imbattei per la prima volta nella formula retorica utilizzata da Ingrao all’XI Congresso in risposta a Longo sulla questione del centralismo democratico, la trovai di un tatto incomprensibile per la dialettica politica di oggi: quel volteggio di piuma, accolto da applausi scroscianti, era stato tuttavia capace di ferire come una lama d’acciaio. Difficile dunque astrarre da un periodo storico completamente diverso da quello di oggi: credo tuttavia che «rimanere nel gorgo» fosse un’indicazione di ricerca e di azione — e del rapporto indissolubile tra questi due aspetti — rivolta alla realtà, all’intricato rapporto tra masse e potere, impossibile da ridurre alla semplice collocazione dentro o fuori dal Partito (che pure era parte fondamentale di quell’indicazione).
Infine, l’insegnamento più prezioso, che più sento dentro, è quello di lasciarsi interrogare dalle rivolte. Non ho mai avuto la fortuna di incontrare Pietro Ingrao, ma ho incontrato spesso la misura concreta di queste sue parole nella costruzione delle organizzazioni studentesche, negli sguardi delle migliaia di studentesse e studenti in strada e in piazza, nell’impegno politico e nella necessità di cambiare il mondo. Il nostro cammino è ancora nel tempo delle rivolte che non è sopito.
Grazie di tutto Pietro Ingrao.
«I migranti rifiutano l’identificazione. E tra le tante domande senza risposta la più importante è: basta la provenienza per stabilire in 48 ore se chi sbarca col volto stravolto e occhi imploranti è profugo o migrante economico? Siria sì, Nigeria no».
La Repubblica, 1 ottobre 2015 (m.p.r.)
Lampedusa. I primi quindici migranti sono già scappati. Identificati qui nell’ hotspot sperimentale di contrada Imbriacola, inseriti nel registro delle quote europee, trasferiti sulla terraferma, nell’hub di Villa Sikania a Siculiana (Agrigente) in attesa di essere inviati nel Paese di destinazione. Scappati. Via, a cercare il primo treno o a farsi prelevare dall’autista dell’organizzazione di trafficanti per l’ultima tratta del loro viaggio nel tentativo di raggiungere la destinazione scelta da loro. E non dall’Europa.
Sembra paradossale, ma è tutto vero. Una buona base per cominciare a ragionare su che cosa possa essere l'equivalente della "sinistra" nel XXI secolo «Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato».
Il manifesto, 30 settembre 2015
L’organismo della sinistra è assai poco vitale, ma comprensibilmente non vuole dirselo e nemmeno sentirselo dire. E se provassimo ad affrontare la questione da un punto di vista un po’ meno prevedibile? Se cominciassimo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Perché questa è la verità: non c’è vita, se mai c’è sopravvivenza eroica ma stentata di un vasto numero di associazioni e organismi di base che cercano di garantire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.
Se cominciassimo col dirci la verità che dal tronco della sinistra del Novecento non sboccerà più alcun fiore, forse allora riusciremmo a vedere la realtà presente in maniera più realistica e forse anche a immaginare una via d’uscita per il prossimo futuro.
Se sinistra vuol dire una formazione capace di raggiungere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a sufficienza. Grazie alla demografia, grazie all’ampiezza dei ranghi degli ultra-sessantenni possiamo ancora sperare di costituire una formazione che mandi in parlamento qualche deputato prima di esaurirsi per estinzione prossima della generazione che si formò negli anni della democrazia.
Ma se sinistra vuol dire una forza capace di immaginare una svolta nella storia sociale economica e politica del mondo, una forza capace di attrarre le energie della generazione precaria e connettiva, se sinistra vuol dire una forza capace di rovesciare il rapporto di forze che il capitalismo globalizzato ha imposto all’umanità — allora è meglio non raccontarci bugie pietose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.
I contributi che ho letto sul manifesto sono più o meno apprezzabili, alcuni mi sono piaciuti molto. Ma non ne ho tratto la percezione che qualcuno voglia vedere quel che sta accadendo e che accadrà, e soprattutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.
La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola democrazia non corrisponde nulla. Perché dovrei ancora prendere sul serio la democrazia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occorreva l’esperienza greca, per sapere che la democrazia non è più una strada percorribile. Basta ricordarsi del referendum italico contro la privatizzazione dell’acqua, i suoi risultati trionfali, e i suoi effetti praticamente nulli sulla realtà economica e politica.
E allora, se la democrazia non è una strada percorribile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che talvolta nella vita (e nella storia) è opportuno partire da un’ammissione di impotenza. Non posso, non possiamo farci niente.
Cioè, fermi un attimo. Due cose dobbiamo farle, e se volete chiamarle sinistra allora sì, ci vuole la sinistra.
La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai entrata in una situazione di scollamento politico, di odii incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi: a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra?
Dovremmo dirlo, perché questo è quello che sta già accadendo, e le conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto dell’onda che arriva.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni gli effetti del collasso finanziario del 2008 moltiplicati per gli effetti del collasso cinese di questi mesi produrrà una recessione globale. Possiamo prevedere che la crescita non tornerà perché non è più possibile, non è più necessaria, non è più compatibile con la sopravvivenza del pianeta, e ogni tentativo di rilanciare la crescita coincide con devastazione ambientale e sociale.
La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome: guerra mondiale.
La seconda cosa da fare è: immaginare.
Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato. Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un punto: predicano la crescita in un momento storico in cui non è più né auspicabile né possibile, e soprattutto è inesistente per la semplice ragione che non abbiamo bisogno di produrre una massa più vasta di merci, ma abbiamo bisogno di redistribuire la ricchezza esistente.
Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un secondo punto: lavorare di più, aumentare l’occupazione e contemporaneamente aumentare la produttività. Non c’è nessuna possibilità che queste politiche abbiano successo. Al contrario la disoccupazione è destinata ad aumentare, poiché la tecnologia sta producendo in maniera massiccia la prima generazione di automi intelligenti. Da cinquant’anni la sinistra ha scelto di difendere l’occupazione, il posto di lavoro e la composizione esistente del lavoro. Era la strada sbagliata già negli anni ’70, diventò una strada catastrofica negli anni ’80. Era una strada che ha portato i lavoratori alla sconfitta, alla solitudine, alla guerra di tutti contro tutti.
Perché dovremmo difendere la sinistra visto che è stata proprio la sinistra a portare i lavoratori nel vicolo cieco in cui si trovano oggi?
Di lavoro, semplicemente, ce n’è sempre meno bisogno, e qualcuno deve cominciare a ragionare in termini di riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro. Qualcuno deve rivendicare la possibilità di liberare una frazione sempre più ampia del tempo sociale per destinarlo alla cura l’educazione e alla gioia.
So bene che non si tratta di un progetto per domani o per dopodomani. Negli ultimi quarant’anni la sinistra ha considerato la tecnologia come un nemico da cui proteggersi, si tratta invece di rivendicare la potenza della tecnologia come fattore di liberazione, e si tratta di trasformare le aspettative sociali, liberando la cultura sociale dalle superstizioni che la sinistra ha contribuito a formare.
Quanto tempo ci occorre? Basteranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guardare, visto che nulla possiamo fare. Guardare cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare. Stiamo a guardare il processo di finale disgregazione dell’Unione europea, la vittoria delle destre in molti paesi europei, il peggioramento delle condizioni di vita della società. Sono processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel rapporto di forza tra le classi.
Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere.
Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa. Riflettendo, immaginando, e diffondendo la coscienza di una possibilità che è iscritta nel sapere collettivo, e per il momento non si cancella: la possibilità di fare del sapere la leva per liberarci dallo sfruttamento.
Attendere il mattino come una talpa.
«Il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell’Ues: l’Unione Euro- Scettica».
La Repubblica, 29 settembre 2015 (m.p.r.)
Il risultato delle elezioni in Catalogna conferma l’ampiezza del sentimento separatista che anima la Comunidad autónoma. Il fronte a favore dell’indipendenza (Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha, così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid. Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre aree della Spagna. Anzitutto nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre «una rivoluzione geopolitica su scala europea», come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica. Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue.
Il manifesto, 29 settembre 2015
Ingrao ha impersonato i nostri ideali. Tutti. Li ha analizzati, approfonditi, discussi. Ne ha misurato la concretezza, l’attualità, l’assunzione da parte delle masse, la resistenza alle offese che l’ideologia del capitale andava muovendo per distorcerne il senso e per sradicarli dalle coscienze. Non si è mai arreso ai dubbi che muoveva a se stesso ed aprendosi agli altri e mai attenuando o precludendo il suo pensare ed il suo fare di militante,di dirigente, di comunista.
Ha voluto sempre sentire, capire, scrutare, criticamente anche quanto a presupposti, tradizioni, metodi, prima di indicare, insegnare, condurre singoli e masse. E capire era per lui penetrare nella realtà dei rapporti umani, cominciando da quelli di produzione e cogliendone ogni prosecuzione, ogni effetto immediato e protratto a qualunque altezza e in quale dimensione si collocasse, qualsiasi suo profilo potesse rilevare sulla condizione umana nell’età del capitalismo
Del più alto valore è stata la concezione della democrazia che Ingrao ha definito e per cui ha combattuto. Sostenendo che «il voto non basta». E «non basta» infatti nei regimi che ne isolano la rilevanza e ne limitano il potere reale di incidere direttamente o indirettamente sui rapporti di potere economico, oltre che di quello sociale e di quello politico.
Tanto meno nei regimi che ne distorcono gli effetti deviandoli da quelli autenticamente rappresentativi. Né basta se non collegato ad altri istituti di partecipazione diretta alla dinamica politica. Sostenendo poi la coordinazione di tutte le assemblee elettive come condizione e strumento di una democrazia che pervada l’intera complessità istituzionale della aggregazione umana a forma stato. Sostenendo, infine, con grande lucidità ed eguale fermezza la necessità di opporsi alla decadenza di civiltà politica, culturale e morale che andava maturando in Italia con la criminosa prospettiva di un uomo solo al comando.
l capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza...(continua a leggere)
Il capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza. Oggi l'abbondanza che lo minaccia è, come sempre, quella delle merci, ma in una misura che non ha precedenti. Ad essa, negli ultimi decenni, se ne è aggiunta un'altra, assolutamente inedita, che coinvolge un vasto e crescente ambito di servizi. Per alcuni beni la saturazione del mercato capitalistico è visibile a occhio nudo ormai da tempo. I capi d'abbigliamento si comprano ancora nei negozi, a prezzi che generano un certo profitto a chi li produce e a chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato parallelo così esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può dire che nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero degli individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno possiamo osservare nell'ambito dei servizi più avanzati: l'accesso all'informazione, alla cultura, all'arte, alla musica.
Com'è noto, il capitale combatte la caduta tendenziale del saggio di profitto inventando nuovi beni e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio sulla natura per trasformare il vivente in merci brevettabili, strappando al controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e dello stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche fortunatissime - la crisi e poi il crollo del blocco comunista, la burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei sindacati, la rivoluzione informatica - ha sventato la più grande minaccia da abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua storia: quella degli ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di beni stava per riversarsi nel mercato dei Paesi avanzati, un sovrappiù di merci che avrebbe costretto imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto a ridurre drasticamente l'orario di lavoro. Si sarebbe arrivati a quel passaggio epocale previsto da Keynes nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti (1928-30), che, con la crescita della produttività a «a un ritmo superiore all'1% annuo» avrebbe spinto le società industriali, nel giro di un secolo, a istituire una durata del lavoro a 15 ore settimanali.
In realtà, la crescita della produttività mondiale è stata superiore alle stesse previsioni di Keynes, con risultati però opposti rispetto alle sue aspettative. In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e nitore espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli, 2014) Nicola Costantino ha ricordato che il tasso di crescita annuo della produttività a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato tra il 2 e il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del 2,5%, in Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998, del 3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del singolo lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo, è aumentata di ben 7 volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate da Keynes e su cui egli fondava la previsione delle 15 ore settimanali.
Che cosa dunque è accaduto? Perché dal mondo dell'abbondanza a portata di mano siamo precipitati nel regno della scarsità? La risposta essenziale è molto semplice. Perché il capitalismo dei paesi dominanti (Usa e Europa in primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di profitto nei paesi poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese, non incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, hanno generato un'arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la scarsità del lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job. I dati recenti sono impressionanti.Tra il 1991 e il 2011 - ricorda Costantino - mentre il Pil reale planetario è cresciuto del 66%, il tasso globale di occupazione è diminuito dell'1,1%. In 20 anni un quarto di beni in più con meno lavoro.
Ma una vasta e ben controllata disoccupazione è oggi un arma politica, non solo un effetto delle trasformazioni economiche. Tale scarsità, diventata permanente e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e lavoro, economia e politica, poteri finanziari e cittadini, drammaticamente asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come gli affamati un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L'intera struttura dello stato di diritto ne risente, gli istituti della democrazia vengono progressivamente svuotati. Sindacati e partiti, funzionari del presente, invocano la “ripresa” come se il futuro possa “riprendere” le fattezze del passato.
E tuttavia tale artificiale scarsità non può durare a lungo. Non solo perché le innovazioni produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza artificiale,ecc) stanno per rovesciarci interi continenti di merci e servizi, sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche perché l'abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro oggi genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C'è troppo danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie, rispetto alle necessità della produzione. Patrimoni concentrati in gruppi ristretti che non corrono il rischio dell'investimento produttivo in società ormai sature di beni e con una domanda debole, mentre la grande massa dei lavoratori è tenuta a basso salario perché i loro padroni devono poter competere a livello globale. Tutti i capitalismi nazionali comprimono i salari, allungano gli orari di lavoro, sperando nelle esportazioni e tutti, o quasi, languono nella generale stagnazione. Mentre i soldi si accumulano, generano altri soldi, muovono speculazioni nei mercati finanziari e preparano altre crisi.
Questo quadro che non teme smentite – poggia su una vasta e solida letteratura - ha una grande importanza per la sinistra. In esso è possibile scorgere che una vita di gran lunga migliore sarebbe possibile per tutti e che solo i rapporti di forza dominanti la ostacolano, facendo regredire la società nel suo insieme. Non c'è una crisi, intesa come un evento naturale. E' stato il cedimento storico dei partiti della sinistra, dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della scarsità sull'abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si può riprendere. Da questa lezione si può comprendere come niente di naturale è rinvenibile nella situazione presente: è tutto dipendente da scelte politiche, da puri rapporti di forza.
Dunque, una grande abbondanza (auspichiamo, di beni e servizi avanzati, frutto di una generale riconversione ecologica, di riduzione del lavoro ) è alla nostra portata. E bisogna infondere non solo nel nostro popolo, ma nella società italiana tutta intera questa grande pretesa. La pretesa della prosperità e del ben vivere per tutti. E' una prospettiva di nuovi bisogni, che non solo è possibile soddisfare, ma coincide con una tendenza storica inarrestabile e che capitale e ceto politico possono solo ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi e del lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel passato l'interesse generale, una necessità indifferibile e universale. Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto
Il manifesto, 29 settembre 2015
La sinistra italiana che fu comunista e qualche volta lo resta si ritrova ormai soprattutto e qualche volta solo ai funerali. E nulla più dell’ultimo saluto a Pietro Ingrao, grande eretico e un uomo profondamente di partito, intellettuale e dirigente popolarissimo, il tutto per cento anni di lunga vita, può rimettere insieme per qualche ora le tante storie di chi nel Pci c’è stato, o l’ha votato o magari l’ha contestato da sinistra. E se la commozione per la morte di un leader che ha lasciato un buon ricordo anche in tutti i suoi avversari è tanta, lo è anche per la diffusa sensazione che questo saluto sia davvero l’ultimo. La morte del vecchissimo Ingrao cala il sipario su una storia già chiusa.
Al primo piano della camera dei deputati, la camera ardente è allestita nella sala che da qualche anno è intitolata ad Aldo Moro (e nel ’78 toccò ad Ingrao presidente dell’assemblea di Montecitorio avvertire l’aula del rapimento del segretario Dc, con un discorso che fu criticato perché troppo breve e senza dibattito, ma in quell’ora tragica il comunista avvertiva l’urgenza di far nascere un governo, quello Andreotti, che pure non gli piaceva). Il primo picchetto attorno alla bara scoperta è quello della Fiom, con Maurizio Landini. La grande famiglia Ingrao è sistemata in una fila di sedie sul lato sinistro, la sorella Giulia, le figlie Celeste, Bruna, Chiara e Renata, il figlio Guido, tanti nipoti. Alle pareti le corone di fiori della alte cariche istituzionali e una sola di partito, il Pd. Un ritratto di Ingrao staccato dalla «Corea» - la Galleria dei presidenti - è sistemato al centro tra una bandiera del Pci e una della pace.
La tentazione di accordare il pensiero di un grande leader con il proprio è comprensibile — si faceva anche nel Pci con le posizioni di Togliatti, «lo chiamavamo “tirare la coperta”, ha ricordato Ingrao nel suo Le cose impossibili -, alla camera ardente arriva Achille Occhetto preceduto da un fondo sull’Unità renziana in cui sostanzialmente racconta che Ingrao avrebbe aderito alla svolta della Bolognina se solo gliel’avesse spiegata lui. Renzi è a New York per l’assemblea Onu, il governo è presente con la ministra delle riforme Boschi, il viceministro Morando e il sottosegretario De Vincenti, che fa anche un turno di picchetto. Assenti in massa alla celebrazione ufficiale della camera del centesimo compleanno di Ingrao, i renziani stavolta fanno capolino: il capogruppo del Pd alla camera Rosato, il capogruppo al senato Zanda, il deputato Carbone, la presidente della prima commissione del senato Finocchiaro. Pochi gli esponenti dei partiti di centro e destra che vengono a rendere omaggio, il vice presidente forzista della camera Baldelli, l’ex Dc D’Onofrio, Rutelli, Mariotto Segni, Nando Adornato che ha trascorsi comunisti. In serata fa il suo ingresso il presidente del senato Piero Grasso. Ma è soprattutto un incontrarsi a sinistra, tra i tanti che sono stati ingraiani almeno un po’, o «minoranza di sinistra» come preferiva Ingrao. Come Occhetto, del resto, che va incontro e si fa riconoscere dall’ottantenne Luigi Schettini, che è stato una colonna dell’ingraismo meridionale. Un po’ alla volta arrivano Gavino Angius, Luigi Berlinguer, Gianni Cuperlo, Walter Tocci, Cesare Damiano, Vincenzo Vita, Cesare Salvi, Giorgio Ruffolo, Ugo Sposetti, Walter Veltroni. Invece entra unita la delegazione dell’Ars: Aldo Tortorella, Alfiero Grandi e Piero De Siena.
La cerimonia nel palazzo si presta poco alla partecipazione popolare, ma sono comunque centinaia i cittadini romani che sfilano davanti al cadavere di Ingrao. A tratti davanti all’ingresso principale della camera si forma una piccola fila. Molti portano un fiore, qualcuno alza veloce un pugno chiuso. Domani i funerali saranno in piazza Montecitorio, all’aperto. Come quelli di Pajetta, 25 anni fa.
Ma — ecco entrare in scena Bobbio — nell’intento di accordare la democrazia ai contesti storici, esistono limiti concettuali che devono essere tenuti fermi, a pena di confusione, fraintendimenti e, anche, d’inganni. Una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”, ma non il risultato del gioco. In un testo del 1987 (ora in Teoria generale della politica , Einaudi), le due regole diventano sei, così: 1. tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6. nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. Ripercorrendo questi sei punti, ci accorgiamo che la definizione minima e formale resta ferma, ma si introducono precisazioni, per così dire, di ambiente.
In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria; la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine, sempre, da analisi realistiche. A differenza di quel che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le “regole del gioco” non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. L’aspetto sostanziale è sempre presente. Si tratta di promuovere realizzazioni e contrastare tendenze, avendo come obiettivo i principi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’art. 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza — per rimanere nell’immagine — del gioco che viene giocato.
Al di là delle questioni di parole, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto, è, forse, che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso a ogni costo. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao. Il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano. Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi, Ingrao della democrazia come lotta politica; l’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza, l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che farsi della democrazia, che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà.
Se queste forze mancano, le forme, da sole, non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo d’un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente; che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà non o anti- democratiche, alla fine ripudiata dai cittadini, è Bobbio stesso a riconoscerlo: «Io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima, un regime democratico non è destinato a durare » (Lettera a Guido Fassò del 14 febbraio 1972, citata in L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia ,
Laterza. Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cose dette più di trent’anni fa, ma valide non solo per quei tempi.
(Questo testo è un estratto del discorso pronunciato da Gustavo Zagrebelsky il 31 marzo 2015 in occasione dei 100 anni di Pietro Ingrao su invito della Camera dei deputati)
Il manifesto, 29 settembre 2015
Quando chi viene a mancare ha più di cent’anni all’evento si è preparati, e dunque il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, perché proprio la loro lunga vita ci ha finito per abituare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eternità. Pietro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tantissimi di noi che è difficile persino pensare alla sua morte senza pensare alla propria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altrettanto vecchi).
Così, quando domenica mi ha raggiunto la telefonata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ramblas a Barcellona dove, essendo di passaggio per la Spagna, mi ero fermata per aspettare i risultati elettorali della Catalogna, il suo tristissimo annuncio è stato quasi una fucilata. Perché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse asportato un pezzo del mio stesso corpo.
Così, io credo, è stato per tutta la larghissima tribù chiamata «gli ingraiani», qualcosa che non è stata mai una corrente nel senso stretto della parola perché la nostra introiettata ortodossia non ci avrebbe neppure consentito di immaginare tale la nostra rete.
E però siamo stati forse di più: un modo di intendere la politica, e dunque la vita, al di là della specificità delle analisi e dei programmi che sostenevamo. Sicché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingraiani sono in qualche modo distinguibili, sebbene le loro scelte individuali siano andate col tempo divergendo, dentro e fuori del Manifesto; e poi dentro e fuori le successive labili reincarnazioni del Pci. Oggi poi - dentro una sinistra che fatica a riconoscere i propri stessi connotati e nessuno si sente a casa propria dove sta perché vorrebbe la sua stessa casa diversa da come è – questo tratto storico dell’ingraismo direi che pesa in ciascuno anche di più.
Vorrei che non si perdesse, perché al di là delle scelte diverse cui ha condotto ciascuno di noi, è un patrimonio prezioso e utile anche oggi.
Di quale sia stato il nucleo forte del pensiero di Pietro Ingrao, ho già parlato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il manifesto ha dedicato ai suoi cent’anni, riproposto on line proprio ieri. Vorrei che quelle sue analisi e linee programmatiche che purtroppo il Pci non fece proprie, non venisse annegato, come è accaduto per Enrico Berlinguer, nella retorica riduttiva e stravolgente dell’ “era tanto buono, bravo onesto, ci dà coraggio e passione”.
Oggi, comunque, di Pietro vorrei affidare alla memoria soprattutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della politica come, innanzitutto, partecipazione e perciò soggettività delle masse.
Quando incontrava qualcuno, o anche nelle riunioni e persino nel dialogo con un compagno ai margini di un comizio, era sempre lui che per primo chiedeva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giudichi quel fatto?”; “cosa proporresti?”. Non era un vezzo, voleva proprio saperlo e poi stava a sentire. Perché il suo modo di essere dirigente stava nel cercare di interpretare il sentire dei compagni. Anche di portare le loro idee a un più alto livello di analisi e proposta, certamente, ma sempre a partire da loro, per arrivare, assieme a loro, e non da solo, a una conclusione, a una scelta.
Per questo quel che per lui contava, quello che a suo parere qualificava la democrazia e la qualità di un partito, era la partecipazione, la capacità di stimolare il protagonismo, la soggettività delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teoria né prassi significativa.
Non voglio esplicitare paragoni con l’oggi, sarebbe impietoso.
Rossana, rispondendo ad un’intervista di La Repubblica, ieri ha detto di Pietro, anche della sua reticenza nell’assumere posizioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingraiani doc”, operammo la rottura della pubblicazione della rivista Il manifesto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiutava lo scioglimento del partito proposto dalla maggioranza occhettiana, pur riconoscendosi nella relazione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da compiere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifondazione, e chi - come Pietro - decise invece che sarebbe comunque restato nell’organizzazione, il Pds, che, già malaticcio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rimasta scolpita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pietro si fosse unito alla costruzione di un nuovo soggetto politico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifondazione comunista più ricca e davvero rifondativa, per via del suo personale apporto ma anche di quella larga area di quadri ingraiani che costituiva ancora un pezzo vivo del Pci e sarebbero stati preziosi alla nuova impresa; e invece restarono invischiati e di malavoglia nel lento deperire degli organismi che seguirono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.
Pietro però capì subito che stare in quel contesto non era più “stare nel gorgo”, perché il gorgo, sebbene assai indebolito, scorreva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impegnò nei movimenti che generazioni più giovani avevano avviato. E da questi fu ascoltato.
La storia come sappiamo non si fa con i se. Ma riflettere su quel passaggio storico, per ragionare sugli errori compiuti, da chi e perché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cercando di costruire un nuovo soggetto politico.
Per farlo nascere bene mi sembra comunque essenziale portarsi dietro l’insegnamento fondamentale di Pietro, che non è inficiato dal non avere, qualche volta, tentato abbastanza : che non c’è partito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diventare una forza in grado di sollecitare la soggettività popolare, perché questa è più preziosa di ogni ortodossia.
Ma vorrei che di Pietro ci portassimo dietro anche l’ottimismo della volontà.
Era lui che amava citare la famosa parabola di Brecht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comunismo italiano). Come ricorderete, il sarto insisteva che l’uomo avrebbe potuto volare, finché, stufo, il vescovo principe di Ulm gli disse “prova” e questi si gettò dal campanile con le fragili ali che si era costruito. E naturalmente si sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine l’uomo ha volato. E’ la parabola del comunismo: fino ad ora chi ha provato a realizzarlo su terra si è sfracellato, ma alla fine, come è accaduto con l’aviazione, ci riusciremo.
E’ questo l’impegno che nel momento della scomparsa del nostro prezioso compagno Pietro Ingrao vorrei prendessimo: di provarci.