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«È chiaro che siamo di fronte alla liqui­da­zione del diritto del lavoro – alla sua equi­pa­ra­zione nel migliore dei casi al diritto com­mer­ciale – e dei diritti dei lavo­ra­tori, con­si­de­rati sia sin­go­lar­mente che col­let­ti­va­mente».

Il manifesto, 7 ottobre 2015

Era già nell’aria. Ma ora la minac­cia si fa con­creta e immi­nente. Il governo Renzi si appre­sta a rifi­lare un uno-due al movi­mento sin­da­cale ita­liano, tale, per dirla con l’efficacia di Umberto Roma­gnoli, da farlo scom­pa­rire senza nep­pure darsi la pena di abrogarlo.

Da un lato il governo lavora per sna­tu­rare e limi­tare il diritto di scio­pero. Esso, con­tra­ria­mente alla nostra Costi­tu­zione, non sarebbe più un diritto in capo al lavo­ra­tore, ma un atto con­sen­tito solo a sin­da­cati aventi un certo livello di rap­pre­sen­tanza e di con­senso tra i dipen­denti. Si parla del 20–30 per cento in luogo del 50 voluto da Ichino. Ma la sostanza non cam­bie­rebbe. Il gri­mal­dello sarebbe la que­stione della «rap­pre­sen­tanza», vec­chio nodo irri­solto. Solo che qui si parla di una rap­pre­sen­tanza rove­sciata. Non quella rispetto ai lavo­ra­tori, in base alla quale si dovrebbe giun­gere all’ovvia con­clu­sione che almeno gli accordi per avere vali­dità erga omnes dovreb­bero essere appro­vati da un voto refe­ren­da­rio di tutti i lavo­ra­tori cui si rife­ri­scono. E magari boc­ciati, come è suc­cesso recen­te­mente alla Fca di Mar­chionne negli Usa. Ma quella rispetto ai datori di lavoro, ovvero la garan­zia che ciò che le sigle sin­da­cali fir­mano diventi per ciò stesso norma impo­sta a tutti, senza altri fastidi. Dall’altro lato il governo Renzi vuole scri­vere di pro­prio pugno le regole della contrattazione.

Senza nep­pure il parere delle orga­niz­za­zioni sin­da­cali e della Con­fin­du­stria, che comun­que con Squinzi si alli­nea pre­ven­ti­va­mente. L’occasione sarebbe for­nita da uno dei decreti dele­gati del Jobs Act. Qui il piede di porco sarebbe dato dalla intro­du­zione del sala­rio minimo legale, essendo l’Italia uno dei pochi paesi a non averlo nella Ue. Gra­zie a que­sto si can­cel­le­rebbe la con­trat­ta­zione sala­riale nazio­nale e quindi si toglie­rebbe linfa vitale al con­tratto col­let­tivo nazio­nale di lavoro, men­tre l’incremento sala­riale sarebbe abban­do­nato alla con­trat­ta­zione azien­dale – per chi se la può per­met­tere -, ma vin­co­lato agli aumenti di pro­dut­ti­vità.

Met­tendo insieme i due ele­menti qui descritti è chiaro che siamo di fronte alla liqui­da­zione del diritto del lavoro – alla sua equi­pa­ra­zione nel migliore dei casi al diritto com­mer­ciale – e dei diritti dei lavo­ra­tori, con­si­de­rati sia sin­go­lar­mente che col­let­ti­va­mente. Al più grande e orga­nico attacco al movi­mento ope­raio mai por­tato nel nostro paese. Non solo. Tutto ciò si accom­pa­gne­rebbe alla azien­da­liz­za­zione del wel­fare state, poi­ché alla con­trat­ta­zione azien­dale ver­rebbe affi­data anche quella per la sanità e gli altri isti­tuti di wel­fare integrativi.

Inten­dia­moci, non è il sala­rio minimo ora­rio ad essere di per sé il respon­sa­bile di que­sta per­fida costru­zione. La sua intro­du­zione in tutt’altro qua­dro sarebbe posi­tiva. Anche fatta per legge, dal momento che, per para­fra­sare i giu­ri­sti, avver­rebbe con quel «velo di igno­ranza» verso la strut­tura con­trat­tuale, non diven­tando così il pre­te­sto per sman­tel­larla. In effetti al gio­vane, o meno gio­vane o all’immigrato, che non è pro­tetto da un con­tratto col­let­tivo nazio­nale, sapere che almeno sotto un certo livello di paga non è legale scen­dere è un ele­mento di difesa. Con il pre­gio della uni­ver­sa­lità. Su que­sta base si potrebbe imma­gi­nare una riforma della con­trat­ta­zione tale da ridurre gli attuali 380 con­tratti col­let­tivi nazio­nali a quei 5 o 6 in set­tori fon­da­men­tali entro i quali con­cen­trare le forza per otte­nere dal punto di vista retri­bu­tivo e nor­ma­tivo misure accre­sci­tive, da miglio­rare poi in un even­tuale con­trat­ta­zione di secondo livello.

Di que­sto si parla da tempo nelle orga­niz­za­zioni sin­da­cali. In par­ti­co­lare per merito della Fiom. Se non se ne è venuto a capo le respon­sa­bi­lità, è inu­tile nascon­der­selo, sono anche interne al movi­mento sin­da­cale, sia per quanto riguarda l’aspetto della rap­pre­sen­tanza, ove il sin­da­cato degli iscritti modello Cisl si è scon­trato con il sin­da­cato di tutti i lavo­ra­tori mutuato dai momenti migliori della sto­ria del movi­mento sin­da­cale; sia per quanto riguarda il tema del sala­rio minimo, ove la paura di per­dere ruolo ha para­liz­zato ogni proposta.

Il governo ne appro­fitta per cer­care di can­cel­lare del tutto con­trat­ta­zione e sin­da­cato. Rea­gire con uno scio­pero gene­rale sarebbe necessario.

, La Repubblica, 6 ottobre 2015 (m.p.r.)

FRANCESCO: IL SINODO NON è UN PARLAMENTO
SCONTRO SUI DIVORZIATI
di Marco Ansaldo


Città del Vaticano. «Non ci sono due partiti nella Chiesa, come sostengono i mezzi di informazione», dicono i vescovi appena riuniti in Vaticano nella prima giornata di lavori del Sinodo sulla famiglia. Ma nessuno crede a questa affermazione. E difatti, appena in conferenza stampa parte l’attacco dei cardinali conservatori, si alzano subito i progressisti a rintuzzarlo. Materializzando così, davanti a centinaia di giornalisti accorsi da tutto il mondo, lo scontro in atto tra chi si oppone a Francesco e chi invece vuole le sue riforme.

Comincia il cardinale Peter Erdo, ungherese, relatore generale del Sinodo, bocciando la possibilità di concedere la comunione ai divorziati risposati nella relazione introduttiva letta accanto al Papa: «Riguardo ai divorziati e risposati civilmente è doveroso un accompagnamento pastorale misericordioso, il quale però non lascia dubbi circa la verità dell’indissolubilità del matrimonio insegnata da Gesù Cristo stesso. Non è quindi il naufragio del primo matrimonio, ma la convivenza nel secondo rapporto che impedisce l’accesso all’Eucarestia». È una chiusura totale, già nella prima giornata. Dalla sua parte si schiera, a sorpresa per alcuni, l’arcivescovo di Parigi, André Vingt-Trois. «Se vi attendete un cambiamento spettacolare della dottrina della Chiesa rimarrete delusi». E riferendosi al tema del sacramento da concedere ai divorziati risposati, il cardinale francese sottolinea: «Se pensate che la teoria del cardinale Walter Kasper sia aprire indifferentemente l’accesso della comunione avete sbagliato».
È un due a zero per il fronte dei duri. È a questo punto che chiede la parola il segretario speciale del Sinodo, l’arcivescovo Bruno Forte, uomo vicino a Jorge Bergoglio. Con un ragionamento di grande raffinatezza, senza urtare nessuno, ma con efficacia, Forte rimette la discussione sui binari del confronto aperto. «Fermo restando che non ci si devono aspettare modifiche alla dottrina - premette - bisogna dire con grande chiarezza che questo Sinodo non si riunisce per non dire nulla. Non è però un Sinodo dottrinale, ma pastorale, come lo fu il Concilio Vaticano II», ricorda. «Le sfide pastorali ci sono e noi vogliamo affrontarle con parresia, ovvero con estrema franchezza». Aggiunge inoltre l’arcivescovo di Chieti e teologo: «Affrontare le questioni pastorali e cercare nuove strade per nuovi approcci rende la Chiesa più vicina agli uomini e alle donne del nostro tempo. La Chiesa non può restare insensibile alle sfide: questa è la vera posta in gioco».
Al mattino, inaugurando i lavori, il Papa aveva detto parole chiare sul desiderio di dialogo, senza chiusure: «Il Sinodo non è un parlamento dove per raggiungere il consenso si fa un accordo comune, un negoziato, un patteggiamento o dei compromessi: unico metodo è quello di aprirsi allo Spirito santo con coraggio apostolico e umiltà evangelica». E ancora: «La vita cristiana non è un museo da guardare o da salvaguardare, ma il deposito di fede è fonte viva dalla quale la Chiesa si disseta».
NON POSSIAMO GUARDARE INDIETRO
BERGOGLIO CI CHIEDE COSE NUOVE
di Marco Ansaldo


C. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera, presidente della Conferenza episcopale tedesca, e capo del gruppo di porporati incaricati delle riforme economiche in Vaticano, quale impressione ha avuto dalla prima giornata di Sinodo e della relazione apparsa un po’ di chiusura del segretario generale dell’assemblea, il cardinale Peter Erdo?
«Oggi c’è stata una prima ampia discussione, ma il Sinodo durerà tre settimane, avremo modo di discutere di tutto e alla fine il Papa farà quello che riterrà giusto per il suo pontificato».
Ma lei che opinione si è fatto?
«Il Sinodo è un cammino, dobbiamo fare dei passi avanti, ma non può essere una ripetizione, non possiamo guardare indietro».
E quali sono gli scopi che lei persegue, quale la sua visione?
«La discussione va avanti da oltre un anno. Il Papa vi ha dedicato una gran parte della sua catechesi. E qui ci sono discorsi importanti sul tema della famiglia. Poi, fra i due Sinodi, quello ordinario dello scorso anno e quello appena cominciato sono accadute tante altre cose. Non dobbiamo tornare indietro nelle questioni, questo dice la Chiesa e questa è la prospettiva pastorale secondo cui ci muoviamo».
Ma su quali punti avete discusso?
«Abbiamo parlato molto della questione dei profughi. Abbiamo parlato della famiglia in questo mondo globalizzato, e di quanto sia difficile mantenere una famiglia unita quando si fugge dal proprio Paese».
Ma non c’è una polarizzazione all’interno del Sinodo?
«Chi dice questo? Dove è che viene descritta così la situazione del Sinodo? Questo è quello che qualcuno vorrebbe».
Questa non è l’atmosfera all’interno dell’assemblea?
«Questa è la posizione dei media. Io ho una mia idea, ma la base della discussione non è poi così controversa. In un contesto come questo è normale che ci siano opinioni diverse, ma non solo necessariamente contrasti».
E sul tema dell’omosessualità come si pone circa le aperture del cardinale Walter Kasper?
«L’omosessualità sarà al centro di una discussione specifica, che comprende anche pareri scientifici. È un tema importante di cui lo scorso anno abbiamo già parlato».
E come affrontate i diversi temi?
«Discuteremo dell’Instrumentum laboris. Personalmente ne ho parlato anche con amici. Ma trovo che nel Sinodo occorra formulare anche cose nuove. Soprattutto è importante che non si vada sotto il livello di discussione posto dal Papa. Credo che dovremmo adeguarci a quello che ci chiede il Papa. E dobbiamo essere concreti».
Cardinale, c’è stato questo caso del teologo della Congregazione per la Dottrina della fede che ha dichiarato la propria omosessualità. Giocherà un ruolo nella discussione?
«Non credo che possa determinare la discussione. Se ne è parlato molto, ma il caso non riguarda affatto il Sinodo».
Ci si aspetta un documento importante?
«Le aspettative sono alte. Il Sinodo ha risvegliato interesse. Penso che questo sia anche il desiderio del Papa. Alla fine lui deciderà, con il suo discernimento. Come è stato alla fine del Sinodo dello scorso anno. Ma fino ad allora dobbiamo discutere. Di quello che viene discusso all’inizio, toccherà al Papa decidere che cosa resterà alla fine».
Torniamo sulla polarizzazione dei vescovi. Si dice che fra i cardinali manchi la comunicazione. Lei parla e discute con i cardinali Mueller, Pell, Sarah (i cosiddetti conservatori, n.d.r. )?
«Con il cardinale Mueller per esempio ho discusso. Noi parliamo ma non necessariamente esce tutto. Poi, durante la giornata di studio qualche mese fa a Roma, all’Università Gregoriana, con le conferenze episcopali tedesca, francese e svizzera abbiamo discusso apertamente. Anche oggi c’è stato un dialogo aperto, capisco che escano dei libri che facciano discutere, e ci siano posizioni diverse. Ma la mancanza di comunicazione fra i cardinali deve trasformarsi in una discussione organizzata».
Il manifesto, 6 ottobre 2015 (m.p.r.)

Alla vigilia di ogni legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale ritrova un suo asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però oltre una materia buona per demagoghi e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità sembra fermo da decenni e, soprattutto, saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della «regressività» del sistema fiscale e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti da Landais, Piketty e Saez (Per una rivoluzione fiscale, La scuola, 2014).

Sul fronte opposto, per quanto detestabili, i nipotini di Hayek, hanno saputo dimostrare un certo rigore e insediarsi stabilmente nell’orientamento di politiche governative impegnate nella competizione per la migliore offerta di vantaggi fiscali. Il loro totem, la celebre «curva di Laffer» nella quale si dimostra che oltre un certo limite di imposizione fiscale il gettito decresce perché decrescerebbe l’imponibile più rapidamente dell’aumento dell’imposta, sta ancora in piedi, sia pure in virtù di brutali rapporti di forza. Anche se l’ipotesi paradossale da cui muove, secondo cui una imposizione del 100% corrisponderebbe alla disincentivazione di qualsiasi attività è banalmente incontrovertibile, almeno in una economia di mercato.
Da qui discende, per vie non proprio limpide, l’avversione per qualsivoglia progressività fiscale, la difesa dei patrimoni e delle rendite, il dirottamento dell’imposizione verso i consumi, il concetto che il welfare se lo devono pagare soprattutto quelli che ne usufruiscono (e dunque non i più ricchi). Insomma la destra, sul fisco, ha le idee assai chiare. Del resto non pochi governi di sinistra hanno fatto ricorso, in forma più o meno mitigata, a queste stesse ricette. Circostanza che acuisce la necessità delle sinistre di governo, quando non integralmente convertite al liberismo, di distinguersi in qualche modo dalle politiche fiscali della destra, sostenendo il valore, per l’evoluzione della società in generale, di un’alta imposizione fiscale. Almeno fin dove il consenso non ne risulti troppo minacciato.
Su la Repubblica l’ex ministro Vincenzo Visco tentava qualche tempo fa di elencare gli elementi discriminanti: la promozione del welfare e la sua gestione statale che garantirebbe attraverso la riduzione dei rischi individuali maggiore efficienza e produttività, oltre alla riduzione delle diseguaglianze. Alla quale dovrebbe provvedere anche una politica di progressività fiscale. A questo insomma «servono le tasse». Fatto sta che né della progressività fiscale e men che meno della riduzione delle diseguaglianze, che al contrario sono cresciute a dismisura, si è vista traccia alcuna nel crepuscolo «migliorista» delle socialdemocrazie. Sulle colonne di questo giornale, il 29 settembre, Roberto Romano sottolineava la relazione diretta tra diritti e prelievo fiscale: «Dove esiste un’adeguata pressione fiscale si osserva un adeguato stato sociale e tassi di crescita mediamente più alti». E, certamente, per buona parte del Novecento in diverse economie avanzate questo nesso è stato ben visibile (lo è ancora in alcune economie forti del nord) e il rapporto tra welfare e prelievo fiscale effettivo.
Ma le tasse servono ancora così prioritariamente a questo scopo? A giudicare dalla vicenda greca e dalle prescrizioni fiscali della Troika, fondate sull’assunto che i cittadini greci avevano vissuto «al di sopra dei propri mezzi», converrebbe dubitarne. Dopo i processi di finanziarizzazione che hanno ridisegnato l’economia globale e assegnato nuovi compiti agli stati nazionali si può ancora descrivere la fiscalità in questi termini? La faccenda è tutt’altro che semplice. Ma intanto ci si deve porre una domanda: perché mai l’aumento della pressione fiscale non è stato accompagnato da un rafforzamento del welfare, ma, al contrario, dal suo ridimensionamento, da una raffica di privatizzazioni e spending review, da una riduzione costante dei diritti del lavoro?
Per attenerci alla sola serie storica italiana, la pressione fiscale è passata dal 30 al 45% tra il 1980 e il 2014 e certo non si può dire che le diseguaglianze siano diminuite e i diritti aumentati in questa stessa misura. Piuttosto, all’aumento delle imposte si è accompagnato negli ultimi anni l’impoverimento dei ceti medio-bassi. Se si mettesse a confronto la storia del welfare e quella della fiscalità in diversi paesi europei c’è da scommettere che il nesso tra questi due elementi risulterebbe tutt’altro che lineare. Perché, come è apparso evidente con la crisi dei debiti sovrani e con l’enorme flusso di denaro destinato a ricapitalizzare sistemi bancari dediti al gioco d’azzardo, la fiscalità è diventata uno strumento decisivo di garanzia e continuità della rendita finanziaria.
Il fabbisogno degli stati non è certo riducibile al mantenimento del welfare. Corruzione, clientele, caste, sprechi , evasione, certamente incidono, ma non costituiscono affatto una spiegazione esauriente. Il fisco, e soprattutto la tassazione indiretta, è infatti anche un tramite, sempre più importante, nel trasferire parte della ricchezza socialmente prodotta (fuori dai rapporti salariali, dai mercati controllabili e spesso da ogni forma di retribuzione) nel circuito finanziario e nei canali di una redistribuzione delle risorse indirizzata verso l’alto: la «regressività fiscale» di cui scrive Piketty, ossia la protezione degli alti redditi e dei grandi patrimoni.
I difensori dei profitti e delle rendite, ricondotti alla categoria del «risparmio», supposto disponibile a trasformarsi in «investimento», giustificano la loro avversità alla tassazione progressiva con l’argomento dell’occupazione: se il tornaconto dei datori di lavoro dovesse peggiorare, la domanda di lavoro ne soffrirebbe. Ma il costo del lavoro è decisamente sopravvalutato, per ragioni in parte ideologiche, tra i fattori di quella riduzione dell’occupazione strutturalmente incardinata nelle trasformazioni del modo di produzione stesso. Nessun imprenditore, se il mercato non «tira», sarà disposto a impiegare lavoro, sia pure fortemente «detassato». E se lo sconto non finirà anche, significativamente (altro che 80 euro), nelle tasche dei lavoratori, i consumi, già bersaglio prediletto dell’ideologia fiscale liberista, languiranno e il mercato in conseguenza.
Il problema non sembra preoccupare le sinistre di governo, impegnate nel festeggiare rumorosamente modesti quanto effimeri incrementi del tasso di occupazione a fronte di vantaggi e poteri sempre maggiori concessi agli imprenditori. Inoltre, se il bacino del lavoro salariato si contrae, bisognerà trovare altre fonti di introito fiscale. La persecuzione del lavoro autonomo e precario di massa, privo di ogni tutela, è una di queste. L’altra è quella piccola proprietà (abitazioni, auto), in larga parte ipotecata da banche e finanziarie che, non essendo fonte di rendita (quella catastale è una pura espressione metafisica) è di fatto indistinguibile dal consumo, puro e semplice valore d’uso. Con il che ritorniamo al principio ultraliberista secondo cui non il possesso o il risparmio (valore di scambio) devono essere tassati ma, appunto, l’uso.
Per dirla con una formula è probabilmente la «tassazione della vita», nel suo svolgersi individuale e collettivo, una nuova importante leva dell’estrazione di valore. Cosicché la disputa se debba essere detassata la prima casa o il lavoro è di assai scarso interesse. Le domande decisive sono tutt’altre. Che cosa davvero alimentiamo con le nostre tasse? Che ruolo svolge oggi il prelievo fiscale nel processo di accumulazione? Si deve continuare a ritenere lo stato il protagonista principale della spesa pubblica o conquistare spazi crescenti di autogestione delle risorse? E, infine, esiste ancora, e in quali forme, una possibilità di controllo democratico sull’imposizione e la spesa? Ha senso continuare a ignorare, magari nell’illusione di poterli contrapporre, il rapporto tra capitale finanziario e sovranità statali?
Per come stanno oggi le cose, le ragioni di Masaniello e di tutte le classi popolari che per secoli si sono rivoltate contro dazi e gabelle, destinati a ripianare i debiti contratti dalle corti con i banchieri dell’epoca per finanziare i propri sfarzi e le proprie guerre, non sembrano affatto superate. Le forme cambiano, ma l’espropriazione resta.

eddyburg i testi apparsi sulla stampa alla data stessa della pubblicazione. A volte la bellezza o l'interesse del testo, se sono sfuggiti nell'immediato alla nostra attenzione li presentiamo lo stesso. Così facciamo perla commemorazione di Pietro Ingrao pronunciata da Alfredo Reichlin. Il manifesto, 1° ottobre 2015

Vor­rei espri­mere il più grande ram­ma­rico per la scom­parsa di Pie­tro Ingrao. Per l’uomo che egli è stato, il grumo di pen­sieri e di affetti anche fami­liari che ha rap­pre­sen­tato, ma soprat­tutto per il segno così pro­fondo e tut­tora aperto e vivo che egli ha lasciato nella vita italiana.

«È morto il capo della sini­stra comu­ni­sta», così, con que­sto flash, la Tv dava dome­nica pome­rig­gio la noti­zia. In que­sta estrema sem­pli­fi­ca­zione e nei com­menti di que­sti giorni io ho visto qual­cosa che fa riflettere.

Vuol dire che dopo­tutto que­sto paese ha una sto­ria. Non è solo una con­fusa som­ma­to­ria di indi­vi­dui che si distin­guono tra loro solo per i modi di vivere e di con­su­mare. Ha una grande sto­ria di idee, di lotte e di pas­sioni, di comu­nità, e di per­sone, anche se que­sta sto­ria noi non l’abbiamo saputa custodire.

Perché volevamo la luna? Oppure perché non l’abbiamo voluta abbastanza?

Non lo so. So però che adesso siamo giunti a un pas­sag­gio molto dif­fi­cile e incerto della nostra sto­ria. E che la gente è con­fusa e torna a porsi grandi domande e ad espri­mere un biso­gno insop­pri­mi­bile di nuovi biso­gni e signi­fi­cati della vita.

Si affac­cia sulla scena una nuova uma­nità. E io credo sia que­sta la ragione per cui la morte di Pie­tro Ingrao (un uomo che taceva da quasi 20 anni) ha così col­pito l’opinione pubblica.

Per­ché era di sini­stra? Di que­sta antica parola si sono persi molti signi­fi­cati. E tut­tora non quello fon­da­men­tale: la lotta per l’emancipazione del lavoro, il cam­mino di libe­ra­zione dell’uomo dalle paure e dai dogmi; la libertà dal biso­gno e al tempo stesso la assun­zione di respon­sa­bi­lità verso gli altri.

Forse mi sba­glio ma sento rina­scere il biso­gno di uomini che pen­sano e guar­dano lon­tano, che dicono la verità, che non sono dei rom­pi­sca­tole, che cer­ta­mente si ren­dono conto che il vec­chio non può più ma vedono anche luci­da­mente che il nuovo non c’è ancora. E che per­ciò si inter­ro­gano su come riem­pire que­sto vuoto molto peri­co­loso, il lace­rarsi del tes­suto che tiene insieme popoli e Stati.

Pie­tro Ingrao non ci ha dato ovvia­mente la rispo­sta a que­sti que­siti ma ci ha detto una cosa fon­da­men­tale: che la poli­tica non si può ridurre a mer­cato o a lotte di potere tra le per­sone. Che ad essa biso­gna dare una nuova dimen­sione, anche etica e culturale.

Que­sta è la lezione di Pie­tro Ingrao. Una lezione che resta, e anzi appare più che mai neces­sa­ria. E’ la risco­perta della poli­tica non come mito e oriz­zonte irrag­giun­gi­bile ma come con­sa­pe­vo­lezza della pro­pria vita.

La più grande pas­sione laica: la costru­zione di una nuova sog­get­ti­vità, e quindi di uno sguardo più pro­fondo attra­verso il quale leg­gere le cose, la realtà. E quindi agire. Per assu­mere il com­pito che la vicenda sto­rica reale pone davanti a noi.

Tutti par­lano di Ingrao come l’uomo del dub­bio. Lo farò anch’io. Ma prima di tutto Pie­tro, per me, è stato que­sto: la fusione tra poli­tica e vita, la poli­tica come sto­ria in atto. Noi vole­vamo la luna? In effetti di parole troppo grosse come rivo­lu­zione non si par­lava mai. Si par­lava molto però, e con enorme pas­sione, della lotta per cam­biare il tes­suto pro­fondo, anche cul­tu­rale e morale, del paese. L’idea di un avvento delle classi lavo­ra­trici al potere per una pro­pria strada.

L’essenziale era par­tire dagli ultimi, come ren­derli pro­ta­go­ni­sti e come dar vita a nuove strut­ture sin­da­cali, poli­ti­che, cul­tu­rali, coo­pe­ra­tive. Come non lasciare gli uomini soli di fronte alla potenza del denaro.

Que­sta fu la nostra grande pas­sione. Immer­gersi nell’Italia vera, ade­rire a «tutte le pie­ghe della società». E que­sta pas­sione io non l’ho vista in nes­suno così assil­lante come Pie­tro Ingrao. Fu Pie­tro Ingrao, una mente libera, coc­ciuta e asse­tata di cono­scenza. È tutto qui il famoso uomo del dub­bio. Non era uno scet­tico: voleva capire. Non era un inge­nuo, sapeva lot­tare e col­pire (diri­geva dopo­tutto un grande gior­nale popo­lare che era un’arma for­mi­da­bile) ma sapeva che per vin­cere biso­gna prima di tutto capire quel tanto di verità che c’è sem­pre, in fondo, e in qual­che misura, nel tuo avver­sa­rio. Insomma, l’egemonia.

Ingrao l’uomo giusto.

Credo che que­sto spie­ghi il para­dosso per cui colui che le dice­rie con­si­de­ra­vano il del­fino di Togliatti è lo stesso che comin­cia a sen­tire l’insufficienza della grande let­tura togliat­tiana dell’Italia come paese arre­trato in cui il com­pito sto­rico dei comu­ni­sti era risol­vere le grandi «que­stioni» sto­ri­che: il Mez­zo­giorno, la que­stione agra­ria, il rap­porto col Vaticano.

Que­sta let­tura, nell’insieme, non riu­sciva più a dare conto delle tra­sfor­ma­zioni che comin­cia­vano a cam­biare radi­cal­mente il volto dell’Italia: il pas­sag­gio da paese agri­colo a paese indu­striale, una biblica emi­gra­zione che svuo­tava le cam­pa­gne del Sud, l’avvento dei con­sumi di massa, la rivo­lu­zione dei costumi.

Poi ci furono molte altre vicende e anche rot­ture. Le nostre strade si diva­ri­ca­rono. Fummo tutti tra­volti dalla con­trad­di­zione lace­rante tra la potenza cre­scente dell’economia che si mon­dia­liz­zava e con i mer­cati senza regole che gover­nano le ric­chezze del mondo e il potere della poli­tica che non rie­sce a darsi nuovi stru­menti sovranazionali.

Ma que­sta è mate­ria ormai degli sto­rici. È la mon­dia­liz­za­zione, il ter­reno nuovo su cui se fosse ancora tra noi Pie­tro Ingrao ci invi­te­rebbe a scendere.

Una cosa è certa. Abbiamo biso­gno di nuovi dubbi e di nuove ana­lisi. Abbiamo biso­gno di nuovi gio­vani come Ingrao. Sono le cro­na­che delle tra­ge­die dispe­rate dei migranti le quali ci dicono che si sta for­mando una nuova umanità.

Abbrac­cio i figli, la sorella, i nipoti e i pro­ni­poti del mio vec­chio amico, che da sta­sera ripo­serà in pace nella sua Lenola.

LA GUERRA è questa: disumana. Assistiamo al collasso di tutte quelle retoriche che ancora dicono che l’uso della forza potrà ristabilire l’ordine. L’attacco all’ospedale di Medici senza frontiere è solo l’ultimo di una serie di eventi inutilmente tragici di cui siamo testimoni». Lo scrittore pachistano Mohsin Hamid, autore del bestseller Il fondamentalista riluttante , è uno dei più lucidi intellettuali del suo paese. «Non ci sono combattenti buoni e cattivi. Gli orrori accadono di continuo da entrambe le parti».

Gli orrori accadono. Ma qui si è trattato, nella migliore delle ipotesi, di un gravissimo errore. ..

«In un luogo dove c’è una situazione di guerra radicata come l’Afghanistan, la verità è molto difficile da dedurre: perché ce ne sono molte. Ma che si sia trattato di un incidente o di un attacco deliberato, è senz’altro un atto gravissimo».

Il capo delle operazioni militari americane ha detto che l’attacco è avvenuto per fermare i Taliban che sparavano sui militari. Colpire i terroristi vale la morte di così tanti civili?
«Un attacco aereo che distrugge un intero ospedale non è certo una risposta adeguata. Purtroppo non è la prima volta che accade. Il clamore oggi è dato dal fatto che è l’ospedale di una importante organizzazione occidentale di cui io stesso ho molta stima. Ma ci sono stati altri ospedali distrutti durante questa guerra di cui nessuno ha parlato. Altri ”danni collaterali”, altre vittime che finiscono per essere solo statistiche».

Parlare di “danni collaterali” è un modo per dire che la vita di un innocente vale meno di quella di un soldato?

«C’è da stupirsi? È in questo che consistono le guerre. Questo episodio è solo l’ennesimo ripugnante episodio. Certo, in luoghi dove non c’è guerra il concetto di “danni collaterali” sembra impensabile: ma per assicurarsi la morte di un terrorista questo tipo di “danni” sono avvenuti anche in città pachistane che non sono in guerra. Questo attacco ci ricorda che ormai il mondo è diviso in due: chi vive in pace, anche se magari martoriato dalla crisi. E chi vive in guerra un orrore quotidiano che può arrivare da ogni parte».

Cosa intende?
«Nella parte di mondo in guerra, diritto e dignità umana sono ormai stati abbandonati. E per la gente in Afghanistan, ma anche in Siria, in Iraq, i cattivi possono cambiare continuamente: la gente martoriata di volta in volta dagli Stati Uniti, dalla Russia dallo Stato Islamico, dai Taliban dall’esercito locale. Per questo la gente fugge, ci sono milioni di rifugiati alle porte d’Europa: la gente vuol lasciare il mondo della guerra e andare nel mondo della pace. Vuole vivere: andare in luoghi dove non è accettabile bombardare ospedali e uccidere civili».

Medici senza frontiere è un’organizzazione così rispettata per il suo impegno da aver vinto il Nobel per la pace nel 1999. Non è paradossale che a bombardare il suo ospedale sia stato l’esercito che ha come comandante in capo un altro Nobel per la pace, il Presidente Obama?
«I medici e i volontari di Msf e altre organizzazioni simili sono veri eroi. La loro scelta di credere nella vita così tanto da affrontare i rischi di una guerra ci ricorda che ciascuno di noi può fare cose straordinarie. Quanto ad Obama, continuo a credere che abbia un ruolo storico importante. Né credo che questo bombardamento gli sia imputabile, anche se naturalmente condivido il paradosso. Lo ritengo ancora un uomo di buona volontà, quel che ha fatto con Cuba e l’Iran lo dimostra: ma che si trova davanti a un mondo complicato. Una guerra infinita che nessuno vince e non accenna a finire. Dove servirebbero nuove soluzioni».

Il New York Times denuncia il fallimento del programma americano per formare forze afgane affidabili. Cosa non funziona?
«Quella afgana è una società ferita e violenta. I suoi nodi sono profondi e difficili da risolvere. Non è la guerra la soluzione. È una società che avrebbe bisogno di strumenti per maturare: scuole, lavoro. Solo allora, e nel giro di almeno una, due generazioni, cambierà qualcosa. Se invece continui a ritrovarti fra una guerra e l’altra, cerchi solo di capire a quale carro del vincitore è meglio attaccarti per sopravvivere».

Anais Ginori intervista Bernard Kouchner, il fondatore di Medici senza frontiere. Intanto, dichiarazioni dagli Usa e dai governativi afgani rivelano che il bombardamento fu voluto e prolungato.

La Repubblica, 5 ottobre 2015
«Esprimo tutta la mia indignazione. Le condoglianze di Barack Obama sono il minimo, ora bisognerà accertare le responsabilità ». Bernard Kouchner ha aspettato qualche ora prima di commentare i raid americani sull’ospedale di Medici Senza Frontiere in Afghanistan, a Kunduz, in cui sono morte 22 persone, tra cui 12 impiegati dell’ong. «Volevo avere più elementi per farmi un’idea, tanto mi sembrava incredibile» spiega l’ex ministro degli Esteri e fondatore di Msf nel lontano 1971.

L’esercito americano riconosce solo un “danno collaterale”. È sufficiente?
«Gli errori in guerra purtroppo ci sono sempre, tanto più con i bombardamenti aerei. Ma in questo caso è incomprensibile, sono indignato da questa spiegazione. L’ospedale di Msf a Kunduz era segnalato ed esisteva da tempo. Un errore non è possibile, a meno che i piloti non guardassero le carte».

Nonostante l’allerta di Msf, i bombardamenti sono continuati. Era dunque un raid mirato?
«Non so se fosse possibile fermare il raid in diretta. Sarebbe stato necessario risalire la catena di comando. Il problema è chi ha preparato e ordinato quel bombardamento».

Le autorità afgane parlano di Taliban rifugiati nell’ospedale. È plausibile?
«Si tratterebbe di false informazioni diffuse apposta per mettere in pericolo il lavoro di Msf. Sarebbe molto preoccupante sapere che gli americani compiono un bombardamento fidandosi di notizie non verificate, sapendo che coinvolge un obiettivo civile e protetto come un ospedale».

È possibile che ci fossero combattenti Taliban in quell’ospedale?
«Un ospedale è fatto per curare tutti. E Medici Senza Frontiere non ha mai fatto differenze tra feriti di un gruppo combattente piuttosto che l’altro. Se ci fossero a Kunduz feriti Taliban andrebbero curati come nell’ospedale di Msf come tutti gli altri. Per un medico il soccorso è un dovere. E’ un principio morale che non dovrebbe mai essere rimesso in discussione, neppure in guerra».

Rispettare il lavoro e la protezione delle ong in zone di conflitti è diventato più difficile?
«Il personale umanitario lavora in condizioni sempre più pericolose. Non c’è più rispetto per lo statuto delle ong, che è al di sopra delle parti. Oggi la guerra è diventata sempre più feroce e cieca. Ha ragione l’Onu che parla di un crimine di guerra».

La neutralità delle Ong non viene riconosciuta?
» Non si combatte a terra ma dal cielo. I raid hanno molte più probabilità di fare i cosiddetti danni collaterali. Anche Vladimir Putin che ha bombardato a Raqqa per colpire i miliaziani dello Stato islamico potrebbe aver fatto vittime tra i civili. Tutti lo sappiamo. Questo però non giustifica i raid su Kunduz. In questo caso è diverso: è stato colpito un ospedale ».

Obama ha promesso un’inchiesta. Sarà possibile avere la verità sul bombardamento di Kunduz?
«La verità è necessaria per salvare l’onore dell’esercito americano. Il massacro di Kunduz è uno scandalo».

L’esercito americano lascerà l’Afghanistan l’anno prossimo. Cosa accadrà?
«Il mondo occidentale ha perso tutte le guerre degli ultimi anni. E’ inevitabile che Obama attui il ritiro dei soldati, così come ha promesso in campagna elettorale. Abbiamo tentato di aiutare le forze democratiche in Afghanistan ma non ce ne sono molte. E’ così anche in Siria, dove credo alla fine dovremo scendere a patti con Putin e Assad».

«A votare sulla dieta della sanità pubblica, infatti, sono le stesse persone che godono di un sistema di assistenza sanitaria integrativa. Una sorta di “mutua privata”, costosa, efficiente e molto distante dalle esperienze di chi frequenta gli ospedali pubblici». Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Non abbiamo bisogno di dare altre garanzie ai parlamentari, ma di farli diventare sempre più normali». Firmato Matteo Renzi, il 14 febbraio 2013: era ancora rottamatore (e sindaco di Firenze). È passata un po’ di acqua sotto i ponti: il giovane rampante che contestava i privilegi di deputati e senatori si è fatto largo a spallate fino a Palazzo Chigi. Ma i parlamentari, nel frattempo, non sono diventati “più normali” di prima.

Nei giorni in cui lo stesso Renzi, da presidente del Consiglio, annuncia altri due miliardi di tagli al servizio sanitario nazionale, da aggiungere ai 2,3 pattuiti a luglio, può essere utile ricordare quanto sia profonda la differenza tra l’accesso alle cure di un cittadino comune e quello di un onorevole. A votare sulla dieta della sanità pubblica, infatti, sono le stesse persone che godono di un sistema di assistenza sanitaria integrativa. Una sorta di “mutua privata”, costosa, efficiente e molto distante dalle esperienze di chi frequenta gli ospedali pubblici. A scanso di equivoci: il discorso potrebbe essere esteso a diverse categorie professionali che godono dello stesso beneficio, a cominciare dai giornalisti. Un privilegio resta un privilegio. Diventa meno sopportabile, però, quando riguarda le persone che decidono le politiche pubbliche.
Cure per tutti: anche conviventi gay
Funziona così: una parte del corposo stipendio dei parlamentari serve a coprire l’iscrizione all’Asi. La quota è proporzionale all’indennità degli onorevoli. È molto alta, quindi: 526,66 euro al mese per i deputati e 540,27 per i senatori. In compenso, il piccolo sacrificio - rispetto alla busta paga, che tra le varie voci è vicina agli 11 mila euro - consente di farsi rimborsare quasi per intero (il 90 per cento) qualsiasi tipo di prestazione, dal ricovero ospedaliero fino alle lenti a contatto. Deputati e senatori sono iscritti d’ufficio al fondo integrativo (per rinunciare devono fare richiesta) e possono estendere la copertura a coniugi, figli e semplici conviventi con un sovrapprezzo di 50 euro al mese.
La legge sulle unioni civili viene rimandata di continuo, le coppie gay per lo Stato italiano non esistono, ma in Parlamento – e solo in Parlamento – quest’ingiustizia è sanata: dal 2013 gli onorevoli omosessuali possono mettere al riparo i propri compagni dalle incertezze della sanità pubblica. Il fondo riguarda anche e soprattutto gli ex parlamentari: quelli cessati dal mandato (insieme ai familiari), fanno come al solito la parte del leone. Oltre a loro, la sanità integrativa spetta a giudici della Corte costituzionale, giudici emeriti e famiglie a carico.
A differenza dei costi delle prestazioni sanitarie, che continuano a crescere, la quota associativa è la stessa da quasi 10 anni, come si legge nel rendiconto della Camera per l’anno 2014: “Il calcolo delle quote di contribuzione è basato sulla misura dell’indennità parlamentare vigente nell’anno 2006 e non più aggiornato”. I rimborsi, nel 2014, sono costati 11 milioni e 150 mila euro per la Camera e 6 milioni e 100 mila euro per il Senato. In tutto fanno oltre 17 milioni di euro di prestazioni sanitarie in un solo anno, da dividere per circa 5.600 iscritti, tra parlamentari ed ex. Le casse delle Asi, in ogni caso, sono in equilibrio: le quote versate coprono i costi per intero.
L’assistenza integrativa copre davvero qualsiasi tipo di intervento medico: ricovero, parto, prestazioni odontoiatriche, protesi e apparecchiature, accertamenti diagnostici, sedute psicoterapeutiche e persino cure termali (che però, almeno, sono rimborsate solo a chi soffre di cardiopatia o ha subito lesioni fisiche o cerebrali).
Gesso, lenti, elettroshock
Il tariffario è completo Ogni voce ha una tariffa rimborsabile: occhiali da vista e lenti a contatto arrivano fino a 350 euro l’anno, per l’impianto di un dente si ha diritto a 387,34 euro, per l’“ablazione del tartaro” fino a 51,65. Il deputato che non chiude occhio può farsi rimborsare una “cura del sonno” da 516 euro e addirittura l’“elettroshock con narcosi”, fino a 154 euro. Per farsi togliere il gesso, si possono riavere indietro 51,65 euro. Le spese per le cure, oltre ad essere rimborsate, a fine anno possono essere portate in detrazione sui redditi.
La sanità degli onorevoli, insomma, non è gratis, ma conviene. Ed è privata. Lo stato di quella pubblica, invece, è ben descritto nell’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva (2014): “Le ultime manovre economiche hanno portato a: ridimensionamento degli attuali livelli di finanziamento dell’assistenza sanitaria; introduzione di ulteriori ticket; tagli drastici nei trasferimenti alle Regioni ed alle municipalità dei fondi sulla disabilità, l’infanzia, gli immigrati (...). La diminuzione dell’offerta pubblica obbliga il cittadino a scegliere tra due opzioni: rivolgere la domanda di assistenza insoddisfatta al settore privato o attendere un tempo più lungo per la prestazione nel settore pubblico, accettando il rischio implicito di peggioramento delle proprie condizioni di salute ”.
L’impoverimento, insomma, induce a non curarsi, curarsi tardi o curarsi male. Ma chi fa le leggi può continuare ad ignorarlo.

«Non si pestano i piedi, in attesa di definire la miglior transizione politica per entrambi. A sentirli parlare, Assad è intoccabile per Putin ed è il primo degli ostacoli per Obama. Alla fine si troverà un accordo che non minacci gli interessi delle due super potenze». Il manifesto, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)
Quarto giorno di bombardamenti russi in Siria: nel mirino c’è Raqqa, la «capitale» dell’autoproclamato califfato. Secondo il Ministero della Difesa russo, ieri sono state colpite 9 postazioni dello Stato Islamico intorno alla città e sarebbero stati distrutti depositi di carburante e munizioni e equipaggiamento militare. In 72 ore, fa sapere Mosca, oltre 60 bombardamenti hanno significativamente ridotto il potenziale militare degli islamisti e provocato «il panico, costringendo 600 miliziani stranieri a disertare e cercare di fuggire in Europa».
«Nessuna bomba contro infrastrutture civili e edifici che avrebbero potuto contenere civili», ha commentato il Ministero della Difesa russo in risposta alla pioggia di critiche e polemiche del fronte occidentale. Che ha dato una versione diversa: in un comunicato congiunto Stati uniti, Gran Bretagna, Turchia, Francia, Germania, Arabia saudita e Qatar hanno accusato Mosca di aver avuto come obiettivo non i miliziani di al-Baghdadi ma le opposizioni moderate al presidente Assad. E la popolazione civile: il segretario alla Difesa britannico Fallon ha affermato, dati dell’intelligence di Londra alla mano, che solo il 5% dei raid ha centrato postazioni Isis, il resto avrebbe colpito l’Esercito Libero Siriano e i civili.
Il fronte anti-Assad cerca di screditare l’operazione militare russa: mai, in un anno di azioni da parte della coalizione guidata dagli Usa, si era voluto calcolare quanti siriani fossero rimasti uccisi nei bombardamenti aerei (quegli stessi civili che quando a piovere sono bombe considerate «legittime» vengono classificati come meri «danni collaterali»). Ora è una priorità, condivisa anche dalle opposizioni siriane a Damasco: secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, almeno 39 civili tra cui 8 donne e 8 bambini sono morti a causa di Mosca negli ultimi 4 giorni, tra Aleppo, Idlib, Hama e Raqqa.
Interviene anche al-Jazeera, media qatariota che un ruolo centrale ha avuto nel manovrare a livello mediatico le primavere arabe e la guerra civile siriana. Ieri riportava di raid russi al confine con la Turchia, contro un ospedale. Nessuna vittima. A corredo dell’articolo una foto che mostrava del fumo alzarsi da un luogo non ben precisato tra le colline. Un’altra immagine (nella foto), invece, raccontava un’altra storia: un raid russo al confine tra Siria e Turchia ci sarebbe stato ma con un target diverso. La notizia e l’immagine sono state pubblicate da Iraqi News e Press Iraq: un lungo convoglio di autocisterne sarebbe stato colpito mentre viaggiava dalla Siria alla Turchia. Trasportava petrolio di contrabbando venduto dall’Isis fuori dal paese, tra le principali fonti di finanziamento del gruppo.
Se la notizia venisse confermata, ancora una volta nell’occhio del ciclone finirebbe Ankara, da tempo accusata di sostenere palesemente il califfato, garantendogli libertà di movimento e acquistando sotto banco greggio. In tale contesto di accuse e smentite si gioca il braccio di ferro tra Washington e Mosca: la Casa bianca accusa il Cremlino di operare senza coordinarsi con la coalizione, il Cremlino risponde di averla avvertita. Ma al di là dei battibecchi ripetuti ed evidenti, sul campo la situazione appare diversa: mentre la Russia bombarda le postazioni Isis nei governatorati dove Assad mantiene parzialmente il controllo, gli Stati uniti proseguono nel colpire le aree del tutto occupate dal Califfato.
Il nemico, di fatto, è lo stesso anche se Obama ieri ha ripetuto che il sostegno alle opposizioni moderate non cesserà. Venerdì il presidente Usa definiva l’intervento russo «la ricetta per il disastro» perché Mosca «non distingue tra Isis e opposizioni sunnite moderate». Come se la ricetta finora adottata da Washington e dagli alleati del Golfo fosse vincente: prima hanno investito su gruppi islamisti radicali per far cadere il presidente Assad, poi hanno tentato di mettere una pezza lanciando un’operazione aerea poco efficace (a cui l’Isis si è presto adattato) e foraggiando ribelli incapaci di combattere.
Questa è la realtà e Obama, che non è stupido, lo sa. Venerdì ha detto che la Siria non trascinerà gli Stati uniti in uno scontro militare con la Russia. E se a parole l’attacca, poi manda il segretario di Stato Kerry a definire i «dettagli» della cooperazione militare in Siria con il ministro degli Esteri russo Lavrov. Sul campo la cooperazione c’è già: i russi bombardano dove non lo fanno gli statunitensi. Non si pestano i piedi, in attesa di definire la miglior transizione politica per entrambi. A sentirli parlare, Assad è intoccabile per Putin ed è il primo degli ostacoli per Obama. Alla fine si troverà un accordo che non minacci gli interessi delle due super potenze: Mosca vuole un accesso sul Mediterraneo e influenza sulla regione; Washington mantenere il controllo delle alleanze energetiche e militari, senza scontentare Israele e Arabia saudita.
«Aumen­tano i deserti chia­mati pace e la dispe­ra­zione umana che fugge senza meta verso un imma­gi­na­rio Occi­dente, ricco ma cru­dele e respon­sa­bile delle tra­ge­die in corso»

. Articoli di Tommaso di Francesco ed Emanuele Giordano, e una dichiarazione di Gino Strada. Il manifesto, 15 ottobre 2015



DIFETTO COLLATERALE
di Tommaso di Francesco

«Scu­sate tanto, è stato un errore», così i comandi dell’aviazione Usa e Nato si sono rivolti all’opinione pub­blica afghana e inter­na­zio­nale e all’organizzazione Medici Senza Fron­tiere, dopo che i «nostri» cac­cia­bom­bar­dieri, della nostra coa­li­zione dei buoni, ha col­pito ieri una, due tre volte l’ospedale di Kun­duz che tutti cono­scono, visi­bile da chi­lo­me­tri e nelle mappe di ogni ammi­ni­stra­zione civile o mili­tare. Assas­si­nati 12 medici e 7 pazienti, anche bam­bini tra le vittime.

È la guerra afghana che dura più di quella del Viet­nam, giu­sti­fi­cata per ven­di­care l’11 set­tem­bre con decine di migliaia di vit­time e nella quale gli effetti col­la­te­rali, vale dire le vit­time civili dei raid aerei, sono stati un ele­mento strut­tu­rale del ter­rore «neces­sa­rio» dei bom­bar­da­menti aerei. Con risul­tati poli­tici deter­mi­nanti, come la dele­git­ti­ma­zione dell’alleato pre­si­dente Hamid Kar­zai, poi uscito di scena, che, dopo stragi con cen­ti­naia di morti e le pro­te­ste popo­lari sulle quali è cre­sciuto il ruolo dei tale­bani, si era sca­gliato con­tro il Pen­ta­gono, cioè l’ufficiale paga­tore che lo teneva al potere.

Torna il para­digma della guerra mai con­clusa. Un obiet­tivo della destra ame­ri­cana neo­con che appare più che rea­liz­zato. Il mondo torna a slab­brarsi lì dove «ci stiamo riti­rando, la pace è fatta».

C’è la Siria al cen­tro, no torna l’Afghanistan e di Iraq meglio tacere, com’è meglio oscu­rare lo smacco in primo luogo ita­liano in Libia. Aumen­tano i deserti chia­mati pace e la dispe­ra­zione umana che fugge senza meta verso un imma­gi­na­rio Occi­dente, ricco ma cru­dele e respon­sa­bile delle tra­ge­die in corso.

È così, gli «effetti col­la­te­rali» afghani river­be­rano sul pre­sente della crisi in Siria l’intero spec­chio delle stragi com­messe dall’alto di migliaia di piedi, dal cielo — è l’eroismo dei top gun, quello di non scen­dere sul campo con gli sti­vali dopo la pro­pa­ganda nega­tiva delle bare di rien­tro dei mili­tari occi­den­tali. Ma come si fa a rac­con­tare ancora la favola degli errori o meglio degli «effetti collaterali»?

Se per col­pire ipo­te­tici ter­ro­ri­sti — così ora «giu­sti­fica» l’alleato il governo di Kabul -– si bom­barda den­tro una città intera con mis­sili Cruise e mici­diali Clu­ster bomb? Ora Kun­duz resterà come una mac­chia, ancora impu­nita, sulla fedina sporca del mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio, l’ideologia bel­li­ci­sta che domina l’Occidente demo­cra­tico. Con in più sta­volta l’evidenza di avere fatto strage dell’umanitario vero che legit­ti­ma­mente opera sul campo, come Medici Senza Fron­tiere o come è già acca­duto per Emergency.

Il fatto è che la guerra e le armi invece dell’effetto appa­iono sem­pre più come il difetto col­la­te­rale e nasco­sto di un Occi­dente impe­gnato nei dik­tat eco­no­mici per la gover­vance glo­bale del capi­ta­li­smo rimasto.

A domi­nare, per chi vuole vedere, è lo spec­chio delle male­fatte che si rifran­gono una den­tro l’altra. Che impe­di­sce per­fino ad Obama di par­lare sere­na­mente e stra­te­gi­ca­mente della guerra in Siria, ancora rac­con­tata come il campo dei raid nostri «buoni» (che tutt’al più fanno appunto «effetti col­la­te­rali») e quelli cat­tivi, russi (che ucci­dono civili); dove ci sarebbe un ter­ro­ri­smo «com­bat­tente e buono», orga­niz­zato dalla Cia e che quindi non va col­pito, e quello cat­tivo del «nemico» Isis, ormai tar­get comune. Dimen­ti­cando che per entrambi c’è stata la coa­li­zione degli «Amici della Siria» che gra­zie ai fondi dell’Arabia sau­dita e delle petro­mo­nar­chie del Golfo, ha acceso il fuoco di quel con­flitto da almeno tre anni. E infatti Obama non ci rie­sce, non rie­sce ad uscire dal mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio ed è costretto a subire l’intervento russo che — sem­pre san­gui­noso è, non dimen­ti­chia­molo — spa­ri­glia almeno la par­tita e si muove per una solu­zione che non può essere, nem­meno in Siria, mili­tare. E men­tre è all’ordine del giorno la Siria, Obama è costretto a vedere che c’è in casa, negli Stati uniti, un nemico che fa più vit­time del Calif­fato: il ter­ro­ri­smo dome­stico di una guerra civile stri­sciante ame­ri­cana che fa 11mila morti l’anno.

Meglio non vedere que­sto difetto col­la­te­rale allora. E silen­ziare — avete visto un gior­na­lone ancor­ché giu­sti­zia­li­sta che ne parli? — il fatto che da ieri l’Italia, con Spa­gna e Por­to­gallo, sia per un mese il «campo di bat­ta­glia»» delle più grandi mano­vre mili­tari Nato — la stessa dei raid sull’ospedale di Kun­duz — dalla caduta del Muro di Ber­lino. Pronto a nuove avven­ture, distru­zioni e spese mili­tari. Fin­ché c’è guerra c’è speranza.

«La guerra è crudeltà senza regole né rispetto per nessuno e dunque senza regole e rispetto per gli ospedali o per i feriti» È il commento a caldo che Gino Strada, un chirurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il manifesto. Ma c’è soprattutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fondatore di Emergency, e il primo italiano ad aver appena vinto per la sua attività umanitaria il Right Livelihood Award del Parlamento svedese (il cosiddetto Nobel alternativo).
«Sì - aggiunge - pura crudeltà: un ospedale viene bombardato dalle forze Nato in Afghanistan. Per errore, certo, come per errore in questi anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà - dice Strada riferendosi al recente caso di Msf a Kunduz - non esistono convenzioni e non esiste diritto umanitario che possa impedire alla guerra di rivelarsi per quello che è: un massacro di civili, donne, bambini, medici e infermieri. Nessuno viene risparmiato. Il bombardamento di un ospedale è l’evidenza stessa della brutalità della guerra».

Quando gli chiediamo se ritenga che il bombardamento dell’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz sia o meno un atto deliberato, risponde così: «Non voglio nemmeno entrare in considerazioni di questo tipo per un fatto che è comunque inaccettabile: se poi si è trattato di un atto deliberato o se invece è stato un errore, se si è trattato di una scelta fatta a tavolino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sbaglio, tutto questo mi sembra totalmente irrilevante quanto inaccettabile. Tutto – conclude – è già nella guerra ed è inutile stupirsi. È inutile svegliarsi improvvisamente per una cosa che è sempre successa, succede e succederà se c’è una guerra. La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire».

GINO STRADA: «CRUDELTÀ SENZA REGOLE NÉ RISPETTO»
di Emanuele Giordano

«La guerra è cru­deltà senza regole né rispetto per nes­suno e dun­que senza regole e rispetto per gli ospe­dali o per i feriti» È il com­mento a caldo che Gino Strada (nella foto), un chi­rurgo che l’Afghanistan ce l’ha nel cuore, affida a il mani­fe­sto.

Ma c’è soprat­tutto il disprezzo per la guerra in sé nel cuore e nelle parole del fon­da­tore di Emer­gency, e il primo ita­liano ad aver appena vinto per la sua atti­vità uma­ni­ta­ria il Right Live­li­hood Award del Par­la­mento sve­dese (il cosid­detto Nobel alternativo).

«Sì – aggiunge — pura cru­deltà: un ospe­dale viene bom­bar­dato dalle forze Nato in Afgha­ni­stan. Per errore, certo, come per errore in que­sti anni sono stati uccisi più di 19 mila civili! In realtà – dice Strada rife­ren­dosi al recente caso di Msf a Kun­duz — non esi­stono con­ven­zioni e non esi­ste diritto uma­ni­ta­rio che possa impe­dire alla guerra di rive­larsi per quello che è: un mas­sa­cro di civili, donne, bam­bini, medici e infer­mieri. Nes­suno viene rispar­miato. Il bom­bar­da­mento di un ospe­dale è l’evidenza stessa della bru­ta­lità della guerra».

Quando gli chie­diamo se ritenga che il bom­bar­da­mento dell’ospedale di Medici senza fron­tiere a Kun­duz sia o meno un atto deli­be­rato, risponde così: «Non voglio nem­meno entrare in con­si­de­ra­zioni di que­sto tipo per un fatto che è comun­que inac­cet­ta­bile: se poi si è trat­tato di un atto deli­be­rato o se invece è stato un errore, se si è trat­tato di una scelta fatta a tavo­lino da un gruppo di idioti o se è invece stato uno sba­glio, tutto que­sto mi sem­bra total­mente irri­le­vante quanto inac­cet­ta­bile. Tutto – con­clude – è già nella guerra ed è inu­tile stu­pirsi. È inu­tile sve­gliarsi improv­vi­sa­mente per una cosa che è sem­pre suc­cessa, suc­cede e suc­ce­derà se c’è una guerra. La guerra non si può uma­niz­zare, si può solo abolire».

Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)

La Fiat non si chiamapiù Fiat. LaChrysler non sichiama più Chrysler. Lehanno fuse eadesso c’èun gruppoautomobilisticotra imaggiorinel mondoche si chiamaFca: Fiat Chrysler Automobiles.È successo il 29gennaio 2014, tra poco sarannodue anni. Ma la notizianon è arrivata nelleredazioni dei grandi giornaliitaliani, a quanto pare.Cosicché i loro lettoripotrebbero non aver capitoche il gruppo guidato daJohn Elkann e SergioMarchionne è coinvoltocome tutti gli altri gigantimondiali dell’auto nelloscandalo detto diesel-gate.

Se i lettori del Fattohanno amici o parenti trai lettori del Corriere dellaSera, della Repubblica odella Stampa faccianoun’opera buona, li informino.Perché ieri il Corriere titolava “Indaginesu altri cinque marchi”,per poi specificare chetrattasi di Bmw,Chrysler, Gm, Land Rovere Mercedes Benz. Anchela Repubblica annuncia“Usa, indagini allargate”,ma tralascia di ricordareche quellaChrysler distrattamentenominata è quella meravigliosaazienda salvatada Marchionne per farneun orgoglio dell’industriaitaliana che si affermaal l’estero. Naturalmentenon si poteva aspettaremaggior precisione giornalisticada parte dellaStampa, che come gli altrimette nel mirino laChrysler, senza ricordareche è un marchio della Fca,ex Fiat, padrona delgiornale.

Per fortuna c’è Il Sole24 Ore che nella foga didare un’informazione economicacompleta inciampanell’imperdonabileerrore. Dopo aver accuratamenteevitato laparola Fca in articoli e titoli,piazza lì la tabelladella auto che sarannocontrollate anche in Italia.E gli scappa il nome diFca che c’è dentro fino alcollo. Anche perché l’elencodei modelli non perdona:Panda, Punto, 500,Giulietta... Ah ecco. Comediceva Totò, questa faccianon mi è nuova.

Intervista a Toni Morrison: «Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano».

La Repubblica, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Lo chiamavano il test della carta del droghiere: chi aveva la pelle più chiara sapeva che avrebbe goduto del “white privilege” - il privilegio bianco. Nei negozi ti avrebbero sorriso e servito prima: i ragazzi ti avrebbero considerato più bella». Nella sua casa di Grand View on Houdson, l’ex rimessa di barche trasformata in un delizioso villino con vista sul fiume, nel cuore di un villaggio di duecento abitanti a mezz’ora di auto da Manhattan, Toni Morrison, ottantaquattro anni e undici romanzi, l’unico Nobel per la letteratura afroamericano, ricorda di quando scoprì per la prima volta il razzismo: dei neri.

L’ha vissuto sulla sua pelle?
«A Lorain, in Ohio, dove sono nata, vivevamo in un quartiere di emigranti. I miei vicini erano messicani, italiani, ungheresi: frequentavamo la stessa chiesa e la stessa scuola, e in comune avevamo anche la povertà. Ma quando negli anni Quaranta andai a studiare a Washington, era ancora una città segregata: gli autobus, i locali, tutto. Frequentavo la Howard University, un’università nera dove pensavo di sentirmi al sicuro: e invece fu proprio lì che scoprii il colorism. C’erano confraternite universitarie che accettavano solo ragazze dalla pelle molto chiara: e facevano questa cosa - il test della carta del droghiere...».
Nella casa di Toni Morrison ogni oggetto racconta una storia. Le statuette africane che incorniciano la scala. Il grande fotoritratto di Timothy Greenfield-Sanders: lei di profilo, i dreadlock grigi in evidenza. Il tavolo da ciabattino regalatole da Oprah Winfrey, usato sul set del film Beloved dal suo primo best seller Amatissima . La scrivania dove fra i libri svetta un piccolo dipinto:
«S’intitola Donna nigeriana . È opera di un artista afroamericano che visse a Parigi, un amico di Picasso che non ebbe la stessa fortuna: probabilmente troppo nero, anche lui. Se solo ricordassi il suo nome...».

“Troppo nero”, magari in base ai canoni del colorism, discriminazione ancor più sottile e crudele perché basata sul tono di colore della pelle. Troviamo queste stesse sfumature in Prima i bambini, l’ultimo romanzo di Morrison in uscita ora in Italia, edito come gli altri da Frassinelli. Si apre con la storia di una donna “nera come la mezzanotte” e rifiutata dai genitori dalla pelle, invece, più chiara. Ha raccontato al New York Times che suo padre odiava i bianchi. Sua madre, al contrario, era aperta con tutti. Lei da chi ha preso?
«Mio padre veniva dalla Georgia e da bambino aveva visto linciare due uomini di colore — persone per bene, negozianti — solo per appropriarsi dei loro beni. Considerava i bianchi “irriscattabili”. Mia madre giudicava le persone una per una. Io sono come lei: non ho mai odiato nessuno. Ma capisco mio padre».
L’America di oggi non è più quella che lei ha scoperto negli anni dell’università. Ma il razzismo è ancora qui.
«Il razzismo è sempre stato qui. È solo più visibile: grazie ai video fatti coi cellulari, ai social media. Prima non c’erano tutti questi mezzi di denuncia. Quando i vicini di mio padre vennero linciati erano i bianchi che andavano a fotografarli per metterli su cartoline da spedire agli amici: era come sparare al leone. Oggi se un ragazzo nero disarmato viene ucciso anche in un paese piccolissimo la sua morte finisce sotto gli occhi di tutti».
Già. Ma cinquant’anni dopo Selma e con un afroamericano alla guida del Paese...
«Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano. E poi l’America è un paese inondato da armi».
Cosa c’entra questo con il razzismo?
«Di cosa crede abbiano paura così tanti possessori di armi? Non a caso i ragazzi neri uccisi dai poliziotti erano tutti disarmati».
Barack Obama ha detto: la mia più grande frustrazione è non essere riuscito a imporre la legge per controllarne la diffusione.
«Ma cosa può fare il presidente da solo? Neanche tutto il suo partito lo segue».
Lei dice: c’è sempre stato. E il nuovo razzismo verso chi viene in cerca di futuro? Qui i messicani nel mirino di Donald Trump, mentre l’Europa non riesce a mettersi d’accordo sui profughi.
«Non ho memoria di nulla di simile, a parte quel che fecero qui ai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale: li rinchiusero nei campi perché nati in un paese considerato nemico. Eppure erano medici, avvocati... L’America dovrebbe essere com’è scritto sotto la statua della Libertà: un paese di immigrati che dà il benvenuto agli stranieri. E invece... Quanto agli europei, vergogna. Soprattutto quelli dell’Est: era appena ieri che bussavano a tutte le porte».
Non sarà stata la crisi globale a fomentare il nuovo disordine?
«È sempre una questione di soldi. Un tempo eravamo tutti cittadini. Poi i cittadini sono diventati consumatori: si comprava qualsiasi cosa. Oggi si parla di contribuenti: siamo quelli che pagano le tasse. Questo porta a non identificarsi più con un senso di comunità. Il discorso diventa: io pago...».
Questo è il suo undicesimo romanzo: il primo ambientato nell’epoca contemporanea. Un modo per ricordare agli intellettuali che in un mondo così complesso bisogna continuare a prendere posizione?
«È la storia di persone che non sono cresciute: non si sono mai liberate dai drammi vissuti da bambini. Sono un po’ lo specchio della letteratura contemporanea: così focalizzata su se stessa. Tutti a descrivere solo la propria finestra sul mondo: mia mamma, il mio fidanzato. Io ho voluto raccontare un percorso di autostima il cui fine è la conoscenza».
Lei è stata più volte definita “la voce della Coscienza americana”. Si riconosce?
«La accetto. E ho voluto dare con tutti i miei libri un messaggio ben preciso: questo è il percorso compiuto dall’America, queste sono le persone sulla cui pelle il Paese è cresciuto e diventato una nazione invidiabile».
Prima i bambini è forse il libro che nei temi riprende più di tutti il suo primo romanzo, L’occhio più blu, pubblicato quarantacinque anni fa, quando lei era ancora e soltanto l’editor di Angela Davis e Muhammad Ali...
«All’epoca, era il 1970, nulla di quello di cui abbiamo appena parlato mi era chiaro. Volevo raccontare la storia di una ragazzina nera che sogna di avere gli occhi di Shirley Temple perché crede a quello che il mondo, dei bianchi ma anche dei neri, dice di lei. Sì, forse i due libri si somigliano. Ma oggi lo sforzo che ci è richiesto è diverso: smettere di sentirsi vittime».
Sull’intero romanzo pesa l’ombra della pedofilia.
«Se ne parla continuamente. Non so se è sempre stato così. Forse oggi le bambine sono ipersessualizzate. O forse attraverso internet si diffonde la pornografia infantile. Ma è qualcosa di dilagante. Mi ha aiutato a rendere la storia più contemporanea».
Nel libro sottolinea come gli errori dei genitori pesino per sempre. Il messaggio è: prendiamoci maggior cura dei bambini perché sono il nostro futuro?
«Non perché sono il futuro: perché sono piccoli esseri umani. Pensi che il titolo che avevo dato io al libro era “L’ira dei bambini”. Ma non piaceva a nessuno. Non all’editore. Non alla pubblicità. Hanno preferito God Help the Child - parafrasando una famosa canzone di Billie Holiday, God Bless the Child, e io li ho lasciati fare. A volte bisogna accettare quel che il mondo ti dice».
Il titolo italiano, “Prima i bambini”, le piace?
«Forse di tutte le traduzioni è il più calzante. Prima i bambini… Peccato che non accada mai. Penso ai miei nipoti che suonano, studiano tante cose. E mi chiedo: non dovrebbero solo giocare? Poi vedo altri bambini che non sono così stimolati e passano la giornata attaccati al cellulare e penso: i miei nipoti non lo fanno. Ma quando io ero bambina si stava fuori a giocare l’intera giornata. Perché vivevamo in una comunità, tutti sapevano dov’eri e che facevi. Oggi siamo tutti spaventati dall’idea di rapimenti e molestie. I genitori sono diventati quello che qui chiamiamo “elicotteri”: iperprotettivi. E se non lo fanno succede come a quella mamma accusata di maltrattamenti perché aveva lasciato i suoi piccoli a girare da soli per Central Park. Così ti chiedi: i bambini sono ancora bambini?».
I protagonisti dei suoi libri hanno sempre nomi affascinanti.
«Gli schiavi non avevano nome: qualsiasi fosse il loro nome dovevano abbandonarlo per quello che sceglieva il padrone. Dare un nome è una responsabilità. E darsi un nome è un atto di orgoglio. Non è un caso che molti musicisti afroamericani hanno scelto soprannomi regali… Count Basie, Duke Ellington. Il Conte. Il Duca».
Anche il nome con cui il mondo la conosce non è quello vero.
«Io mi chiamo Chloe e questo è il nome con cui mi chiamano le persone che amo. Ma solo nella mia famiglia lo pronunciano come si deve. Già a scuola mi chiamavano Cloo , Clori ... Poi, quando a dodici anni mi sono fatta battezzare, ho scelto di chiamarmi Antony: come sant’Antonio da Padova. E qualcuno ha cominciato a usare il diminutivo: Toni. Ma è Chloe che scrive i libri, sa? Quando scrissi il primo avrei voluto firmarlo col mio vero nome, Chloe Wofford. Invece mandai il manoscritto col nome da sposata che usavo allora. Chiamai per farlo cambiare ma era tardi: era già stampato».
Perché proprio Sant’Antonio da Padova?
«Perché è buono con i bambini e perché viaggiò in Nordafrica. L’ho scoperto in una Vita di Santi comprato da Strand, il negozio dei libri usati su Broadway».
Va ancora in chiesa?
«Quando insegnavo a Princeton ci andavo tutti i giorni. Ma prima della messa: quando arrivava il prete andavo via. Oggi il mio rapporto con la Chiesa è saltuario. Anche se questo Papa potrebbe riportarmici: mi piace tanto. E mi piace come sta risolvendo le cose in Vaticano».
Lei ha vinto così tanti premi. Il Pulitzer, il Nobel.
«Mi svegliò una giornalista all’alba per chiedermi che effetto faceva. Riattaccai. Chiamò ancora e io le chiesi come faceva a sapere ciò che io non sapevo ancora: e a quel punto capii che per il fuso il Nobel era stato annunciato quando in America erano le tre di notte. Così quando chiamarono da Stoccolma fui gentile, ringraziai: ma ancora non mi fidavo. Chiesi: “Potete mandarmi un fax?”».
Cosa ricorda della premiazione?
«Nelson Mandela. Che aveva vinto il Nobel per la Pace quello stesso anno: 1993. Per me era un mito e chiesi di incontrarlo. Fissarono l’incontro e fu favoloso. Raccontò storie incredibili, buffe e struggenti sulla sua vita. E poi… Oh, quelli del Nobel sì che sanno come organizzare una festa!».
Il nuovo premio si avvicina e tornano i nomi di tutti gli anni: Philip Roth in testa.
«Quante volte ho chiesto io stessa a quelli del Nobel se quel tale o quell’altro era stato preso in considerazione. Risposta: i nomi più ricorrenti non sono nemmeno mai arrivati sulla lista dei finalisti. E poi non so se oggi è tempo per un americano. Non mi viene in mente nessuno che sia all’altezza. Sa chi lo meriterebbe? L’israeliano Amos Oz».
Lo ha votato?
«Io non voto mai. Troppo complicato: devi compilare un sacco di carte, dare spiegazioni. Ma se votassi sceglierei lui: se lo merita».
Gli Obama la considerano un’amica.
«Quando il presidente mi ha premiata con la “Medaglia per la libertà”, beh, ho provato una sensazione strana: ho il doppio dei suoi anni ma mi sono sentita davanti a un fratello maggiore. Mi sono sentita protetta».
È stata più volte alla Casa Bianca.
«Ci sono stata a cena da poco. Ala privata, otto invitati più gli accompagnatori, io ho portato mio figlio. Michelle gentilissima: “Siamo fra noi: puoi venire anche in blue jeans”. Io che i blue jeans non li ho mai messi in vita mia! Figuriamoci se li metto alla Casa Bianca. Michelle è incredibile. Di più: è lei il vero capo».
Pensa che un giorno scenderà in campo come Hillary Clinton?
«Macché. È troppo intelligente. È competitiva: non c’è dubbio. Ma sa di che stress si tratta. Quando lui decise di tentare la corsa presidenziale lei disse, ok, ti appoggio. Ma una volta sola. Se perdi non se ne parla più».
Lei ha cominciato a scrivere a quarant’anni. Ora ne ha ottantaquattro. Il suo collega Roth ha annunciato di aver smesso di scrivere a causa dell’età. Lei continua. Cosa la spinge?
«Lo so fare bene! E poi scrivere è anche il mio modo per non confrontarmi con quelle cose di cui abbiamo appena parlato: le guerre, il razzismo. Quando scrivo sono io a creare il mio mondo. Creo il mio gioco intellettuale: la lingua è così interessante. Tutto il resto scompare. Non solo. Per un’operazione alla schiena andata male ora sono piuttosto limitata nei movimenti. Cammino a fatica. Nel mio mondo letterario, invece, sono libera: anche fisicamente».
Ha letto il nuovo libro di Harper Lee? Anche lei un’ultraottantenne, ha aspettato più di mezzo secolo per pubblicare il prequel di “Il buio oltre la siepe”.
«No, non ho letto il libro, ho letto le polemiche. E mi sono fatta l’idea che sotto ci sia qualcosa di losco. Strano che il libro sia uscito dopo la morte della sorella: quella che sapeva tutto. E poi anche se Harper Lee è poco più grande di me - come ha fatto a lavorarci? È quasi cieca: non sente. No, non credo che lo leggerò. D’altronde non sono stata una gran fan nemmeno di Il buio oltre la siepe. O meglio: ho amato il film. Ma era Gregory Peck a renderlo splendido!».
Quali scrittori la interessano oggi? Sente di avere un’erede?
«Gli autori che ho amato sono tutti morti. Alice Walker non sta scrivendo nulla. Gli altri, i giovani, li conosco poco. Colson Whitehead è un ottimo scrittore. O almeno lo era: che fine ha fatto? Ecco: Edwidge Danticat - un’haitiana-americana. È lei la mia scelta».
Vuole dire che il romanzo afroamericano ha perso la funzione sociale che lei teorizzò ai suoi esordi?
«Dico che oggi ci sono pochi scrittori perché le energie vanno altrove. Oggi i giovani afroamericani cantano».
Cantano?
«Raccontano così le loro storie. La forza che mettevano nella scrittura ora va nella musica: nel rap. Spesso non capisco cosa dicono ma riconosco l’energia. Mi sono appassionata a Kendrick Lamar, anche se le sue rime sono così veloci che non capivo una parola. Mi è piaciuto così tanto che ho chiesto che mi mandassero i suoi testi. E ora mi piace anche di più».
Anche i libri sono cambiati: sono elettronici.
«Mio figlio mi ha regalato un iPad. Il primo libro che ho letto su tablet è stata una cosa moderna poi diventata film: Gone Girl . Poi ho iniziato un altro libro, Wolf Hall di Hilary Mantel. Ho letto la prima pagina e mi sono detta no, non posso leggere un romanzo storico su uno schermo. Ho preso il libro di carta, e me ne sono appassionata. Ho cercato anche gli altri suoi libri: The assassination of Margaret Thatcher è fantastico. Però no: non sono una grande lettrice elettronica».
Eppure i suoi audiolibri hanno molto successo. Ed è lei stessa a leggerli.
«All’inizio avevano preso un’attrice. Poi mi è capitato di ascoltarne uno per caso: “Ma quello non è il mio libro! È tutto sbagliato. Il passo. Il ritmo. Non è la mia storia”. Da allora li registro io: anche se è estenuante».
È vero che sta scrivendo le sue memorie?
«Le voleva il mio agente. Ci ho anche provato, ma so tutto di me: mi sono annoiata subito».
Un sorriso. È ora di congedarsi. Fuori piove.
«Dovrebbe vedere quando qui c’è il sole, è una meraviglia. Magari quando avrò finito il mio prossimo libro. Sì, non dovrei dirlo, l’ho già cominciato. Ho scritto quindici pagine. E le assicuro che sono molto buone. Le mie migliori».

«

Ciò di cui più abbiamo biso­gno è pro­durre nuovi punti di vista, non arren­derci al pre­sente, riu­scire ad incri­nare l’unica nar­ra­zione rimasta.

La sini­stra è morta se non rie­sce ad imma­gi­nare il cam­bia­mento, ad inter­pre­tare non solo un gene­rico e dif­fuso males­sere, ma a pro­spet­tare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pen­siero cri­tico ha per­duto la sua radi­ca­lità, schiac­ciata dal peso del pre­sente. I diritti arre­trano, le nostre forze sce­mano. Se siamo giunti sin qui è inu­tile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo inter­pre­tare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è ser­vito a nulla, nulla abbiamo difeso.

Ora, che poco abbiamo da per­dere, dovremmo cer­care di uscire dalla palude, per misu­rarci con le nostre idee e non più solo con la razio­na­lità del reale. Dovremmo ripren­dere seria­mente in con­si­de­ra­zione la distin­zione tra stra­te­gia e tat­tica (la dop­piezza togliat­tiana?). La prima per la rico­stru­zione di una pro­spet­tiva di sini­stra che sap­pia aggre­gare le forze poli­ti­che e i sog­getti sociali neces­sari per il cam­bia­mento futuro; la seconda per resi­stere e per con­tra­stare la poli­tica dominante.

La mia impres­sione è che una grande colpa della sini­stra sia stata quella di non cre­dere in se stessa, nella sua capa­cità di cam­biare. Gran parte di essa (la sini­stra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lot­tare, sod­di­sfatta delle con­qui­ste otte­nute nel corso del Nove­cento, si è limi­tata a gover­nare il pre­sente, cer­cando — ben che fosse — di osta­co­lare gli spi­riti più sel­vaggi, fre­nare gli arre­tra­menti più vistosi. Alla fine, però, ha per­duto se stessa. Rinun­ciando a pro­durre una sua nar­ra­zione, non poteva che venir attratta fatal­mente dal potere costi­tuito, dalla forze dominati.

Una giu­sti­fi­ca­zione è stata data per moti­vare que­sto chiu­dersi nei palazzi della sini­stra di governo, richia­mando una auto­re­vole e tutt’altro che banale tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale ita­liana: l’autonomia della poli­tica come stru­mento per imporre il cam­bia­mento. Se non lo strappo rivo­lu­zio­na­rio, almeno le ragione del pro­gresso si sareb­bero potute affer­mare den­tro le isti­tu­zioni per poi con­qui­stare una società che non sem­pre dà prova di civiltà o di essere in sin­to­nia con i prin­cipi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dun­que che si potesse «costruire» il popolo attra­verso la poli­tica dall’alto, l’intermediazione del lea­der. Lasciamo per­dere la discus­sione teo­rica, che coin­vol­ge­rebbe figure che hanno fatto la sto­ria della sini­stra del nostro paese (da Anto­nio Gram­sci a Mario Tronti) e che oggi tro­vano peral­tro nuove con­so­nanze (Erne­sto Laclau, Chan­tal Mouffe); limi­tia­moci a rile­vare quel che è stato l’effetto sul piano più stret­ta­mente poli­tico. La defi­ni­tiva cesura tra popolo e suoi rap­pre­sen­tanti.

Uno iato che si è sem­pre più esteso e che dimo­stra la mio­pia — il fal­li­mento — della classe diri­gente della sini­stra. Dimen­ti­chi di una vec­chia lezione della sto­ria: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vin­cono gli inte­ressi costi­tuiti. Se non si voleva ricor­dare Peri­cle, sarebbe stato suf­fi­ciente non dimen­ti­care Berlinguer.

Per chi si pro­po­neva di tra­sfor­mare il reale, è stato que­sto l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme pro­mosse dalla sini­stra hanno finito per peg­gio­rare le con­di­zioni del suo popolo, men­tre la crisi eco­no­mica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci pre­vale sulla tutela dei diritti fon­da­men­tali. In Ita­lia, ma non solo.

Il popolo della sini­stra nel frat­tempo s’è sper­duto, guarda altrove o non guarda più da nes­suna parte. È rima­sto solo il lea­der che pensa alla nazione, riflet­tendo su se stesso, sulla pro­pria imma­gine, come allo spec­chio.

Chi, nono­stante tutto, ha con­ser­vato uno spi­rito cri­tico ha pro­vato a rea­gire. Ha otte­nuto impor­tanti suc­cessi (il refe­ren­dum sull’acqua, quello sulle riforme costi­tu­zio­nali), ha com­bat­tuto con intran­si­genza (no Tav), ha matu­rato espe­rienze cul­tu­rali di rot­tura (i beni comuni). Tutte espe­rienze che hanno incon­trato però un limite: tutte hanno sot­to­va­lu­tato la que­stione della neces­sità di una rap­pre­sen­tanza poli­tica. Rima­nendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lon­tane dalla poli­tica isti­tu­zio­nale, le lotte più inno­va­tive e di rot­tura non sono riu­scite a ren­dersi ege­moni, anzi alla lunga hanno mostrato le pro­prie debo­lezze. Le vit­to­rie refe­ren­da­rie sono state pre­sto dimen­ti­cate e non hanno tro­vato un neces­sa­rio seguito isti­tu­zio­nale, le espe­rienze locali sono rima­ste tali e alla fine si con­dan­nano all’esaurimento.

Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movi­menti la que­stione del rap­porto con il «potere» e la neces­sità della media­zione isti­tu­zio­nale delle lotte sociali. Ter­reno sci­vo­loso, non gra­dito a chi nella lotta esau­ri­sce il pro­prio oriz­zonte pole­mico. Anche in que­sto caso si è attinto a piene mani ad una tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale che ha attra­ver­sato l’intera sto­ria della sini­stra, quella più radi­cale e com­bat­tiva. Non sem­pre quella vin­cente. Così, l’autogoverno, la demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, l’esaltazione del comune sono state uni­la­te­ral­mente assunte, senza nulla appren­dere dalle cri­ti­cità che la sto­ria ha evi­den­ziato, sin dalla comune di Parigi.

Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripar­tire ponendo al cen­tro della nostra rifles­sione pro­prio la que­stione dei limiti dell’autonomia della poli­tica e quella della rap­pre­sen­tanza poli­tica. L’autonomia della poli­tica potrebbe essere intesa come capa­cità di pro­get­tare il futuro, distac­can­dosi dall’immediatamente rile­vante, men­tre la rap­pre­sen­tanza poli­tica dovrebbe essere assunta come la neces­sa­ria «misura» di que­sta capa­cità di pro­get­ta­zione entro un con­te­sto istituzionale.

Vediamo di sin­te­tiz­zare con una sola esem­pli­fi­ca­zione un discorso che meri­te­rebbe di essere altri­menti sviluppato.

Pen­siamo — ad esem­pio — alla riforma della costi­tu­zione. Se è vero, come su que­sto gior­nale abbiamo ripe­tuto tante volte, che la revi­sione in corso è espres­sione di un com­ples­sivo dise­gno regres­sivo, che, se appro­vata, ci poterà indie­tro nel tempo, ver­ti­ca­liz­zerà le dina­mi­che poli­ti­che, aprirà a sce­nari non ras­si­cu­ranti, se que­ste sono le nostre con­vin­zioni, come pos­siamo pen­sare che la solu­zione di ogni male sia far eleg­gere i sena­tori anzi­ché farli votare dai Con­si­gli regionali?

E se poi va a finire che il «prin­cipe» con­cede la gra­zia e accetta l’elezione diretta dei sena­tori avremmo per caso un buon Senato e una accet­ta­bile riforma del testo della costi­tu­zione? Ma non scher­ziamo. Avremmo sol­tanto allun­gato la nostra ago­nia e data nuova linfa al lea­der indi­scusso del pen­siero unico e di governo.

Alziamo allora lo sguardo e lot­tiamo per la nostra riforma, accet­tiamo e rilan­ciamo la sfida, mostrando ai finti inno­va­tori il nostro volto «rivo­lu­zio­na­rio». È vero, il bica­me­ra­li­smo per­fetto è da supe­rare, ma per ragioni oppo­ste a quelle che la reto­rica poli­tica domi­nante afferma. Va supe­rato sia per affer­mare la cen­tra­lità del par­la­mento con­tro il domi­nio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rap­pre­sen­tanza poli­tica offesa da un sistema elet­to­rale che ne nega il valore subli­man­dolo nel fetic­cio della gover­na­bi­lità. Che ci si batta allora per una solu­zione che meglio ha espresso nel corso della sto­ria que­sta dop­pia esi­genza: un sistema mono­ca­me­rale affian­cato da una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale per rites­sere le fila della rap­pre­sen­tanza poli­tica strappata.

Sono pro­po­ste fuori dall’agenda poli­tica del momento. E dun­que qual­cuno si potrebbe chie­dere: chi ci ascol­te­rebbe? Ma per­ché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipen­derà da noi.

Se sapremo rac­con­tare una sto­ria per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo con­qui­starla. Potremmo, ad esem­pio, andare al refe­ren­dum costi­tu­zio­nale del pros­simo anno non per difen­dere un par­la­mento in ago­nia, ma per pro­vare a cam­biare lo stato di cose presenti.

Nella Gre­cia antica si distin­gueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vis­suta (bios). Più che chie­derci se c’è vita a sini­stra dovremmo inter­ro­garci su quale vita ci sia a sinistra.

«Il manifesto, 2 aprile 2015


IL REGOLAMENTO DEL PIÙ FORTE
di Andrea Fabozzi

Costituzione. Emendamenti abbattuti a pacchi, voti segreti pericolosi per il governo scansati senza scrupolo. Il presidente Grasso garante della riforma di Renzi. In poche ore la guida del senato è passato da bestia nera del governo a strumento per la marcia trionfale dell’esecutivo

La tra­ci­ma­zione dei sena­tori dal gruppo di Forza Ita­lia a quello ormai sta­bil­mente in mag­gio­ranza di Ver­dini, il nego­ziato con la mino­ranza Pd che ha ridotto il dis­senso interno da una tren­tina di sena­tori a due o tre sono cose che cer­ta­mente aiu­tano. Ma pro­ba­bil­mente non sareb­bero bastate al governo per far appro­vare la legge di revi­sione costi­tu­zio­nale entro il 13 otto­bre, data sulla quale Renzi non tran­sige. Ci voleva una grossa mano da parte del pre­si­dente del senato, quel Pie­tro Grasso con il quale nell’ultimo mese il pre­si­dente del Con­si­glio ha più volte cer­cato lo scon­tro isti­tu­zio­nale, lan­ciando avver­ti­menti e ulti­ma­tum. Evi­den­te­mente andati a segno, per­ché quella mano è arri­vata. Anche più gene­rosa del pas­sato. Grasso ha con­sen­tito qual­siasi strappo al rego­la­mento e ha seguito passo dopo passo il per­corso trac­ciato dai tec­nici di palazzo Chigi e di palazzo Madama per aggi­rare gli osta­coli alzati dalle oppo­si­zioni con­tro un governo che non accetta modi­fi­che alla «sua» riforma costi­tu­zio­nale. Ieri sera, prima dell’ultima inter­pre­ta­zione del rego­la­mento utile ad allon­ta­nare peri­co­lose vota­zioni segrete dal cam­mino dell’articolo 2, il pre­si­dente del senato non si è fatto scru­polo di riu­nirsi a palazzo Madama con la mini­stra Boschi per stu­diare assieme le stra­te­gie d’aula.

E così la riscrit­tura di oltre un terzo della Costi­tu­zione pro­cede spe­dita. Ieri è stato appro­vato l’articolo 1 che sta­bi­li­sce la fun­zioni del senato, gra­zie alla risco­perta della tec­nica dell’emendamento «kil­ler». Grasso lo aveva già con­sen­tito all’inizio dell’anno sulla legge elet­to­rale, allora reg­geva ancora il «patto del Naza­reno» e l’emendamento Espo­sito servì a pie­gare la mino­ranza Pd. Ieri l’emendamento Cocian­cich ha scan­sato il rischio di vota­zioni segrete. Il pro­dotto finale è un lungo testo di 30 righe in gran parte mai discusso né in aula né in com­mis­sione, e mai nean­che difeso dalla mag­gio­ranza cui inte­res­sava solo votarlo prima di tutti gli altri emen­da­menti. Sarà il nuovo arti­colo 55 della Costi­tu­zione ita­liana che oggi è quello scritto da Costan­tino Mor­tati in due commi e cin­que righe in tutto.

Così sono stati abbat­tuti emen­da­menti a pac­chi e la ten­sione in aula ha con­ti­nuato a salire per tutta la gior­nata, tra le pole­mi­che per il soste­gno dei «tran­sfu­ghi» e gli attac­chi dei 5 Stelle al pre­si­dente. Che, impas­si­bile, ha con­ti­nuato a rispon­dere di no a ogni richie­sta delle oppo­si­zione. La riforma della Costi­tu­zione ha preso così le forme già viste di un asse­dio della mino­ranza al for­tino (sem­pre più largo) della mag­gio­ranza, tanto rumo­roso quanto vano. Impos­si­bile ogni discus­sione nel merito di modi­fi­che impor­tan­tis­sime, ma la respon­sa­bi­lità va divisa tra l’esecutivo che ha escluso ogni aper­tura reale e la guida dell’assemblea che ha dimo­strato di saper tute­lare solo gli inte­ressi del governo. Intro­du­cendo, come se non bastasse, pre­ce­denti assai peri­co­losi. Sia il voto sull’emendamento Cocian­cich che quello sul com­plesso dell’articolo 1 hanno testi­mo­niato il buon lavoro fatto da Ver­dini e dal sot­to­se­gre­ta­rio Lotti: il governo è rima­sto sem­pre sopra la soglia della mag­gio­ranza asso­luta. E non è esatto dire che i voti degli ultimi arri­vati sono solo «aggiun­tivi», come si con­sola la mino­ranza Pd ricon­dotta all’ordine, visto che nel suc­ces­sivo pas­sag­gio ser­virà pro­prio la mag­gio­ranza asso­luta per lan­ciare la riforma verso il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo. Non ha torto Sel quando, anti­ci­pando uno slo­gan refe­ren­da­rio, attacca «la Costi­tu­zione di Renzi e Verdini».

Anche per­ché non è affatto finita, nella pros­sima set­ti­mana dovranno arri­vare altre for­za­ture. Già ieri sera Grasso ha tro­vato il modo di affos­sare cin­que voti segreti che aveva pre­ce­den­te­mente dichia­rato di voler acco­gliere. Sull’articolo 2 è ormai noto che la pre­si­denza ha ammesso solo emen­da­menti al comma 5, ma tanto la sena­trice De Petris di Sel quanto il leghi­sta Can­diani ave­vano tro­vato il modo di infi­lare in quel punto il ritorno all’elezione diretta dei sena­tori e anche il voto segreto. Gli emen­da­menti diven­ta­vano così assai peri­co­losi per la tenuta del governo. Ma Grasso si è messo di tra­verso con un’interpretazione ancora una volta spe­ri­co­lata del rego­la­mento. Oggi si vota sull’articolo 2.

Il pre­si­dente del Con­si­glio può dun­que far tra­pe­lare la sua grande tran­quil­lità. Ma nel Pd manca ancora l’accordo su due punti: l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica e la norma tran­si­to­ria (arti­colo 39) che affida ancora ai con­si­glieri regio­nali la scelta esclu­siva dei sena­tori (con buona pace del recu­pero della «volontà dei cit­ta­dini»). Sul primo punto si è par­lato di un pos­si­bile nuovo emen­da­mento kil­ler, sem­pre di Cocian­cich, ma la pro­po­sta in realtà è assai più impe­gna­tiva e intro­dur­rebbe un sistema di can­di­da­ture uffi­ciali per il Qui­ri­nale. Il governo è stato costretto a dissociarsi.

I VOTI CI SONO, VERDINI PURE.
TRA FISCHI E BANCONOTE AL VENTO
di Andrea Colombo
I sì alla riforma I sì sempre tra i 171 e 172, come previsto dall’ex berlusconiano D’Anna. E al momento dell’approvazione finale saranno molti di più, secondo qualcuno arriveranno addirittura a sfiorare i 190

«Que­sta è la riforma della Costi­tu­zione Renzi-Verdini»: Peppe De Cri­sto­faro, Sel, rigira il col­tello nell’unica ferita che deturpa la vit­to­ria piena del pre­mier. Non è finita. Ci saranno altri momenti incan­de­scenti, nuovi pas­saggi a rischio. Il più peri­co­loso sarà sull’articolo 21: mate­ria del con­ten­dere le moda­lità di ele­zione del capo dello Stato. Ma si può scom­met­tere che si ripe­terà la sce­neg­giata degli ultimi due giorni. Roberto Cocian­cich, il pre­si­dente degli scout cat­to­lici che come hobby fal­ci­dia voti segreti, ha già pre­sen­tato l’apposito «can­guro». Renzi la spun­terà ancora su tutti i fronti.

I voti a favore sono stati sem­pre tra i 171 e 172, esat­ta­mente come pre­vi­sto dall’ex ber­lu­sco­niano con­qui­stato da Ver­dini Vin­cenzo D’Anna. Non sono pochi: sor­pas­sano di una decina e passa la mag­gio­ranza asso­luta e offrono la prova pro­vata che la riforma sarebbe pas­sata anche senza la resa della mino­ranza Pd. Però gli esperti scom­met­tono che al momento del voto finale i sì saranno molti di più, secondo qual­cuno arri­ve­ranno addi­rit­tura a sfio­rare i 190. Un po’ perché non ci saranno le assenze degli ultimi giorni, un po’ per­ché l’arrembaggio al carro del vin­ci­tore, anzi al taxi gui­dato da Ver­dini che verso quel carro tra­ghetta i pro­fu­ghi della destra, è in pieno svolgimento.

I dis­sensi nel Pd non sono andati oltre quei tre voti ampia­mente pre­ven­ti­vati: Felice Cas­son, Cor­ra­dino Mineo e Wal­ter Tocci. Nell’Ncd, nono­stante gli sfra­celli minac­ciati, nem­meno quelli. Nes­sun voto con­tra­rio, tutt’al più qual­che assenza stra­te­gica desti­nata pro­ba­bil­mente a rien­trare nel voto finale.

Cilie­gina pre­li­bata sulla torta di don Mat­teo, la resa incon­di­zio­nata e totale del pre­si­dente del Senato. Arri­vato alla stretta deci­siva, con le debite pres­sioni eser­ci­tate sino all’ultimo secondo dalla mini­stra Boschi, Piero Grasso ha abban­do­nato ogni resi­stenza, senza curarsi più nep­pure di sal­vare le appa­renze, e ha lasciato mani total­mente libere alla mag­gio­ranza e al governo. Cocian­cich, l’uomo-canguro, giura di essersi scritto da solo gli emen­da­menti kil­ler, ma in aula sia Lore­dana De Petris, Sel, che Mau­ri­zio Gasparri, Forza Ita­lia, hanno detto aper­ta­mente quello che tutti i sena­tori si ripe­te­vano nei cor­ri­doi, cioè che die­tro non que­gli emen­da­menti ma die­tro l’intera stra­te­gia della mag­gio­ranza in aula ci sono diret­ta­mente i fun­zio­nari del Senato. E se la vox populi, come spesso capita, ci piglia, il fatto non sarebbe certo pos­si­bile senza l’assenso del pre­si­dente di palazzo Madama.

Resta appunto solo una ferita aperta: il ruolo deter­mi­nante di Denis Ver­dini e della sua truppa mer­ce­na­ria. Certo, il voto sulla riforma non com­porta l’appartenenza a una mag­gio­ranza, però quando ieri il capo­gruppo Barani ha annun­ciato il voto a favore con­fer­mando tut­ta­via che «noi restiamo all’opposizione», gli ex com­pa­gni azzurri si sono sca­te­nati in una gara di fischi, i leghi­sti hanno sven­to­lato ban­co­note, i pen­ta­stel­lati hanno rumo­ro­sa­mente segna­lato al Pd, mino­ranza inclusa, quali sono i nuovi com­pa­gni di strada. Ma gli stessi sena­tori di Renzi, pur sfor­zan­dosi di restare seri, sape­vano per­fet­ta­mente che si trat­tava di una barzelletta.

Certo, il voto di Ver­dini non è stato sinora e non sarà in futuro deter­mi­nante. Però senza quei voti, senza la garan­zia che la riforma sarebbe stata comun­que appro­vata gra­zie agli ascari del fio­ren­tino, la rotta della mino­ranza Pd non ci sarebbe stata, o almeno sarebbe stata meno totale e sgan­ghe­rata. La cam­biale arri­verà ine­so­ra­bil­mente a sca­denza, e si som­merà alla neces­sità di offrire una zat­tera ai nau­fra­ghi dell’Ncd. In Par­la­mento quei rin­forzi sono pre­ziosi, fuori dal palazzo potreb­bero rive­larsi esi­ziali. Secondo un già cele­bre son­dag­gio della Ghi­sleri, che ieri a palazzo Madama era sulla bocca di tutti, l’alleanza con Ver­dini e Alfano coste­rebbe al Pd addi­rit­tura il 7% dei con­sensi, facen­dolo pre­ci­pi­tare al 25%. Certo, quel son­dag­gio è in qual­che misura dro­gato. Parla di «par­tito della nazione», mette Renzi e Ver­dini quasi sullo stesso piano. I risul­tati, di con­se­guenza sono pro­ba­bil­mente esa­ge­rati. Ma, anche se in dimen­sioni meno rovi­nose, il patto col dia­volo che il pre­mier ha scelto di fir­mare per garan­tirsi la vit­to­ria rischia comun­que di costare parec­chio in ter­mini di voti.

Qual­che prezzo dovrebbe pagarlo anche per aver modi­fi­cato la Costi­tu­zione con i truc­chi e i carri armati, a colpi di can­gu­ra­menti più o meno super, di vio­la­zioni del rego­la­mento con­sen­tite senza pudore da Piero Grasso, di aggi­ra­menti sfac­ciati di ogni voto anche solo poten­zial­mente minac­cioso. Ma con un sistema media­tico genu­flesso o inti­mi­dito e con l’alibi incau­ta­mente offerto da Cal­de­roli e dai suoi milioni e milioni di emen­da­menti, su quel fronte Renzi è certo di riu­scire a evi­tare ogni ritorno d’immagine dan­noso. Ma nascon­dere Ver­dini, Alfano e tutti gli altri, quello è un altro paio di maniche.

IL PRECEDENTE PERICOLOSO
di Massimo Villone

Ave­vamo la Costi­tu­zione di De Gasperi, Togliatti, Nenni, Mor­tati, Cala­man­drei, Perassi e altri, a molti di noi cari. Una Costi­tu­zione che ha retto bene il paese per decenni, anche in momenti bui. Abbiamo da oggi la Costi­tu­zione di Renzi, Boschi e Cocian­cich. Ogni tempo ha gli eroi che si merita.

Quando fu pre­sen­tato per l’Italicum il noto emen­da­mento Espo­sito, fu chiaro che si poneva un pre­ce­dente peri­co­loso, tale da poter stron­care non solo l’ostruzionismo, ma qual­siasi dibat­tito o con­fronto par­la­men­tare. Rias­su­mere un det­tato nor­ma­tivo in un emen­da­mento da ante­porre e da votare prima degli altri ha infatti la con­se­guenza, secondo una let­tura nota­rile dei rego­la­menti, di far cadere ogni altro emen­da­mento per­ché l’Aula ha ormai deciso. Scrissi allora su que­ste pagine che il pre­si­dente avrebbe dovuto dichia­rare l’emendamento Espo­sito inam­mis­si­bile, per carenza di con­te­nuto nor­ma­tivo. Fece diversamente.

Vicenda simile abbiamo ora con l’emendamento Cocian­chic (1.203). Non importa chi l’abbia scritto. Cal­de­roli ha rife­rito in Aula voci per cui Cocian­cich «avrebbe detto a più per­sone che igno­rava il con­te­nuto ovvero la por­tata del suo emendamento».

Non sap­piamo se sia vero. Comun­que, non ci voleva un genio del diritto par­la­men­tare per infi­larsi nel varco aperto allora dalla deci­sione del pre­si­dente del senato sull’emendamento Espo­sito. La cosa fu già grave con l’Italicum. È ancor più grave adesso, con una riforma della Costi­tu­zione di grande momento. E non si può riba­dire abba­stanza che il senso della Costi­tu­zione, ed in spe­cie dell’art. 138, non è certo quello di favo­rire i truc­chetti per stron­care il dibat­tito, e arri­vare in qua­lun­que modo alla decisione.

Dopo tanto esi­tare, il pre­si­dente Grasso è sceso in campo per il governo. Per la verità, qual­che sospetto l’avevamo. Ne tro­viamo ora con­ferma nelle deci­sioni sull’ordine delle vota­zioni e sui subemendamenti.

Qual era il cor­retto ordine di vota­zione degli emen­da­menti? Secondo prin­ci­pio, gli emen­da­menti si votano a par­tire dal più lon­tano fino al più vicino al testo da emen­dare. In Aula, è stata con­te­stata a Grasso la scelta di met­tere in prima fila l’emendamento 1.203, e il pre­si­dente in realtà non ha rispo­sto. Ancor più signi­fi­ca­tiva la deci­sione di pre­clu­dere ogni sube­men­da­mento al Cocian­cich. Va infatti con­si­de­rato che gli emen­da­menti di mag­gio­ranza (quelli con­cor­dati in casa Pd) sono stati por­tati a cono­scenza dei sena­tori all’ultimo momento. Molti sono andati in Aula senza nem­meno averli visti. Il pre­si­dente ha deciso che i ter­mini per la pre­sen­ta­zione di sube­men­da­menti erano già sca­duti. Forse vero, ma le con­di­zioni reali del dibat­tito avreb­bero certo sug­ge­rito, se non impo­sto, almeno una breve ria­per­tura dei ter­mini. Appro­vato il Cocian­cich, Grasso ha anche respinto il ten­ta­tivo di sube­men­darlo attra­verso l’art. 100, comma 5, reg. sen., norma rara­mente invo­cata, che però avrebbe potuto con­sen­tire una almeno par­ziale ria­per­tura del confronto.

Il trucco c’è, e si vede. Con que­ste deci­sioni, l’approvazione del nuovo art. 55 della Costi­tu­zione si è sostan­zial­mente risolta nel voto sull’emendamento Cocian­cich, che ha pre­cluso tutti gli altri, men­tre veniva con­te­stual­mente impe­dito ai sena­tori di oppo­si­zione qual­siasi inter­vento in via di sube­men­da­mento. È stata così anche supe­rata una raf­fica di voti segreti, rischiosi per il governo. All’accusa di avere con­sen­tito l’uso stru­men­tale dell’emendamento 1.203 con­tro le oppo­si­zioni — avan­zata da molti nella seduta di gio­vedì — Grasso ha rea­gito con stizza, ma senza porre argo­menti. E nem­meno ha rac­colto le ripe­tute e insi­stite richie­ste di riu­nire la Giunta per il rego­la­mento. Non a caso. Come sap­piamo, i numeri della Giunta non sono blin­dati per il governo, e il pas­sag­gio poteva rive­larsi peri­co­loso. Ana­lo­ghe mano­vre si pre­an­nun­ciano per gli arti­coli suc­ces­sivi al primo. A quanto leg­giamo, per i sube­men­da­menti all’art. 2 il tempo con­cesso è mezz’ora.

Grasso pro­ta­go­ni­sta, dun­que. Avremmo pen­sato che il primo dovere di un pre­si­dente di assem­blea fosse nei con­fronti dell’istituzione pre­sie­duta. Dob­biamo ricre­derci. Pos­siamo forse capire l’atteggiamento tenuto verso gli 82 milioni di emen­da­menti Cal­de­roli, per cui poteva valere l’argomento che non si può mai favo­rire la para­lisi dell’istituzione. Ma que­sto era ieri. Oggi, vediamo Grasso schie­rato al fianco del governo. Erano pos­si­bili scelte diverse, e let­ture di rego­la­mento secun­dum con­sti­tu­tio­nem, più attente alla neces­sità che una Costi­tu­zione nasca da un con­fronto reale, e non per il soste­gno acri­tico di mag­gio­ranze occa­sio­nali e rac­co­gli­ticce, popo­late di anime morte e di voltagabbana.

Quanto accade ci con­ferma che la fu mino­ranza Pd ha sba­gliato facen­dosi rias­sor­bire nel grup­pone, e sostan­zial­mente scom­pa­rendo nel gorgo della rot­ta­ma­zione costi­tu­zio­nale. Un pezzo del paese non accetta la Costi­tu­zione di Renzi, senza se e senza ma per­ché quella che abbiamo è di gran lunga migliore. Il sena­tore Cocian­cich ci comu­nica in una inter­vi­sta di pre­fe­rire la pre­ci­sione e non la quan­tità come Cal­de­roli. Rispetto ad entrambi, pre­fe­riamo l’intelligenza.

«Su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese».

La Repubblica Milano, 2 ottobre 2015

È difficile fare politiche mirate ed efficaci se mancano dati basilari sulla realtà su cui si vuole intervenire. Un chiaro esempio riguarda la condizione dei giovani. Ne abbiamo sempre meno e ne perdiamo sempre di più, nel senso che proprio non sappiamo dove sono e cosa fanno. Ci riferiamo in particolare a due categorie in forte crescita di under 35, identificate con termini non utilizzati nelle generazioni precedenti a testimonianza delle specificità che le caratterizzano. Si tratta dei Neet e gli Expat.

In entrambi i casi sappiamo che non sono più a scuola e non sono nemmeno all’interno del mondo del lavoro italiano. Sono altrove, finiti fuori dal radar del sistema Paese. I Neet sono soprattutto giovani con istruzione medio-bassa che conclusi con più o meno successo gli studi non riescono a trovare pieno inserimento nel mercato del lavoro. Nei Paesi con sistemi informativi e politiche più efficienti, chi cerca lavoro è in larga parte registrato nei servizi pubblici per l’impiego e chi abbandona precocemente gli studi viene inserito in una base dati apposita ed entra in un programma specifico di monitoraggio e supporto. In Italia solo una piccola quota si iscrive ai centri per l’impiego e dopo un anno e mezzo dall’avvio, anche il Piano Garanzia giovani è riuscito solo in minor parte a raggiungerli.

Il dato più recente indica circa 800 mila registrati su un totale di circa due milioni e quattrocento mila Neet. Ci sono quindi oltre un milione e mezzo di giovani che non studiano e non lavorano che, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte.
Andrebbero poi aggiunti anche gli inattivi tra i 30 e i 34 anni dei quali il progetto GaranzIa giovani non si occupa ma che rappresentano almeno un altro milione di persone.
Gli Expat sono invece i giovani dinamici e intraprendenti, spesso con alto capitale umano, che hanno lasciato l’Italia per cercare qualche opportunità di ulteriore formazione o miglior lavoro all’estero. Secondo l’Istat nei soli ultimi cinque anni hanno lasciato l’Italia, formalizzando tale scelta con il trasferimento di residenza, quasi 100mila giovani tra i 15 e i 34 anni. Secondo l’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) in tale fascia d’età i connazionali che risiedono in un altro Paese sono nel complesso oltre un milione.

Come ben noto l’Anagrafe estera da un lato contempla anche i nati all’estero da cittadini italiani, d’altro lato sottostima fortemente gli Expat. Va sottolineato che negli anni più recenti i flussi di uscita riguardano le regioni più avanzate, come la Lombardia, e le persone più qualificate. Sempre secondo l’Istat la percentuale di dottori di ricerca emigrati è quasi raddoppiata, dal 7 per cento di chi ha conseguito il titolo nel 2006 al 13 per cento di chi si è dottorato nel 2010. Non esiste però un registro che individualmente ci dica chi sono, dove si trovino e cosa stiano facendo. Molti di loro sarebbero interessati e disponibili a instaurare rapporti di collaborazione con il Paese di origine, ma anch’essi, per quanto ne sanno le istituzioni italiane, potrebbero trovarsi su Marte. Di fatto su Marte vive una popolazione di circa tre milioni di under 35 italiani. Sono abitanti di un mondo a parte, molto eterogeneo, lontano dalle politiche del nostro Paese e sconnessi dal modello di sviluppo italiano. Potenziali risorse ignorate e inutilizzate.

Uno dice: Antonio Gramsci. E quel nome gli apre agli occhi della mente un grande paesaggio, come accade con pochi altri nomi dell’intera storia civile e vita intellettuale italiana. Di Gramsci si legge e su Gramsci si riflette nel mondo intero. E c’è almeno una cosa che tutti sanno di lui: che, chiuso in una prigione fascista e impedito di agire nella lotta politica e nei conflitti sociali del ‘900 europeo di cui era uno dei protagonisti, si dedicò a un’opera di pensiero

destinata al futuro: fece insomma, si direbbe coi versi di Dante che Benedetto Croce dedicò a Palmiro Togliatti, «come quei che va di notte che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Di quell’opera si impadronì un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore. C’è un rivolo di devozione che ha veicolato l’immagine di quel giovane uomo occhialuto con la grande testa incassata nelle spalle aureolandola della corona del martirio. Immagine adatta a un «santo leader morto in carcere», come scrive con amara ironia Giorgio Fabre nel suo nuovo e densissim libro Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (Sellerio editore); un’opera importante che affronta con decisione e con robusta ricerca un tema da tempo presente nelle discussioni intorno alla vita e all’opera di Gramsci: i tentativi di liberarlo dal carcere.

La vicenda fece la sua comparsa notevolmente tardi arrivando non proprio dal centro degli studi gramsciani legati al Pci: fu nel 1966 che un bel libro di Giuseppe Fiori raccontò del tentativo di Gramsci di ottenere la liberazione elaborando il piano di uno scambio di prigionieri e affidandolo alla mediazione della Chiesa cattolica. Ci vollero altri undici anni perché una storiografia di partito in cauteloso avvicinamento alle regole della pratica storiografica accademica e agli angoli oscuri del proprio passato partorisse il libro di Paolo Spriano su Gramsci in carcere e il partito . Da allora si è aperta una discussione spesso vivacemente polemica che ha investito in modo speciale il nodo dei rapporti tra il partito comunista e il suo leader. Allora non si diceva “leader” ma “capo”: una parola molto più forte, osserva giustamente Giorgio Fabre. È una precisazione che nasce dallo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel «furibondo cavallo ideologico» (come diceva Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio.

Giorgio Fabre dichiara subito in apertura di libro la passione che lo lega al suo tema. Il suo è un forte sentimento d’ammirazione per l’uomo Gramsci, per il modo in cui riuscì a «bucare le pareti del suo carcere» e a guardare a ciò che si faceva e si pensava nel mondo intorno allo scontro politico in atto in Europa, col risultato di dare ai suoi Quaderni quel respiro di straordinaria curiosità e libertà intellettuale che tutti conoscono. Ma chi fu che gli permise di conoscere e di sapere? Forse non ne sappiamo abbastanza: e Giorgio Fabre suggerisce piste e nomi per altre ricerche segnalando ad esempio il rapporto che si instaurò a un certo punto tra Gramsci e il presidente della Cassazione Mariano D’Amelio.
Dunque questo libro non intende chiudere la ricerca, semmai per certi aspetti la riapre. Forse la più importante novità sulla questione dello scambio riguarda il rapporto tra Gramsci e la Chiesa. Questa pista si apre con una esplorazione tra le carte dell’archivio Andreotti. Qui si conservano le copie di documenti provenienti da due diversissime direzioni e relativi alla questione della proposta di scambio tra Gramsci ed ecclesiastici cattolici prigionieri in Unione Sovietica: ci sono quelli tratti dagli archivi russi che Alessandro Natta, segretario del Pci, riportò dalla sua visita a Mosca del 1988 e quelli di origine vaticana che Andreotti, dietro richiesta di Paolo Spriano, si fece riprodurre pubblicandone poi una parte.

La proposta dello scambio era stata avanzata dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli il 1° ottobre 1927. Giorgio Fabre ha approfondito questa pista con ottimi frutti e ha potuto raccontare per intero l’andamento e l’esito fallimentare di quel tentativo. Si approfondisce così come nel gioco della trattativa intervenissero diversi personaggi: tra gli altri il gesuita Pietro Tacchi Venturi, allora il tramite del papato con Mussolini. E si capisce come e perché la trattativa si chiudesse in maniera doppiamente negativa per Gramsci. Di fatto il Vaticano decise di lasciar cadere l’offerta in ragione di un diverso orientamento della sua politica verso l’Unione Sovietica. Ma intanto l’occhio attento del carceriere di Gramsci, Benito Mussolini, colse l’occasione per imprimere una svolta al processo in corso che aggravò le imputazioni a carico di Gramsci e ne chiuse a doppia mandata le porte del carcere.

Il giudizio di Fabre è che qui si coglie un primo errore di Gramsci: un errore legato in qualche modo a quella sua speciale considerazione della Chiesa di Roma che ha lasciato tracce anche nei Quaderni . Altri errori sono rilevati nella sua strategia successiva, soprattutto nel tentativo “grande”, quello del 1933 per ottenere la libertà condizionale. E ci furono anche le iniziative — non richieste né desiderate — del gruppo dirigente del Pci che mandarono a vuoto i progetti di un Gramsci sempre più sospettoso dopo la celebre vicenda della lettera di Ruggero Grieco, fino a fargli nascere il dubbio che i compagni avessero deciso di sacrificarlo. Molte le verità amare che Giorgio Fabre racconta in questo libro, molti e tenaci i silenzi, le mezze verità e le deformazioni del gruppo dirigente del Partito comunista.

Va detto tuttavia, a scanso di equivoci, che questa non è la rancorosa revisione di una vicenda interna a un partito. Le limpide e robuste pagine di Fabre non mandano mai i rancidi sapori del reducismo. La storia che qui emerge ha le robuste fondamenta di nuove conoscenze documentarie ma anche l’ampiezza di respiro che si conviene a una vicenda di dimensioni pienamente europee. Un solo esempio: per capire quello che avvenne col primo tentativo di scambio del 1927 Fabre ricostruisce l’intero quadro della situazione religiosa della Russia sovietica e della conseguente strategia vaticana in materia: il che ci permette di situare nel contesto grande la strategia di Gramsci e di capire quante e quali contraddizioni ne ostacolassero il successo. È una bella lezione di quale dovrebbe essere la pratica della ricerca storica sull’età contemporanea.

Al centro del libro resta lui, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico. L’indagine sui pensieri e comportamenti suoi in questi tentativi ne rivela le doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini. E da parte dello storico c’è anche, inutile dirlo, un sentimento di perdita, un rimpianto di quello che la storia avrebbe potuto essere e non è stata: la possibile storia di un Gramsci che lascia l’Italia da uomo libero e in Italia torna con la Liberazione da grande e riconosciuto capo della sinistra comunista per agire nella nuova realtà del nostro paese. Una storia che non c’è stata, una perdita di cui noi italiani siamo stati tutti vittime.

Il manifesto, 29 settembre 2015

Il senso di ina­de­gua­tezza che provo nello scri­vere que­ste righe deriva innan­zi­tutto dal fatto che quando Pie­tro Ingrao decise che ormai il gorgo era altrove rispetto alle varie muta­zioni dell’ormai ex Pci, nel 1993, io non avevo ancora com­piuto un anno. Men­tre mi affac­ciavo al mondo la sua vita poli­tica pren­deva l’ultima, impor­tante, svolta. Per me, per la mia gene­ra­zione, Pie­tro Ingrao è stato innan­zi­tutto un uomo del Nove­cento - un secolo che, osser­vato dalla sua pro­spet­tiva, sem­bra essere affatto breve - e delle sue incom­men­su­ra­bili con­trad­di­zioni. Sarebbe un eser­ci­zio inu­tile riper­cor­rere, senza sca­dere in bana­lità o ridon­danze, le sue scelte di vita e in par­ti­co­lare di vita poli­tica: altri ne hanno ben più titolo. È forse più inte­res­sante trarre lezioni dall’enfasi del suo rac­con­tare, dalla sua straor­di­na­ria capa­cità cri­tica e autocritica.

Pro­prio cal­cando la mano sulle vicende più discusse del suo impe­gno nel Pci e in par­ti­co­lare sul suo voto favo­re­vole all’espulsione del gruppo del Mani­fe­sto nel 1969, in molti riten­gono di poter con­fi­nare il rac­conto della figura di Ingrao nella dimen­sione col­lo­ca­bile tra l’eclettismo ana­li­tico e l’etica del Par­tito, una dimen­sione ormai sepolta dalla caduta del Muro e dalla fine della Prima Repub­blica. In que­sta rico­stru­zione le con­trad­di­zioni che egli stesso amava inda­gare e met­tere in ten­sione, sot­to­po­nen­dole alla prova dell’intelletto umano e della sua capa­cità di illu­mi­nare gli angoli più oscuri della realtà, risul­tano irri­me­dia­bil­mente spia­nate. Quella di Ingrao, dun­que, sarebbe una figura dalla quale oggi è pos­si­bile trarre al limite qual­che ele­mento di rile­vanza sto­rica, vaga­mente mito­lo­gica e agio­gra­fica, ma nes­sun inse­gna­mento con­creto, nes­suno stru­mento da met­tere nella cas­setta degli attrezzi per smon­tare le brut­ture di que­sto mondo.

Mi sento di poter dis­sen­tire. Dal pen­siero e dall’azione di Pie­tro Ingrao sto ancora impa­rando molte cose, e tante credo di poterne impa­rare. Innan­zi­tutto su cos’è il dub­bio, cosa signi­fica pro­vare a farne stru­mento potente in una società in cui esso è molto evo­cato e assai poco pra­ti­cato. Era più dif­fi­cile met­tere in dub­bio, inter­ro­garsi e inter­ro­gare, dis­sen­tire, fare tutto ciò in forma pro­dut­tiva, con una con­ti­nua ten­sione verso la tra­sfor­ma­zione della realtà, nell’epoca dello scon­tro tra ideo­lo­gie con­trap­po­ste? Oppure oggi, nell’epoca del domi­nio incon­tra­stato dell’ideologia unica del libero mer­cato? Per que­sto credo che que­sto primo inse­gna­mento non sia affatto scontato.

Ancora, credo sia gra­zie a Ingrao che è diven­tato per me un po’ più chiaro cosa sia la luna. La luna, per alcuni, sarebbe la cifra della scon­fitta di Ingrao: per me è piut­to­sto il segno di una bat­ta­glia che è ancora aperta. Lungi dall’essere un luogo situato in una posi­zione inde­fi­nita tra l’astrazione dalla realtà e l’eterna scon­fitta, come qual­che detrat­tore masche­rato vuole far pas­sare in alcuni coc­co­drilli, essa è piut­to­sto quella dire­zione verso la quale far avan­zare ancora l’orizzonte delle aspet­ta­tive. La luna è pos­si­bile? Sì, lot­tando den­tro il con­ti­nuo svi­luppo della società, den­tro le vec­chie forme di domi­nio e le nuove pos­si­bi­lità di libe­ra­zione, sapendo che «in fondo, a ben vedere, certi guar­diani, per forti e feroci che siano, sono tut­ta­via alla fine abba­stanza stu­pidi», come disse Ingrao al XIX Con­gresso del PCI, nel 1990.

Ciò che ancora non credo di aver colto in tutta la sua com­ples­sità è il signi­fi­cato primo dell’indicazione di «rima­nere nel gorgo». Quando mi imbat­tei per la prima volta nella for­mula reto­rica uti­liz­zata da Ingrao all’XI Con­gresso in rispo­sta a Longo sulla que­stione del cen­tra­li­smo demo­cra­tico, la tro­vai di un tatto incom­pren­si­bile per la dia­let­tica poli­tica di oggi: quel vol­teg­gio di piuma, accolto da applausi scro­scianti, era stato tut­ta­via capace di ferire come una lama d’acciaio. Dif­fi­cile dun­que astrarre da un periodo sto­rico com­ple­ta­mente diverso da quello di oggi: credo tut­ta­via che «rima­nere nel gorgo» fosse un’indicazione di ricerca e di azione — e del rap­porto indis­so­lu­bile tra que­sti due aspetti — rivolta alla realtà, all’intricato rap­porto tra masse e potere, impos­si­bile da ridurre alla sem­plice col­lo­ca­zione den­tro o fuori dal Par­tito (che pure era parte fon­da­men­tale di quell’indicazione).

Infine, l’insegnamento più pre­zioso, che più sento den­tro, è quello di lasciarsi inter­ro­gare dalle rivolte. Non ho mai avuto la for­tuna di incon­trare Pie­tro Ingrao, ma ho incon­trato spesso la misura con­creta di que­ste sue parole nella costru­zione delle orga­niz­za­zioni stu­den­te­sche, negli sguardi delle migliaia di stu­den­tesse e stu­denti in strada e in piazza, nell’impegno poli­tico e nella neces­sità di cam­biare il mondo. Il nostro cam­mino è ancora nel tempo delle rivolte che non è sopito.

Gra­zie di tutto Pie­tro Ingrao.

«I migranti rifiutano l’identificazione. E tra le tante domande senza risposta la più importante è: basta la provenienza per stabilire in 48 ore se chi sbarca col volto stravolto e occhi imploranti è profugo o migrante economico? Siria sì, Nigeria no».

La Repubblica, 1 ottobre 2015 (m.p.r.)

Lampedusa. I primi quindici migranti sono già scappati. Identificati qui nell’ hotspot sperimentale di contrada Imbriacola, inseriti nel registro delle quote europee, trasferiti sulla terraferma, nell’hub di Villa Sikania a Siculiana (Agrigente) in attesa di essere inviati nel Paese di destinazione. Scappati. Via, a cercare il primo treno o a farsi prelevare dall’autista dell’organizzazione di trafficanti per l’ultima tratta del loro viaggio nel tentativo di raggiungere la destinazione scelta da loro. E non dall’Europa.

Esattamente come succedeva prima del 21 settembre, quando è partita la sperimentazione del primo dei sei hot spot chiesti dall’Europa per l’identificazione dei migranti che arrivano dal Canale di Sicilia: Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta,Taranto. E qui a Lampedusa l’atmosfera è già tesa. Non solo perché, come non accadeva più da tempo, gli ospiti in pochi giorni sono già oltre 600, impauriti dal diffondersi delle voci di meningite, già smentiti dai medici dopo gli esami a cui sono stati sottoposti una dozzina di migranti arrivati con sintomi preoccupanti.
C’è tensione perché nessuno sa come fare a mettere in pratica quelle che, sulla carta, sarebbero le direttive europee. «Come dovremmo fare a convincere questi migranti a lasciarsi identificare e a farsi prendere le impronte? Non possiamo obbligarli e lo sanno tutti che la maggior parte di loro non intende farlo neanche ora con la prospettiva delle quote, che per altro non sanno neanche cosa sono», dice uno degli operatori da 48 ore alle prese con un gruppo di 300 eritrei sbarcati da una delle navi che pattugliano il Canale di Sicilia.
Eritrei, ma soprattutto egiziani, nigeriani, senegalesi, marocchini, pachistani. Di siriani sui barconi che affrontano la traversata non se ne vedono più da settimane. Gli ultimi “arrivi” dirottati sui porti siciliani non partono neanche più dalla Libia. Le barche hanno ripreso a salpare dai porti egiziani, trasportano per lo più “migranti economici” che, difficilmente, nelle prime 48 ore in un hotspot potranno dimostrare di avere diritto a chiedere protezione internazionale. E che, quindi, in teoria dovrebbero essere respinti immediatamente. Ma come,e soprattutto quando? Se lo chiedono a Lampedusa dove, tra la gente, ha ripreso a serpeggiare il timore che, nel giro di pochi mesi, l’isola possa tornare a essere assediata da migliaia di persone vista l’oggettiva difficoltà ( anche in assenza di accordi bilaterali con i Paesi coinvolti) di organizzare rimpatri di massa.
«Hot spot, hub rischiano di rimanere parole vuote - dice il prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, da due anni impegnato personalmente nella trincea dell’accoglienza ai migranti - l’Europa deve avere chiaro che qua noi innanzitutto salviamo vite umane. Se si vuole caricare sulla prima linea anche questo lavoro, bisogna innanzitutto investire in risorse. Non si può chiedere all’Italia, alla Sicilia di fare hot spot a costo zero. Qualcuno lo sa cosa significa identificare queste persone? In un’ora se ne possono fare sei, sette. Con i numeri che abbiamo significa caricarci di centinaia di ore di lavoro senza alcuna certezza. E se, come spesso accade, i migranti si rifiutano di farsi prendere le impronte, gli operatori delle forze dell’ordine non hanno altro da fare che una cosa inutile e formale: farsi dire dal migrante il nome che vuole, annotarlo e poi, dopo 48 ore, lasciarlo libero.La legge non prevede altro, noi non abbiamo nessuno strumento per trattenerli. In teoria si dovrebbe arrivare alle espulsioni, in teoria».
Al momento, dunque, si naviga a vista. Al centro di accoglienza di contrada Imbriacola di Lampedusa, nelle due stanze approntate a tempo record dalla questura di Agrigento lavorano solo i poliziotti della scientifica. Così come avveniva prima. Del pool di esperti che dovrebbe arrivare da Frontex, da Europol, dall’Eso, non c’è ancora alcuna traccia. E tra le tante domande senza risposta che qui, e presto anche negli altri hot spot, ci si trova ad affrontare la più importante è: basta la provenienza per stabilire in 48 ore se questi uomini e donne che sbarcano con i volti stravolti e gli occhi imploranti sono profughi o migranti economici? Siria sì, Nigeria no.
Sarà anche per questo che adesso tutte le nigeriane che arrivano dicono di essere scappate da Boko Haram.
Sembra paradossale, ma è tutto vero. Una buona base per cominciare a ragionare su che cosa possa essere l'equivalente della "sinistra" nel XXI secolo «Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato».

Il manifesto, 30 settembre 2015

L’organismo della sini­stra è assai poco vitale, ma com­pren­si­bil­mente non vuole dir­selo e nem­meno sen­tir­selo dire. E se pro­vas­simo ad affron­tare la que­stione da un punto di vista un po’ meno pre­ve­di­bile? Se comin­cias­simo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.

Per­ché que­sta è la verità: non c’è vita, se mai c’è soprav­vi­venza eroica ma sten­tata di un vasto numero di asso­cia­zioni e orga­ni­smi di base che cer­cano di garan­tire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.

Se comin­cias­simo col dirci la verità che dal tronco della sini­stra del Nove­cento non sboc­cerà più alcun fiore, forse allora riu­sci­remmo a vedere la realtà pre­sente in maniera più rea­li­stica e forse anche a imma­gi­nare una via d’uscita per il pros­simo futuro.

Se sini­stra vuol dire una for­ma­zione capace di rag­giun­gere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a suf­fi­cienza. Gra­zie alla demo­gra­fia, gra­zie all’ampiezza dei ran­ghi degli ultra-sessantenni pos­siamo ancora spe­rare di costi­tuire una for­ma­zione che mandi in par­la­mento qual­che depu­tato prima di esau­rirsi per estin­zione pros­sima della gene­ra­zione che si formò negli anni della democrazia.

Ma se sini­stra vuol dire una forza capace di imma­gi­nare una svolta nella sto­ria sociale eco­no­mica e poli­tica del mondo, una forza capace di attrarre le ener­gie della gene­ra­zione pre­ca­ria e con­net­tiva, se sini­stra vuol dire una forza capace di rove­sciare il rap­porto di forze che il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato ha impo­sto all’umanità — allora è meglio non rac­con­tarci bugie pie­tose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.

I con­tri­buti che ho letto sul mani­fe­sto sono più o meno apprez­za­bili, alcuni mi sono pia­ciuti molto. Ma non ne ho tratto la per­ce­zione che qual­cuno voglia vedere quel che sta acca­dendo e che acca­drà, e soprat­tutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.

La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola demo­cra­zia non cor­ri­sponde nulla. Per­ché dovrei ancora pren­dere sul serio la demo­cra­zia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occor­reva l’esperienza greca, per sapere che la demo­cra­zia non è più una strada per­cor­ri­bile. Basta ricor­darsi del refe­ren­dum ita­lico con­tro la pri­va­tiz­za­zione dell’acqua, i suoi risul­tati trion­fali, e i suoi effetti pra­ti­ca­mente nulli sulla realtà eco­no­mica e politica.

E allora, se la demo­cra­zia non è una strada per­cor­ri­bile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che tal­volta nella vita (e nella sto­ria) è oppor­tuno par­tire da un’ammissione di impo­tenza. Non posso, non pos­siamo farci niente.

Cioè, fermi un attimo. Due cose dob­biamo farle, e se volete chia­marle sini­stra allora sì, ci vuole la sinistra.

La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni l’Unione euro­pea, ormai entrata in una situa­zione di scol­la­mento poli­tico, di odii incro­ciati, di pre­da­zione colo­niale, finirà nel peg­giore dei modi: a destra. Pos­siamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbat­tere la dit­ta­tura finan­zia­ria euro­pea è la destra?

Dovremmo dirlo, per­ché que­sto è quello che sta già acca­dendo, e le con­se­guenze saranno vio­lente, san­gui­nose, cata­stro­fi­che dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dob­biamo allora smet­tere i gio­chi già gio­cati cento volte per met­terci in ascolto dell’onda che arriva.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni gli effetti del col­lasso finan­zia­rio del 2008 mol­ti­pli­cati per gli effetti del col­lasso cinese di que­sti mesi pro­durrà una reces­sione glo­bale. Pos­siamo pre­ve­dere che la cre­scita non tor­nerà per­ché non è più pos­si­bile, non è più neces­sa­ria, non è più com­pa­ti­bile con la soprav­vi­venza del pia­neta, e ogni ten­ta­tivo di rilan­ciare la cre­scita coin­cide con deva­sta­zione ambien­tale e sociale.

La decre­scita non è una stra­te­gia, un pro­getto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si tra­duce in un’aggressione siste­ma­tica con­tro il sala­rio, e con­tro le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni. E si tra­duce in una guerra civile pla­ne­ta­ria che solo Fran­ce­sco I ha avuto il corag­gio di chia­mare col suo nome: guerra mondiale.

La seconda cosa da fare è: imma­gi­nare.

Imma­gi­nare una via d’uscita dall’inferno par­tendo dal punto cen­trale su cui l’inferno pog­gia: la super­sti­zione che si chiama cre­scita, la super­sti­zione che si chiama lavoro sala­riato. Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un punto: pre­di­cano la cre­scita in un momento sto­rico in cui non è più né auspi­ca­bile né pos­si­bile, e soprat­tutto è ine­si­stente per la sem­plice ragione che non abbiamo biso­gno di pro­durre una massa più vasta di merci, ma abbiamo biso­gno di redi­stri­buire la ric­chezza esistente.

Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un secondo punto: lavo­rare di più, aumen­tare l’occupazione e con­tem­po­ra­nea­mente aumen­tare la pro­dut­ti­vità. Non c’è nes­suna pos­si­bi­lità che que­ste poli­ti­che abbiano suc­cesso. Al con­tra­rio la disoc­cu­pa­zione è desti­nata ad aumen­tare, poi­ché la tec­no­lo­gia sta pro­du­cendo in maniera mas­sic­cia la prima gene­ra­zione di automi intel­li­genti. Da cinquant’anni la sini­stra ha scelto di difen­dere l’occupazione, il posto di lavoro e la com­po­si­zione esi­stente del lavoro. Era la strada sba­gliata già negli anni ’70, diventò una strada cata­stro­fica negli anni ’80. Era una strada che ha por­tato i lavo­ra­tori alla scon­fitta, alla soli­tu­dine, alla guerra di tutti con­tro tutti.

Per­ché dovremmo difen­dere la sini­stra visto che è stata pro­prio la sini­stra a por­tare i lavo­ra­tori nel vicolo cieco in cui si tro­vano oggi?

Di lavoro, sem­pli­ce­mente, ce n’è sem­pre meno biso­gno, e qual­cuno deve comin­ciare a ragio­nare in ter­mini di ridu­zione dra­stica e gene­ra­liz­zata del tempo di lavoro. Qual­cuno deve riven­di­care la pos­si­bi­lità di libe­rare una fra­zione sem­pre più ampia del tempo sociale per desti­narlo alla cura l’educazione e alla gioia.

So bene che non si tratta di un pro­getto per domani o per dopo­do­mani. Negli ultimi quarant’anni la sini­stra ha con­si­de­rato la tec­no­lo­gia come un nemico da cui pro­teg­gersi, si tratta invece di riven­di­care la potenza della tec­no­lo­gia come fat­tore di libe­ra­zione, e si tratta di tra­sfor­mare le aspet­ta­tive sociali, libe­rando la cul­tura sociale dalle super­sti­zioni che la sini­stra ha con­tri­buito a formare.

Quanto tempo ci occorre? Baste­ranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guar­dare, visto che nulla pos­siamo fare. Guar­dare cosa? La cata­strofe che è ormai in corso e che nes­suno può fer­mare. Stiamo a guar­dare il pro­cesso di finale disgre­ga­zione dell’Unione euro­pea, la vit­to­ria delle destre in molti paesi euro­pei, il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita della società. Sono pro­cessi scritti nella mate­riale com­po­si­zione del pre­sente, e nel rap­porto di forza tra le classi.

Ma natu­ral­mente non si può stare a guar­dare, per­ché si tratta anche di sopravvivere.

Ecco un pro­getto straor­di­na­ria­mente impor­tante: soprav­vi­vere col­let­ti­va­mente, sobria­mente, ai mar­gini, in attesa. Riflet­tendo, imma­gi­nando, e dif­fon­dendo la coscienza di una pos­si­bi­lità che è iscritta nel sapere col­let­tivo, e per il momento non si can­cella: la pos­si­bi­lità di fare del sapere la leva per libe­rarci dallo sfruttamento.

Atten­dere il mat­tino come una talpa.

«Il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell’Ues: l’Unione Euro- Scettica».

La Repubblica, 29 settembre 2015 (m.p.r.)

Il risultato delle elezioni in Catalogna conferma l’ampiezza del sentimento separatista che anima la Comunidad autónoma. Il fronte a favore dell’indipendenza (Junts pel Sì + Cup) ha ottenuto il 47,8% dei voti. Ha, così, conquistato la maggioranza assoluta dei seggi, ma non dei voti. Si fosse trattato di un referendum, questo esito non sarebbe sufficiente a sancire la secessione da Madrid. Ma oggi appare adeguato ad amplificare lo spirito indipendentista che spira, forte, in altre aree della Spagna. Anzitutto nei Paesi Baschi. Questo voto, inoltre, rischia di produrre «una rivoluzione geopolitica su scala europea», come ha osservato Lucio Caracciolo, ieri, su Repubblica. Una Catalogna indipendente, infatti, non troverebbe posto nella Ue.

Tuttavia, il voto catalano non costituisce un evento isolato. E de-limitato. Ma si somma a quanto avviene, da tempo, in altri Paesi. In particolar modo, in quelli affacciati sulla sponda mediterranea. Dove si allarga il contagio dell’Ues: l’Unione Euro- Scettica. Trasmesso da una catena di attori politici, impolitici e anti-politici. Uniti da un comune bersaglio. L’Europa dell’euro. Dunque, l’Europa, tout court. Visto che l’Unione è stata prevalentemente costruita, appunto, sul terreno economico e monetario. Mentre i soggetti politici di maggiore successo, negli ultimi anni, sono quelli che hanno esercitato una critica aperta all’Euro-zona. E, spesso, alla stessa Unione Europea, in quanto tale.

In Italia: la Lega di Salvini. Esplicitamente contraria all’Euro, ma anche alla Ue. Appunto. Inoltre: il M5s. Anch’esso esplicitamente ostile all’Euro-zona. Tanto che, nei mesi scorsi, Alessandro Di Battista, deputato del M5s, fra i più autorevoli, ha proposto un «cartello tra i Paesi del Sud Europa» per «uscire dall’euro» e «sconfiggere la Troika che ha distrutto l’Ue». Un aperto invito, dunque, a costruire la Ues. Rivolto, anzitutto, alla Grecia, governata da Alexis Tsipras e dal suo partito, Syriza. Che, come ha confermato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze, aveva pianificato un programma per trasformare l’euro in dracma. E per liberarsi del controllo della Troika. Prima, ovviamente, della recente crisi. Che ha condotto la Grecia a scontrarsi con la Germania della Merkel. E con il “governo” della Ue. Anche se ora, ovviamente, questo progetto è divenuto impraticabile. Dopo il prestito-ponte erogato dalla Ue, per fare fronte all’enorme debito che opprime la Grecia. Mentre Tsipras ha estromesso dal governo Varoufakis e gli altri esponenti del partito, reticenti e indisponibili ad accogliere le pesanti condizioni poste dalla Ue. Nonostante tutto, pochi giorni fa, Tsipras ha ri-vinto le elezioni. Si è confermato alla guida del governo e del Paese. E la Grecia è rimasta nella Ue e nell’euro. Non certo per passione, ma per necessità. E per costrizione.
Ma l’Ues ha messo radici anche in Francia. A sua volta, Paese mediterraneo. Soggetto protagonista della scena europea, insieme alla Germania. Ebbene, com’è noto, in Francia, negli ultimi anni, si è assistito all’ascesa di Marine Le Pen, che ha spinto il Front National ben oltre il 25%. Al di là delle zone di forza tradizionali, nelle regioni “mediterranee”. Per affermarsi, Marine Le Pen ha moderato i toni - più che i contenuti - del messaggio politico tradizionale. E ha preso le distanze dal padre, Jean-Marie. Fondatore e “padrone” del Fn. Fino alla rottura. Sancita dall’espulsione del padre, avvenuta a fine agosto, per decisione del comitato esecutivo del partito.
Il Fn di Marine e Bleu Marine, la coalizione costruita intorno al partito, hanno, tuttavia, mantenuto i due orientamenti tradizionali forse più importanti. La xeno-fobia. Letteralmente: paura dello straniero. E l’opposizione all’Europa dell’euro. Così, i confini mediterranei della Ue oggi sono occupati dalla Ues. Che tende ad allargarsi rapidamente altrove. Nei Paesi della Nuova Europa. A Est: in Polonia, Ungheria. E a Nord. In Belgio, Olanda, Danimarca, Scandinavia. Per non parlare della Gran Bretagna. Dove l’euroscetticismo è radicato da tempo. La Germania, il centro dell’Europa dell’euro, intanto, si è indebolita. Messa a dura prova, da ultimo, dallo scandalo che ha coinvolto e travolto la Volkswagen. Un grande gruppo automobilistico. Ma, soprattutto, un marchio dell’identità (non solo) economica tedesca nel mondo. Intanto, la xeno-fobia si è propagata ovunque. Alimentata dall’esodo dei profughi degli ultimi mesi. Dall’Africa e dal Medio Oriente, attraverso l’Italia, la Grecia, i Balcani.
Così, 26 anni dopo la caduta del muro di Berlino, in Europa sorgono nuovi muri. Non solo simbolici. Marcano il difficile cammino di una costruzione che si è sviluppata senza un disegno. Politico. Culturale. Perché l’Europa “immaginata”, fra gli altri, da Adenauer, De Gasperi, Churchill, Schuman, l’Europa di Jean Monnet e Altiero Spinelli: è rimasta, appunto, “un’immagine”. Un orizzonte. Lontano.
D’altra parte, (come dimostra l’Osservatorio europeo curato da Demos-Oss. di Pavia- Fond. Unipolis, gennaio 2015), l’Europa dell’euro non suscita passione. Tanto meno entusiasmo. La maggioranza dei cittadini - in Italia e negli altri Paesi europei - la accetta, per prudenza. Teme che, al di fuori, potrebbe andare peggio. Così, il progetto europeo non cammina. Perché ha gambe molli e non ha un destino. Mentre il sentimento scettico si fa strada. In Spagna. In Italia. In Francia. In Europa. A Destra (e al Centro), ma anche a Sinistra. E alla Ue si sovrappone la Ues. L’Unione Euro-Scettica. Più che un soggetto e un progetto organizzato: una sindrome. Densa e grigia. Diffusa nell’area mediterranea. Oggi si sta propagando rapidamente altrove. Conviene prenderla sul serio, prima che sia troppo tardi. Prima che contagi anche noi.

Il manifesto, 29 settembre 2015

Ingrao ha imper­so­nato i nostri ideali. Tutti. Li ha ana­liz­zati, appro­fon­diti, discussi. Ne ha misu­rato la con­cre­tezza, l’attualità, l’assunzione da parte delle masse, la resi­stenza alle offese che l’ideologia del capi­tale andava muo­vendo per distor­cerne il senso e per sra­di­carli dalle coscienze. Non si è mai arreso ai dubbi che muo­veva a se stesso ed apren­dosi agli altri e mai atte­nuando o pre­clu­dendo il suo pen­sare ed il suo fare di militante,di diri­gente, di comunista.

Ha voluto sem­pre sen­tire, capire, scru­tare, cri­ti­ca­mente anche quanto a pre­sup­po­sti, tra­di­zioni, metodi, prima di indi­care, inse­gnare, con­durre sin­goli e masse. E capire era per lui pene­trare nella realtà dei rap­porti umani, comin­ciando da quelli di pro­du­zione e coglien­done ogni pro­se­cu­zione, ogni effetto imme­diato e pro­tratto a qua­lun­que altezza e in quale dimen­sione si col­lo­casse, qual­siasi suo pro­filo potesse rile­vare sulla con­di­zione umana nell’età del capitalismo

Del più alto valore è stata la con­ce­zione della demo­cra­zia che Ingrao ha defi­nito e per cui ha com­bat­tuto. Soste­nendo che «il voto non basta». E «non basta» infatti nei regimi che ne iso­lano la rile­vanza e ne limi­tano il potere reale di inci­dere diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente sui rap­porti di potere eco­no­mico, oltre che di quello sociale e di quello politico.

Tanto meno nei regimi che ne distor­cono gli effetti devian­doli da quelli auten­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tivi. Né basta se non col­le­gato ad altri isti­tuti di par­te­ci­pa­zione diretta alla dina­mica poli­tica. Soste­nendo poi la coor­di­na­zione di tutte le assem­blee elet­tive come con­di­zione e stru­mento di una demo­cra­zia che per­vada l’intera com­ples­sità isti­tu­zio­nale della aggre­ga­zione umana a forma stato. Soste­nendo, infine, con grande luci­dità ed eguale fer­mezza la neces­sità di opporsi alla deca­denza di civiltà poli­tica, cul­tu­rale e morale che andava matu­rando in Ita­lia con la cri­mi­nosa pro­spet­tiva di un uomo solo al comando.

In modo diverso, sen­tirsi ingra­iani ha signi­fi­cato inten­sità di spi­rito cri­tico, ten­sione con­ti­nua a lot­tare pen­sando pos­si­bile una società in cui il « libero svi­luppo di cia­scuno sia con­di­zione del libero svi­luppo di tutti».

l capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza...(continua a leggere)

Il capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza. Oggi l'abbondanza che lo minaccia è, come sempre, quella delle merci, ma in una misura che non ha precedenti. Ad essa, negli ultimi decenni, se ne è aggiunta un'altra, assolutamente inedita, che coinvolge un vasto e crescente ambito di servizi. Per alcuni beni la saturazione del mercato capitalistico è visibile a occhio nudo ormai da tempo. I capi d'abbigliamento si comprano ancora nei negozi, a prezzi che generano un certo profitto a chi li produce e a chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato parallelo così esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può dire che nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero degli individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno possiamo osservare nell'ambito dei servizi più avanzati: l'accesso all'informazione, alla cultura, all'arte, alla musica.

Certo, occorre almeno possedere un cellulare, pagare un contratto a un gestore. Ma è evidente che siamo invasi anche qui - insieme, certo, al ciarpame - da un'abbondanza di offerta, a prezzi decrescenti che tendono a creare uno spazio di fruizione fuori mercato. Sappiamo che il capitale anche da tali beni riesce a trarre ancora profitti, ma oggi è sotto i nostri occhi uno scenario di abbondanza di servizi e beni culturali, di umana emancipazione, potenziale e di fatto, che non ha precedenti. Solo 50 anni fa tutto questo era lontano dalla nostra immaginazione. Occorre sempre gettare un occhio al passato, per evitare di scorgere nel presente solo un cumulo di sconfitte.

Com'è noto, il capitale combatte la caduta tendenziale del saggio di profitto inventando nuovi beni e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio sulla natura per trasformare il vivente in merci brevettabili, strappando al controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e dello stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche fortunatissime - la crisi e poi il crollo del blocco comunista, la burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei sindacati, la rivoluzione informatica - ha sventato la più grande minaccia da abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua storia: quella degli ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di beni stava per riversarsi nel mercato dei Paesi avanzati, un sovrappiù di merci che avrebbe costretto imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto a ridurre drasticamente l'orario di lavoro. Si sarebbe arrivati a quel passaggio epocale previsto da Keynes nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti (1928-30), che, con la crescita della produttività a «a un ritmo superiore all'1% annuo» avrebbe spinto le società industriali, nel giro di un secolo, a istituire una durata del lavoro a 15 ore settimanali.

In realtà, la crescita della produttività mondiale è stata superiore alle stesse previsioni di Keynes, con risultati però opposti rispetto alle sue aspettative. In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e nitore espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli, 2014) Nicola Costantino ha ricordato che il tasso di crescita annuo della produttività a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato tra il 2 e il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del 2,5%, in Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998, del 3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del singolo lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo, è aumentata di ben 7 volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate da Keynes e su cui egli fondava la previsione delle 15 ore settimanali.

Ma la giornata lavorativa non è stata accorciata, se non in Francia, in maniera contrastata e oggi rimessa in discussione. Ovunque, specie negli ultimi anni, la durata del lavoro quotidiano è cresciuta a dismisura. Negli USA, già prima della crisi era diventato generale il fenomeno del workaholic, l'alcolismo del lavoro, mentre oggi sempre di più gli americani lamentano la mancanza di tempo, il time squeeze, time pressure, time poverty (S.Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli 2010). Lavorano tutto il giorno come dannati: ma almeno guadagnano bene? Niente affatto, essi sono in grandissimo numero poveri e indebitati. Come ha ricordato Maxime Robin su Le Monde diplomatique-Il Manifesto (Stati Uniti, l'arte di ricattare i poveri, settembre 2015) oggi in Usa i check casher, piccole banche per prestiti veloci, dilagano nei quartieri poveri più dei McDonald's. Ma in genere tutti gli americani della middle class sono indebitati. «Uno statunitense nella norma è un cittadino indebitato che paga le rate in tempo». E le cose non son certo migliorate con la ripresa santificata dai media. Il 95% dei redditi aggiuntivi che si sono creati dopo la crisi – ricordava The Economist nel settembre 2013 – è andato all'1% delle persone più ricche. Al restante 99% sono andate le briciole del 5%. Tutto come prima, peggio di prima.

Che cosa dunque è accaduto? Perché dal mondo dell'abbondanza a portata di mano siamo precipitati nel regno della scarsità? La risposta essenziale è molto semplice. Perché il capitalismo dei paesi dominanti (Usa e Europa in primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di profitto nei paesi poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese, non incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, hanno generato un'arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la scarsità del lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job. I dati recenti sono impressionanti.Tra il 1991 e il 2011 - ricorda Costantino - mentre il Pil reale planetario è cresciuto del 66%, il tasso globale di occupazione è diminuito dell'1,1%. In 20 anni un quarto di beni in più con meno lavoro.

Ma una vasta e ben controllata disoccupazione è oggi un arma politica, non solo un effetto delle trasformazioni economiche. Tale scarsità, diventata permanente e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e lavoro, economia e politica, poteri finanziari e cittadini, drammaticamente asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come gli affamati un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L'intera struttura dello stato di diritto ne risente, gli istituti della democrazia vengono progressivamente svuotati. Sindacati e partiti, funzionari del presente, invocano la “ripresa” come se il futuro possa “riprendere” le fattezze del passato.

E tuttavia tale artificiale scarsità non può durare a lungo. Non solo perché le innovazioni produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza artificiale,ecc) stanno per rovesciarci interi continenti di merci e servizi, sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche perché l'abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro oggi genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C'è troppo danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie, rispetto alle necessità della produzione. Patrimoni concentrati in gruppi ristretti che non corrono il rischio dell'investimento produttivo in società ormai sature di beni e con una domanda debole, mentre la grande massa dei lavoratori è tenuta a basso salario perché i loro padroni devono poter competere a livello globale. Tutti i capitalismi nazionali comprimono i salari, allungano gli orari di lavoro, sperando nelle esportazioni e tutti, o quasi, languono nella generale stagnazione. Mentre i soldi si accumulano, generano altri soldi, muovono speculazioni nei mercati finanziari e preparano altre crisi.

Questo quadro che non teme smentite – poggia su una vasta e solida letteratura - ha una grande importanza per la sinistra. In esso è possibile scorgere che una vita di gran lunga migliore sarebbe possibile per tutti e che solo i rapporti di forza dominanti la ostacolano, facendo regredire la società nel suo insieme. Non c'è una crisi, intesa come un evento naturale. E' stato il cedimento storico dei partiti della sinistra, dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della scarsità sull'abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si può riprendere. Da questa lezione si può comprendere come niente di naturale è rinvenibile nella situazione presente: è tutto dipendente da scelte politiche, da puri rapporti di forza.

Si può così smascherare l'idea di una scarsità a cui occorre piegarsi come all'antico Fato. Così come l'idea di una “ripresa” affidata alle riforme del mercato del lavoro, alla flessibilità dei lavoratori, senza toccare la piramide delle ricchezze accumulate. Non ci sono i soldi, recita la litania dei politici, di gran parte degli economisti main stream, gli aguzzini intellettuali più attivi sulla scena pubblica, con il loro seguito di giornalisti orecchianti. E' la più grande menzogna della nostra epoca. I soldi non ci sono per pensioni dignitose, per il reddito di cittadinanza, non ci sono per le borse di studio agli studenti, che disertano gli studi universitari, non ci sono per i nostri ricercatori e per la gioventù intellettuale, costretta a migrare all'estero. Ma ci sono in misura crescente e cumulativa nei patrimoni privati: in un solo anno, tra il 2011 e 2012, mentre infuriava la crisi, il numero degli individui con un patrimonio superiore a un milione di dollari è cresciuto nel mondo del 6%, in Italia del 10% . I soldi ci sono in quantità senza precedenti per le banche. E le centinaia di miliardi di euro che la BCE sta profondendo a piene mani, semplicemente stampandoli?

Dunque, una grande abbondanza (auspichiamo, di beni e servizi avanzati, frutto di una generale riconversione ecologica, di riduzione del lavoro ) è alla nostra portata. E bisogna infondere non solo nel nostro popolo, ma nella società italiana tutta intera questa grande pretesa. La pretesa della prosperità e del ben vivere per tutti. E' una prospettiva di nuovi bisogni, che non solo è possibile soddisfare, ma coincide con una tendenza storica inarrestabile e che capitale e ceto politico possono solo ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi e del lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel passato l'interesse generale, una necessità indifferibile e universale. Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia.

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Il manifesto, 29 settembre 2015

La sini­stra ita­liana che fu comu­ni­sta e qual­che volta lo resta si ritrova ormai soprat­tutto e qual­che volta solo ai fune­rali. E nulla più dell’ultimo saluto a Pie­tro Ingrao, grande ere­tico e un uomo pro­fon­da­mente di par­tito, intel­let­tuale e diri­gente popo­la­ris­simo, il tutto per cento anni di lunga vita, può rimet­tere insieme per qual­che ora le tante sto­rie di chi nel Pci c’è stato, o l’ha votato o magari l’ha con­te­stato da sini­stra. E se la com­mo­zione per la morte di un lea­der che ha lasciato un buon ricordo anche in tutti i suoi avver­sari è tanta, lo è anche per la dif­fusa sen­sa­zione che que­sto saluto sia dav­vero l’ultimo. La morte del vec­chis­simo Ingrao cala il sipa­rio su una sto­ria già chiusa.

Al primo piano della camera dei depu­tati, la camera ardente è alle­stita nella sala che da qual­che anno è inti­to­lata ad Aldo Moro (e nel ’78 toccò ad Ingrao pre­si­dente dell’assemblea di Mon­te­ci­to­rio avver­tire l’aula del rapi­mento del segre­ta­rio Dc, con un discorso che fu cri­ti­cato per­ché troppo breve e senza dibat­tito, ma in quell’ora tra­gica il comu­ni­sta avver­tiva l’urgenza di far nascere un governo, quello Andreotti, che pure non gli pia­ceva). Il primo pic­chetto attorno alla bara sco­perta è quello della Fiom, con Mau­ri­zio Lan­dini. La grande fami­glia Ingrao è siste­mata in una fila di sedie sul lato sini­stro, la sorella Giu­lia, le figlie Cele­ste, Bruna, Chiara e Renata, il figlio Guido, tanti nipoti. Alle pareti le corone di fiori della alte cari­che isti­tu­zio­nali e una sola di par­tito, il Pd. Un ritratto di Ingrao stac­cato dalla «Corea» - la Gal­le­ria dei pre­si­denti - è siste­mato al cen­tro tra una ban­diera del Pci e una della pace.

Men­tre si alter­nano i pic­chetti - Ber­ti­notti, Ven­dola e il gruppo diri­gente di Sel, Fas­sina, il pre­si­dente della Regione Lazio Zin­ga­retti e il vice sin­daco di Roma Causi - arriva subito Gior­gio Napo­li­tano. Saluta i parenti con un bacio, resta un po’ in appog­gio sul bastone di fronte al fere­tro, poi si avvi­cina e dà un col­petto a mano aperta sul legno, forse una carezza. Alla Stampa ha detto che «Ingrao è stato un uomo di asso­luta lim­pi­dezza morale, non ha mai com­bat­tuto bat­ta­glie per inte­ressi o ambi­zione per­so­nale»; i due sono stati molto avver­sari nel Pci, divisi da tutto ancora prima del cele­bre dis­senso di Ingrao nel con­gresso del ’66 e fino allo scio­gli­mento del ’90. «Ingrao era per il mono­ca­me­ra­li­smo», trova il modo di ricor­dare il pre­si­dente eme­rito della Repub­blica che oggi è il primo spon­sor della riforma costi­tu­zio­nale di Renzi. Ed è vero, salvo che nella sua costante rifles­sione sui «pro­blemi dello Stato», Ingrao par­tiva dall’esigenza di raf­for­zare par­la­mento e rap­pre­sen­tanza (rac­colto da poco in volume il suo car­teg­gio con Nor­berto Bob­bio): il mono­ca­me­ra­li­smo con l’Italicum è tutta un’altra storia.

La ten­ta­zione di accor­dare il pen­siero di un grande lea­der con il pro­prio è com­pren­si­bile — si faceva anche nel Pci con le posi­zioni di Togliatti, «lo chia­ma­vamo “tirare la coperta”, ha ricor­dato Ingrao nel suo Le cose impos­si­bili -, alla camera ardente arriva Achille Occhetto pre­ce­duto da un fondo sull’Unità ren­ziana in cui sostan­zial­mente rac­conta che Ingrao avrebbe ade­rito alla svolta della Bolo­gnina se solo gliel’avesse spie­gata lui. Renzi è a New York per l’assemblea Onu, il governo è pre­sente con la mini­stra delle riforme Boschi, il vice­mi­ni­stro Morando e il sot­to­se­gre­ta­rio De Vin­centi, che fa anche un turno di pic­chetto. Assenti in massa alla cele­bra­zione uffi­ciale della camera del cen­te­simo com­pleanno di Ingrao, i ren­ziani sta­volta fanno capo­lino: il capo­gruppo del Pd alla camera Rosato, il capo­gruppo al senato Zanda, il depu­tato Car­bone, la pre­si­dente della prima com­mis­sione del senato Finoc­chiaro. Pochi gli espo­nenti dei par­titi di cen­tro e destra che ven­gono a ren­dere omag­gio, il vice pre­si­dente for­zi­sta della camera Bal­delli, l’ex Dc D’Onofrio, Rutelli, Mariotto Segni, Nando Ador­nato che ha tra­scorsi comu­ni­sti. In serata fa il suo ingresso il pre­si­dente del senato Piero Grasso. Ma è soprat­tutto un incon­trarsi a sini­stra, tra i tanti che sono stati ingra­iani almeno un po’, o «mino­ranza di sini­stra» come pre­fe­riva Ingrao. Come Occhetto, del resto, che va incon­tro e si fa rico­no­scere dall’ottantenne Luigi Schet­tini, che è stato una colonna dell’ingraismo meri­dio­nale. Un po’ alla volta arri­vano Gavino Angius, Luigi Ber­lin­guer, Gianni Cuperlo, Wal­ter Tocci, Cesare Damiano, Vin­cenzo Vita, Cesare Salvi, Gior­gio Ruf­folo, Ugo Spo­setti, Wal­ter Vel­troni. Invece entra unita la dele­ga­zione dell’Ars: Aldo Tor­to­rella, Alfiero Grandi e Piero De Siena.

La ceri­mo­nia nel palazzo si pre­sta poco alla par­te­ci­pa­zione popo­lare, ma sono comun­que cen­ti­naia i cit­ta­dini romani che sfi­lano davanti al cada­vere di Ingrao. A tratti davanti all’ingresso prin­ci­pale della camera si forma una pic­cola fila. Molti por­tano un fiore, qual­cuno alza veloce un pugno chiuso. Domani i fune­rali saranno in piazza Mon­te­ci­to­rio, all’aperto. Come quelli di Pajetta, 25 anni fa.

La Repubblica, 29 settembre 2015

«Il voto, da solo, non basta». In questa breve frase di Pietro Ingrao può essere racchiuso tutto il senso della sua lunga riflessione sulla democrazia, sulla rappresentanza, sul sistema parlamentare. Le considerazioni che seguono sono un commento a queste parole: un commento che ha sullo sfondo — non potrebbe essere diversamente — le condizioni attuali della democrazia nel nostro Paese. Prendo lo spunto da un carteggio tra lo stesso Ingrao e Norberto Bobbio, a margine e a seguito d’un convegno torinese svoltosi nell’autunno del 1985. Le lettere sono, la prima (di Bobbio), del 12 novembre e l’ultima (d’Ingrao) del 30 gennaio 1986 (ora in P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento , Ediesse). In quel dialogo si discute di “vera e falsa democrazia”. Sono a confronto due posizioni. Bobbio ripropone quella ch’egli stesso definiva la “definizione minima” di democrazia. Questa definizione a Ingrao appariva insufficiente. Anzi, nelle condizioni economiche e sociali date, gli appariva vuota e ingannevole: in sostanza, la copertura d’interessi di oligarchie nazionali e sovranazionali, contrastanti con i diritti delle masse lavoratrici e con la loro urgenza d’emancipazione. La riflessione e la terminologia di Ingrao vengono da lontano. Masse e potere è il titolo d’una raccolta di scritti (il primo è del 1964), pubblicata nel 1977, che ispirò in quegli anni parte della sinistra. I concetti- chiave di Ingrao sono tre: masse, unità ed egemonia. Naturalmente, stiamo parlando delle masse popolari, dell’unità della sinistra e dell’egemonia della cultura che ne costituiva l’identità.

Ma — ecco entrare in scena Bobbio — nell’intento di accordare la democrazia ai contesti storici, esistono limiti concettuali che devono essere tenuti fermi, a pena di confusione, fraintendimenti e, anche, d’inganni. Una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”, ma non il risultato del gioco. In un testo del 1987 (ora in Teoria generale della politica , Einaudi), le due regole diventano sei, così: 1. tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, debbono godere dei diritti politici, cioè ciascuno deve godere del diritto di esprimere la propria opinione o di scegliere chi la esprime per lui; 2. il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale; 3. tutti coloro che godono dei diritti politici debbono essere liberi di poter votare secondo la propria opinione formatasi quanto più è possibile liberamente, cioè in una libera gara tra gruppi politici organizzati in concorrenza fra loro; 4. debbono essere liberi anche nel senso che debbono essere posti in condizione di scegliere tra soluzioni diverse, cioè tra partiti che abbiano programmi diversi e alternativi; 5. sia per le elezioni, sia per le decisioni collettive, deve valere la regola della maggioranza numerica, nel senso che si consideri eletto il candidato, o si consideri valida la decisione, che ha ottenuto il maggior numero di voti; 6. nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, particolarmente il diritto di diventare maggioranza a parità di condizioni. Ripercorrendo questi sei punti, ci accorgiamo che la definizione minima e formale resta ferma, ma si introducono precisazioni, per così dire, di ambiente.

In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria; la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine, sempre, da analisi realistiche. A differenza di quel che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le “regole del gioco” non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. L’aspetto sostanziale è sempre presente. Si tratta di promuovere realizzazioni e contrastare tendenze, avendo come obiettivo i principi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’art. 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza — per rimanere nell’immagine — del gioco che viene giocato.

Al di là delle questioni di parole, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto, è, forse, che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso a ogni costo. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao. Il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano. Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi, Ingrao della democrazia come lotta politica; l’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza, l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che farsi della democrazia, che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà.

Se queste forze mancano, le forme, da sole, non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo d’un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente; che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà non o anti- democratiche, alla fine ripudiata dai cittadini, è Bobbio stesso a riconoscerlo: «Io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima, un regime democratico non è destinato a durare » (Lettera a Guido Fassò del 14 febbraio 1972, citata in L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia ,

Laterza. Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cose dette più di trent’anni fa, ma valide non solo per quei tempi.

(Questo testo è un estratto del discorso pronunciato da Gustavo Zagrebelsky il 31 marzo 2015 in occasione dei 100 anni di Pietro Ingrao su invito della Camera dei deputati)

Il manifesto, 29 settembre 2015

Quando chi viene a man­care ha più di cent’anni all’evento si è pre­pa­rati, e dun­que il dolore dovrebbe essere minore. E invece non è così, per­ché pro­prio la loro lunga vita ci ha finito per abi­tuare all’idea irreale che si tratti di esseri umani dotati di eter­nità. Pie­tro Ingrao, per di più, è stato così larga parte della vita di tan­tis­simi di noi che è dif­fi­cile per­sino pen­sare alla sua morte senza pen­sare alla pro­pria. (E sono certa non solo per quelli di noi già quasi altret­tanto vecchi).

Così, quando dome­nica mi ha rag­giunto la tele­fo­nata di Chiara e io ero a sedere al sole in un caffè delle Ram­blas a Bar­cel­lona dove, essendo di pas­sag­gio per la Spa­gna, mi ero fer­mata per aspet­tare i risul­tati elet­to­rali della Cata­lo­gna, il suo tri­stis­simo annun­cio è stato quasi una fuci­lata. Per­ché prima di ogni altra cosa è stato come mi venisse aspor­tato un pezzo del mio stesso corpo.

Così, io credo, è stato per tutta la lar­ghis­sima tribù chia­mata «gli ingra­iani», qual­cosa che non è stata mai una cor­rente nel senso stretto della parola per­ché la nostra intro­iet­tata orto­dos­sia non ci avrebbe nep­pure con­sen­tito di imma­gi­nare tale la nostra rete.

E però siamo stati forse di più: un modo di inten­dere la poli­tica, e dun­que la vita, al di là della spe­ci­fi­cità delle ana­lisi e dei pro­grammi che soste­ne­vamo. Sic­ché sin dall’inizio degli anni ’60 e fino ad oggi, gli ingra­iani sono in qual­che modo distin­gui­bili, seb­bene le loro scelte indi­vi­duali siano andate col tempo diver­gendo, den­tro e fuori del Mani­fe­sto; e poi den­tro e fuori le suc­ces­sive labili rein­car­na­zioni del Pci. Oggi poi - den­tro una sini­stra che fatica a rico­no­scere i pro­pri stessi con­no­tati e nes­suno si sente a casa pro­pria dove sta per­ché vor­rebbe la sua stessa casa diversa da come è – que­sto tratto sto­rico dell’ingraismo direi che pesa in cia­scuno anche di più.

Vor­rei che non si per­desse, per­ché al di là delle scelte diverse cui ha con­dotto cia­scuno di noi, è un patri­mo­nio pre­zioso e utile anche oggi.

Di quale sia stato il nucleo forte del pen­siero di Pie­tro Ingrao, ho già par­lato, io e altri, tante volte, e ancora nell’inserto che il mani­fe­sto ha dedi­cato ai suoi cent’anni, ripro­po­sto on line pro­prio ieri. Vor­rei che quelle sue ana­lisi e linee pro­gram­ma­ti­che che pur­troppo il Pci non fece pro­prie, non venisse anne­gato, come è acca­duto per Enrico Ber­lin­guer, nella reto­rica ridut­tiva e stra­vol­gente dell’ “era tanto buono, bravo one­sto, ci dà corag­gio e passione”.

Oggi, comun­que, di Pie­tro vor­rei affi­dare alla memo­ria soprat­tutto due cose, che poi sono in realtà una sola: l’ascolto degli altri e l’idea della poli­tica come, innan­zi­tutto, par­te­ci­pa­zione e per­ciò sog­get­ti­vità delle masse.

Quando incon­trava qual­cuno, o anche nelle riu­nioni e per­sino nel dia­logo con un com­pa­gno ai mar­gini di un comi­zio, era sem­pre lui che per primo chie­deva: “ma tu cosa pensi?” ;“come giu­di­chi quel fatto?”; “cosa pro­por­re­sti?”. Non era un vezzo, voleva pro­prio saperlo e poi stava a sen­tire. Per­ché il suo modo di essere diri­gente stava nel cer­care di inter­pre­tare il sen­tire dei com­pa­gni. Anche di por­tare le loro idee a un più alto livello di ana­lisi e pro­po­sta, cer­ta­mente, ma sem­pre a par­tire da loro, per arri­vare, assieme a loro, e non da solo, a una con­clu­sione, a una scelta.

Per que­sto quel che per lui con­tava, quello che a suo parere qua­li­fi­cava la demo­cra­zia e la qua­lità di un par­tito, era la par­te­ci­pa­zione, la capa­cità di sti­mo­lare il pro­ta­go­ni­smo, la sog­get­ti­vità delle masse. Senza di cui non poteva esserci né teo­ria né prassi significativa.

Non voglio espli­ci­tare para­goni con l’oggi, sarebbe impietoso.

Ros­sana, rispon­dendo ad un’intervista di La Repub­blica, ieri ha detto di Pie­tro, anche della sua reti­cenza nell’assumere posi­zioni più nette, come fu al momento in cui noi, pur “ingra­iani doc”, ope­rammo la rot­tura della pub­bli­ca­zione della rivi­sta Il mani­fe­sto. E poi ricorda anche Arco di Trento, quando quel 30 per cento del Pci che rifiu­tava lo scio­gli­mento del par­tito pro­po­sto dalla mag­gio­ranza occhet­tiana, pur rico­no­scen­dosi nella rela­zione che a nome di tutti aveva fatto Lucio Magri, si divise sulle scelte da com­piere: fra chi decise di uscire e dette vita a Rifon­da­zione, e chi - come Pie­tro - decise invece che sarebbe comun­que restato nell’organizzazione, il Pds, che, già mala­tic­cio, veniva alla luce. “Per stare nel gorgo”, come disse con una frase che è rima­sta scol­pita nella testa di tutti noi. Certo, è vero: se Pie­tro si fosse unito alla costru­zione di un nuovo sog­getto poli­tico sarebbe stato diverso, molto diverso. La rifon­da­zione comu­ni­sta più ricca e dav­vero rifon­da­tiva, per via del suo per­so­nale apporto ma anche di quella larga area di qua­dri ingra­iani che costi­tuiva ancora un pezzo vivo del Pci e sareb­bero stati pre­ziosi alla nuova impresa; e invece resta­rono invi­schiati e di mala­vo­glia nel lento depe­rire degli orga­ni­smi che segui­rono: il Pds, poi i Ds, infine, ma ormai solo alcuni, nel Pd.

Pie­tro però capì subito che stare in quel con­te­sto non era più “stare nel gorgo”, per­ché il gorgo, seb­bene assai inde­bo­lito, scor­reva ormai altrove. E infatti ruppe poco dopo e si impe­gnò nei movi­menti che gene­ra­zioni più gio­vani ave­vano avviato. E da que­sti fu ascoltato.

La sto­ria come sap­piamo non si fa con i se. Ma riflet­tere su quel pas­sag­gio sto­rico, per ragio­nare sugli errori com­piuti, da chi e per­ché e quali, sarebbe forse utile a chi, come tutti noi, sta cer­cando di costruire un nuovo sog­getto politico.

Per farlo nascere bene mi sem­bra comun­que essen­ziale por­tarsi die­tro l’insegnamento fon­da­men­tale di Pie­tro, che non è infi­ciato dal non avere, qual­che volta, ten­tato abba­stanza : che non c’è par­tito che valga la pena di fare se non si attrezza, da subito, a diven­tare una forza in grado di sol­le­ci­tare la sog­get­ti­vità popo­lare, per­ché que­sta è più pre­ziosa di ogni ortodossia.

Ma vor­rei che di Pie­tro ci por­tas­simo die­tro anche l’ottimismo della volontà.

Era lui che amava citare la famosa para­bola di Bre­cht sul sarto di Ulm (da cui Lucio Magri trasse poi il titolo del suo libro sul comu­ni­smo ita­liano). Come ricor­de­rete, il sarto insi­steva che l’uomo avrebbe potuto volare, fin­ché, stufo, il vescovo prin­cipe di Ulm gli disse “prova” e que­sti si gettò dal cam­pa­nile con le fra­gili ali che si era costruito. E natu­ral­mente si sfra­cellò. Bre­cht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Per­ché alla fine l’uomo ha volato. E’ la para­bola del comu­ni­smo: fino ad ora chi ha pro­vato a rea­liz­zarlo su terra si è sfra­cel­lato, ma alla fine, come è acca­duto con l’aviazione, ci riusciremo.

E’ que­sto l’impegno che nel momento della scom­parsa del nostro pre­zioso com­pa­gno Pie­tro Ingrao vor­rei pren­des­simo: di provarci.

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