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Terre senz’ombraLa Repubblica, 22 ottobre 2015

«Esiste ancora l’Italia? Quella misteriosa concrezione di natura e di storia che, rivelandosi, non poteva non cambiare gli artisti e il mondo? L’Italia del Rinascimento e della Maniera Moderna di Raffaello che divenne modello all’Europa, l’Italia dell’antichità che i neoclassici intesero come dimora, come approdo ritrovato per sempre. E l’Italia della Natura, quando l’uomo moderno, divenuto viandante, inseguiva un altrove che coincideva con luoghi reali. Luoghi che non erano privi di passato e memoria, ma che venivano ora investiti da un sentimento così dirompente da fare emergere, ancora in Italia, il volto moderno della pittura».

È racchiuso in questo brano il senso dell’ultimo libro di Anna Ottani Cavina, che è una storia del paesaggio come protagonista della pittura: , che esce come secondo numero della nuova collana Imago di Adeplhi. Dopo un essenziale antefatto - Lorenzetti, Leonardo, Giorgione... - la partenza vera della storia, e del libro, è nel Seicento: quando Annibale Carracci «diede luce al bell’operare de’ paesi, onde li Fiamminghi videro la strada di ben formarli», come scrive nel 1642 il pittore Giovanni Baglione. Fin da allora, come si vede, è questione di primato: la pittura di paesaggio è un’invenzione italiana?
Felicemente, il libro di Anna Ottani preferisce tessere una storia di incontri: inizia con la figura ammaliante di Adam Elsheimer, un pittore tedesco che usò il cannocchiale di Galileo, se non per primo, certo con più intelligenza e poesia di tutti suoi contemporanei. Già, perché parlare di pittura di paesaggio significa innanzitutto parlare di visione: come guardavano, e come vedevano, i pittori del Seicento? Siamo ancora molto lontani dal saper rispondere a questa domanda, ma è irresistibile il fascino di Elsheimer, che (suggerisce plausibilmente l’autrice) si fa prestare il nuovissimo ordigno dal cardinal Francesco Maria del Monte, il grande protettore di Caravaggio, e riesce così a dipingere il primo quadro della storia dell’arte dove la Via Lattea e le macchie lunari appaiono come sono davvero.
Tanto che - lo hanno stabilito astronomi bavaresi confermando e precisando una precedente intuizione dell’autrice - si può riconoscere con esattezza la notte in cui Elsheimer si affacciò alla sua finestra: era il 16 giugno 1609. Ma, proprio come per Caravaggio, questa rinnovata attenzione per la natura non si risolve in una pittura “scientifica”, bensì in una esatta meditazione pittorica sulla perdita di centralità dell’uomo, letteralmente inghiottito in una notte esistenziale in cui è possibile procedere solo a tentoni.
Da qui si parte per un viaggio - raffinatissimo, imprevedibile, godibile come pochi altri - che ci porta fino alla metà dell’Ottocento: attraversando la Vallombrosa verdissima di Louis Gauffier; incantandosi davanti alla Napoli, luminosa e astrattamente creaturale, dell’inglese Thomas Jones; piangendo per la perdita dell’opera del magico Lusieri; ammirando le geometrie del sommo e gelido David; deliziandoci di fronte alle finestre aperte di Caspar David Friedrich; rabbrividendo degli incubi di Böcklin. Si chiude il libro in un baleno: stupendosi di aver divorato 450 pagine.
Terre senz’ombra è un magnifico libro di storia dell’arte: illustrato senza risparmio. Ma di una storia dell’arte che non abdica alla propria più intima vocazione: essere parte di una più vasta storia della cultura. La morale del libro è che se è vero che la bellezza naturale e la storia - entrambe incomparabili - dell’Italia hanno attratto infiniti occhi di artisti da tutta Europa, è anche vero che le mani di quegli artisti hanno creato opere che, a loro volta, hanno profondamente cambiato l’immagine dell’Italia, contribuendo in modo decisivo a definire la nostra identità. Quando oggi parliamo sinteticamente di «Italia», nella mente e nel cuore dei nostri interlocutori stranieri si accende un “qualcosa” che deve più a Poussin che a Garibaldi, più ad Elsheimer che a De Gasperi.
Non sembri una forzatura. Se la nostra Costituzione pone il paesaggio come un principio fondamentale per la costruzione di una Italia nuova, è perché in Costituente siedono persone come Piero Calamandrei: un grande giurista che nel 1939 scrive al figlio Franco che, se la tradizione familiare non l’avesse istradato verso il diritto, avrebbe fatto «o lo storico dell’arte o l’archeologo». Quando, nel 1944, Calamandrei riapre, come rettore, l’università di Firenze pronuncia un discorso — meraviglioso fin dal titolo: L’Italia ha ancora qualcosa da dire - in cui dice: «Quello che più ci ha offeso è stato l’assasinio premeditato delle nostre città, dei nostri villaggi, delle nostre campagne, perfino del nostro paesaggio. Voi lo sapete che in Italia... ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina ha un volto come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento storico che conta per noi quanto le gioie e i lutti della nostra famiglia». Una pagina altissima, un vero preludio all’articolo 9: un’epigrafe perfetta per .
Ma «esiste ancora l’Italia?» Quella di Anna Ottani Cavina non è una domanda retorica. Da molti decenni, e con pochissime eccezioni (una è Tullio Pericoli), gli artisti non ci prestano più i loro occhi e le loro mani per vedere e sentire il paesaggio italiano. È anche per questo che non troviamo la forza di lottare contro governi, leggi, grumi di interessi, grandi opere che fanno sparire l’Italia. Leggere Terre senz’ombra in questo autunno in cui la Penisola, come sempre, si scioglie nel fango delle alluvioni da Nord a Sud fa uno strano effetto: non spinge a esiliarsi nell’Arcadia dei musei, ma spinge a combattere perché gli italiani, «studiando fin da bambini la storia dell’arte come una lingua viva, abbiano piena coscienza della loro nazione». Lo scriveva Roberto Longhi a Giuliano Briganti nel 1944: dobbiamo ancora cominciare a farlo.

Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, in un articolo dal titolo "Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili", sono andata a leggermi l'articolo. Si riferisce all'assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.

Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l'ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.

Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".

L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.

Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.

Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.

No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».

Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare. Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.

Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, in un articolo dal titolo "Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili", sono andata a leggermi l'articolo. Si riferisce all'assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.

Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l'ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.

Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".

L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.

Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.

Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.

No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».

Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare.

Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.

«Da sette anni le organizzazioni con la missione di aiutare gli altri non crescono. Ma il saldo non è negativo: aumentano coloro che agiscono senza iscriversi a nessuna associazione. E i gruppi che resistono sono sempre più simili a piccole imprese. A mancare è il ricambio generazionale e lo sviluppo nel Sud».

La Repubblica, 22 ottobre 2015

Roma. Da sette anni il volontariato italiano non cresce. Lo dice il primo selfie che le Organizzazioni della società civile (secondo la definizione di Dublino 2005) si sono scattate a fine 2014, allargandolo poi nelle 70 pagine del Report nazionale sulle organizzazioni di volontariato disponibile in questi giorni. È il primo autocensimento su questo vasto mondo e l’ha realizzato il Coordinamento dei centri di servizio, istituiti con legge nel 1991 e oggi arrivati a 74 nel paese.

Il lavoro innanzitutto ci dice che le organizzazioni di volontariato registrate nelle venti regioni sono 44.182. Tante? Poche? Il censimento non dà punti di riferimento a ritroso, ma subito dopo il dato assoluto offre un’informazione inedita che conferma quello che ai convegni si dice da tempo: il volontariato italiano, fortemente cattolico e di sinistra, è in crisi, fatica a espandersi, non trova una dimensione contemporanea.
Già, tra il 2007 e il 2014, che è esattamente l’ampio spettro temporale della crisi economica mondiale e soprattutto italiana, le nuove organizzazioni di volontariato hanno rallentato la loro crescita, che durava dal 1942 e negli Anni Ottanta e Novanta era diventata tumultuosa. Nel 2008, stagione spartiacque, si registra il primo arresto: meno due per cento. Poi ancora meno due, meno sette per totalizzare un - 39 per cento in sette stagioni di fila. Una somma in negativo che colpisce. Non si tratta di una decrescita delle organizzazioni in valore assoluto, ma di un rallentamento (molto forte) delle nuove strutture organizzate.
Nell’ultimo anno preso in considerazione, il 2014, la nascita di realtà no profit è sceso addirittura del 15 per cento. In assenza del dato dirimente - quante organizzazioni esistenti hanno cessato di vivere od operare - la crescita rallentata va confrontata con gli anni dell’esplosione del Terzo settore. Nel 1993 nacquero 275 nuove associazioni non profittevoli, nel 2003 addirittura 350 e nel 2007 si toccò il primato italiano con 360 battesimi. Poi la discesa, per ora senza freno: nel 2014 i nuovi registrati sono stati solo duecento.
«Ci mancano i dati dei decessi », spiega Giuseppe Museo, direttore di Csvnet, «ma ad oggi possiamo avanzare due ipotesi. Uno, è finita la frammentazione e il volontariato italiano è diventato maturo: diverse strutture, non a caso, si sono irrobustite. Due, il mercato nostrano della charity con quattro milioni e mezzo di volontari organizzati è saturo». Il resto della domanda, secondo questa interpretazione, sarebbe accolta dal volontario free - due milioni e mezzo di persone, secondo altre fonti - , che agisce senza tempi certi, senza iscriversi a nulla, in maniera spesso estemporanea per difendere un parco o sistemare una scuola. È il volontario liquido al tempo dei social e dei Cinque Stelle: la sua ansia di dono e di collettivo si esprime fuori dai recinti dell’organizzazione, su obiettivi singoli e motivanti.
Il dato che viene fuori - gruppi certificati che non crescono nel numero, quote di attivisti stabili o in leggero aumento - fa pensare che il settennato horribilis abbia funzionato, come per le imprese, nel far chiudere le associazioni più piccole e recenti consentendo a chi è storicamente strutturato di trovare dimensioni ampie e funzionalità migliori. Il report dice anche, infatti, che le organizzazioni di volontariato minori (per numero di volontari e soci) sono le più giovani: il 50% delle più piccole è stato costituito dal 2000, il 50% delle più giovani dal 2003. All’aumentare dell’anzianità delle Odv aumentano anche le loro dimensioni. La metà delle strutture con più di 60 volontari ha oltre 25 anni di storia e le organizzazioni con oltre 400 soci hanno costruito il loro patrimonio nel corso di almeno 35 anni di attività.
È un mondo davvero eterogeneo, quello del Terzo settore: ci sono organizzazioni con un (uno) attivista e altre con 50 mila. Bene, grazie al primo Report nazionale ora sappiamo che l’associazione media è composta da 16 volontari. Solo il 15% delle Odv supera i 50. Poco più del 10 per cento ha oltre 500 soci. E solo l’uno per cento (quattrocento organizzazioni in tutto) si muove in un ambito internazionale. Il 48 per cento (oltre ventimila realtà) ha come territorio il comune di riferimento.
Edoardo Patriarca, dal 1999 al 2006 portavoce del Forum del Terzo settore, oggi deputato Pd, dice: «Le organizzazioni di volontariato somigliano sempre più a piccole imprese. Tengono nonostante la crisi economica, nonostante lo sfilacciamento del tessuto sociale, ma stanno invecchiando.
Il ricambio generazionale è lento e la capacità di attrarre nuove generazioni non sempre efficace. Il volontariato sconta grossi problemi al Sud, dove c’è maggiore difficoltà economica e di lavoro e inefficienza amministrativa. La riduzione della frammentazione che si legge nel censimento significa da una parte una maggiore efficienza nell’azione sul territorio e dall’altra una difficoltà a innovarsi, a stare sulla frontiera delle nuove sfide sociali. Il volontariato italiano ha una sincera difficoltà a posizionarsi nel tempo contemporaneo ».
Il teorico della materia è l’economista Stefano Zamagni, che dice: «Tra il 2007 e il 2014 ci sono stati due fenomeni che hanno spiazzato questo mondo. Da una parte la crescita di coop sociali, associazioni di promozione sociale, imprese sociali che hanno corroso il volontariato puro. Dall’altra la crisi economica, che ha portato via quella fetta di persone che ha dovuto preoccuparsi innanzitutto di trovare un lavoro e poi ha obbligato le organizzazioni a ridurre i costi». Un esempio: «In una città dell’Emilia di 80.000 abitanti si contavano 600 associazioni. Non potevano restare in piedi e molte si sono fuse. Un Terzo settore adulto oggi deve vivere di biodiversità: ong, coop, odv. E deve ibridare il profit con il no profit. Questo mondo resta un polmone, una riserva, che però mantiene un senso se custodisce il principio del dono. Se perdiamo quello, resta solo la foresta di belve raccontata da Hobbes».

Berlusconi e il berlusconismo hanno trovato, si sa, il lori prolungamento. La penna affilata del tenace critico di Silvio non abbandona la presa e ci ricorda quanto l'ideologa e le pratiche del Caimano vivano ancora nella banda vincente.

La Repubblica, 22 ottobre 2015

La stella berlusconiana, apparsa nel cielo politico d’Italia ventiquattro anni fa, impallidiva da un lustro e forse va dileguandosi ma lascia effetti permanenti. L’ascesa incubava i semi del collasso: un megalomane in abiti e pose da gangster marsigliese, furbissimo, molto temibile ma fortunatamente corto d’intelletto, non diventa d’emblée statista; già la discesa in campo segnalava una coazione morbosa a riempire i palchi; avesse del raziocinio, starebbe tra le quinte; quando anche sappia il da farsi, lo fa per caso, perché in via principale coltiva affari suoi. Ad esempio, ordinandosi à la carte una piccola legge, liquida in 3 o 4 milioni i 300 d’un debito fiscale Mondadori.

L’Italia berlusconiana deperiva a vista d’occhio in gaudioso marasma. Le istantanee d’epoca presentano figure d’atlante antropologico. Vedile in Repubblica, 30 agosto 2011. Da sinistra siedono al tavolo Marcello Dell’Utri, Flavio Carboni, Pasquale Lombardi, Arcangelo Martino, gentiluomini P3: Dell’Utri, ora recluso in espiazione d’una lunga pena, scambia pensieri profondi col crinito leonino Denis Verdini, già macellaio, allora triumviro forzaitaliota e banchiere d’avventura (ivi, 2 settembre); l’ancora più avventuroso Carboni possiede discariche tossiche dalle quali cavare oro muovendo pedine politiche (ivi, 3 settembre). L’arte del corrompere è motore immobile del Brave New World: Berlusco Magnus vi regna; inter alia, ha bandito una crociata contro gl’inquirenti intercettatori, affinché gli affari delicati corrano sicuri nei telefoni.
Tali essendo i virtuosi fondamenti, non stupisce il sèguito. L’Egomane cade, dimissionario, indi sfiora una clamorosa rivincita elettorale, ancora favorito dalla pantomima che riporta al Quirinale Neapolitanus Rex; ma nemmeno i santi possono salvarlo da una condanna irrevocabile (frode fiscale), perciò decade dal Senato nel quale aveva asilo, e sbaglia varie mosse: esigeva la grazia motu Praesidentis (sarebbe gesto irresponsabile); imponeva le dimissioni ai suoi ministri, stavolta disubbedienti; ogni tanto cambia idea e sostiene l’esecutivo. Dovendo scegliersi un successore, designerebbe l’ex sindaco fiorentino, ingordo boy scout rivelato dalla Ruota delle Fortuna su Canale 5, ma non è ancora rassegnato a farsi da parte e rimangia il consenso al governo.
Colpo rischioso: l’opposizione offre poche chances; i gregari marciavano nel deserto; la fedeltà era già incrinata da una secessione. Stava nel probabile che alcuni o molti cambiassero seggio, in cerca d’un futuro meno avaro. Offeso, li marchia felloni. Era forse meno prevedibile che guidasse gl’infedeli lo scudiero Denis Verdini: triumviro eminente, interloquiva nelle questioni capitali, impersonando l’establishment d’Arcore, dove pulpiti, turiboli, boiardi genuflessi governano masse adoranti (intervista al Corriere della Sera, 15 luglio 2010); organicamente devoto, nella triste notte 4-5 novembre 2011 consigliava a Sua Maestà d’eclissarsi (c’erano anche Gianni Letta e Angelino Alfano); lo sapevamo intento a ritessere l’unità del partito.
Dev’essere stato un trauma in casa B. il voto sull’art. 2 del ddl relativo al futuro Senato. Forte gesto politico. In primo luogo conferma quel che sapevamo su Matteo Renzi: i discorsi d’ideologia gli entrano da un’orecchia ed escono dall’altra; dopo il famoso colloquio al Nazareno (santuario Pd) dichiarava «profonda sintonia» col decaduto, cultore d’idee singolari sulla legalità. Stavolta parla scozzese: Verdini non è il mostro di Lochness; porta nove voti al nascente «partito nazionale» e i dissidenti cantano fuori tempo. I valori della sinistra? Dopo il bagno nel postcomunismo dalemiano a stento esisteva come nome vuoto. L’Olonese liquida gl’idoli ma ha punti deboli nella storia privata: colossali interessi gl’imbrogliano i passi in politica; ottant’anni pesano; commette gaffes; perde i carismi e quando appare il sindaco in pose d’ultimo grido, l’agnizione è fulminea. Ecce homo novus.
Non lo sarebbe se conservasse maniere, icone, parole d’ordine, riti. Se n’è disfatto senza scrupoli. Il suo futuro è nel polimorfo schieramento postberlusconiano: forzaitalioti rimasti nella vecchia casa, gli esitanti, precursori «diversamente berlusconiani» e l’appena nata Alleanza liberalpopolare. Verdini, già legato alla famiglia R. ratione loci et negotiorum, è insostituibile alchimista, arruolatore, Gran Visir. Da questo lato Renzi ha poco o niente da temere, mentre sarebbe inquieta la gestione d’un partito nel quale contino qualcosa esponenti della soi-disant sinistra. Il predecessore deve rassegnarsi ed è abbastanza scaltro da capire che rischio corra giostrando solo o male accompagnato.
Lo junior resta in «profonda sintonia », quindi non lesina i corrispettivi: supponendo vacante il Quirinale, gliel’offre senza pensarvi due volte; l’abbiamo visto risoluto e cinico. L’incognita sta negli elettori disgustati, non essendo infallibili i trucchi studiati nell’Italicum. Insomma, s’è premunito, diversamente dal quasi omonimo tribuno romano. Va meno bene all’Italia. Sotto i mirabilia quotidianamente annunciati, il «partito nazionale» ha pesanti contropartite in politica interna: la chiamano moderna democrazia liberale ma i «moderati » consorti esigono una linea lassista, anzi criminofila. Vedi lo scempio dei giudizi: assurdi termini mandano in fumo processi e delitti; la procedura diventa fuga dall’equazione penale. In lingua poetica, abitiamo una «terra desolata» (T.S. Eliot, The Waste Land): sviluppo economico, sensibilità etica, tasso intellettuale presuppongono una società le cui risorse siano equamente divise; in misura patologica qui se le divorano i parassiti. La Corte dei conti lo ripete invano. Lobbies intanate tra governo e parlamento lavorano sotto indecenti eufemismi.

Se ai cittadini si sostituiscono i consumatori finisce per prevalere il plebiscito del mercato». una sintesi da Moscacieca di Gustavo Zagrebelsky (Laterza), da la Repubblica, 21 ottobre 2015

Tra le tante insidie linguistiche che fanno presa nel nostro tempo c’è la “governabilità”, una parola venuta dal tempo dei discorsi sulla “grande riforma” costituzionale che hanno preso campo alla fine degli anni Settanta e, da allora, ci accompagnano tutti i giorni. Cerchiamo di rimettere le cose a posto, a incominciare dal vocabolario. I sostantivi e gli aggettivi modali in “...abilità”, “...ibilità”, “...abile”, “... ibile”, ecc. esprimono tutti un significato passivo: amabilità è il dono di saper farsi amare; invivibile è la condizione che non può essere vissuta; incorreggibile è colui che non si lascia correggere. La stessa cosa dovrebbe essere per “governabilità” e “ingovernabilità”: concetti aventi a che fare con l’attitudine a “essere governati”. In questo senso, tale attitudine può essere propria soltanto dei “governandi”, non dei “governanti”. Sono i governandi, coloro che possono essere più o meno “governabili” o “ingovernabili”, a seconda che siano più o meno docili o indocili nei confronti di chi li governa.

Oppure, si potrebbe usare propriamente la parola per indicare l’insieme di coloro che hanno da essere governati e delle loro istituzioni: governabilità d’insieme. Della parola, tuttavia, si abusa certamente quando la si usa per indicare unilateralmente il bisogno di efficaci strumenti di governo (nel senso del memorandum della banca d’affari J.P. Morgan): è come se il governo stesso, cui spetta governare, potesse dirsi, esso stesso, più o meno governabile, più o meno docile.

Tutte le volte che si usano male le parole, si fa confusione e ci si inganna vicendevolmente. Qualche volta, inconsapevolmente, si tradisce un retro-pensiero che si vorrebbe rimanesse nascosto e che, invece, fa capolino tra le parole. Se l’attitudine a essere governati si riferisce alla società, ben si comprende a chi spetti il compito di governarla; ma, se la si attribuisce alla macchina di governo, allora la domanda che sorge, non maliziosa ma realistica, è: governabile, sì, ma da chi? Docile, sì, ma nei confronti di chi?

Nei regimi democratici, la governabilità, nel senso improprio detto sopra, cioè nel senso della forza che legittima l’azione del governo, deve dipendere dalla libera partecipazione politica e dal coinvolgimento attivo dei cittadini, dal confronto e dalla discussione su cui si forma l’ humus delle decisioni politiche, dal consenso che si manifesta innanzitutto con il voto e dalla fiducia che viene riposta in coloro che se ne faranno interpreti operativi. Quale che sia la definizione di democrazia, immancabile è, dunque, il voto che esprime la volontà di autonome scelte.

Se manca il voto dei cittadini, ogni definizione è ingannevole. Il voto non è sufficiente, ma è necessario. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Norberto Bobbio ha incluso nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, scriveva nel 1940 dal suo volontario esilio negli Stati Uniti: «La parola democrazia è adoperata anche per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Encyclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti. I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali, perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il ‘governo dei popoli”».

Primo fra tutti, il diritto di andare a votare. A modellare una società in senso democratico, non basta però che i diritti siano riconosciuti. Occorre che siano esercitati. Che cosa contano, se non se ne fa uso? È forse libera una società in cui alla scienza, all’arte, all’insegnamento, alla stampa, ecc., è riconosciuto il diritto di essere liberi, se poi gli scienziati, gli artisti, gli insegnanti, i giornalisti rinunciano a farne uso? Lo stesso è per il diritto di voto. È forse democratica una società in cui tutti i cittadini hanno il diritto di votare, ma non ne fanno uso? È democratica una società in cui la maggioranza rinuncia ad esercitare il proprio diritto di voto? Non sono costretti a rinunciare da leggi antidemocratiche; lo fanno volontariamente. Ma è forse questo meno grave? Al contrario, è più grave, poiché la rinuncia volontaria all’esercizio del primo e basilare diritto democratico sta a significare che la frustrazione della democrazia è stata interiorizzata, è entrata nel midollo della società.

Occorre interrogarsi su questa manifestazione di stanchezza della democrazia e, innanzitutto, sul fatto ch’essa non sembra fare problema, porre domande. È un dato accettato, tanto in alto quanto in basso.

In basso, cioè tra i cittadini, non deriva più (soltanto) dal sentimento antipolitico e antiparlamentare che è sempre pre- sente in ogni società e nella nostra in misura cospicua, alimentato dall’incredibile diffusione della corruzione pubblica che viene alla luce. Deriva da una convinzione assai più profonda e difficilmente scalzabile. Non si dice più (soltanto): sono tutti uguali perché tutti disonesti, ma: sono tutti uguali perché l’uno uguale all’altro nell’inutilità e nell’inconcludenza. In breve: è la fiducia nella politica che sta progressivamente riducendosi, poiché si avverte, consapevolmente o inconsapevolmente, che “la cosa” è come sfuggita di mano.

In alto, alla voragine dell’astensione, dopo ogni tornata elettorale, si dedica qualche espressione di rammarico, unita alla promessa di riallacciare il filo che si è spezzato. Ma è pura retorica che si ferma alle parole. Né si saprebbe come fare, perché il distacco dei grandi numeri dalla politica, che è un dato allarmante alla luce di qualunque concezione anche solo “minima” della democrazia, è perfettamente conforme allo spirito della vigente costituzione materiale che ha nel governo tecnico-esecutivo la sua colonna portante: il “governo governabile”. Le elezioni, da linfa della democrazia, si sono trasformate in potenziali intralci. Dunque, meno si vota e meglio è. Del resto, non è stato detto da qualcuno, facendo il verso alla celebre definizione di nazione di Ernest Renan, che i governi europei, scalzati dagli “esperti monetari”, hanno fatto prevalere il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” sul “plebiscito delle urne” (così Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, nel 1998)?

In effetti, se ai cittadini si sostituiscono i produttori e i consumatori, i creditori e i debitori, i venditori e i compratori, il plebiscito del mercato risulta essere la democrazia nella sua forma più coerente.

Una volta che le sorgenti sociali della governabilità si siano inaridite, la governabilità, intesa impropriamente come capacità di governo, da problema di democrazia politica si trasforma in questione di ingegneria costituzionale al servizio dell’efficienza dei mercati, i quali hanno bisogno di costituzioni reattive alla loro continua instabilità, di decisioni pronte, assolute e cieche, cioè di interventi esecutivi.

Una volta si sapeva e si diceva che l’ingegneria costituzionale non esiste in quanto tale; che non si deve far finta che abbia a che fare solo con questioni di efficienza. Ogni questione di natura propriamente costituzionale è sempre una questione di allocazione di potere. Oggi, quella verità vale pur sempre, ma la si nasconde negli interminabili convegni, tavole rotonde, pubblicazioni, dichiarazioni che sembrano tutti rivolti a una idea vuota di “vita costituzionale buona”, per l’appunto l’idea di “governabilità”, ed invece mirano a nuove e interessate allocazioni di potere.

IL LIBRO Anticipiamo u. L’autore dialogherà con Adriano Prosperi sabato alle 16.30 al Teatro Politeama di Poggibonsi e sarà a Milano a BookCity domenica alle 12.30 al Museo Nazionale della Scienza

Demistificare l'uso corrente delle parole è un modo per diventare liberi e perciò cambiare il mondo.Un piccolo libro su una parola controversa.

La Repubblica, 20 ottobre 2015
La parola gender divide. Ci sono parole che a forza di essere brandite come manganelli, innalzate come bandiere, finiscono per diventare esse stesse strumenti di aggressione, contundenti, perfino urticanti. Come molte parole straniere, fagocitate da una lingua altra che le assimila senza comprenderle e le utilizza senza spiegarle, esalano un’aura di autorevolezza e insieme di mistero, che ne giustifica l’uso improprio. Oggi può capitare che durante una pubblica discussione sulla scuola un genitore zittisca un docente agitando un foglio su cui c’è scritto “no gender”. Come alle manifestazioni in cui nobilmente si protesta contro le piaghe che minacciano l’umanità: no alla guerra, alla pena di morte, al razzismo. La perentorietà del rifiuto di qualcosa che non si saprebbe (né si intende) definire impedisce l’avvio di qualunque dialogo. Ma di che cosa stiamo parlando?

Lo scontro che negli ultimi tre anni è divampato intorno al gender in Italia (ma anche, in forme simili, in Francia) diventerà oggetto di studi di sociologia della comunicazione e psicologia delle masse. Ci si è riflettuto poco, finora, forse per sottovalutazione — o perché non si è stati capaci di comprendere quale fosse l’oggetto del contendere, né che riguardasse tutti, e non solo gli omosessuali. Chiunque si interessi della circolazione e della manipolazione delle idee non può non restare stregato e insieme spaventato dalla mistificazione perfetta che si è irretita intorno a questa parola, fino ad avvolgerla di una nebbia mefitica. E a occultare il vero bersaglio: la battaglia culturale, ma anche politica e legislativa, per «combattere contro le discriminazioni che subisce chi, donna, omosessuale, trans, viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».

L’ultimo libro di Michela Marzano, Papà, mamma e gender , che esce per Utet, ci spiega come, quando e perché sia potuto accadere che una concezione antropologica sulla formazione dell’identità (sessuale, psichica, sociale) delle persone abbia aperto una “crepa”, una “frattura profondissima” nel nostro paese, e scatenato campagne di propaganda, informazione e disinformazione mai più viste da decenni. Fino a trasformare il gender in uno spauracchio, un fantasma cui chiunque può attribuire — in buona, ma anche in cattiva fede — il negativo delle proprie idee, della propria concezione dell’esistenza, e riversare su di esso pregiudizi, fobie e paure che si agitano nel profondo di ognuno di noi.

Ricordando con Camus che «nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo», Marzano assegna al libro innanzitutto questo scopo “didattico” (il volume è corredato di un glossario). Dunque gender è un termine inglese, la cui traduzione italiana è semplicemente genere. È entrato in lingua originale nel sistema della cultura universitaria perché delineava un campo di studi nuovo (gender studies) e perciò bisognoso di un proprio nome. Ma poi ha finito per riassumere l’insieme delle teorie sul genere — estinguendo ogni differenza e sfumatura, anche significativa.

Papà, mamma e gender è un libro smilzo, di agevole lettura, una bussola utile per orientarsi nel magma burrascoso di interventi, argomentazioni, polemiche, molte delle quali vanno alla deriva sulle onde del web. Alla confusione semantica e concettuale del dibattito — che mescola sesso, identità di genere e orientamento sessuale — Marzano oppone spiegazioni essenziali (“l’ABC”) che si potevano ritenere acquisite, e invece si sono scoperte necessarie. Si memorizzi ad esempio questa: «Quando si parla di sesso ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche fisiche, biologiche, cromosomiche e genetiche che distinguono i maschi dalle femmine. Quando si parla di “genere” invece si fa riferimento al processo di costruzione sociale e culturale sulla base di caratteristiche e di comportamenti, impliciti o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono troppo spesso con il definire ciò che è appropriato o meno per un maschio o per una femmina ».

È insieme un libro di storia culturale e di cronaca contemporanea, in cui le riflessioni sulla distinzione tra identità e uguaglianza, tra differenza e differenzialismo, si affiancano all’analisi del lessico di una petizione presentata in Senato per sostenere «una sana educazione che rispetti il ruolo della famiglia», le parole di Aristotele, Bobbio e Calvino vengono valutate come quelle di uno spot contro la perniciosa “ideologia gender”. È un libro di filosofia e auto-filosofia (se posso mutuare questo termine dalla narrativa): perché l’autrice non nasconde i propri dubbi (e la critica contro la corrente radicale del pensiero gender) e rivendica l’onestà intellettuale di dire come e perché è giunta a credere a certe cose piuttosto che ad altre. L’esperienza personale — chi siamo, come siamo diventati ciò che siamo — influenza e sempre indirizza il nostro modo di stare nel mondo. «Il pensiero non può che venire dall’evento, da ciò che ci attraversa e ci sconvolge, da ciò che ci interroga e ci costringe a rimettere tutto in discussione».

Gli essenzialisti affibbiano a chi non riconosce il dualismo tra Bene e Male l’etichetta di relativista etico. Ma l’etica non è relativa. Dovrebbe solo essere transitiva. Come Marzano, mi sono chiesta spesso come mai si possa temere che riconoscere ad altri i diritti di cui godono i più (alle coppie omosessuali di sposarsi o di avere e crescere figli) sia lesivo di questi. In che modo il matrimonio tra due persone dello stesso sesso possa sminuire quello di un uomo e di una donna, come una famiglia differente possa indebolire le famiglie cosiddette uguali. Non so rispondermi. Però mi viene in mente il finale visionario de La via della Fame , il romanzo che lo scrittore nigeriano Ben Okri ha dedicato alla propria giovane nazione, tormentata dall’odio, divisa dai conflitti, e incapace di nascere. «Non è della morte che gli uomini hanno paura, ma dell’amore... Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel sogno. Un sogno può essere il punto più alto di tutta una vita». Ma ci occorre «un nuovo linguaggio per parlarci ».

Ecco, forse abbiamo bisogno di una nuova parola. Lasciamo gender alle rivoluzioni antropologiche del XX secolo: il riscatto dei lavoratori, delle donne, dei neri, degli omosessuali. Le rivoluzioni sono irreversibili, nel senso che possono essere sconfitte, ma non revocate, e i principi che le accendono non tramontano. Troviamo un’altra parola per «sognare il mondo da capo».

SIl manifesto, 20 ottobre 2015

DIRITTODI PAROLA
SOTTO PROCESSO
di Livio Pipino

Erri De Luca è stato assolto. La sen­tenza del Tri­bu­nale di Torino non lascia adito a dubbi: affer­mare che «la Tav va sabo­tata» non è un reato ma un’opinione, affi­data al dibat­tito poli­tico e non alle cure di giu­dici e pri­gioni. Qual­che tempo fa sarebbe stata una «non noti­zia», quasi un’ovvietà (e senza biso­gno di sco­mo­dare Voltaire). Non così oggi. Almeno a Torino, dove un giu­dice per le inda­gini pre­li­mi­nari ha dispo­sto, per quella affer­ma­zione, un giu­di­zio e due pub­blici mini­steri hanno soste­nuto l’accusa e chie­sto la condanna.

Dun­que l’assoluzione e il punto di diritto affer­mato dal giu­dice rap­pre­sen­tano una buona noti­zia. Per una plu­ra­lità di motivi.

Primo. Ci fu un tempo in cui con­te­sta­zioni sif­fatte erano all’ordine del giorno ed erano rite­nuti reati il canto dell’«Internazionale» o di «Ban­diera rossa» (forse per il ver­setto «avanti popolo tuona il can­none rivo­lu­zione vogliamo far»…) o il grido «abbasso la bor­ghe­sia, viva il socia­li­smo!». Erano gli anni dello stato libe­rale e, poi, del fasci­smo quando si rite­neva che «la libertà non è un diritto, ma un dovere del cit­ta­dino» e, ancora, che «la libertà è quella di lavo­rare, quella di pos­se­dere, quella di ono­rare pub­bli­ca­mente Dio e le isti­tu­zioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del pro­prio destino, quella di sen­tirsi un popolo forte». Poi è venuta la Costi­tu­zione il cui arti­colo 21 pre­vede che «tutti hanno il diritto di mani­fe­stare libe­ra­mente il pro­prio pen­siero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Inu­tile sot­to­li­neare il senso della norma che è quello di tute­lare l’anticonformismo e le sue mani­fe­sta­zioni poco o punto accette alle forze domi­nanti per­ché, come è stato scritto, «la libertà delle mag­gio­ranze al potere non ha mai avuto biso­gno di pro­te­zioni con­tro il potere» e, ancora, «la pro­te­zione del pen­siero con­tro il potere, ieri come oggi, serve a ren­dere libero l’eretico, l’anticonformista, il radi­cale mino­ri­ta­rio: tutti coloro che, quando la mag­gio­ranza era libe­ris­sima di pre­gare Iddio o osan­nare il Re, anda­vano sul rogo o in pri­gione tra l’indifferenza o il com­pia­ci­mento dei più».

In ter­mini ancora più espli­citi, le idee si con­fron­tano e, se del caso, si com­bat­tono con altre idee, non con l’obbligo del silen­zio. Troppo spesso lo si dimen­tica e, dun­que, un «ripasso» era quanto mai opportuno.

Secondo. La con­te­sta­zione mossa ad Erri De Luca non riguar­dava solo la libertà di espres­sione del pen­siero in astratto. Essa riguar­dava l’esercizio di quella libertà oggi in Val Susa e con rife­ri­mento al Tav.

Nel nostro Paese in que­sti anni sono, infatti, avve­nute cose assai strane. Nes­suno ha mai sot­to­po­sto a giu­di­zio – a mio avviso, con ragione – gli autori di «isti­ga­zioni» assai più gravi e impe­gna­tive come quelle, pra­ti­cate da mini­stri della Repub­blica e capi del Governo, dirette a sov­ver­tire l’unità nazio­nale o a eva­dere le tasse. Ma, in Val Susa, Erri De Luca non è rima­sto iso­lato: alcuni respon­sa­bili di asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste sono stati inda­gati per «pro­cu­rato allarme» in rela­zione alla pre­sen­ta­zione di un documento-denuncia con­cer­nente i rischi in atto al can­tiere della Mad­da­lena a causa di una frana, l’uso della espres­sione «libera Repub­blica della Mad­da­lena» è stato con­si­de­rato un sin­tomo di atti­vità sov­ver­siva, la distri­bu­zione di volan­tini con­tro il Tav (senza com­mis­sione di reati) è stata rite­nuta un indice di poten­ziale irre­go­la­rità di con­dotta (sic!) di alcuni stu­denti mino­renni e via seguitando.

Affer­mare la liceità penale delle affer­ma­zioni di De Luca non può non inci­dere anche su que­ste situazioni.

Terzo. Alcuni decenni orsono ci fu, in alcuni set­tori della magi­stra­tura, un’attenzione signi­fi­ca­tiva ai temi della libertà di mani­fe­sta­zione del pen­siero. Sul finire degli anni Ses­santa e nei primi anni Set­tanta, in par­ti­co­lare, Magi­stra­tura demo­cra­tica ingag­giò una dura bat­ta­glia cul­tu­rale sul punto stig­ma­tiz­zando, tra l’altro, «prov­ve­di­menti che hanno creato un clima di inti­mi­da­zione par­ti­co­lar­mente pesante verso deter­mi­nati set­tori poli­tici» ed espri­mendo «pro­fonda pre­oc­cu­pa­zione rispetto a quello che non può appa­rire che come un dise­gno siste­ma­tico ope­rante con vari stru­menti e a vari livelli, teso a impe­dire a taluni la libertà di opi­nione, e come grave sin­tomo di arre­tra­mento della società civile» (ordine del giorno Tolin, dicem­bre 1969) e ten­tando anche, pur senza suc­cesso, di pro­muo­vere un refe­ren­dum abro­ga­tivo dei reati di opi­nione (tra cui quell’articolo 414 del codice penale con­te­stato a De Luca).

Oggi ciò sem­bra un lon­tano ricordo. Chissà che la sen­tenza del Tri­bu­nale di Torino non sti­moli una nuova sta­gione di sen­si­bi­lità al riguardo.

Quarto. In que­sta vicenda ha bril­lato per assenza e silen­zio gran parte degli intel­let­tuali e della cul­tura giu­ri­dica italiana.,Non è un caso che anche l’appello dif­fuso alla vigi­lia del pro­cesso da scrit­tori e da uomini e donne dello spet­ta­colo rechi, per quat­tro quinti, sot­to­scri­zioni fran­cesi… Non è la prima volta in que­sta epoca di pen­siero unico.

Per carità, nes­suno pre­tende nuovi Paso­lini o Scia­scia e del resto, come avrebbe detto Man­zoni, «il corag­gio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Ma un po’ di dignità non gua­ste­rebbe. Anche que­sto ci ricorda la sen­tenza torinese.

ERRIDE LUCA ASSOLTO,
“SABOTARE” SI PUÒ DIRE
di Marco Vittone

No Tav. Il tribunale di Torino fa prevalere l’articolo 21 della Costituzione sul codice Rocco. Il fatto non sussiste come reato. Lo scrittore in aula prima della sentenza: rivendico la mia nobile parola contraria

Assolto per­ché il fatto non sus­si­ste. Cade l’accusa di isti­ga­zione a delin­quere per Erri De Luca. E fini­sce così un pro­cesso che non sarebbe mai dovuto ini­ziare che ha visto sul banco degli impu­tati, per un reato d’opinione, lo scrit­tore napo­le­tano, reo di aver soste­nuto in alcune inter­vi­ste che la «Tav va sabotata».

Dopo la let­tura del dispo­si­tivo della sen­tenza da parte del giu­dice mono­cra­tico Imma­co­lata Iade­luca, l’aula gre­mita è esplosa in un applauso. L’autore de Il peso della far­falla è rima­sto quasi impas­si­bile, nascon­dendo la com­mo­zione, poi ha dichia­rato: «Mi sono tro­vato in una lunga sala d’attesa che adesso è finita. Rimane la grande soli­da­rietà delle per­sone che mi hanno soste­nuto qui e in Fran­cia. Ero tran­quillo per­ché avevo fatto il pos­si­bile — ha aggiunto — Que­sta asso­lu­zione riba­di­sce il vigore dell’articolo 21 della costi­tu­zione che garan­ti­sce la più ampia libertà di espressione».

Ieri, nella maxi aula 3 del Pala­giu­sti­zia di Torino, uti­liz­zata per i grandi pro­cessi Thys­sen­Krupp ed Eter­nit, con la sen­tenza di asso­lu­zione l’articolo 21 della Costi­tu­zione ha pre­valso sull’articolo 414 del codice penale fascista. Prima che la giu­dice si riti­rasse in camera di con­si­glio per quat­tro ore, Erri De Luca aveva letto alcune dichia­ra­zioni spon­ta­nee. «Sarei pre­sente in quest’aula anche se non fossi lo scrit­tore incri­mi­nato. Con­si­dero l’imputazione con­te­stata un espe­ri­mento, il ten­ta­tivo di met­tere a tacere le parole con­tra­rie. Svolgo l’attività di scrit­tore e mi ritengo parte lesa di ogni volontà di cen­sura. Con­fermo la mia con­vin­zione che la linea di sedi­cente alta velo­cità in Val Susa va osta­co­lata, impe­dita e intral­ciata, dun­que sabo­tata per la legit­tima difesa del suolo e dell’aria di una comu­nità minac­ciata. La mia parola con­tra­ria sus­si­ste e sono curioso di sapere se costi­tui­sce reato».

Per le sue dichia­ra­zioni, rite­nute dall’accusa un reato, i pm Anto­nio Rinaudo e Andrea Pada­lino ave­vano chie­sto per l’imputato una con­danna a otto mesi di reclu­sione, in seguito alla denun­cia di Ltf, la società italo-francese che si è occu­pata dal pro­getto e delle opere pre­pa­ra­to­rie della Torino-Lione. L’accusa è caduta. E per il popolo No Tav, che nel pome­rig­gio ha festeg­giato De Luca a Bus­so­leno, si tratta di «un’altra scon­fitta per i pm con l’elmetto». La vit­to­ria «della parola con­tra­ria, più forte delle parole del potere», ha scritto notav .info.

De Luca ha difeso la legit­ti­mità e nobiltà del verbo sabo­tare. «Sono incri­mi­nato per aver usato il verbo sabo­tare. Lo con­si­dero nobile e demo­cra­tico. «Nobile — ha osser­vato — per­ché pro­nun­ciato e pra­ti­cato da valo­rose figure, come Gan­dhi e Man­dela, con enormi risul­tati poli­tici. Demo­cra­tico per­ché appar­tiene fin dall’origine al movi­mento ope­raio e alle sue lotte. Per esem­pio — ha soste­nuto — uno scio­pero sabota la pro­du­zione». Parole «dirette a inci­dere sull’ordine pub­blico» per la pro­cura di Torino. «Ma io difendo l’uso legit­timo del verbo sabo­tare nel suo signi­fi­cato più effi­cace e ampio», ha affer­mato De Luca, che si è detto dispo­sto per­sino a «subire una con­danna penale per il suo impiego» piut­to­sto che a farsi «cen­su­rare o ridurre la lin­gua italiana». La giu­dice, assol­vendo lo scrit­tore con for­mula piena, per­ché «il fatto non sus­si­ste», sem­bra avere accolto que­sta tesi.

La poli­tica si è divisa su sui social tra chi ha apprez­zato e festeg­giato la deci­sione del Tri­bu­nale (M5s, Sel, Prc, Arci) e chi si invece l’ha for­te­mente cri­ti­cata e si è detto dispia­ciuto se non addi­rit­tura irri­tato dalla sen­tenza: un ampio schie­ra­mento che va dal Pd Ste­fano Espo­sito a Mau­ri­zio Gasparri. Duro l’ex mini­stro Mau­ri­zio Lupi, caduto in seguito a uno scan­dalo sulle «grandi opere» e da sem­pre favo­re­vo­lis­simo alla Torino-Lione: «De Luca non avrà com­messo un reato, ma forse ha fatto di peg­gio, ha con­vinto tanti gio­vani che lan­ciare una molo­tov o pic­chiare un poli­ziotto è un diritto. Non sarà l’assoluzione di un tri­bu­nale a toglier­gli que­sta colpa».

Sod­di­sfatto il legale dello scrit­tore, Gian­luca Vitale: «La sen­tenza riporta le cose al loro posto, si può par­lare anche di Tav. Biso­gna che tutti capi­scano che c’è un limite alla repres­sione, le opi­nioni devono essere lasciate libere. Anche Torino e la Val Susa sono posti normali». Tal­volta anche l’Italia può essere un paese normale.

ERRIDE LUCA: «LA FRANCIA MI HA DIFESO
E IN ITALIA IL CODICE FASCISTA SABOTA LA COSTITUZIONE»
intervista di Eleonora Martini

Erri de Luca, non se l’aspettava un’assoluzione, vero?

Per mio tem­pe­ra­mento sono sem­pre pre­pa­rato al peg­gio ma in que­sto caso i pro­no­stici erano impos­si­bili per­ché si è trat­tato di un pro­cesso spe­ri­men­tale: nes­suno scrit­tore era mai stato incri­mi­nato prima con que­sto arnese del codice fasci­sta — l’istigazione — che risale al 1930.

La sua dichia­ra­zione spon­ta­nea prima della sen­tenza ha messo in luce l’assurdità di avere ancora in vigore il codice Rocco.
Quell’articolo 414 non era mai stato usato prima con­tro l’opinione di una per­sona, ma ho voluto sot­to­li­neare il con­flitto tra l’articolo 21 della Costi­tu­zione che garan­ti­sce la nostra libertà di espres­sione e quell’articolo del codice penale fasci­sta che invece la nega. Que­sta era la posta in gioco nel pro­cesso, al di là del mio tra­scu­ra­bi­lis­simo caso per­so­nale. Aveva un peso per sta­bi­lire la tem­pe­ra­tura della libertà di parola: se sof­fre di feb­bre, aggre­dita da una volontà di cen­sura, o se è sfeb­brata ed è sana.

E qual è la dia­gnosi?
La sen­tenza dice che l’articolo 21 della Costi­tu­zione gode di ottima salute: il ten­ta­tivo di sabo­tag­gio da parte della pub­blica accusa è stato respinto.

La mini­stra di Giu­sti­zia fran­cese, Chri­stiane Tau­bira, ha twit­tato due volte in suo onore. «#Erri­De­Luca, quando tutto sarà scom­parso die­tro all’ultimo sole, resterà la pic­cola voce dell’uomo, citando ancora Ten­nes­see Wil­liams», scrive nel primo post. Men­tre nel secondo la Guar­da­si­gilli fran­cese usa una delle poe­sie del comu­ni­sta Louis Ara­gon per salu­tare la sen­tenza nella quale, a suo giu­di­zio, sfuma la giu­sti­zia salo­mo­nica.
Non lo sapevo. Posso solo dire che da noi un mini­stro di giu­sti­zia che cita uno scrit­tore come minimo sbaglia.

In que­sta vicenda, ha sen­tito più vicine le isti­tu­zioni fran­cesi che quelle ita­liane?
La Fran­cia si è espressa al mas­simo livello delle sue isti­tu­zioni, con­si­de­ran­domi un suo cit­ta­dino: il pre­si­dente della Repub­blica fran­cese è inter­ve­nuto più volte su que­sto caso.

Lo stesso Fra­nçois Hol­lande avrebbe tele­fo­nato a Renzi per invo­care cle­menza nei suoi con­fronti. Che lei sap­pia, è vero?

osì risulta dal Jour­nal Du Diman­che, ed è evi­dente che que­sta noti­zia non può essere uscita che dall’Eliseo. Il pre­si­dente fran­cese ha evi­den­te­mente per­messo che la noti­zia diven­tasse pub­blica. Dun­que, è una cosa certa. La Fran­cia, attra­verso il suo mas­simo espo­nente, si è tirata fuori da que­sta sto­ria: è come se avesse detto «una con­danna di que­sto tipo non è con­ce­pi­bile per noi, non in nome dei francesi».

Secondo lo stesso set­ti­ma­nale fran­cese, però, il pre­mier ita­liano non avrebbe mostrato «alcuna indul­genza». E comun­que ieri Palazzo Chigi ha smen­tito «il merito e le cir­co­stanze» della noti­zia.

egare l’evidenza è uno degli stati dell’ubriachezza. Ma tra Renzi e Hol­lande io credo al pre­si­dente fran­cese, ovviamente.

Lei ha avuto con­tatti per­so­nali con le isti­tu­zioni d’Oltralpe? Per­ché l’hanno presa così a cuore?

No, mai avuto con­tatti. Lo fanno solo per­ché sono uno scrit­tore. E uno scrit­tore incri­mi­nato per le sue parole viene adot­tato da quella società civile, da quella opi­nione pub­blica. È già suc­cesso ad altri scrit­tori, che erano in situa­zioni ben peg­giori delle mie, di tro­vare lì una seconda cit­ta­di­nanza. Io resto un osti­nato cit­ta­dino ita­liano, non mi fac­cio smuo­vere dalla mia cit­ta­di­nanza, ma lì mi hanno voluto soste­nere come se fossi un loro concittadino.

Prima della sen­tenza ha voluto ripe­tere che per lei la Tav va osta­co­lata e sabo­tata. Voleva farsi capire meglio o sfi­dare il suo giu­dice?
La parola sabo­tag­gio ha tanti signi­fi­cati che non riguar­dano il dan­neg­gia­mento fisico. Non volevo che il verbo «sabo­tare», che ha piena cit­ta­di­nanza nel voca­bo­la­rio ita­liano, fosse ridotto a que­sto: a un gua­sto mec­ca­nico. O che fosse cen­su­rato da una con­danna penale. D’altra parte, anche que­sta incri­mi­na­zione con­tro di me voleva sabo­tare la libertà di parola. Ho detto che se quelle mie parole erano un cri­mine, non solo ho ripe­tuto il cri­mine ma lo avrei con­ti­nuato a ripetere.

Adesso che «è stata impe­dita un’ingiustizia», come ha detto lei, c’è da fare qual­cosa ancora su que­sto fronte?
Intanto è stato fer­mato un ten­ta­tivo di cen­sura che poteva essere un pre­ce­dente. Dun­que, le per­sone si pos­sono sen­tire più inco­rag­giate nella loro libertà di espres­sione. Ma c’è ancora molto da fare per­ché le lotte delle popo­la­zioni rie­scano ad avere accesso ai canali di infor­ma­zione che costrui­scono l’opinione pubblica.

E sulla Tav?
La Tav della Val di Susa — sedi­cente «alta velo­cità», parole che sono una frot­tola oltre che una truffa — è un’opera che non si farà. Si sabo­terà. Da sola: per man­canza di coper­tura finanziaria.

Nell’aula giu­di­zia­ria c’erano molti val­su­sini…
Sì, e giu­sta­mente con­si­de­rano que­sta asso­lu­zione una loro vit­to­ria, per­ché è stata una delle rare volte in cui qual­cuno impe­gnato a con­tra­stare la Tav è stato assolto.

Un'analisi inquietante ma corrispondente al vero delle complicità oggettive del rottamatore d'Italia. «Se a Renzi rie­sce di deva­stare il Paese, è perché in tanti ne sosten­gono varia­mente l’azione».

Il manifesto, 18 ottobre 2015

Dinanzi all’enormità di quanto sta acca­dendo occorre essere esi­genti sul ter­reno ana­li­tico. Com’è pos­si­bile che tutto que­sto avvenga? Chi ne è responsabile?

Certo, Renzi è oggi l’incontrastato pro­ta­go­ni­sta della scena poli­tica ita­liana. Chi si è a lungo baloc­cato col man­tra del poli­tico «senza visione» ricon­si­deri le deci­sioni assunte in que­sti venti mesi di governo .La buona scuola e il Jobs Act; le pri­va­tiz­za­zioni e i tagli alla spesa sociale; il for­sen­nato attacco al sin­da­cato; il com­bi­nato tra Ita­li­cum e deva­sta­zione iper-presidenzialista della Costi­tu­zione; l’occupazione mili­tare dei ver­tici Rai; lo scem­pio siste­ma­tico dei rego­la­menti par­la­men­tari; lo sdo­ga­na­mento di poli­tici pluri-inquisiti.

Tutto que­sto non sarà «visione», sarà sem­plice istinto, ma di certo non è dif­fi­cile leg­gervi una tra­iet­to­ria lineare di stampo auto­ri­ta­rio e thatcheriano.

Ma Renzi non è solo. Da solo o col solo cer­chio magico dei Lotti e dei Del­rio non potrebbe imporre al Paese il pro­prio dise­gno. Un discorso serio chiede a que­sto punto un’analisi attenta delle filiere di con­ni­venza e di com­pli­cità che gli per­met­tono di dila­gare con­so­li­dando il pro­prio potere e tra­sfor­mando pezzo dopo pezzo il sistema poli­tico e gli assetti sociali del Paese. Il tutto senza colpo ferire: senza con­flitti, senza resi­stenza né sostan­ziale oppo­si­zione su qual­si­vo­glia terreno.

Per un verso que­sto discorso guarda in alto, ai man­danti interni e inter­na­zio­nali. Renzi piace ai poteri forti dell’imprenditoria pri­vata, ai ric­chi e ai grandi inve­sti­tori, agli alti gradi della diri­genza pub­blica. È gra­dito alle cor­po­ra­zioni pro­fes­sio­nali, ai corpi chiusi dello Stato, al pos­sente eser­cito degli eva­sori fiscali. E va a genio, non da ultimo, alle cen­trali del potere euro­peo e atlan­tico, di cui non mette mai in discus­sione, se non a parole, inte­ressi e scelte.

Ma nem­meno tutto que­sto basta. Il ren­zi­smo non è una dit­ta­tura, ricatti e inti­mi­da­zioni non tol­gono che le isti­tu­zioni fun­zio­nino ancora in base alla rela­tiva auto­no­mia di ogni sin­gola arti­co­la­zione dello Stato e della società civile. E la stessa gran­cassa media­tica senza la quale il regime implo­de­rebbe non obbe­di­sce ai det­tami di un’occhiuta cen­sura gover­na­tiva. Insomma, i poteri alti sug­ge­ri­scono e pro­teg­gono, ma nean­che il loro appog­gio da solo baste­rebbe a garan­tire al capo del governo le con­di­zioni neces­sa­rie all’efficacia e alla con­ti­nuità di un’azione a suo modo «rivo­lu­zio­na­ria», nel senso della sov­ver­sione dell’ordinamento demo­cra­tico e costituzionale.

Dove guar­dare allora? Il sug­ge­ri­mento è quello di ripren­dere in mano l’ultimo libro di Primo Levi, scritto pochi mesi prima di por fine alla vita, un po’ il suo testa­mento spi­ri­tuale. Ne I som­mersi e i sal­vati i Lager sono con­si­de­rati un labo­ra­to­rio per l’analisi delle dina­mi­che di potere, un micro­co­smo in qual­che modo cor­ri­spon­dente all’intera società tede­sca. Ciò che col­piva Levi era il fatto che per­sino lì, nell’istituzione para­dig­ma­tica della vio­lenza bru­tale e della nega­zione dell’umano, il potere fun­zio­nasse anche gra­zie al sup­porto di una parte delle sue stesse vit­time. Che per­sino lì dove la fero­cia del potere mili­tare trion­fava, l’ordine era garan­tito anche dall’obbedienza, la quale impli­cava a sua volta una qual­che forma di con­senso, di con­ni­venza, di complicità.

In quel micro­co­smo «intri­cato e stra­ti­fi­cato» si ripe­teva «la sto­ria incre­sciosa e inquie­tante dei gerar­chetti che ser­vono un regime alle cui colpe sono volu­ta­mente cie­chi; dei subor­di­nati che fir­mano tutto, per­ché una firma costa poco; di chi scuote il campo ma accon­sente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro peg­giore di me”». In poche pagine Levi sti­lizza un’analisi delle moti­va­zioni (cor­ru­zione, viltà, dop­piezza, cal­colo oppor­tu­ni­stico) che indu­ce­vano la «classe ibrida» degli oppressi a col­la­bo­rare con l’oppressore. In que­sto senso (e sol­tanto in que­sto) la «zona gri­gia» dei kapos e delle Squa­dre spe­ciali del Lager cor­ri­spon­deva a quella assai più vasta dei cit­ta­dini tede­schi (ed euro­pei) che – senza l’attenuante dell’immediata minac­cia della vita – sosten­nero il regime nazi­sta, appro­fit­ta­rono dei pri­vi­legi che ne trae­vano e varia­mente coo­pe­ra­rono con i suoi crimini.

Lo schema è gene­rale e le dif­fe­renze, molto pro­fonde, non ingan­nino. A giu­di­zio di Levi il modello del Lager serve a indi­vi­duare ingre­dienti costanti delle dina­mi­che di potere. Serve a capire come il potere operi anche in una società coman­data da uno Stato tota­li­ta­rio. E serve a mag­gior ragione a com­pren­dere come esso fun­zioni in un Paese demo­cra­tico, dove la rela­zione poli­tica è carat­te­riz­zata da un tasso di vio­lenza incom­pa­ra­bil­mente minore. Se otte­nere con­senso era neces­sa­rio per­sino nel Lager, è evi­dente che senza con­senso non si potrebbe gover­nare una società come la nostra, dove il potere è costretto a fare un uso molto più parco della vio­lenza e dove quindi è assai più com­pli­cato pre­ser­vare le gerar­chie costi­tuite e i rap­porti di forza.

Allora, per tor­nare a Renzi, dovremmo smet­terla di farne la nuova incar­na­zione del demo­nio assol­vendo in blocco chi gli per­mette di distrug­gere in alle­gria. Se a Renzi rie­sce di deva­stare il Paese, è per­ché in tanti ne sosten­gono varia­mente l’azione. I suoi com­pa­gni di par­tito di tutte le stirpi e a ogni livello in primo luogo, non­ché quanti si osti­nano nono­stante tutto a votarlo. Gli alleati del suo Pd in seconda bat­tuta, nelle ammi­ni­stra­zioni e nelle varie sedi del sot­to­go­verno. E poi i diversi seg­menti della società civile – pezzi del sin­da­cato e del mondo coo­pe­ra­tivo; dell’associazionismo, dell’informazione e dell’intellettualità – che bril­lano per con­corde silen­zio come se, via Ber­lu­sconi, qual­siasi pro­blema di demo­cra­zia e di giu­sti­zia sociale fosse per incanto risolto. È vero, ogni chia­mata di cor­reo è sgra­de­vole, tanto più se indi­scri­mi­nata. Ma la fur­be­sca col­la­bo­ra­zione col potere da parte dei subor­di­nati e per­sino degli oppressi è addi­rit­tura scan­da­losa. E, giunte le cose al punto in cui sono, fare finta di nulla non ha pro­prio alcun senso.

Per l'ignoranza dei più, la follia dei governanti, la complicità dei mass media rischiamo l'approvazione un trattato che può «vio­lare i diritti umani, comportando disoc­cu­pa­zione, danni all'agri­col­tura, frodi ali­men­tari, deva­sta­zione dell’ambiente, inqui­na­mento delle acque, con­ta­mi­na­zione radioat­tiva, defor­ma­zioni genetiche». Il manifesto, 17 ottobre 2015

In molti paesi civili, di là e di qua dall’Atlantico, dagli stessi Stati uniti alla Ger­ma­nia, il Ttip è oggetto di cri­ti­che severe e ben fondate.

Nel nostro paese (“Ahi serva Ita­lia!” era l’invettiva di Paolo Sylos Labini) le cri­ti­che sono rare e mino­ri­ta­rie. Molti, invece, i giu­dizi entu­sia­stici; dalla Con­fin­du­stria al Pre­si­dente del Con­si­glio. Mat­teo Renzi ha defi­nito «vitale» il Trat­tato e soste­nuto che «la sua man­cata con­clu­sione sarebbe un gigan­te­sco auto­gol per il nostro continente».

Sia ai cri­tici sia ai soste­ni­tori del Ttip, e soprat­tutto a que­sti, sarebbe utile la let­tura di un docu­mento delle Nazioni Unite: Fourth report of the Inde­pen­dent Expert on the pro­mo­tion of a demo­cra­tic and equi­ta­ble inter­na­tio­nal order. È un docu­mento circa le con­se­guenze giu­ri­di­che del Ttip, con­se­guenze non meno gravi — la pri­va­tiz­za­zione del diritto — di quelle imme­dia­ta­mente economiche. Ne riprendo qui alcuni passi.

«È forse ammis­si­bile che a un inve­sti­tore che spe­cula o a una banca che con­cede pre­stiti senza garan­zie sia comun­que assi­cu­rato un pro­fitto? No: qual­che volta gli inve­sti­tori vin­cono, qual­che volta per­dono. Ciò che è anor­male è che un inve­sti­tore pre­tenda la garan­zia di un pro­fitto, e che si crei un sistema paral­lelo di riso­lu­zione stra­giu­di­ziale delle con­tro­ver­sie, un sistema che nor­mal­mente non è indi­pen­dente, tra­spa­rente, affi­da­bile o almeno impu­gna­bile, e soprat­tutto che si cer­chi di usur­pare le fun­zioni dello Stato. Si trat­te­rebbe di una pri­va­tiz­za­zione dei pro­fitti e di una socia­liz­za­zione delle per­dite (all’Onu si ricor­dano di Erne­sto Rossi!)».

Nono­stante le ana­lisi dell’Unctad, di J. Sti­glitz, P. Krug­man e J. Capaldo, le società trans­na­zio­nali con­ti­nuano a spin­gere i governi verso nuovi accordi di inve­sti­menti inter­na­zio­nali con clau­sole di Riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie tra inve­sti­tore e Stato (Investor-state dispute set­tle­ment: Isds), clau­sole che potreb­bero por­tare a gravi crisi inter­na­zio­nali. La ragione addotta è che gli inve­sti­tori non si fidano dei sistemi giu­di­ziari nazio­nali, e pre­fe­ri­scono creare una giu­ri­sdi­zione sepa­rata per le con­tro­ver­sie com­mer­ciali; tut­ta­via è dif­fi­cile capire per­ché mai uno Stato dovrebbe accet­tare l’implicita squa­li­fi­ca­zione dei suoi tri­bu­nali nazio­nali e con­sen­tire la crea­zione di un sistema pri­va­tiz­zato di riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie: piut­to­sto che andare in causa davanti ai tri­bu­nali nazio­nali, gli inve­sti­tori si affi­dano a tre arbi­tri che deci­de­ranno se i loro diritti sono stati vio­lati da uno Stato.

Ciò è tanto più grave quando si tratta di atti­vità eco­no­mi­che e finan­zia­rie che pos­sono vio­lare i diritti umani, in quanto com­por­tino disoc­cu­pa­zione, danni alla agri­col­tura e frodi ali­men­tari, deva­sta­zione dell’ambiente, inqui­na­mento delle acque, con­ta­mi­na­zione radioat­tiva, defor­ma­zioni genetiche.

Di qui una prima rac­co­man­da­zione: «Gli Stati dovreb­bero abo­lire il sistema di riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie tra inve­sti­tori e Stato, e sosti­tuirlo con una Corte degli inve­sti­menti internazionali».
Il docu­mento dell’Onu si può tro­vare a que­sto indi­rizzo inter­net: http:// www .ref world .org/ p d f i d / 5 5 f 2 8 f 2 e 4 . pdf. Un cenno, tut­ta­via, a que­sti «inve­sti­tori» inter­na­zio­nali, tanto cor­teg­giati dal governo ita­liano e che sono grandi imprese mul­ti­na­zio­nali e grandi spe­cu­la­tori finan­ziari quali Blac­kRock e Gold­man Sachs — ben cono­sciuti e ben intro­dotti in Italia.

Ora un inve­sti­mento è dav­vero tale se aumenta lo stock di capi­tale di un paese, per esem­pio se si costrui­sce una nuova fab­brica, si impie­gano nuove mac­chine e si assu­mono nuovi lavo­ra­tori. Se un «inve­sti­tore» di un altro paese com­pera una impresa ita­liana, si tratta sol­tanto di un pas­sag­gio di pro­prietà e di poteri, con con­se­guenze ovvie e aggra­vate dalla pri­va­tiz­za­zione del diritto di cui si è detto.

Notizia interessante per quelli che invece del cervello hanno un portafoglio. «Il lavoro straniero vale 10 miliardi e paga le pensioni a 620 mila italiani. La Fondazione Moressa calcola il peso dei contributi previdenziali di oltre 2,3 milioni d’immigrati».

La Repubblica, 17 ottobre 2015

In Italia 620mila anziani devono ringraziare gli immigrati: sono loro a “pagargli” la pensione. Nell’ultimo anno infatti i lavoratori stranieri hanno versato ben 10,29 miliardi di euro in contributi previdenziali. Lo sa bene l’Inps: essendo prevalentemente in età lavorativa, i migranti sono soprattutto contribuenti. Non a caso, oggi la popolazione con più di 75 anni rappresenta l’11,9% tra gli italiani, solo lo 0,9% tra gli stranieri.

A pesare il tesoretto dei “nuovi italiani” è il Rapporto 2015 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, che verrà presentato il 22 ottobre a Roma.

Secondo le stime Istat, tra 10 anni gli stranieri supereranno quota 8 milioni, con un’incidenza del 13,1% sulla popolazione complessiva. Nel 2050, rappresenteranno un quinto della popolazione, mentre un italiano su quattro (23,1%) avrà più di 75 anni. «Dati che evidenziano il peso degli immigrati nel nostro Paese – sottolineano i ricercatori della Moressa – oggi, infatti, 1 italiano su 10 ha più di 75 anni; tra gli stranieri 1 su 100. In altre parole, nei prossimi decenni la popolazione italiana è destinata a invecchiare, mentre tra gli stranieri aumenteranno gli adulti in età lavorativa (oggi abbiamo 1 milione di minori)». E così già oggi il contributo economico dell’immigrazione si fa sentire soprattutto sui contributi pensionistici. «Contributi che vanno a sostenere il sistema nazionale del welfare (oltre alle pensioni, anche altri trasferimenti come maternità e disoccupazione) che si rivolge prevalentemente alla popolazione autoctona. Infatti, la voce “pensioni” è una delle voci principali della spesa pubblica nazionale e, vista l’età media, la popolazione straniera ne beneficia in misura molto marginale. Anzi, gli stranieri sono soprattutto contribuenti».

Grazie agli ultimi dati disponibili delle dichiarazioni dei redditi 2014 (anno di imposta 2013), la Fondazione Moressa fa una stima del contributo previdenziale dei nati all’estero. Nel tempo l’occupazione straniera nel nostro Paese è aumentata arrivando a quasi 2,2 milioni nel 2013 e 2,3 milioni nel 2014. Nel 2013 i loro contributi previdenziali hanno raggiunto quota 10,29 miliardi. «Ripartendo il volume complessivo per i redditi da pensioni medi, si può affermare che i lavoratori stranieri pagano la pensione a 620mila anziani italiani. Inoltre – scrivono i ricercatori – sommando i contributi versati negli ultimi cinque anni si può calcolare il contributo degli stranieri dal 2009 al 2013 pari a 45,68 miliardi di euro, volume sufficiente per una manovra finanziaria».

Non è tutto. Il Rapporto 2015 elenca altri aspetti dell’immigrazione che incidono sull’economia del Paese. Il primo riguarda il Pil prodotto dai 2,3 milioni di occupati stranieri: un valore aggiunto di 125 miliardi, pari all’8,6% della ricchezza nazionale. A livello fiscale, i contribuenti stranieri hanno dichiarato nel 2014 redditi per 45,6 miliardi, versando 6,8 miliardi di Irpef. E ancora: le imprese condotte da persone nate all’estero sono 524.674 (8,7% del totale) e producono 94,8 miliardi di euro di valore aggiunto. Nel periodo 2009/2014, gli imprenditori stranieri sono aumentati del 21,3%, mentre i nati in Italia sono diminuiti (-6,9%). «Infine – concludono gli studiosi della Fondazione – sebbene non sia possibile quantificare tutti i costi e benefici diretti e indiretti della presenza straniera, il confronto tra i flussi finanziari in entrata e in uscita aiuta a dare la dimensione dell’impatto economico dell’immigrazione: + 3,9 miliardi di saldo attivo per le casse dello Stato ».

«La Repubblica, 17 ottobre 2015

IN quella sterminata topografia dell’immaginario collettivo che è la cosiddetta geografia dei Luoghi Santi, costruzione mitica cristiano-bizantina sedimentata da due millenni tra sangue e leggende, si esprimono da sempre i conflitti fra le tre religioni cosiddette del libro: giudaismo, cristianesimo e islam, che poggiano sulla stessa tradizione sapienziale in origine espressa da quel caotico e oscuro ancorché prodigiosamente suggestivo racconto di gesta “sacre” che è l’Antico Testamento giudaico. In quella topografia, la cosiddetta tomba di Giuseppe a Nablus ora incendiata nuovamente dai manifestanti palestinesi per la costernazione del loro presidente Abu Mazen, ultimo atto dell’escalation di violenza che da due settimane insanguina lo scacchiere arabo- israeliano, ha una posizione particolare.

Non si tratta solo della sua dislocazione strategica, nel cuore della Cisgiordania, in un luogo, Nablus, l’antica Neapolis dei Flavi, intriso di storia, sangue e distruzione dai tempi dei romani, dei bizantini, degli arabi, dei mamelucchi, dei turchi, dei crociati, fino ai recenti e inestinti conflitti che il Novecento ha trasmesso al secondo millennio; né si tratta solo del suo statuto di enclave cultuale multireligiosa, più volte passata di mano nel pendolo della diplomazia internazionale tra la guerra dei sei giorni, la Seconda Intifada e il Defensive Shield del 2002. Si tratta anche, e soprattutto, della sua collocazione in un’altra geografia: quella storica e psicologica dei simboli.
La storia, anzi le storie di Giuseppe, occupano un posto particolare nella Bibbia. L’ultima declinazione del mito di Giuseppe è nella tetralogia di Thomas Mann, dove viene usato per raccontare in trasparenza la Germania dell’inizio del Novecento, la montata dell’antisemitismo nell’ascesa del partito nazionalsocialista e in generale i grandi temi della storia umana: la violenza fratricida, il fondamentalismo religioso, il rapporto tra giustizia e potere, la possibilità di riscatto di chi ne è privato e fatto schiavo, la fondamentale inguaribilità della politica. Come dice Abramo a Dio in Giuseppe e i suoi fratelli: «Se vuoi il mondo, non puoi pretendere la giustizia; ma se la cosa che ti preme di più è la giustizia, allora per il mondo è finita».

La suggestione esercitata dai capitoli 37-50 della Genesi sulle religioni monoteiste, la carica mitica del personaggio di Giuseppe conducono all’invenzione del suo monumento. La leggenda sulla presenza delle ossa di Giuseppe a Sichem, nei suburbi di Neapolis, compare per la prima volta in Eusebio, il teorico ecclesiastico dell’età costantiniana, in contemporanea con l’invenzione della topografia dei Luoghi Santi da parte di quella geniale comunicatrice che fu Elena, la madre del primo imperatore Costantino. Un’altra donna viaggiatrice, Paola, l’aristocratica dama romana amica di Girolamo, con il suo primo avvistamento della cosiddetta tomba dei dodici patriarchi diede vita alle leggende che dal V secolo in poi intrecciarono la loro propaganda ai conflitti tra samaritani e bizantini, in un caleidoscopio di segni, simboli, immagini oniriche, che non prima del XII secolo, alla fine del regno crociato di Tancredi d’Altavilla, si materializzarono nelle scarne e dubbie tracce di marmo avvistate dai grandi pellegrini del medioevo globale come Beniamino di Tudela e Guglielmo di Malmesbury.

La tradizione di un sepolcro di Giuseppe, se pure non supportata dal Corano, fu suffragata dai lungimiranti viaggiatori islamici del XIV secolo, anzitutto Ibn Battuta, e poi da tutta la schiera dei viaggiatori moderni che descrivono l’ancora virtuale weli del patriarca come luogo di culto misto per ebrei e cristiani, maomettani e samaritani. Fu ancora molto dopo, alla fine dell’Ottocento, nell’ultimo fiorire degli entusiasmi coloniali, che una vera e propria struttura architettonica, ancora ibrida, ancora equivoca, ma effettivamente esistente e visibile, si manifestò, ad incontrare peraltro gli albori della fotografia. Della tomba di Giuseppe furono così i viaggiatori a creare la realtà, in una storia stratificata e multireligiosa di testimonianze e credenze che non poté mai scindersi dalla storia della politica e dei suoi conflitti.
Se i Luoghi Santi sono il riflesso dell’immaginario collettivo da un lato e il prodotto degli scontri fra religioni dall’altro, se sono il punto di intersezione tra questi due inscindibili piani dell’esperienza umana, l’incendio che la storia recente ha prodotto nell’attuale scenario mediorientale non ha cessato di coinvolgere questi ed altri monumenti “sacri”, in una dinamica che gli antropologi definirebbero, appunto, sacrificale. Dagli idoli di Ninive al tempio di Bel a Palmira, a riaccendere la scintilla è la potenza primaria dei simboli. La figura di Giuseppe è simbolo dell’ineluttabilità della violenza tra fratelli, della contrapposizione etnica, dell’intolleranza, ma anche del loro fallimento, nel trasformarsi dello schiavo in padrone grazie al prestigio dell’irrazionale, al potere profetico della chiaroveggenza, al governo dei meccanismi della psiche: i sogni dei compagni di prigionia, poi del faraone. La sua tomba, vuota come non può non essere quella di un mito, condensa nella stessa esistenza materiale una storia perenne.
L’azione degli insorti che l’hanno incendiata sposta la nostra attenzione dalla geografia reale e dalle sue sofferte, contrastate frontiere a una faglia più profonda, una linea non orizzontale ma verticale: quella del passato e delle sue cicatrici. Dopo le ebollizioni postcoloniali, il grande sisma al quale assistiamo, che ha per epicentro la Palestina e come scenario il Medio Oriente, è anche una guerra di simboli, e per questo colpisce anche i monumenti. Come dimostrato dal blitz turco al mausoleo di Suleyman Shah, altra tomba simbolo di un’antica identità, la riscossa islamica ha come vero bottino il passato. Solo rievocandolo possiamo comprendere i suoi atti distruttivi di appropriazione simbolica della tradizione e di eversione dell’ormai superato ordine occidentale.
«Questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti».

Huffingtonpost.it, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)

Tempo fa abbiamo visto le immagini, a Film Luce, di Marchionne e Renzi in visita allo stabilimento Fiat di Melfi. Abbiamo sentito resoconti roboanti del successo dei due leader tra i dipendenti dell'azienda, desiderosi solo di farsi un selfie con loro. In realtà il personale attorno ai due era accuratamente selezionato, ma forse non abbastanza visto che sulla rete ha spopolato un video, ove si vedeva una lavoratrice ostentatamente rifiutare la stretta di mano al presidente del consiglio. In quelle immagini di regime abbiamo visto lo sfolgorio delle tute bianche dei lavoratori, presentate come simbolo della tecnologia avanzata nella costruzione delle automobili. In realtà le condizioni di lavoro a Melfi sono durissime, la fatica e lo stress son quelle dei tempi di Charlot, ma le tute bianche fanno sembrare i lavoratori come se operassero nella Silicon Valley.

Il bianco però comporta un problema, si sporca facilmente e per le donne della Fiat questo è diventato un doppio assillo. Sì perché i pantaloni bianchi son ancora più difficili da portare quando la diversità biologica delle donne reclama i suoi diritti. Alla catena di montaggio non ci sono pause in più, non ci sono lavori più facili, non ci si può neppure sedere. Verso la diversità delle donne non c'è alcun rispetto, anzi alcune operaie hanno denunciato di dover lavorare appiccicate ad addetti maschi, perché il taglio dei tempi ha comportato anche quello degli spazi.

Non potendo avere il sacrosanto riconoscimento dei propri tempi biologici, come forma di tutela elementare della propria dignità le lavoratrici hanno chiesto almeno di poter indossare pantaloni scuri sotto i giubbotti bianchi. Apriti cielo, la burocrazia aziendale è andata in tilt. Come? Assumersi la responsabilità di cambiare il colore alle tute, renderle bicolori addirittura? Ma scherziamo, sarebbe un messaggio allusivo al disordine, sovversivo persino. Il gran capo di Detroit non lo accetterebbe mai, avranno pensato nel terrore i capetti di Melfi e quindi hanno respinto la richiesta.

Ma quelle operaie sono abituate a non arrendersi tanto facilmente e così hanno lanciato una campagna pubblica per la loro dignità nel vestire. 500 di esse, tutte quelle non assunte con contratti a termine, hanno sottoscritto una petizione che chiedeva i pantaloni scuri. A questo punto la direzione aziendale non poteva più ignorare la richiesta, ma, come avviene in tutti i regimi stupidamente autoritari, la risposta ha peggiorato la situazione.

I manager della Fiat hanno subito convocato gli amici di Fim, Uilm, Fismic, Ugl, i sindacati firmatari di tutto e che tutto son sempre disposti a firmare. In una riunione composta di soli maschi si è deciso di respingere ancora una volta la richiesta di pantaloni scuri, ma di offrire alle operaie un super pannolone da indossare sotto il bianco. Con goffo francesismo azienda e sindacati complici hanno annunciato che le operaie avrebbero avuto delle coulottes benignamente pagate dalla Fiat.

Naturalmente le lavoratrici si son giustamente ancora più arrabbiate e la vicenda è ancora aperta. A chi esalta la flessibilità della lavoro, la competitività, la produttività come basi della modernità, questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti. Matteo Renzi ha recentemente affermato che a Sergio Marchionne dovrebbe essere fatto un monumento. Sarebbe più realistico se in esso il capo della Fiat fosse raffigurato mentre indossa un pannolone.

«Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazio­nale della sini­stra. Per que­sto la nuova capa­cità uto­pica della sini­stra deve fon­darsi su una nuova con­ce­zione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione poli­tica pla­ne­ta­ria del potere».

Il manifesto, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)

C’è vita se c’è capa­cità uto­pica, dove per uto­pia s’intende anche l’immaginazione di “luo­ghi di vita” buoni, desi­de­rati, da rea­liz­zare. La sini­stra - l’insieme delle forze sociali orga­niz­zate anche piano poli­tico al ser­vi­zio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani rispetto a diritti e dignità - ha pur­troppo spe­ri­men­tato a sue spese la per­dita di imma­gi­na­zione e capa­cità utopica.

I gruppi domi­nanti sono riu­sciti, a par­tire dagli anni ’70, ad imporre nuo­va­mente la loro nar­ra­zione della vita, della società e del mondo. E per due ragioni prin­ci­pali. Da un lato, ritor­nati al potere all’epoca di Rea­gan e That­cher, hanno ope­rato una mas­sic­cia de-costruzione ideo­lo­gica e sociale dello Stato del wel­fare. Dall’altro, non avendo svi­lup­pato una visione poli­tica auto­noma della scienza e della tec­no­lo­gia, la sini­stra non ha potuto gio­care alcun ruolo inno­va­tore influente sulle stra­te­gie di con­trollo ed uso delle nuove tec­no­lo­gie del vivente, cogni­tive, dell’informazione e della comu­ni­ca­zione, ener­ge­ti­che e delle tec­no­lo­gie dei mate­riali, sulla base delle quali l’economia mon­diale e le società “svi­lup­pate” sono state pro­fon­da­mente ristrutturate.

Le nuove nar­ra­zioni “posi­tive” del mondo e delle tra­sfor­ma­zioni sociali sono cosi diven­tate mono­po­lio dei gruppi domi­nanti. Le sini­stre sono state rele­gate al ruolo secon­da­rio di “forze di rea­zione”. I domi­nanti hanno invece raf­for­zato il loro potere in quanto fis­sa­tori dell’agenda poli­tica pla­ne­ta­ria: al cen­tro del dibat­tito filo­so­fico, poli­tico e cul­tu­rale c’ è stata solo la loro uto­pia (misti­fi­ca­trice) della glo­ba­liz­za­zione eco­no­mica, da loro data come crea­zione ine­vi­ta­bile e irre­si­sti­bile (senza alter­na­tive) dei luo­ghi di vita dell’umanità.

Nel corso degli anni ’90, c’è stato un risve­glio uto­pico a sini­stra. Mi rife­ri­sco alla tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie inter­na­zio­nali, al prin­ci­pio di soste­ni­bi­lità in alter­na­tiva all’imperativo della cre­scita eco­no­mica infi­nita, al suc­cesso con­tro l’Ami ed l’Omc (Seat­tle), al bilan­cio par­te­ci­pa­tivo, al buem vivir, al lan­cio del Forum sociale mon­diale. Pur­troppo, si è trat­tato di un feno­meno di corta durata. L’incapacità delle sini­stre d’integrare e fede­rare le loro forze in azioni e pro­grammi comuni mon­diali dure­voli, ha per­messo ai gruppi domi­nanti, di scon­fig­gerle ai vari livelli nazio­nali in nome della nuova moder­nità legata alla “glo­ba­liz­za­zione delle rivo­lu­zioni scien­ti­fi­che e tec­no­lo­gi­che” e della lotta con­tro il pre­teso nuovo nemico mon­diale, il ter­ro­ri­smo. Se a ciò si aggiun­gono le ripe­tute crisi eco­no­mi­che e finan­zia­rie che da più di 25 anni hanno deva­stato i tes­suti sociali e le comu­nità locali, nazio­nali, con­ti­nen­tali e mon­diali, si capi­sce il per­ché mai come oggi la potenza, vio­lenta del sistema domi­nante è stata cosi grande a livello mon­diale (il pia­neta) e glo­bale (in tutti i campi).

Ora­mai, una larga parte delle sini­stre del “Nord del mondo” ritiene che la sola pos­si­bi­lità rea­li­sta di dare spa­zio ad una forza poli­tica di sini­stra capace di con­qui­stare il potere di gover­nare è di inno­vare a par­tire da e restando all’interno del sistema. De facto, la capa­cità uto­pica della sini­stra si esprime oggi essen­zial­mente attorno e sulle stesse aree su cui lavo­rano le inno­va­zioni dei gruppi rifor­mi­sti delle forze domi­nanti, cen­trate sull’emergenza e lo svi­luppo del “‘nuovo” impren­di­tore sociale, chia­mato “impren­di­tore col­let­tivo”, per dif­fe­ren­ziarlo dall’imprenditore indi­vi­duale del capi­ta­li­smo tra­di­zio­nale. Penso al vasto e pro­li­fico insieme di inno­va­zioni ope­rate all’insegna dell’economia del bene comune, di comu­nione, dell’economia cir­co­lare, della tran­sfor­ma­tive society, della tran­si­tion society, dell’economia blu, dell'eco­no­mia col­la­bo­ra­tiva, della sha­ring eco­nomy, dell’economia sociale e soli­dale, della nuova finanza.

La ragione di essere di que­ste incu­ba­trici uto­pi­che è la ricerca delle nuove forme di pro­du­zione e di accu­mu­la­zione di ric­chezza all’era delle tec­no­lo­gie di reti, fluide, ad ele­vata den­sità e varietà di dati in rapida cumu­la­zione, ad altis­sima capa­cità tra­sfor­ma­trice, irri­du­ci­bili, omni-operative.

Due gli inse­gna­menti gene­rali per le sini­stre del mondo, ed in par­ti­co­lare per la sini­stra in Europa. Primo. Non v’è capa­cità uto­pica da soli­tari. La grande forza uto­pica di Syriza (in breve: la ri-organizzazione euro­pea del debito) è stata dura­mente cal­pe­stata per­ché nes­sun altro governo e popolo euro­peo se n’è fatto alleato espli­cito e con­vinto. Ri-costruire una capa­cità uto­pica forte e solida della sini­stra è un’opera di lungo periodo che deve avve­nire su basi euro­pee e mon­diali (l’esperienza dell’acqua bene comune insegna).

Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazio­nale della sini­stra. La lotta con­tro il diritto di pro­prietà intel­let­tuale sul vivente deve essere con­ti­nen­tale e mon­diale. Lo stesso vale della lotta, da rin­no­vare, con­tro gli arma­menti. Idem per quanto riguarda la messa fuori legge dei fat­tori strut­tu­rali gene­ra­tori dei pro­cessi d’impoverimento per natura trans­na­zio­nali e mon­diali. Per que­sto la nuova capa­cità uto­pica della sini­stra deve fon­darsi su una nuova con­ce­zione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione poli­tica pla­ne­ta­ria del potere. Secondo. Non v’è ricon­qui­sta della capa­cità uto­pica senza un forte radi­ca­mento “locale” delle inno­va­zioni gra­zie alla pro­mo­zione di “comu­nità di vita” glo­cali, cioè senza la tra­du­zione con­creta a livello delle comu­nità locali dei prin­cipi e delle stra­te­gie mon­diali. Que­sto signi­fica l’esistenza di forze sociali por­ta­trici di inte­ressi col­let­tivi mon­diali ma local­mente diver­si­fi­cati e plu­rali. In pas­sato, i con­ta­dini, gli ope­rai, la pic­cola e media bor­ghe­sia, hanno svolto tale ruolo. Nel XXI° secolo, tocca all’umanità, glo­cale per defi­ni­zione, di espri­mere la capa­cità uto­pica del mondo. Il futuro della sini­stra è l’umanità, coscienza sociale della glo­ba­lità della vita e della mon­dia­lità della con­di­zione umana (cit­ta­di­nanza uni­ver­sale plurale).

Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri undici paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli del nuovo Accordo Trans-Pacifico (TPP), un'analisi più seria è fondamentale. Il più grande accordo della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell'importanza del TPP per il "libero scambio". La realtà è che si tratta di un accordo che vuole gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri ­- e farlo per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. Fate attenzione: è evidente dalle principali questioni, sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il TPP non ha niente a che fare con il "libero" scambio.
La Nuova Zelanda ha minacciato di uscire dall'accordo a causa del modo in cui il Canada e gli Stati Uniti gestiscono il commercio di prodotti lattiero-caseari. L'Australia non è contenta del modo in cui gli Stati Uniti e il Messico gestiscono il commercio di zucchero. E gli Stati Uniti non sono soddisfatti del modo in cui il Giappone gestisce il commercio di riso. Questi settori sono sostenuti da ampi blocchi di elettori nei loro rispettivi paesi. E rappresentano solo la punta dell'iceberg del modo in cui il TPP potrebbe portare avanti un'agenda che in realtà contrasta con il libero scambio.
Per iniziare, si consideri quello che l'accordo farebbe per estendere i diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, come è emerso dalle versioni trapelate dal testo oggetto dei negoziati. La ricerca economica mostra chiaramente che tali diritti di proprietà intellettuale promuovono una ricerca che nella migliore delle ipotesi risulta debole. In realtà, è evidente il contrario. Quando la Corte Suprema ha annullato il brevetto di Myriad sul gene BRCA, questo ha portato molte innovazioni che hanno prodotto test migliori e a costi più bassi. Le disposizioni contenute nel TPP invece limiterebbero la competizione aperta e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo – un anatema per il libero scambio.
Il TPP gestirà il commercio di prodotti farmaceutici attraverso una varietà di modifiche di norme apparentemente arcane su questioni come "patent linkage1", "l'esclusività di dati", e i "biofarmaci". Il risultato è che alle compagnie farmaceutiche sarebbe di fatto consentito estendere -­ a volte quasi indefinitamente ­- i loro monopoli sui medicinali brevettati, tenere i generici più economici fuori dal mercato, e impedire ai concorrenti biosimilari di introdurre nuovi farmaci per anni. Questo è il modo in cui il TTP gestirà il commercio del settore farmaceutico se gli Stati Uniti riusciranno nel loro intento.
In modo analogo, si consideri come gli Stati Uniti sperano di usare i TPP per gestire il commercio nell'industria del tabacco. Per decenni, le società statunitensi di tabacco hanno utilizzato meccanismi di aggiudicazione di investitori esteri creati da accordi come il TPP per combattere le normative volte a contenere la piaga sociale del fumo. In base a questi sistemi di regolazione delle controversie tra stato e investitore (ISDS), gli investitori stranieri acquisis

cono nuovi diritti per far causa ai governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sulle normative che, secondo loro, diminuiscono la redditività attesa dei loro investimenti.

Gli interessi delle aziende internazionali promuovono l'ISDS come un sistema necessario per proteggere i diritti di proprietà laddove manca lo stato di diritto e dei tribunali attendibili. Ma questo argomento non ha senso. Gli Stati Uniti stanno cercando lo stesso meccanismo in un mega-accordo simile con l'Unione Europea, l'Accordo Transatlantico per il commercio e gli investimenti, anche se ci sono pochi dubbi sulla qualità degli ordinamenti giuridici e dei sistemi giudiziari europei.

Gli investitori meritano tutela contro l'espropriazione o norme discriminatorie. Ma l'ISDS va ben oltre. L'obbligo di risarcire gli investitori per le perdite di profitti attesi può ed è stato applicato persino laddove le regole non sono discriminatorie e i profitti sono realizzati causando un danno sociale.

La Philip Morris International è attualmente in causa contro l'Australia e l'Uruguay (che non è partner del TPP) che richiedono di apporre sui pacchetti di sigarette delle etichette di avvertenza. Il Canada, minacciato da una simile querela, qualche anno fa ha fatto marcia indietro sull'introduzione di un'etichetta analoga.

Dato il velo di segretezza intorno alle trattative del TPP, non è chiaro se il tabacco verrà escluso da alcuni aspetti dell'ISDS. In entrambi i casi, la questione principale rimane: tali disposizioni rendono difficile ai governi svolgere le loro funzioni basilari ­- proteggere la salute e la sicurezza dei loro cittadini, assicurare la stabilità economica, e salvaguardare l'ambiente.

Si immagini cosa sarebbe accaduto se queste disposizioni fossero state messe in atto quando gli effetti letali dell'amianto furono scoperti. Anziché chiudere le aziende e costringerle a risarcire coloro che sono stati danneggiati, in base all'ISDS, i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per non uccidere i loro cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte - la prima pagando per i danni alla salute causati dall'amianto, e poi risarcendo i produttori per la perdita dei loro profitti nel momento in cui il governo fosse intervenuto per regolamentare un prodotto dannoso.

Non dovrebbe sorprendere che gli accordi internazionali dell'America producano un commercio gestito anziché libero. Questo è ciò che succede quando il processo di policymaking è chiuso agli stakeholder non commerciali ­- per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso.

1Con questo termine comunemente si definisce la pratica con cui le autorità regolatorie farmaceutiche condizionano il rilascio di autorizzazioni all'immissione in commercio dei farmaci generici all'esistenza o meno di brevetti sui principi attivi.

Articolo pubblicato da project-syndicate.org

Traduzione di Victor Murrugarra

«Lo show multimediale del premier sulla manovra mira a colpire più la fantasia che la ragione. E surclassa Berlusconi.Con Renzi una generazione di creativi è entrata nella stanza dei bottoni Il linguaggio del premier miscela tutto, dagli slogan del ’68 ai titoli di giornale, ai social». La Repubblica, 16 ottobre 2015

Signore e signori, ecco a noi il Renziting: evoluto prodotto di tecnologia del potere che annuncia, istituisce e santifica la compiuta sintesi fra l’arte di governo e il marketing. Per cui la legge di stabilità 2016, da vecchi e illeggibili libroni pieni di astruse cifre, si trasfigura in 25 tweet - «di buone notizie» naturalmente - che a loro volta si riassumono e si replicano in altrettante slide dal linguaggio inconfondibilmente pubblicitario e dai colori smaglianti, rosso, arancione, rosa shocking.
Sotto ogni diapositiva, in avveduto alternarsi di tondi e grassetti, il motto unificante della campagna, lo slogan per far credere, il claim per far vendere, il brand per incoraggiare e fidelizzare l’opinione pubblica – in verità, a quanto pare, sempre più distratta: #italiacolsegnopiù.

In conferenza stampa, nell’illustrare la ex finanziaria, Renzi ha fatto Renzi. Cioè il turbo-banditore del XXI secolo, la più aggiornata versione dell’eterno mercante in fiera. Nello specifico, ieri è apparso lievemente più sorvegliato di quando nel marzo 2014, sempre a Palazzo Chigi, inaugurò la proiezione istituzionale delle slide, in quell’occasione accompagnandola addirittura con un “venghino, siori!”; più simile semmai al Renzi che nel luglio scorso, per meglio sottolineare la necessità di prendere slancio e iniziativa, ha imposto alla direzione del Pd la veduta di alcune diacolor a base di Rocco, Herrera e Guardiola, catenaccio, tiki taka e altre variazioni calcistiche – a riprova, se si vuole, del fatto che le strategie di mercato sono oggi divenute così potenti da innervare e colonizzare ogni ambito della vita sociale.

Poi sì, certo, i provvedimenti sono quelli indicati, magari anche più dei 25 reclamizzati sui quali gli apparati di comunicazione del governo, d’intesa con l’agenzia barese Proforma, hanno stabilito di concentrare l’attenzione. Alcuni paiono innovativi. Alcuni buoni. Alcuni meno buoni. Alcuni, almeno a occhio, sembrano i soliti, quelli di sempre, perciò suonano irritanti, per quanto bene o male camuffati. Alcuni infine saranno anche pessimi e altri pura chiacchiera. Ma non è questo, almeno qui, il punto.La novità è che con Renzi una generazione di creativi è arrivata per così dire al potere; e che almeno nelle sue forme, quella che con qualche pigrizia si continua a definire “politica” ha ceduto la sua autonomia e quindi anche il suo campo alla potenza dei consumi.

Nel complesso, più che ottimistico, il messaggio della televendita vira verso l’euforia, almeno a livello cognitivo e quantitativo. Se si considera che di una lista di 25 “nuovi” provvedimenti, se va bene dopo un’oretta se ne ricordano 5 o 6, l’operazione punta a colpire più la fantasia che la ragione.
Ma ogni singolo pezzo che il fedele Franco, l’omino invisibile cui il premier si rivolge con sbrigativa familiarità, ha ieri proiettato sullo schermo di Palazzo Chigi, ogni singola misura e la loro scansione, i linguaggi, gli aggettivi, i verbi, le varianti cromatiche, i caratteri grafici, la punteggiatura, ecco, a livello di sviluppo tecnico e di energia professionale tutto questo ha mandato definitivamente a ramengo la comunicazione berlusconiana.

Senza farla troppo lunga: il nuovo leader ha stracciato il vecchietto; l’allievo ha superato il maestro; il figlio ha vinto sul padre, o quello che è. Nel merito dei testi, i sentimenti, gli incoraggiamenti, le semplificazioni e le emozioni (“orgoglio”, “ci preoccupiamo”, “insieme”, “finalmente”, “la ferita”, “intrappolate”) hanno il sopravvento. Si notano poi parecchi punti esclamativi. È menzionata – segno dei tempi – la parola “povertà”, anche se la vecchia formula berlusconiana “chi rimane indietro” è stata sostituita – se non è zuppa, è pan bagnato - da “chi arranca”.
A livello espressivo, per quel poco e per quel tanto che trasmettono le 25 schede, il renziting sembra basato su un sincretismo che sembra tenere insieme: il riutilizzo di alcune modalità non solo berlusconiane, ma anche proto-leghiste; la lingua sincopata dei social (con la triste soppressione dell’articolo e delle preposizioni); la titolistica dei giornali, dei siti e delle infografiche dei depliant.

Notevole il riciclaggio di slogan della contestazione (per cui l’antico “lavorare meno, lavorare tutti” diventa, per quanto riguarda la lotta all’evasione “pagare meno, pagare tutti”); e quantomeno curioso il ricorso al futuro ribattezzandolo, che dio perdoni i copy, “il dopo di noi”.

Ma qui, anche senza volerlo, si scivola sull’estetica. Per cui la vera perla sta nella bieca astuzia iper-commerciale della slide numero 31, che recita: “Ancora sgravi per chi assume”, e sotto “Meno di prima però, affrettarsi prego”. Là dove, come sa ogni imbonitore, il fatto che le cose mostrate o promesse non ci siano proprio non ha alcuna importanza rispetto alla loro efficacia. Anzi, il contrario.
«La manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus».

Il manifesto, 15 ottobre 2015

Con la legge di stabilità, il governo Renzi vuole varare un’operazione ambiziosa. Non sottovalutiamola. Da un lato si tratta di una legge dal chiaro sapore elettorale. Una lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese. Vere e proprie midterm elections in salsa italiana. Appuntamento dagli esiti non scontati per Renzi, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali. A dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele.

Dall’altro lato la manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus.

Nello stesso tempo per Renzi è necessario aggirare i paletti posti da Bruxelles. I censori europei hanno già mostrato i denti a Rajoy. E’ da vedere quindi quale benevolenza otterrà Renzi dai propri padroni e sodali, visto che il suo governo ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle elite economiche e politiche europee.

Da qui la centralità della cosiddetta riforma fiscale, definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”. A quanto riferisce la stessa Repubblica, non certo un organo antigovernativo, i proprietari di 75mila case di lusso e palazzi, ne trarranno ampi benefici, almeno 2800 euro in media a testa. Non importa se a farne le spese sarà la Sanità o altri istituti dello stato sociale. Un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere.

Per questo la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana. Il vecchio leader di Arcore almeno ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata a l’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche. Invece Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo. Confortato anche dai propositi del leader di Rignano di intervenire di autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire.

Qui si scende negli inferi del diabolico. Il taglio dell’Ires verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità.

Renzi vuole durare. Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci. Vuole e deve risolvere la dicotomia di cui parlava Niklas Luhmann, su cui forse gioverebbe tornare a riflettere per capire le derive del presente. Quella tra potere e complessità sociale. La seconda viene compressa e strozzata dalle controriforme costituzionali, istituzionali e elettorali in atto (che speriamo di potere smantellare con gli opportuni referendum). Il primo va al di là di quel “mezzo di comunicazione”, di quel “sottosistema” autonomizzato di cui parlava Luhmann nella sua polemica con Habermas. In quanto articolazione di un potere superiore, quello espresso dagli organi a-democratici della Ue, diventa strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista e contemporaneamente di inclusione/corruzione di strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva. Cioè il conflitto.

«Sap­piamo bene che con­tro un avver­sa­rio for­mi­da­bile abbiamo solo il risve­glio della ragione e delle coscienze. Un per­corso dif­fi­cile. Ma comun­que esi­ste una rab­bia civile che non con­sente il silen­zio. Tal­volta, par­lare è un dovere che non tol­lera cal­coli sot­tili, pur se nes­suno ascolta».

Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)

Nel 1948 nasceva l’Italia nuova, e si pre­sen­tava al mondo con Ladri di bici­clette. Oggi, abbiamo i ladri di Costituzione.

Se ladro è chi ille­ci­ta­mente si appro­pria di un bene che non gli appar­tiene e sul quale non ha titolo a met­tere le mani, tale è appunto il caso di quelli che stanno appro­vando la riforma della Carta fon­da­men­tale. Per­ché non ave­vano legit­ti­ma­zione sostan­ziale a farlo, per la inco­sti­tu­zio­na­lità della legge elet­to­rale. Per­ché non ave­vano mai rice­vuto alcun man­dato dal popolo ita­liano, non essendo mai stata la riforma — que­sta riforma — illu­strata e discussa in un con­te­sto elet­to­rale per l’inserimento in un pro­gramma di governo. Per­ché hanno usato ogni mezzo e for­za­ture di prassi e rego­la­menti per met­tere le mani su un bene comune e pre­zioso, scri­gno di iden­tità e sto­ria del paese. Per­ché l’hanno fatto per motivi futili o abietti.

Ma il furto non si è certo con­su­mato ieri, con il voto di 179 anime morte per il dise­gno di legge Renzi-Boschi. L’attività cri­mi­nosa viene da lon­tano, dal patto del Naza­reno e dalla pro­po­sta del governo. È con­ti­nuata e aggra­vata, per le ripe­tute minacce di crisi, gli argo­menti incon­si­stenti quando non men­daci, la sor­dità asso­luta per cri­ti­che e dis­sensi, il disprezzo per il con­fronto demo­cra­tico. E quel che stava per acca­dere è stato asso­lu­ta­mente chiaro quando l’esangue mino­ranza Pd ha esa­lato l’ultimo respiro, seguendo il pif­fe­raio magico di Palazzo Chigi. Si è così con­dan­nata alla irri­le­vanza, unico pec­cato mor­tale che la poli­tica non assolve mai. E anche il Pd di Renzi-Verdini nel suo insieme ha rotto ogni legame con i pro­pri ante­nati, i veri padri fon­da­tori della Repub­blica. Come que­gli eredi inca­paci che dis­si­pano nel vizio e nel gioco il patri­mo­nio di grandi e nobili fami­glie. Un par­tito non più liquido, ma liquidato.

Tutto era già scritto. Ma pro­prio per que­sto non siamo d’accordo con Zagre­bel­sky. Il suo argo­mento è che fir­mare l’articolo pub­bli­cato sul mani­fe­sto da parte di alcuni costi­tu­zio­na­li­sti era inu­tile, non essendo pos­si­bile farsi ascol­tare. Altra cosa sarà quando ci sarà il con­fronto davanti al popolo sovrano. Ma il punto è che quel con­fronto è già in atto, dal primo avvio della vicenda. La bat­ta­glia l’ha aperta Renzi, che da subito ha cer­cato la chiave del con­senso popu­li­stico e dema­go­gico, in una evi­dente pro­spet­tiva elet­to­ra­li­stica. Anche il refe­ren­dum sarà uno scon­tro ple­bi­sci­ta­rio sulla per­sona del lea­der e sull’affidamento fidei­stico alle sue scelte. La cam­pa­gna refe­ren­da­ria è già in corso anche se il pro­ce­di­mento ex art. 138 della Costi­tu­zione è ancora lon­tano dal con­clu­dersi. Si intrec­cia con il taglio delle tasse, l’uscita dalla crisi, le cifre bal­le­rine sui posti di lavoro, l’ossessiva pro­ie­zione di un Ita­lia nuova che riparte.

Sap­piamo bene che con­tro un avver­sa­rio for­mi­da­bile abbiamo solo il risve­glio della ragione e delle coscienze. Un per­corso dif­fi­cile. Ma comun­que esi­ste una rab­bia civile che non con­sente il silen­zio. Tal­volta, par­lare è un dovere che non tol­lera cal­coli sot­tili, pur se nes­suno ascolta. Inol­tre, le bat­ta­glie si fanno anche sapendo che si può per­dere. Pro­prio la nascita della Repub­blica inse­gna. I nostri padri e le nostre madri hanno fatto molte cose che al momento pote­vano sem­brare dispe­ra­ta­mente inu­tili. Tut­ta­via le hanno fatte, e molti hanno pagato un alto prezzo negli affetti, nel lavoro, nella vita. Ora tocca a noi difen­derne l’eredità.

Siamo con­tenti comun­que di sapere che Zagre­bel­sky sarà in campo, nel momento a suo avviso oppor­tuno. Non ave­vamo dubbi che appar­te­nesse al club dei gufi. Del resto, molto meglio gufi che avvoltoi.

Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)

È par­tita lunedì la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane, che verrà rea­liz­zata con la col­lo­ca­zione sul mer­cato di azioni della società cor­ri­spon­denti a poco meno del 40% del capi­tale sociale. L’obiettivo dichia­rato dal governo è l’incasso di circa 4 miliardi da desti­nare alla ridu­zione del debito pub­blico. Già da que­sta pre­messa emerge il carat­tere ideo­lo­gico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro com­por­terà, infatti, un dra­stico calo del nostro debito pub­blico dall’attuale ver­ti­gi­nosa cifra di 2.199 miliardi (dati Ban­ki­ta­lia) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza con­tare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Ita­liane, 1 miliardo di euro, andrà cal­co­lato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a par­tire dal 2016.

Si tratta di un evi­dente rove­scia­mento ideo­lo­gico della realtà: non è infatti la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane ad essere neces­sa­ria per la ridu­zione del debito pub­blico, quanto è invece la nar­ra­zione shock del debito pub­blico ad essere la pre­messa per poter pri­va­tiz­zare Poste Italiane.

Occorre poi aggiun­gere come anche il prezzo di ven­dita del 40% di Poste Ita­liane sia stato ipo­tiz­zato al mas­simo ribasso, pre­fi­gu­rando, ancora una volta, la sven­dita di un patri­mo­nio col­let­tivo. Infatti, men­tre Banca Imi, filiale di Intesa San­paolo, attri­buiva, non più tardi di una set­ti­mana fa, un valore a Poste Ita­liane com­preso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e men­tre Gold­man Sachs par­lava di una cifra com­presa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai bloc­chi di par­tenza della ven­dita delle azioni la società risulta valo­riz­zata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi.

A que­sto, vanno aggiunti tutti i fat­tori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che men­tre si decide di pri­va­tiz­zare un ser­vi­zio pub­blico uni­ver­sale, con­se­gnan­dolo di fatto alle leggi del mer­cato, se ne raf­forza al con­tempo, per ren­dere più appe­ti­bile l’offerta, il carat­tere mono­po­li­stico nel campo dei ser­vizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna cer­tezza rispetto al domani: par­liamo dell’accordo vigente con Cassa depo­siti e pre­stiti per la gestione del rispar­mio postale (1,6 miliardi di com­mis­sione), così come dei cre­diti van­tati da Poste nei con­fronti della pub­blica ammi­ni­stra­zione (2,8 miliardi). Senza con­tare come la società abbia in pan­cia stru­menti di finanza deri­vata, il cui fair value, al 30 giu­gno 2015, risulta nega­tivo per 976 milioni.

Ma aldilà di que­ste con­si­de­ra­zioni eco­no­mi­ci­sti­che, è a tutti evi­dente come, con il col­lo­ca­mento in Borsa del 40% di Poste Ita­liane, muti defi­ni­ti­va­mente la natura di un ser­vi­zio, la cui uni­ver­sa­lità era sinora garan­tita dal suo con­te­sto di garan­zia pub­blica, che per­met­teva, attra­verso i ricavi rea­liz­zati dagli uffici postali delle grandi aree den­sa­mente urba­niz­zate, di poter man­te­nere l’apertura di uffici, spesso con fun­zioni di pre­si­dio sociale ter­ri­to­riale, in tutto il ter­ri­to­rio ita­liano, a par­tire dai pic­coli paesi. E’ evi­dente come la pri­va­tiz­za­zione in atto inci­derà soprat­tutto su que­sto dato: per i divi­dendi in Borsa diverrà asso­lu­ta­mente neces­sa­rio il taglio dei rami eco­no­mi­ca­mente sec­chi, ovvero la dra­stica ridu­zione degli spor­telli nelle aree poco popolate.

E, infatti, il piano indu­striale già pre­vede - ma sarà solo l’assaggio - la diver­si­fi­ca­zione dei modelli di reca­pito, che da otto­bre 2015 rimarrà quo­ti­diano per nove città defi­nite ad «alta den­sità postale», men­tre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni. Quasi tau­to­lo­gico sot­to­li­neare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una dra­stica ridu­zione - si parla nel tempo di 12–15.000 posti in meno - oltre al sovrac­ca­rico di ritmi per quelli che avranno la for­tuna di essere sfug­giti alla man­naia.

Di fatto, con la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane si cerca di ren­dere espli­citi pro­cessi che già con la pre­ce­dente tra­sfor­ma­zione in SpA erano rima­sti sotto trac­cia: un’attenzione sem­pre più resi­duale al ser­vi­zio di reca­pito postale (anche per motivi legati all’innovazione tec­no­lo­gica) e un accento sem­pre più mar­cato sul ruolo finan­zia­rio di Poste Ita­liane, che, oggi, gra­zie alla capil­la­rità dei suoi pre­sidi ter­ri­to­riali (13.000 spor­telli), costruiti negli anni con i soldi della col­let­ti­vità, può tran­quil­la­mente lan­ciarsi in Borsa sfrut­tando la fide­liz­za­zione dei cit­ta­dini accu­mu­lata in decenni di ruolo pub­blico, per met­terla a valore in pro­dotti assi­cu­ra­tivi, finan­ziari e in sem­pre più spre­giu­di­cate spe­cu­la­zioni di mer­cato. Stu­pi­sce, ma fino a un certo punto, la totale con­di­scen­denza dei prin­ci­pali sin­da­cati. E non vale la foglia di fico dell’azionariato popo­lare, che in realtà rende la truffa ancor più com­piuta: con le azioni per i dipen­denti e gli utenti si fa un ulte­riore favore ai grandi inve­sti­tori, che potranno con­trol­lare la società senza nep­pure fare lo sforzo di met­tere soldi per acquistarla.

*Attac Ita­lia

Il modesto passo avanti compiuto dall'Italia per i diritti di cittadinanza, le gravi contraddizioni da sanare e la grande distanza dal raggiungimento dello "ius soli".come è negli USA.

La Repubblica, 15 ottobre 2015
Cittadini si nasce o si diventa. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non foss’altro perché, quando si tratta di decidere sull’appartenenza al corpo politico, sul potere di cittadinanza, verbi come “nascere” e “diventare” sono oggetto di interpretazioni discordanti e difficilmente riducibili a formule semplici.
La legge appena approvata alla Camera sul riconoscimento di cittadinanza a residenti non italiani, importante sotto molti aspetti e benvenuta, ne è un esempio.

Essa stabilisce che acquisisce la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Perché chi è nato in Italia abbia diritto alla cittadinanza deve dimostrare che almeno un genitore sia nella norma. La nascita non è sufficiente, dunque, e lo non è automatico. Il destino del bimbo o della bimba sta se così si può dire nella mani dei genitori (e dello Stato ospitante).

Questa regola modera lo ius soli, il quale nella sua connotazione normativa dà priorità alla persona, ovvero ai nati e non a chi li ha messi al mondo. Gli Stati Uniti danno un’idea della radicalità di questo principio se interpretato come diritto del singolo. Nella patria dello meno annacquato o più genuino, è sufficiente per un bimbo essere nato dentro i confini della federazione per essere cittadino americano. E così può succedere, che genitori stranieri decidano di “regalare” al loro figlio la cittadinanza americana facendolo nascere sul suolo americano. Ciò è sufficiente a richiedere ed ottenere il passaporto, anche se i genitori non sono residenti e anche se sono “clandestini”. Neppure la Francia, il paese europeo più aderente allo ius soli, è così inclusivo e – soprattutto— tanto rispettoso dei diritti della singola persona.

L’interpretazione di “nascita” e “acquisizione” della cittadinanza è come si vede tutt’altro che semplice. E del resto, questa complessità interpretativa è testimoniata dall’esistenza in Italia di un altro regime di cittadinanza, quello detto dello ius sanguinis: un regime che vale solo per gli italiani etnici, per cui nascere in Argentina o in Australia da genitori di genitori italiani (avere un bisnonno nato in Italia) dà diritto a richiedere il passaporto italiano dopo aver trascorso un breve periodo di residenza nel paese. Per ovvie ragioni, il contesto famigliare è in questo caso determinante.

Ma perché dovrebbe esserlo anche per lo ius soli? Certo, considerato il fondamento nazionale della cittadinanza nei paesi europei, la legge appena approvata dalla Camera è un passo avanti importante e la reazione della Lega (che ha già annunciato un referendum abrogativo qualora il Senato non cambi il testo) lo dimostra. C’è però da augurarsi che il passo avanti compiuto si faccia più coraggioso, perché la cittadinanza a chi nasce in Italia e non è maggiorenne dipende ancora da una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale.

Al di là della moderazione interpretativa del principio dello ius soli, questa nuova legge in discussione presenta inoltre un aspetto di discriminazione che sarebbe fortemente desiderabile correggere, perché stride non soltanto col proclamato principio dello ius soli, ma prima ancora con quello dell’eguale dignità delle persone. Come si è detto, la nascita sul suolo italiano non è sufficiente, se altre condizioni non sono presenti, due in particolare: la frequenza scolastica e la condizione economica della famiglia.

Nel primo caso, il bambino nato o entrato nel paese prima della maggiore età deve dimostrare di aver frequentato almeno cinque anni di scuola pubblica. Per uno straniero la condizione di alfabetizzazione può aver senso anche perché è nel suo stesso interesse conoscere la lingua del paese. Tuttavia se si tratta di un bambino nato e socializzato in Italia, è davvero giustificabile attendere l’attestato della quinta elementare?

La seconda condizione è grave in sé perché introduce un fattore di discriminazione. Torniamo al caso dei nati in Italia, per i quali è necessario che almeno un genitore sia in possesso di “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” per richiedere la cittadinanza. Ora, sappiamo che per avere questo permesso, il residente straniero deve dimostrare non solo di aver vissuto in Italia da almeno cinque anni, ma anche di avere un reddito superiore all’assegno sociale (circa mille euro al mese o poco più) e un “alloggio idoneo”. Come possono due bambini nati in Italia essere considerati diversi ai fini della cittadinanza per questioni economiche – di cui non sono tra l’altro responsabili? Come possono due bimbi giustificare a se stessi che solo chi dei due è meno povero merita di essere cittadino? Può essere la povertà una ragione di esclusione? È augurabile che il legislatore veda la contraddizione insita in questa norma rispetto al significato della cittadinanza moderna, per cui è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico.

Scava scava, i nemici più potenti di papa Francesco li trovi al vertice del potere globalizzato. C'era da aspettarselo.

La Repubblica, 14 ottobre 2015

LO chiamano «Papa argentino » per screditarlo. Per rimarcare la distanza, culturale e ideologica, fra loro e lui. Sono cardinali di curia e vescovi, certo, che tuttavia hanno dietro di loro anche gruppi di potere e di pressione precisi, consorterie fin dal 13 marzo del 2013 in-sofferenti verso il magistero sociale del Pontefice.

Ieri padre Federico Lombardi ha sminuito la portata deflagrante della lettera dei cardinali inviata a Francesco e pubblicata da L’Espresso . «Chi a distanza di giorni ha pubblicato la lettera ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai “firmatari”, almeno da alcuni dei più autorevoli», ha detto il portavoce vaticano. Che ha chiesto anche di «non lasciarsi condizionare», in quanto l’azione di disturbo è mossa da seconde linee. Eppure, l’effetto è il medesimo dei tempi di Vatileaks, quando le carte passavano da dentro il Vaticano e arrivavano fino ai media.
La vera pistola fumante del Sinodo, ha scritto non a caso il sito d’informazione Il Sismografo vicino alla Santa Sede, «è l’esistenza di una cordata di eminenti vaticanisti che hanno abbandonato il nobile mestiere dell’informazione per passare, con corpo e anima, a quello del velinaro (per di più maldestro)». Certo, per molti Oltretevere una differenza almeno apparente esiste fra l’ultimo periodo del pontificato di Ratzinger e oggi. Mentre allora c’erano cordate interne alla Santa Sede che si combattevano per ragioni di potere, oggi le posizioni eterogenee sembrano essere principalmente ideali, culturali. Ma, si chiedono nello stesso tempo ancora in Vaticano, può essere tanta insofferenza causata soltanto da posizioni divergenti sulla dottrina?

Per Nello Scavo, giornalista di Avvenire e autore di I nemici di Francesco (Piemme) appena uscito, gli avversari del Papa sono anche coloro che lo screditano cercando di metterlo a tacere. «C’è una battaglia ideologica - dice -, questo è vero, condotta anche in buona coscienza. Tuttavia, in questi anni, dentro la curia c’è anche chi ha provato a rifilare a Francesco qualche polpetta avvelenata. Oltre al Sinodo e al recente caso del teologo omosessuale Charamsa, c’è stata la vicenda di un progetto che prevedeva la costituzione da parte dello Ior di una Sicav - fondo di investimento a capitale variabile - in Lussemburgo. Il Papa se ne accorse all’ultimo momento e bloccò il progetto. Certo, non era niente di illegale, eppure l’immagine del Papa ne sarebbe stata compromessa. A significare che dentro c’è anche chi manovra per indebolire il carisma e la forza di Francesco».

Una tesi, quella di Scavo, che combacia, in parte, con quanto affermato da uno dei teologi sudamericani più vicini a Bergoglio, Leonardo Boff. Pur aperto sull’omosessualità - la visione dei vescovi che essa debba essere vissuta castamente «è riduttiva », ha affermato ad Oggi - il paladino della teologia della liberazione ritiene che dentro il Vaticano vi sia chi ordisce trappole contro il Papa. Boff pensa in particolare che dietro il coming out di Charamsa vi sia «una trappola montata dagli ambienti di destra nella Chiesa che si oppongono al Papa. Perché non lo ha fatto in modo semplice ma provocatorio, per creare un problema al Sinodo e a Francesco. Ostentare in quel modo la sua scelta, il suo compagno... Non si deve giocare per mettere il Papa alle strette».

Francesco dà l’impressione di sapere bene chi sono gli amici e chi i nemici. E che se c’è chi lo ama e lo segue, vi è anche chi farebbe volentieri a meno di lui. Nello stesso tempo, tuttavia, non vuole cedere alle teorie cospirative, all’idea che il Vaticano sia un covo di serpi. Eppure, spiega Massimo Faggioli, storico del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis, «è questo il momento più visibile e temerario nella lotta condotta da parte dell’establishment ecclesiastico contro di lui». E ancora: «Fin dal marzo 2013 si era percepito il montare della resistenza al pontificato, e si sapeva che il Sinodo dei vescovi era il punto chiave. Il fatto che la lettera sia stata consegnata al Papa il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo, è prova che si tratta di un’iniziativa coordinata ben prima dell’inizio dell’assemblea a Roma (ed è a questa iniziativa che Francesco rispose col discorso sulla “ermeneutica cospirativa” del 6 ottobre in aula sinodale). È anche chiaro che mentre Francesco era in visita in America, alcuni vescovi americani, tra un abbraccio e l’altro al Papa, stavano preparando contro Bergoglio un attacco che non si sarebbero mai sognati di fare contro i sinodi per finta di Papa Wojtyla e Papa Ratzinger». In sostanza si riferisce al caso del saluto ricevuto presso l’ambasciata di Washington da parte di Kim Davis, l’impiegata comunale del Kentucky che ha rifiutato la licenza matrimoniale a diverse coppie gay, e che per questo è stata arrestata. La Davis, e parte del mondo conservatore statunitense, ha fatto passare questo saluto come un appoggio papale alle sue battaglie anti gay.

Chi ha consegnato, e con ogni probabilità ideato, la lettera al Papa critica sui lavori del Sinodo è il cardinale australiano George Pell. Zar dell’economia vaticana, ha posizioni dure sulle aperture papali. Ritiene che concedere l’eucaristia ai divorziati risposati sia un male. Una posizione simile a quella di altri firmatari della lettera, fra cui il cardinale Robert Sarah per il quale pensare di dare l’eucaristia ai divorziati è opera del Maligno. La costituency di Pell è quella della finanza americana. Ritenuto vicino ai potenti Cavalieri di Colombo, quando deve tenere una conferenza va sempre al Pontifical North American College sul Gianicolo, il luogo in cui i circuiti curiali finanziari americani danno sfoggio di sé nella capitale. Così anche altri due cardinali firmatari della lettera: Daniel N. Di Nardo, arcivescovo di Galveston- Houston e vicepresidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e Timothy Dolan, arcivescovo di New York e capo dei vescovi Usa.

Gran parte dell’opposizione mossa a Francesco viene dal mondo conservatore nord americano. È ancora Scavo, nel suo volume, a ricordare che a sostenere le battaglie dei “neocon” anti-Bergoglio ci sono uomini come Dick Cheney e capitali come quelli messi a disposizione dalla Halliburton. Scrive Scavo: «Bastano questi due nomi per farsi un’idea precisa degli ambienti “antipapisti” a stelle e strisce da cui partono alcuni degli attacchi a Bergoglio su vari fronti: economia, teologia, visione geopolitica ». Cheney è l’uomo ombra dell’American Enterprise Institute, di cui è stato vicepresidente e nel quale mantiene incarichi direttivi sua moglie Lynne, già consigliere d’amministrazione di Lockheed Martin, il principale produttore mondiale di sistemi di difesa: dai velivoli caccia ai missili a testata nucleare, dai radar ai blindati per il trasporto delle truppe.

Sulla rottamazione della Costituzione un commento di Norma Rangeri e la cronaca di Andrea Fabozzi.

Il manifesto, 14 ottobre 2015

LO SPIRITO INCOSTITUENTE
di Norma Rangeri

Il vice­pre­si­dente della Lom­bar­dia, arre­stato ieri per cor­ru­zione, è stato dav­vero sfor­tu­nato. La magi­stra­tura è inter­ve­nuta, pur­troppo per lui, prima che il nuovo Senato dei con­si­glieri regio­nali diven­tasse realtà. Per­ché tra i tanti obbro­bri che il governo del “fare” vor­rebbe rega­larci con il Senato delle regioni c’è appunto quello di un ramo del Par­la­mento for­mato dalla classe poli­tica più squa­li­fi­cata del nostro paese. Ma pro­tetta, domani, dall’immunità.

La nuova Costi­tu­zione di Renzi e Ver­dini ha tagliato un impor­tante tra­guardo. Con la bene­di­zione di Napo­li­tano. L’ex Pre­si­dente della Repub­blica, «il vero padre di que­sta riforma», secondo la mini­stra Boschi, è inter­ve­nuto per bene­dire la sua crea­tura. In fondo rico­no­scen­dovi quella “grande riforma” dise­gnata da Craxi ai vec­chi tempi della Prima Repubblica.

Con il voto finale alla prima let­tura del pro­getto con­tro­ri­for­ma­tore si mette agli atti lo “spi­rito inco­sti­tuente” che ha segnato que­sti lun­ghi mesi di for­sen­nato attacco alla nostra Carta costi­tu­zio­nale. A par­tire dall’anomalia, scon­si­de­rata, di essere una revi­sione della legge fon­da­men­tale ori­gi­nata non da un’iniziativa par­la­men­tare, ma da una pro­po­sta di governo.

Anzi, e più pre­ci­sa­mente, dalla volontà di un pre­si­dente del con­si­glio e “capo” di un par­tito i cui elet­tori non sono mai stati chia­mati a pro­nun­ciarsi su que­sto pro­getto di mano­mis­sione della Costituzione.

Al con­senso par­la­men­tare e elet­to­rale sono stati pre­fe­riti i patti del Naza­reno e i suc­ces­sivi accordi con quei galan­tuo­mini di Verdini&Co. Con le con­ti­nue, ripe­tute for­za­ture dei rego­la­menti par­la­men­tari det­tati e pie­gati ai tempi impo­sti dall’esecutivo. Uno stra­vol­gi­mento delle regole della discus­sione per­fet­ta­mente coe­rente con i con­te­nuti della riforma.

Prin­ci­pal­mente fina­liz­zata alla crea­zione di un pre­mie­rato senza con­trap­pesi, come in nes­sun paese euro­peo. Dise­gnato sulla silhouette di quello che nel suo inter­vento in dis­senso dal gruppo del Pd, Wal­ter Tocci ha defi­nito «il dema­gogo che potrà fare quello che vuole».

Del resto, di essere il domi­nus anche del futuro potere legi­sla­tivo que­sto pre­si­dente del con­si­glio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cam­bia, avanti tutta più decisi che mai»). Con moti­va­zioni di bassa lega (meno sena­tori, meno costi della poli­tica) e disprezzo per le mino­ranze, a comin­ciare da quelle del suo par­tito. Ber­sani e i fedeli della “ditta” hanno maso­chi­sti­ca­mente scelto di farsi umi­liare fino a votare la tra­sfor­ma­zione del Par­la­mento in cassa di riso­nanza dei pic­coli Cesare. Di oggi e di domani.

La prima pagina del mani­fe­sto di ieri, con il docu­mento fir­mato dai sei illu­stri costi­tu­zio­na­li­sti (Rodotà, Vil­lone, Azza­riti, Car­las­sare, Pace e Fer­rara) è entrata nell’aula di palazzo Madama gra­zie alla sena­trice di Sel, Lore­dana De Petris, che ne ha illu­strato il senso davanti all’assemblea.

Il docu­mento spiega per­ché e come, que­sta riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elet­to­rale, costi­tui­sce una tor­sione auto­ri­ta­ria delle isti­tu­zioni, in defi­ni­tiva della demo­cra­zia par­la­men­tare: «Uno stra­vol­gi­mento dell’impianto della Costi­tu­zione del ’48, sulla sovra­nità popo­lare, sulla rap­pre­sen­tanza, sulla par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica, sul diritto di voto».

Tut­ta­via ancora non è stata scritta la parola definitiva.Se si veri­fi­che­ranno le con­di­zioni per poterci espri­mere in un refe­ren­dum, saremo chia­mati, come già nel 2006, a una grande bat­ta­glia che potrà farci sve­gliare dall’incubo can­cel­lando que­sto frutto avve­le­nato del renzismo.

Va comun­que preso atto che il pre­si­dente del con­si­glio sta segnando punti a suo favore: gra­zie alla forza dei numeri e agli squal­lidi tra­sfor­mi­smi, vince. Però non con­vince. Per lui con­tano le ban­die­rine della con­qui­sta, come quelle che accom­pa­gna­rono la mar­cia trion­fale di Ber­lu­sconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bru­ciata nel suo par­tito, per­ché ne sta distrug­gendo quel poco che resta della sua storia.

RIFORMARE LA RIFORMA
IL SENATO LA APPROVA
di Andrea Fabozzi

Senato. Il padre della nuova costituzione Napolitano mette la sua firma in aula. E renzianamente aggiunge: perfetta non poteva essere, adesso facciamo attenzione agli equilibri con l’Italicum. Le opposizioni non partecipano al voto. Il governo supera facilmente la soglia dei 161 voti, ma per la maggioranza assoluta sono necessari i transfughi

Cen­to­set­tan­totto voti, anzi 179 per­ché la cam­pio­nessa Josefa Idem, appena rien­trata dalla malat­tia, ha sba­gliato a votare «e mi scuso per i giorni in cui sono man­cata». È una mag­gio­ranza asso­luta larga, 18 voti sopra la soglia che sarà obbli­ga­to­rio rag­giun­gere nella seconda e defi­ni­tiva let­tura della riforma costi­tu­zio­nale che il senato potrà fare a par­tire dal pros­simo 14 gen­naio. Se, com’è pro­ba­bile, la camera non toc­cherà una vir­gola dei sei arti­coli del dise­gno di legge che dovrà rie­sa­mi­nare entro la fine dell’anno, ses­sione di bilan­cio permettendo.

Il governo è in trionfo, ma i numeri dimo­strano che i voti dei tran­sfu­ghi del cen­tro­de­stra sono indi­spen­sa­bili. A par­tire dal gruppo Ver­dini, con i suoi 13 sena­tori ieri tutti pre­senti, pas­sando per la cop­pia ex for­zi­sta Repetti-Bondi, i tre su dieci del resi­duo Gruppo Gal fino ai due sena­tori che non mol­lano Forza Ita­lia ma nean­che Renzi. In tutto venti voti deci­sivi per sca­val­lare la soglia di sicurezza.

Nel Pd la minoranza dei trenta che furono è stata completamente riassorbita.

E gra­ziata da Cal­de­roli, che non ha letto in aula gli sms degli ex bar­ri­ca­deri — il leghi­sta ha rin­no­vato la minac­cia: «Li met­terò in un libro, ne ho rice­vuti anche dal governo». Alla fine nel par­tito del pre­si­dente del Con­si­glio solo in quat­tro non hanno votato la riforma: Tocci e Mineo con­trari, Cas­son aste­nuto e la sena­trice Amati assente. Ma soprat­tutto è arri­vato l’annunciato voto di Gior­gio Napo­li­tano, che ha spie­gato di non essere inter­ve­nuto nei giorni del dibat­tito «per­ché mi è sem­brato più appro­priato». Ma quando si con­tano i voti, eccolo. L’ex pre­si­dente della Repub­blica è l’unico sena­tore a vita a votare, l’altra pre­sente, la sena­trice Cat­ta­neo da lui nomi­nata, è con­tra­ria alla riforma e si astiene.

Quando entra nell’emiciclo, bastone a destra e borsa da lavoro a sini­stra, il sena­tore Napo­li­tano schiva l’imbarazzante Barani, appena riam­meso in aula dopo la sospen­sione per gestacci, e si dirige verso l’amico Ser­gio Zavoli. Sta par­lando la pre­si­dente del gruppo misto, la sena­trice di Sel Lore­dana De Petris che in quel pre­ciso momento legge le prime righe dell’articolo dei costi­tu­zio­na­li­sti pub­bli­cato ieri dal mani­fe­sto. Napo­li­tano gira alla larga e cerca un posto nella prima fila, rapido glielo cede Casini. La mini­stra Boschi l’ha rico­no­sciuto padre della nuova Costi­tu­zione ma aven­dolo lì governo e Pd si mostrano timidi, prima del voto non cor­rono a far­gli la ruota.

Lasciano così spa­zio a Ver­dini, il quale sa come si con­qui­sta l’attenzione. L’ex brac­cio destro di Ber­lu­sconi piomba dai ban­chi in alto a destra dove ha trin­ce­rato i suoi e si inventa un omag­gio all’ex pre­si­dente, un saluto fatto di poche parole e molte foto­gra­fie. Nel frat­tempo tocca inter­ve­nire pro­prio ai ver­di­niani e prende la parola un sena­tore qual­siasi. Gli ex squa­li­fi­cati Barani e D’Anna non solo non par­lano ma ven­gono fatti sedere in modo da non entrare nella diretta tv.

Quando tocca a Napo­li­tano, che inter­viene a nome del gruppo delle auto­no­mie al quale si è iscritto appena sceso dal Colle, spunta il sena­tore Sci­li­poti, disdi­ce­vole rap­pre­sen­tante del tra­sfor­mi­smo quando il tra­sfor­mi­smo era disdi­ce­vole. Ormai è l’ultimo dei ber­lu­sco­niani e piazza sul banco di Napo­li­tano, a coprir­gli il testo dell’intervento, un foglio dove si legge «2011». Rife­ri­mento alla sto­ria del «golpe» del Colle, Monti a palazzo Chigi al posto di Ber­lu­sconi. I com­messi lo brac­cano, Sci­li­poti con­se­gna il foglio, poi ne tira fuori un altro dalla tasca. E via così tre volte, fino a che si placa e Napo­li­tano attacca. L’aula si fa silen­ziosa e anche piut­to­sto vuota, per­ché già i leghi­sti sono andati via sven­to­lando costi­tu­zioni e olio di ricino, poi quelli del Movi­mento 5 sfi­lano in muta pro­te­sta per non sen­tire l’ex pre­si­dente. E nel silen­zio comin­cia a squil­lare un tele­fono sugli abban­do­nati ban­chi leghi­sti, per cui i primi cin­que minuti di Napo­li­tano somi­gliano a quelli di C’era una volta in Ame­rica. Fino a che il tele­fono tace e si può sen­tire Napo­li­tano par­lare di sé stesso, di quello che ha fatto al Qui­ri­nale, di quello che aveva detto nel primo giu­ra­mento, della com­mis­sione di saggi che aveva bene­detto. Imme­dia­ta­mente dopo parla Qua­glia­riello che è giu­sto uno di quei saggi e comin­cia — ce ne fosse biso­gno — con una cita­zione di Napolitano.

Ma è pro­prio Napo­li­tano che, ina­spet­ta­ta­mente, avverte: «Biso­gnerà dare atten­zione a tutte le pre­oc­cu­pa­zioni espresse in que­ste set­ti­mane in mate­ria di legi­sla­zione elet­to­rale e di equi­li­bri costi­tu­zio­nali». Stiamo facendo una prova? È un invito a tor­nare indie­tro sulla legge elet­to­rale che pro­prio lui ha bat­tez­zato? Un inci­ta­mento a tor­nare al pre­mio per le coa­li­zione? Fio­ri­scono ipo­tesi, ma non è il caso di imma­gi­nare chissà quale piano. L’ex capo dello stato argo­menta ormai da ren­ziano. Que­sta riforma può non essere per­fetta, rico­no­sce il suo «padre» nel momento cui mette il sigillo, ma quello che ci ha fer­mato fino a qui «è stata la defa­ti­gante ricerca del per­fetto o del meno imper­fetto». Renzi avrebbe detto: «Si può essere o meno d’accordo su ciò che siamo facendo, ma lo stiamo facendo», e infatti l’ha detto.

A pro­po­sito di fare, appena com­ple­tato il pas­sag­gio trion­fale della riforma, il governo ha dovuto ammet­tere che alcune norme tran­si­to­rie pro­prio non stanno in piedi. Invece di rin­viare alla camera le cor­re­zioni, Grasso ha con­cesso di modi­fi­care il testo come «coor­di­na­mento». Rapida alzata di mano e via. Tutti ad abbrac­ciare Napolitano.

Il giorno stesso in cui re Matteo vince la sua battaglia contro la Costituzione repubblicana, decide di rilanciare l'evasione fiscale. Accontenta così una parte consistente del suo popolo, scavalcando a destra il povero Silvio.

La Repubblica, 14 ottobre 2015

«Sono maturi i tempi per l’utilizzo della moneta elettronica. Incrementarla ha un impatto positivo sulla riduzione del sommerso e sull’evasione fiscale, oltre che sul costo di gestione del contante che è di 4 miliardi l’anno per il settore bancario e 8 miliardi l’anno per il sistema Paese». Parole precise e nette di Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, pronunciate giusto un anno fa dinanzi alla commissione parlamentare di Vigilanza sull’anagrafe tributaria. «L’economia sommersa vale tra 255 e 275 miliardi e dunque tra il 16,3 e il 17,5% del Pil, sono dati preoccupanti», aggiungeva la Orlandi. «Il contante, in quanto mezzo anonimo e non tracciabile, alimenta le possibilità di sviluppare economia sommersa, di conseguenza la riduzione del contante rappresenta una delle chiavi per la lotta all’evasione». Più chiaro di così.

Eppure il governo Renzi triplicherà la soglia per il cash dal 2016. In un paese in cui l’82% delle transazioni e il 67% del loro valore si muove ancora sulla carta frusciante e in cui l’alfabetizzazione digitale e finanziaria stenta, ma cresce piano e andrebbe incoraggiata. «C’è resistenza», diceva la Orlandi. «Negli ultimi anni non abbiamo incrementato i sistemi di pagamento elettronico, mentre tutti gli altri paesi sì». Ricordando pure che i cittadini non traggono benefici dall’aumento della tracciabilità, «con poche eccezioni», e quindi non sono stimolati a strisciare carte e bancomat. O, in un futuro vicino, lo smartphone. L’eccezione sono i lavori in casa per ristrutturare o efficientare. I bonus generosi a loro abbinati, che scattano solo dietro bonifico parlante, hanno portato all’emersione di una base imponibile di tutto rispetto: 28 miliardi nel 2013, altri 28 miliardi e mezzo nel 2014, 24 miliardi previsti per quest’anno. La tracciabilità incentivata paga.

Perché allora la decisione del governo? Perché rinunciare «a una delle chiavi per la lotta all’evasione», al “pagare tutti per pagare meno”? «Servirà a dare una spinta ai consumi e sarà comunque tutto tracciato», si giustifica Renzi. «È ovvio che quanto più bassa è la soglia dell’uso contante, tanto più compli- cate sono le forme dell’evasione», ragiona Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e del Tesoro. «Io l’avevo fissata a 100 euro quando ero nel governo Prodi e la porterei ora a 500 euro, il taglio massimo dell’euro. Ma il punto non è tanto il ruolo anti-evasione del tetto di tracciabilità, quanto per l’Italia il pericolo di riciclaggio. È da irresponsabili scherzare su queste cose, trovo questa decisione estremamente preoccupante ».

Molti invece esultano. Politicamente Ncd, Area Popolare e Scelta Civica, su tutti. Poi le categorie: Confesercenti, Confcommercio, Codacons, Federalberghi, Federgioco («consentirà ai nostri casinò di allinearsi con le case da gioco estero»), Federturismo («un segnale forte») e Confturismo. Invocano invece un ritorno allegro a evasione, riciclaggio, nero e sommerso sindacati e minoranza Pd. E gli italiani come la pensano? Secondo un’indagine Isfol Plus, condotta da Emiliano Mandrone, il 60% dei cittadini è disponibile ad abbandonare il contante, con un picco tra lavoratori dipendenti, laureati, benestanti, attivi socialmente e culturalmente. Anche Bankitalia, in diversi papers, sottolinea un legame indiscutibile tra cash ed economia sommersa. Tesi da sempre condivisa dal ministro Padoan che neanche dieci giorni fa esultava da Lussemburgo per l’accordo europeo sullo scambio automatico di informazioni: «Ci sono le basi per un forte recupero dell’evasione, di lotta all’elusione ». Nel mirino le multinazionali che lucrano vantaggi spostando sedi fiscali. E in Italia? Si alza la soglia.

». Il manifesto, 14 ottobre 2015

Ave­vamo chie­sto al pro­fes­sor Gustavo Zagre­bel­sky di sot­to­scri­vere l’articolo che abbiamo pub­bli­cato ieri con le firme di sei tra i più auto­re­voli costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani, e che ripub­bli­chiamo oggi qui accanto. Zagre­bel­sky ha pre­fe­rito non fir­mare, ma ha aggiunto delle moti­va­zioni che rite­niamo valga la pena far cono­scere – con il suo con­senso — ai nostri let­tori.

«Dopo averci pen­sato, ho deciso di non fir­mare, non per­ché non sia d’accordo sugli argo­menti, pro­po­sti all’attenzione dei respon­sa­bili della riforma. La ragione — sostiene l’ex pre­si­dente della Corte costi­tu­zio­nale - è un’altra: la totale irri­le­vanza dell’invito alla rifles­sione presso chi si appella sem­pli­ce­mente all’argomento della forza.

Una delle espres­sioni più ricor­renti, in que­sto tempo di auto­ri­ta­ri­smo non solo stri­sciante ma addi­rit­tura con­cla­mato come virtù, è «abbiamo i voti», «abbiamo i numeri». Una con­ce­zione della demo­cra­zia da scuola ele­men­tare! Dun­que, che cosa serve discu­tere? Un bel nulla.

Oltre­tutto, ho l’impressione che i nostri rifor­ma­tori, tronfi dei loro numeri rac­co­gli­ticci in un con­sesso che ha rag­giunto il grado più basso di cre­di­bi­lità, non agi­scano in libertà, ma come ese­cu­tori di pro­getti che li sovra­stano, di cui hanno accet­tato di farsi pas­sivi e arro­ganti ese­cu­tori in nome di inte­ressi o poco chiari, o indi­ci­bili ch’essi rias­su­mono nel ridi­colo nome di «gover­na­bi­lità»: parola di cui non cono­scono nem­meno il signi­fi­cato. Non dis­sento nel merito, ma sono certo della totale inef­fi­ca­cia dell’invito al con­fronto.

Mi astengo, dun­que, dal fir­mare - con­clude Zagre­bel­sky -, i tempi dell’impegno ver­ranno quando saranno chia­mati i cit­ta­dini a espri­mersi, saranno duri e immi­nenti. Allora sarà un’altra storia».

Terribile l'oscuramento che i massmedia hanno gettato su un progetto, in corso d'attuazione che si propone di far prevalere le convenienze economiche delle imprese rispetto a tutte le regole che tutelano il lavoro, la salute, l'ambiente, la stessa democrazia. Per fortuna qualcuno reagisce.

Comune.info, 12 ottobre 2015
Sabato 10 ottobre 250mila persone provenienti da tutta Europa hanno dato vita a Berlino a una grande manifestazione aprendo così la settimana di mobilitazione internazionale contro il T-tip, il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, che Usa e Ue stanno negoziando dal luglio 2013.

Nei prossimi giorni centinaia di iniziative si svolgeranno in tutte le città d’Europa, mentre sono oltre 3,2 milioni le firme di cittadini consegnate alla Commissione Europea.

Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande trattato di libero scambio del pianeta, nonché il nuovo quadro legislativo globale, cui tutti, volenti o nolenti, dovranno conformarsi. La pressione delle multinazionali e dei governi spinge perché si arrivi ad una bozza di accordo prima che negli Stati Unitiinizi la campagna elettorale delle presidenziali (previste nel novembre 2016), e la recente approvazione dell’omologo negoziato sul versante Pacifico (Tpp) ha galvanizzato le truppe di quanti vogliono trasformare lo stato di diritto in stato di mercato e realizzare l’utopia delle multinazionali: unico faro della vita economica, politica e sociale devono essere i profitti, cui vanno sacrificati tutti i diritti del lavoro e sociali, i servizi pubblici, i beni comuni e la democrazia.

Il T-tip è solo l’ultimo di una serie di processi messi in moto dagli anni ’90 del secolo scorso, quando la caduta del muro di Berlino e la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio diedero un forte impulso alla globalizzazione neoliberale e resero stringente l’esigenza da parte delle grandi multinazionali e dei governi dei Paesi più ricchi del pianeta di costruire un accordo globale per la liberalizzazione assoluta degli investimenti in tutti i settori economici, consentendo alle multinazionali di dispiegare la loro azione a piacimento sull’intero pianeta, senza lasciare a governi e popolazioni alcuno strumento per condizionarne lo strapotere. Nacquero così in successione: il negoziato per l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (Mai) e l’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi all’interno dellaWto (World Trade Organization), come pure, a livello europeo, la direttivaBolkestein; tutti tentativi falliti, grazie alla forte mobilitazione dei movimenti sociali globali, capaci di mettere in stallo l’intero sistema di grandi eventi per produrre grandi accordi. Da allora il quadro si è modificato e, nel tentativo di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta, governi e multinazionali hanno iniziato a produrre una miriade di accordi bilaterali o su piccola scala regionale.

Ed ora, approfittando della crisi economico-finanziaria globale, ritentano la scala più ampia: il T-tip, infatti, per la dimensione geopolitica – due continenti – ed economica – quasi il 60 per cento del Pil mondiale- vuole diventare l’accordo quadro, cui tutto il pianeta, volente o nolente, dovrà conformarsi. Il negoziato, che, nelle intenzioni di Usa e Ue, avrebbe dovuto concludersi nella più assoluta segretezza nel dicembre 2014, è in realtà ancora lontano dalla meta: il prossimo round, fissato nei giorni 19-23 ottobre a Miami, parte da un empasse su quasi tutti i tavoli di lavoro (dall’Isds, ovvero lo strumento di risoluzione delle controversie tra imprese e Stati, che darebbe alle prime un potere assoluto, ai capitoli sull’agricoltura; dai servizi pubblici alle normative sugli appalti), mentre di qua e di là dall’Atlantico cresce ogni giorno di più la mobilitazione sociale per il ritiro senza se e senza ma del trattato. E tuttavia il tentativo di regalare l’intero pianeta alle multinazionali è serio e verrà perseguito fino in fondo, perché è su di esso che si gioca la battaglia tra la prosecuzione di un modello in piena crisi sistemica e una drastica inversione di rotta. Infatti, le enormi masse di denaro accumulate sui mercati finanziari in questi decenni hanno stringente necessità di essere investite in nuovi mercati: da qui la drastica riduzione dei diritti sul lavoro e la necessità di trasformare in merci i beni comuni, costruendo business ideali, perché regolati da tariffe e flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, con titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi. Un banchetto perfetto.

Ma con un problema: l’applicazione delle politiche di austerity, paese per paese e governo per governo, suscita ribellioni e mobilitazioni destinate ad aumentare nel tempo e a determinare possibili cambiamenti nel quadro politico, rendendo instabile l’intero continente europeo. Il T-tip serve esattamente a questo scopo: ade-storicizzare le politiche liberiste, trasformandole nel nuovo quadro giuridico oggettivo, all’interno del quale possono senz’altro convivere tutte le opzioni politiche possibili, a patto che non lo rimettano in discussione.

Per questo la battaglia per fermare il T-tip deve diventare prioritaria per tutti i movimenti: vincerla significherebbe infatti assestare un colpo mortale a questo disegno e iniziare a prefigurare la possibilità di un altro modello sociale. In Italia e in Europa.“O la borsa o la vita!” intimavano secoli or sono i briganti ai passanti che per sventura incappavano nella medesima direzione di marcia. “O la Borsa o la vita!” intimano oggi meno romantici e ben più feroci filibustieri del capitale finanziario internazionale. Si tratta semplicemente di scegliere la vita. Tutti assieme, la vita.

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