Terre senz’ombraLa Repubblica, 22 ottobre 2015
«Esiste ancora l’Italia? Quella misteriosa concrezione di natura e di storia che, rivelandosi, non poteva non cambiare gli artisti e il mondo? L’Italia del Rinascimento e della Maniera Moderna di Raffaello che divenne modello all’Europa, l’Italia dell’antichità che i neoclassici intesero come dimora, come approdo ritrovato per sempre. E l’Italia della Natura, quando l’uomo moderno, divenuto viandante, inseguiva un altrove che coincideva con luoghi reali. Luoghi che non erano privi di passato e memoria, ma che venivano ora investiti da un sentimento così dirompente da fare emergere, ancora in Italia, il volto moderno della pittura».
Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".
L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.
Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.
Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.
No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».
Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare. Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.
Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, in un articolo dal titolo "Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili", sono andata a leggermi l'articolo. Si riferisce all'assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.
Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l'ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.
Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".
L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.
Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.
Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.
No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».
Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare.
Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.
«Da sette anni le organizzazioni con la missione di aiutare gli altri non crescono. Ma il saldo non è negativo: aumentano coloro che agiscono senza iscriversi a nessuna associazione. E i gruppi che resistono sono sempre più simili a piccole imprese. A mancare è il ricambio generazionale e lo sviluppo nel Sud».
La Repubblica, 22 ottobre 2015
Roma. Da sette anni il volontariato italiano non cresce. Lo dice il primo selfie che le Organizzazioni della società civile (secondo la definizione di Dublino 2005) si sono scattate a fine 2014, allargandolo poi nelle 70 pagine del Report nazionale sulle organizzazioni di volontariato disponibile in questi giorni. È il primo autocensimento su questo vasto mondo e l’ha realizzato il Coordinamento dei centri di servizio, istituiti con legge nel 1991 e oggi arrivati a 74 nel paese.
Berlusconi e il berlusconismo hanno trovato, si sa, il lori prolungamento. La penna affilata del tenace critico di Silvio non abbandona la presa e ci ricorda quanto l'ideologa e le pratiche del Caimano vivano ancora nella banda vincente.
La Repubblica, 22 ottobre 2015
La stella berlusconiana, apparsa nel cielo politico d’Italia ventiquattro anni fa, impallidiva da un lustro e forse va dileguandosi ma lascia effetti permanenti. L’ascesa incubava i semi del collasso: un megalomane in abiti e pose da gangster marsigliese, furbissimo, molto temibile ma fortunatamente corto d’intelletto, non diventa d’emblée statista; già la discesa in campo segnalava una coazione morbosa a riempire i palchi; avesse del raziocinio, starebbe tra le quinte; quando anche sappia il da farsi, lo fa per caso, perché in via principale coltiva affari suoi. Ad esempio, ordinandosi à la carte una piccola legge, liquida in 3 o 4 milioni i 300 d’un debito fiscale Mondadori.
Se ai cittadini si sostituiscono i consumatori finisce per prevalere il plebiscito del mercato». una sintesi da Moscacieca di Gustavo Zagrebelsky (Laterza), da la Repubblica, 21 ottobre 2015
Oppure, si potrebbe usare propriamente la parola per indicare l’insieme di coloro che hanno da essere governati e delle loro istituzioni: governabilità d’insieme. Della parola, tuttavia, si abusa certamente quando la si usa per indicare unilateralmente il bisogno di efficaci strumenti di governo (nel senso del memorandum della banca d’affari J.P. Morgan): è come se il governo stesso, cui spetta governare, potesse dirsi, esso stesso, più o meno governabile, più o meno docile.
Tutte le volte che si usano male le parole, si fa confusione e ci si inganna vicendevolmente. Qualche volta, inconsapevolmente, si tradisce un retro-pensiero che si vorrebbe rimanesse nascosto e che, invece, fa capolino tra le parole. Se l’attitudine a essere governati si riferisce alla società, ben si comprende a chi spetti il compito di governarla; ma, se la si attribuisce alla macchina di governo, allora la domanda che sorge, non maliziosa ma realistica, è: governabile, sì, ma da chi? Docile, sì, ma nei confronti di chi?
Nei regimi democratici, la governabilità, nel senso improprio detto sopra, cioè nel senso della forza che legittima l’azione del governo, deve dipendere dalla libera partecipazione politica e dal coinvolgimento attivo dei cittadini, dal confronto e dalla discussione su cui si forma l’ humus delle decisioni politiche, dal consenso che si manifesta innanzitutto con il voto e dalla fiducia che viene riposta in coloro che se ne faranno interpreti operativi. Quale che sia la definizione di democrazia, immancabile è, dunque, il voto che esprime la volontà di autonome scelte.
Primo fra tutti, il diritto di andare a votare. A modellare una società in senso democratico, non basta però che i diritti siano riconosciuti. Occorre che siano esercitati. Che cosa contano, se non se ne fa uso? È forse libera una società in cui alla scienza, all’arte, all’insegnamento, alla stampa, ecc., è riconosciuto il diritto di essere liberi, se poi gli scienziati, gli artisti, gli insegnanti, i giornalisti rinunciano a farne uso? Lo stesso è per il diritto di voto. È forse democratica una società in cui tutti i cittadini hanno il diritto di votare, ma non ne fanno uso? È democratica una società in cui la maggioranza rinuncia ad esercitare il proprio diritto di voto? Non sono costretti a rinunciare da leggi antidemocratiche; lo fanno volontariamente. Ma è forse questo meno grave? Al contrario, è più grave, poiché la rinuncia volontaria all’esercizio del primo e basilare diritto democratico sta a significare che la frustrazione della democrazia è stata interiorizzata, è entrata nel midollo della società.
Occorre interrogarsi su questa manifestazione di stanchezza della democrazia e, innanzitutto, sul fatto ch’essa non sembra fare problema, porre domande. È un dato accettato, tanto in alto quanto in basso.
In basso, cioè tra i cittadini, non deriva più (soltanto) dal sentimento antipolitico e antiparlamentare che è sempre pre- sente in ogni società e nella nostra in misura cospicua, alimentato dall’incredibile diffusione della corruzione pubblica che viene alla luce. Deriva da una convinzione assai più profonda e difficilmente scalzabile. Non si dice più (soltanto): sono tutti uguali perché tutti disonesti, ma: sono tutti uguali perché l’uno uguale all’altro nell’inutilità e nell’inconcludenza. In breve: è la fiducia nella politica che sta progressivamente riducendosi, poiché si avverte, consapevolmente o inconsapevolmente, che “la cosa” è come sfuggita di mano.
In alto, alla voragine dell’astensione, dopo ogni tornata elettorale, si dedica qualche espressione di rammarico, unita alla promessa di riallacciare il filo che si è spezzato. Ma è pura retorica che si ferma alle parole. Né si saprebbe come fare, perché il distacco dei grandi numeri dalla politica, che è un dato allarmante alla luce di qualunque concezione anche solo “minima” della democrazia, è perfettamente conforme allo spirito della vigente costituzione materiale che ha nel governo tecnico-esecutivo la sua colonna portante: il “governo governabile”. Le elezioni, da linfa della democrazia, si sono trasformate in potenziali intralci. Dunque, meno si vota e meglio è. Del resto, non è stato detto da qualcuno, facendo il verso alla celebre definizione di nazione di Ernest Renan, che i governi europei, scalzati dagli “esperti monetari”, hanno fatto prevalere il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” sul “plebiscito delle urne” (così Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, nel 1998)?
In effetti, se ai cittadini si sostituiscono i produttori e i consumatori, i creditori e i debitori, i venditori e i compratori, il plebiscito del mercato risulta essere la democrazia nella sua forma più coerente.
Una volta che le sorgenti sociali della governabilità si siano inaridite, la governabilità, intesa impropriamente come capacità di governo, da problema di democrazia politica si trasforma in questione di ingegneria costituzionale al servizio dell’efficienza dei mercati, i quali hanno bisogno di costituzioni reattive alla loro continua instabilità, di decisioni pronte, assolute e cieche, cioè di interventi esecutivi.
Una volta si sapeva e si diceva che l’ingegneria costituzionale non esiste in quanto tale; che non si deve far finta che abbia a che fare solo con questioni di efficienza. Ogni questione di natura propriamente costituzionale è sempre una questione di allocazione di potere. Oggi, quella verità vale pur sempre, ma la si nasconde negli interminabili convegni, tavole rotonde, pubblicazioni, dichiarazioni che sembrano tutti rivolti a una idea vuota di “vita costituzionale buona”, per l’appunto l’idea di “governabilità”, ed invece mirano a nuove e interessate allocazioni di potere.
IL LIBRO Anticipiamo u. L’autore dialogherà con Adriano Prosperi sabato alle 16.30 al Teatro Politeama di Poggibonsi e sarà a Milano a BookCity domenica alle 12.30 al Museo Nazionale della Scienza
Demistificare l'uso corrente delle parole è un modo per diventare liberi e perciò cambiare il mondo.Un piccolo libro su una parola controversa.
La Repubblica, 20 ottobre 2015
La parola gender divide. Ci sono parole che a forza di essere brandite come manganelli, innalzate come bandiere, finiscono per diventare esse stesse strumenti di aggressione, contundenti, perfino urticanti. Come molte parole straniere, fagocitate da una lingua altra che le assimila senza comprenderle e le utilizza senza spiegarle, esalano un’aura di autorevolezza e insieme di mistero, che ne giustifica l’uso improprio. Oggi può capitare che durante una pubblica discussione sulla scuola un genitore zittisca un docente agitando un foglio su cui c’è scritto “no gender”. Come alle manifestazioni in cui nobilmente si protesta contro le piaghe che minacciano l’umanità: no alla guerra, alla pena di morte, al razzismo. La perentorietà del rifiuto di qualcosa che non si saprebbe (né si intende) definire impedisce l’avvio di qualunque dialogo. Ma di che cosa stiamo parlando?
Lo scontro che negli ultimi tre anni è divampato intorno al gender in Italia (ma anche, in forme simili, in Francia) diventerà oggetto di studi di sociologia della comunicazione e psicologia delle masse. Ci si è riflettuto poco, finora, forse per sottovalutazione — o perché non si è stati capaci di comprendere quale fosse l’oggetto del contendere, né che riguardasse tutti, e non solo gli omosessuali. Chiunque si interessi della circolazione e della manipolazione delle idee non può non restare stregato e insieme spaventato dalla mistificazione perfetta che si è irretita intorno a questa parola, fino ad avvolgerla di una nebbia mefitica. E a occultare il vero bersaglio: la battaglia culturale, ma anche politica e legislativa, per «combattere contro le discriminazioni che subisce chi, donna, omosessuale, trans, viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».
L’ultimo libro di Michela Marzano, Papà, mamma e gender , che esce per Utet, ci spiega come, quando e perché sia potuto accadere che una concezione antropologica sulla formazione dell’identità (sessuale, psichica, sociale) delle persone abbia aperto una “crepa”, una “frattura profondissima” nel nostro paese, e scatenato campagne di propaganda, informazione e disinformazione mai più viste da decenni. Fino a trasformare il gender in uno spauracchio, un fantasma cui chiunque può attribuire — in buona, ma anche in cattiva fede — il negativo delle proprie idee, della propria concezione dell’esistenza, e riversare su di esso pregiudizi, fobie e paure che si agitano nel profondo di ognuno di noi.
Ricordando con Camus che «nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo», Marzano assegna al libro innanzitutto questo scopo “didattico” (il volume è corredato di un glossario). Dunque gender è un termine inglese, la cui traduzione italiana è semplicemente genere. È entrato in lingua originale nel sistema della cultura universitaria perché delineava un campo di studi nuovo (gender studies) e perciò bisognoso di un proprio nome. Ma poi ha finito per riassumere l’insieme delle teorie sul genere — estinguendo ogni differenza e sfumatura, anche significativa.
Papà, mamma e gender è un libro smilzo, di agevole lettura, una bussola utile per orientarsi nel magma burrascoso di interventi, argomentazioni, polemiche, molte delle quali vanno alla deriva sulle onde del web. Alla confusione semantica e concettuale del dibattito — che mescola sesso, identità di genere e orientamento sessuale — Marzano oppone spiegazioni essenziali (“l’ABC”) che si potevano ritenere acquisite, e invece si sono scoperte necessarie. Si memorizzi ad esempio questa: «Quando si parla di sesso ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche fisiche, biologiche, cromosomiche e genetiche che distinguono i maschi dalle femmine. Quando si parla di “genere” invece si fa riferimento al processo di costruzione sociale e culturale sulla base di caratteristiche e di comportamenti, impliciti o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono troppo spesso con il definire ciò che è appropriato o meno per un maschio o per una femmina ».
È insieme un libro di storia culturale e di cronaca contemporanea, in cui le riflessioni sulla distinzione tra identità e uguaglianza, tra differenza e differenzialismo, si affiancano all’analisi del lessico di una petizione presentata in Senato per sostenere «una sana educazione che rispetti il ruolo della famiglia», le parole di Aristotele, Bobbio e Calvino vengono valutate come quelle di uno spot contro la perniciosa “ideologia gender”. È un libro di filosofia e auto-filosofia (se posso mutuare questo termine dalla narrativa): perché l’autrice non nasconde i propri dubbi (e la critica contro la corrente radicale del pensiero gender) e rivendica l’onestà intellettuale di dire come e perché è giunta a credere a certe cose piuttosto che ad altre. L’esperienza personale — chi siamo, come siamo diventati ciò che siamo — influenza e sempre indirizza il nostro modo di stare nel mondo. «Il pensiero non può che venire dall’evento, da ciò che ci attraversa e ci sconvolge, da ciò che ci interroga e ci costringe a rimettere tutto in discussione».
Gli essenzialisti affibbiano a chi non riconosce il dualismo tra Bene e Male l’etichetta di relativista etico. Ma l’etica non è relativa. Dovrebbe solo essere transitiva. Come Marzano, mi sono chiesta spesso come mai si possa temere che riconoscere ad altri i diritti di cui godono i più (alle coppie omosessuali di sposarsi o di avere e crescere figli) sia lesivo di questi. In che modo il matrimonio tra due persone dello stesso sesso possa sminuire quello di un uomo e di una donna, come una famiglia differente possa indebolire le famiglie cosiddette uguali. Non so rispondermi. Però mi viene in mente il finale visionario de La via della Fame , il romanzo che lo scrittore nigeriano Ben Okri ha dedicato alla propria giovane nazione, tormentata dall’odio, divisa dai conflitti, e incapace di nascere. «Non è della morte che gli uomini hanno paura, ma dell’amore... Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel sogno. Un sogno può essere il punto più alto di tutta una vita». Ma ci occorre «un nuovo linguaggio per parlarci ».
SIl manifesto, 20 ottobre 2015
Erri De Luca è stato assolto. La sentenza del Tribunale di Torino non lascia adito a dubbi: affermare che «la Tav va sabotata» non è un reato ma un’opinione, affidata al dibattito politico e non alle cure di giudici e prigioni. Qualche tempo fa sarebbe stata una «non notizia», quasi un’ovvietà (e senza bisogno di scomodare Voltaire). Non così oggi. Almeno a Torino, dove un giudice per le indagini preliminari ha disposto, per quella affermazione, un giudizio e due pubblici ministeri hanno sostenuto l’accusa e chiesto la condanna.
Dunque l’assoluzione e il punto di diritto affermato dal giudice rappresentano una buona notizia. Per una pluralità di motivi.
Primo. Ci fu un tempo in cui contestazioni siffatte erano all’ordine del giorno ed erano ritenuti reati il canto dell’«Internazionale» o di «Bandiera rossa» (forse per il versetto «avanti popolo tuona il cannone rivoluzione vogliamo far»…) o il grido «abbasso la borghesia, viva il socialismo!». Erano gli anni dello stato liberale e, poi, del fascismo quando si riteneva che «la libertà non è un diritto, ma un dovere del cittadino» e, ancora, che «la libertà è quella di lavorare, quella di possedere, quella di onorare pubblicamente Dio e le istituzioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte». Poi è venuta la Costituzione il cui articolo 21 prevede che «tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
Inutile sottolineare il senso della norma che è quello di tutelare l’anticonformismo e le sue manifestazioni poco o punto accette alle forze dominanti perché, come è stato scritto, «la libertà delle maggioranze al potere non ha mai avuto bisogno di protezioni contro il potere» e, ancora, «la protezione del pensiero contro il potere, ieri come oggi, serve a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio o osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più».
In termini ancora più espliciti, le idee si confrontano e, se del caso, si combattono con altre idee, non con l’obbligo del silenzio. Troppo spesso lo si dimentica e, dunque, un «ripasso» era quanto mai opportuno.
Secondo. La contestazione mossa ad Erri De Luca non riguardava solo la libertà di espressione del pensiero in astratto. Essa riguardava l’esercizio di quella libertà oggi in Val Susa e con riferimento al Tav.
Nel nostro Paese in questi anni sono, infatti, avvenute cose assai strane. Nessuno ha mai sottoposto a giudizio – a mio avviso, con ragione – gli autori di «istigazioni» assai più gravi e impegnative come quelle, praticate da ministri della Repubblica e capi del Governo, dirette a sovvertire l’unità nazionale o a evadere le tasse. Ma, in Val Susa, Erri De Luca non è rimasto isolato: alcuni responsabili di associazioni ambientaliste sono stati indagati per «procurato allarme» in relazione alla presentazione di un documento-denuncia concernente i rischi in atto al cantiere della Maddalena a causa di una frana, l’uso della espressione «libera Repubblica della Maddalena» è stato considerato un sintomo di attività sovversiva, la distribuzione di volantini contro il Tav (senza commissione di reati) è stata ritenuta un indice di potenziale irregolarità di condotta (sic!) di alcuni studenti minorenni e via seguitando.
Affermare la liceità penale delle affermazioni di De Luca non può non incidere anche su queste situazioni.
Terzo. Alcuni decenni orsono ci fu, in alcuni settori della magistratura, un’attenzione significativa ai temi della libertà di manifestazione del pensiero. Sul finire degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, in particolare, Magistratura democratica ingaggiò una dura battaglia culturale sul punto stigmatizzando, tra l’altro, «provvedimenti che hanno creato un clima di intimidazione particolarmente pesante verso determinati settori politici» ed esprimendo «profonda preoccupazione rispetto a quello che non può apparire che come un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione, e come grave sintomo di arretramento della società civile» (ordine del giorno Tolin, dicembre 1969) e tentando anche, pur senza successo, di promuovere un referendum abrogativo dei reati di opinione (tra cui quell’articolo 414 del codice penale contestato a De Luca).
Oggi ciò sembra un lontano ricordo. Chissà che la sentenza del Tribunale di Torino non stimoli una nuova stagione di sensibilità al riguardo.
Quarto. In questa vicenda ha brillato per assenza e silenzio gran parte degli intellettuali e della cultura giuridica italiana.,Non è un caso che anche l’appello diffuso alla vigilia del processo da scrittori e da uomini e donne dello spettacolo rechi, per quattro quinti, sottoscrizioni francesi… Non è la prima volta in questa epoca di pensiero unico.
Per carità, nessuno pretende nuovi Pasolini o Sciascia e del resto, come avrebbe detto Manzoni, «il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Ma un po’ di dignità non guasterebbe. Anche questo ci ricorda la sentenza torinese.
No Tav. Il tribunale di Torino fa prevalere l’articolo 21 della Costituzione sul codice Rocco. Il fatto non sussiste come reato. Lo scrittore in aula prima della sentenza: rivendico la mia nobile parola contraria
Assolto perché il fatto non sussiste. Cade l’accusa di istigazione a delinquere per Erri De Luca. E finisce così un processo che non sarebbe mai dovuto iniziare che ha visto sul banco degli imputati, per un reato d’opinione, lo scrittore napoletano, reo di aver sostenuto in alcune interviste che la «Tav va sabotata».
Dopo la lettura del dispositivo della sentenza da parte del giudice monocratico Immacolata Iadeluca, l’aula gremita è esplosa in un applauso. L’autore de Il peso della farfalla è rimasto quasi impassibile, nascondendo la commozione, poi ha dichiarato: «Mi sono trovato in una lunga sala d’attesa che adesso è finita. Rimane la grande solidarietà delle persone che mi hanno sostenuto qui e in Francia. Ero tranquillo perché avevo fatto il possibile — ha aggiunto — Questa assoluzione ribadisce il vigore dell’articolo 21 della costituzione che garantisce la più ampia libertà di espressione».
Ieri, nella maxi aula 3 del Palagiustizia di Torino, utilizzata per i grandi processi ThyssenKrupp ed Eternit, con la sentenza di assoluzione l’articolo 21 della Costituzione ha prevalso sull’articolo 414 del codice penale fascista. Prima che la giudice si ritirasse in camera di consiglio per quattro ore, Erri De Luca aveva letto alcune dichiarazioni spontanee. «Sarei presente in quest’aula anche se non fossi lo scrittore incriminato. Considero l’imputazione contestata un esperimento, il tentativo di mettere a tacere le parole contrarie. Svolgo l’attività di scrittore e mi ritengo parte lesa di ogni volontà di censura. Confermo la mia convinzione che la linea di sedicente alta velocità in Val Susa va ostacolata, impedita e intralciata, dunque sabotata per la legittima difesa del suolo e dell’aria di una comunità minacciata. La mia parola contraria sussiste e sono curioso di sapere se costituisce reato».
Per le sue dichiarazioni, ritenute dall’accusa un reato, i pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino avevano chiesto per l’imputato una condanna a otto mesi di reclusione, in seguito alla denuncia di Ltf, la società italo-francese che si è occupata dal progetto e delle opere preparatorie della Torino-Lione. L’accusa è caduta. E per il popolo No Tav, che nel pomeriggio ha festeggiato De Luca a Bussoleno, si tratta di «un’altra sconfitta per i pm con l’elmetto». La vittoria «della parola contraria, più forte delle parole del potere», ha scritto notav .info.
De Luca ha difeso la legittimità e nobiltà del verbo sabotare. «Sono incriminato per aver usato il verbo sabotare. Lo considero nobile e democratico. «Nobile — ha osservato — perché pronunciato e praticato da valorose figure, come Gandhi e Mandela, con enormi risultati politici. Democratico perché appartiene fin dall’origine al movimento operaio e alle sue lotte. Per esempio — ha sostenuto — uno sciopero sabota la produzione». Parole «dirette a incidere sull’ordine pubblico» per la procura di Torino. «Ma io difendo l’uso legittimo del verbo sabotare nel suo significato più efficace e ampio», ha affermato De Luca, che si è detto disposto persino a «subire una condanna penale per il suo impiego» piuttosto che a farsi «censurare o ridurre la lingua italiana». La giudice, assolvendo lo scrittore con formula piena, perché «il fatto non sussiste», sembra avere accolto questa tesi.
La politica si è divisa su sui social tra chi ha apprezzato e festeggiato la decisione del Tribunale (M5s, Sel, Prc, Arci) e chi si invece l’ha fortemente criticata e si è detto dispiaciuto se non addirittura irritato dalla sentenza: un ampio schieramento che va dal Pd Stefano Esposito a Maurizio Gasparri. Duro l’ex ministro Maurizio Lupi, caduto in seguito a uno scandalo sulle «grandi opere» e da sempre favorevolissimo alla Torino-Lione: «De Luca non avrà commesso un reato, ma forse ha fatto di peggio, ha convinto tanti giovani che lanciare una molotov o picchiare un poliziotto è un diritto. Non sarà l’assoluzione di un tribunale a togliergli questa colpa».
Soddisfatto il legale dello scrittore, Gianluca Vitale: «La sentenza riporta le cose al loro posto, si può parlare anche di Tav. Bisogna che tutti capiscano che c’è un limite alla repressione, le opinioni devono essere lasciate libere. Anche Torino e la Val Susa sono posti normali». Talvolta anche l’Italia può essere un paese normale.
Erri de Luca, non se l’aspettava un’assoluzione, vero?
Per mio temperamento sono sempre preparato al peggio ma in questo caso i pronostici erano impossibili perché si è trattato di un processo sperimentale: nessuno scrittore era mai stato incriminato prima con questo arnese del codice fascista — l’istigazione — che risale al 1930.
La sua dichiarazione spontanea prima della sentenza ha messo in luce l’assurdità di avere ancora in vigore il codice Rocco.
Quell’articolo 414 non era mai stato usato prima contro l’opinione di una persona, ma ho voluto sottolineare il conflitto tra l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la nostra libertà di espressione e quell’articolo del codice penale fascista che invece la nega. Questa era la posta in gioco nel processo, al di là del mio trascurabilissimo caso personale. Aveva un peso per stabilire la temperatura della libertà di parola: se soffre di febbre, aggredita da una volontà di censura, o se è sfebbrata ed è sana.
E qual è la diagnosi?
La sentenza dice che l’articolo 21 della Costituzione gode di ottima salute: il tentativo di sabotaggio da parte della pubblica accusa è stato respinto.
La ministra di Giustizia francese, Christiane Taubira, ha twittato due volte in suo onore. «#ErriDeLuca, quando tutto sarà scomparso dietro all’ultimo sole, resterà la piccola voce dell’uomo, citando ancora Tennessee Williams», scrive nel primo post. Mentre nel secondo la Guardasigilli francese usa una delle poesie del comunista Louis Aragon per salutare la sentenza nella quale, a suo giudizio, sfuma la giustizia salomonica.
Non lo sapevo. Posso solo dire che da noi un ministro di giustizia che cita uno scrittore come minimo sbaglia.
In questa vicenda, ha sentito più vicine le istituzioni francesi che quelle italiane?
La Francia si è espressa al massimo livello delle sue istituzioni, considerandomi un suo cittadino: il presidente della Repubblica francese è intervenuto più volte su questo caso.
Lo stesso François Hollande avrebbe telefonato a Renzi per invocare clemenza nei suoi confronti. Che lei sappia, è vero?
osì risulta dal Journal Du Dimanche, ed è evidente che questa notizia non può essere uscita che dall’Eliseo. Il presidente francese ha evidentemente permesso che la notizia diventasse pubblica. Dunque, è una cosa certa. La Francia, attraverso il suo massimo esponente, si è tirata fuori da questa storia: è come se avesse detto «una condanna di questo tipo non è concepibile per noi, non in nome dei francesi».
Secondo lo stesso settimanale francese, però, il premier italiano non avrebbe mostrato «alcuna indulgenza». E comunque ieri Palazzo Chigi ha smentito «il merito e le circostanze» della notizia.
egare l’evidenza è uno degli stati dell’ubriachezza. Ma tra Renzi e Hollande io credo al presidente francese, ovviamente.
Lei ha avuto contatti personali con le istituzioni d’Oltralpe? Perché l’hanno presa così a cuore?
No, mai avuto contatti. Lo fanno solo perché sono uno scrittore. E uno scrittore incriminato per le sue parole viene adottato da quella società civile, da quella opinione pubblica. È già successo ad altri scrittori, che erano in situazioni ben peggiori delle mie, di trovare lì una seconda cittadinanza. Io resto un ostinato cittadino italiano, non mi faccio smuovere dalla mia cittadinanza, ma lì mi hanno voluto sostenere come se fossi un loro concittadino.
Prima della sentenza ha voluto ripetere che per lei la Tav va ostacolata e sabotata. Voleva farsi capire meglio o sfidare il suo giudice?
La parola sabotaggio ha tanti significati che non riguardano il danneggiamento fisico. Non volevo che il verbo «sabotare», che ha piena cittadinanza nel vocabolario italiano, fosse ridotto a questo: a un guasto meccanico. O che fosse censurato da una condanna penale. D’altra parte, anche questa incriminazione contro di me voleva sabotare la libertà di parola. Ho detto che se quelle mie parole erano un crimine, non solo ho ripetuto il crimine ma lo avrei continuato a ripetere.
Adesso che «è stata impedita un’ingiustizia», come ha detto lei, c’è da fare qualcosa ancora su questo fronte?
Intanto è stato fermato un tentativo di censura che poteva essere un precedente. Dunque, le persone si possono sentire più incoraggiate nella loro libertà di espressione. Ma c’è ancora molto da fare perché le lotte delle popolazioni riescano ad avere accesso ai canali di informazione che costruiscono l’opinione pubblica.
E sulla Tav?
La Tav della Val di Susa — sedicente «alta velocità», parole che sono una frottola oltre che una truffa — è un’opera che non si farà. Si saboterà. Da sola: per mancanza di copertura finanziaria.
Nell’aula giudiziaria c’erano molti valsusini…
Sì, e giustamente considerano questa assoluzione una loro vittoria, perché è stata una delle rare volte in cui qualcuno impegnato a contrastare la Tav è stato assolto.
Un'analisi inquietante ma corrispondente al vero delle complicità oggettive del rottamatore d'Italia. «Se a Renzi riesce di devastare il Paese, è perché in tanti ne sostengono variamente l’azione».
Il manifesto, 18 ottobre 2015
Dinanzi all’enormità di quanto sta accadendo occorre essere esigenti sul terreno analitico. Com’è possibile che tutto questo avvenga? Chi ne è responsabile?
Certo, Renzi è oggi l’incontrastato protagonista della scena politica italiana. Chi si è a lungo baloccato col mantra del politico «senza visione» riconsideri le decisioni assunte in questi venti mesi di governo .La buona scuola e il Jobs Act; le privatizzazioni e i tagli alla spesa sociale; il forsennato attacco al sindacato; il combinato tra Italicum e devastazione iper-presidenzialista della Costituzione; l’occupazione militare dei vertici Rai; lo scempio sistematico dei regolamenti parlamentari; lo sdoganamento di politici pluri-inquisiti.
Tutto questo non sarà «visione», sarà semplice istinto, ma di certo non è difficile leggervi una traiettoria lineare di stampo autoritario e thatcheriano.
Ma Renzi non è solo. Da solo o col solo cerchio magico dei Lotti e dei Delrio non potrebbe imporre al Paese il proprio disegno. Un discorso serio chiede a questo punto un’analisi attenta delle filiere di connivenza e di complicità che gli permettono di dilagare consolidando il proprio potere e trasformando pezzo dopo pezzo il sistema politico e gli assetti sociali del Paese. Il tutto senza colpo ferire: senza conflitti, senza resistenza né sostanziale opposizione su qualsivoglia terreno.
Per un verso questo discorso guarda in alto, ai mandanti interni e internazionali. Renzi piace ai poteri forti dell’imprenditoria privata, ai ricchi e ai grandi investitori, agli alti gradi della dirigenza pubblica. È gradito alle corporazioni professionali, ai corpi chiusi dello Stato, al possente esercito degli evasori fiscali. E va a genio, non da ultimo, alle centrali del potere europeo e atlantico, di cui non mette mai in discussione, se non a parole, interessi e scelte.
Ma nemmeno tutto questo basta. Il renzismo non è una dittatura, ricatti e intimidazioni non tolgono che le istituzioni funzionino ancora in base alla relativa autonomia di ogni singola articolazione dello Stato e della società civile. E la stessa grancassa mediatica senza la quale il regime imploderebbe non obbedisce ai dettami di un’occhiuta censura governativa. Insomma, i poteri alti suggeriscono e proteggono, ma neanche il loro appoggio da solo basterebbe a garantire al capo del governo le condizioni necessarie all’efficacia e alla continuità di un’azione a suo modo «rivoluzionaria», nel senso della sovversione dell’ordinamento democratico e costituzionale.
Dove guardare allora? Il suggerimento è quello di riprendere in mano l’ultimo libro di Primo Levi, scritto pochi mesi prima di por fine alla vita, un po’ il suo testamento spirituale. Ne I sommersi e i salvati i Lager sono considerati un laboratorio per l’analisi delle dinamiche di potere, un microcosmo in qualche modo corrispondente all’intera società tedesca. Ciò che colpiva Levi era il fatto che persino lì, nell’istituzione paradigmatica della violenza brutale e della negazione dell’umano, il potere funzionasse anche grazie al supporto di una parte delle sue stesse vittime. Che persino lì dove la ferocia del potere militare trionfava, l’ordine era garantito anche dall’obbedienza, la quale implicava a sua volta una qualche forma di consenso, di connivenza, di complicità.
In quel microcosmo «intricato e stratificato» si ripeteva «la storia incresciosa e inquietante dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il campo ma acconsente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me”». In poche pagine Levi stilizza un’analisi delle motivazioni (corruzione, viltà, doppiezza, calcolo opportunistico) che inducevano la «classe ibrida» degli oppressi a collaborare con l’oppressore. In questo senso (e soltanto in questo) la «zona grigia» dei kapos e delle Squadre speciali del Lager corrispondeva a quella assai più vasta dei cittadini tedeschi (ed europei) che – senza l’attenuante dell’immediata minaccia della vita – sostennero il regime nazista, approfittarono dei privilegi che ne traevano e variamente cooperarono con i suoi crimini.
Lo schema è generale e le differenze, molto profonde, non ingannino. A giudizio di Levi il modello del Lager serve a individuare ingredienti costanti delle dinamiche di potere. Serve a capire come il potere operi anche in una società comandata da uno Stato totalitario. E serve a maggior ragione a comprendere come esso funzioni in un Paese democratico, dove la relazione politica è caratterizzata da un tasso di violenza incomparabilmente minore. Se ottenere consenso era necessario persino nel Lager, è evidente che senza consenso non si potrebbe governare una società come la nostra, dove il potere è costretto a fare un uso molto più parco della violenza e dove quindi è assai più complicato preservare le gerarchie costituite e i rapporti di forza.
Allora, per tornare a Renzi, dovremmo smetterla di farne la nuova incarnazione del demonio assolvendo in blocco chi gli permette di distruggere in allegria. Se a Renzi riesce di devastare il Paese, è perché in tanti ne sostengono variamente l’azione. I suoi compagni di partito di tutte le stirpi e a ogni livello in primo luogo, nonché quanti si ostinano nonostante tutto a votarlo. Gli alleati del suo Pd in seconda battuta, nelle amministrazioni e nelle varie sedi del sottogoverno. E poi i diversi segmenti della società civile – pezzi del sindacato e del mondo cooperativo; dell’associazionismo, dell’informazione e dell’intellettualità – che brillano per concorde silenzio come se, via Berlusconi, qualsiasi problema di democrazia e di giustizia sociale fosse per incanto risolto. È vero, ogni chiamata di correo è sgradevole, tanto più se indiscriminata. Ma la furbesca collaborazione col potere da parte dei subordinati e persino degli oppressi è addirittura scandalosa. E, giunte le cose al punto in cui sono, fare finta di nulla non ha proprio alcun senso.
Per l'ignoranza dei più, la follia dei governanti, la complicità dei mass media rischiamo l'approvazione un trattato che può «violare i diritti umani, comportando disoccupazione, danni all'agricoltura, frodi alimentari, devastazione dell’ambiente, inquinamento delle acque, contaminazione radioattiva, deformazioni genetiche». Il manifesto, 17 ottobre 2015
In molti paesi civili, di là e di qua dall’Atlantico, dagli stessi Stati uniti alla Germania, il Ttip è oggetto di critiche severe e ben fondate.
Sia ai critici sia ai sostenitori del Ttip, e soprattutto a questi, sarebbe utile la lettura di un documento delle Nazioni Unite: Fourth report of the Independent Expert on the promotion of a democratic and equitable international order. È un documento circa le conseguenze giuridiche del Ttip, conseguenze non meno gravi — la privatizzazione del diritto — di quelle immediatamente economiche. Ne riprendo qui alcuni passi.
«È forse ammissibile che a un investitore che specula o a una banca che concede prestiti senza garanzie sia comunque assicurato un profitto? No: qualche volta gli investitori vincono, qualche volta perdono. Ciò che è anormale è che un investitore pretenda la garanzia di un profitto, e che si crei un sistema parallelo di risoluzione stragiudiziale delle controversie, un sistema che normalmente non è indipendente, trasparente, affidabile o almeno impugnabile, e soprattutto che si cerchi di usurpare le funzioni dello Stato. Si tratterebbe di una privatizzazione dei profitti e di una socializzazione delle perdite (all’Onu si ricordano di Ernesto Rossi!)».
Nonostante le analisi dell’Unctad, di J. Stiglitz, P. Krugman e J. Capaldo, le società transnazionali continuano a spingere i governi verso nuovi accordi di investimenti internazionali con clausole di Risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (Investor-state dispute settlement: Isds), clausole che potrebbero portare a gravi crisi internazionali. La ragione addotta è che gli investitori non si fidano dei sistemi giudiziari nazionali, e preferiscono creare una giurisdizione separata per le controversie commerciali; tuttavia è difficile capire perché mai uno Stato dovrebbe accettare l’implicita squalificazione dei suoi tribunali nazionali e consentire la creazione di un sistema privatizzato di risoluzione delle controversie: piuttosto che andare in causa davanti ai tribunali nazionali, gli investitori si affidano a tre arbitri che decideranno se i loro diritti sono stati violati da uno Stato.
Ciò è tanto più grave quando si tratta di attività economiche e finanziarie che possono violare i diritti umani, in quanto comportino disoccupazione, danni alla agricoltura e frodi alimentari, devastazione dell’ambiente, inquinamento delle acque, contaminazione radioattiva, deformazioni genetiche.
Di qui una prima raccomandazione: «Gli Stati dovrebbero abolire il sistema di risoluzione delle controversie tra investitori e Stato, e sostituirlo con una Corte degli investimenti internazionali».
Il documento dell’Onu si può trovare a questo indirizzo internet: http:// www .ref world .org/ p d f i d / 5 5 f 2 8 f 2 e 4 . pdf. Un cenno, tuttavia, a questi «investitori» internazionali, tanto corteggiati dal governo italiano e che sono grandi imprese multinazionali e grandi speculatori finanziari quali BlackRock e Goldman Sachs — ben conosciuti e ben introdotti in Italia.
Ora un investimento è davvero tale se aumenta lo stock di capitale di un paese, per esempio se si costruisce una nuova fabbrica, si impiegano nuove macchine e si assumono nuovi lavoratori. Se un «investitore» di un altro paese compera una impresa italiana, si tratta soltanto di un passaggio di proprietà e di poteri, con conseguenze ovvie e aggravate dalla privatizzazione del diritto di cui si è detto.
Notizia interessante per quelli che invece del cervello hanno un portafoglio. «Il lavoro straniero vale 10 miliardi e paga le pensioni a 620 mila italiani. La Fondazione Moressa calcola il peso dei contributi previdenziali di oltre 2,3 milioni d’immigrati».
La Repubblica, 17 ottobre 2015
In Italia 620mila anziani devono ringraziare gli immigrati: sono loro a “pagargli” la pensione. Nell’ultimo anno infatti i lavoratori stranieri hanno versato ben 10,29 miliardi di euro in contributi previdenziali. Lo sa bene l’Inps: essendo prevalentemente in età lavorativa, i migranti sono soprattutto contribuenti. Non a caso, oggi la popolazione con più di 75 anni rappresenta l’11,9% tra gli italiani, solo lo 0,9% tra gli stranieri.
A pesare il tesoretto dei “nuovi italiani” è il Rapporto 2015 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, che verrà presentato il 22 ottobre a Roma.
Secondo le stime Istat, tra 10 anni gli stranieri supereranno quota 8 milioni, con un’incidenza del 13,1% sulla popolazione complessiva. Nel 2050, rappresenteranno un quinto della popolazione, mentre un italiano su quattro (23,1%) avrà più di 75 anni. «Dati che evidenziano il peso degli immigrati nel nostro Paese – sottolineano i ricercatori della Moressa – oggi, infatti, 1 italiano su 10 ha più di 75 anni; tra gli stranieri 1 su 100. In altre parole, nei prossimi decenni la popolazione italiana è destinata a invecchiare, mentre tra gli stranieri aumenteranno gli adulti in età lavorativa (oggi abbiamo 1 milione di minori)». E così già oggi il contributo economico dell’immigrazione si fa sentire soprattutto sui contributi pensionistici. «Contributi che vanno a sostenere il sistema nazionale del welfare (oltre alle pensioni, anche altri trasferimenti come maternità e disoccupazione) che si rivolge prevalentemente alla popolazione autoctona. Infatti, la voce “pensioni” è una delle voci principali della spesa pubblica nazionale e, vista l’età media, la popolazione straniera ne beneficia in misura molto marginale. Anzi, gli stranieri sono soprattutto contribuenti».
Grazie agli ultimi dati disponibili delle dichiarazioni dei redditi 2014 (anno di imposta 2013), la Fondazione Moressa fa una stima del contributo previdenziale dei nati all’estero. Nel tempo l’occupazione straniera nel nostro Paese è aumentata arrivando a quasi 2,2 milioni nel 2013 e 2,3 milioni nel 2014. Nel 2013 i loro contributi previdenziali hanno raggiunto quota 10,29 miliardi. «Ripartendo il volume complessivo per i redditi da pensioni medi, si può affermare che i lavoratori stranieri pagano la pensione a 620mila anziani italiani. Inoltre – scrivono i ricercatori – sommando i contributi versati negli ultimi cinque anni si può calcolare il contributo degli stranieri dal 2009 al 2013 pari a 45,68 miliardi di euro, volume sufficiente per una manovra finanziaria».
Non è tutto. Il Rapporto 2015 elenca altri aspetti dell’immigrazione che incidono sull’economia del Paese. Il primo riguarda il Pil prodotto dai 2,3 milioni di occupati stranieri: un valore aggiunto di 125 miliardi, pari all’8,6% della ricchezza nazionale. A livello fiscale, i contribuenti stranieri hanno dichiarato nel 2014 redditi per 45,6 miliardi, versando 6,8 miliardi di Irpef. E ancora: le imprese condotte da persone nate all’estero sono 524.674 (8,7% del totale) e producono 94,8 miliardi di euro di valore aggiunto. Nel periodo 2009/2014, gli imprenditori stranieri sono aumentati del 21,3%, mentre i nati in Italia sono diminuiti (-6,9%). «Infine – concludono gli studiosi della Fondazione – sebbene non sia possibile quantificare tutti i costi e benefici diretti e indiretti della presenza straniera, il confronto tra i flussi finanziari in entrata e in uscita aiuta a dare la dimensione dell’impatto economico dell’immigrazione: + 3,9 miliardi di saldo attivo per le casse dello Stato ».
«La Repubblica, 17 ottobre 2015
IN quella sterminata topografia dell’immaginario collettivo che è la cosiddetta geografia dei Luoghi Santi, costruzione mitica cristiano-bizantina sedimentata da due millenni tra sangue e leggende, si esprimono da sempre i conflitti fra le tre religioni cosiddette del libro: giudaismo, cristianesimo e islam, che poggiano sulla stessa tradizione sapienziale in origine espressa da quel caotico e oscuro ancorché prodigiosamente suggestivo racconto di gesta “sacre” che è l’Antico Testamento giudaico. In quella topografia, la cosiddetta tomba di Giuseppe a Nablus ora incendiata nuovamente dai manifestanti palestinesi per la costernazione del loro presidente Abu Mazen, ultimo atto dell’escalation di violenza che da due settimane insanguina lo scacchiere arabo- israeliano, ha una posizione particolare.
La suggestione esercitata dai capitoli 37-50 della Genesi sulle religioni monoteiste, la carica mitica del personaggio di Giuseppe conducono all’invenzione del suo monumento. La leggenda sulla presenza delle ossa di Giuseppe a Sichem, nei suburbi di Neapolis, compare per la prima volta in Eusebio, il teorico ecclesiastico dell’età costantiniana, in contemporanea con l’invenzione della topografia dei Luoghi Santi da parte di quella geniale comunicatrice che fu Elena, la madre del primo imperatore Costantino. Un’altra donna viaggiatrice, Paola, l’aristocratica dama romana amica di Girolamo, con il suo primo avvistamento della cosiddetta tomba dei dodici patriarchi diede vita alle leggende che dal V secolo in poi intrecciarono la loro propaganda ai conflitti tra samaritani e bizantini, in un caleidoscopio di segni, simboli, immagini oniriche, che non prima del XII secolo, alla fine del regno crociato di Tancredi d’Altavilla, si materializzarono nelle scarne e dubbie tracce di marmo avvistate dai grandi pellegrini del medioevo globale come Beniamino di Tudela e Guglielmo di Malmesbury.
«Questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti».
Huffingtonpost.it, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)
Tempo fa abbiamo visto le immagini, a Film Luce, di Marchionne e Renzi in visita allo stabilimento Fiat di Melfi. Abbiamo sentito resoconti roboanti del successo dei due leader tra i dipendenti dell'azienda, desiderosi solo di farsi un selfie con loro. In realtà il personale attorno ai due era accuratamente selezionato, ma forse non abbastanza visto che sulla rete ha spopolato un video, ove si vedeva una lavoratrice ostentatamente rifiutare la stretta di mano al presidente del consiglio. In quelle immagini di regime abbiamo visto lo sfolgorio delle tute bianche dei lavoratori, presentate come simbolo della tecnologia avanzata nella costruzione delle automobili. In realtà le condizioni di lavoro a Melfi sono durissime, la fatica e lo stress son quelle dei tempi di Charlot, ma le tute bianche fanno sembrare i lavoratori come se operassero nella Silicon Valley.
Il bianco però comporta un problema, si sporca facilmente e per le donne della Fiat questo è diventato un doppio assillo. Sì perché i pantaloni bianchi son ancora più difficili da portare quando la diversità biologica delle donne reclama i suoi diritti. Alla catena di montaggio non ci sono pause in più, non ci sono lavori più facili, non ci si può neppure sedere. Verso la diversità delle donne non c'è alcun rispetto, anzi alcune operaie hanno denunciato di dover lavorare appiccicate ad addetti maschi, perché il taglio dei tempi ha comportato anche quello degli spazi.
Non potendo avere il sacrosanto riconoscimento dei propri tempi biologici, come forma di tutela elementare della propria dignità le lavoratrici hanno chiesto almeno di poter indossare pantaloni scuri sotto i giubbotti bianchi. Apriti cielo, la burocrazia aziendale è andata in tilt. Come? Assumersi la responsabilità di cambiare il colore alle tute, renderle bicolori addirittura? Ma scherziamo, sarebbe un messaggio allusivo al disordine, sovversivo persino. Il gran capo di Detroit non lo accetterebbe mai, avranno pensato nel terrore i capetti di Melfi e quindi hanno respinto la richiesta.
Ma quelle operaie sono abituate a non arrendersi tanto facilmente e così hanno lanciato una campagna pubblica per la loro dignità nel vestire. 500 di esse, tutte quelle non assunte con contratti a termine, hanno sottoscritto una petizione che chiedeva i pantaloni scuri. A questo punto la direzione aziendale non poteva più ignorare la richiesta, ma, come avviene in tutti i regimi stupidamente autoritari, la risposta ha peggiorato la situazione.
I manager della Fiat hanno subito convocato gli amici di Fim, Uilm, Fismic, Ugl, i sindacati firmatari di tutto e che tutto son sempre disposti a firmare. In una riunione composta di soli maschi si è deciso di respingere ancora una volta la richiesta di pantaloni scuri, ma di offrire alle operaie un super pannolone da indossare sotto il bianco. Con goffo francesismo azienda e sindacati complici hanno annunciato che le operaie avrebbero avuto delle coulottes benignamente pagate dalla Fiat.
Naturalmente le lavoratrici si son giustamente ancora più arrabbiate e la vicenda è ancora aperta. A chi esalta la flessibilità della lavoro, la competitività, la produttività come basi della modernità, questa vicenda ridicola ed offensiva al tempo stesso mostra tutta la regressione burocratica e medioevale che c'è dentro l'azienda che è stata indicata come modello per tutti. Matteo Renzi ha recentemente affermato che a Sergio Marchionne dovrebbe essere fatto un monumento. Sarebbe più realistico se in esso il capo della Fiat fosse raffigurato mentre indossa un pannolone.
«Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazionale della sinistra. Per questo la nuova capacità utopica della sinistra deve fondarsi su una nuova concezione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione politica planetaria del potere».
Il manifesto, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)
C’è vita se c’è capacità utopica, dove per utopia s’intende anche l’immaginazione di “luoghi di vita” buoni, desiderati, da realizzare. La sinistra - l’insieme delle forze sociali organizzate anche piano politico al servizio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani rispetto a diritti e dignità - ha purtroppo sperimentato a sue spese la perdita di immaginazione e capacità utopica.
I gruppi dominanti sono riusciti, a partire dagli anni ’70, ad imporre nuovamente la loro narrazione della vita, della società e del mondo. E per due ragioni principali. Da un lato, ritornati al potere all’epoca di Reagan e Thatcher, hanno operato una massiccia de-costruzione ideologica e sociale dello Stato del welfare. Dall’altro, non avendo sviluppato una visione politica autonoma della scienza e della tecnologia, la sinistra non ha potuto giocare alcun ruolo innovatore influente sulle strategie di controllo ed uso delle nuove tecnologie del vivente, cognitive, dell’informazione e della comunicazione, energetiche e delle tecnologie dei materiali, sulla base delle quali l’economia mondiale e le società “sviluppate” sono state profondamente ristrutturate.
Le nuove narrazioni “positive” del mondo e delle trasformazioni sociali sono cosi diventate monopolio dei gruppi dominanti. Le sinistre sono state relegate al ruolo secondario di “forze di reazione”. I dominanti hanno invece rafforzato il loro potere in quanto fissatori dell’agenda politica planetaria: al centro del dibattito filosofico, politico e culturale c’ è stata solo la loro utopia (mistificatrice) della globalizzazione economica, da loro data come creazione inevitabile e irresistibile (senza alternative) dei luoghi di vita dell’umanità.
Nel corso degli anni ’90, c’è stato un risveglio utopico a sinistra. Mi riferisco alla tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, al principio di sostenibilità in alternativa all’imperativo della crescita economica infinita, al successo contro l’Ami ed l’Omc (Seattle), al bilancio partecipativo, al buem vivir, al lancio del Forum sociale mondiale. Purtroppo, si è trattato di un fenomeno di corta durata. L’incapacità delle sinistre d’integrare e federare le loro forze in azioni e programmi comuni mondiali durevoli, ha permesso ai gruppi dominanti, di sconfiggerle ai vari livelli nazionali in nome della nuova modernità legata alla “globalizzazione delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche” e della lotta contro il preteso nuovo nemico mondiale, il terrorismo. Se a ciò si aggiungono le ripetute crisi economiche e finanziarie che da più di 25 anni hanno devastato i tessuti sociali e le comunità locali, nazionali, continentali e mondiali, si capisce il perché mai come oggi la potenza, violenta del sistema dominante è stata cosi grande a livello mondiale (il pianeta) e globale (in tutti i campi).
Due gli insegnamenti generali per le sinistre del mondo, ed in particolare per la sinistra in Europa. Primo. Non v’è capacità utopica da solitari. La grande forza utopica di Syriza (in breve: la ri-organizzazione europea del debito) è stata duramente calpestata perché nessun altro governo e popolo europeo se n’è fatto alleato esplicito e convinto. Ri-costruire una capacità utopica forte e solida della sinistra è un’opera di lungo periodo che deve avvenire su basi europee e mondiali (l’esperienza dell’acqua bene comune insegna).
Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazionale della sinistra. La lotta contro il diritto di proprietà intellettuale sul vivente deve essere continentale e mondiale. Lo stesso vale della lotta, da rinnovare, contro gli armamenti. Idem per quanto riguarda la messa fuori legge dei fattori strutturali generatori dei processi d’impoverimento per natura transnazionali e mondiali. Per questo la nuova capacità utopica della sinistra deve fondarsi su una nuova concezione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione politica planetaria del potere. Secondo. Non v’è riconquista della capacità utopica senza un forte radicamento “locale” delle innovazioni grazie alla promozione di “comunità di vita” glocali, cioè senza la traduzione concreta a livello delle comunità locali dei principi e delle strategie mondiali. Questo significa l’esistenza di forze sociali portatrici di interessi collettivi mondiali ma localmente diversificati e plurali. In passato, i contadini, gli operai, la piccola e media borghesia, hanno svolto tale ruolo. Nel XXI° secolo, tocca all’umanità, glocale per definizione, di esprimere la capacità utopica del mondo. Il futuro della sinistra è l’umanità, coscienza sociale della globalità della vita e della mondialità della condizione umana (cittadinanza universale plurale).
cono nuovi diritti per far causa ai governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sulle normative che, secondo loro, diminuiscono la redditività attesa dei loro investimenti.
Gli interessi delle aziende internazionali promuovono l'ISDS come un sistema necessario per proteggere i diritti di proprietà laddove manca lo stato di diritto e dei tribunali attendibili. Ma questo argomento non ha senso. Gli Stati Uniti stanno cercando lo stesso meccanismo in un mega-accordo simile con l'Unione Europea, l'Accordo Transatlantico per il commercio e gli investimenti, anche se ci sono pochi dubbi sulla qualità degli ordinamenti giuridici e dei sistemi giudiziari europei.
Gli investitori meritano tutela contro l'espropriazione o norme discriminatorie. Ma l'ISDS va ben oltre. L'obbligo di risarcire gli investitori per le perdite di profitti attesi può ed è stato applicato persino laddove le regole non sono discriminatorie e i profitti sono realizzati causando un danno sociale.
La Philip Morris International è attualmente in causa contro l'Australia e l'Uruguay (che non è partner del TPP) che richiedono di apporre sui pacchetti di sigarette delle etichette di avvertenza. Il Canada, minacciato da una simile querela, qualche anno fa ha fatto marcia indietro sull'introduzione di un'etichetta analoga.
Dato il velo di segretezza intorno alle trattative del TPP, non è chiaro se il tabacco verrà escluso da alcuni aspetti dell'ISDS. In entrambi i casi, la questione principale rimane: tali disposizioni rendono difficile ai governi svolgere le loro funzioni basilari - proteggere la salute e la sicurezza dei loro cittadini, assicurare la stabilità economica, e salvaguardare l'ambiente.
Si immagini cosa sarebbe accaduto se queste disposizioni fossero state messe in atto quando gli effetti letali dell'amianto furono scoperti. Anziché chiudere le aziende e costringerle a risarcire coloro che sono stati danneggiati, in base all'ISDS, i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per non uccidere i loro cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte - la prima pagando per i danni alla salute causati dall'amianto, e poi risarcendo i produttori per la perdita dei loro profitti nel momento in cui il governo fosse intervenuto per regolamentare un prodotto dannoso.
Non dovrebbe sorprendere che gli accordi internazionali dell'America producano un commercio gestito anziché libero. Questo è ciò che succede quando il processo di policymaking è chiuso agli stakeholder non commerciali - per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso.
1Con questo termine comunemente si definisce la pratica con cui le autorità regolatorie farmaceutiche condizionano il rilascio di autorizzazioni all'immissione in commercio dei farmaci generici all'esistenza o meno di brevetti sui principi attivi.
Articolo pubblicato da project-syndicate.org
Traduzione di Victor Murrugarra
«La manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus».
Il manifesto, 15 ottobre 2015
Dall’altro lato la manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus.
Nello stesso tempo per Renzi è necessario aggirare i paletti posti da Bruxelles. I censori europei hanno già mostrato i denti a Rajoy. E’ da vedere quindi quale benevolenza otterrà Renzi dai propri padroni e sodali, visto che il suo governo ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle elite economiche e politiche europee.
Da qui la centralità della cosiddetta riforma fiscale, definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”. A quanto riferisce la stessa Repubblica, non certo un organo antigovernativo, i proprietari di 75mila case di lusso e palazzi, ne trarranno ampi benefici, almeno 2800 euro in media a testa. Non importa se a farne le spese sarà la Sanità o altri istituti dello stato sociale. Un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere.
Per questo la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana. Il vecchio leader di Arcore almeno ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata a l’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche. Invece Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo. Confortato anche dai propositi del leader di Rignano di intervenire di autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire.
Qui si scende negli inferi del diabolico. Il taglio dell’Ires verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità.
Renzi vuole durare. Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci. Vuole e deve risolvere la dicotomia di cui parlava Niklas Luhmann, su cui forse gioverebbe tornare a riflettere per capire le derive del presente. Quella tra potere e complessità sociale. La seconda viene compressa e strozzata dalle controriforme costituzionali, istituzionali e elettorali in atto (che speriamo di potere smantellare con gli opportuni referendum). Il primo va al di là di quel “mezzo di comunicazione”, di quel “sottosistema” autonomizzato di cui parlava Luhmann nella sua polemica con Habermas. In quanto articolazione di un potere superiore, quello espresso dagli organi a-democratici della Ue, diventa strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista e contemporaneamente di inclusione/corruzione di strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva. Cioè il conflitto.
«Sappiamo bene che contro un avversario formidabile abbiamo solo il risveglio della ragione e delle coscienze. Un percorso difficile. Ma comunque esiste una rabbia civile che non consente il silenzio. Talvolta, parlare è un dovere che non tollera calcoli sottili, pur se nessuno ascolta».
Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)
Nel 1948 nasceva l’Italia nuova, e si presentava al mondo con Ladri di biciclette. Oggi, abbiamo i ladri di Costituzione.
Se ladro è chi illecitamente si appropria di un bene che non gli appartiene e sul quale non ha titolo a mettere le mani, tale è appunto il caso di quelli che stanno approvando la riforma della Carta fondamentale. Perché non avevano legittimazione sostanziale a farlo, per la incostituzionalità della legge elettorale. Perché non avevano mai ricevuto alcun mandato dal popolo italiano, non essendo mai stata la riforma — questa riforma — illustrata e discussa in un contesto elettorale per l’inserimento in un programma di governo. Perché hanno usato ogni mezzo e forzature di prassi e regolamenti per mettere le mani su un bene comune e prezioso, scrigno di identità e storia del paese. Perché l’hanno fatto per motivi futili o abietti.
Ma il furto non si è certo consumato ieri, con il voto di 179 anime morte per il disegno di legge Renzi-Boschi. L’attività criminosa viene da lontano, dal patto del Nazareno e dalla proposta del governo. È continuata e aggravata, per le ripetute minacce di crisi, gli argomenti inconsistenti quando non mendaci, la sordità assoluta per critiche e dissensi, il disprezzo per il confronto democratico. E quel che stava per accadere è stato assolutamente chiaro quando l’esangue minoranza Pd ha esalato l’ultimo respiro, seguendo il pifferaio magico di Palazzo Chigi. Si è così condannata alla irrilevanza, unico peccato mortale che la politica non assolve mai. E anche il Pd di Renzi-Verdini nel suo insieme ha rotto ogni legame con i propri antenati, i veri padri fondatori della Repubblica. Come quegli eredi incapaci che dissipano nel vizio e nel gioco il patrimonio di grandi e nobili famiglie. Un partito non più liquido, ma liquidato.
Tutto era già scritto. Ma proprio per questo non siamo d’accordo con Zagrebelsky. Il suo argomento è che firmare l’articolo pubblicato sul manifesto da parte di alcuni costituzionalisti era inutile, non essendo possibile farsi ascoltare. Altra cosa sarà quando ci sarà il confronto davanti al popolo sovrano. Ma il punto è che quel confronto è già in atto, dal primo avvio della vicenda. La battaglia l’ha aperta Renzi, che da subito ha cercato la chiave del consenso populistico e demagogico, in una evidente prospettiva elettoralistica. Anche il referendum sarà uno scontro plebiscitario sulla persona del leader e sull’affidamento fideistico alle sue scelte. La campagna referendaria è già in corso anche se il procedimento ex art. 138 della Costituzione è ancora lontano dal concludersi. Si intreccia con il taglio delle tasse, l’uscita dalla crisi, le cifre ballerine sui posti di lavoro, l’ossessiva proiezione di un Italia nuova che riparte.
Sappiamo bene che contro un avversario formidabile abbiamo solo il risveglio della ragione e delle coscienze. Un percorso difficile. Ma comunque esiste una rabbia civile che non consente il silenzio. Talvolta, parlare è un dovere che non tollera calcoli sottili, pur se nessuno ascolta. Inoltre, le battaglie si fanno anche sapendo che si può perdere. Proprio la nascita della Repubblica insegna. I nostri padri e le nostre madri hanno fatto molte cose che al momento potevano sembrare disperatamente inutili. Tuttavia le hanno fatte, e molti hanno pagato un alto prezzo negli affetti, nel lavoro, nella vita. Ora tocca a noi difenderne l’eredità.
Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)
È partita lunedì la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà realizzata con la collocazione sul mercato di azioni della società corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L’obiettivo dichiarato dal governo è l’incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un drastico calo del nostro debito pubblico dall’attuale vertiginosa cifra di 2.199 miliardi (dati Bankitalia) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Italiane, 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016.
Si tratta di un evidente rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico, quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa per poter privatizzare Poste Italiane.
Occorre poi aggiungere come anche il prezzo di vendita del 40% di Poste Italiane sia stato ipotizzato al massimo ribasso, prefigurando, ancora una volta, la svendita di un patrimonio collettivo. Infatti, mentre Banca Imi, filiale di Intesa Sanpaolo, attribuiva, non più tardi di una settimana fa, un valore a Poste Italiane compreso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e mentre Goldman Sachs parlava di una cifra compresa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai blocchi di partenza della vendita delle azioni la società risulta valorizzata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi.
A questo, vanno aggiunti tutti i fattori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che mentre si decide di privatizzare un servizio pubblico universale, consegnandolo di fatto alle leggi del mercato, se ne rafforza al contempo, per rendere più appetibile l’offerta, il carattere monopolistico nel campo dei servizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna certezza rispetto al domani: parliamo dell’accordo vigente con Cassa depositi e prestiti per la gestione del risparmio postale (1,6 miliardi di commissione), così come dei crediti vantati da Poste nei confronti della pubblica amministrazione (2,8 miliardi). Senza contare come la società abbia in pancia strumenti di finanza derivata, il cui fair value, al 30 giugno 2015, risulta negativo per 976 milioni.
Ma aldilà di queste considerazioni economicistiche, è a tutti evidente come, con il collocamento in Borsa del 40% di Poste Italiane, muti definitivamente la natura di un servizio, la cui universalità era sinora garantita dal suo contesto di garanzia pubblica, che permetteva, attraverso i ricavi realizzati dagli uffici postali delle grandi aree densamente urbanizzate, di poter mantenere l’apertura di uffici, spesso con funzioni di presidio sociale territoriale, in tutto il territorio italiano, a partire dai piccoli paesi. E’ evidente come la privatizzazione in atto inciderà soprattutto su questo dato: per i dividendi in Borsa diverrà assolutamente necessario il taglio dei rami economicamente secchi, ovvero la drastica riduzione degli sportelli nelle aree poco popolate.
E, infatti, il piano industriale già prevede - ma sarà solo l’assaggio - la diversificazione dei modelli di recapito, che da ottobre 2015 rimarrà quotidiano per nove città definite ad «alta densità postale», mentre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni. Quasi tautologico sottolineare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una drastica riduzione - si parla nel tempo di 12–15.000 posti in meno - oltre al sovraccarico di ritmi per quelli che avranno la fortuna di essere sfuggiti alla mannaia.
*Attac Italia
Il modesto passo avanti compiuto dall'Italia per i diritti di cittadinanza, le gravi contraddizioni da sanare e la grande distanza dal raggiungimento dello "ius soli".come è negli USA.
La Repubblica, 15 ottobre 2015
Cittadini si nasce o si diventa. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non foss’altro perché, quando si tratta di decidere sull’appartenenza al corpo politico, sul potere di cittadinanza, verbi come “nascere” e “diventare” sono oggetto di interpretazioni discordanti e difficilmente riducibili a formule semplici.
La legge appena approvata alla Camera sul riconoscimento di cittadinanza a residenti non italiani, importante sotto molti aspetti e benvenuta, ne è un esempio.
Essa stabilisce che acquisisce la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Perché chi è nato in Italia abbia diritto alla cittadinanza deve dimostrare che almeno un genitore sia nella norma. La nascita non è sufficiente, dunque, e lo non è automatico. Il destino del bimbo o della bimba sta se così si può dire nella mani dei genitori (e dello Stato ospitante).
Questa regola modera lo ius soli, il quale nella sua connotazione normativa dà priorità alla persona, ovvero ai nati e non a chi li ha messi al mondo. Gli Stati Uniti danno un’idea della radicalità di questo principio se interpretato come diritto del singolo. Nella patria dello meno annacquato o più genuino, è sufficiente per un bimbo essere nato dentro i confini della federazione per essere cittadino americano. E così può succedere, che genitori stranieri decidano di “regalare” al loro figlio la cittadinanza americana facendolo nascere sul suolo americano. Ciò è sufficiente a richiedere ed ottenere il passaporto, anche se i genitori non sono residenti e anche se sono “clandestini”. Neppure la Francia, il paese europeo più aderente allo ius soli, è così inclusivo e – soprattutto— tanto rispettoso dei diritti della singola persona.
L’interpretazione di “nascita” e “acquisizione” della cittadinanza è come si vede tutt’altro che semplice. E del resto, questa complessità interpretativa è testimoniata dall’esistenza in Italia di un altro regime di cittadinanza, quello detto dello ius sanguinis: un regime che vale solo per gli italiani etnici, per cui nascere in Argentina o in Australia da genitori di genitori italiani (avere un bisnonno nato in Italia) dà diritto a richiedere il passaporto italiano dopo aver trascorso un breve periodo di residenza nel paese. Per ovvie ragioni, il contesto famigliare è in questo caso determinante.
Ma perché dovrebbe esserlo anche per lo ius soli? Certo, considerato il fondamento nazionale della cittadinanza nei paesi europei, la legge appena approvata dalla Camera è un passo avanti importante e la reazione della Lega (che ha già annunciato un referendum abrogativo qualora il Senato non cambi il testo) lo dimostra. C’è però da augurarsi che il passo avanti compiuto si faccia più coraggioso, perché la cittadinanza a chi nasce in Italia e non è maggiorenne dipende ancora da una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale.
Al di là della moderazione interpretativa del principio dello ius soli, questa nuova legge in discussione presenta inoltre un aspetto di discriminazione che sarebbe fortemente desiderabile correggere, perché stride non soltanto col proclamato principio dello ius soli, ma prima ancora con quello dell’eguale dignità delle persone. Come si è detto, la nascita sul suolo italiano non è sufficiente, se altre condizioni non sono presenti, due in particolare: la frequenza scolastica e la condizione economica della famiglia.
Nel primo caso, il bambino nato o entrato nel paese prima della maggiore età deve dimostrare di aver frequentato almeno cinque anni di scuola pubblica. Per uno straniero la condizione di alfabetizzazione può aver senso anche perché è nel suo stesso interesse conoscere la lingua del paese. Tuttavia se si tratta di un bambino nato e socializzato in Italia, è davvero giustificabile attendere l’attestato della quinta elementare?
La seconda condizione è grave in sé perché introduce un fattore di discriminazione. Torniamo al caso dei nati in Italia, per i quali è necessario che almeno un genitore sia in possesso di “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” per richiedere la cittadinanza. Ora, sappiamo che per avere questo permesso, il residente straniero deve dimostrare non solo di aver vissuto in Italia da almeno cinque anni, ma anche di avere un reddito superiore all’assegno sociale (circa mille euro al mese o poco più) e un “alloggio idoneo”. Come possono due bambini nati in Italia essere considerati diversi ai fini della cittadinanza per questioni economiche – di cui non sono tra l’altro responsabili? Come possono due bimbi giustificare a se stessi che solo chi dei due è meno povero merita di essere cittadino? Può essere la povertà una ragione di esclusione? È augurabile che il legislatore veda la contraddizione insita in questa norma rispetto al significato della cittadinanza moderna, per cui è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico.
Scava scava, i nemici più potenti di papa Francesco li trovi al vertice del potere globalizzato. C'era da aspettarselo.
La Repubblica, 14 ottobre 2015
LO chiamano «Papa argentino » per screditarlo. Per rimarcare la distanza, culturale e ideologica, fra loro e lui. Sono cardinali di curia e vescovi, certo, che tuttavia hanno dietro di loro anche gruppi di potere e di pressione precisi, consorterie fin dal 13 marzo del 2013 in-sofferenti verso il magistero sociale del Pontefice.
Per Nello Scavo, giornalista di Avvenire e autore di I nemici di Francesco (Piemme) appena uscito, gli avversari del Papa sono anche coloro che lo screditano cercando di metterlo a tacere. «C’è una battaglia ideologica - dice -, questo è vero, condotta anche in buona coscienza. Tuttavia, in questi anni, dentro la curia c’è anche chi ha provato a rifilare a Francesco qualche polpetta avvelenata. Oltre al Sinodo e al recente caso del teologo omosessuale Charamsa, c’è stata la vicenda di un progetto che prevedeva la costituzione da parte dello Ior di una Sicav - fondo di investimento a capitale variabile - in Lussemburgo. Il Papa se ne accorse all’ultimo momento e bloccò il progetto. Certo, non era niente di illegale, eppure l’immagine del Papa ne sarebbe stata compromessa. A significare che dentro c’è anche chi manovra per indebolire il carisma e la forza di Francesco».
Una tesi, quella di Scavo, che combacia, in parte, con quanto affermato da uno dei teologi sudamericani più vicini a Bergoglio, Leonardo Boff. Pur aperto sull’omosessualità - la visione dei vescovi che essa debba essere vissuta castamente «è riduttiva », ha affermato ad Oggi - il paladino della teologia della liberazione ritiene che dentro il Vaticano vi sia chi ordisce trappole contro il Papa. Boff pensa in particolare che dietro il coming out di Charamsa vi sia «una trappola montata dagli ambienti di destra nella Chiesa che si oppongono al Papa. Perché non lo ha fatto in modo semplice ma provocatorio, per creare un problema al Sinodo e a Francesco. Ostentare in quel modo la sua scelta, il suo compagno... Non si deve giocare per mettere il Papa alle strette».
Francesco dà l’impressione di sapere bene chi sono gli amici e chi i nemici. E che se c’è chi lo ama e lo segue, vi è anche chi farebbe volentieri a meno di lui. Nello stesso tempo, tuttavia, non vuole cedere alle teorie cospirative, all’idea che il Vaticano sia un covo di serpi. Eppure, spiega Massimo Faggioli, storico del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis, «è questo il momento più visibile e temerario nella lotta condotta da parte dell’establishment ecclesiastico contro di lui». E ancora: «Fin dal marzo 2013 si era percepito il montare della resistenza al pontificato, e si sapeva che il Sinodo dei vescovi era il punto chiave. Il fatto che la lettera sia stata consegnata al Papa il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo, è prova che si tratta di un’iniziativa coordinata ben prima dell’inizio dell’assemblea a Roma (ed è a questa iniziativa che Francesco rispose col discorso sulla “ermeneutica cospirativa” del 6 ottobre in aula sinodale). È anche chiaro che mentre Francesco era in visita in America, alcuni vescovi americani, tra un abbraccio e l’altro al Papa, stavano preparando contro Bergoglio un attacco che non si sarebbero mai sognati di fare contro i sinodi per finta di Papa Wojtyla e Papa Ratzinger». In sostanza si riferisce al caso del saluto ricevuto presso l’ambasciata di Washington da parte di Kim Davis, l’impiegata comunale del Kentucky che ha rifiutato la licenza matrimoniale a diverse coppie gay, e che per questo è stata arrestata. La Davis, e parte del mondo conservatore statunitense, ha fatto passare questo saluto come un appoggio papale alle sue battaglie anti gay.
Chi ha consegnato, e con ogni probabilità ideato, la lettera al Papa critica sui lavori del Sinodo è il cardinale australiano George Pell. Zar dell’economia vaticana, ha posizioni dure sulle aperture papali. Ritiene che concedere l’eucaristia ai divorziati risposati sia un male. Una posizione simile a quella di altri firmatari della lettera, fra cui il cardinale Robert Sarah per il quale pensare di dare l’eucaristia ai divorziati è opera del Maligno. La costituency di Pell è quella della finanza americana. Ritenuto vicino ai potenti Cavalieri di Colombo, quando deve tenere una conferenza va sempre al Pontifical North American College sul Gianicolo, il luogo in cui i circuiti curiali finanziari americani danno sfoggio di sé nella capitale. Così anche altri due cardinali firmatari della lettera: Daniel N. Di Nardo, arcivescovo di Galveston- Houston e vicepresidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e Timothy Dolan, arcivescovo di New York e capo dei vescovi Usa.
Gran parte dell’opposizione mossa a Francesco viene dal mondo conservatore nord americano. È ancora Scavo, nel suo volume, a ricordare che a sostenere le battaglie dei “neocon” anti-Bergoglio ci sono uomini come Dick Cheney e capitali come quelli messi a disposizione dalla Halliburton. Scrive Scavo: «Bastano questi due nomi per farsi un’idea precisa degli ambienti “antipapisti” a stelle e strisce da cui partono alcuni degli attacchi a Bergoglio su vari fronti: economia, teologia, visione geopolitica ». Cheney è l’uomo ombra dell’American Enterprise Institute, di cui è stato vicepresidente e nel quale mantiene incarichi direttivi sua moglie Lynne, già consigliere d’amministrazione di Lockheed Martin, il principale produttore mondiale di sistemi di difesa: dai velivoli caccia ai missili a testata nucleare, dai radar ai blindati per il trasporto delle truppe.
Sulla rottamazione della Costituzione un commento di Norma Rangeri e la cronaca di Andrea Fabozzi.
Il manifesto, 14 ottobre 2015
La nuova Costituzione di Renzi e Verdini ha tagliato un importante traguardo. Con la benedizione di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica, «il vero padre di questa riforma», secondo la ministra Boschi, è intervenuto per benedire la sua creatura. In fondo riconoscendovi quella “grande riforma” disegnata da Craxi ai vecchi tempi della Prima Repubblica.
Con il voto finale alla prima lettura del progetto controriformatore si mette agli atti lo “spirito incostituente” che ha segnato questi lunghi mesi di forsennato attacco alla nostra Carta costituzionale. A partire dall’anomalia, sconsiderata, di essere una revisione della legge fondamentale originata non da un’iniziativa parlamentare, ma da una proposta di governo.
Anzi, e più precisamente, dalla volontà di un presidente del consiglio e “capo” di un partito i cui elettori non sono mai stati chiamati a pronunciarsi su questo progetto di manomissione della Costituzione.
Al consenso parlamentare e elettorale sono stati preferiti i patti del Nazareno e i successivi accordi con quei galantuomini di Verdini&Co. Con le continue, ripetute forzature dei regolamenti parlamentari dettati e piegati ai tempi imposti dall’esecutivo. Uno stravolgimento delle regole della discussione perfettamente coerente con i contenuti della riforma.
Principalmente finalizzata alla creazione di un premierato senza contrappesi, come in nessun paese europeo. Disegnato sulla silhouette di quello che nel suo intervento in dissenso dal gruppo del Pd, Walter Tocci ha definito «il demagogo che potrà fare quello che vuole».
Del resto, di essere il dominus anche del futuro potere legislativo questo presidente del consiglio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cambia, avanti tutta più decisi che mai»). Con motivazioni di bassa lega (meno senatori, meno costi della politica) e disprezzo per le minoranze, a cominciare da quelle del suo partito. Bersani e i fedeli della “ditta” hanno masochisticamente scelto di farsi umiliare fino a votare la trasformazione del Parlamento in cassa di risonanza dei piccoli Cesare. Di oggi e di domani.
La prima pagina del manifesto di ieri, con il documento firmato dai sei illustri costituzionalisti (Rodotà, Villone, Azzariti, Carlassare, Pace e Ferrara) è entrata nell’aula di palazzo Madama grazie alla senatrice di Sel, Loredana De Petris, che ne ha illustrato il senso davanti all’assemblea.
Il documento spiega perché e come, questa riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elettorale, costituisce una torsione autoritaria delle istituzioni, in definitiva della democrazia parlamentare: «Uno stravolgimento dell’impianto della Costituzione del ’48, sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto».
Tuttavia ancora non è stata scritta la parola definitiva.Se si verificheranno le condizioni per poterci esprimere in un referendum, saremo chiamati, come già nel 2006, a una grande battaglia che potrà farci svegliare dall’incubo cancellando questo frutto avvelenato del renzismo.
Va comunque preso atto che il presidente del consiglio sta segnando punti a suo favore: grazie alla forza dei numeri e agli squallidi trasformismi, vince. Però non convince. Per lui contano le bandierine della conquista, come quelle che accompagnarono la marcia trionfale di Berlusconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bruciata nel suo partito, perché ne sta distruggendo quel poco che resta della sua storia.
Centosettantotto voti, anzi 179 perché la campionessa Josefa Idem, appena rientrata dalla malattia, ha sbagliato a votare «e mi scuso per i giorni in cui sono mancata». È una maggioranza assoluta larga, 18 voti sopra la soglia che sarà obbligatorio raggiungere nella seconda e definitiva lettura della riforma costituzionale che il senato potrà fare a partire dal prossimo 14 gennaio. Se, com’è probabile, la camera non toccherà una virgola dei sei articoli del disegno di legge che dovrà riesaminare entro la fine dell’anno, sessione di bilancio permettendo.
Il governo è in trionfo, ma i numeri dimostrano che i voti dei transfughi del centrodestra sono indispensabili. A partire dal gruppo Verdini, con i suoi 13 senatori ieri tutti presenti, passando per la coppia ex forzista Repetti-Bondi, i tre su dieci del residuo Gruppo Gal fino ai due senatori che non mollano Forza Italia ma neanche Renzi. In tutto venti voti decisivi per scavallare la soglia di sicurezza.
Nel Pd la minoranza dei trenta che furono è stata completamente riassorbita.
E graziata da Calderoli, che non ha letto in aula gli sms degli ex barricaderi — il leghista ha rinnovato la minaccia: «Li metterò in un libro, ne ho ricevuti anche dal governo». Alla fine nel partito del presidente del Consiglio solo in quattro non hanno votato la riforma: Tocci e Mineo contrari, Casson astenuto e la senatrice Amati assente. Ma soprattutto è arrivato l’annunciato voto di Giorgio Napolitano, che ha spiegato di non essere intervenuto nei giorni del dibattito «perché mi è sembrato più appropriato». Ma quando si contano i voti, eccolo. L’ex presidente della Repubblica è l’unico senatore a vita a votare, l’altra presente, la senatrice Cattaneo da lui nominata, è contraria alla riforma e si astiene.
Lasciano così spazio a Verdini, il quale sa come si conquista l’attenzione. L’ex braccio destro di Berlusconi piomba dai banchi in alto a destra dove ha trincerato i suoi e si inventa un omaggio all’ex presidente, un saluto fatto di poche parole e molte fotografie. Nel frattempo tocca intervenire proprio ai verdiniani e prende la parola un senatore qualsiasi. Gli ex squalificati Barani e D’Anna non solo non parlano ma vengono fatti sedere in modo da non entrare nella diretta tv.
Quando tocca a Napolitano, che interviene a nome del gruppo delle autonomie al quale si è iscritto appena sceso dal Colle, spunta il senatore Scilipoti, disdicevole rappresentante del trasformismo quando il trasformismo era disdicevole. Ormai è l’ultimo dei berlusconiani e piazza sul banco di Napolitano, a coprirgli il testo dell’intervento, un foglio dove si legge «2011». Riferimento alla storia del «golpe» del Colle, Monti a palazzo Chigi al posto di Berlusconi. I commessi lo braccano, Scilipoti consegna il foglio, poi ne tira fuori un altro dalla tasca. E via così tre volte, fino a che si placa e Napolitano attacca. L’aula si fa silenziosa e anche piuttosto vuota, perché già i leghisti sono andati via sventolando costituzioni e olio di ricino, poi quelli del Movimento 5 sfilano in muta protesta per non sentire l’ex presidente. E nel silenzio comincia a squillare un telefono sugli abbandonati banchi leghisti, per cui i primi cinque minuti di Napolitano somigliano a quelli di C’era una volta in America. Fino a che il telefono tace e si può sentire Napolitano parlare di sé stesso, di quello che ha fatto al Quirinale, di quello che aveva detto nel primo giuramento, della commissione di saggi che aveva benedetto. Immediatamente dopo parla Quagliariello che è giusto uno di quei saggi e comincia — ce ne fosse bisogno — con una citazione di Napolitano.
Ma è proprio Napolitano che, inaspettatamente, avverte: «Bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali». Stiamo facendo una prova? È un invito a tornare indietro sulla legge elettorale che proprio lui ha battezzato? Un incitamento a tornare al premio per le coalizione? Fioriscono ipotesi, ma non è il caso di immaginare chissà quale piano. L’ex capo dello stato argomenta ormai da renziano. Questa riforma può non essere perfetta, riconosce il suo «padre» nel momento cui mette il sigillo, ma quello che ci ha fermato fino a qui «è stata la defatigante ricerca del perfetto o del meno imperfetto». Renzi avrebbe detto: «Si può essere o meno d’accordo su ciò che siamo facendo, ma lo stiamo facendo», e infatti l’ha detto.
A proposito di fare, appena completato il passaggio trionfale della riforma, il governo ha dovuto ammettere che alcune norme transitorie proprio non stanno in piedi. Invece di rinviare alla camera le correzioni, Grasso ha concesso di modificare il testo come «coordinamento». Rapida alzata di mano e via. Tutti ad abbracciare Napolitano.
Il giorno stesso in cui re Matteo vince la sua battaglia contro la Costituzione repubblicana, decide di rilanciare l'evasione fiscale. Accontenta così una parte consistente del suo popolo, scavalcando a destra il povero Silvio.
La Repubblica, 14 ottobre 2015
«Sono maturi i tempi per l’utilizzo della moneta elettronica. Incrementarla ha un impatto positivo sulla riduzione del sommerso e sull’evasione fiscale, oltre che sul costo di gestione del contante che è di 4 miliardi l’anno per il settore bancario e 8 miliardi l’anno per il sistema Paese». Parole precise e nette di Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, pronunciate giusto un anno fa dinanzi alla commissione parlamentare di Vigilanza sull’anagrafe tributaria. «L’economia sommersa vale tra 255 e 275 miliardi e dunque tra il 16,3 e il 17,5% del Pil, sono dati preoccupanti», aggiungeva la Orlandi. «Il contante, in quanto mezzo anonimo e non tracciabile, alimenta le possibilità di sviluppare economia sommersa, di conseguenza la riduzione del contante rappresenta una delle chiavi per la lotta all’evasione». Più chiaro di così.
Eppure il governo Renzi triplicherà la soglia per il cash dal 2016. In un paese in cui l’82% delle transazioni e il 67% del loro valore si muove ancora sulla carta frusciante e in cui l’alfabetizzazione digitale e finanziaria stenta, ma cresce piano e andrebbe incoraggiata. «C’è resistenza», diceva la Orlandi. «Negli ultimi anni non abbiamo incrementato i sistemi di pagamento elettronico, mentre tutti gli altri paesi sì». Ricordando pure che i cittadini non traggono benefici dall’aumento della tracciabilità, «con poche eccezioni», e quindi non sono stimolati a strisciare carte e bancomat. O, in un futuro vicino, lo smartphone. L’eccezione sono i lavori in casa per ristrutturare o efficientare. I bonus generosi a loro abbinati, che scattano solo dietro bonifico parlante, hanno portato all’emersione di una base imponibile di tutto rispetto: 28 miliardi nel 2013, altri 28 miliardi e mezzo nel 2014, 24 miliardi previsti per quest’anno. La tracciabilità incentivata paga.
Perché allora la decisione del governo? Perché rinunciare «a una delle chiavi per la lotta all’evasione», al “pagare tutti per pagare meno”? «Servirà a dare una spinta ai consumi e sarà comunque tutto tracciato», si giustifica Renzi. «È ovvio che quanto più bassa è la soglia dell’uso contante, tanto più compli- cate sono le forme dell’evasione», ragiona Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e del Tesoro. «Io l’avevo fissata a 100 euro quando ero nel governo Prodi e la porterei ora a 500 euro, il taglio massimo dell’euro. Ma il punto non è tanto il ruolo anti-evasione del tetto di tracciabilità, quanto per l’Italia il pericolo di riciclaggio. È da irresponsabili scherzare su queste cose, trovo questa decisione estremamente preoccupante ».
Molti invece esultano. Politicamente Ncd, Area Popolare e Scelta Civica, su tutti. Poi le categorie: Confesercenti, Confcommercio, Codacons, Federalberghi, Federgioco («consentirà ai nostri casinò di allinearsi con le case da gioco estero»), Federturismo («un segnale forte») e Confturismo. Invocano invece un ritorno allegro a evasione, riciclaggio, nero e sommerso sindacati e minoranza Pd. E gli italiani come la pensano? Secondo un’indagine Isfol Plus, condotta da Emiliano Mandrone, il 60% dei cittadini è disponibile ad abbandonare il contante, con un picco tra lavoratori dipendenti, laureati, benestanti, attivi socialmente e culturalmente. Anche Bankitalia, in diversi papers, sottolinea un legame indiscutibile tra cash ed economia sommersa. Tesi da sempre condivisa dal ministro Padoan che neanche dieci giorni fa esultava da Lussemburgo per l’accordo europeo sullo scambio automatico di informazioni: «Ci sono le basi per un forte recupero dell’evasione, di lotta all’elusione ». Nel mirino le multinazionali che lucrano vantaggi spostando sedi fiscali. E in Italia? Si alza la soglia.
». Il manifesto, 14 ottobre 2015
Avevamo chiesto al professor Gustavo Zagrebelsky di sottoscrivere l’articolo che abbiamo pubblicato ieri con le firme di sei tra i più autorevoli costituzionalisti italiani, e che ripubblichiamo oggi qui accanto. Zagrebelsky ha preferito non firmare, ma ha aggiunto delle motivazioni che riteniamo valga la pena far conoscere – con il suo consenso — ai nostri lettori.
«Dopo averci pensato, ho deciso di non firmare, non perché non sia d’accordo sugli argomenti, proposti all’attenzione dei responsabili della riforma. La ragione — sostiene l’ex presidente della Corte costituzionale - è un’altra: la totale irrilevanza dell’invito alla riflessione presso chi si appella semplicemente all’argomento della forza.
Una delle espressioni più ricorrenti, in questo tempo di autoritarismo non solo strisciante ma addirittura conclamato come virtù, è «abbiamo i voti», «abbiamo i numeri». Una concezione della democrazia da scuola elementare! Dunque, che cosa serve discutere? Un bel nulla.
Oltretutto, ho l’impressione che i nostri riformatori, tronfi dei loro numeri raccogliticci in un consesso che ha raggiunto il grado più basso di credibilità, non agiscano in libertà, ma come esecutori di progetti che li sovrastano, di cui hanno accettato di farsi passivi e arroganti esecutori in nome di interessi o poco chiari, o indicibili ch’essi riassumono nel ridicolo nome di «governabilità»: parola di cui non conoscono nemmeno il significato. Non dissento nel merito, ma sono certo della totale inefficacia dell’invito al confronto.
Mi astengo, dunque, dal firmare - conclude Zagrebelsky -, i tempi dell’impegno verranno quando saranno chiamati i cittadini a esprimersi, saranno duri e imminenti. Allora sarà un’altra storia».
Terribile l'oscuramento che i massmedia hanno gettato su un progetto, in corso d'attuazione che si propone di far prevalere le convenienze economiche delle imprese rispetto a tutte le regole che tutelano il lavoro, la salute, l'ambiente, la stessa democrazia. Per fortuna qualcuno reagisce.
Comune.info, 12 ottobre 2015
Sabato 10 ottobre 250mila persone provenienti da tutta Europa hanno dato vita a Berlino a una grande manifestazione aprendo così la settimana di mobilitazione internazionale contro il T-tip, il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, che Usa e Ue stanno negoziando dal luglio 2013.
Nei prossimi giorni centinaia di iniziative si svolgeranno in tutte le città d’Europa, mentre sono oltre 3,2 milioni le firme di cittadini consegnate alla Commissione Europea.
Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande trattato di libero scambio del pianeta, nonché il nuovo quadro legislativo globale, cui tutti, volenti o nolenti, dovranno conformarsi. La pressione delle multinazionali e dei governi spinge perché si arrivi ad una bozza di accordo prima che negli Stati Unitiinizi la campagna elettorale delle presidenziali (previste nel novembre 2016), e la recente approvazione dell’omologo negoziato sul versante Pacifico (Tpp) ha galvanizzato le truppe di quanti vogliono trasformare lo stato di diritto in stato di mercato e realizzare l’utopia delle multinazionali: unico faro della vita economica, politica e sociale devono essere i profitti, cui vanno sacrificati tutti i diritti del lavoro e sociali, i servizi pubblici, i beni comuni e la democrazia.
Il T-tip è solo l’ultimo di una serie di processi messi in moto dagli anni ’90 del secolo scorso, quando la caduta del muro di Berlino e la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio diedero un forte impulso alla globalizzazione neoliberale e resero stringente l’esigenza da parte delle grandi multinazionali e dei governi dei Paesi più ricchi del pianeta di costruire un accordo globale per la liberalizzazione assoluta degli investimenti in tutti i settori economici, consentendo alle multinazionali di dispiegare la loro azione a piacimento sull’intero pianeta, senza lasciare a governi e popolazioni alcuno strumento per condizionarne lo strapotere. Nacquero così in successione: il negoziato per l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (Mai) e l’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi all’interno dellaWto (World Trade Organization), come pure, a livello europeo, la direttivaBolkestein; tutti tentativi falliti, grazie alla forte mobilitazione dei movimenti sociali globali, capaci di mettere in stallo l’intero sistema di grandi eventi per produrre grandi accordi. Da allora il quadro si è modificato e, nel tentativo di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta, governi e multinazionali hanno iniziato a produrre una miriade di accordi bilaterali o su piccola scala regionale.
Ed ora, approfittando della crisi economico-finanziaria globale, ritentano la scala più ampia: il T-tip, infatti, per la dimensione geopolitica – due continenti – ed economica – quasi il 60 per cento del Pil mondiale- vuole diventare l’accordo quadro, cui tutto il pianeta, volente o nolente, dovrà conformarsi. Il negoziato, che, nelle intenzioni di Usa e Ue, avrebbe dovuto concludersi nella più assoluta segretezza nel dicembre 2014, è in realtà ancora lontano dalla meta: il prossimo round, fissato nei giorni 19-23 ottobre a Miami, parte da un empasse su quasi tutti i tavoli di lavoro (dall’Isds, ovvero lo strumento di risoluzione delle controversie tra imprese e Stati, che darebbe alle prime un potere assoluto, ai capitoli sull’agricoltura; dai servizi pubblici alle normative sugli appalti), mentre di qua e di là dall’Atlantico cresce ogni giorno di più la mobilitazione sociale per il ritiro senza se e senza ma del trattato. E tuttavia il tentativo di regalare l’intero pianeta alle multinazionali è serio e verrà perseguito fino in fondo, perché è su di esso che si gioca la battaglia tra la prosecuzione di un modello in piena crisi sistemica e una drastica inversione di rotta. Infatti, le enormi masse di denaro accumulate sui mercati finanziari in questi decenni hanno stringente necessità di essere investite in nuovi mercati: da qui la drastica riduzione dei diritti sul lavoro e la necessità di trasformare in merci i beni comuni, costruendo business ideali, perché regolati da tariffe e flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, con titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi. Un banchetto perfetto.
Ma con un problema: l’applicazione delle politiche di austerity, paese per paese e governo per governo, suscita ribellioni e mobilitazioni destinate ad aumentare nel tempo e a determinare possibili cambiamenti nel quadro politico, rendendo instabile l’intero continente europeo. Il T-tip serve esattamente a questo scopo: ade-storicizzare le politiche liberiste, trasformandole nel nuovo quadro giuridico oggettivo, all’interno del quale possono senz’altro convivere tutte le opzioni politiche possibili, a patto che non lo rimettano in discussione.
Per questo la battaglia per fermare il T-tip deve diventare prioritaria per tutti i movimenti: vincerla significherebbe infatti assestare un colpo mortale a questo disegno e iniziare a prefigurare la possibilità di un altro modello sociale. In Italia e in Europa.“O la borsa o la vita!” intimavano secoli or sono i briganti ai passanti che per sventura incappavano nella medesima direzione di marcia. “O la Borsa o la vita!” intimano oggi meno romantici e ben più feroci filibustieri del capitale finanziario internazionale. Si tratta semplicemente di scegliere la vita. Tutti assieme, la vita.