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Così un Parlamento incostituzionale distrugge una costituzione e mezzo secolo di storia. Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone ce lo ricordano con indignazione. Ma la vita continua; a vivere nel fango ci si abitua.

Il manifesto, 13 ottobre 2015

La legge costituzionale che il senato voterà oggi
dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza

È inaccettabile per il metodo e i contenuti; lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata. Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del «Porcellum».
Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo ora al voto finale con una maggioranza raccogliticcia e occasionale, che nemmeno esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti - lasciando immutato il numero dei deputati - la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale.
Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo.
Il vero obiettivo della riforma è lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo. Una prova si trae dalla introduzione in Costituzione di un governo dominus dell’agenda dei lavori parlamentari. Ma ne è soprattutto prova la sinergia con la legge elettorale «Italicum», che aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del senato l’indebolimento radicale della rappresentatività della camera dei deputati. Ballottaggio, premio di maggioranza alla singola lista, soglie di accesso, voto bloccato sui capilista consegnano la camera nelle mani del leader del partito vincente - anche con pochi voti - nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando.
Ne vengono effetti collaterali negativi anche per il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm. E ne esce indebolita la stessa rigidità della Costituzione. La funzione di revisione rimane bicamerale, ma i numeri necessari sono alla Camera artificialmente garantiti alla maggioranza di governo, mentre in senato troviamo membri privi di qualsiasi legittimazione sostanziale a partecipare alla delicatissima funzione di modificare la Carta fondamentale.
L’incontro delle forze politiche antifasciste in Assemblea costituente trovò fondamento nella condivisione di essenziali obiettivi di eguaglianza e giustizia sociale, di tutela di libertà e diritti. Sul progetto politico fu costruita un’architettura istituzionale fondata sulla partecipazione democratica, sulla rappresentanza politica, sull’equilibrio tra i poteri. Il disegno di legge Renzi-Boschi stravolge radicalmente l’impianto della Costituzione del 1948, ed è volto ad affrontare un momento storico difficile e una pesante crisi economica concentrando il potere sull’esecutivo, riducendo la partecipazione democratica, mettendo il bavaglio al dissenso.
Non basta certo in senso contrario l’argomento che la proposta riguarda solo i profili organizzativi. L’impatto sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto è indiscutibile. Più in generale, l’assetto istituzionale è decisivo per l’attuazione dei diritti e delle libertà di cui alla prima parte, come è stato reso evidente dalla sciagurata riforma dell’articolo 81 della Costituzione. Bisogna dunque battersi contro questa modifica della Costituzione. Facendo mancare il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti in seconda deliberazione. E poi con una battaglia referendaria come quella che fece cadere nel 2006, con il voto del popolo italiano, la riforma - parimenti stravolgente - approvata dal centrodestra.
Gaetano Azzariti
Lorenza Carlassare
Alessandro Pace

Massimo Villone
Questo testo può essere sottoscritto scrivendo a costituzione@ilmanifesto.info».

«Lettera del leader palestinese in prigione e Membro del Parlamento, detto il Mandela palestinese. “Nes­sun popolo accet­te­rebbe di con­vi­vere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo ane­lare, lot­tare, sacri­fi­carsi per la libertà. E la libertà del popolo pale­sti­nese è in grave ritardo”».

Il manifesto, 13 ottobre 2015 (m.p.r.)

L’esca­la­tion di vio­lenze non è comin­ciata con l’uccisione di due coloni israe­liani, è comin­ciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono Pale­sti­nesi uccisi, feriti, arre­stati. Ogni giorno che passa, il colo­nia­li­smo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza con­ti­nua, oppres­sioni e umi­lia­zioni si sus­se­guono. Men­tre molti oggi ci vogliono schiac­ciati dalle pos­si­bili con­se­guenze di una nuova spi­rale di vio­lenza, io con­ti­nuerò, come ho fatto nel 2002, a chie­dere di occu­parsi delle cause che stanno alla radice della vio­lenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi.

Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è rag­giunto un accordo di pace è stata la man­cata volontà del defunto Pre­si­dente Yas­ser Ara­fat o l’incapacità del Pre­si­dente Mah­moud Abbas, men­tre sia l’uno che l’altro erano dispo­sti e capaci di fir­mare un accordo di pace. Il vero pro­blema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i nego­ziati come una cor­tina di fumo per por­tare avanti il suo pro­getto colo­niale. Tutti i governi del mondo cono­scono que­sta sem­plice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fal­lite del pas­sato ci potrebbe per­met­tere di rag­giun­gere libertà e pace. Fol­lia è con­ti­nuare a fare sem­pre la stessa cosa e aspet­tarsi che il risul­tato cambi. Non ci può essere nego­ziato senza un chiaro impe­gno di Israele a riti­rarsi com­ple­ta­mente dal ter­ri­to­rio pale­sti­nese che ha occu­pato nel 1967 (tra cui Geru­sa­lemme), una com­pleta ces­sa­zione di tutte le pra­ti­che colo­niali, il rico­no­sci­mento dei diritti ina­lie­na­bili dei Pale­sti­nesi, com­preso il loro diritto all’autodeterminazione e al ritorno, la libe­ra­zione di tutti i pri­gio­nieri pale­sti­nesi. Non pos­siamo con­vi­vere con l’occupazione, e non ci arren­de­remo all’occupazione.

Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occa­sioni e occa­sioni per rag­giun­gere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricor­dare al mondo che, per noi, espro­pria­zione, esi­lio for­zato, tra­sfe­ri­mento e oppres­sione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l’unico pro­blema bloc­cato nell’agenda dell’Onu dalla sua fon­da­zione. Ci è stato detto che se ci affi­da­vamo a metodi paci­fici e alla strada della diplo­ma­zia e della poli­tica, ci saremmo gua­da­gnati l’appoggio della comu­nità inter­na­zio­nale per porre fine all’occupazione. Eppure, come già era avve­nuto nel 1999 alla fine del periodo di inte­rim, la comu­nità inter­na­zio­nale non ha intra­preso alcuna azione signi­fi­ca­tiva, come ad esem­pio costi­tuire una strut­tura inter­na­zio­nale per appli­care la legge inter­na­zio­nale e le riso­lu­zioni dell’Onu, varare misure per garan­tire la respon­sa­bi­liz­za­zione delle parti, anche attra­verso boi­cot­taggi, disin­ve­sti­menti e san­zioni, come era stato fatto per libe­rare il mondo dal regime dell’apartheid.

E allora, in man­canza di un inter­vento inter­na­zio­nale per porre fine all’occupazione, in man­canza di una seria azione dei vari governi per inter­rom­pere l’impunità di Israele, in man­canza di qua­lun­que pro­spet­tiva di pro­te­zione inter­na­zio­nale per il popolo pale­sti­nese sotto occu­pa­zione, e men­tre il colo­nia­li­smo e le sue mani­fe­sta­zioni vio­lente hanno un’impennata (com­presi gli atti di vio­lenza dei coloni israe­liani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspet­tare che un’altra fami­glia pale­sti­nese sia bru­ciata, che un altro gio­vane pale­sti­nese sia ucciso, che un altro inse­dia­mento sia costruito, che un’altra casa pale­sti­nese sia distrutta, che un altro bam­bino pale­sti­nese sia arre­stato, che i coloni fac­ciano un altro attacco, che ci sia un’altra aggres­sione con­tro il nostro popolo a Gaza?

Tutto il mondo sa che Geru­sa­lemme è la fiamma che può ispi­rare la pace e che può accen­dere la guerra. E allora per­ché il mondo rimane immo­bile men­tre gli attac­chi israe­liani con­tro i Pale­sti­nesi della città e con­tro i luo­ghi santi musul­mani e cri­stiani – spe­cial­mente Al-Haram Al-Sharif – con­ti­nuano senza sosta? Le azioni e i cri­mini di Israele non distrug­gono sol­tanto la solu­zione dei due stati secondo i con­fini del 1967 e non vio­lano sol­tanto la legge inter­na­zio­nale, ma minac­ciano di tra­sfor­mare un con­flitto poli­tico risol­vi­bile in una guerra reli­giosa senza fine che inde­bo­lirà ulte­rior­mente la sta­bi­lità in una regione che è già preda di un disor­dine senza precedenti.

Nes­sun popolo della terra accet­te­rebbe di con­vi­vere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo ane­lare alla libertà, lot­tare per la libertà, sacri­fi­carsi per la libertà. E la libertà del popolo pale­sti­nese è in grave ritardo. Durante la prima Inti­fada il governo di Israele lan­ciò lo slo­gan “spezza le loro ossa per spez­zare la loro volontà”, ma, una gene­ra­zione dopo l’altra, il popolo pale­sti­nese ha dimo­strato che la sua volontà è indi­strut­ti­bile e non deve essere messa alla prova.

Que­sta nuova gene­ra­zione pale­sti­nese non ha aspet­tato col­lo­qui di ricon­ci­lia­zione per incar­nare quell’unità nazio­nale che i par­titi poli­tici non hanno saputo rag­giun­gere, ma si è posta al di sopra delle divi­sioni poli­ti­che e della fram­men­ta­zione geo­gra­fica. Non ha aspet­tato istru­zioni per soste­nere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a que­sta occu­pa­zione. E lo fa disar­mata, di fronte ad una delle mag­giori potenze mili­tari del mondo. Eppure con­ti­nuiamo ad esser con­vinti che libertà e dignità trion­fe­ranno, e noi avremo la meglio. E che quella ban­diera che abbiamo innal­zato con orgo­glio all’Onu sven­to­lerà un giorno sulle mura della città vec­chia di Geru­sa­lemme, e non per un giorno ma per sempre.

Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza pale­sti­nese 40 anni fa e sono stato impri­gio­nato per la prima volta a 15 anni. Que­sto non mi ha impe­dito di ado­pe­rarmi per una pace basata sulla legge inter­na­zio­nale e sulle riso­lu­zioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occu­pante, distrug­gere meto­di­ca­mente que­sta pro­spet­tiva un anno dopo l’altro. Ho tra­scorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle pri­gioni di Israele e tutti que­sti anni mi hanno reso ancora più con­vinto di que­sta immu­ta­bile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace.

Coloro che cer­cano quest’ultima devono agire, e agire subito, per­ché si rea­lizzi la prima condizione.

Stiamo sulla nave dei folli. Non è folle che un parlamento eletto con una egge giudicata incostituzionale si sia assunto il potere di decidere «una sostanziosa riscrittura» (dicesi "riscrittura") della Costituzione?. La

Repubblica, 12 ottobre 2015

È UNA RISCRITTURA sostanziosa della Costituzione, quella che il Senato si appresta ad approvare, e sarà questa la versione definitiva che saremo chiamati a votare al referendum confermativo, se e quando le due Camere completeranno il complesso percorso previsto dall’articolo 138.

La riforma contiene molte novità, la più importante delle quali è certamente la fine del bicameralismo perfetto, con il potere legislativo — e soprattutto quello di dare e negare la fiducia al governo — che si sposta alla Camera dei deputati. Ma ce ne sono molte altre. Una complicata elezione indiretta dei nuovi senatori, che saranno solo 100 (non più 315) e saranno scelti dai cittadini al momento di eleggere i Consigli regionali. L’addio ai senatori a vita. La conferma dell’immunità parlamentare anche per Palazzo Madama. Le corsie preferenziali per i disegni di legge del governo, ma anche per le proposte dell’opposizione. L’introduzione del referendum propositivo. La riscrittura delle competenze dello Stato e di quelle delle Regioni. L’abolizione delle Province e del Cnel. Il giudizio preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali. Ma vediamo uno per uno quali sono i punti principali della riforma.

I CONSIGLIERI-SENATORI

I nuovi senatori, come dicevamo, saranno solo 100: 95 eletti dalle Regioni ( 74 consiglieri e 21 sindaci, uno per regione più uno ciascuno a Trento e Bolzano) più 5 senatori di nomina presidenziale, che però non saranno più a vita, salvo gli ex capi dello Stato, ma resteranno in carica sette anni. Fatta eccezione per la prima volta i senatori non saranno eletti tutti contemporaneamente ma in coincidenza del rinnovo dei Consigli regionali (e dunque decadranno con essi).

E’ qui che Palazzo Madama ha introdotto la modifica più significativa: i senatori saranno sì eletti dai consiglieri regionali, come era previsto nel testo precedente, ma “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, applicando una legge elettorale che dovrà essere varata dal Parlamento entro sei mesi dall’entrata in vigore della nuova Costituzione. Per i senatori non è più prevista l’indennità (riservata ai soli deputati) ma viene confermata l’immunità parlamentare: non potranno essere perquisiti, intercettati o arrestati senza l’autorizzazione dell’aula.

ADDIO BICAMERALISMO PERFETTO

Cosa faranno i nuovi inquilini di Palazzo Madama? Il Senato non voterà più la fiducia al governo, e solo per alcune materie conserverà la funzione legislativa. Potrà verificare l’attuazione delle leggi, nominare commissioni d’inchiesta ed esprimere pareri sulle nomine governative, ma da lì dovranno passare solo le riforme della Costituzione, le leggi costituzionali, le leggi sui referendum popolari, le leggi elettorali degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali.

Tutte le altre leggi saranno di competenza della Camera dei deputati, ma il Senato conserverà un potere di intervento anche su quelle. Potrà esprimere proposte di modifica a una legge (su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti), ma in tempi strettissimi: gli emendamenti dovranno essere votati entro trenta giorni, dopodiché la legge tornerà alla Camera che si pronuncerà definitivamente (e potrà anche respingere le proposte di modifica). I senatori potranno esprimersi anche sulle leggi di bilancio, ma avranno solo 15 giorni e dovranno raggiungere la maggioranza assoluta. Anche in questo caso però l’ultima parola spetterà alla Camera. Infine, se la maggioranza assoluta dei suoi membri sarà d’accordo, il Senato potrà chiedere alla Camera di esaminare un determinato isegno di legge, che dovrà essere messo ai voti entro sei mesi.

Cambierà radicalmente anche il potere del governo nel procedimento legislativo: l’esecutivo avrà il potere di chiedere che sui provvedimenti indicati come “ essenziali per l’attuazione del programma di governo” la Camera si pronunci entro il termine di 70 giorni (prorogabile di altri 15 in casi eccezionali). Alla scadenza del tempo, ogni provvedimento sarà posto in votazione “senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale”.

LA CONSULTA E I REFERENDUM

Le leggi che regolano l’elezione della Camera e del Senato potranno essere sottoposte al giudizio preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale (che dovrà pronunciarsi entro un mese) su richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei Senatori, ma “entro dieci giorni dall’approvazione della legge” (anche se una norma transitoria renderà possibile il ricorso per l’Italicum). La quota di giudici oggi eletta dal Parlamento in seduta comune viene divisa tra le due Camere: tre a Montecitorio e due a Palazzo Madama. Nuove regole per le consultazioni popolari. Vengono previsti i referendum propositivi e viene fissato un quorum più basso (la metà più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche) per i quesiti sui quali sono state raccolte almeno 800 mila firme. Per le leggi di iniziativa popolare, la soglia viene alzata da 50 mila a 150 mila firme.

LO STATO E LE REGIONI

Vengono soppressi il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e le Province, finora protette dalla Costituzione. Nello stesso tempo, viene rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle Regioni. Mentre oggi vengono elencate tutte le materie su cui queste ultime possono legiferare, con la riforma è lo Stato a delimitare la sua competenza esclusiva. I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni avranno la possibilità di imporre tributi autonomi.

QUIRINALE, CAMBIA IL QUORUM

Per eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale non basterà più la maggioranza assoluta. Scompariranno i delegati regionali, ma cambierà anche il numero di votazioni per le quali sarà richiesta la maggioranza dei due terzi, un quorum altissimo che solo in pochi (e tra questi Ciampi, Cossiga e Napolitano) sono riusciti a superare. Attualmente la Costituzione impone questo quorum fino al terzo scrutinio, oltre il quale è sufficiente la maggioranza assoluta, ovvero la metà più uno. La nuova norma invece il quorum dei due terzi per primi tre scrutini, poi lo fa scendere ai tre quinti nei successivi quattro, e alla settima votazione in poi lo abbassa ai tre quinti dei votanti (non degli aventi diritto). Non più, dunque, alla maggioranza assoluta.

Economia battuta dai diritti personali. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi.

La Repubblica, 12 ottobre 2015

Di fronte ad una politica aggressivamente ripiegata sulla sola economia, sono i giudici che cercano di mantenere viva l’Europa dei diritti. Lo ha confermato qualche giorno fa una sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo che ha dichiarato illegittima una decisione della Commissione europea del 2000 sul trasferimento dei dati personali dai paesi dell’Unione europea negli Stati Uniti perché violava il diritto fondamentale alla tutela della privacy. La sentenza nasce da un caso riguardante Facebook, è stata certamente influenzata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio elettronico americano, ma mette in evidenza un vizio d’origine dell’intesa tra Commissione europea e amministrazione degli Stati Uniti, sul quale bisogna riflettere.

Un vizio ben noto, e che era stato denunciato fin dal momento in cui si negoziava quell’intesa. Poiché all’epoca facevo parte del gruppo europeo sulla tutela dei dati personali, posso dare una personale testimonianza del fatto che tutti gli argomenti adoperati oggi dalla Corte di Giustizia erano stati ampiamente sollevati quindici anni fa. Si disse che le regole previste privavano i cittadini europei di ogni potere di controllo sul modo in cui sarebbero state adoperate le loro informazioni una volta trasferite negli Stati Uniti, si prospettò il rischio che di quei dati si sarebbero impadroniti gli organismi di sicurezza, come poi è avvenuto. La discussione fu aspra, si riuscì a limitare qualche danno, ma l’atteggiamento della Commissione fu, in modo smaccato e protervo, di assoluta subordinazione alle richieste americane.
Quella protervia è stata ora travolta. È bene sottolinearlo, perché l’Unione europea sta ridefinendo il proprio sistema di garanzie per i dati personali, le pressioni degli Stati Uniti sono sempre forti e le resistenze europee non sembrano adeguate. Ma la Corte di Giustizia ha indicato con grande chiarezza le condizioni da rispettare perché le decisioni in questa materia possano essere considerate legittime. La tutela dei dati personali è riconosciuta come un diritto fondamentale d’ogni persona dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La parola privacy, che continua ad accompagnare le discussioni, ha ormai un significato non riducibile alla semplice riservatezza che si può esigere per la propria sfera privata. Indica una dimensione della libertà dei contemporanei, che devono curarla con attenzione e regole adeguate, anche nell’interesse di quelle che vengono chiamate le generazioni future.
Nel tempo dei “big data”, del controllo pervasivo sulle persone attraverso la raccolta delle informazioni incessantemente prodotte dal muoversi in un ambiente innervato da tecnologie della vita quotidiana, dal passaggio all”Internet delle cose”, si sta davvero costruendo un mondo nuovo, con forme inedite di accentramento dei poteri e di riduzione dei diritti che devono essere adeguatamente contrastate.
Nelle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea si rinvengono criteri preziosi, e vincolanti. Parlo di sentenze al plurale, perché quella appena pubblicata si colloca in una linea che la congiunge a due sentenze dell’anno scorso, altrettanto importanti, sul tempo di conservazione dei dati personali e sul diritto all’oblio. Una linea di tendenza ormai chiara. Nei casi di conflitti tra il diritto fondamentale alla tutela dei dati personali e le esigenze di sicurezza e di mercato è proprio il primo a dover avere la preminenza. In una sentenza dell’anno scorso, relativa ad un caso riguardante Google, si è detto con chiarezza che “il diritto fondamentale alla tutela dei dati personali prevale giuridicamente sull’interesse economico degli operatori del settore”. Nella decisione ultima si afferma che “una disciplina che permetta alle autorità pubbliche di accedere in maniera generalizzata ai contenuti delle comunicazioni elettroniche deve essere considerata come una violazione del contenuto essenziale del diritto fondamentale alla vita privata garantito dalla Carta europea”.
Sono affermazioni di grande rilievo, di portata generale, particolarmente importanti in un momento in cui molti Stati membri dell’Unione europea approvano norme che consentono forme di sorveglianza di massa sulle persone, evidentemente in contrasto con l’ultimo principio ricordato. Ma vi è una ulteriore, assai significativa conseguenza di queste sentenze. Poiché riguardano soggetti e situazioni che si collocano su scala globale, i loro effetti sono destinati a prodursi ben oltre i confini dell’Unione. Queste decisioni stanno così costruendo il nucleo di un diritto anch’esso globale, favorito da una unificazione determinata da una tecnologia che si sviluppa secondo modalità che hanno il mondo come riferimento.
Solo nelle apparenze, quindi, la tendenza espressa dalle decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea apparterrebbero a quella sorta di “balcanizzazione” di Internet che taluni mettono in evidenza. È vero che siamo di fronte a dinamiche che innescano conflitti legati a contrastanti interessi economici, agli appetiti di Stati nazionali, autoritari e non, di controllare Internet. Ma il carattere proprio di Internet rimane quello del più grande spazio pubblico mai conosciuto, che evoca in ogni momento la necessità di muovere dalla considerazione del ruolo delle persone e dell’assetto dei poteri.
Questo comune punto di riferimento è ritrovato dai giudici europei nel loro continuo, insistito riferimento ai diritti fondamentali. Un punto, insieme, di attrazione e di unificazione. Lo dimostrano le diverse legislazioni che si ispirano proprio al modello europeo e alla sua costruzione intorno ai diritti fondamentali, come testimoniano, tra le altre, le normative brasiliane. Lo conferma il moltiplicarsi di progetti di Internet Bill of Rights, con una manifestazione significativa nella Dichiarazione dei diritti di Internet elaborata dalla nostra Camera dei deputati, che è all’origine di un documento comune della Presidente della Camera e del Presidente dell’Assemblea nazionale francese.
Siamo di fronte ad iniziative volte ad una “costituzionalizzazione” di Internet, che ovviamente portano con sé un confronto tra diverse impostazioni, che continua da anni tra Europa e Stati Uniti, con le distorsioni già segnalate. È tempo di prendere atto dell’impulso dato a questo processo dal riferimento giuridicamente obbligato alla Carta dei diritti fondamentali, che la politica europea ha omesso in questi anni, guardando alla logica economica quasi come ad una immutabile legge naturale e alterando così gli equilibri istituzionali dell’Unione. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi. Ricordando, in primo luogo, che l’assetto complessivo di diritti e poteri su Internet definisce già oggi la dimensione dove si gioca il futuro della democrazia.

Nell'intervista di Antonrello Caporale a Massimo Cacciari il filosofo distilla gocce di saggezza sull'uomo che sta distruggendo l'Italia. La Repubblica, 12 ottobre 2015

Aiuto! Al Pd sono spariti i candidati. Affogati nel ragù renziano, invisibili, declinanti prima ancora di aver tentato il decollo. Il giovanissimo e atletico centrosinistra di Matteo annaspa ovunque in Italia. Non parliamo del centrodestra. Dei cinquestelle vale la regola della tripla al totocalcio: possono fare eleggere una nuova classe dirigente ma anche disperderla nella curva da ultras della rete.

Massimo Cacciari, il Pd governa in un deserto. Ha così tanto potere e così poca gente che nelle città lo sappia gestire.
C'è Renzi e basta. La sua vittoria non si innesta in alcun pensiero forte, tiene il comando in questo presente alla guida di un corteo composto da amici, parenti, affini, qualcuno incontrato per caso in piazza. I ministri, nel senso etimologico della parola, gli portano la minestra. Ha dato alla Boschi, poco più che trentenne, il compito di riformare la Costituzione. E ho detto tutto, sarò misericordioso.
Eppure nel dopo Tangentopoli, quando l'Italia fu svuotata dalla sua classe dirigente e onnipotente, nacque la stagione dei sindaci.
A decine erano, e bravi, efficienti. Dimentica che quella stagione fu promossa da una piccola grande rivoluzione: l'elezione diretta. Quel meccanismo fu una fionda, liberò energie, attrezzò nuove campagne elettorali, stimolò tanta gente a partecipare.
Quando ci siamo dati la zappa sui piedi?
Quando abbiamo ucciso il federalismo che avrebbe dovuto completare la riforma istituzionale. Trasformare le regioni in enti federati ed efficienti, smontare la burocrazia, la rendita parassitaria.
E la Lega di Bossi?
Ma per favore! La Lega è stata la tomba del federalismo. Volevano la secessione e null'altro. Bossi è stato una disgrazia. Adesso non c'è più niente da fare . Adesso si trasforma il Senato invece di abbatterlo, chiuderlo, azzerarlo. Col risultato che tutto sarà uguale a prima.
E manca un partito che sia uno.
Renzi vince perchè rappresenta una novità. C'era Bersani e quel mondo lì, assolutamente indigeribile. Però rischia molto. A Milano lo sa solo Allah come andrà a finire, Roma è tra le macerie, Napoli non pervenuta. Vogliamo parlare di Torino, di quel che c'è a Bologna, di come si è ridotta l'Umbria?
Zero carbonella.
Parliamoci chiaro. Quelli della prima Repubblica saranno stati anche fetenti, ma erano colti, leggevano libri. Ho conosciuto Chiaromonte, Amendola, Moro. Ricordo che con Fanfani si parlava di Max Weber e della scienza amministrativa.
Questi qua hanno avuto la play station.
Non c'è passione, manca la cultura, la competenza. Il premier è autocentrato, ha tanta cura per sé e un corteo che lo segue. Spero vivamente che quel corteo possa trasformarsi in qualcosa di meglio. Ma la vedo dura.
A Napoli è rispuntato Antonio Bassolino.
Qui c'entra la psicologia. Mi spiace per lui, perchè dimostra di essere un tossicodipendente della politica e purtroppo è una condizione che appartiene a molti. Ma il fatto che sia rispuntato denuncia la desolazione, il nulla intorno. Se uno come Renzi deve accomodarsi sulle gambe di Vincenzo De Luca per vincere la Campania...
Il centrodestra invece?
Fin quando avrà tra i piedi Silvio Berlusconi (un altro tossicodipendente della politica) sbatterà il muso contro il muro.
Resta il movimento dei cinque stelle.
Sta assumendo un rilievo meno ambiguo, riesce a portare in televisione gente che è pure capace di raccontare qualcosa. Si avvia a prefigurare per sé funzioni di governo. Ha molte possibilità di fare bene, e molte altre di fare male.
E la velocità di questo nuovo tempo non è una qualità finora vilipesa?
Vero. Ma velocità e talento da soli non bastano. Il talento ha bisogno di una squadra, di una struttura che organizzi e spinga in avanti. Di un altro nome forte, almeno uno, che nasca in periferia.
Lei crede che Renzi sia interessato a promuovere leadership alternative alla sua?
Anzitutto non è detto che debbano essere alternative o concorrenti. E comunque deve correre il rischio. Non sa chi mettere a Roma, chi mettere a Milano. A Torino c'è Chiamparino, uomo dei miei tempi, a Palermo ancora resiste Orlando, a Catania Enzo Bianco. Capisce il baratro che gli sta davanti?

S'era detto che avrebbe liberato energie.
Sì, s'era detto.
Il fallimento di un'iniziativa per la quale l'Italia era già inadeguata quando la fondarono. Figuriamoci adesso.

La Repubblica, 11 ottobre 2015

La Scuola nazionale della pubblica amministrazione si è inceppata di fronte a un ostacolo più grande di lei: la pubblica amministrazione. Dei 26 vincitori del VI concorso, che si è concluso a luglio 2014 dopo una selezione rigorosissima (per il bando arrivarono più di 10mila iscrizioni) e dopo un anno di formazione di alto livello, lo Stato è riuscito ad assumerne soltanto 9. Più o meno a casaccio, tra l’altro, pescando nella graduatoria finale senza seguire l’ordine del merito. Gli altri 17 sono finiti in coda, ad aspettare che vengano riassorbiti tutti i dipendenti in uscita dalle province. Nella peggiore delle ipotesi, se ne riparla tra un paio d’anni.

Niente male per quello che, sulla carta, è l’istituto di eccellenza della Presidenza del consiglio. Costa alle casse dello Stato 21 milioni di euro all’anno ed è “deputato - si legge nel sito ufficiale - a selezionare, reclutare e formare i dirigenti pubblici”, “punto centrale del Sistema unico del reclutamento” e, dulcis in fundo, “creato per migliorare l’efficienza e la qualità della Pubblica amministrazione”. In pratica è l’equivalente italiano della storica École Nationale d’Administration parigina e ha il compito di portare all’interno di ministeri e agenzie dirigenti altamente specializzati e qualificati, che dovrebbero impedire pasticci tipo quello nel quale, per ironia della sorte, sono finiti.

È andata così. Il concorso è stato indetto a giugno del 2012 e prevedeva che i vincitori, dopo adeguata formazione, venissero assunti in ruoli dirigenziali: 26 posti, appunto, numero a cui si arrivava a seguito della ricognizione fatta dal Dipartimento della Funzione pubblica in base alle esigenze di personale. Non è un caso, infatti, che le domande di iscrizione furono tantissime, superarono quota diecimila. Alla prova preselettiva, a febbraio 2013, si presentarono più di 4mila candidati. Dopo una durissima scrematura durata altre quattro giornate d’esame, è stata stilata la lista degli ammessi a seguire le lezioni nella più splendida delle cornici: la Reggia di Caserta. La Sna infatti ha una delle sedi proprio in alcune sale all’interno della Reggia, per quanto vitto e alloggio siano totalmente a carico degli studenti per i nove mesi di corso.

Il corpo docenti, poi, è notevole e, come tale, viene pagato: oltre a diversi professori di università (tra cui Michel Martone, ex viceministro del Lavoro, il cui compenso è di 59.000 euro), figurano il consigliere parlamentare in pensione Marcello Degni (59.000 euro), il dirigente di ricerca all’Istat Efisio Gonario Espa (106.000 euro), il funzionario del Parlamento europeo Sandro Mameli (135.000 euro), Alberto Heimler già direttore centrale dell’Autorità garante della Concorrenza e Mercato (173.000 euro) e Angela Razzino, dirigente generale dell’Inail (152.000 euro). Alcuni insegnanti – stando a quando raccontano gli studenti – si sono visti pochissimo dalle parti di Caserta. Infine c’è il presidente, il professor Giovanni Tria, che tra lo stipendio dell’università di appartenenza e l’indennità Sna arriva a prendere 217.271 euro.

Sono cifre di una certa importanza, tant’è che la scuola spende per la retribuzione dei professori 2,7 milioni di euro all’anno, esattamente quanto l’École Nationale, con la differenza che là devono formare non 26 ma 90 studenti. Il confronto dei bilanci è imbarazzante per la Sna, perché è vero che costa la metà rispetto all’Ena di Parigi (21 milioni contro 42), ma è anche vero che ha meno di un terzo dei posti.

Comunque, ad agosto dello scorso anno il dipartimento della Funzione pubblica ha finalmente comunicato con una nota la lista delle posizioni di qualifica dirigenziale nelle varie amministrazioni, spettanti a chi aveva frequentato la Sna. Davanti al documento, però, c’è da rimanere perplessi. Sono spariti senza spiegazione i posti più ambiti, cioè i quattro previsti nella struttura di vertice della Presidenza del Consiglio. Non solo. I due dirigenti da assumere al ministero della Difesa dovevano firmare il contratto al massimo entro marzo 2015 ma ancora sono lì che aspettano. Per tutti gli altri l’impegno che si è assunto per iscritto il ministero di Maria Anna Madia era quello dell’assunzione “entro il 2015”. In nove casi su ventisei, è stato mantenuto, anche se non si capisce in base a quale logica. Per gli altri, invece, la prospettiva è quella di una lunga anticamera.

“Al Dipartimento della funzione pubblica non ci vogliono nemmeno ricevere – sostengono i vincitori non assunti – circola voce che dovranno prima smaltire le migliaia di dipendenti delle province. Ma anche su questo non ci dicono niente di certo, continuiamo a chiamarli inutilmente”. L’inghippo, come nelle peggiori storie di burocrazia, è contenuto in un minuscolo comma. Nella legge di Stabilità, scorrendo l’articolo 1 si arriva al comma 425 che prevede, tra le misure di contenimento della spesa per il riordino delle Province, un divieto di assunzioni a tempo indeterminato, specificato meglio anche da una successiva circolare del ministro Madia datata gennaio. “La normativa però esclude i vincitori di concorso”, sostengono gli studenti della Sna, che intendono rivolgersi all’avvocato per fare ricorso. Dalla loro parte, anche la logica. “Se il divieto è previsto dal comma 425 – osservano - perché nove di noi sono stati presi?”.

Una sintetica illustrazione della condizione iniqua nella quale sopravvive il popolo palestinese. L'obiettivo non dovrebbe essere quello di rovinare la festa a chicchessia, si tratti pure di due sudditi dei poteri dominanti, ma di contribuire alla fine del massacro di un popolo. Il manifesto, 11 ottobre 2015


Da quando, era l’inverno del 1969, stam­pa­vamo volan­tini con il rap­pre­sen­tante di Fatah in Ita­lia Wael Zwai­ter, ucciso il 12 otto­bre del 1992 a Roma dal Mos­sad, la con­di­zione pale­sti­nese invece di miglio­rare è tra­gi­ca­mente peg­gio­rata. Nono­stante due Riso­lu­zioni dell’Onu con­dan­nino da quasi 50 anni Israele per l’occupazione mili­tare dei ter­ri­tori pale­sti­nesi. È peg­gio­rata per­ché nel frat­tempo l’occupazione mili­tare israe­liana è avan­zata, nel disprezzo do ogni accordo di pace. Quel popolo non ha più spe­ranza e stru­menti per opporsi all’avanzata degli inse­dia­menti colo­nici che hanno ridotto la terra della Pale­stina ad un alveare senza con­ti­nuità ter­ri­to­riale e quindi con una dif­fi­coltà a legit­ti­mare, anche sulla carta, il diritto ad esistere.

Pri­vato di ogni diritto, rele­gato nei ghetti dei campi pro­fu­ghi in casa pro­pria, guar­dato a vista dalle torre mili­tari dell’occupante, sepa­rato dal Muro di Sha­ron — il primo edi­fi­cato dopo il mitico crollo del muro di Ber­lino. E con una lea­der­ship ormai ina­scol­tata per­ché inca­pace di cor­ri­spon­dere alle aspet­ta­tive popo­lari. Quel popolo, che ha visto l’umiliazione dei pro­pri capi sto­rici come Ara­fat rele­gato dai tank israe­liani nella Muqata e poi eli­mi­nato e come Mar­wan Bar­ghouti che lan­gue da anni nelle car­ceri israe­liane, alla fine si è diviso e radi­ca­liz­zato. Non nella forma a noi più con­sona, poli­ti­ca­mente e social­mente ma, in assenza di una reale società civile, nelle moda­lità ideo­lo­gi­che del richia­mano all’’Islam. Tema che, con i nuovi prov­ve­di­menti di Neta­nyahu e le ultime colo­nie israe­liane — che ridi­se­gnano anche la mappa dei luo­ghi reli­giosi di Geru­sa­lemme est fino a impe­dire il diritto a pre­gare -, torna peri­co­lo­sa­mente come l’unica ban­diera. Ora una nuova gene­ra­zione di gio­vani pale­sti­nesi è in rivolta. Ci si inter­roga se sia una nuova Inti­fada e i media, a dir poco disat­tenti alla tra­ge­dia dei Ter­ri­tori pale­sti­nesi occu­pati, pre­pa­rano schede ammo­nendo da lon­tano sui risul­tati della prima e della seconda Intifada.

Certo non abbiamo mai visto una rivolta più dispe­rata, men­tre l’appello alla pro­te­sta gene­rale viene dai lea­der di Hamas dalla Stri­scia di Gaza che ha subìto in que­sti anni tre guerre impari nelle quali dall’alto dei cieli la sua gente è stata mas­sa­crata sotto gli occhi distratti del mondo. È dispe­rata que­sta rivolta per­ché il popolo pale­sti­nese si pre­senta a que­sto appun­ta­mento ancora una volta spac­cato e ridotto alla pro­te­sta indi­vi­dua­liz­zata dei col­telli e quindi quasi sui­cida e per­dente in anti­cipo. Sgo­men­tano gli accol­tel­la­menti dei coloni e le imma­gini dei gio­vani con il col­tello in mano, ma nes­suno s’indigna di fronte alle imma­gine dei carri armati, delle mitra­glia­trici o dei fucili dei sol­dati israe­liani che spa­rano sui mani­fe­stanti.

Quelle armi sono «nor­mali», ma sono di uno degli eser­citi più potenti al mondo che occupa mili­tar­mente un altro popolo. Che ora, con una nuova gene­ra­zione che scende in piazza, può far sal­tare gli equi­li­bri fin qui disa­strosi e cri­mi­nali del Medio Oriente. Nes­suno giri lo sguardo dall’altra parte. La que­stione pale­sti­nese irri­solta è all’origine dell’intera tra­ge­dia medio­rien­tale: i pro­fu­ghi delle Pale­stina occu­pata, diven­tati milioni, hanno desta­bi­liz­zato regni, pseudo– demo­cra­zie e regimi, dalla Gior­da­nia al Libano, alla Siria. Intanto Israele si è tra­sfor­mato in poco meno di un regime inte­gra­li­sta reli­gioso d’estrema destra. Inol­tre, prima che sia troppo tardi, com’è pos­si­bile dimen­ti­care che l’argomento ideo­lo­gico fon­da­men­tale quanto capace di ali­men­tare odio, quello della «occu­pa­zione dei luo­ghi sacri dell’Islam», è il tema costi­tu­tivo di Al Qaeda e dello Stato islamico?

Due le ver­go­gne da denun­ciare. Quella di Obama e quella dell’Italia renziana.

La Casa bianca ieri ha denun­ciato le nuove pro­te­ste pale­sti­nesi come «ter­ro­ri­ste». È lo stesso pre­si­dente che al Cairo nel 2009 dichia­rava di sen­tire «il dolore dei pale­sti­nesi pri­vati del diritto alla loro terra». Sono pas­sati sei anni ed è legit­timo chie­dere: al di là dell’accordo geo­stra­te­gico con l’Iran, che cosa ha fatto real­mente per­ché la con­di­zione pale­sti­nese cam­biasse, quali occa­sioni ha dato, se non soste­nere la stra­te­gia di Ben­ja­min Neta­nyahu che rilan­cia la colo­niz­za­zione della Pale­stina? Ma che farebbe il popolo ame­ri­cano se fosse occu­pato mili­tar­mente e dis­se­mi­nato di colonie?

L’altra ver­go­gna è quella di Mat­teo Renzi, il governo più filoi­srae­liano della sto­ria repub­blica ita­liana. All’ultima seduta dell’assemblea gene­rale dell’Onu si è dimen­ti­cato dell’esistenza della Pale­stina ridi­co­liz­zando il ruolo di Abu Mazen. Ora la ban­diera della Pale­stina - che ha avuto per­fino uno stand all’Expo - sven­tola all’Onu, ma si rischia la beffa per­ché quello Stato e quella terra non esi­stono. Renzi annun­cia che farà un tour di pro­pa­ganda nei tea­tri ita­liani per rap­pre­sen­tare la piece «quanto sono bravo». Rovi­nia­mo­gli lo spet­ta­colo. Por­tiamo ad ogni suo appun­ta­mento la ban­diera pale­sti­nese: sven­to­larla nei Ter­ri­tori occu­pati per il governo israe­liano è reato.

Una rassegna dello straordinario effetto di espansione a cerchi concentrici, del nostro principale contributo alla cultura della modernità, curioso considerando la posizione dell'Italia all'epoca.

La Repubblica, 11 ottobre 2015

Certo, il manifesto del 20 febbraio del 1909 scompaginò per sempre le carte. Il mito della velocità lì propugnato era come se avesse accelerato le reazioni. Subito prendono a inseguirsi le traduzioni. In romeno addirittura il giorno prima ! A marzo gli undici punti appaiono in Russia (il terreno era propizio). In aprile il manifesto esce in spagnolo a Madrid (tradotto da Gómez de la Serna), ma lo stesso mese il poeta Ruben Darío lo pubblica già a Buenos Aires. Ancora in aprile lo troviamo in croato, a maggio in giapponese. L’anno successivo è già in versione turca. È come se si fosse stuzzicato un alveare. Il tempo di riprendersi e cominciano a pullulare manifesti fuori dal controllo della centrale milanese. A Parigi esce un Manifestofuturista contro Montmartre (1913), nello stesso anno Valentine de Saint-Point presenta un Manifesto futurista della lussuria («Cessiamo di schernire il desiderio, distruggiamo i sinistri stracci romantici»), mentre sulla rivista Fantasio — dove Apollinaire aveva pubblicato il suo Cubismo culinario — appare un Manifesto della cucina futurista che prevede tra l’altro «uova in camicia nel sangue di bue». Intanto a Lisbona il pittore Almada-Negreiros — «ispirato dalla rivelazione di Marinetti» e abbigliato in una sorta di bizzarra tuta da pilota — declama nel ‘17 un Ultimatum futurista alle generazioni portoghesi del XX secolo .

E se nel ‘21 viene distribuito a Tokyo un più tradizionale volantino col Manifesto del gruppo futurista giapponese , in Polonia Bruno Jasienski e i suoi sodali lanciano un agguerrito Manifesto relativo all’immediata futuristizzazione della vita , che postula una «rapida tracheotomia» affinché «la vita e l’arte polacca» possano sopravvivere. Ormai non si potrà più dare inizio a qualsivoglia impresa artistica senza avere un proprio manifesto. E un nome da non sfigurare. Ricciotto Canudo stila un Manifeste de l’art cérébriste , in Cile sbuca un Manifesto del Runrunismo , a Porto Rico un Manifestoeuforista (vi si afferma con ponderazione «il poeta dev’essere un tonico per l’umanità, non un lassativo»), in Messico un Manifesto estridentista . E a questa foga non si sottrae certo il Manifesto antropofago delbrasiliano de Andrade che — stilato «l’anno 374° dalla deglutizione del Vescovo Sardinha» — propone di ingurgitare e metabolizzare la cultura europea.

Il futurismo ha rapidamente conquistato il mondo. Diffondendosi da solo, quasi per contagio. Marinetti ne è l’araldo e allo stesso tempo il testimonial. I suoi viaggi servono anche a marcare il territorio (come gli rinfacceranno i cubofuturisti russi, con abbondante volantinaggio). Il diagramma dei suoi spostamenti sembra la vorticosa pubblicità di un’agenzia di viaggi d’ampio respiro. Escludendo la Francia, dove aveva da tempo piantato le proprie radici, lo troviamo nel 1910 a Londra (contestato dalle suffragette), poi a Bruxelles, Mosca, Pietroburgo, Praga. Nel ‘26 dilaga in Sudamerica: Rio, Buenos Aires, Montevideo. In Argentina lo scrittore Subirat lo definisce un «fossile». Sulla copertina di un libro brasiliano campeggia una lastra tombale col suo nome. Ma a leggere le sue memorie, l’impatto era stato tale che a Bahia la gente — «in ricordo dei clamorosi trionfi del Futurismo» — prese a chiamare «Marinetti» gli autobus pubblici.

La sua presenza in scena è sempre elettrizzante. Quasi a contestare anticipatamente Ezra Pound che — stizzito dal suo tentativo di annessione degli avanguardisti inglesi — il mese successivo l’avrebbe definito «un cadavere», nel maggio del ‘14 Marinetti declama a Londra alcuni brani di Zang Tumb Tuuum munito di «martelli appositi» (per rendere «i rumori della fucileria e delle mitragliatrici »), tre lavagne a cui si avvicina veloce «per disegnarvi, in modo effimero, col gesso, un’analogia », e un telefono con cui imita i comandi dei generali turchi e dà a sua volta ordini all’addetto a due enormi tamburi, posto in una sala lontana.

Così il futurismo, «parola d’ordine di tutti gl’innovatori o franchi-tiratori intellettuali», gesto iniziale che — ben prima di Breton e dei surrealisti — accorcia la distanza tra le parole e crea immagini splendide e inattese, questa istigazione a trasformare la pagina in un libero campo di forze, produrrà in giro per il mondo fogli dalla fantasiosa impaginazione, varianti della «multiforme prospettiva emozionale» voluta da Marinetti, come le «poesie in cemento armato » di V. Kamenskij, dove lo specchio della pagina è diviso in spicchi autonomi di testo, o alcune tavole parolibere giapponesi dove, accanto ai tradizionali ideogrammi (in verticale), troviamo i «Bruuuun» onomatopeici a caratteri latini (e orizzontali), o il tripudio di lettere in libertà sulle pagine della commedia transmentale Lidantju il faro di Zdanevic, o la copertina di En avant Dada di Huelsenbeck con la sua illusoria fuga prospettica di parole. Un debito non sempre riconosciuto.

Nel ‘29, su ReD il boemo K. Teige fa ammenda di un decennio di reticenze sul futurismo: sulla copertina campeggia Marinetti in posa declamatoria in un disegno di Hoffmeister, ma la banda rossa di colore che lo copre come una toga svela in trasparenza sotto ai suoi piedi uno sgabello con due scarpette posticce, per guadagnare qualche centimetro.

Il premier turco Erdogan, fervido commilitone degli Usa, della Nato e dell'Unione europea, è alleato dell'IS, contro il quale Usa, Nato e UE digrignano i denti. Non è la guerra

dei curdi, ma contro i curdi. La Repubblica, 11 ottobre 2015

Dopo averli dispersi ai quattro venti, Iraq, Iran, Turchia e Siria, oltre che in una diaspora antica, la storia si è divertita a rimettere i curdi al centro della scena: una scena di guerra e terrore. La strage di ieri, per il numero di vittime, il luogo – la stazione- e il contesto elettorale, è famigliare agli italiani che ricordano che cosa volesse dire Strategia della tensione. La guerra civile tra l’esercito turco e il partito comunista e indipendentista curdo, il Pkk di Abdullah Ocalan, ha fatto dal 1984 quarantamila morti. Dopo una tregua nel 2013, e una serie di falsi movimenti negoziali, nel luglio scorso è tornata a divampare. La scintilla è venuta da Suruç, al confine con la Siria: un incontro di giovani socialisti turchi e curdi per Kobane è stato bersaglio di un attentato suicida che ha fatto 32 morti e decine di feriti. Il sedicente Stato Islamico l’ha rivendicato, ma i curdi e gran parte dell’opposizione hanno denunciato la corresponsabilità del governo.

Il retroterra era nel risultato elettorale di giugno, che aveva mortificato il programma del presidente Erdogan, grazie all’affermazione del Partito democratico dei popoli, Hdp, col quale per la prima volta un partito curdo entrava in parlamento, superando largamente la soglia del 10 per cento dei voti. L’Akp di Erdogan aveva mirato alla maggioranza assoluta per riscrivere la costituzione, ed era invece sceso dal 49 al 41 per cento. Dopo aver simulato di trattare per un governo di coalizione, Erdogan aveva cercato la rivalsa nelle elezioni anticipate, fissate al 1° novembre: così stando le cose le avrebbe perse, e il Hdp avrebbe migliorato il successo di giugno. La campagna elettorale è stata allora confiscata dalla guerra riaperta al Pkk, e soprattutto al Hdp, che Erdogan attacca come il travestimento parlamentare del “ terrorista” Pkk. Quest’ultimo è ancora nella lista delle formazioni terroriste per gli Usa e l’Europa, ma con le tortuose complicazioni esplose nella dissoluzione di Siria e Iraq. Il Pkk è infatti la casa madre del partito curdo-siriano, il Pyd, e del movimento armato, l’Ypg e l’Ypj (femminile), che difende eroicamente il proprio territorio e la propria esperienza di autogoverno. A Kobane, che di quella resistenza divenne il simbolo, i curdi furono a lungo soli mentre la Turchia chiudeva la frontiera ai soccorsi, e solo in extremis ricevettero il sostegno dei raid americani. I curdi-siriani sono ancora il nerbo di qualunque piano della coalizione per riconquistare Raqqa, la capitale siriana dell’Isis. Non è solo in Siria che i combattenti fratelli (sorelle, perché le donne vi si battono davvero alla pari) del Pkk sono alleati della coalizione, ma anche in Iraq, dove il Pkk in esilio ha da decenni stabilito la propria base sui monti Qandil, e dove le sue forze hanno avuto un ruolo decisivo nel fermare l’avanzata dell’Isis e nel soccorrere la fuga disperata di yazidi e cristiani di Mosul e Niniweh.

Ecco un primo groviglio: una componente essenziale dei “piedi per terra” della guerra all’Isis figura ancora nella lista del terrorismo internazionale. E la Turchia, che si è guardata fino a poco fa dal contribuire seriamente alla guerra contro il califfato, e a volte si è fatta prendere con le mani nel sacco a foraggiarlo, conduce dall’estate una vera guerra al Pkk, con continui bombardamenti aerei alle basi del Qandil, cioè in territorio iracheno, di fatto del Governo Regionale del Kurdistan. Il governo turco vanta di aver eliminato in meno di tre mesi 1.800 militanti del Pkk, il quale nega e a sua volta proclama di aver ucciso centinaia di militari e poliziotti turchi. Pesantissimo è comunque il bilancio di morti e feriti civili, migliaia di arrestati, città, come Cizre, devastate. Il calcolo dell’Akp è di riguadagnarsi, in una tensione così sanguinosa, i voti che l’Hdp aveva meritato, oltre che fra le altre minoranze etniche e civili, anche fra gli elettori turchi allarmati dalla smodatezza delle ambizioni di Erdogan. La sua equazione è: il Pkk è terrorista, e l’Hdp è il Pkk in maschera.

È un fatto che il Pkk compie attentati indiscriminati contro chiunque indossi un’uniforme turca. È un fatto anche che da anni Ocalan – che rimane, dal suo ergastolo, l’icona del Pkk - esorta a deporre le armi. (L’evoluzione del marxismo-leninismo di Ocalan è singolare: specialmente per un femminismo sfrenato, esposto tuttavia nello stesso linguaggio ortodosso che serviva per il classismo). È inoltre vero che fra Hdp e Pkk ci sono legami (anche un fratello di Selahattin Demirtas è fra i dirigenti del Pkk) ma l’Hdp sa di essere gravemente danneggiato dal ritorno alle armi e ha ripetutamente spinto il Pkk a una tregua anche unilaterale. Il Pkk a sua volta invita ad appoggiare nelle elezioni l’Hdp, nega di volere “la guerra” e afferma di combattere solo per autodifesa. Venerdì aveva rinnovato la richiesta di un cessate il fuoco, e ieri, dopo la strage di Ankara, l’ha dichiarato comunque. Quanto a Erdogan, una settimana fa aveva convocato a Strasburgo migliaia di turchi immigrati in Europa per esaltare il passato del sultanato, ripudiare qualunque mediazione con i “terroristi” curdi, e promettere di schiacciarli fino all’ultimo.

Tutto ciò avviene mentre i caccia russi violano lo spazio aereo turco, la Nato si dice pronta a inviare truppe, e l’altro nemico giurato di Erdogan, Bashar al Assad, si rimpannuccia. La posta del sangue di ieri e di quello che scorrerà non sono solo le elezioni turche, pure così importanti, ma la ragnatela di guerre dirette o interposte che copre il vicino (vicinissimo) oriente. C’è oggi nelle persone di cuore una simpatia per i curdi, per il loro valore di patrioti, per i colori del piccolo Alan, che l’infamia della strage di ieri – cantavano chiedendo di deporre le armi - rafforza, com’è giusto. Ma i curdi sono tutt’altro che uniti.

Nello stesso autonomo Krg, il Kurdistan iracheno, la disputa tra Pdk di Barzani e Puk di Talabani e Kosrat sul rinnovo della presidenza si trascina e fomenta ribellioni tanto più paradossali perché si svolgono in un paese che va al fronte pressoché tutti i giorni. Venerdì, manifestazioni di dipendenti pubblici – insegnanti in sciopero, sanitari…senza stipendio da mesi, si sono mutate in scontri violenti con quattro morti e parecchi feriti, nella città di Qaladize, a nord di Suleymanyah.

Il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2015

Il professore Alberto Asor Rosa, icona degli intellettuali di sinistra, è stato il primo a usare la definizione di mutazione geneticanel linguaggio politico. Accadde nella Prima Repubblica, con il Psi di BettinoCraxi. Trent’anni dopo la stessa metafora scientifica accompagna, nellavulgata giornalistica, il Pd renziano nel suo grottesco viaggio verso la destrapeggiore di questo Paese, quella degli ex berlusconiani Denis Verdini eAngelino Alfano, futuri inquilini o alleati del Partito del la nazione.

Professore, che cosa sta diventando il Pd di Renzi?
«Un partito nuovo che non ha più una base di massa,rispon de al comando di un leader in contrastato e ha un gruppo dirigenteconservatore di destra».

È una perfetta definizione accademica, senza fronzoli. Un partito didestra, nemmeno di centro.
«È un dato di fatto che l’attuale vertice del Pd haescluso dal gruppo dirigente ogni erede della tradizione comunista, ma ancheprogressista o riformista. Sono tutti ex democristiani».

Una nuova Dc.
«No, perché ai vecchi democristiani non sarebbe maivenuto in mente di proclamare il Partito della nazione. L’obiettivo del Pdn èl’ulteriore perfezionamento in termini di destra di questa tradizionecentrista, che non ha ritegno a considerare interlocutori Alfano e Verdini».

Risultato: Verdini non è il mostro di Loch Ness (Renzi dixit) ma Marinosì.
«La liquidazione di Marino può essere annoveratatra le molteplici iniziative di Renzi e del renzismo di avere sull’Italia uncontrollo totale. Quando questo controllo non c’è si ricorre all’aggressività».

Marino ci ha messo del suo.
«Il sindaco di Roma non ha rivelato quella tempradi condottiero necessaria, ma non ho dubbi che abbia prevalso, contro di lui,una spinta eversiva e catastrofica proveniente da tante parti».

Com’è possibile che il Partito di Loch Ness nasca a sinistra, anziché adestra?
«La risposta è facile. Per metterein moto questo processo occorreva che la forza trainante fosse una parvenza disinistra dietro cui nascondersi, altrimenti ci sarebbe stato un coro disghignazzamenti, se non di manifestazioni di piazza».

Quindi il berlusconismo è stato meno pericoloso del renzismo.
«Sì, “Silviuccio” non era in grado di elaborareculturalmente una simile invenzione. E politicamente la piazza glielo avrebbeimpedito».

A Renzi no, invece.
«Può fare quello che sta facendo perché il Pd èmutato nelle sue radici e la mutazione genetica ha investito anche i suoielettori. Non dimentichiamo che lui arriva dopo una sequela pluridecennale difallimenti del centrosinistra e la gente ha pensato: “Almeno questo faqualcosa”».

Il fatidico 40 per cento alle Europee.
«Renzi ha un consenso vasto anche se il puntoculminante del suo successo è già alle nostre spalle».

All’orizzonte c’è però l’autoritarismo della nuova Costituzione.
«Qualsiasi atto del presidente del Consiglio miraal restringimento della democrazia, in termini di spazi e di base del consenso.Contano solo i vertici del potere, dalle rappresentanze politiche al presi de-managerdella scuola. Per renzismo, intendo questo».

Combattere il renzismo dall’interno del Pd non sembra possibile.
Sulla minoranza del Pd, in questi giorni, mi sonovenute in mente solo due parole».

Quali?
«Ridicola e penosa. Ridicola perché ha fatto riderela battaglia su alcuni particolari della riforma Boschi. Penosa perché ilrisultato ha dimostrato che la minoranza non conta nulla. Poi ha superatoanche il limite etico-politico perché non si è vergognata di votare con Verdini».

Fuori dal Pd c’è un deserto a sinistra?
Deserto mi pare eccessivo. Ci sono tanti pezzettisparsi ma non c’è nessuno in grado di convogliare queste forze verso la stessadirezione.

Un effetto collaterale della mutazione genetica?
«Dalla crisi dei grandi partiti di massa natidall’antifascismo e dalla Resistenza non c’è stata nessuna vera scintilla».

Come si qualifica una mutazione?
«Quando cambiano natura, vocazione e cultura».

Nel Pd renziano?
«Si parte dall’idea che i conflitti sociali sianodannosi per cui i sindacati diventano il nemici. Così la cultura della nazioneimpone una ratio comune che è quella del grande capitale e della grandefinanza. Il terzo punto è il restringimento della democrazia. Il Partito dellanazione, sviluppato sino in fondo, comprenderà anche Berlusconi e iberlusconiani, non solo Verdini e Alfano» .

Un breve resoconto di un interessante convegno della Fondazione istituto Gramsci, nel quadro di una ricerca sul ruolo degli intellettuali nell'Italia degli anni Settanta. Il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2015

Gli Anni Settanta sono stati periodizzanti nellanostra storia. E il mondo intellettuale ne fu interprete, talvolta protagonista.Un seminario della Fondazione Gramsci a Roma (“Gli intellettuali nella crisidella Repubblica fra radicalizzazione e disincanto”) ha provato a fare il punto,con una stimolante indagine a più voci affidata a giovani, partendo dall’aureoinsegnamento gramsciano che ammonisce a non trasformare i problemi politici inproblemi culturali se li si vuole risolvere. Ci si è rivolti verso singolefigure, ma anche verso giornali (Corriere della Sera, La Stampa, la Repubblica,l’Unità), riviste (Quindici o Rinascita, per esempio), e con ampi riferimentialle forze politiche, particolarmente a sinistra – quella ufficiale e quella “extraparlamentare”a cominciare da Lotta continua.

In quel decennio si verificò la fine delleillusioni del cambiamento rivoluzionario, ma anche la messa in mora delleattese riformatrici (la parola “riforma” aveva un significato autenticamenteprogressivo, all’opposto di oggi quando significa il suo opposto): e toccò agliintellettuali interrogarsi sul senso del cambiamento in atto, cercando di darsispiegazioni; alcuni ambirono a diventare consiglieri del principe, ovverodettare l’agenda politica. In ambito cattolico, per esempio, la figura diPietro Scoppola, studioso di grande valore, una sorta di interlocutore e inparte suggeritore discreto di Aldo Moro, ha come contraltare il cattolicoiperconservatore di Augusto Del Noce, che parla di “catastrofe” in atto; mentrein ambito liberale, una figura quale Rosario Romeo, che a sinistra talunovedeva come un democratico, e talaltro come un reazionario di tre cotte, speciecon il suo avvicinarsi al Giornale Nuovo di Indro Montanelli, di cui fu firmaprestigiosa.

In fondo, come Scoppola accetta la necessità della finedell’unità politica dei cattolici, Romeo accetta la fine dell’unità liberale,anche per la delusione che il Pli gli diede, tanto da spingerlo, negli AnniCinquanta, a essere nel gruppo fondatore del Partito Radicale. Quel Romeo,fervido anticomunista, apprezzò nondimeno gli sforzi del Pci berlingueriano, ela linea della fermezza nei drammatici giorni del rapimento Moro.

Mentre in quel partito ferveva il dibattito sulruolo dell’intellettuale, con particolare attenzione alle avanguardieartistiche, e al loro rapporto con la “contestazione” giovanile. Ci siinterrogava su come dovessero comportarsi letterati, artisti, scienziati versoil partito, e viceversa. Ma si cominciava a riflettere anche sulla naturadell’intellettuale, tenendo conto dei nuovi settori che stavano emergendo conla dilatazione delle figure intellettuali. A sinistra, e nel mondo giovanile, la Nato, ilcompromesso storico, la stessa accettazione dell’“austerità”, furono lette comealtrettanti segnali di una “restaurazione” culturale e politica del “partito diGramsci”.

Una restaurazione modernizzatrice fu in realtàanche l’operazione Repubblica di Eugenio Scalfari; il Pci stava ormai abbandonandola propria cultura e Scalfari gline offriva un’altra, di ben diversatradizione: il terzaforzismo, rivisitato con capacità di cogliere i segnali delcambiamento (per esempio il modificarsi delle gerarchie produttive, conl’emergere della piccola impresa), e di intercettare gusti e indirizzareopinioni: di creare “senso comune”, in definitiva.

Con quel quotidiano, che nel 1986, a dieci anni dalla nascita,effettuò il “sorpasso” del Corriere, venne meno la separatezzadell’intellettuale, e il quotidiano di Scalfari si pose come un think tank cheambiva a indicare la linea alla sinistra (con l’eccezione del breveinnamoramento per Ciriaco De Mita, “intellettuale della Magna Grecia”), e inparticolare a “detogliattizzare” il Pci favorendone l’ingresso nell’area digoverno, avviando una feroce polemica contro la “partitocrazia” che ebbe esitiben diversi da quelli attesi da Scalfari. Ma non ebbe torto a pensare chedavanti alla crisi dei partiti, denunciata in una memorabile intervista che glirese Berlinguer, la cultura politica andava rinnovata al di fuori di essi.

Fu un eretico di tutte le chiese, Pier Paolo Pasolini,però, più di ogni altro, in una estrema rappresentazione del “poeta-vate”, acogliere le trasformazioni della società italiana, in una sorta di sintoniaimplicita con Berlinguer. L’uno e l’altro destinati ad essere espulsi dalpresente di un Paese che non sapeva che farne di personaggi che apparivano atroppi connazionali soltanto fastidiosi grilli parlanti

«Ancor prima che con­tro la pro­pa­ganda del governo, le reti stu­den­te­sche nazio­nali dei medi e degli uni­ver­si­tari, senza con­tare i col­let­tivi cit­ta­dini o metro­po­li­tani da Sud a Nord, si sono atti­vate con­tro la spa­ven­tosa nor­ma­lità di un paese ingri­gito e sof­fe­rente».

Il manifesto, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)

Occu­pa­zioni, flash-mob al Miur, al mini­stero dell’economia e a palazzo Chigi, blitz con petardi e fumo­geni in filiali ban­ca­rie e agen­zie di lavoro inte­ri­nali come Man­po­wer a Napoli, pre­sidi e incon­tri al mini­stero dell’Istruzione. E poi 90 cor­tei con 5 mila stu­denti a Roma, due­mila a Bari, mille a Milano e altret­tanti a Palermo, tra gli altri. Ieri l’autunno di piombo della scuola gover­nata dagli algo­ritmi che deci­dono le sorti di un docente men­tre le prove Invalsi per­fe­zio­nano la valu­ta­zione della vita pro­dut­tiva degli stu­denti si è acceso all’improvviso. Ses­san­ta­mila stu­denti hanno mani­fe­stato con­tro la riforma della scuola, il Jobs Act, le poli­ti­che migra­to­rie della «For­tezza Europa» e il diritto allo stu­dio azzop­pato (ancora) dalla riforma dell’Isee.

Non è man­cato il rife­ri­mento ai pre­cari della scuola esclusi dalle assun­zioni di Renzi, pur avendo matu­rato il diritto. Una mobi­li­ta­zione «sociale» che ha cer­cato un’interlocuzione con i movi­menti esi­stenti: il «No Ombrina» con­tro le tri­vel­la­zioni dello «Sblocca Ita­lia», il 14 otto­bre a Roma, ricor­dano i col­let­tivi auto­nomi napo­le­tani «Kaos». Gli stu­denti non vogliono sen­tirsi soli e sono alla ricerca di con­nes­sioni. Ieri hanno schie­rato numeri impo­nenti, e non scon­tati, dopo giorni di silen­zio dei mag­giori sin­da­cati della scuola impe­gnati a discu­tere se, come o quando fare uno scio­pero gene­rale (Uni­co­bas lo farà il 23 otto­bre, i Cobas il 13 novem­bre, men­tre sono pre­vi­ste mobi­li­ta­zioni il 24 otto­bre). Tutto pro­cede in sor­dina dopo la «notte bianca» della scuola del 23 set­tem­bre scorso. Al clima non ha gio­vato il fal­li­mento della rac­colta firme sul refe­ren­dum con­tro il «pre­side mana­ger» pro­mosso da «Pos­si­bile» di Civati che ha segnato una spac­ca­tura con il movi­mento della scuola che all’assemblea di Bolo­gna del 5 set­tem­bre scorso ha deciso di stu­diare la pos­si­bi­lità di farne un altro nel 2017, con rac­colta firme nel 2016. Nel frat­tempo con­ti­nuano le pro­ce­dure delle assun­zioni dei 55 mila docenti pre­vi­sti in «fascia C» affi­dati a un algo­ritmo che costringe gli inte­res­sati a un’attesa soli­ta­ria e preoccupata.

Ancor prima che con­tro la pro­pa­ganda del governo, le reti stu­den­te­sche nazio­nali dei medi e degli uni­ver­si­tari (Rete della Cono­scenza, Uds, coor­di­na­mento Link, Udu, Stu­dAut), senza con­tare i col­let­tivi cit­ta­dini o metro­po­li­tani da Sud a Nord, si sono atti­vate con­tro la spa­ven­tosa nor­ma­lità di un paese ingri­gito e sof­fe­rente. Gli stu­denti, cia­scuno per la pro­pria parte, hanno ela­bo­rato una loro agenda e cer­cano di scuo­tere le foglie sull’albero. Link e Udu por­tano avanti la bat­ta­glia sul diritto allo stu­dio. La riforma dei para­me­tri dell’Isee ha creato un’emergenza sociale nel malan­dato diritto allo stu­dio ita­liano: per respon­sa­bi­lità di un nuovo indi­ca­tore decine di migliaia di stu­denti sono stati esclusi dalle borse di stu­dio, come se fos­sero diven­tati più ric­chi. Ieri sono stati rice­vuti al mini­stero dell’Istruzione. L’incontro non ha sod­di­sfatto Link («manca ancora una pro­po­sta con­creta» sostiene il coor­di­na­tore Alberto Cam­pailla); «Vogliamo inter­venti legi­sla­tivi e fondi sup­ple­men­tari» ha detto Jacopo Dio­ni­sio (Udu).

Una tren­tina di uni­ver­si­tari di «Stu­denti Indi­pen­denti» e «Alter­po­lis» ieri a Torino hanno occu­pato alle 7,30 del mat­tino il gaso­me­tro dell’Istalgas in corso Regina Mar­ghe­rita a Torino. In que­sto edi­fi­cio dovreb­bero essere costruite resi­denze uni­ver­si­ta­rie gestite da pri­vati. Per gli stu­denti è un’«operazione pro­pa­gan­di­stica che spac­cia una spe­cu­la­zione edi­li­zia per un’attività a bene­fi­cio degli stu­denti». Molti dei quali, oggi, non potreb­bero nem­meno vivere nella «casa dello stu­dente» pri­va­tiz­zata, dato che il governo ha cam­biato all’improvviso le regole per bene­fi­ciare delle borse di stu­dio. Alle undici i ragazzi sono stati sgom­be­rati mala­mente dalla celere. Nell’intervento è rima­sta con­tusa Ila­ria Manti, ex pre­si­dente del Senato degli Stu­denti dell’Università di Torino, e ha pro­dotto la pro­te­sta della Fiom e degli stu­denti con­tro «l’uso spro­po­si­tato della forza da parte della polizia».

Un’altra que­stione è «l’alternanza scuola-lavoro» pre­vi­sta dalla «Buona scuola», dal «Jobs Act» e appro­vata dalla con­fe­renza Stato-Regioni. Per gli stu­denti il poten­zia­mento dell’apprendistato spe­ri­men­tale «è uno sfrut­ta­mento». «Pro­spet­tiva inac­cet­ta­bile per gli stu­denti in stage — afferma Danilo Lam­pis (Uds) — L’apprendistato è un con­tratto di lavoro, qui si equi­pa­rano ore di lavoro sot­to­pa­gato con quelle di for­ma­zione in classe». «é un salto nel vuoto — spiega Gianna Fra­cassi (Cgil) — non c’è modo per indi­vi­duare imprese con un’adeguata capa­cità for­ma­tiva». Fran­ce­sca Puglisi, respon­sa­bile Pd scuola rispol­vera le argo­men­ta­zioni clas­si­che sui «choosy» che non vogliono lavo­rare: «È un po’ da snob pen­sare che la cul­tura del lavoro non debba “con­ta­mi­nare” la scuola — sostiene — Le espe­rienze pos­sono essere fatte anche nelle isti­tu­zioni cul­tu­rali». In realtà gli stu­denti cri­ti­cano il «modello tede­sco», la pro­fes­sio­na­liz­za­zione senza diritti e lo sna­tu­ra­mento dell’obbligo sco­la­stico, oltre al pre­ca­riato e al lavoro gra­tis masche­rato da for­ma­zione. Argo­menti troppo com­plessi per rien­trare nel for­mat pater­na­li­stico ren­ziano, ma spunti per un modello alter­na­tivo di istru­zione pubblica.

«La scrittrice Suad Amiry racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace. “La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla”».

La Repubblica, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)

Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.

Signora Amiry, siamo di fronte alla terza Intifada?
«Negli ultimi due anni la situazione dei palestinesi è peggiorata, la vita quotidiana è diventata sempre più difficile. In questi mesi Gerusalemme è stata di fatto isolata: per noi andare a pregare è complicatissimo mentre i coloni ebrei sono riusciti ad entrare anche nella moschea di Al Aqsa. Le politiche di Israele hanno di fatto spinto i giovani per la strada: non c’è stata altra speranza. Questo è il vero problema, non cercare la giusta definizione per quello che sta succedendo ».
Anche i politici palestinesi però hanno commesso clamorosi errori…
«Certo. Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di salvare il dialogo e per fare questo si è piegato al punto di perdere la faccia con i suoi, soprattutto con i più giovani. Gli israeliani non troveranno mai più un leader così moderato come il presidente Abu Mazen, eppure neanche con lui sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Il risultato è l’arrivo sulla scena di una nuova generazione, che per mettere fine a questa situazione va in strada. Sono stata nel team dei negoziatori palestinesi e posso dire con certezza che quelli come me, che per anni hanno predicato la necessità di riconoscere lo Stato di Israele, oggi appaiono ridicoli agli occhi della maggior parte della gente dei Territori e della Striscia di Gaza. Noi chiedevamo rispetto, ma Netanyahu si è messo in tasca le nostre parole. Per anni Abu Mazen ha fatto arrestare chi scendeva in strada contro Israele: abbiamo fatto i protettori dei nostri occupanti. Ed ecco il risultato».
Sta dicendo che non c’è più speranza per l’eterno conflitto israelo-palestinese?
«No, non dico questo. Certo che c’è speranza: i ragazzi non sarebbero in strada se non avessero speranza. La speranza è che finisca l’occupazione. Questa situazione così ingiusta non può andare avanti per sempre. Vogliamo la pace, vogliamo una soluzione: ma bisogna essere in due per avere queste cose. Quello che non vogliamo, che non possiamo accettare, è continuare a vivere in uno stato di apartheid».
Cosa vede nel futuro?
«Le dico cosa vedo nel presente, qui in America, il paese dove ho studiato negli anni ’70 e dove per anni l’opinione pubblica è stata in modo compatto dalla parte di Israele. Oggi anche qui un numero crescente di persone iniziano a capire come vivono i palestinesi. La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla. L’apartheid finì quando il mondo disse basta, quando l’embargo economico diventò forte e mise alle strette il governo. Io mi auguro che presto accada lo stesso per noi».
«Si accetti final­mente di aprire una discus­sione seria sugli errori com­messi a sini­stra in que­sti tre decenni (almeno) e sulla muta­zione gene­tica impo­sta alla sini­stra ita­liana. Se dav­vero si avesse a cuore una qual­che rina­scita, sotto que­ste for­che si accet­te­rebbe di passare».

Il manifesto, 10 ottobre 2015

Ci siamo final­mente. Mar­tedì il Senato in grande spol­vero voterà senza colpo ferire la pro­pria tra­sfor­ma­zione in una nuova Camera delle Cor­po­ra­zioni. Napo­li­tano, Ver­dini e Barani, padri costi­tuenti, rac­co­glie­ranno meri­tati onori. La legi­sla­tura vivrà una gior­nata pal­pi­tante. Ma se ci si potrà com­muo­vere, dirsi sor­presi invece no, non sarebbe sen­sato. Che si sarebbe arri­vati a que­sto punto si era capito già l’anno scorso, quando il ddl Boschi comin­ciò la navi­ga­zione tra i due rami del par­la­mento meno legit­timo della sto­ria repubblicana.

A rigore il governo avrebbe dovuto veder­sela con l’agguerrita oppo­si­zione ber­lu­sco­niana, quindi subire le con­di­zioni poste dalle mino­ranze interne dello stesso Pd. Ma entrambi gli osta­coli si rive­la­rono ben pre­sto incon­si­stenti. Ancor prima di con­qui­stare palazzo Chigi Renzi si era accor­dato con Ber­lu­sconi sulle «riforme» da varare insieme. Ver­dini aveva con­vinto il cava­liere che quel gio­vane demo­cri­stiano era un conto in banca, la pen­sava allo stesso modo sulla Rina­scita demo­cra­tica del paese, quindi per­ché non soste­nerne l’impresa, tanto più che avrebbe messo al bando la vec­chia guar­dia rossa del Pd?

Quanto a quest’ultima, i solenni pro­clami della prima ora si svi­li­rono ben pre­sto in mano­vre tat­ti­che e in mer­can­teg­gia­menti e mai nulla di serio accadde, nem­meno dopo che il patto del Naza­reno era entrato in sof­fe­renza. Non solo fiorì impo­nente la pra­tica del tra­sfor­mi­smo interno, non sol­tanto il pre­sunto cari­sma del noc­chiero attrasse pro­se­liti anche oltre­con­fine. Gli stessi gene­rali della sedi­cente sini­stra demo­cra­tica cor­sero spon­ta­nea­mente a Canossa nel nome della ditta o della respon­sa­bi­lità, del rea­li­smo o di non importa cosa.

Risul­tato, Renzi ha fatto e disfatto col suo modo arro­gante e stra­fot­tente. Ha irriso e lusin­gato, minac­ciato e blan­dito. E men­tre Ver­dini — l’altro capo del governo, l’austero diarca del nuovo che avanza — lavo­rava per resti­tuir­gli il soste­gno della destra, ha defi­ni­ti­va­mente fritto capi e capetti dell’opposizione interna. La quale si è lasciata tri­tu­rare senza nem­meno accen­nare a una resi­stenza degna del nome. E oggi vive la sua ultima disfatta senza sto­ria, avendo tutto per­duto, anche l’onore.

A qual­cuno forse sarà dispia­ciuto, per este­tica o per umana pie­tas, il crudo mara­mal­deg­giare dei colon­nelli ren­ziani all’indirizzo del vec­chio segre­ta­rio. Ma in poli­tica non c’è spa­zio per la sen­si­bi­lità e gli affetti e su Ber­sani, sim­bolo di que­sta Capo­retto, incombe una colpa molto grave. Ora non è il suo Pd in que­stione, ma la Costi­tu­zione della Repub­blica, costata lacrime e san­gue e migliaia di morti nella guerra con­tro il nazi­fa­sci­smo. Non è la ditta, è il paese, con­se­gnato a un regime per­so­nale (ne sa qual­cosa, buon ultimo, il sin­daco della capi­tale, cen­tri­fu­gato nella mac­china del fango): a un regime auto­ri­ta­rio (dove il pre­si­dente del Con­si­glio sarà effet­ti­va­mente capo del governo e potrà tutto senza l’impaccio di un vero par­la­mento): a un regime orga­nico di classe, para­diso fiscale per chi ha molto, inferno per chi lavora (o non lavora).

Tant’è. Oggi per­lo­meno, a bocce ferme, il qua­dro è lim­pido ed è pos­si­bile un primo con­sun­tivo. Ognuno trarrà le pro­prie con­clu­sioni e non dubi­tiamo che i più, nel circo della poli­tica poli­ti­cante, ragio­ne­ranno in base al pro­prio tor­na­conto. Così i furieri dei pic­coli par­titi, minac­ciati dalla tagliola della nuova legge elet­to­rale. Così, nei par­titi mag­giori, soprat­tutto gli ere­tici, i cri­tici, i peri­cli­tanti. Poi ci sono i molti addetti ai lavori — sta­ti­sti di lungo corso, intel­let­tuali, opi­nio­ni­sti illu­stri — che riflet­te­ranno piut­to­sto, come si dice, «poli­ti­ca­mente». Sui nuovi rap­porti di forza, sugli sce­nari, sulle pro­spet­tive. Che stro­lo­ghe­ranno soprat­tutto sulle chiare e oscure (invero molto oscure) impli­ca­zioni del patto d’acciaio tra Renzi e Ver­dini, sulla sua ragion d’essere, sulle con­se­guenze, i costi e i bene­fici. Sco­prendo adesso, a babbo morto, che in que­sto patto pulsa da sem­pre il cuore nero del governo e fin­gendo forse di allar­mar­sene, o invece com­pia­cen­do­sene per la sua laica, spre­giu­di­cata, post-ideologica con­fi­gu­ra­zione. Noi invece bat­tiamo e sug­ge­riamo un’altra strada, solo in appa­renza impo­li­tica. Una linea di ricerca desueta che ci appare tut­ta­via più feconda e inte­res­sante e istrut­tiva. Non­ché la più auten­ti­ca­mente politica.

Se è vero, come è vero, che il disa­stro della cosid­detta sini­stra interna del Pd — la man­cata resi­stenza allo sfon­da­mento ren­ziano e al pro­getto padro­nale che lo sot­tende — ha pro­dotto con­se­guenze enormi ed è in larga misura la chiave per com­pren­dere quanto sta acca­dendo in que­ste ore. Se è vero, com’è vero, che i rap­porti di forza nel Pd non erano all’inizio della sto­ria nem­meno lon­ta­na­mente quelli attuali e che, in linea di prin­ci­pio, sarebbe stato age­vole per le mino­ranze unite con­trap­porsi e imporre al pre­si­dente del Con­si­glio più miti con­si­gli e una ben diversa com­po­si­zione dell’esecutivo. Allora è giunto il momento di inter­ro­garsi senza reti­cenza sulle scelte com­piute in que­sti due anni dagli espo­nenti della sini­stra demo­cra­tica — tutti, dai capi ai capetti all’ultimo gre­ga­rio: sulle moti­va­zioni che li hanno ispi­rati, di ordine cul­tu­rale, psi­co­lo­gico, morale.

Quando la geo­gra­fia poli­tica di un paese si tra­sforma per effetto di un pro­fondo som­mo­vi­mento cul­tu­rale come quello veri­fi­ca­tosi tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, le respon­sa­bi­lità sog­get­tive assu­mono un peso pre­pon­de­rante. E grava più che mai l’inconsistenza cul­tu­rale e morale: la subal­ter­nità ideo­lo­gica e la dispo­ni­bi­lità a porsi sul mer­cato. Non ci si inal­beri: non serve a niente né scan­da­liz­zarsi né invo­care tabù. O meglio, serve a lasciare tutto come sta, nell’interesse di chi oggi stra­vince e domani non vorrà più nem­meno pri­gio­nieri. Si accetti dun­que final­mente di aprire una discus­sione seria sugli errori com­messi a sini­stra in que­sti tre decenni (almeno) e sulla muta­zione gene­tica impo­sta alla sini­stra ita­liana. Se dav­vero si avesse a cuore una qual­che rina­scita, sotto que­ste for­che si accet­te­rebbe di passare.

La Repubblica, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)

Con le antenne sensibili di chi fa campagna elettorale, Hillary Clinton ha capito che la globalizzazione perde colpi. Suo marito Bill da presidente firmò il “padre” di tutti gli accordi libero scambio, il Nafta che creò un mercato unico tra Usa, Canada e Messico. Oggi Hillary boccia l’analogo trattato che Barack Obama ha concordato coi paesi dell’Asia-Pacifico: «Non va ratificato», dice la candidata aprendo la prima seria frattura con l’attuale presidente. Lo stesso dice Donald Trump, in testa ai sondaggi tra i repubblicani. In campagna elettorale, è vero, il populismo piace e il protezionismo porta voti. Ma stavolta c’è dietro un cambiamento profondo che investe l’intera economia mondiale. La globalizzazione si è inceppata.

Lo si capisce mettendo insieme questi tre fenomeni. Primo, il Fondo monetario al vertice di Lima annuncia che il mondo è in una recessione analoga al 2009, se misuriamo tutti i Pil in dollari anziché in monete nazionali (cosa che ha un senso, soprattutto per i paesi emergenti che vivono di esportazioni in dollari). Secondo: lo stesso Fmi rileva che il commercio mondiale non cresce più; ed era proprio l’espansione degli scambi il tratto distintivo della globalizzazione. In passato il commercio estero cresceva più dei Pil nazionali, ora è il contrario.
Il terzo segnale viene dalla Rete, uno spazio decisivo visto che ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online, comunicazione e informazioni; l’ultima sentenza della Corte di Giustizia europea che blocca il trasferimento di dati dall’Europa all’America, conferma una tendenza già in atto: il web è sempre meno universale, Internet si sta lentamente trasformando in tanti Intra-Net suddivisi tra aree geografiche. Cominciarono regimi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma anche tra Europa e Usa adesso aumentano gli ostacoli. L’involuzione è stata accelerata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio americano, certo, ma di fatto sta cambiando la natura aperta della Rete.
Dunque, la globalizzazione non è irreversibile. Di questo si è convinto anche il più grande pensatore politico americano del nostro tempo, Francis Fukuyama. Proprio lui che aveva teorizzato “la fine della Storia” dopo la caduta del Muro di Berlino: cioè il trionfo di un modello unico, la liberal democrazia e l’economia di mercato, un mix brevettato in Occidente. Un quarto di secolo dopo Fukuyama fa un’autocritica clamorosa, ammettendo che «né la Cina né la Russia vogliono diventare come noi». L’omologazione sembrava un trend inarrestabile, invece dei poderosi venti contrari hanno invertito la tendenza, un leader come Xi Jinping teorizza orgogliosamente non solo l’autonomia ma la superiorità del suo modello autoritario.
La globalizzazione inverte il senso di marcia perfino sul terreno dove sembrava non avere avversari: l’economia. Quando Bill Clinton firmava il Nafta, il commercio tra le nazioni cresceva più veloce dei rispettivi Pil. Allora l’abbattimento delle barriere, l’apertura delle frontiere, l’intensificarsi degli scambi e degli investimenti internazionali, erano un motore di crescita. L’inizio del nuovo millennio, segnato dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) portò perfino ad accentuare il fenomeno: dal 2003 al 2006 in poi il commercio estero crebbe a una velocità addirittura doppiarispetto ai Pil. La globalizzazione trainava tutto.
Adesso, rivela il Fondo monetario, siamo nella situazione inversa: le maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con gli altri. Il commercio mondiale langue. Porti e navi da container soffrono di sovraccapacità. Le due maggiori economie mondiali, America e Cina, sono di colpo più “introverse”. L’America sta quasi smettendo di comprare petrolio dal resto del mondo perché ne ha abbastanza in casa sua. La Cina decurta brutalmente i suoi acquisti di materie prime facendone precipitare le quotazioni e innescando recessioni nelle economie emergenti dal Brasile alla Russia.
Si chiude un quarto di secolo di crescita mondiale che aveva visto i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) e altre tigri dell’emisfero Sud nel ruolo delle locomotive. Anche i paesi più avanzati ne soffrono le ripercussioni. Negli Usa rallenta la creazione di posti di lavoro (il mese scorso 142.000 contro i 250.000 di media nel 2014). La Germania, potenza esportatrice per eccellenza, può sopravvivere al grande gelo della globalizzazione? La risposta dagli ultimi dati è negativa: l’export tedesco ha iniziato a calare già quest’estate, molto prima dello scandalo Volkswagen. Se la globalizzazione è in ritirata, le conseguenze si risentono in tutte le economie “estroverse”, cioè che basavano la propria crescita soprattutto sui mercati stranieri.
Qualcosa di strutturale sta cambiando, e la Cina è un osservatorio- chiave per capirlo. Parlare solo di rallentamento della crescita cinese, è una spiegazione riduttiva. Certo la velocità di crescita del Pil nella Repubblica Popolare era stata del 10% annuo nel periodo del boom, mentre quest’anno secondo il Fmi è solo del 6,5%. Ma un altro dato fa riflettere, il consumo di energia elettrica in Cina è quasi fermo, la sua crescita è dell’1 o 2%. Cosa c’è dietro? Non solo la Repubblica Popolare subisce una frenata, ma sta cambiando anche il suo modello di sviluppo. Sta diventando una società del ceto medio, con i consumi tipici di una transizione post-industriale. A Pechino e Shanghai l’automobile ormai ce l’hanno tutti, aumentano invece i consumi di servizi: dall’istruzione alla sanità, dalla finanza al turismo. I servizi consumano meno materie prime, meno importazioni.
A queste trasformazioni strutturali si accompagna un mutamento nel clima ideologico. Ai tempi in cui Bill Clinton firmava il Nafta, il pensiero economico era dominato dal “paradigma” neoliberista. Dal mercato unico nordamericano, promise Clinton riecheggiando i suoi economisti Robert Rubin e Larry Summers, sarebbero nati milioni di posti di lavoro. Oggi a quelle favole non crede più neanche il Financial Times, che di fronte al trattato Tpp America-Asia-Pacifico prevede “al massimo” un beneficio di +0,5% nel Pil spalmato su molti anni.
Obama, che ha lavorato per anni alla costruzione dei due trattati gemelli (il Tpp con il Pacifico e il Ttip con l’Europa) è a sua volta figlio di un’epoca nuova. È stato osservato infatti che questi accordi di libero scambio sono parziali. Uniscono e dividono. Sono disegnati su misura per essere “contro” qualcuno. Nel caso del Tpp il grande escluso è ovviamente la Cina. Negli anni Novanta e all’inizio di questo millennio, con la creazione del Wto, si perseguiva una globalizzazione universale, aperta a tutti. Adesso sono di moda gli accordi “regionali”, che sono spesso conventio ad excludendum , club a cui si accede dietro invito. Obama ne ha spiegato la logica: cominciando da un accordo con paesi simili, come Giappone e Australia, ha inserito nelle clausole del trattato i diritti sindacali e la protezione dell’ambiente. Spera che questo un giorno possa forzare la mano ai cinesi costringendoli a concessioni. Ma Pechino ha già imboccato una strada diversa, si confeziona i suoi trattati commerciali, con chi è disposto a firmarli. Dal “mondo piatto” che teorizzava Thomas Friedman, scivoliamo in un mondo dove infinite barriere invisibili si stanno ricostituendo.

«A consiglieri comunali di maggioranza, presidenti dei municipi e assessori, ha posto la stessa domanda: volete andare avanti con me o volete fermarvi qui, rischiando di riconsegnare Roma a chi l’ha rovinata?». La Repubblica, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)

Roma. Alla fine Ignazio Marino si è dimesso, eppure lui non è affatto convinto che davvero sia tutto finito: «Presento le mie dimissioni, ma per legge possono essere ritirate entro 20 giorni… ». E dunque anche nel momento in cui firma la lettera che tutto il Pd, da Renzi in giù, gli ha chiesto bruscamente di scrivere entro poche ore, il sindaco di Roma si lascia aperta un’ultima porticina per rientrare in campo, annunciando non il ritiro dalla politica ma «la ricerca di una verifica seria », per capire nel giro di tre settimane «se è ancora possibile ricostruire le condizioni politiche” per restare al suo posto. Non è esattamente quello che si aspettavano là fuori, ma Marino vuol fare fino in fondo “l’extraterrestre”, ignorando le leggi della politica e il galateo dei partiti aggrappandosi all’ultima, disperata speranza che i cittadini si schierino con lui.

«Care romane e cari romani» scrive il sindaco alle sette di sera, quando il vicesindaco (dimissionario) Marco Causi e l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella escono dalla sua stanza per comunicargli ufficialmente che il Pd- tutto il Pd- lo invita alle dimissioni immediate.
Cosa scrive, Marino, in quella che dovrebbe essere – ma non vuole esserlo – la sua lettera d’addio al Campidoglio, e che lui stesso trasformerà su Facebook in un videomessaggio? Innanzitutto nega che dietro la sua scelta ci sia il pasticciaccio brutto delle note spese: «Nessuno pensi o dica che lo faccio come segnale di debolezza o addirittura di ammissione di colpa per questa squallida e manipolata polemica sulle spese di rappresentanza e i relativi scontrini». Non c’entrano nulla, sostiene il primo cittadino, quelle cene di rappresentanza, pagate con la carta di credito del Comune, con ospiti che hanno negato di aver mai pranzato con lui.
Lascio, spiega, perché è «arrivata al suo culmine» una «aggressione» che mira a «sovvertire il voto dei romani», per impedirgli di portare a termine la sua battaglia. Io ho vinto la mia sfida, dice, «il sistema corruttivo è stato scoperchiato, i tentacoli oggi sono stati tagliati, le grandi riforme avviate, il bilancionon è più in rosso…», ma tutto questo «ha suscitato una furiosa reazione», che «oggi arriva al suo culmine». È per questo, e per nessun altro motivo, che Marino firma le sue dimissioni: per «verificare» se è ancora possibile «compiere questo percorso» fino al 2018. E vuole che i romani capiscano che c’è il rischio che – andandosene lui – «tornino a governare le logiche del passato, quelle della speculazione, degli illeciti interessi privati, del consociativismo e del meccanismo corruttivo- mafioso che purtroppo ha toccato anche parti del Pd».
Altro che Game Over. Marino si prepara a giocare un’altra partita, che nel suo schema dovrebbe vedere i romani onesti schierarsi al suo fianco contro i partiti e contro tutti gli altri protagonisti di questo scontro, dalla banda di Carminati alla squadra di Renzi. Una partita che il Pd non vede affatto, sul suo calendario, e a scanso di equivoci emette subito un comunicato in cui si affida «al commissario» che dovrà gestire il Comune. Ma cosa succederà nei prossimi 20 giorni, nessuno oggi può dirlo con certezza.
Il suo giorno più lungo, il sindaco l’ha cominciato nella maniera peggiore. Prima ha ricevuto la gelida telefonata del commissario del Pd romano, Matteo Orfini: «Ignazio, puoi fare solo una cosa: dimetterti». Poi ha preparato a casa sua un piano di difesa con l’assessore che è sempre stata al suo fianco nella buona e nella cattiva sorte, Alessandra Cattoi. E alle 11, quando è entrato nel suo ufficio all’ultimo piano del Palazzo Senatorio, senza neanche avvicinarsi al balcone con vista sul Foro, ha voluto incontrare tutti i personaggi del presepe Campidoglio. I consiglieri comunali di maggioranza, i presidenti dei municipi e ovviamente gli assessori.
A tutti, uno per uno ha posto la stessa domanda: volete andare avanti con me o volete fermarvi qui, rischiando di riconsegnare Roma a chi l’ha rovinata? Con i suoi assessori, naturalmente, è stato ancora più esplicito: chi non se la sente di andare avanti me lo dica. Ed è stato allora che sono arrivate le prime dimissioni, pesantissime: il vicesindaco Marco Causi e l’assessore ai Trasporti, Stefano Esposito (che in realtà aveva già le idee chiarissime sul destino di Marino: «A un condannato a morte si lascia almeno la scelta della modalità…» aveva detto salendo le scale).
Intanto sul Campidoglio erano arrivati tutti gli oppositori, guidati dall’ex missina Roberta Angelilli (oggi Ncd) che intonava un coretto canzonatorio: «Marino pagate er vino/ Marino pagate er vino». Alle 14 l’inventario della piazza era il seguente: 6 bandiere di Fratelli d’Italia, 12 della Lista Marchini, 4 di CasaPound, 6 di Forza Italia, una di Italia Unica, due striscioni dei grillini. Più quattro fogli fotocopiati che recitavano “Marino resisti”, sbandierati da un’agguerritissima ventina di cittadini senza tessera che citava persino il «rating di Fitch da outlook negativo a stabile » per sostenere il sindaco «contro i poteri forti che vogliono mandarlo via».

Attorno a loro, il viavai di consiglieri e assessori tra il Campidoglio e il Nazareno, con il sindaco che tirava da una parte e il partito dall’altra. Alle sette di sera, l’epilogo, con Causi e Sabella che portano a Marino la decisione finale del Pd: dimissioni.

Abbiamo espresso il nostro parere sul "fatto del giorno" (così almeno lo considerano i media italiani) nella nota qui accanto. Qui inseriamo l'intervista rilasciata da Marino a Massimo Gramellini.

La Stampa9 ottobre 2015. In calce il link alla dichiarazione di Marino a facebook

Alle nove di sera il Mostro Marino, sindaco dimissionario di Roma, ha la voce esausta di un chirurgo dopo dieci ore di camera operatoria. «È da ieri che non mangio e che non mi siedo: proprio come quando operavo».

Se ne va a casa per cinque scontrini di ristorante non giustificati?
«Ci avevano provato con la Panda rossa, i funerali di Casamonica, la polemica sul viaggio del Papa. Se non fossero arrivati questi scontrini, prima o poi avrebbero detto che avevo i calzini bucati o mi avrebbero messo della cocaina in tasca».

Su qualche sito sono arrivati a imputarle di avere usato i soldi del Comune per offrire una colazione di 8 euro a un sopravvissuto di Auschwitz.
«Se è per questo, mi hanno pure accusato di avere pagato con soldi pubblici l’olio della lampada votiva di san Francesco, il patrono d’Italia, “per farmi bello”. Senza sapere che sono centinaia di anni che il sindaco di Roma, a rotazione con altri, accende quella lampada».

Vox populi: si dava arie da integerrimo e invece sotto sotto era uno spendaccione come gli altri.
«Infatti una volta in cui mi trovavo in albergo a Londra per un convegno con i sindaci europei, ho rinunciato al buffet da 40 sterline perché mi sembrava uno schiaffo alla miseria. Ho attraversato la strada e sono andato da Starbucks».

Ci sono cinque note spese in cui lei sostiene di avere cenato con qualcuno che invece nega di essere stato a tavola con lei.
«Ho già detto che sono disposto a pagare di persona le mie spese di rappresentanza di questi due anni: 19.704,36 euro. Li regalo al Campidoglio, compresa la cena in onore del mecenate che poi ha staccato l’assegno da due milioni con cui stiamo rimettendo a posto la fontana di piazza del Quirinale, sette colonne del foro Traiano e la sala degli Orazi e Curiazi».

Ma quelle note spese sono bugiarde oppure no?
«Io non so cosa ci hanno scritto sopra. Ho consegnato gli scontrini agli uffici, come si fa in questi casi. Non escludo che possa esserci stata qualche imprecisione da parte di chi compila i giustificativi».

Si aspettava che sarebbe venuto giù il mondo?
«Ho rotto le uova nel paniere del consociativismo politico. Ho riaperto gare di acquisti beni e servizi che erano in prorogatio da una vita. Ho tolto il business dei rifiuti a una sola persona e il patrimonio immobiliare a una sola azienda che ha incassato dal comune 100 milioni negli ultimi anni, la Romeo».

Da Renzi si sarebbe aspettato un atteggiamento diverso?
«Diciamo che Renzi non ha avuto la possibilità di apprezzare i cambiamenti epocali che abbiamo fatto in questa città».

Si sente pugnalato alle spalle dal suo partito, il Pd? Non una voce si è alzata a sua difesa.
«Mi hanno espresso vicinanza in due. Il ministro Graziano Del Rio e Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Erano entrambi molto avviliti per quanto accaduto».

Appena possibile inseriremo il link alla dichiarazione di Ignazio Marino
«Costituzione. Finito l’ostruzionismo ma il governo non concede nulla. Restano tutti i punti critici, si allarga la devolution regionale. La minoranza Pd cede di schianto. Il nuovo capo dello stato sarà un affare del primo partito».

Il manifesto, 8 ottobre 2015

Dun­que con la nuova Costi­tu­zione il governo potrà imporre al par­la­mento di votare i suoi dise­gni di legge entro una data fissa e fare decreti anche in mate­ria elet­to­rale; il par­tito che vin­cerà le ele­zioni con la nuova legge Ita­li­cum potrà dichia­rare in soli­tu­dine lo stato di guerra - e nel caso pro­ro­gare la durata della legi­sla­tura - e per­sino eleg­gere da sé il pre­si­dente della Repub­blica. Lo ha sta­bi­lito in un solo giorno di lavoro il senato, respin­gendo ogni emen­da­mento delle oppo­si­zioni alla riforma costi­tu­zio­nale. Il tema del rac­conto è quello in auge del supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio. Lo svol­gi­mento, come dimo­stra la gior­nata di ieri, è una sostan­ziale modi­fica della forma di governo, con più potere all’esecutivo e meno al par­la­mento. Con la col­la­bo­ra­zione deci­siva dei sena­tori di Ver­dini, l’appoggio tem­pe­stivo nell’unico pas­sag­gio a rischio di Forza Ita­lia e la resa defi­ni­tiva della mino­ranza Pd.

Nel primo voto palese e nei primi due voti segreti lo schie­ra­mento che sta cam­biando la Costi­tu­zione si è con­fer­mato lon­tano dalla mag­gio­ranza asso­luta, 161 voti, del senato; non è andato oltre i 145. I sena­tori di Ver­dini inchio­dati a votare ai loro ban­chi in alto a destra ven­gono ricom­pen­sati: sono sta­bil­mente deci­sivi per il governo. Tra due sedute rien­tre­ranno anche i due gesti­co­lanti espulsi per osce­nità, Barani e D’Anna. Sarà la riforma costi­tu­zio­nale ad aspet­tarli, per­ché con la rinun­cia delle oppo­si­zioni all’ostruzionismo — l’unico punto sul quale ha retto il fronte del no da Lega a Sel — il dise­gno di legge di revi­sione costi­tu­zio­nale corre. L’esame degli arti­coli potrebbe con­clu­dersi tra oggi e domani. Il voto finale resta in calen­da­rio per mar­tedì, una diretta tv senza sorprese.

In aula il governo che giura di essere dispo­ni­bile a discu­tere «nel merito» dà parere nega­tivo a tutti gli emen­da­menti dell’opposizione (tranne a quelli a voto segreto sui quali non vuole cor­rere rischi). La mag­gio­ranza che quo­ti­dia­na­mente bac­chetta le oppo­si­zioni per­ché non fanno pro­po­ste «nel merito» si ade­gua mono­li­tica, nel Pd si segna­lano a tratti solo i voti con­trari di Mineo e Tocci, e l’astensione di Cas­son. Gli arti­coli da 12 a 16 pas­sano senza sto­ria, com­presa la novità della legge elet­to­rale che potrà essere sot­to­po­sta alla Con­sulta prima della pro­mul­ga­zione ma solo per ini­zia­tiva di una mino­ranza di par­la­men­tari. La Corte aveva rac­co­man­dato di togliere que­sta con­no­ta­zione poli­tica alla richie­sta, ren­den­dola auto­ma­tica. La sini­stra Pd si era detta d’accordo. Ma l’esigenza del governo di non cam­biare niente e fare pre­sto ha pre­valso anche qui. Di que­sto passo sono solo tre, fino a qui, gli arti­coli che dovranno tor­nare al senato per com­ple­tare la prima let­tura: 1, 2 e 30 sul quale ieri il governo ha deciso di inter­ve­nire. Male, per­ché ha inse­rito le poli­ti­che sociali e il com­mer­cio con l’estero tra le mate­rie che potranno essere devo­lute alle regioni a sta­tuto ordinario.

Nell’unico punto in cui il governo ha un po’ bal­lato, c’è stato rapido il soste­gno di Forza Ita­lia. Arti­colo 17, stato di guerra. Anche qui nes­sun cam­bio, la dichia­ra­zione di bel­li­ge­ranza resta a dispo­si­zione della mag­gio­ranza asso­luta della camera. Cioè quella che l’Italicum garan­ti­sce al primo par­tito con i suoi 340 seggi (oggi non è così per­ché deve votare anche il senato). Sta­volta l’emendamento per alzare il quo­rum veniva dalla mino­ranza Pd, l’unico non riti­rato in nome dell’accordo con Renzi, forse per­ché fir­mato non da un ber­sa­niano ma dalla bin­diana Dirin­din. Con 14 sena­tori Pd a favore e 11 spa­riti dall’aula poteva pas­sare, non fosse che Forza Ita­lia è tor­nata a votare con il governo (con l’argomento che se il paese venisse invaso e qual­che depu­tato seque­strato dai nemici, il quo­rum troppo alto potrebbe essere un pro­blema). Ven­ti­nove no deci­sivi, som­mati a qual­che asten­sione, molte assenze e il soc­corso delle tre sena­trici del gruppo dell’ex leghi­sta Tosi. Dichia­rare guerra sarà più facile, ma resta intatto l’articolo 60 in base al quale in caso di guerra una legge ordi­na­ria può pro­ro­gare la durata della camera e riman­dare le elezioni.

La Lega ha accu­sato in aula gli alleati ber­lu­sco­niani di essersi sven­duti agli avver­sari: «È il ritorno del patto del Naza­reno». Ma può bastare la comu­nanza di idee sull’argomento bel­lico a spie­gare la liai­son. L’episodio giu­sti­fica però la rot­tura del patto delle oppo­si­zioni, durato un solo giorno. Unito a una let­tera al pre­si­dente della Repub­blica che quelli di Forza Ita­lia hanno dif­fuso alla stampa prima che tutti gli altri gruppi deci­des­sero di fir­marla. Alla fine sono stati solo gli azzurri a rivol­gersi al Colle. E i gril­lini, che però hanno spie­gato di averlo già fatto due set­ti­mane fa. Alle mino­ranze, pena­liz­zate dal tra­sfor­mi­smo e da una con­du­zione d’aula filo governo del pre­si­dente Grasso, non resta che stu­diare mosse di oppo­si­zione visi­bili e com­pren­si­bili per accom­pa­gnare l’approvazione della riforma. La Lega ha comin­ciato ieri pome­rig­gio il suo Aven­tino, i 5 stelle hanno sfi­lato le tes­sere dai ban­chi per sventolarle.

La mino­ranza Pd ha ceduto di schianto sull’articolo 21, quello che pre­vede quo­rum per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica per niente impos­si­bili per chi vin­cerà con l’Italicum. Fatti i cal­coli, dal quarto scru­ti­nio in poi man­che­reb­bero al primo par­tito non più di 34 voti. Assai facil­mente recu­pe­ra­bili, vista la capa­cità di attra­zione dei vin­ci­tori. Il suc­ces­sore di Mat­ta­rella sarà votato alla fine della pros­sima legi­sla­tura; in que­sta i gruppi demo­cra­tici sono già cre­sciuti di 23 par­la­men­tari. Nem­meno l’articolo 21 è stato cam­biato. In cam­bio della rinun­cia ad allar­gare la pla­tea dei grandi elet­tori (fino a ieri impre­scin­di­bile), la mino­ranza Pd ha otte­nuto una pro­messa sull’articolo 39, la norma tran­si­to­ria che di fatto ste­ri­lizza la più grande con­qui­sta dei ber­sa­niani, l’indicazione dei nuovi sena­tori da parte degli elet­tori. Il governo pre­sen­terà oggi una sua pro­po­sta di modi­fica. Sarà una mezza solu­zione, visto che l’intoppo è al primo comma dell’articolo 39, che non si può più toc­care. Il prin­ci­pio della dop­pia let­tura con­forme che la fronda dem ha accet­tato per l’articolo 2 vale anche qui.

«“L’Italia capisce bene l’esigenza di investire in personale umano e in capacità che sono richieste per mantenere la nostra difesa comune al fianco degli alleati Nato”. Sul piatto c’è altro. La Siria, dal punto di vista degli Usa. E da quello italiano soprattutto la Libia». Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Non c’è ancora un orientamento preso dal governo», ma l’Italia ha già deciso «con i nostri alleati di contrastare con forza il Daesh». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, chiarisce così, durante una conferenza stampa con il capo del Pentagono, Ash Carter, a che punto è la questione bombardamento in Iraq. La decisione formalmente non è presa, e il governo assicura che ci sarà un voto del Parlamento, ma Matteo Renzi un impegno di massima con l’alleato americano l’ha preso a New York, durante l’Assemblea generale dell’Onu. Un’offerta di “sostegno risoluto”, che gli Usa hanno accolto con favore, ma non hanno particolarmente sollecitato.

Perché poi, si parla di armare 4 Tornado, che nell’ambito di un’operazione come quella in Iraq sono abbastanza irrilevanti. E dunque, a Obama interessa fino a un certo punto questo cambio della natura della missione italiana, ma di certo lo gradisce. E a Renzi costa tutto sommato poco, ma può usarlo per accreditarsi con gli Usa. Tanto è vero che Carter, arrivato in Italia l’altro ieri per un viaggio deciso da tempo (ieri è stato ricevuto dal presidente della Repubblica, Mattarella e poi ha avuto due ore di faccia a faccia con la Pinotti) non ha chiesto formalmente il cambio delle regole di ingaggio dei nostri militari. E pubblicamente si è limitato a dire: «L’Italia capisce bene l’esigenza di investire in personale umano e in capacità che sono richieste per mantenere la nostra difesa comune al fianco degli alleati Nato».
Sul piatto c’è altro. La Siria, dal punto di vista degli Usa. E da quello italiano soprattutto la Libia, dove il premier rivendica da mesi un ruolo centrale. Al Colle, l’Iraq non è proprio entrato nei radar. Ma Carter ha detto che gli Usa sarebbero disponibili a riconoscere all’Italia un ruolo di punta in Libia, per la stabilizzazione del paese. E poi, ha insistito a lungo sulla Siria, criticando la strategia russa: «Continuano a colpire obiettivi che non sono l’Isis». La critica a Mosca ha un particolare significato in Italia, visto che Renzi ci ha tenuto in questi mesi a tenere un rapporto con Putin ed è stato il primo a chiarire che l’Italia non avrebbe attaccato in Siria.
Alla luce di tutto questo si capiscono meglio le motivazioni della posizione sull’Iraq: con il «sostegno risoluto» offerto da Renzi durante il “summit contro il terrorismo” indetto e presieduto da Obama, il 29 settembre, a New York. Contro l’Isis, c’è in campo «la più grande coalizione mai vista. Offro al presidente Obama tutto il sostegno dell’Italia sul fronte dell’azione antiterrorismo»: sono parole che già contengono in nuce un salto di qualità nella presenza dell’Italia in Iraq. Anche a New York Renzi ha insistito sulla Libia. Prospettando dalla tribuna dell’Onu, una leadership italiana per una missione che non c’è (e prevedibilmente non ci sarà).
Però, in Libia, una volta arrivati a un governo di unità nazionale si tratterà di fare ancora non ben definite operazioni di stabilizzazione. Dove l’Italia rivendica un ruolo. Da notare che a sostituire Bernardino Leon, come inviato Onu, sarà il tedesco, Martin Kobler. E nell’ultimo vertice trilaterale a Parigi, con cena annessa, tra i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna, l’Italia è stata esclusa. E dunque, si tratta comunque di un posto, caso mai, di coordinamento. La Pinotti ieri ha negato in conferenza stampa che ci siano correlazioni tra Libia e Iraq. Ma tutte le fonti, da Palazzo Chigi in giù, insistono sul fatto che l’ “Italia si muove con la coalizione, all’interno di una strategia politica complessiva”.
Sui tornado, dunque, Renzi aspetta di vedere come reagisce l’opinione pubblica. Anche perché lo stesso Mattarella è piuttosto freddo. Il punto è che il premier di certo avrebbe voluto “governare” la notizia: invece in realtà l’accelerazione data con lo scoop del Corriere lo ha messo in difficoltà, anche nella prospettiva di far passare un ’operazione militare agli occhi degli italiani. A dare l’impulso sono stati i militari. Che vogliono un ruolo più forte nella missione, ma soprattutto evitare i tagli alle spese annunciati dal ministro dell’Economia, Padoan nella legge di stabilità. Peraltro, per martedì sera era prevista in Commissione una discussione sul Libro Bianco della difesa. Altri tagli di cui non si è discusso, vista l’attualità. Intanto, ieri Carter nel colloquio al Colle ha mostrato grande considerazione nei confronti del Presidente. E ha trattato l’Itali a come un partner decisamente affidabile. Ma Renzi sa che per accreditarsi davvero deve essere pronto a bombardare appena arriva la richiesta formale degli Usa.

«Il 24 ottobre saremo in piazza a Napoli contro la più grande esercitazione militare dalla Seconda guerra mondiale. La stanno facendo adesso, ma nessuno apre bocca. Una vergogna. Contro questo protesteremo». Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2015, (m.p.r.)

«Che belli che erano quei giorni. Sono passati appena dodici anni, ma sembra un secolo: a Roma centinaia di migliaia di persone scesero in piazza contro la guerra. Gente di età e classi sociali diverse, con idee politiche diverse. E poi c’erano bandiere arcobaleno ovunque, giravi per le città e le vedevi a tutti i balconi. Era davvero un movimento popolare contro la guerra».

Padre Alex Zanotelli, lei da allora è uno dei simboli della lotta contro le missioni militari. Ma perché nel 2003 gli italiani si mobilitarono a milioni contro l’impegno in Afghanistan e Iraq e adesso sembrano infischiarsene?
«Ci penso tutti i giorni. C’è stato un calo di interesse pauroso. Una caduta di valori. Nel 2003 ricordo che si riuscì a creare una vera e propria resistenza contro le guerre. Avevamo accanto a noi persone come Tiziano Terzani e Gino Strada. E adesso…niente, tutta quella forza è andata perduta».
Piazze semivuote. I Tornado potrebbero tornare a bombardare e nessuno alza un dito. Ma perché?
«È anche colpa nostra. Il movimento è diviso, ci sono state delle spaccature perfino nel Tavolo della Pace di Assisi. Ognuno va per sé. Ma se noi siamo i lillipuziani che sperano di sconfiggere il gigante Golia, non possiamo poi disperdere le poche forze in mille rivoli».
E la politica non vi sostiene più…
«Lasciamo perdere. La destra, vabbè, ha sempre avuto altre posizioni. Ma ora anche il partito di maggioranza a sinistra, il Pd, è aggrappato ad altre idee. Il resto? Sono tutti punti interrogativi. Guardi, c’è proprio poco da sperare a livello politico».
Vi arrendete? Dopo la bandiera arcobaleno alzate la bandiera bianca?
«Mai. L’unica possibilità, però, è mettere insieme un movimento davvero popolare. Proprio come ha detto papa Francesco nel suo discorso in Bolivia, il più importante».
Che cosa direbbe agli italiani per convincerli a mobilitarsi come nel 2003?
«Che queste guerre ci toccano. Provocano conseguenze nella nostra vita. Non illudiamoci di tenere lontano da noi le sofferenze».
Ma a che cosa sono serviti i cortei e le mobilitazioni di dodici anni fa? Alla fine siamo andati in Afghanistan e Iraq . . .
«Sì, forse è anche per questo che tanti oggi hanno rinunciato. Si sono convinti che il loro impegno non è servito a niente. Dal 2003 abbiamo fatto una guerra dietro l’altra. Ma non bisogna arrendersi mai».
Mi dia una ragione valida.
«L’ha detto il Papa: visto che non si può fare la terza guerra mondiale, si combattono guerre locali. Così si salvano i bilanci di società come Finmeccanica. Che ha perfino lasciato le sue attività civili!».
Ma lei combatte ancora contro la guerra?
«Certo. Il 24 ottobre saremo in piazza a Napoli contro la più grande esercitazione militare dalla Seconda guerra mondiale. La stanno facendo adesso, ma nessuno apre bocca. Una vergogna. Contro questo protesteremo. Spero saremo in tanti, ma comunque sia, noi ci saremo. E speriamo sia l’inizio di una mobilitazione. Per far nascere un movimento popolare come nel 2003.

Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

La truffa dei Die­sel ammessa dalla Vw disvela il carat­tere della com­pe­ti­zione e della sele­zione che è in corso tra i grandi pro­dut­tori dell’autoveicolo. Una com­pe­ti­zione for­te­mente con­di­zio­nata dalla finanza e dai suoi favori. E non dai limiti ener­ge­tici e ambien­tali del pia­neta e dalla mobilità.

Una com­pe­ti­zione senza esclu­sioni di colpi con il fine di rag­giun­gere la posi­zione di Big dove gli Stati e le dimen­sioni con­ti­nen­tali ven­gono pie­gate alle neces­sità imme­diate delle mul­ti­na­zio­nali. Tutte le ristrut­tu­ra­zioni, gli inse­dia­menti e le acqui­si­zioni tra i gruppi dell’auto di que­sti hanno visto il ruolo dei governi e l’intervento pub­blico per favo­rirli e soste­nerli, unica ecce­zione l’Italia che ha asse­con­dato il ripo­si­zio­na­mento inter­na­zio­nale di Fiat attra­verso FCA a sca­pito del nostro paese con un carico enorme sui lavo­ra­tori Ita­liani che vedono un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e dei gradi di libertà nei luo­ghi di lavoro.

Ora il Diesel-Gate deve farci discu­tere sicu­ra­mente delle con­se­guenze ancora tutte da con­ta­bi­liz­zare, dai costi dei richiami a quelli delle class action.

Volk­swa­gen vende vei­coli per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande inve­sti­tore al mondo in ricerca e svi­luppo, assi­cura in Ger­ma­nia 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indi­retti nel mondo). Il set­tore auto pesa per 300 miliardi di euro di espor­ta­zioni, la prima voce del made in Ger­many. E non è per nulla escluso che il governo tede­sco non inter­venga per salvarla.

Quindi dando per certo un effetto sulle ven­dite, del gruppo VW e su quelle dell’intero set­tore die­sel, il ral­len­ta­mento degli inve­sti­menti già annun­ciato sui nuovi pro­dotti con le con­se­guenti rica­dute occu­pa­zio­nali sull' indotto (c’è già chi sus­surra di un calo di com­messe intorno al 20%) anche nel nostro paese dove VW ha fatto in que­sti anni un note­vole shop­ping nella nostra com­po­nen­ti­stica orfana dei volumi Fiat. Ma dopo il fal­li­mento della com­pe­ti­zione «truc­cata» del die­sel, va ria­perto il con­fronto su quale mobi­lità si deve pro­durre in Europa, con quali pro­dotti e quale soste­ni­bi­lità, con quale ruolo pub­blico e con quali diritti, tur­na­zioni e salari. Rico­struendo non solo attra­verso i test su strada della auto un con­trollo pub­blico a tutela dei cit­ta­dini lavo­ra­tori e con­su­ma­tori ma recu­pe­rando lo squi­li­brio fra i rego­la­tori pub­blici e le aziende regolate.

Nelle ban­che come nell’auto, i gua­da­gni dei mana­ger sono un mul­ti­plo di quelli dei fun­zio­nari che dovreb­bero con­trol­larli e spesso quei fun­zio­nari spe­rano solo di essere assunti da loro. E per Wall Street come per Volk­swa­gen, la cono­scenza di tec­no­lo­gie molto com­plesse gioca a favore delle imprese su chi dovrebbe con­trol­larle: le aziende sanno tutto per­ché hanno creato loro quei pro­dotti, titoli strut­tu­rati o motori die­sel, i con­trol­lori invece devono deco­struirli e inter­pre­tarli da zero.

Infine que­sta vicenda non può essere iso­lata da ciò che accade in que­sti giorni in Usa tra Fca/Fiat e sin­da­cato dove i lavo­ra­tori boc­ciando l’accordo, potendo a dif­fe­renza che da noi votare libe­ra­mente, hanno por­tato la Uaw a dichia­rare lo scio­pero che ha le sue ori­gine nei diversi trat­ta­menti sala­riali a parità di lavoro tra Vete­rans retri­buiti 28$ e i Wor­ker in pro­gres­sion a 15$ l’ora e nella inu­ma­nità di turni di lavoro di 10 ore al giorno per quat­tro giorni alla set­ti­mana con varia­zioni di turni che porta in pochi giorni da un turno di notte ad un turno che ini­zia prima del alba, ora­rio che ricorda la ribat­tuta di Melfi e le pro­po­ste Fiat in Italia.

«Il premier israeliano conferma la linea dura. Non ha capito che i pale­sti­nesi non accet­tano la nor­ma­liz­za­zione dell’occupazione israe­liana. Rifiu­tano che i coloni israe­liani pos­sano svol­gere nei ter­ri­tori che occu­pano quell’esistenza nor­male che a loro viene negata».

Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Abbiano vis­suto periodi più dif­fi­cili di que­sti. Supe­re­remo que­sta ondata di ter­ro­ri­smo gra­zie alla nostra deter­mi­na­zione, alla respon­sa­bi­lità e alla coe­sione nazio­nale». Benya­min Neta­nyahu non ha dubbi sulla linea por­tata avanti sino ad oggi. Resterà quella del pugno di ferro. Il pre­mier israe­liano non ha com­preso che più si farà pesante e san­gui­nosa la repres­sione e più gli sfug­girà di mano la situa­zione. Non ha capito che i pale­sti­nesi non accet­tano la nor­ma­liz­za­zione dell’occupazione israe­liana di Geru­sa­lemme Est e della Cisgior­da­nia. Rifiu­tano che i coloni israe­liani pos­sano svol­gere nei ter­ri­tori che occu­pano ille­gal­mente quell’esistenza nor­male che a loro viene negata sotto il regime mili­tare.

Gli omi­cidi di quat­tro israe­liani com­piuti da pale­sti­nesi nell’ultima set­ti­mana sono davanti agli occhi di tutti, sono stati rac­con­tati e ampia­mente con­dan­nati. Invece meno spa­zio tro­vano gli omi­cidi e le ucci­sioni di pale­sti­nesi. Chi ricorda la morte orri­bile del pic­colo Ali Dawab­sha, bru­ciato vivo poco più di due mesi fa, e che i suoi assas­sini sono sem­pre liberi? I pale­sti­nesi autori delle ucci­sioni dei quat­tro cit­ta­dini israe­liani al con­tra­rio sono stati cat­tu­rati o uccisi. In que­ste ore in cui i governi occi­den­tali si strin­gono intorno al primo mini­stro Neta­nyahu espri­mendo soli­da­rietà a Israele e alle fami­glie delle vit­time degli ultimi atten­tati, dovreb­bero anche doman­darsi quale strada poli­tica, oltre l’inutile “nego­ziare per nego­ziare” che va avanti da 22 anni, è stata lasciata ai pale­sti­nesi per rag­giun­gere la libertà e l’indipendenza.

Anche per que­ste ragioni il pre­si­dente dell’Anp Abu Mazen appare più iso­lato dopo l’appello alla fine delle pro­te­ste che ha lan­ciato due giorni fa e che ha riba­dito ieri in una inter­vi­sta al quo­ti­diano Haa­retz. Quasi tutte le orga­niz­za­zioni pale­sti­nesi, a par­tire dalla sini­stra gui­data dal Fronte Popo­lare, hanno igno­rato le sue parole e con­ti­nuano a mobi­li­tare la popo­la­zione con­tro coloni e sol­dati israeliani.

Si mol­ti­pli­cano gli attac­chi con­tro i coloni israe­liani che per­cor­rono le strade della Cisgior­da­nia e anche le rap­pre­sa­glie e le aggres­sioni dei coloni con­tro i vil­laggi pale­sti­nesi, troppo spesso igno­rate o sot­to­va­lu­tate. E le azioni indi­vi­duali di pale­sti­nesi armati di col­tello si allar­gano al ter­ri­to­rio israeliano. Un 17enne di Yatta, Amjad Jundi, ha attac­cato a Kiryat Gat (a est di Ash­qe­lon) un mili­tare pro­vando a pren­der­gli l’arma ma è stato ucciso. Poco dopo un altro gio­vane di Hebron ha col­pito alcuni israe­liani a Petach Tikva ed è stato ferito dal fuoco di agenti pre­senti in zona. Una dina­mica simile all’attacco avve­nuto ieri mat­tina alla Porta dei Leoni, uno degli ingressi della città vec­chia di Geru­sa­lemme, dove una ragazza di 18 anni, Shu­roq Dwa­yat, è stata ferita da un colono che aveva ten­tato di col­pire con un col­tello. Poco dopo ingenti forze di poli­zia hanno lan­ciato un raid nel sob­borgo di Sur Baher per per­qui­sire l’abitazione della gio­vane inne­scando vio­lente pro­te­ste e inci­denti. Una colona, Rivi Ohayon, dell’insediamento di Tekoa (a sud di Betlemme) ha denun­ciato alla poli­zia di aver subito un ten­ta­tivo di lin­ciag­gio di parte di gruppi di gio­vani pale­sti­nesi che, nei pressi di Beit Sahour, ave­vano bloc­cato e dan­neg­giato a colpi di pie­tra la sua auto­mo­bile (la donna è rima­sta ferita). Il fuoco dei sol­dati israe­liani ha ferito due palestinesi.

Per tutto il giorno sono girate voci dell’uccisione da parte dei sol­dati israe­liani, vicino Ramal­lah, di uno stu­dente pale­sti­nese ma in serata il gio­vane era ancora vivo anche se gra­ve­mente ferito. In rete è cir­co­lato un fil­mato girato da una tv locale pro­prio durante gli scon­tri che hanno coin­volto lo stu­dente ferito e che mostra mili­tari israe­liani che si fin­gono pale­sti­nesi per infil­trarsi fra di loro. All’inizio della sequenza si nota un gruppo di pale­sti­nesi col volto coperto che lan­ciano sassi con­tro un’unità dell’esercito e scan­dire slo­gan. A un certo punto que­sti “pale­sti­nesi” si rive­lando degli infil­trati e si sca­gliano con­tro quelli che sem­bra­vano essere loro com­pa­gni e li tra­sci­nano a forza verso i sol­dati. Subito dopo i mili­tari infie­ri­scono su un dimo­strante - a terra, iso­lato - e lo pren­dono a calci ripetutamente.

«Anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, la società civile, creano ricchezza. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza».

La Repubblica, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

Sette economisti (fra cui Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e la sottoscritta) hanno accettato di fare da consulenti economici per Jeremy Corbyn, il nuovo leader del Partito laburista britannico. Mi auguro che il nostro scopo comune sia aiutare il Labour a creare una politica economica fondata sugli investimenti, inclusiva e sostenibile. Metteremo sul tavolo idee diverse, ma voglio proporvi le mie considerazioni riguardo alle politiche progressiste di cui il Regno Unito e il resto del mondo hanno bisogno oggi.
Quando il Partito laburista ha perso le elezioni, lo scorso maggio, in tanti, anche esponenti del Governo ombra, gli hanno contestato di non aver saputo interloquire con i «creatori di ricchezza», cioè la comunità imprenditoriale. Che le imprese creino ricchezza è evidente.

Ma anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano.

Le politiche tradizionalmente considerate “business friendly”, come i crediti di imposta e la riduzione delle aliquote, a lungo andare possono essere nocive per l’attività imprenditoriale. Allo stesso modo, è ora di superare il dibattito sull’austerity e discutere di come costruire collaborazioni intelligenti e reciprocamente vantaggiose fra pubblico e privato, in grado di alimentare la crescita per decenni.
Per cominciare dobbiamo investire in istruzione, capitale umano, tecnologia e ricerca. In molti settori gli imponenti progressi tecnologici e organizzativi hanno prodotto un aumento della produttività. Molte di queste innovazioni decisive affondano le loro radici in ricerche finanziate dallo Stato. Per garantire che ci siano progressi anche in futuro, ci sarà bisogno di interventi diretti e investimenti in innovazione lungo l’intera catena dell’innovazione: ricerca di base, ricerca applicata e finanziamenti alle imprese nelle fasi iniziali.
Oltre a questo c’è bisogno di una finanza paziente e a lungo termine. Gran parte della finanza attuale è troppo speculativa e troppo focalizzata sui risultati immediati. Per una rivoluzione tecnologica c’è bisogno della pazienza e della dedizione dei finanziamenti pubblici. In certi Paesi, come Germania e Cina, sono delle banche pubbliche a svolgere questo ruolo; in altri, il compito è affidato a organismi pubblici. Una cosa del genere significa anche definanziarizzare l’economia reale, troppo attenta al breve termine.
Nell’ultimo decennio, le aziende del “Fortune 500” che operano in settori come l’informatica, la farmaceutica e l’energia hanno speso più di 3mila miliardi di dollari per riacquistare azioni proprie, allo scopo di gonfiare il prezzo del titolo, le stock options e i compensi dei dirigenti. Bisogna ricompensare quelle aziende che reinvestono i profitti in produzione, innovazione e formazione del capitale umano.
Il passo successivo è incrementare i salari e il tenore di vita. Fino agli anni 80, gli incrementi di produttività erano accompagnati da aumenti salariali. Il collegamento si è spezzato per effetto della riduzione del potere negoziale dei lavoratori e del crescente orientamento delle aziende verso la finanza. I sindacati sono un elemento chiave per un’efficace governance delle imprese e vanno coinvolti maggiormente nelle politiche per l’innovazione, spingendo per investimenti in istruzione e formazione, i motori a lungo termine dei salari.
Anche le istituzioni pubbliche devono essere rafforzate. Per poter prendere decisioni di politica economica audaci c’è bisogno di agenzie pubbliche e istituzioni che siano capaci di assumersi dei rischi. Creare una rete di agenzie e istituzioni decentralizzata e dotata di adeguati finanziamenti, che lavora in collaborazione con le imprese, renderebbe lo Stato più efficiente e maggiormente focalizzato in senso strategico.
Anche il sistema fiscale deve diventare più progressivo. Dobbiamo farla finita con l’abbassare le tasse alla cieca, creando scappatoie che consentono pratiche di elusione fiscale, e offrire crediti di imposta che hanno effetti limitati in investimenti e creazione di posti di lavoro. Anche sul debito bisogna cambiare atteggiamento. Invece di focalizzarci sui deficit di bilancio, dovremmo puntare l’attenzione sul denominatore del rapporto debito-Pil. Se gli investimenti pubblici accrescono la produttività di lungo periodo, il rapporto rimane sotto controllo. Nell’Ocse, molti dei Paesi con un rapporto debito-Pil più elevato (per esempio Italia, Portogallo e Spagna) hanno un disavanzo relativamente contenuto, ma non investono efficacemente in istruzione, ricerca, formazione, o programmi di welfare disegnati in modo da facilitare l’aggiustamento economico.
La politica di bilancio e la politica monetaria sono importanti, ma solo se abbinate alla creazione di opportunità nell’economia reale. La creazione di moneta, attraverso il cosiddetto quantitative easing, non alimenterà l’economia reale se la nuova moneta finirà nei forzieri di banche che non prestano. E quando le imprese non vedono opportunità, i tassi di interesse non bastano a influenzare gli investimenti.
Infine, non dobbiamo aver paura di guidare la direzione dello sviluppo verso un’economia verde. Gli stimoli di bilancio dovrebbero sostenere progetti trasformativi, come quelli che hanno determinato i grandi progressi dell’informatica e delle telecomunicazioni, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, tutte aree «prescelte» da un settore pubblico che ha lavorato al fianco delle imprese. Lo sviluppo verde è molto di più delle semplici energie rinnovabili: può diventare una direzione nuova per l’intera economia.
Copyright: Project Syndicate, 2015 (Traduzione di Fabio Galimberti)
«Il Sinodo, ha detto il Papa proprio per spiegare la distanza tra l’opinione del mondo e la verità dei Pastori della Chiesa, non è come il Parlamento. Ma da questa comparazione il Parlamento ne esce bene».

La Repubblica, 7 ottobre 2015

La riunione del Sinodo segue al viaggio del Papa a Cuba e negli Stati Uniti. Un viaggio nel quale il tema del Sinodo - la famiglia e il matrimonio - è stato al centro tanto delle sue omelie e dei suoi discorsi pubblici quanto dell’opinione che lo ha interpellato - sulla sessualità e la pedofilia nella Chiesa, sul matrimonio di coppie dello stesso sesso, sul ruolo dei divorziati. Tante attese per il Sinodo sono dunque giustificate dalla forte presenza del Papa sulla scena dell’opinione pubblica mondiale. È comprensibile dunque che ci sia attenzione per le risoluzioni del Sinodo e speranza che esse non siano indifferenti all’opinione del mondo. Il comunicato rilasciato all’apertura dei lavori mostra preoccupazione per questo rapporto di reciproca influenza quando osserva che su questi temi, sul matrimonio e la famiglia, «è del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano pressioni».

Il gioco dell’opinione è orizzontale e senza esiti predeterminati. Nel tentativo di influenzare l’opinione delle persone a seguire o a respingere alcune pratiche di vita, non possiamo evitare di essere a nostra volta interpellati e portati a riflettere sulle nostre posizioni. Il gioco dell’opinione è un ping pong, chi lo mette in moto e lo anima ne viene tirato dentro e influenzato. La corrente che determina non è mai unidirezionale. Questo rende l’opinione una forza formidabile, in virtù della quale, scriveva David Hume, i molti sono governati dai pochi e i pochi non possono sottrarsi al controllo dei molti. Lo vediamo accadere ogni giorno, con qualunque leader si metta in relazione al pubblico. Anche quando a parlare è il rappresentante di Dio.
Papa Francesco ha attraversato l’America per entrare in contatto diretto con la gente di tutte le religioni e le convizioni morali, parlando a milioni di persone dei problemi che sentono vicini, dalla povertà e disoccupazione alla libertà sessuale e di relazioni matrimoniali. Egli vuole contribuire a formare l’opinione pubblica su questi temi centrali per la Chiesa e l’opinione preme a sua volta per farsi ascoltare. È davvero “inaccettabile” che questo avvenga o che i Pastori della Chiesa sentano la pressione da parte dell’opinione del mondo? Se la subiscono o meno dipenderà da loro, ma non c’è scandalo se quell’opinione alla quale essi si rivolgono ogni giorno non cerchi di influenzare la loro verità. La quale è certamente indifferente all’opinione del mondo. E tuttavia, se entra nella sfera pubblica e vuole diventare opinione diffusa a livello globale, al di là della comunità dei fedeli, essa si espone ai “rischi” del dialogo, ovvero ad essere influenzata e interpellata a sua volta.
In età predemocratica i papi scrivevavo encicliche che giungevano ai fedeli tramite i pastori e gli interpreti. Oggi scrivono encicliche che diventano bestseller e vanno direttamente al lettore e al grande pubblico del quale essi si fanno oratori. Questo comporta accettare la sfida di entrare nel circolo dell’opinione, che come sappiamo non ha riguardi nei confronti dell’autorità e interviene, cercando di discutere e influenzare, mettendosi cioè sullo stesso piano, come appunto nel ping pong. I commenti sulla pretesa dell’opinione di influenzare le verità dei prelati chiusi nel Sinodo non possono che destare stupore. È comprensibile che i prelati debbano restare fedeli alla verità e che si sentano compressi dalle pressioni dell’opinione, alla quale non devono rendere conto come i politici. Tuttavia, è altrettanto comprensibile che quell’opinione cercata con l’intento di modellarla esprima se stessa a sua volta. Difficile gioco democratico, ma impossibile da mettere a tacere una volta cominciato.
Il Sinodo, ha detto il Papa proprio per spiegare la distanza tra l’opinione del mondo e la verità dei Pastori della Chiesa, non è come il Parlamento dove «per raggiungere un consenso o un accordo comune si ricorre al negoziato, al patteggiamento o ai compromessi ». Ma da questa comparazione il Parlamento ne esce bene, poiché la discussione tra diversi e la ricerca di una soluzione per via di compromessi è segno di una pratica nobile e civile - l’opposto sarebbe la violenza o l’unanimità, la quale, a meno di non emergere spontaneamente in un solo afflato, deve comunque essere conquistata. E per muovere le convinzioni degli interlocutori verso un esito unanime non è escluso che non si usino forme di persuasione e di mediazione. Il fatto è che il Sinodo lavora a porte chiuse per non mostrare come discute e non essere sotto l’occhio giudicante del mondo, mentre il Parlamento non può esimersi da questo controllo e mostra al mondo tutti i pregi e i difetti della deliberazione pubblica.
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