Così un Parlamento incostituzionale distrugge una costituzione e mezzo secolo di storia. Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone ce lo ricordano con indignazione. Ma la vita continua; a vivere nel fango ci si abitua.
Il manifesto, 13 ottobre 2015
Massimo Villone
Questo testo può essere sottoscritto scrivendo a costituzione@ilmanifesto.info».
«Lettera del leader palestinese in prigione e Membro del Parlamento, detto il Mandela palestinese. “Nessun popolo accetterebbe di convivere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo anelare, lottare, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo”».
Il manifesto, 13 ottobre 2015 (m.p.r.)
L’escalation di violenze non è cominciata con l’uccisione di due coloni israeliani, è cominciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono Palestinesi uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno che passa, il colonialismo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza continua, oppressioni e umiliazioni si susseguono. Mentre molti oggi ci vogliono schiacciati dalle possibili conseguenze di una nuova spirale di violenza, io continuerò, come ho fatto nel 2002, a chiedere di occuparsi delle cause che stanno alla radice della violenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi.
Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è raggiunto un accordo di pace è stata la mancata volontà del defunto Presidente Yasser Arafat o l’incapacità del Presidente Mahmoud Abbas, mentre sia l’uno che l’altro erano disposti e capaci di firmare un accordo di pace. Il vero problema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i negoziati come una cortina di fumo per portare avanti il suo progetto coloniale. Tutti i governi del mondo conoscono questa semplice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fallite del passato ci potrebbe permettere di raggiungere libertà e pace. Follia è continuare a fare sempre la stessa cosa e aspettarsi che il risultato cambi. Non ci può essere negoziato senza un chiaro impegno di Israele a ritirarsi completamente dal territorio palestinese che ha occupato nel 1967 (tra cui Gerusalemme), una completa cessazione di tutte le pratiche coloniali, il riconoscimento dei diritti inalienabili dei Palestinesi, compreso il loro diritto all’autodeterminazione e al ritorno, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo convivere con l’occupazione, e non ci arrenderemo all’occupazione.
Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occasioni e occasioni per raggiungere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricordare al mondo che, per noi, espropriazione, esilio forzato, trasferimento e oppressione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l’unico problema bloccato nell’agenda dell’Onu dalla sua fondazione. Ci è stato detto che se ci affidavamo a metodi pacifici e alla strada della diplomazia e della politica, ci saremmo guadagnati l’appoggio della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. Eppure, come già era avvenuto nel 1999 alla fine del periodo di interim, la comunità internazionale non ha intrapreso alcuna azione significativa, come ad esempio costituire una struttura internazionale per applicare la legge internazionale e le risoluzioni dell’Onu, varare misure per garantire la responsabilizzazione delle parti, anche attraverso boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni, come era stato fatto per liberare il mondo dal regime dell’apartheid.
E allora, in mancanza di un intervento internazionale per porre fine all’occupazione, in mancanza di una seria azione dei vari governi per interrompere l’impunità di Israele, in mancanza di qualunque prospettiva di protezione internazionale per il popolo palestinese sotto occupazione, e mentre il colonialismo e le sue manifestazioni violente hanno un’impennata (compresi gli atti di violenza dei coloni israeliani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspettare che un’altra famiglia palestinese sia bruciata, che un altro giovane palestinese sia ucciso, che un altro insediamento sia costruito, che un’altra casa palestinese sia distrutta, che un altro bambino palestinese sia arrestato, che i coloni facciano un altro attacco, che ci sia un’altra aggressione contro il nostro popolo a Gaza?
Tutto il mondo sa che Gerusalemme è la fiamma che può ispirare la pace e che può accendere la guerra. E allora perché il mondo rimane immobile mentre gli attacchi israeliani contro i Palestinesi della città e contro i luoghi santi musulmani e cristiani – specialmente Al-Haram Al-Sharif – continuano senza sosta? Le azioni e i crimini di Israele non distruggono soltanto la soluzione dei due stati secondo i confini del 1967 e non violano soltanto la legge internazionale, ma minacciano di trasformare un conflitto politico risolvibile in una guerra religiosa senza fine che indebolirà ulteriormente la stabilità in una regione che è già preda di un disordine senza precedenti.
Nessun popolo della terra accetterebbe di convivere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo anelare alla libertà, lottare per la libertà, sacrificarsi per la libertà. E la libertà del popolo palestinese è in grave ritardo. Durante la prima Intifada il governo di Israele lanciò lo slogan “spezza le loro ossa per spezzare la loro volontà”, ma, una generazione dopo l’altra, il popolo palestinese ha dimostrato che la sua volontà è indistruttibile e non deve essere messa alla prova.
Questa nuova generazione palestinese non ha aspettato colloqui di riconciliazione per incarnare quell’unità nazionale che i partiti politici non hanno saputo raggiungere, ma si è posta al di sopra delle divisioni politiche e della frammentazione geografica. Non ha aspettato istruzioni per sostenere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a questa occupazione. E lo fa disarmata, di fronte ad una delle maggiori potenze militari del mondo. Eppure continuiamo ad esser convinti che libertà e dignità trionferanno, e noi avremo la meglio. E che quella bandiera che abbiamo innalzato con orgoglio all’Onu sventolerà un giorno sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, e non per un giorno ma per sempre.
Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa e sono stato imprigionato per la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di adoperarmi per una pace basata sulla legge internazionale e sulle risoluzioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occupante, distruggere metodicamente questa prospettiva un anno dopo l’altro. Ho trascorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle prigioni di Israele e tutti questi anni mi hanno reso ancora più convinto di questa immutabile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace.
Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione.
Stiamo sulla nave dei folli. Non è folle che un parlamento eletto con una egge giudicata incostituzionale si sia assunto il potere di decidere «una sostanziosa riscrittura» (dicesi "riscrittura") della Costituzione?. La
Repubblica, 12 ottobre 2015
La riforma contiene molte novità, la più importante delle quali è certamente la fine del bicameralismo perfetto, con il potere legislativo — e soprattutto quello di dare e negare la fiducia al governo — che si sposta alla Camera dei deputati. Ma ce ne sono molte altre. Una complicata elezione indiretta dei nuovi senatori, che saranno solo 100 (non più 315) e saranno scelti dai cittadini al momento di eleggere i Consigli regionali. L’addio ai senatori a vita. La conferma dell’immunità parlamentare anche per Palazzo Madama. Le corsie preferenziali per i disegni di legge del governo, ma anche per le proposte dell’opposizione. L’introduzione del referendum propositivo. La riscrittura delle competenze dello Stato e di quelle delle Regioni. L’abolizione delle Province e del Cnel. Il giudizio preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali. Ma vediamo uno per uno quali sono i punti principali della riforma.
I CONSIGLIERI-SENATORI
I nuovi senatori, come dicevamo, saranno solo 100: 95 eletti dalle Regioni ( 74 consiglieri e 21 sindaci, uno per regione più uno ciascuno a Trento e Bolzano) più 5 senatori di nomina presidenziale, che però non saranno più a vita, salvo gli ex capi dello Stato, ma resteranno in carica sette anni. Fatta eccezione per la prima volta i senatori non saranno eletti tutti contemporaneamente ma in coincidenza del rinnovo dei Consigli regionali (e dunque decadranno con essi).
E’ qui che Palazzo Madama ha introdotto la modifica più significativa: i senatori saranno sì eletti dai consiglieri regionali, come era previsto nel testo precedente, ma “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, applicando una legge elettorale che dovrà essere varata dal Parlamento entro sei mesi dall’entrata in vigore della nuova Costituzione. Per i senatori non è più prevista l’indennità (riservata ai soli deputati) ma viene confermata l’immunità parlamentare: non potranno essere perquisiti, intercettati o arrestati senza l’autorizzazione dell’aula.
ADDIO BICAMERALISMO PERFETTO
Cosa faranno i nuovi inquilini di Palazzo Madama? Il Senato non voterà più la fiducia al governo, e solo per alcune materie conserverà la funzione legislativa. Potrà verificare l’attuazione delle leggi, nominare commissioni d’inchiesta ed esprimere pareri sulle nomine governative, ma da lì dovranno passare solo le riforme della Costituzione, le leggi costituzionali, le leggi sui referendum popolari, le leggi elettorali degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali.
Tutte le altre leggi saranno di competenza della Camera dei deputati, ma il Senato conserverà un potere di intervento anche su quelle. Potrà esprimere proposte di modifica a una legge (su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti), ma in tempi strettissimi: gli emendamenti dovranno essere votati entro trenta giorni, dopodiché la legge tornerà alla Camera che si pronuncerà definitivamente (e potrà anche respingere le proposte di modifica). I senatori potranno esprimersi anche sulle leggi di bilancio, ma avranno solo 15 giorni e dovranno raggiungere la maggioranza assoluta. Anche in questo caso però l’ultima parola spetterà alla Camera. Infine, se la maggioranza assoluta dei suoi membri sarà d’accordo, il Senato potrà chiedere alla Camera di esaminare un determinato isegno di legge, che dovrà essere messo ai voti entro sei mesi.
Cambierà radicalmente anche il potere del governo nel procedimento legislativo: l’esecutivo avrà il potere di chiedere che sui provvedimenti indicati come “ essenziali per l’attuazione del programma di governo” la Camera si pronunci entro il termine di 70 giorni (prorogabile di altri 15 in casi eccezionali). Alla scadenza del tempo, ogni provvedimento sarà posto in votazione “senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale”.
LA CONSULTA E I REFERENDUM
Le leggi che regolano l’elezione della Camera e del Senato potranno essere sottoposte al giudizio preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale (che dovrà pronunciarsi entro un mese) su richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei Senatori, ma “entro dieci giorni dall’approvazione della legge” (anche se una norma transitoria renderà possibile il ricorso per l’Italicum). La quota di giudici oggi eletta dal Parlamento in seduta comune viene divisa tra le due Camere: tre a Montecitorio e due a Palazzo Madama. Nuove regole per le consultazioni popolari. Vengono previsti i referendum propositivi e viene fissato un quorum più basso (la metà più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche) per i quesiti sui quali sono state raccolte almeno 800 mila firme. Per le leggi di iniziativa popolare, la soglia viene alzata da 50 mila a 150 mila firme.
LO STATO E LE REGIONI
Vengono soppressi il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e le Province, finora protette dalla Costituzione. Nello stesso tempo, viene rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle Regioni. Mentre oggi vengono elencate tutte le materie su cui queste ultime possono legiferare, con la riforma è lo Stato a delimitare la sua competenza esclusiva. I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni avranno la possibilità di imporre tributi autonomi.
QUIRINALE, CAMBIA IL QUORUM
Per eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale non basterà più la maggioranza assoluta. Scompariranno i delegati regionali, ma cambierà anche il numero di votazioni per le quali sarà richiesta la maggioranza dei due terzi, un quorum altissimo che solo in pochi (e tra questi Ciampi, Cossiga e Napolitano) sono riusciti a superare. Attualmente la Costituzione impone questo quorum fino al terzo scrutinio, oltre il quale è sufficiente la maggioranza assoluta, ovvero la metà più uno. La nuova norma invece il quorum dei due terzi per primi tre scrutini, poi lo fa scendere ai tre quinti nei successivi quattro, e alla settima votazione in poi lo abbassa ai tre quinti dei votanti (non degli aventi diritto). Non più, dunque, alla maggioranza assoluta.
Economia battuta dai diritti personali. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi.
La Repubblica, 12 ottobre 2015
Di fronte ad una politica aggressivamente ripiegata sulla sola economia, sono i giudici che cercano di mantenere viva l’Europa dei diritti. Lo ha confermato qualche giorno fa una sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo che ha dichiarato illegittima una decisione della Commissione europea del 2000 sul trasferimento dei dati personali dai paesi dell’Unione europea negli Stati Uniti perché violava il diritto fondamentale alla tutela della privacy. La sentenza nasce da un caso riguardante Facebook, è stata certamente influenzata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio elettronico americano, ma mette in evidenza un vizio d’origine dell’intesa tra Commissione europea e amministrazione degli Stati Uniti, sul quale bisogna riflettere.
Aiuto! Al Pd sono spariti i candidati. Affogati nel ragù renziano, invisibili, declinanti prima ancora di aver tentato il decollo. Il giovanissimo e atletico centrosinistra di Matteo annaspa ovunque in Italia. Non parliamo del centrodestra. Dei cinquestelle vale la regola della tripla al totocalcio: possono fare eleggere una nuova classe dirigente ma anche disperderla nella curva da ultras della rete.
Il fallimento di un'iniziativa per la quale l'Italia era già inadeguata quando la fondarono. Figuriamoci adesso.
La Repubblica, 11 ottobre 2015
La Scuola nazionale della pubblica amministrazione si è inceppata di fronte a un ostacolo più grande di lei: la pubblica amministrazione. Dei 26 vincitori del VI concorso, che si è concluso a luglio 2014 dopo una selezione rigorosissima (per il bando arrivarono più di 10mila iscrizioni) e dopo un anno di formazione di alto livello, lo Stato è riuscito ad assumerne soltanto 9. Più o meno a casaccio, tra l’altro, pescando nella graduatoria finale senza seguire l’ordine del merito. Gli altri 17 sono finiti in coda, ad aspettare che vengano riassorbiti tutti i dipendenti in uscita dalle province. Nella peggiore delle ipotesi, se ne riparla tra un paio d’anni.
È andata così. Il concorso è stato indetto a giugno del 2012 e prevedeva che i vincitori, dopo adeguata formazione, venissero assunti in ruoli dirigenziali: 26 posti, appunto, numero a cui si arrivava a seguito della ricognizione fatta dal Dipartimento della Funzione pubblica in base alle esigenze di personale. Non è un caso, infatti, che le domande di iscrizione furono tantissime, superarono quota diecimila. Alla prova preselettiva, a febbraio 2013, si presentarono più di 4mila candidati. Dopo una durissima scrematura durata altre quattro giornate d’esame, è stata stilata la lista degli ammessi a seguire le lezioni nella più splendida delle cornici: la Reggia di Caserta. La Sna infatti ha una delle sedi proprio in alcune sale all’interno della Reggia, per quanto vitto e alloggio siano totalmente a carico degli studenti per i nove mesi di corso.
Il corpo docenti, poi, è notevole e, come tale, viene pagato: oltre a diversi professori di università (tra cui Michel Martone, ex viceministro del Lavoro, il cui compenso è di 59.000 euro), figurano il consigliere parlamentare in pensione Marcello Degni (59.000 euro), il dirigente di ricerca all’Istat Efisio Gonario Espa (106.000 euro), il funzionario del Parlamento europeo Sandro Mameli (135.000 euro), Alberto Heimler già direttore centrale dell’Autorità garante della Concorrenza e Mercato (173.000 euro) e Angela Razzino, dirigente generale dell’Inail (152.000 euro). Alcuni insegnanti – stando a quando raccontano gli studenti – si sono visti pochissimo dalle parti di Caserta. Infine c’è il presidente, il professor Giovanni Tria, che tra lo stipendio dell’università di appartenenza e l’indennità Sna arriva a prendere 217.271 euro.
Sono cifre di una certa importanza, tant’è che la scuola spende per la retribuzione dei professori 2,7 milioni di euro all’anno, esattamente quanto l’École Nationale, con la differenza che là devono formare non 26 ma 90 studenti. Il confronto dei bilanci è imbarazzante per la Sna, perché è vero che costa la metà rispetto all’Ena di Parigi (21 milioni contro 42), ma è anche vero che ha meno di un terzo dei posti.
Comunque, ad agosto dello scorso anno il dipartimento della Funzione pubblica ha finalmente comunicato con una nota la lista delle posizioni di qualifica dirigenziale nelle varie amministrazioni, spettanti a chi aveva frequentato la Sna. Davanti al documento, però, c’è da rimanere perplessi. Sono spariti senza spiegazione i posti più ambiti, cioè i quattro previsti nella struttura di vertice della Presidenza del Consiglio. Non solo. I due dirigenti da assumere al ministero della Difesa dovevano firmare il contratto al massimo entro marzo 2015 ma ancora sono lì che aspettano. Per tutti gli altri l’impegno che si è assunto per iscritto il ministero di Maria Anna Madia era quello dell’assunzione “entro il 2015”. In nove casi su ventisei, è stato mantenuto, anche se non si capisce in base a quale logica. Per gli altri, invece, la prospettiva è quella di una lunga anticamera.
“Al Dipartimento della funzione pubblica non ci vogliono nemmeno ricevere – sostengono i vincitori non assunti – circola voce che dovranno prima smaltire le migliaia di dipendenti delle province. Ma anche su questo non ci dicono niente di certo, continuiamo a chiamarli inutilmente”. L’inghippo, come nelle peggiori storie di burocrazia, è contenuto in un minuscolo comma. Nella legge di Stabilità, scorrendo l’articolo 1 si arriva al comma 425 che prevede, tra le misure di contenimento della spesa per il riordino delle Province, un divieto di assunzioni a tempo indeterminato, specificato meglio anche da una successiva circolare del ministro Madia datata gennaio. “La normativa però esclude i vincitori di concorso”, sostengono gli studenti della Sna, che intendono rivolgersi all’avvocato per fare ricorso. Dalla loro parte, anche la logica. “Se il divieto è previsto dal comma 425 – osservano - perché nove di noi sono stati presi?”.
Una sintetica illustrazione della condizione iniqua nella quale sopravvive il popolo palestinese. L'obiettivo non dovrebbe essere quello di rovinare la festa a chicchessia, si tratti pure di due sudditi dei poteri dominanti, ma di contribuire alla fine del massacro di un popolo. Il manifesto, 11 ottobre 2015
Privato di ogni diritto, relegato nei ghetti dei campi profughi in casa propria, guardato a vista dalle torre militari dell’occupante, separato dal Muro di Sharon — il primo edificato dopo il mitico crollo del muro di Berlino. E con una leadership ormai inascoltata perché incapace di corrispondere alle aspettative popolari. Quel popolo, che ha visto l’umiliazione dei propri capi storici come Arafat relegato dai tank israeliani nella Muqata e poi eliminato e come Marwan Barghouti che langue da anni nelle carceri israeliane, alla fine si è diviso e radicalizzato. Non nella forma a noi più consona, politicamente e socialmente ma, in assenza di una reale società civile, nelle modalità ideologiche del richiamano all’’Islam. Tema che, con i nuovi provvedimenti di Netanyahu e le ultime colonie israeliane — che ridisegnano anche la mappa dei luoghi religiosi di Gerusalemme est fino a impedire il diritto a pregare -, torna pericolosamente come l’unica bandiera. Ora una nuova generazione di giovani palestinesi è in rivolta. Ci si interroga se sia una nuova Intifada e i media, a dir poco disattenti alla tragedia dei Territori palestinesi occupati, preparano schede ammonendo da lontano sui risultati della prima e della seconda Intifada.
Certo non abbiamo mai visto una rivolta più disperata, mentre l’appello alla protesta generale viene dai leader di Hamas dalla Striscia di Gaza che ha subìto in questi anni tre guerre impari nelle quali dall’alto dei cieli la sua gente è stata massacrata sotto gli occhi distratti del mondo. È disperata questa rivolta perché il popolo palestinese si presenta a questo appuntamento ancora una volta spaccato e ridotto alla protesta individualizzata dei coltelli e quindi quasi suicida e perdente in anticipo. Sgomentano gli accoltellamenti dei coloni e le immagini dei giovani con il coltello in mano, ma nessuno s’indigna di fronte alle immagine dei carri armati, delle mitragliatrici o dei fucili dei soldati israeliani che sparano sui manifestanti.
Quelle armi sono «normali», ma sono di uno degli eserciti più potenti al mondo che occupa militarmente un altro popolo. Che ora, con una nuova generazione che scende in piazza, può far saltare gli equilibri fin qui disastrosi e criminali del Medio Oriente. Nessuno giri lo sguardo dall’altra parte. La questione palestinese irrisolta è all’origine dell’intera tragedia mediorientale: i profughi delle Palestina occupata, diventati milioni, hanno destabilizzato regni, pseudo– democrazie e regimi, dalla Giordania al Libano, alla Siria. Intanto Israele si è trasformato in poco meno di un regime integralista religioso d’estrema destra. Inoltre, prima che sia troppo tardi, com’è possibile dimenticare che l’argomento ideologico fondamentale quanto capace di alimentare odio, quello della «occupazione dei luoghi sacri dell’Islam», è il tema costitutivo di Al Qaeda e dello Stato islamico?
Due le vergogne da denunciare. Quella di Obama e quella dell’Italia renziana.
La Casa bianca ieri ha denunciato le nuove proteste palestinesi come «terroriste». È lo stesso presidente che al Cairo nel 2009 dichiarava di sentire «il dolore dei palestinesi privati del diritto alla loro terra». Sono passati sei anni ed è legittimo chiedere: al di là dell’accordo geostrategico con l’Iran, che cosa ha fatto realmente perché la condizione palestinese cambiasse, quali occasioni ha dato, se non sostenere la strategia di Benjamin Netanyahu che rilancia la colonizzazione della Palestina? Ma che farebbe il popolo americano se fosse occupato militarmente e disseminato di colonie?
L’altra vergogna è quella di Matteo Renzi, il governo più filoisraeliano della storia repubblica italiana. All’ultima seduta dell’assemblea generale dell’Onu si è dimenticato dell’esistenza della Palestina ridicolizzando il ruolo di Abu Mazen. Ora la bandiera della Palestina - che ha avuto perfino uno stand all’Expo - sventola all’Onu, ma si rischia la beffa perché quello Stato e quella terra non esistono. Renzi annuncia che farà un tour di propaganda nei teatri italiani per rappresentare la piece «quanto sono bravo». Roviniamogli lo spettacolo. Portiamo ad ogni suo appuntamento la bandiera palestinese: sventolarla nei Territori occupati per il governo israeliano è reato.
Una rassegna dello straordinario effetto di espansione a cerchi concentrici, del nostro principale contributo alla cultura della modernità, curioso considerando la posizione dell'Italia all'epoca.
La Repubblica, 11 ottobre 2015
Certo, il manifesto del 20 febbraio del 1909 scompaginò per sempre le carte. Il mito della velocità lì propugnato era come se avesse accelerato le reazioni. Subito prendono a inseguirsi le traduzioni. In romeno addirittura il giorno prima ! A marzo gli undici punti appaiono in Russia (il terreno era propizio). In aprile il manifesto esce in spagnolo a Madrid (tradotto da Gómez de la Serna), ma lo stesso mese il poeta Ruben Darío lo pubblica già a Buenos Aires. Ancora in aprile lo troviamo in croato, a maggio in giapponese. L’anno successivo è già in versione turca. È come se si fosse stuzzicato un alveare. Il tempo di riprendersi e cominciano a pullulare manifesti fuori dal controllo della centrale milanese. A Parigi esce un Manifestofuturista contro Montmartre (1913), nello stesso anno Valentine de Saint-Point presenta un Manifesto futurista della lussuria («Cessiamo di schernire il desiderio, distruggiamo i sinistri stracci romantici»), mentre sulla rivista Fantasio — dove Apollinaire aveva pubblicato il suo Cubismo culinario — appare un Manifesto della cucina futurista che prevede tra l’altro «uova in camicia nel sangue di bue». Intanto a Lisbona il pittore Almada-Negreiros — «ispirato dalla rivelazione di Marinetti» e abbigliato in una sorta di bizzarra tuta da pilota — declama nel ‘17 un Ultimatum futurista alle generazioni portoghesi del XX secolo .
E se nel ‘21 viene distribuito a Tokyo un più tradizionale volantino col Manifesto del gruppo futurista giapponese , in Polonia Bruno Jasienski e i suoi sodali lanciano un agguerrito Manifesto relativo all’immediata futuristizzazione della vita , che postula una «rapida tracheotomia» affinché «la vita e l’arte polacca» possano sopravvivere. Ormai non si potrà più dare inizio a qualsivoglia impresa artistica senza avere un proprio manifesto. E un nome da non sfigurare. Ricciotto Canudo stila un Manifeste de l’art cérébriste , in Cile sbuca un Manifesto del Runrunismo , a Porto Rico un Manifestoeuforista (vi si afferma con ponderazione «il poeta dev’essere un tonico per l’umanità, non un lassativo»), in Messico un Manifesto estridentista . E a questa foga non si sottrae certo il Manifesto antropofago delbrasiliano de Andrade che — stilato «l’anno 374° dalla deglutizione del Vescovo Sardinha» — propone di ingurgitare e metabolizzare la cultura europea.
Il futurismo ha rapidamente conquistato il mondo. Diffondendosi da solo, quasi per contagio. Marinetti ne è l’araldo e allo stesso tempo il testimonial. I suoi viaggi servono anche a marcare il territorio (come gli rinfacceranno i cubofuturisti russi, con abbondante volantinaggio). Il diagramma dei suoi spostamenti sembra la vorticosa pubblicità di un’agenzia di viaggi d’ampio respiro. Escludendo la Francia, dove aveva da tempo piantato le proprie radici, lo troviamo nel 1910 a Londra (contestato dalle suffragette), poi a Bruxelles, Mosca, Pietroburgo, Praga. Nel ‘26 dilaga in Sudamerica: Rio, Buenos Aires, Montevideo. In Argentina lo scrittore Subirat lo definisce un «fossile». Sulla copertina di un libro brasiliano campeggia una lastra tombale col suo nome. Ma a leggere le sue memorie, l’impatto era stato tale che a Bahia la gente — «in ricordo dei clamorosi trionfi del Futurismo» — prese a chiamare «Marinetti» gli autobus pubblici.
La sua presenza in scena è sempre elettrizzante. Quasi a contestare anticipatamente Ezra Pound che — stizzito dal suo tentativo di annessione degli avanguardisti inglesi — il mese successivo l’avrebbe definito «un cadavere», nel maggio del ‘14 Marinetti declama a Londra alcuni brani di Zang Tumb Tuuum munito di «martelli appositi» (per rendere «i rumori della fucileria e delle mitragliatrici »), tre lavagne a cui si avvicina veloce «per disegnarvi, in modo effimero, col gesso, un’analogia », e un telefono con cui imita i comandi dei generali turchi e dà a sua volta ordini all’addetto a due enormi tamburi, posto in una sala lontana.
Così il futurismo, «parola d’ordine di tutti gl’innovatori o franchi-tiratori intellettuali», gesto iniziale che — ben prima di Breton e dei surrealisti — accorcia la distanza tra le parole e crea immagini splendide e inattese, questa istigazione a trasformare la pagina in un libero campo di forze, produrrà in giro per il mondo fogli dalla fantasiosa impaginazione, varianti della «multiforme prospettiva emozionale» voluta da Marinetti, come le «poesie in cemento armato » di V. Kamenskij, dove lo specchio della pagina è diviso in spicchi autonomi di testo, o alcune tavole parolibere giapponesi dove, accanto ai tradizionali ideogrammi (in verticale), troviamo i «Bruuuun» onomatopeici a caratteri latini (e orizzontali), o il tripudio di lettere in libertà sulle pagine della commedia transmentale Lidantju il faro di Zdanevic, o la copertina di En avant Dada di Huelsenbeck con la sua illusoria fuga prospettica di parole. Un debito non sempre riconosciuto.
Nel ‘29, su ReD il boemo K. Teige fa ammenda di un decennio di reticenze sul futurismo: sulla copertina campeggia Marinetti in posa declamatoria in un disegno di Hoffmeister, ma la banda rossa di colore che lo copre come una toga svela in trasparenza sotto ai suoi piedi uno sgabello con due scarpette posticce, per guadagnare qualche centimetro.
Il premier turco Erdogan, fervido commilitone degli Usa, della Nato e dell'Unione europea, è alleato dell'IS, contro il quale Usa, Nato e UE digrignano i denti. Non è la guerra
dei curdi, ma contro i curdi. La Repubblica, 11 ottobre 2015
Dopo averli dispersi ai quattro venti, Iraq, Iran, Turchia e Siria, oltre che in una diaspora antica, la storia si è divertita a rimettere i curdi al centro della scena: una scena di guerra e terrore. La strage di ieri, per il numero di vittime, il luogo – la stazione- e il contesto elettorale, è famigliare agli italiani che ricordano che cosa volesse dire Strategia della tensione. La guerra civile tra l’esercito turco e il partito comunista e indipendentista curdo, il Pkk di Abdullah Ocalan, ha fatto dal 1984 quarantamila morti. Dopo una tregua nel 2013, e una serie di falsi movimenti negoziali, nel luglio scorso è tornata a divampare. La scintilla è venuta da Suruç, al confine con la Siria: un incontro di giovani socialisti turchi e curdi per Kobane è stato bersaglio di un attentato suicida che ha fatto 32 morti e decine di feriti. Il sedicente Stato Islamico l’ha rivendicato, ma i curdi e gran parte dell’opposizione hanno denunciato la corresponsabilità del governo.
Il retroterra era nel risultato elettorale di giugno, che aveva mortificato il programma del presidente Erdogan, grazie all’affermazione del Partito democratico dei popoli, Hdp, col quale per la prima volta un partito curdo entrava in parlamento, superando largamente la soglia del 10 per cento dei voti. L’Akp di Erdogan aveva mirato alla maggioranza assoluta per riscrivere la costituzione, ed era invece sceso dal 49 al 41 per cento. Dopo aver simulato di trattare per un governo di coalizione, Erdogan aveva cercato la rivalsa nelle elezioni anticipate, fissate al 1° novembre: così stando le cose le avrebbe perse, e il Hdp avrebbe migliorato il successo di giugno. La campagna elettorale è stata allora confiscata dalla guerra riaperta al Pkk, e soprattutto al Hdp, che Erdogan attacca come il travestimento parlamentare del “ terrorista” Pkk. Quest’ultimo è ancora nella lista delle formazioni terroriste per gli Usa e l’Europa, ma con le tortuose complicazioni esplose nella dissoluzione di Siria e Iraq. Il Pkk è infatti la casa madre del partito curdo-siriano, il Pyd, e del movimento armato, l’Ypg e l’Ypj (femminile), che difende eroicamente il proprio territorio e la propria esperienza di autogoverno. A Kobane, che di quella resistenza divenne il simbolo, i curdi furono a lungo soli mentre la Turchia chiudeva la frontiera ai soccorsi, e solo in extremis ricevettero il sostegno dei raid americani. I curdi-siriani sono ancora il nerbo di qualunque piano della coalizione per riconquistare Raqqa, la capitale siriana dell’Isis. Non è solo in Siria che i combattenti fratelli (sorelle, perché le donne vi si battono davvero alla pari) del Pkk sono alleati della coalizione, ma anche in Iraq, dove il Pkk in esilio ha da decenni stabilito la propria base sui monti Qandil, e dove le sue forze hanno avuto un ruolo decisivo nel fermare l’avanzata dell’Isis e nel soccorrere la fuga disperata di yazidi e cristiani di Mosul e Niniweh.
Ecco un primo groviglio: una componente essenziale dei “piedi per terra” della guerra all’Isis figura ancora nella lista del terrorismo internazionale. E la Turchia, che si è guardata fino a poco fa dal contribuire seriamente alla guerra contro il califfato, e a volte si è fatta prendere con le mani nel sacco a foraggiarlo, conduce dall’estate una vera guerra al Pkk, con continui bombardamenti aerei alle basi del Qandil, cioè in territorio iracheno, di fatto del Governo Regionale del Kurdistan. Il governo turco vanta di aver eliminato in meno di tre mesi 1.800 militanti del Pkk, il quale nega e a sua volta proclama di aver ucciso centinaia di militari e poliziotti turchi. Pesantissimo è comunque il bilancio di morti e feriti civili, migliaia di arrestati, città, come Cizre, devastate. Il calcolo dell’Akp è di riguadagnarsi, in una tensione così sanguinosa, i voti che l’Hdp aveva meritato, oltre che fra le altre minoranze etniche e civili, anche fra gli elettori turchi allarmati dalla smodatezza delle ambizioni di Erdogan. La sua equazione è: il Pkk è terrorista, e l’Hdp è il Pkk in maschera.
È un fatto che il Pkk compie attentati indiscriminati contro chiunque indossi un’uniforme turca. È un fatto anche che da anni Ocalan – che rimane, dal suo ergastolo, l’icona del Pkk - esorta a deporre le armi. (L’evoluzione del marxismo-leninismo di Ocalan è singolare: specialmente per un femminismo sfrenato, esposto tuttavia nello stesso linguaggio ortodosso che serviva per il classismo). È inoltre vero che fra Hdp e Pkk ci sono legami (anche un fratello di Selahattin Demirtas è fra i dirigenti del Pkk) ma l’Hdp sa di essere gravemente danneggiato dal ritorno alle armi e ha ripetutamente spinto il Pkk a una tregua anche unilaterale. Il Pkk a sua volta invita ad appoggiare nelle elezioni l’Hdp, nega di volere “la guerra” e afferma di combattere solo per autodifesa. Venerdì aveva rinnovato la richiesta di un cessate il fuoco, e ieri, dopo la strage di Ankara, l’ha dichiarato comunque. Quanto a Erdogan, una settimana fa aveva convocato a Strasburgo migliaia di turchi immigrati in Europa per esaltare il passato del sultanato, ripudiare qualunque mediazione con i “terroristi” curdi, e promettere di schiacciarli fino all’ultimo.
Tutto ciò avviene mentre i caccia russi violano lo spazio aereo turco, la Nato si dice pronta a inviare truppe, e l’altro nemico giurato di Erdogan, Bashar al Assad, si rimpannuccia. La posta del sangue di ieri e di quello che scorrerà non sono solo le elezioni turche, pure così importanti, ma la ragnatela di guerre dirette o interposte che copre il vicino (vicinissimo) oriente. C’è oggi nelle persone di cuore una simpatia per i curdi, per il loro valore di patrioti, per i colori del piccolo Alan, che l’infamia della strage di ieri – cantavano chiedendo di deporre le armi - rafforza, com’è giusto. Ma i curdi sono tutt’altro che uniti.
Nello stesso autonomo Krg, il Kurdistan iracheno, la disputa tra Pdk di Barzani e Puk di Talabani e Kosrat sul rinnovo della presidenza si trascina e fomenta ribellioni tanto più paradossali perché si svolgono in un paese che va al fronte pressoché tutti i giorni. Venerdì, manifestazioni di dipendenti pubblici – insegnanti in sciopero, sanitari…senza stipendio da mesi, si sono mutate in scontri violenti con quattro morti e parecchi feriti, nella città di Qaladize, a nord di Suleymanyah.
«Ancor prima che contro la propaganda del governo, le reti studentesche nazionali dei medi e degli universitari, senza contare i collettivi cittadini o metropolitani da Sud a Nord, si sono attivate contro la spaventosa normalità di un paese ingrigito e sofferente».
Il manifesto, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)
Occupazioni, flash-mob al Miur, al ministero dell’economia e a palazzo Chigi, blitz con petardi e fumogeni in filiali bancarie e agenzie di lavoro interinali come Manpower a Napoli, presidi e incontri al ministero dell’Istruzione. E poi 90 cortei con 5 mila studenti a Roma, duemila a Bari, mille a Milano e altrettanti a Palermo, tra gli altri. Ieri l’autunno di piombo della scuola governata dagli algoritmi che decidono le sorti di un docente mentre le prove Invalsi perfezionano la valutazione della vita produttiva degli studenti si è acceso all’improvviso. Sessantamila studenti hanno manifestato contro la riforma della scuola, il Jobs Act, le politiche migratorie della «Fortezza Europa» e il diritto allo studio azzoppato (ancora) dalla riforma dell’Isee.
Non è mancato il riferimento ai precari della scuola esclusi dalle assunzioni di Renzi, pur avendo maturato il diritto. Una mobilitazione «sociale» che ha cercato un’interlocuzione con i movimenti esistenti: il «No Ombrina» contro le trivellazioni dello «Sblocca Italia», il 14 ottobre a Roma, ricordano i collettivi autonomi napoletani «Kaos». Gli studenti non vogliono sentirsi soli e sono alla ricerca di connessioni. Ieri hanno schierato numeri imponenti, e non scontati, dopo giorni di silenzio dei maggiori sindacati della scuola impegnati a discutere se, come o quando fare uno sciopero generale (Unicobas lo farà il 23 ottobre, i Cobas il 13 novembre, mentre sono previste mobilitazioni il 24 ottobre). Tutto procede in sordina dopo la «notte bianca» della scuola del 23 settembre scorso. Al clima non ha giovato il fallimento della raccolta firme sul referendum contro il «preside manager» promosso da «Possibile» di Civati che ha segnato una spaccatura con il movimento della scuola che all’assemblea di Bologna del 5 settembre scorso ha deciso di studiare la possibilità di farne un altro nel 2017, con raccolta firme nel 2016. Nel frattempo continuano le procedure delle assunzioni dei 55 mila docenti previsti in «fascia C» affidati a un algoritmo che costringe gli interessati a un’attesa solitaria e preoccupata.
Ancor prima che contro la propaganda del governo, le reti studentesche nazionali dei medi e degli universitari (Rete della Conoscenza, Uds, coordinamento Link, Udu, StudAut), senza contare i collettivi cittadini o metropolitani da Sud a Nord, si sono attivate contro la spaventosa normalità di un paese ingrigito e sofferente. Gli studenti, ciascuno per la propria parte, hanno elaborato una loro agenda e cercano di scuotere le foglie sull’albero. Link e Udu portano avanti la battaglia sul diritto allo studio. La riforma dei parametri dell’Isee ha creato un’emergenza sociale nel malandato diritto allo studio italiano: per responsabilità di un nuovo indicatore decine di migliaia di studenti sono stati esclusi dalle borse di studio, come se fossero diventati più ricchi. Ieri sono stati ricevuti al ministero dell’Istruzione. L’incontro non ha soddisfatto Link («manca ancora una proposta concreta» sostiene il coordinatore Alberto Campailla); «Vogliamo interventi legislativi e fondi supplementari» ha detto Jacopo Dionisio (Udu).
Una trentina di universitari di «Studenti Indipendenti» e «Alterpolis» ieri a Torino hanno occupato alle 7,30 del mattino il gasometro dell’Istalgas in corso Regina Margherita a Torino. In questo edificio dovrebbero essere costruite residenze universitarie gestite da privati. Per gli studenti è un’«operazione propagandistica che spaccia una speculazione edilizia per un’attività a beneficio degli studenti». Molti dei quali, oggi, non potrebbero nemmeno vivere nella «casa dello studente» privatizzata, dato che il governo ha cambiato all’improvviso le regole per beneficiare delle borse di studio. Alle undici i ragazzi sono stati sgomberati malamente dalla celere. Nell’intervento è rimasta contusa Ilaria Manti, ex presidente del Senato degli Studenti dell’Università di Torino, e ha prodotto la protesta della Fiom e degli studenti contro «l’uso spropositato della forza da parte della polizia».
Un’altra questione è «l’alternanza scuola-lavoro» prevista dalla «Buona scuola», dal «Jobs Act» e approvata dalla conferenza Stato-Regioni. Per gli studenti il potenziamento dell’apprendistato sperimentale «è uno sfruttamento». «Prospettiva inaccettabile per gli studenti in stage — afferma Danilo Lampis (Uds) — L’apprendistato è un contratto di lavoro, qui si equiparano ore di lavoro sottopagato con quelle di formazione in classe». «é un salto nel vuoto — spiega Gianna Fracassi (Cgil) — non c’è modo per individuare imprese con un’adeguata capacità formativa». Francesca Puglisi, responsabile Pd scuola rispolvera le argomentazioni classiche sui «choosy» che non vogliono lavorare: «È un po’ da snob pensare che la cultura del lavoro non debba “contaminare” la scuola — sostiene — Le esperienze possono essere fatte anche nelle istituzioni culturali». In realtà gli studenti criticano il «modello tedesco», la professionalizzazione senza diritti e lo snaturamento dell’obbligo scolastico, oltre al precariato e al lavoro gratis mascherato da formazione. Argomenti troppo complessi per rientrare nel format paternalistico renziano, ma spunti per un modello alternativo di istruzione pubblica.
«La scrittrice Suad Amiry racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace. “La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla”».
La Repubblica, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)
Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.
«Si accetti finalmente di aprire una discussione seria sugli errori commessi a sinistra in questi tre decenni (almeno) e sulla mutazione genetica imposta alla sinistra italiana. Se davvero si avesse a cuore una qualche rinascita, sotto queste forche si accetterebbe di passare».
Il manifesto, 10 ottobre 2015
A rigore il governo avrebbe dovuto vedersela con l’agguerrita opposizione berlusconiana, quindi subire le condizioni poste dalle minoranze interne dello stesso Pd. Ma entrambi gli ostacoli si rivelarono ben presto inconsistenti. Ancor prima di conquistare palazzo Chigi Renzi si era accordato con Berlusconi sulle «riforme» da varare insieme. Verdini aveva convinto il cavaliere che quel giovane democristiano era un conto in banca, la pensava allo stesso modo sulla Rinascita democratica del paese, quindi perché non sostenerne l’impresa, tanto più che avrebbe messo al bando la vecchia guardia rossa del Pd?
Quanto a quest’ultima, i solenni proclami della prima ora si svilirono ben presto in manovre tattiche e in mercanteggiamenti e mai nulla di serio accadde, nemmeno dopo che il patto del Nazareno era entrato in sofferenza. Non solo fiorì imponente la pratica del trasformismo interno, non soltanto il presunto carisma del nocchiero attrasse proseliti anche oltreconfine. Gli stessi generali della sedicente sinistra democratica corsero spontaneamente a Canossa nel nome della ditta o della responsabilità, del realismo o di non importa cosa.
Risultato, Renzi ha fatto e disfatto col suo modo arrogante e strafottente. Ha irriso e lusingato, minacciato e blandito. E mentre Verdini — l’altro capo del governo, l’austero diarca del nuovo che avanza — lavorava per restituirgli il sostegno della destra, ha definitivamente fritto capi e capetti dell’opposizione interna. La quale si è lasciata triturare senza nemmeno accennare a una resistenza degna del nome. E oggi vive la sua ultima disfatta senza storia, avendo tutto perduto, anche l’onore.
A qualcuno forse sarà dispiaciuto, per estetica o per umana pietas, il crudo maramaldeggiare dei colonnelli renziani all’indirizzo del vecchio segretario. Ma in politica non c’è spazio per la sensibilità e gli affetti e su Bersani, simbolo di questa Caporetto, incombe una colpa molto grave. Ora non è il suo Pd in questione, ma la Costituzione della Repubblica, costata lacrime e sangue e migliaia di morti nella guerra contro il nazifascismo. Non è la ditta, è il paese, consegnato a un regime personale (ne sa qualcosa, buon ultimo, il sindaco della capitale, centrifugato nella macchina del fango): a un regime autoritario (dove il presidente del Consiglio sarà effettivamente capo del governo e potrà tutto senza l’impaccio di un vero parlamento): a un regime organico di classe, paradiso fiscale per chi ha molto, inferno per chi lavora (o non lavora).
Tant’è. Oggi perlomeno, a bocce ferme, il quadro è limpido ed è possibile un primo consuntivo. Ognuno trarrà le proprie conclusioni e non dubitiamo che i più, nel circo della politica politicante, ragioneranno in base al proprio tornaconto. Così i furieri dei piccoli partiti, minacciati dalla tagliola della nuova legge elettorale. Così, nei partiti maggiori, soprattutto gli eretici, i critici, i periclitanti. Poi ci sono i molti addetti ai lavori — statisti di lungo corso, intellettuali, opinionisti illustri — che rifletteranno piuttosto, come si dice, «politicamente». Sui nuovi rapporti di forza, sugli scenari, sulle prospettive. Che strologheranno soprattutto sulle chiare e oscure (invero molto oscure) implicazioni del patto d’acciaio tra Renzi e Verdini, sulla sua ragion d’essere, sulle conseguenze, i costi e i benefici. Scoprendo adesso, a babbo morto, che in questo patto pulsa da sempre il cuore nero del governo e fingendo forse di allarmarsene, o invece compiacendosene per la sua laica, spregiudicata, post-ideologica configurazione. Noi invece battiamo e suggeriamo un’altra strada, solo in apparenza impolitica. Una linea di ricerca desueta che ci appare tuttavia più feconda e interessante e istruttiva. Nonché la più autenticamente politica.
Se è vero, come è vero, che il disastro della cosiddetta sinistra interna del Pd — la mancata resistenza allo sfondamento renziano e al progetto padronale che lo sottende — ha prodotto conseguenze enormi ed è in larga misura la chiave per comprendere quanto sta accadendo in queste ore. Se è vero, com’è vero, che i rapporti di forza nel Pd non erano all’inizio della storia nemmeno lontanamente quelli attuali e che, in linea di principio, sarebbe stato agevole per le minoranze unite contrapporsi e imporre al presidente del Consiglio più miti consigli e una ben diversa composizione dell’esecutivo. Allora è giunto il momento di interrogarsi senza reticenza sulle scelte compiute in questi due anni dagli esponenti della sinistra democratica — tutti, dai capi ai capetti all’ultimo gregario: sulle motivazioni che li hanno ispirati, di ordine culturale, psicologico, morale.
Quando la geografia politica di un paese si trasforma per effetto di un profondo sommovimento culturale come quello verificatosi tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, le responsabilità soggettive assumono un peso preponderante. E grava più che mai l’inconsistenza culturale e morale: la subalternità ideologica e la disponibilità a porsi sul mercato. Non ci si inalberi: non serve a niente né scandalizzarsi né invocare tabù. O meglio, serve a lasciare tutto come sta, nell’interesse di chi oggi stravince e domani non vorrà più nemmeno prigionieri. Si accetti dunque finalmente di aprire una discussione seria sugli errori commessi a sinistra in questi tre decenni (almeno) e sulla mutazione genetica imposta alla sinistra italiana. Se davvero si avesse a cuore una qualche rinascita, sotto queste forche si accetterebbe di passare.
La Repubblica, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)
Roma. Alla fine Ignazio Marino si è dimesso, eppure lui non è affatto convinto che davvero sia tutto finito: «Presento le mie dimissioni, ma per legge possono essere ritirate entro 20 giorni… ». E dunque anche nel momento in cui firma la lettera che tutto il Pd, da Renzi in giù, gli ha chiesto bruscamente di scrivere entro poche ore, il sindaco di Roma si lascia aperta un’ultima porticina per rientrare in campo, annunciando non il ritiro dalla politica ma «la ricerca di una verifica seria », per capire nel giro di tre settimane «se è ancora possibile ricostruire le condizioni politiche” per restare al suo posto. Non è esattamente quello che si aspettavano là fuori, ma Marino vuol fare fino in fondo “l’extraterrestre”, ignorando le leggi della politica e il galateo dei partiti aggrappandosi all’ultima, disperata speranza che i cittadini si schierino con lui.
Attorno a loro, il viavai di consiglieri e assessori tra il Campidoglio e il Nazareno, con il sindaco che tirava da una parte e il partito dall’altra. Alle sette di sera, l’epilogo, con Causi e Sabella che portano a Marino la decisione finale del Pd: dimissioni.
Abbiamo espresso il nostro parere sul "fatto del giorno" (così almeno lo considerano i media italiani) nella nota qui accanto. Qui inseriamo l'intervista rilasciata da Marino a Massimo Gramellini.
La Stampa9 ottobre 2015. In calce il link alla dichiarazione di Marino a facebook
Alle nove di sera il Mostro Marino, sindaco dimissionario di Roma, ha la voce esausta di un chirurgo dopo dieci ore di camera operatoria. «È da ieri che non mangio e che non mi siedo: proprio come quando operavo».
Se ne va a casa per cinque scontrini di ristorante non giustificati?
«Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca».
Su qualche sito sono arrivati a imputarle di avere usato i soldi del Comune per offrire una colazione di 8 euro a un sopravvissuto di Auschwitz.
«Se è per questo, mi hanno pure accusato di avere pagato con soldi pubblici l’olio della lampada votiva di san Francesco, il patrono d’Italia, “per farmi bello”. Senza sapere che sono centinaia di anni che il sindaco di Roma, a rotazione con altri, accende quella lampada».
Ci sono cinque note spese in cui lei sostiene di avere cenato con qualcuno che invece nega di essere stato a tavola con lei.
«Ho già detto che sono disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio, compresa la cena in onore del mecenate che poi ha staccato l’assegno da due milioni con cui stiamo rimettendo a posto la fontana di piazza del Quirinale, sette colonne del foro Traiano e la sala degli Orazi e Curiazi».
Ma quelle note spese sono bugiarde oppure no?
«Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi».
Si aspettava che sarebbe venuto giù il mondo?
«Ho rotto le uova nel paniere del consociativismo politico. Ho riaperto gare di acquisti beni e servizi che erano in prorogatio da una vita. Ho tolto il business dei rifiuti a una sola persona e il patrimonio immobiliare a una sola azienda che ha incassato dal comune 100 milioni negli ultimi anni, la Romeo».
Si sente pugnalato alle spalle dal suo partito, il Pd? Non una voce si è alzata a sua difesa.
«Mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Del Rio e Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Erano entrambi molto avviliti per quanto accaduto».
«Costituzione. Finito l’ostruzionismo ma il governo non concede nulla. Restano tutti i punti critici, si allarga la devolution regionale. La minoranza Pd cede di schianto. Il nuovo capo dello stato sarà un affare del primo partito».
Il manifesto, 8 ottobre 2015
Dunque con la nuova Costituzione il governo potrà imporre al parlamento di votare i suoi disegni di legge entro una data fissa e fare decreti anche in materia elettorale; il partito che vincerà le elezioni con la nuova legge Italicum potrà dichiarare in solitudine lo stato di guerra - e nel caso prorogare la durata della legislatura - e persino eleggere da sé il presidente della Repubblica. Lo ha stabilito in un solo giorno di lavoro il senato, respingendo ogni emendamento delle opposizioni alla riforma costituzionale. Il tema del racconto è quello in auge del superamento del bicameralismo paritario. Lo svolgimento, come dimostra la giornata di ieri, è una sostanziale modifica della forma di governo, con più potere all’esecutivo e meno al parlamento. Con la collaborazione decisiva dei senatori di Verdini, l’appoggio tempestivo nell’unico passaggio a rischio di Forza Italia e la resa definitiva della minoranza Pd.
Nel primo voto palese e nei primi due voti segreti lo schieramento che sta cambiando la Costituzione si è confermato lontano dalla maggioranza assoluta, 161 voti, del senato; non è andato oltre i 145. I senatori di Verdini inchiodati a votare ai loro banchi in alto a destra vengono ricompensati: sono stabilmente decisivi per il governo. Tra due sedute rientreranno anche i due gesticolanti espulsi per oscenità, Barani e D’Anna. Sarà la riforma costituzionale ad aspettarli, perché con la rinuncia delle opposizioni all’ostruzionismo — l’unico punto sul quale ha retto il fronte del no da Lega a Sel — il disegno di legge di revisione costituzionale corre. L’esame degli articoli potrebbe concludersi tra oggi e domani. Il voto finale resta in calendario per martedì, una diretta tv senza sorprese.
In aula il governo che giura di essere disponibile a discutere «nel merito» dà parere negativo a tutti gli emendamenti dell’opposizione (tranne a quelli a voto segreto sui quali non vuole correre rischi). La maggioranza che quotidianamente bacchetta le opposizioni perché non fanno proposte «nel merito» si adegua monolitica, nel Pd si segnalano a tratti solo i voti contrari di Mineo e Tocci, e l’astensione di Casson. Gli articoli da 12 a 16 passano senza storia, compresa la novità della legge elettorale che potrà essere sottoposta alla Consulta prima della promulgazione ma solo per iniziativa di una minoranza di parlamentari. La Corte aveva raccomandato di togliere questa connotazione politica alla richiesta, rendendola automatica. La sinistra Pd si era detta d’accordo. Ma l’esigenza del governo di non cambiare niente e fare presto ha prevalso anche qui. Di questo passo sono solo tre, fino a qui, gli articoli che dovranno tornare al senato per completare la prima lettura: 1, 2 e 30 sul quale ieri il governo ha deciso di intervenire. Male, perché ha inserito le politiche sociali e il commercio con l’estero tra le materie che potranno essere devolute alle regioni a statuto ordinario.
Nell’unico punto in cui il governo ha un po’ ballato, c’è stato rapido il sostegno di Forza Italia. Articolo 17, stato di guerra. Anche qui nessun cambio, la dichiarazione di belligeranza resta a disposizione della maggioranza assoluta della camera. Cioè quella che l’Italicum garantisce al primo partito con i suoi 340 seggi (oggi non è così perché deve votare anche il senato). Stavolta l’emendamento per alzare il quorum veniva dalla minoranza Pd, l’unico non ritirato in nome dell’accordo con Renzi, forse perché firmato non da un bersaniano ma dalla bindiana Dirindin. Con 14 senatori Pd a favore e 11 spariti dall’aula poteva passare, non fosse che Forza Italia è tornata a votare con il governo (con l’argomento che se il paese venisse invaso e qualche deputato sequestrato dai nemici, il quorum troppo alto potrebbe essere un problema). Ventinove no decisivi, sommati a qualche astensione, molte assenze e il soccorso delle tre senatrici del gruppo dell’ex leghista Tosi. Dichiarare guerra sarà più facile, ma resta intatto l’articolo 60 in base al quale in caso di guerra una legge ordinaria può prorogare la durata della camera e rimandare le elezioni.
La Lega ha accusato in aula gli alleati berlusconiani di essersi svenduti agli avversari: «È il ritorno del patto del Nazareno». Ma può bastare la comunanza di idee sull’argomento bellico a spiegare la liaison. L’episodio giustifica però la rottura del patto delle opposizioni, durato un solo giorno. Unito a una lettera al presidente della Repubblica che quelli di Forza Italia hanno diffuso alla stampa prima che tutti gli altri gruppi decidessero di firmarla. Alla fine sono stati solo gli azzurri a rivolgersi al Colle. E i grillini, che però hanno spiegato di averlo già fatto due settimane fa. Alle minoranze, penalizzate dal trasformismo e da una conduzione d’aula filo governo del presidente Grasso, non resta che studiare mosse di opposizione visibili e comprensibili per accompagnare l’approvazione della riforma. La Lega ha cominciato ieri pomeriggio il suo Aventino, i 5 stelle hanno sfilato le tessere dai banchi per sventolarle.
La minoranza Pd ha ceduto di schianto sull’articolo 21, quello che prevede quorum per l’elezione del presidente della Repubblica per niente impossibili per chi vincerà con l’Italicum. Fatti i calcoli, dal quarto scrutinio in poi mancherebbero al primo partito non più di 34 voti. Assai facilmente recuperabili, vista la capacità di attrazione dei vincitori. Il successore di Mattarella sarà votato alla fine della prossima legislatura; in questa i gruppi democratici sono già cresciuti di 23 parlamentari. Nemmeno l’articolo 21 è stato cambiato. In cambio della rinuncia ad allargare la platea dei grandi elettori (fino a ieri imprescindibile), la minoranza Pd ha ottenuto una promessa sull’articolo 39, la norma transitoria che di fatto sterilizza la più grande conquista dei bersaniani, l’indicazione dei nuovi senatori da parte degli elettori. Il governo presenterà oggi una sua proposta di modifica. Sarà una mezza soluzione, visto che l’intoppo è al primo comma dell’articolo 39, che non si può più toccare. Il principio della doppia lettura conforme che la fronda dem ha accettato per l’articolo 2 vale anche qui.
«Non c’è ancora un orientamento preso dal governo», ma l’Italia ha già deciso «con i nostri alleati di contrastare con forza il Daesh». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, chiarisce così, durante una conferenza stampa con il capo del Pentagono, Ash Carter, a che punto è la questione bombardamento in Iraq. La decisione formalmente non è presa, e il governo assicura che ci sarà un voto del Parlamento, ma Matteo Renzi un impegno di massima con l’alleato americano l’ha preso a New York, durante l’Assemblea generale dell’Onu. Un’offerta di “sostegno risoluto”, che gli Usa hanno accolto con favore, ma non hanno particolarmente sollecitato.
«Che belli che erano quei giorni. Sono passati appena dodici anni, ma sembra un secolo: a Roma centinaia di migliaia di persone scesero in piazza contro la guerra. Gente di età e classi sociali diverse, con idee politiche diverse. E poi c’erano bandiere arcobaleno ovunque, giravi per le città e le vedevi a tutti i balconi. Era davvero un movimento popolare contro la guerra».
Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)
La truffa dei Diesel ammessa dalla Vw disvela il carattere della competizione e della selezione che è in corso tra i grandi produttori dell’autoveicolo. Una competizione fortemente condizionata dalla finanza e dai suoi favori. E non dai limiti energetici e ambientali del pianeta e dalla mobilità.
Una competizione senza esclusioni di colpi con il fine di raggiungere la posizione di Big dove gli Stati e le dimensioni continentali vengono piegate alle necessità immediate delle multinazionali. Tutte le ristrutturazioni, gli insediamenti e le acquisizioni tra i gruppi dell’auto di questi hanno visto il ruolo dei governi e l’intervento pubblico per favorirli e sostenerli, unica eccezione l’Italia che ha assecondato il riposizionamento internazionale di Fiat attraverso FCA a scapito del nostro paese con un carico enorme sui lavoratori Italiani che vedono un peggioramento delle condizioni di lavoro e dei gradi di libertà nei luoghi di lavoro.
Ora il Diesel-Gate deve farci discutere sicuramente delle conseguenze ancora tutte da contabilizzare, dai costi dei richiami a quelli delle class action.
Volkswagen vende veicoli per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo, assicura in Germania 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indiretti nel mondo). Il settore auto pesa per 300 miliardi di euro di esportazioni, la prima voce del made in Germany. E non è per nulla escluso che il governo tedesco non intervenga per salvarla.
Quindi dando per certo un effetto sulle vendite, del gruppo VW e su quelle dell’intero settore diesel, il rallentamento degli investimenti già annunciato sui nuovi prodotti con le conseguenti ricadute occupazionali sull' indotto (c’è già chi sussurra di un calo di commesse intorno al 20%) anche nel nostro paese dove VW ha fatto in questi anni un notevole shopping nella nostra componentistica orfana dei volumi Fiat. Ma dopo il fallimento della competizione «truccata» del diesel, va riaperto il confronto su quale mobilità si deve produrre in Europa, con quali prodotti e quale sostenibilità, con quale ruolo pubblico e con quali diritti, turnazioni e salari. Ricostruendo non solo attraverso i test su strada della auto un controllo pubblico a tutela dei cittadini lavoratori e consumatori ma recuperando lo squilibrio fra i regolatori pubblici e le aziende regolate.
Nelle banche come nell’auto, i guadagni dei manager sono un multiplo di quelli dei funzionari che dovrebbero controllarli e spesso quei funzionari sperano solo di essere assunti da loro. E per Wall Street come per Volkswagen, la conoscenza di tecnologie molto complesse gioca a favore delle imprese su chi dovrebbe controllarle: le aziende sanno tutto perché hanno creato loro quei prodotti, titoli strutturati o motori diesel, i controllori invece devono decostruirli e interpretarli da zero.
Infine questa vicenda non può essere isolata da ciò che accade in questi giorni in Usa tra Fca/Fiat e sindacato dove i lavoratori bocciando l’accordo, potendo a differenza che da noi votare liberamente, hanno portato la Uaw a dichiarare lo sciopero che ha le sue origine nei diversi trattamenti salariali a parità di lavoro tra Veterans retribuiti 28$ e i Worker in progression a 15$ l’ora e nella inumanità di turni di lavoro di 10 ore al giorno per quattro giorni alla settimana con variazioni di turni che porta in pochi giorni da un turno di notte ad un turno che inizia prima del alba, orario che ricorda la ribattuta di Melfi e le proposte Fiat in Italia.
«Il premier israeliano conferma la linea dura. Non ha capito che i palestinesi non accettano la normalizzazione dell’occupazione israeliana. Rifiutano che i coloni israeliani possano svolgere nei territori che occupano quell’esistenza normale che a loro viene negata».
Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)
«Abbiano vissuto periodi più difficili di questi. Supereremo questa ondata di terrorismo grazie alla nostra determinazione, alla responsabilità e alla coesione nazionale». Benyamin Netanyahu non ha dubbi sulla linea portata avanti sino ad oggi. Resterà quella del pugno di ferro. Il premier israeliano non ha compreso che più si farà pesante e sanguinosa la repressione e più gli sfuggirà di mano la situazione. Non ha capito che i palestinesi non accettano la normalizzazione dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est e della Cisgiordania. Rifiutano che i coloni israeliani possano svolgere nei territori che occupano illegalmente quell’esistenza normale che a loro viene negata sotto il regime militare.
Anche per queste ragioni il presidente dell’Anp Abu Mazen appare più isolato dopo l’appello alla fine delle proteste che ha lanciato due giorni fa e che ha ribadito ieri in una intervista al quotidiano Haaretz. Quasi tutte le organizzazioni palestinesi, a partire dalla sinistra guidata dal Fronte Popolare, hanno ignorato le sue parole e continuano a mobilitare la popolazione contro coloni e soldati israeliani.
Si moltiplicano gli attacchi contro i coloni israeliani che percorrono le strade della Cisgiordania e anche le rappresaglie e le aggressioni dei coloni contro i villaggi palestinesi, troppo spesso ignorate o sottovalutate. E le azioni individuali di palestinesi armati di coltello si allargano al territorio israeliano. Un 17enne di Yatta, Amjad Jundi, ha attaccato a Kiryat Gat (a est di Ashqelon) un militare provando a prendergli l’arma ma è stato ucciso. Poco dopo un altro giovane di Hebron ha colpito alcuni israeliani a Petach Tikva ed è stato ferito dal fuoco di agenti presenti in zona. Una dinamica simile all’attacco avvenuto ieri mattina alla Porta dei Leoni, uno degli ingressi della città vecchia di Gerusalemme, dove una ragazza di 18 anni, Shuroq Dwayat, è stata ferita da un colono che aveva tentato di colpire con un coltello. Poco dopo ingenti forze di polizia hanno lanciato un raid nel sobborgo di Sur Baher per perquisire l’abitazione della giovane innescando violente proteste e incidenti. Una colona, Rivi Ohayon, dell’insediamento di Tekoa (a sud di Betlemme) ha denunciato alla polizia di aver subito un tentativo di linciaggio di parte di gruppi di giovani palestinesi che, nei pressi di Beit Sahour, avevano bloccato e danneggiato a colpi di pietra la sua automobile (la donna è rimasta ferita). Il fuoco dei soldati israeliani ha ferito due palestinesi.
Per tutto il giorno sono girate voci dell’uccisione da parte dei soldati israeliani, vicino Ramallah, di uno studente palestinese ma in serata il giovane era ancora vivo anche se gravemente ferito. In rete è circolato un filmato girato da una tv locale proprio durante gli scontri che hanno coinvolto lo studente ferito e che mostra militari israeliani che si fingono palestinesi per infiltrarsi fra di loro. All’inizio della sequenza si nota un gruppo di palestinesi col volto coperto che lanciano sassi contro un’unità dell’esercito e scandire slogan. A un certo punto questi “palestinesi” si rivelando degli infiltrati e si scagliano contro quelli che sembravano essere loro compagni e li trascinano a forza verso i soldati. Subito dopo i militari infieriscono su un dimostrante - a terra, isolato - e lo prendono a calci ripetutamente.
«Anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, la società civile, creano ricchezza. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza».
La Repubblica, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)
Ma anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano.
«Il Sinodo, ha detto il Papa proprio per spiegare la distanza tra l’opinione del mondo e la verità dei Pastori della Chiesa, non è come il Parlamento. Ma da questa comparazione il Parlamento ne esce bene».
La Repubblica, 7 ottobre 2015
La riunione del Sinodo segue al viaggio del Papa a Cuba e negli Stati Uniti. Un viaggio nel quale il tema del Sinodo - la famiglia e il matrimonio - è stato al centro tanto delle sue omelie e dei suoi discorsi pubblici quanto dell’opinione che lo ha interpellato - sulla sessualità e la pedofilia nella Chiesa, sul matrimonio di coppie dello stesso sesso, sul ruolo dei divorziati. Tante attese per il Sinodo sono dunque giustificate dalla forte presenza del Papa sulla scena dell’opinione pubblica mondiale. È comprensibile dunque che ci sia attenzione per le risoluzioni del Sinodo e speranza che esse non siano indifferenti all’opinione del mondo. Il comunicato rilasciato all’apertura dei lavori mostra preoccupazione per questo rapporto di reciproca influenza quando osserva che su questi temi, sul matrimonio e la famiglia, «è del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano pressioni».