Un'analisi e alcune proposte alternative per il bilancio preventivo triennale dello Stato (2016-2018.
Sbilanciamoci.info, 2 novembre 2015
Sbilanciamoci! ha partecipato alle audizioni relative all’esame della manovra economica per il triennio 2016-2018 avviate questa mattina [2 novembre] dalle Commissioni Bilancio congiunte del Senato e della Camera dei Deputati.
Secondo Sbilanciamoci! anche la manovra di quest’anno va nella direzione sbagliata. Prima ancora che per il merito delle singole misure, per l'impianto generale e la visione di fondo che la ispira: per definizione la finanza pubblica è il problema, quella privata la soluzione; l'unico obiettivo del Governo sembra quello di migliorare la competitività delle imprese e puntare sulle esportazioni. Si continua a pensare la crisi come un problema di offerta, trascurando una domanda che non riparte, a causa delle enormi disuguaglianze, della mancanza di investimenti pubblici e dei problemi strutturali del Paese. Manca un strategia industriale di lungo respiro.
1. Tecnicamente non è una manovra espansiva. E’ previsto un deficit obiettivo nel 2016 pari al 2,2%, del PIL, a fronte del 2,6% dello scorso anno e un avanzo primario del 4,3 nel 2019, che rischierebbe di strangolare l'economia del paese. Allo stesso tempo controllo e riqualificazione della spesa pubblica restano sulla carta e costringono il Governo a spendere i margini recuperati sui saldi per neutralizzare – unicamente per quest'anno – le clausole di salvaguardia, anziché per rilanciare il sistema.
2. L’attenzione resta concentrata sull'offerta anziché alla domanda.
3. Si prosegue sulla strada delle privatizzazioni e della svendita del patrimonio pubblico.
4. Per il Mezzogiorno c’è poco, salvo i milioni destinati alle grandi opere come la Salerno-Reggio Calabria.
5. Si taglia il Servizio Sanitario Nazionale di 2 miliardi rispetto a quanto concordato con le Regioni e sebbene vi siano alcune misure di lotta alla povertà, si tratta di stanziamenti limitati e frammentati, per i Fondi Sociali le risorse sono insufficienti, mentre manca una misura strutturale di sostegno al reddito.
6. Manca l'annunciato stanziamento aggiuntivo di 100 milioni per il Servizio Civile Nazionale per il 2016.
7. Ciò mentre si tagliano la Tasi, l’Imu agricola e sui macchinari imbullonati con un mancato gettito complessivo stimato in 4,6 miliardi di euro.
8. A livello dei Ministeri la spending review privilegia il Ministero per l'istruzione (-220 milioni nel 2016) e quello per l'economia (- 116 milioni) mentre risibile è il taglio al bilancio del Ministero per la Difesa (-19 milioni) e dell'Interno (-27,1 milioni).
Le priorità di Sbilanciamoci! per il 2016
Rilanciare l'economia: con investimenti pubblici mirati, per una nuova politica industriale
Ridurre le diseguaglianze: con politiche di redistribuzione del reddito e del lavoro.
Una buona spesa pubblica. Riqualificando e riorientando la spesa pubblica, tagliando quella sbagliata: quella militare, per le grandi opere, gli investimenti che distruggono l'ambiente, i sussidi all'istruzione e alla sanità privata.
Un nuovo modello economico e sociale sostenibile: per rilanciare l’economia e l’occupazione, il benessere delle persone e la salvaguardia dell'ambiente sono il punto di partenza.
Alcune delle proposte di Sbilanciamoci! per il 2016
Rendere il fisco più equo: non aumentare, ma redistribuire il prelievo fiscale dai poveri ai ricchi, dai redditi da lavoro e di impresa ai patrimoni e alle rendite.
Investimenti pubblici in economia per un piano del lavoro: con 5 miliardi si possono creare per 250mila posti di lavoro aggiuntivi.
Welfare: No ai tagli alla sanità; incremento del fondo sociale e del fondo per le non autosufficienze fino a 600 milioni; introdurre una forma di sostegno al reddito strutturale la cui copertura sarebbe garantita dalla riforma fiscale; portare gli stanziamenti per il servizio civile nazionale a 302,5 milioni per garantire l’avvio del servizio ad almeno 55mila giovani; chiudere i Cie e i Cara (-500 milioni) e destinare le risorse risparmiate al sistema di accoglienza ordinario e agli interventi di inclusione sociale.
Istruzione: Tagliare i fondi per le scuole private e per l’ora di religione, aumentare i fondi per l'autonomia scolastica, per gli stages e per i progetti scuola- lavoro.
Università: Avviare un piano straordinario per l’assunzione di 10mila ricercatori; no al contributo di 50 euro per il rilascio del visto per studenti stranieri, aumentare le risorse per il fondo borse di studio.
Ambiente: tagliare di 1 miliardo i finanziamenti per le grandi opere a vantaggio di piccole opere e di un piano nazionale della mobilità che privilegi il trasporto pubblico locale e stanziare 500 milioni per interventi di tutela del territorio; investire davvero nella lotta ai cambiamenti climatici grazie allo sviluppo delle energie rinnovabili, all’introduzione della carbon tax e di una tassa automobilistica sulle emissioni Co2; tutelare la biodiversità destinando risorse adeguate agli interventi nelle aree protette e adeguando i canoni di concessione per attività estrattive.
Da referendum al Parlamento, un esame rigoroso e appassionato dei temi ineludibili se il «mondo della sinistra» vuole contare nella ricomposizione in atto del quadro politico.
La Repubblica, 2 novembre 2015
Il sistema politico italiano si sta riassestando. Matteo Renzi persegue la sua costruzione del partito della nazione esercitando una forte capacità di attrazione verso un mondo di destra disgregato e alla ricerca di approdi. Il Movimento 5Stelle sembra anch’esso guardare oltre i suoi abituali confini, consapevole di una forza che gli proviene dal suo apparire come l’unica plausibile opposizione. Gli spezzoni della destra si agitano, alla ricerca di un federatore che possa ripetere quel che Berlusconi fece nel 1994, contando magari su una modifica della legge elettorale che riapra le porte alle coalizioni.
A sinistra si moltiplicano le iniziative, e si può provare ad elencare le più importanti. È annunciata per sabato prossimo la costituzione di un nuovo schieramento parlamentare, nel quale dovrebbero confluire gli eletti di Sel, quelli già usciti o in via di uscita dal Pd, quelli che hanno già abbandonato altri gruppi. È appena nato un Comitato per il no nel futuro referendum sulla riforma costituzionale e lo stesso sta avvenendo per contrastare l’Italicum, impugnandolo davanti alla Corte costituzionale e preparando un referendum che ne cancelli gli aspetti più negativi. È stato avviato un lavoro comune tra Libera, Caritas, Coalizione sociale per sostenere una legge che introduca un reddito giustamente chiamato “di dignità”. Altri gruppi si sono già organizzati per arrivare a referendum abrogativi di norme della legge sulla scuola e in materia di lavoro. Il Forum dell’acqua prosegue la sua difesa davanti ai giudici del risultato del referendum del 2011, in molte città viene riproposto il tema della tutela dei beni comuni e si agisce a difesa dei diritti sociali.
Di fronte a questa abbondanza sono possibili alcune prime conclusioni e nascono molti interrogativi. L’insistenza sui referendum fa emergere una linea che mette in primo piano l’iniziativa diretta dei cittadini e apre spazi alla loro partecipazione. È evidente la volontà di reagire al localismo, alla frammentazione delle iniziative, poiché il referendum è uno strumento che unifica, che promuove una discussione nazionale su grandi temi sociali e istituzionali. Ma, imboccando con tanta determinazione la via dell’appello diretto al popolo, non si finisce con il secondare proprio quel populismo che viene additato come un rischio da evitare?
Questo ci porta agli interrogativi sollevati dalle altre iniziative. Stanno per nascere gruppi parlamentari dichiaratamente di sinistra e che, indubbiamente, si configureranno come il primo passo verso la nascita di un nuovo partito. Come si muoveranno? La finalità di dar vita a una visibile e consistente opposizione può far correre il rischio di una esclusiva preminenza dell’attività di contrasto delle iniziative del Governo, di un eterno contropiede. Finalità necessaria, ma che dovrebbe essere accompagnata da un altrettanto intenso lavoro su questioni specifiche, ignorate o sottovalutate dall’azione governativa.
Questa è una considerazione che vale anche per i referendum, non pianificabili a tavolino, ma che hanno successo solo se preceduti e accompagnati da un intenso lavoro sociale, come insegna il referendum sull’acqua. L’essere terminali sociali, tuttavia, non può trasformare il lavoro dei gruppi parlamentari in un semplice rispecchiamento di tutto ciò che si muove nella società. Non si deve confondere la molteplicità delle iniziative con la frammentazione. Per uscire da questa situazione, serve un lavoro culturale, una riflessione sulla democrazia che misuri tutti gli effetti a cascata del congiungersi di riforma costituzionale e legge elettorale, con la nascita di un governo del Primo ministro che modifica la forma di governo e lambisce la forma di Stato. E si deve valutare la situazione italiana come parte della più generale discussione sulle sorti della democrazia, che recentissimi studi italiani hanno messo in evidenza e che dovrebbero essere meditati anche per ristabilire la comunicazione tra cultura e politica.
La politica è selezione di domande, individuazione di priorità. Operazioni che non possono essere affidate solo ai gruppi parlamentari. Se davvero si vuole rendere concreto e visibile un nuovo campo della sinistra, i diversi soggetti oggi all’opera devono essere capaci di parlarsi, di confrontarsi continuamente. Non è impresa facile, perché vi sono identità forti che temono di perdere rendite acquisite e ombre del passato che temono d’essere cancellate. Ma le forze in campo dovrebbero essere guidate dalla consapevolezza che i loro attuali limiti possono essere superati solo se si crea una massa critica in grado di promuovere mutamenti reali.
Le indicazioni puntuali non mancano. Di fronte ad una distribuzione a pioggia di risorse nella materia del sostegno al lavoro è tempo di passare ad una nuova impostazione, di cui il reddito di dignità è l’esempio più chiaro. Devono essere garantite nuove forme di intervento dei cittadini: con una semplice modifica dei regolamenti parlamentari si può rendere obbligatorio l’esame delle leggi d’iniziativa popolare; riprendendo in sede parlamentare il tema dei beni comuni, si possono sottrarre all’abbandono, alla dissipazione, alla speculazione risorse importanti. Si deve abbandonare il perverso scambio tra impoverimento dei diritti sociali e concessione al ribasso di qualche diritto civile. Si deve riprendere una seria discussione sull’Europa. L’elenco si può allungare, ma questo dovrebbe essere il compito di una discussione corale che abbia come bussola la ricostruzione di una politica costituzionale.
Analisi sintetica ma precisa delle caratterisctiche del renzismo. Manca solo un elemento, la cui presenza è facile da individuare nella realtà ma difficile da documentare finché il Re e i suoi vassalli sono al potere: l'utilizzazione spregiudicata dell'arma del ricatto.
Il manifesto online, 1° novembre
Gli avvenimenti romani delle ultime settimane hanno posto in luce, mi pare, alcuni elementi di fondo sulla transizione italiana verso la post-democrazia, ossia il superamento della sostanza della democrazia, conservandone le apparenze, secondo un processo in corso in tutti gli Stati liberali, ma con delle peculiarità proprie, che hanno a che fare con la storia italiana e, forse, anche l’antropologia del nostro popolo.
Senza più entrare nel merito della vicenda della cacciata di Ignazio Marino dal Campidoglio, su cui peraltro mi sono già espresso più volte, a netto sostegno del sindaco, pur rilevandone le debolezze e gli errori (ha sintetizzato bene ieri l’altro sul manifesto Norma Rangeri: «non è il migliore dei sindaci, il mestiere politico non è il suo, si è mosso fidandosi … del suo cerchio magico»), e contro l’azione del Pd, irresponsabilmente sostenuta anche dal M5S, all’unisono con le frange della destra estrema, propongo alcune riflessioni che hanno bisogno naturalmente di essere approfondite, oltre che discusse.
I Tesi
Le assemblee elettive, ossia quella che si chiama «la rappresentanza», hanno un valore ormai nullo. Deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali, sono pedine ininfluenti, che si muovono all’unisono con gli orientamenti dei capi e sottocapi. Obbediscono in modo automatico, ma cosciente, nella speranza di entrare nell’orbita del potere «vero», o quanto meno avvicinarsi ad essa, e diventare sia pure a livelli inferiori o addirittura infimi, «patrones» di piccole schiere di “clientes». Il potere legislativo è completamente disfatto.
II Tesi
I partititi politici, tutti, sono diventati «partiti del capo». I militanti, e persino i dirigenti, dal livello più basso a quelli via via superiori, non contano nulla. Tutto decide il capo, circondato da una schiera di fedeli, i “guardiani”. Le forme di reclutamento e di selezione, che dalla base giungono al vertice, sulla base di percorsi lunghi, tragitti di «scuola politica», hanno perduto ogni sostanza; contano consulenti, operatori del marketing, sondaggisti, costruttori di immagine. Il distacco tra il capo, e il ristrettissimo vertice intorno a lui, e lo stesso partito, inteso come struttura di aderenti, intorno, di simpatizzanti, o di semplici elettori, appare totale. Se crolla il capo, crolla il partito, nel Pd come è accaduto in Forza Italia, e come accadrà nel Movimento 5 Stelle, se i militanti non scelgono una via diversa.
III Tesi
Il Vaticano, e le gerarchie della Chiesa cattolica, costituiscono non soltanto uno Stato nello Stato, ma uno Stato potenzialmente ostile, che esercita un’azione direttamente politica, volta a condizionare, fino al sovvertimento, gli stessi ordinamenti liberali; diventa «potenza amica» solo quando e nella misura in cui il potere legittimo si piega ai suoi dettami.
IV Tesi
I grandi media non esercitano semplicemente un’influenza, come sostengono certi massmediologi; essi rappresentano pienamente un potere, capace di creare o distruggere leader, culturali o politici o sportivi. Abbiamo avuto esempi piccoli e grandi, di distruzione o costruzione, da Roberto Saviano a Renata Polverini, fino a Ignazio Marino, osannato chirurgo, esemplare perfetto della «società civile», politico onesto, sindaco in grado di svelare e sgominare l’intreccio affaristico-mafioso della capitale, diventato improvvisamente il contrario di tutto ciò, a giustificazione della sua orchestrata defenestrazione.
V Tesi
La lotta politica procede oggi su due livelli distinti ed opposti: il livello palese, che finge di rispettare le regole del gioco, privo di effettualità; e un secondo livello, nascosto, che conta al cento per cento, nel quale si assumono decisioni, si scelgono i candidati ad ogni carica pubblica, e si procede nella selezione (sulla base di criteri di mera fedeltà a chi comanda) dei «sommersi» e dei «salvati». Il livello sommerso è in realtà un potere soltanto indirettamente gestito dal ceto politico: è emanazione di poteri forti o fortissimi italiani o stranieri, di lobby, palesi o occulte, alcune delle quali corrispondenti a centrali criminali.
VI Tesi
Il Partito Democratico, rappresenta oggi la forza egemone della destra italiana: una forza irrecuperabile ad ogni istanza di sinistra. Il suo capo Matteo Renzi costituisce il maggior pericolo odierno per la democrazia, o per quel che ne rimane. Ogni suo atto, sia nelle forme, sia nei contenuti, lo dimostra, giorno dopo giorno. Il suo cinismo (quello che lo portò a ordinare a 101 peones di non votare per Romano Prodi alle elezioni presidenziali; lo stesso cinismo che lo ha portato a ordinare a 25 consiglieri capitolini ad affossare Marino e la sua Giunta) è lo strumento primo dell’esercizio del potere.
Renzi si è rivelato un perfetto seguace dei più agghiaccianti «consigli al Principe» di Niccolò Machiavelli.
VII Tesi
La reazione spontanea, diffusa, robusta alla defenestrazione di Ignazio Marino dal Campidoglio testimonia dell’esistenza di un’altra Italia: i romani che hanno sostenuto «Ignazio», con estrosi slogan, nelle scorse giornate, al di là dell’affetto o della stima per il loro sindaco, hanno voluto far comprendere che la cancellazione della democrazia trova ancora ostacoli e che esistono italiani e italiane che «non la bevono», che la «questione morale» conserva una presenza nell’immaginario dell’Italia profonda (che dunque non è solo razzismo e ignoranza, egoismo e parassitismo, tutti elementi forti nel «pacchetto Italia»); esistono italiani e italiane pronti a resistere.
Su loro occorre fare affidamento, per costruire prima una barricata in difesa della democrazia, quindi per passare al contrattacco, trasformando la spontaneità in organizzazione, la folla in massa cosciente, il dissenso in proposta politica alternativa. Che il «caso Marino» costituisca l’occasione buona per far rinascere la volontà generale e sollecitarla all’azione?
Sulla poca stampa indipendente sopravvissuta si consolida la tesi affaristica delle ragioni della defenestrazione del sindaco di Roma.
Il Fatto Quotidiano, 1° novembre 2015
Fra un taglio di bilancio e l’altro, le rappresentanze sindacali dei pompieri denunciarono il caso e aggiunsero – sempre secondo l’Unità – che “al prefetto Tronca sarebbero stati assegnati ben due attici, in via Piacenza, a due passi dal Quirinale: alloggi di servizio che non gli spetterebbero”, e addirittura alcune “auto nuove nuove dei Vigili del Fuoco di Cortina d’Ampezzo”. Allora Tronca era considerato vicinissimo alla Lega e figurarsi la gioia di Maroni, nel frattempo asceso dal Ministero dell’Interno al Pirellone, quando due anni dopo se lo ritrovò prefetto di Milano. Ora però Tronca è stato scelto personalmente da Renzi, quindi non è più leghista, ma alfiere del “modello Milano”: a patto che l’Unità non ripeschi dall’archivio quella notiziola sul suo malvezzo – più romano che milanese di far scarrozzare il figlio in auto blu. C’è chi, come l’ex portavoce di Fini Salvo Sottile, per un caso analogo s’è beccato una condanna per peculato. Sarebbe seccante ricordarlo proprio ora che Tronca va al posto di un sindaco indagato per peculato. Il modello Milano andrebbe subito a farsi fottere.
2 ) “Modello Milano” significa trapiantare le virtù della “capitale morale d’Italia” - l’ha detto Raffaele Cantone, quindi sarà vero senz’altro - nel corpaccione vizioso della capitale politica, perché la prima “ha gli anticorpi” e l’altra no (Isernia e Caltanissetta, per dire, ancora non si sa, ma il commissario anticorruzione ci farà tosto sapere). Fermi restando i noti vizi e stravizi della Roma che conta, resta da capire quali siano esattamente le virtù di Milano che conta. Lì, finché non fu aperta Expo e la Procura schiacciò il tasto “pausa” per carità di patria ad arresti e avvisi di garanzia, era tutto un susseguirsi di retate perché i virtuosissimi politici e amministratori di destra e di sinistra non erano riusciti a completare i lavori della kermesse (40% di opere mai fatte), ma in compenso le mazzette viaggiavano con puntualità svizzera. E, a occuparsene, non erano nuove leve del malaffare, insospettabili e irriconoscibili a occhio nudo: erano le stesse di Tangentopoli, solo invecchiate di vent’anni. Greganti, Frigerio, Grillo (Luigi), Maltauro.
Eppure né il commissario Occhio Di Lince Sala, né i suoi sponsor al Comune e alla Regione, s’erano accorti di nulla. Siccome poi la Regione Lombardia era stata sciolta anzitempo nel 2013 per gli scandali Formigoni, Minetti, Trota, Boni, Penati e note spese, col contorno di qualche ’ndranghetista (milanesissimo, dunque provvisto di robusti “anticorpi”), anche i nuovi inquilini del Pirellone si son dati da fare: il 1° dicembre il governatore Bobo Maroni andrà a processo per turbativa d’asta ed è indagato per i suoi favori a due amichette sue; il suo vice Mario Mantovani, forzista, soggiorna attualmente a San Vittore per corruzione. Completano il quadro, sempre a proposito di “modello Milano” e “anticorpi”, i comuni dell’hinterland infiltrati dalle mafie, come Buccinasco, Desio e Sedriano. Degna, anzi sacra corona per la Capitale Morale.
3) “Modello Milano” vuol dire che Roma, per il Giubileo, deve prendere esempio da Expo. Il tempo è poco, ma ce la si può ancora fare. Funziona così. Si favoleggia dell’arrivo di 24-30 milioni di visitatori da tutto il mondo, poi ne arrivano solo 18 (record storico negativo dal 1962, pari al dato di Expo Hannover 2000, detto anche “il flop del millennio”), ma si arrotonda a 21 e lo si spaccia per un trionfo. Si buttano dalla finestra 2,4 miliardi di denaro pubblico (1,3 per la costruzione, 960 milioni per la gestione e 160 per l’acquisto dei terreni da privati, decuplicando il prezzo di mercato), poi si dice che i costi saranno coperti dalla vendita dei biglietti a 22 euro di media, poi la media ufficiale scende a 19 euro e quella reale a molto meno (centinaia di migliaia di ticket regalati o svenduti a 5 euro), con un bel buco finale di 1 miliardo a carico nostro, ma nessuno ci fa caso. Si scopre poi che i terreni sono altamente inquinati, dunque vanno bonificati, per un costo preventivato di 5 milioni a carico dei proprietari, che però non vogliono pagare e intanto il conto sale a 72 milioni, e indovinate chi li paga. Si shakera il tutto con copiosi investimenti pubblicitari su giornali e tv, che in cambio suonano trombe e trombette. Infine si proclama eroe nazionale l’artefice del capolavoro, con monumento equestre incorporato, e lo si candida a sindaco.
Ora, per carità, va bene tutto: ma abbiamo come il sospetto che di magliari e leccaculi Roma ne abbia a sufficienza, senza bisogno di importarli da Milano.
«Il trucco principale risiede nella definizione di “servizio pubblico”: a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo; b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum».
Il Manifesto, 31 ottobre 2015
«Per chi legge in buona fede il mandato negoziale del TTIP, è del tutto evidente che i servizi pubblici non sono oggetto di negoziazione». Così ripete ad ogni occasione il viceministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” verrebbe da rispondere citando il famoso “belzebù” della prima repubblica. D’altronde, basta leggere quanto previsto dal CETA (Accordo commerciale Ue-Canada, la cui ratifica partirà nel 2016) e dal TTIP (Accordo Usa-Ue, in fase di negoziazione) per capire chi ha ragione.
I Il manifesto, 30 ottobre 2015
Il sindaco Marino ha ritirato le dimissioni. Lo ha fatto, come aveva annunciato, entro i venti giorni previsti da quel 12 ottobre quando la scelta di dimettersi era arrivata sull’onda di alcuni esposti per la vicenda degli scontrini fasulli. Ora, finalmente, il Pd, quello romano screditato dall’inchiesta di mafia-capitale e quello nazionale governato dall’uomo solo al comando, è nudo di fronte alla questione romana che in sé, per la via “extraparlamentare” che l’ha connotata, riassume la questione democratica.
Il ritiro delle dimissioni toglie di mezzo alibi e ipocrisie, fa piazza pulita della foglia di fico degli scontrini usati per gestire, con un commissario di gradimento renziano, l’importante partita del Giubileo. È peraltro curioso l’accostamento — da parte del governo — tra la manifestazione cattolica del pellegrinaggio religioso con l’Expo, una manifestazione laica misurata più che con il soffio dello spirito santo con i bilanci tra costi e ricavi. Ancora più curioso che un assessore del Pd, il torinese Esposito, sia andato a spiegare in tv il gran peso avuto, nella vicenda delle dimissioni di un sindaco, dalla “scomunica” del papa in missione a Filadelfia. Come se l’aria di Roma provocasse repentine conversioni.
Quali sono allora le colpe politiche del sindaco di Roma? Qual è il bilancio di questi due anni di sindacatura? E quando sarebbero state avvistate queste magagne politiche, se il Pd fino all’anatema papale e fino alla bolla degli scontrini non ne aveva mai fatto questione?
Come mai, dopo mafia-capitale, Marino era considerato un esempio di buona amministrazione, un nemico dei poteri capitolini, un avversario delle potenti lobby (dai vigili urbani, alle alte porpore, ai commercianti, a certi consigli di amministrazione…) e ora, invece, è giudicato un incapace della peggior specie? Le buche nelle strade, la sporcizia, gli autobus scassati, qui, nella capitale, non godono delle attenuanti che vengono riconosciute alle altre amministrazioni (mancanza di fondi, politiche di tagli ai servizi). Anzi abbiamo sentito rispolverare il cliché di Milano capitale morale — il magistrato Cantone ha la memoria molto corta — e magnificare la performance dell’Expo come se né l’una, né l’altra avessero rischiato di affondare negli scandali, nelle ruberie, nelle attività delle grandi famiglie mafiose. E meno male che il presidente della repubblica mantiene il doveroso riserbo, altrimenti il palmarés del sindaco marziano avrebbe fatto il pieno.
La situazione è grave ma non è seria. Chi ne farà le spese, in un modo o nell’altro, sarà il Pd. Ma a essere colpita è anche la gestione democratica di questa vicenda che doveva essere trattata alla luce del sole, in Campidoglio, non nelle stanze del Nazareno, non nel modo fazioso di larga parte dei quotidiani nazionali (quelli locali hanno fatto una opposizione “edilizia” dall’inizio della sindacatura), non attraverso informazioni pilotate e interessate. Marino non è il migliore dei sindaci, il mestiere politico non è il suo, si è mosso fidandosi soprattutto dei “suoi”, del suo cerchio magico. Ma sicuramente non è peggiore di quelli che vogliono fargli le scarpe.
Fin qui abbiamo assistito al primo e secondo atto della tragi-commedia romana. Ora aspettiamo il gran finale. Che per più di qualcuno non sarà indolore. E poi si vada alle elezioni al più presto.
«Le virgolette di Naipaul, premio Nobel della letteratura, raffigurano alla perfezione anche il mondo del XXI secolo, pieno di "scuole" che non educano, "ospedali" che non curano, "poliziotti» che spesso sono criminali, "imprese private» che esistono solo grazie allo Stato o "ministeri della Difesa" che attaccano i loro cittadini».
La Repubblica, 30 ottobre 2015 (m.p.r.)
NEL 1980, dopo aver visitato l’Argentina, il romanziere V. S. Naipaul scrisse: «In Argentina molte parole hanno un significato ridotto rispetto a prima: generale, artista, giornalista, storico, professore, università, direttore, manager, industriale, aristocratico, biblioteca, museo, zoo; tante parole devono essere messe tra virgolette».
Il Nashi, per esempio, è un «movimento» di giovani russi che si dichiara «democratico, antifascista e contro il capitalismo oligarchico». Va tutto fra virgolette perché in realtà questa Ong è un ente promosso, organizzato e patrocinato dal governo russo. Che non è l’unico a usare quelle che si è cominciato a chiamare Ongog, cioè organizzazioni non governative organizzate e controllate dai governi. Già nel 2007 scrissi: «La Federazione degli affari femminili in Birmania è una Ongog. E anche l’Organizzazione per i diritti umani del Sudan. L’Associazione delle organizzazioni non a scopo di lucro e non governative del Kirghizistan, e la Chongryon (Associazione generale dei residenti coreani in Giappone) sono Ongog. È una tendenza mondiale, sempre più estesa: governi che finanziano e controllano organizzazioni non governative, spesso e volentieri in modo occulto».
Anche in Paesi con governi autocratici o democrazie illiberali stanno proliferando «mezzi di comunicazione privati e indipendenti» che in realtà non lo sono. Canali radiofonici, televisivi, giornali e riviste creati o comprati da «investitori privati» e che nominalmente sono indipendenti, ma editorialmente sono al soldo del governo che clandestinamente li finanzia e li controlla.
In questi Paesi il presidente, dittatore o capo di Stato normalmente esercita un controllo clandestino, ferreo, su «senatori», «deputati », «procuratori», «magistrati» e «tribunali elettorali» spacciati per «arbitri imparziali», su «elezioni democratiche» che spesso e volentieri sono truccate e fraudolente. Per questo in Russia, Iran, Venezuela o Ungheria, per esempio, i concetti di «democrazia», «separazione di poteri» ed «elezioni» devono essere messi fra virgolette per mettere in guardia dal fatto che non hanno lo stesso significato che altrove.
E non è solo un problema degli Stati. Il mondo delle organizzazioni internazionali è inondato di virgolette. Avete mai sentito parlare del Consiglio per i diritti umani dell’Onu? La sua missione è «promuovere e proteggere i diritti umani nel mondo». Chi ne fa parte? Fra gli altri, solo per citarne alcuni, Cuba, il Congo, la Cina, la Russia, il Kazakistan, il Venezuela e il Vietnam. Un altro esempio istruttivo di quanto siano diventate indispensabili le virgolette è la «Carta democratica» dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa). Nel 2001, con grande sfarzo ed emozione, i Paesi democratici dell’America Latina concordarono tutti che il «rafforzamento e la difesa delle istituzioni democratiche» era una priorità, e che se in un Paese membro si fosse prodotta una rottura o un’alterazione delle istituzioni tale da nuocere gravemente all’ordine democratico, ciò avrebbe rappresentato un «ostacolo insormontabile» per la permanenza di quel governo nell’organizzazione.
Non è stato così. Non solo l’Osa non si è mossa quando sono avvenute eclatanti violazioni dell’«ordine democratico» in diversi Paesi della regione, ma appare seriamente intenzionata ad accogliere un altro paladino della democrazia: Cuba.
Forse, però, il Paese che più ha bisogno di virgolette per poter essere interpretato è la Cina. La Cina del sistema «comunista» che è diventato un pilastro fondamentale dell’economia capitalista mondiale. E solo per fornire un altro esempio, la Cina che ora ci obbliga a mettere fra virgolette il concetto di «isola». Ha preso quattro scogli in una zona del Mar della Cina Meridionale la cui sovranità è fortemente contestata e le ha fatte «crescere». Così, invece di essere scogli non abitati e non abitabili in mezzo all’oceano, ora sono piccole «isole» dove Pechino ha già installato basi navali e aeree.
Il XXI secolo sarà «il secolo delle virgolette»?
Traduzione di Fabio Galimberti
Malgrado che - con qualche sorpresa non solo dei commentatori internazionali, ma persino degli stessi protagonisti diretti - le sinistre in Portogallo fossero riuscite a trovare un accordo per potere governare il paese, potendo contare su un ruolo e un comportamento dei socialisti in controtendenza rispetto a quelli della socialdemocrazia europea. Malgrado che nel parlamento eletto lo scorso 4 ottobre i conservatori abbiano 107 seggi, mentre i socialisti 86, i comunisti 17 e il Bloco de Esquerda - la formazione di sinistra vicina alla Syriza di Tsipras – 19. Malgrado che quindi la maggioranza parlamentare, che è di 116 seggi, appartenga a queste tre ultime formazioni politiche, potendo esse contare su 122 voti. Malgrado che pochi giorni fa il Parlamento portoghese abbia eletto, come proprio Presidente, Eduardo Ferro Rodrigues con 120 voti provenienti dai partiti della sinistra. Malgrado tutto ciò, il Presidente del Portogallo ha incaricato il leader conservatore Passos Coelho, uscito pesantemente ridimensionato dalla prova elettorale, di formare un governo che inevitabilmente sarà di minoranza.
Ancora più sconcertanti, se possibile, sono le motivazioni della scelta presidenziale. Il capo dello Stato portoghese ha infatti dichiarato che “In 40 anni di democrazia, nessun governo in Portogallo è mai dipeso dall’appoggio di forze politiche antieuropeiste…che chiedono di abrogare il Trattato di Lisbona, il Fiscal Compact, il Patto di Crescita e di Stabilità…che vogliono portare il Portogallo fuori dall’Euro … e dalla Nato” e che quindi sarebbe suo preciso dovere e rientrerebbe nei suoi poteri costituzionali “fare di tutto ciò che è possibile per prevenire l’invio di falsi segnali alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati”.
Il programma di governo delle sinistre portoghesi non è affatto antieuropeista, è per cambiare l’Europa in senso sociale e democratico. Vuole evitare che il paese sia nuovamente sottoposto ad un altro memorandum di politiche economiche recessive e di impoverimento sociale. Già cinque sono stati quelli comminati dalla Ue al paese lusitano e il partito di Passos Coelho ha perso la maggioranza assoluta proprio perché ne rivendicava la bontà, cosa che evidentemente non è piaciuta affatto all’elettorato portoghese. Comunque a un capo dello stato compete solo la tutela della Costituzione del proprio paese e non certo di sindacare l’indirizzo politico delle forze che vincono le elezioni.
Ciò che quindi risulta sconvolgente da queste dichiarazioni presidenziali è la palese ammissione di una totale sottomissione alla logica dei mercati finanziari, veri dominus della situazione europea e internazionale, capaci in quanto tali di prevalere su qualsiasi indicazione democratica espressa dalla volontà popolare. Si dirà, e giustamente, che questo era già accaduto, in particolare in Grecia, ma in questo caso repetita non iuvant, anzi dimostrano il carattere a-democratico della costruzione europea e la violenza della reazione appena forze di sinistra conquistano il consenso popolare. Il sostanziale silenzio dei mass media chiude il cerchio, mostrando a quale infimo livello è giunta la sensibilità democratica dei grandi organi di informazione in particolare nel nostro paese.
Ma la partita è tutt’altro che chiusa. Sia in Portogallo che in Europa. I partiti di sinistra hanno già annunciato di non volere concedere la fiducia, che dovrà essere votata entro il 9 novembre. Se, come i numeri sulla carta ci dicono, il nuovo esecutivo non dovesse ricevere l’avvallo del parlamento, il presidente dovrebbe scegliere se confermare Passos Coelho fino allo scioglimento dell’assemblea o incaricare il leader del Ps ed ex sindaco di Lisbona António Costa, che tra i partiti delle sinistre è il maggiore. Si deve altresì tenere conto che non è possibile sciogliere il Parlamento e convocare elezioni anticipate prima di gennaio, perché il Portogallo è entrato nel semestre bianco che precede l’elezione di un nuovo presidente della repubblica.
E allora, che senso potrebbe avere la scelta del capo dello Stato portoghese? Solo quello di affidarsi alla speranza che si provochi un ripensamento, ovvero una spaccatura all’interno del partito socialista portoghese, considerato come l’anello più debole del patto stretto tra le sinistre. Per ora non sembra. Anzi l’effetto dell’atto presidenziale è stato piuttosto quello di compattare il partito. Sarà decisivo nei prossimi giorni vedere quale sarà il comportamento degli altri partiti socialisti e socialdemocratici a livello europeo. Finora la reazione più significativa è venuta dal Partito socialista francese, il cui segretario, Jean Christophe Cambadelis, ha dichiarato in una nota di sostenere “l’alternativa rappresentata dai socialisti e dalla coalizione di sinistra”. Se i pronunciamenti di questo tipo aumenteranno e se si svilupperà una pressione democratica popolare a livello europeo, il governo di minoranza della Troika avrà vita effimera. E sarebbe un segnale importante anche per le prossime e vicine elezioni spagnole, oltre che per l’Europa nel suo complesso.
Intervista di Roberto Ciccarelli all'economista Gianfranco Viesti. Una critica severa alla "legge di stabilità":«È una manovra poco equa perché premia in misura cospicua i più abbienti e rilancia molto poco i consumi». Il manifesto, 29 ottobre 2015
Corradino Minea è finalmente uscito dalla "sinistra tremula" e ha abbandonato il partito di Renzi. Racconta com'è andata. Molto istruttivo per comprendere l'Italia di oggi. Il manifesto, 29 ottobre 2015, con postilla
Il rapporto con il gruppo del Pd si era logorato. Se rivedo il film degli ultimi mesi, ho votato in dissenso su jobs act, scuola, Rai, Italicum e legge costituzionale. Cosa che mi metteva un po’ in imbarazzo e capisco che mettesse in imbarazzo anche chi aveva approvato quelle scelte sbagliate. Inoltre la battaglia nel gruppo aveva perso appeal, aveva minore agibilità dopo che la maggioranza della minoranza si era messa a lavorare Renzi ai fianchi, per logoralo.
Ma senza contestarne la narrazione che è, secondo me, parte fondante della sua politica. Io penso al contrario che solo una generosa assunzione di responsabilità politica possa aiutare il paese, e quel che resta della sinistra, a uscire dal cono d’ombra lo sta cacciando una politica tanto pirotecnica quanto inconsistente.
Sono queste le ragioni politiche delle mie dimissioni dal gruppo. Poi c’è la cronaca, il motore ultimo di una scelta. Quella provo a raccontarla da cronista. Martedì 27, Luigi Zanda convoca i senatori in assemblea, non si sa per discutere cosa. Il direttore del gruppo mi chiama due volte: «Vieni?», «partecipo a tutte le riunioni», «Stavolta Zanda ti vuole». Capisco.
Si aprono le danze. Il capogruppo loda i suoi senatori, «siete il sostegno della legislatura - dice - e dunque della Repubblica». Loda persino chi «gli ha fatto male» votando in dissenso sulla riforma costituzionale, «ma almeno con loro ho parlato, con la Amati, con Casson, ho parlato con Tocci». Solo Mineo è stato sleale: «Non è venuto nella mia stanza a dirmi che avrebbe votato contro. E questo (severo!) viola il nostro statuto».
Ma lo sapevano tutti, l’avevo detto nel gruppo, nei corridoi, ovunque. Cosa non ho fatto? Ho omesso di baciare la pantofola del Presidente. Subito si scatena il processo: durerà due ore e mezzo. Protagonisti, nel ruolo della base indignata, senatori incravattati e senatrici tiratissime.
«Mi ha fatto male vederlo inviare un tweet dopo che il governo era andato sotto sul canone Rai». «Lo hanno applaudito i grillini! (Alzando la voce)». «Raggiungiamo un compromesso sul senato, neppure siamo contenti e lui viene in aula a demolirlo!». «Vuole farsi espellere perché cerca visibilità». «Un partito non è un pollaio e Renzi ha vinto».
Ci sono stati anche interventi di tenore diverso, pochi!. Tocci, sull’assurdità di imporre una disciplina da centralismo democratico nel partito in franchising di Matteo Renzi. Fornaro, che ha ricordato come la narrazione renziana demonizzi la minoranza prima che la minoranza parli o pensi. Lo Giudice, per il quale la libertà non può valere solo quando conviene al vertice (come per le unioni civili).
Poi Zanda conclude pronunciando la parola «incompatibilità» (tra me e il suo magnifico gruppo). E cala l’asso: li avrei definiti «servi», in aula, quando avevo obiettato alla Finocchiaro che Ponzio Polito non era stato affatto, come ella pretendeva, un politico incapace di decidere, ma un servo ipocrita del suo padrone, l’imperatore, che condivideva le ragioni del Sinedrio e voleva che si mandasse a morte Gesù. Se qualcuno del gruppo si è sentito offeso - avevo scritto a suo tempo a Zanda dopo aver subito una contestazione in aula ad opera di taluni del Pd - se qualcuno s’è sentito offeso deve avere una gigantesca coda di paglia. Zanda sapeva.
Nel partito della nazione convive tutto e il contrario di tutto, ma la narrazione deve essere una sola, quella del segretario premier. Tutto qui. Ora imbiancheranno i sepolcri dicendo che la mia uscita era scritta, che l’assemblea non c’entra, che il partito di Renzi non espelle. E questo è vero, non espelle, usa la sua macchina narrante per far sì che i dissidenti si auto espellano, uno alla volta. Civati, Fassina, Mineo. E domani, chi? Mentre gli iscritti e gli elettori se ne vanno più numerosi. Ma che importa, basta vincere anche per un voto, anche se al ballottaggio voterà meno della metà degli italiani. L’importante è vincere, contro un avversario che si cerca di costruire come perdente.
E ora? Gruppo misto, battaglia in senato dove la maggioranza balla e ballerà ancora. Lavoro nelle città e con le persone, perché «c’è vita a sinistra». A condizione di saper essere unitari e generosi. E di rilanciare una battaglia culturale, dopo un quarto di secolo di subalternità alla cultura della destra.
postilla
Sempre più spesso si sentono storie che ricordano il processo raccontato dal senatore Mineo. Dalle scuole agli uffici, dalle fabbriche alle giunte comunali chi vuole esprimere un dissenso nei confronti di chi comanda è costretto a tacere; oppure ad andarsene. Il regime feudale instaurato da re Renzi, con la complicità dei cortigiani, dei servi e degli ignavi sta completando il suo progetto. Libero di raccontare ciò che non condivide è soltanto chi ha le spalle coperte: da una ricchezza personale, o da una pensione, o da un laticlavio.
Nel 40° anniversario dell'assassinio di Pierpaolo Pasolini. «Pensatore pessimista e profetico, volle mostrare il vero volto, feroce e repressivo, dell’autorità.,nascosto sotto le spoglie dell’edonismo»
LaRepubblica, 28 ottobre 2015
spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il fascismo e l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.
La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.
Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.
Per rincarare la dose: la competizione democratica è congenitamente truccata. Chi scrive le regole sono i giocatori, ma non sempre tutti d’intesa fra loro. Le scrivono i vincenti a spese della concorrenza.
Le ultime leggi elettorali adottate in Italia lo confermano come meglio non si potrebbe. Contano invero molto le circostanze. Nel 1946– 48, quando si adottarono proporzionale e bicameralismo, i vincenti erano tanti e nessuno era in grado di imporsi agli altri: furono costretti a un accordo piuttosto equo. Non appena però la Dc si convinse che circostanze e rapporti di forza erano cambiati, adottò la legge truffa.Qui sta tuttavia il bello delle elezioni. Non è detto che quando i vincenti le riscrivono, o reinterpretano, a propria misura, le regole funzionano secondo le attese. Padri e padrini dell’Italicum si tengano per avvertiti.
La democrazia elettorale mantiene un margine, seppur ristretto, di imprevedibilità. Inoltre, le elezioni ciclicamente si ripetono. Competitività e ciclicità sono pregi fondamentali. Il loro primo pregio sta nel fatto che se non ci sono la democrazia diventa autocrazia e la democrazia (elettorale) è un marchio oggidì quasi irrinunciabile. In secondo luogo, competitività e ciclicità assicurano che nessun risultato è mai per sempre. Prima o dopo, il diavolo ci mette la coda.
La competitività, tuttavia, se non è resa fittizia, ha pure un altro pregio. Costringe i concorrenti a mostrarsi un po’ generosi con gli elettori: se vuoi che ti votino, qualcosa devi concedergli. Suffragio universale e welfare sono esistiti per questa ragione. Proprio per bloccare questa possibilità – definita di volta in volta dai catoni di accatto demagogia, clientelismo, assistenzialismo o populismo – le regole democratiche sono state da un quarto di secolo ricongegnate riducendo a due le alternative e rendendole fittizie. Dato che i concorrenti, per inseguire l’elettore intermedio, promettono e fanno tutti le stesse cose. Oppresso da tale competitività simulata, lo Stato sociale ci ha lasciato le penne. Mentre metà elettori, disgustati, non votano nemmeno, le elezioni oggi si vincono con una manciata di voti, lautamente pagati da chi ha i soldi. Come si voleva.
Qualcuno a questo punto invocherà la Costituzione e le tavole dei diritti. Ma andiamo alla sostanza: costituzioni e diritti sono tentativi d’irrigidire giuridicamente un equilibrio di potere dato storicamente e proiettarlo nel tempo. La costituzione del ‘48 voleva irreversibile l’antifascismo e il – modesto – comune denominatore che legava le forze politiche che la sottoscrissero, ovvero l’attenzione per il mondo del lavoro e le classi popolari. La Costituzione è pertanto un incrocio tra un programma politico solenne e un pezzo di carta. Dopo un avvio sferragliante, per un po’ il programma politico ha funzionato. Ma non per forza intrinseca, ma perché c’erano larghissime truppe elettorali e imponenti organizzazioni di massa che lo garantivano.
Al contempo, i partiti erano in concorrenza tra loro per l’elettorato popolare. Aggiungiamoci, infine, che c’era una classe politica che, pur tra tanti distinguo, ci credeva. Per fortuna c’è anche chi fa politica non solo per vincere le elezioni, ma anche per attuare qualche nobile ideale. Alla lunga la Costituzione si è ridotta a un pezzo di carta.
Competizione effettiva, vasti elettorati e organizzazioni di massa in grado di suscitarli sono ciò che consente di arredare la democrazia in maniera non troppo misera.
Bene, la retorica della governabilità ad ogni costo, di destra e di sinistra, ha azzerato la competizione e quella moralista ha accusato i partiti di essere la sentina di ogni vizio. Le sentine si possono anche svuotare. Si è detto invece che i partiti erano congenitamente viziosi e li si è ridotti a ectoplasmi.
Conclusione. Se vogliamo difendere il progetto politico dei Padri costituenti, perché lo riteniamo ancora valido, o se ne vogliamo immaginare un altro che salvaguardi i succitati principi e presti attenzione alla gente comune, tocca radunare truppe, armarsi e combattere. Con armi pacifiche, ma che facciano arretrare l’avversario. Non è facile, perché l’avversario è attrezzato: fra le altre cose ci ha incatenati ai diktat dell’Europa dei banchieri.
Ma non è detto che sia impossibile. Non è impossibile, ad esempio, escogitare tecniche comunicative utili aggirare le blindature dei media, che sono in mano ai ricchi. I cosiddetti partiti populisti, si badi, ci stanno riuscendo, seppur nell’intento d’instradare la democrazia sui binari del razzismo e dell’intolleranza. Tant’è che pure a sinistra da qualche parte qualcosa si muove: in Inghilterra, nella penisola iberica, in Grecia.
Chissà perché la sinistra italiana è rimasta finora prigioniera di personalismi e narcisismi, limitandosi a pestare i piedi per i diritti violati e per le malefatte di questo e quello. Chi dice però che non possa far di meglio?
«In un saggio di Sergio Flamigni la collaborazione tra ex Br ed esponenti democristiani per impedire una ricostruzione veritiera del sequestro». L'incognita aperta è la solita: a chi è giovato quell'assassinio? Chi ricorda il clima politico di quel tempo non ha dubbi.
La Repubblica, 26 ottobre 2016
Patto di omertà (Kaos) è molto più di un nuovo (ennesimo) libro sul caso Moro: è una lezione di metodo e una pietra d’inciampo. L’autore, Sergio Flamigni, ex senatore del Pci in cui ha militato sin dalla giovinezza, partigiano prima, poi giovanissimo dirigente forlivese, è il massimo esperto della vicenda, a cui si dedica da una vita, da quando entrò nella prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto ( 1979-‘83). Instancabile “cercatore di verità”, come ama definirsi, fondatore del principale archivio italiano sul terrorismo, otto libri all’attivo (il più noto La tela del ragno), torna sulla vicenda e ripercorre le carte alle luce delle acquisizioni più recenti.
Perché – ecco il metodo- nel proliferare incontrollabile di pubblicistica interessata, memorie contraddittorie e dichiarazioni tardive, spesso su funzionari dello Stato ormai defunti (lo storico Gotor ha ben analizzato come il proliferare di narrazioni e testimonianze, solo in parte veritiere, comunque verosimili, sia funzionale all’oscuramento della verità sugli aspetti più indicibili del delitto), i documenti restano il riferimento imprescindibile, e vanno riletti e ristudiati nel tempo, con pazienza e umiltà.
C’è stato (e ancora resiste) un patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano: questa la tesi di fondo, ampiamente documentata, di Patto d’omertà . Lo scopo? Impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro, in cui trovino risposta i quesiti ancora aperti (Flamigni stila un elenco circostanziato delle lacune, gravissime: basti ricordare che ancora non si conosce l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani).
Al posto della verità, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la collaborazione sotterranea tra figure chiave delle due parti (mentre all’esterno si sbandierava strumentalmente la retorica della “riconciliazione”, ricordate?) ha confezionato una ricostruzione lacunosa e in più punti falsa del caso Moro da dare in paso all’opinione pubblica, le cui architravi sono: (1) la strage di via Fani e i 55 giorni sono stati eseguiti e gestiti solo dalle Br, senza aiuti e complicità esterne; (2) non vi furono omissioni e manovre occulte all’interno degli apparati dello Stato durante i 55 giorni; (3) non vi furono trattative occulte.
Una versione di comodo sia per gli ex Br, perché salvaguardava i loro miti identitari della “purezza rivoluzionaria” e della “geometrica potenza”, sia per la Dc (Cossiga e Andreotti in testa), perché contrastava con le evidenze di un’insufficiente impegno governativo per salvare Moro. L’architrave della versione ufficiale, sdoganata grazie alla compiacenza, ahimè, di vari esponenti della magistratura coinvolti nei processi Moro, è il cosiddetto “memoriale Morucci” (passato dalla scrivania dell’allora presidente Cossiga prima di pervenire ai magistrati), che tradisce la propria natura mistificatoria sin dal nome: bisognerebbe chiamarlo infatti “memoriale Morucci-Cavedon”, perché è frutto di molti colloqui tra l’ex Br dissociato e Remigio Cavedon, giornalista, direttore del quotidiano Dc Il popolo e consulente personale di politici del calibro di Mariano Rumor, al punto che Morucci ammise di non saper più distinguere con precisione cosa fosse esclusivamente farina del proprio sacco (indigna leggere che il magistrato, anziché approfondire il punto, abbia lasciato correre).
La parte più consistente e appassionante del saggio di Flamigni è la meticolosa analisi testuale del documento, che mette in luce omissioni e falsità sulla base delle innumerevoli fonti scritte e orali accumulatesi nei decenni. L’altra sezione “scandalosa” e illuminante riguarda il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.
Ha il pregio della chiarezza, il libro di Flamigni. Grazie alla limpida cronologia sinottica degli avvenimenti e delle indagini dalla mattina del 16 marzo 1978 al ’97, quando l’ex capo delle Br Moretti ottenne la semilibertà, fornita in apertura, si presta ad essere letto e compreso anche da chi sa poco o nulla. Circoscrive le lacune e le omissioni documentali per poter ribadire quanto invece sappiamo per certo, a dispetto delle menzogne governative e brigatiste.
Per anni Flamigni è stato deriso, denigrato come un pazzo visionario, osteggiato con cause per diffamazione (da cui è sempre uscito vincente, anche contro Cossiga), adesso, dopo che i fatti gli hanno dato ragione su tutto (dalle carte rimaste nascoste in via Montenevoso all’esistenza di un “quarto uomo”, solo per citare le più clamorose “anticipazioni” scaturite dalle sue ricerche), il rischio è che la sua voce limpida sia sommersa dal rumore.
Mentre la nuova Commissione Moro, agli occhi degli addetti ai lavori, sembra dedita principalmente a confondere le acque e sfornare scoop di dubbia fondatezza con pretese di scientificità (clamorosa la “ricostruzione 3D” della strage di via Fani che fa a pugni con le perizie) che non a far procedere le conoscenze e dove, a dispetto delle direttive altisonanti del Governo sugli archivi del terrorismo, ancora non sono saltati fuori i verbali delle riunioni del comitato di crisi interforze attivo durante il sequestro (e pieno di affiliati alla P2), questo saggio è una preziosa pietra d’inciampo.
Sappiamo moltissimo, del caso Moro, e ciò che non sappiamo getta luce sull’“anatomia del potere italiano” (per citare un saggio di Gotor, altro caposaldo sulla vicenda) e le caratteristiche del terrorismo in Italia: Patto di omertà consolida e approfondisce il patrimonio di verità, insegna a ragionare e a non cedere allo scetticismo.
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Lo scopo era impedire una ricostruzione veritiera del sequestro e dell’omicidio
Nell'intervista di Antonio Gnoli la vita di una protagonista di una delle principali correnti politiche e culturali che hanno attraversato l'Italia dalla Resistenza a oggi. raccontata da chi la sta vivendo.
LaRepubblica, 1 febbraio 2015
Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune.
Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur . Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese»Collera perché?«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico»
Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi»
Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo»
E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».
Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
«Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura».
Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».
Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».
Con chi si è complicata la vita?
«Con Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere».
Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l'Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato».
Quell'anno alcuni restituirono la tessera.
«E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante».
Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti»
Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».
Foucault aveva sparato a zero contro l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i piedi»
Ha conosciuto Foucault personalmente?
«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un'intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l'Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno»
Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un'amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt'altro modo».
Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis»
Quale malattia?
«Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci»
Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».
Tra le figure importanti nella sua vita c'è stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme»
Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho una certa invidia per le mie amiche - come Margarethe von Trotta - che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un'altra»
Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
«Non ho più un'idea di Dio dall'età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio»
Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».
Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po' strana»
Si riconosce un lato romantico?«Se c'è si ha paura di tirarlo fuori. Non c'è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell'innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro»
Come vive il presente, questo presente?
«Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita»
E le sue radici: Pola? L'Istria?
«Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me»
«Hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune».
La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)
Chi ha vinto e chi ha perso nel Sinodo sulla famiglia? Molti ritengono che il Papa sia uscito rafforzato da questo difficile passaggio. Ma si tratta di una vittoria singolare. Se avesse voluto affermare la sua volontà, il Papa avrebbe potuto scegliere strumenti molto più efficaci di un Sinodo. Si è proposto, piuttosto, di promuovere un libero dibattito fra tante «opinioni diverse» da cui è scaturisse l’«immagine viva» di una Chiesa che non usa «moduli preconfezionati». Con l’applauso che ha accompagnato queste parole del suo discorso finale i vescovi hanno riconosciuto apertamente che l’obiettivo è stata raggiunto. Di sicuro, perciò, hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune.
«L’ex premier britannico, intervistato dalla Cnn, ammette una serie di errori. Dai dossier sulle armi di distruzione di massa al diffondersi del terrorismo islamico». Ma per i governanti non è vero che "chi rompe paga".
La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)
Londra. Dodici anni dopo la controversa invasione che è costata centinaia di migliaia o forse milioni di vite umane, e il posto di primo ministro a lui, Tony Blair dice: «I am sorry». L’ex leader laburista chiede scusa, anzi tre volte scusa: per gli errori dello spionaggio britannico che avevano attribuito a Saddam Hussein il possesso di armi di distruzione di massa (la ragione ufficiale per l’intervento militare del Regno Unito accanto agli Stati Uniti), per errori nella pianificazione della guerra e per la mancata comprensione di quelle che sarebbero state le conseguenze del conflitto, ovvero per l’instabilità che ha sconvolto l’Iraq e le regioni circostanti.
«L’Africa non ha bisogno di aiuti, ma di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata». L'entità e le cause della crescente diseguaglianza tra ricchi e poveri e tra bianchi e neri. La
Repubblica, 26 ottobre 2015
La fine dell’apartheid ha reso indubbiamente possibile l’uguaglianza formale dei diritti civili fondamentali, ma non ha consentito di ridurre la disuguaglianza abissale delle condizioni di vita. Una constatazione motivata in parte da fattori internazionali.
A poco più di vent’anni di distanza dalla fine dell’apartheid e dalle prime elezioni libere (1994), il Sudafrica si interroga più che mai sul problema delle disuguaglianze. La strage di Marikana, dove 34 minatori in sciopero per chiedere aumenti salariali erano stati massacrati dalla polizia, nell’agosto del 2012, continua a tormentare la coscienza del Paese. L’Anc (African National Congress), al potere senza interruzione dall’inizio della transizione democratica, ha reso possibile un’uguaglianza nei diritti civili fondamentali: il diritto di voto, il diritto di spostarsi liberamente sul territorio e di svolgere, teoricamente, tutte le professioni. Ma questa uguaglianza formale non ha consentito di ridurre l’abissale disuguaglianza delle condizioni di vita e dei diritti reali. Il diritto a un lavoro e a un salario dignitosi, il diritto a una scuola di qualità, il diritto di accedere alla proprietà, il diritto a una reale democrazia economica e politica. Il Paese si è sviluppato, la popolazione è cresciuta notevolmente, ma la promessa di uguaglianza non è stata mantenuta.
Secondo gli ultimi dati disponibili, il 10% più ricco si accaparra circa il 60-65% del reddito nazionale, contro il 50-55% in Brasile, il 45-50% negli Stati Uniti, il 30-35% in Europa. Peggio ancora: questo scarto estremo che separa il 10% in alto (composto ancora in larga maggioranza da bianchi) dal 90% in basso si è aggravato dopo la fine dell’apartheid. Questa triste constatazione si spiega in parte con fattori internazionali: la deregolamentazione e l’esplosione dei compensi nel settore finanziario (molto importante in Sudafrica), l’aumento delle quotazioni delle materie prime (che beneficia soprattutto una minuscola élite di bianchi), un dumping fiscal e sociale generalizzato. Ma si spiega anche con l’insufficienza delle politiche messe in atto dall’Anc: i servizi pubblici e scolastici disponibili nelle zone più disagiate rimangono di mediocre qualità; nessuna riforma agraria ambiziosa è mai stata realizzata, in un Paese dove i neri si erano visti sottrarre il diritto di possedere terre ed erano stati parcheggiati in riserve e township, dal Natives Land Act del 1913 fino al 1990; il patrimonio fondiario, immobiliare e finanziario resta largamente nelle mani dell’élite bianca, così come le risorse minerarie e naturali; le timide misure di empowerment economico della comunità nera, che mirano a costringere gli azionisti bianchi a cedere una quota delle loro azioni a neri, sulla base di transazioni volontarie ai prezzi di mercato, hanno beneficiato un’infima minoranza di neri che aveva già i mezzi (o le conoscenze politiche) per comprarle.
Risultato prevedibile: l’Anc è sempre più contestato a sinistra dal partito degli Economic Freedom Fighters (Eff), che propongono una serie di misure radicali: istruzione e previdenza sociale per tutti, ridistribuzione delle terre, nazionalizzazione delle risorse minerarie. La minoranza bianca è spaventata: la settimana scorsa una deputata bianca, una sorta di Nadine Morano locale, reclamava il ritorno dell’ultimo presidente dell’apartheid. Per riprendere in mano la situazione, l’Anc potrebbe introdurre, a partire dal 2016, un salario minimo nazionale e utilizzare questo strumento per ridurre le disuguaglianze, come fece il Brasile con Lula. Qualcuno pensa anche all’introduzione di un imposta progressiva sui capitali, per poter ridistribuire gradualmente il potere economico. Il progetto, già preso in considerazione fra il 1994 e il 1999, alla fine era stato abbandonato dall’Anc. Secondo l’ex presidente Mbeki, la polizia e l’esercito, tuttora guidati da bianchi, non l’avrebbero permesso.
Una cosa è certa: che si tratti di nazionalizzazione delle miniere, o di un qualsiasi progetto che costringa le multinazionali e i detentori di patrimoni a contribuire in misura più significativa di adesso alle casse dello Stato, il Sudafrica avrebbe bisogno della collaborazione dei Paesi ricchi, e non della nostra ipocrisia. L’élite finanziaria sudafricana lo ripete fino alla nausea: negli anni 80 eravamo costretti a negoziare, ma oggi possiamo facilmente trasferire i nostri fondi all’estero e nei paradisi fiscali. L’opacità del sistema finanziario internazionale è un autentico flagello per l’Africa: si calcola che il 30-50% delle attività finanziarie del continente si trovi in qualche paradiso fiscale. Eppure, se solo Europa e Stati Uniti decidessero di farlo sarebbe tecnicamente semplice creare un vero e proprio registro mondiale dei titoli finanziari. Come spiega Gabriel Zucman ne La richesse cachée des nations (Le seuil, 2014), basterebbe che le autorità pubbliche unificassero e prendessero il controllo dei depositari privati che attualmente svolgono questo ruolo. L’Africa non ha bisogno di aiuti: ha bisogno di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata in permanenza.
(traduzione di Fabio Galimberti) L’autore è direttore didattico all’Ehess e professore alla Scuola di economia di Parigi
C
Traduco in italiano l’ultimo articolo di Bia Sarasini sul : ci siamo fatti prendere in giro per un anno e mezzo e forse più da Sel, che non aveva nessuna intenzione di unificarsi con L’altra Europa e con Rifondazione, ma voleva solo logorarle, cosa che aveva cominciato a fare fin da prima della campagna elettorale e che alla fine le è riuscito benissimo.
Abbiamo perso per strada oltre un milione di elettori, quarantamila persone che avevano firmato con entusiasmo il nostro manifesto, migliaia di compagni disgustati dal nostro tergiversare, tre quarti dell’intellighenzia italiana che si era illusa di trovare nel nostro progetto un punto di riferimento, il lavoro di decine di comitati locali.
Abbiamo sprecato il “momento magico” del risultato elettorale sparando a palle incatenate contro Barbara Spinelli - figura senza la quale la nostra lista non sarebbe mai nata - cosa che peraltro avevamo cominciato a fare già durante la campagna elettorale, sostenendo che un bel bikini avrebbe attirato più voti dei suoi noiosi discorsi politici. Adesso non contiamo più niente e ci rendiamo conto che quelli con cui avevamo promesso di fare il big bang della sinistra, compresi molti fuoriusciti dal PD, pensano solo a rifare il centro-sinistra perché non sanno concepire nient’altro.
D’altronde neanche noi sappiamo bene che cosa fare, ma andiamo avanti così. Speriamo che il buon dio ci aiuti.
«Disoccupazione e disuguaglianza nell’accesso all’istruzione sfavoriscono ancora, 20 anni dopo la fine dell’apartheid, la maggioranza nera del Paese». Secondo
Il manifesto, 24 ottobre 2015
Tra gas lacrimogeni, granate stordenti, lanci di pietre e canti, è culminata ieri davanti all’Union Building di Pretoria — sede della Presidenza della Repubblica e degli uffici del Governo sudafricano — la mega protesta degli studenti universitari esplosa circa dieci giorni fa in un grande movimento a livello nazionale, probabilmente il più grande dalla fine dell’apartheid nel 1994.
Jacob Zuma non ha per ragioni di sicurezza incontrato i manifestanti come precedentemente annunciato, ma ha reso noto sulla tv di stato — dopo un incontro con i leader degli studenti, le autorità universitarie e funzionari di governo — di aver congelato il piano degli aumenti delle tasse universitarie per il 2016. Le prime dimostrazioni contro il piano degli atenei di aumentare le tasse annuali sino all’11,5% a partire dall’anno prossimo (e dunque contro la decisione del governo di non intervenire con maggiori finanziamenti a sostegno dell’istruzione) sono scoppiate il 13 ottobre scorso all’University of the Witwatersrand (Wits) di Johannesburg.
Da allora le proteste (echeggiate su Twitter sotto l’ashtag #FeesMustFall) hanno colpito almeno altre 15 università, costringendole alla sospensione delle lezioni. A Johannesburg, migliaia di studenti della Wits e dell’University of Johannesburg hanno sfilato per le strade e si sono radunati davanti al Luthuli House, quartier generale dell’African National Congress (Anc) per consegnare le loro richieste al segretario generale del partito al governo Gwede Mantashe. Nell’Eastern Cape, presso la Nelson Mandela Metropolitian University (Nmmu), la polizia ha sparato proiettili di gomma e granate assordanti per disperdere gli studenti. A Cape Town, 23 studenti sono stati arrestati martedì scorso per aver bruciato pneumatici e eretto barricate agli ingressi dell’università (Uct).
La rivolta è arrivata anche, il giorno dopo, davanti alla sede del Parlamento a Cape Town, dove la polizia in assetto antisommossa ha lanciato gas lacrimogeni e granate stordenti contro centinaia di studenti che avevano fatto irruzione all’interno della recinzione presso l’entrata principale dell’edificio per impedire al ministro della Finanze Nhlanhla Nene di illustrare il bilancio provvisorio dello Stato.
La dichiarata esigenza degli atenei universitari di aumentare le tasse per poter assicurare i loro standard formativi non ha incontrato la solidarietà delle classi dirigenti al potere e la loro disponibilità a maggiori sovvenzionamenti ma ha trovato la rabbia degli stdenti neri. A evidenziarsi ancora una volta è la problematica maggiore che fa da sfondo a tutte le altre in un Paese che arranca a rinascere dalle ceneri del vecchio regime dell’apartheid, vale a dire l’accesso equo e garantito all’istruzione. Le proteste di questi giorni in Sudafrica, lungi dal coinvolgere alcuna parte politica, cavalcano un malessere generale della popolazione che non può prescindere dalla divisione tra bianchi e neri che ancora affligge la nazione arcobaleno. A manifestare e a difendere le loro ragioni contro un aumento delle tasse (non bilanciato con i redditi delle famiglie di provenienza) che per moltissimi significherebbe la rinuncia agli studi sono gli studenti neri (i bianchi lo fanno per solidarietà).
Disoccupazione, povertà, diseguaglianza nell’accesso alle risorse economiche e all’istruzione sfavoriscono ancora — più di vent’anni dopo la fine dell’apartheid — la maggioranza nera del Paese.
E restano figlie di politiche economiche ed educative che continuano a reiterarsi a svantaggio delle classi più svantaggiate. Alla rabbia degli studenti molti dei quali sono «born free» cioè nati liberi nel post-apartheid, la polizia e le classi dell’Anc al potere hanno opposto gas lacrimogeni e proiettili di gomma suscitando addirittura le preoccupazioni del dipartimento di stato americano che attraverso il portavoce John Kirby si è detto intenzionato a continuare a monitorare la situazione. Immagini speculari a quelle di un passato mai del tutto sradicato e che riportano alla mente quelle, certo più drammatiche e feroci, del massacro nella township di Soweto del 16 giugno del1976 quando la polizia aprì il fuoco contro 10 mila studenti neri che protestavano contro un decreto del regime di introdurre l’Afrikaans nelle scuole come lingua obbligatoria.
Non è la prima volta che gli studenti scendono in piazza quest’anno per sollevare questioni legate a divisioni razziali ancora ben radicate. È quanto è successo ad aprile scorso con le proteste studentesche che hanno guidato la campagna di rimozione delle statue di personaggi storici che hanno fatto la storia del colonialismo e dell’apartheid. E che ha visto cadere per prima quella di Cecil Rhodes (imperialista britannico della fine dell’800), divelta dal sostegno da cui per anni ha sovrastato l’entrata dell’University of Cape Town (Uct).
Una decisa critica ai contorcimenti dei resti della vecchia sinistra, che riprende il cammino come se nulla fosse cambiato, e alle incertezze della sinistra radicale.
Il manifesto, 24 ottobre 2015
Non che ci sia da stupirsi. La frammentazione dello spazio politico a sinistra è sempre rimasta tale, nonostante l’impegno generoso di tante e tanti, nonostante lo sforzo di tenere un filo che leghi le mille esperienze tra sociale senza rappresentanza e politico che non trova una forma. Nonostante il successo — modesto ma unico — dell’ultimo progetto unitario della sinistra, il risultato della lista l’Altra Europa con Tsipras alle Europee del 2014, senza ignorare la delusione e gli abbandoni che ne sono seguiti. Non c’è da meravigliarsi che le inevitabili e fin troppo contenute rotture — vista la rotta impressa dal segretario Matteo Renzi — che sono in corso nel Pd, facciano fatica a orientarsi nel campo nuovo in cui vengono trovarsi, quello che il gergo mediatico continua a chiamare sinistra radicale, e che più volentieri facciano riferimento ai momenti migliori del passato recente. E a parte la meraviglia che sicuramente avrà colto l’eccellente Professore nel vedersi considerare il riferimento di un progetto di sinistra, addirittura di una “cosa rossa”, il fatto sorprendente è che in questo quadro vien cancellata la crisi economica che ha sconvolto la scena mondiale. Come sembra sparita la crisi del welfare e della buona vecchia socialdemocrazia, che dallo tsunami della crisi è stata spazzata via.
E lo dico senza dimenticare, anzi, le mie simpatie uliviste del passato. Proprio perché ne ho seguito passo passo l’intera evoluzione, l’evocazione attuale mi sembra assurda. La mutazione del Pd impressa da Renzi è l’ostacolo più evidente. Una mutazione che si sta completando sotto nostri occhi, con l’espulsione dal proprio profilo non tanto delle radici storiche che nella comunicazione di propaganda vengono — con misura — coltivate, quanto del radicamento sociale.
È così sorprendente, questa prospettiva, che viene da chiedersi se non sia uno dei tanti giochi in corso per affondare definitivamente ogni tentativo di sinistra nel nostro paese. Una sinistra antiliberista, che punti a proteggere i giovani, i pensionati, le donne, i lavoratori, dalla violenza dell’attacco sociale, una sinistra che vede nel governo Renzi l’interprete fedele, anzi, creativo — del disegno liberista delle élite europee. Come si fa a pensare ad alleanze con chi taglia la sanità pubblica? Come non vedere prospettive diverse in Europa, per esempio in Portogallo?
Certo, ogni proposta è legittima, in un terreno che non vede ancora in campo un progetto comune, un terreno che non ha nome, tanto che si ritrova a essere identificato con un richiamo che nella versione più benevola appare nostalgica, come “cosa rossa”. E non si può certo immaginare che ci sia un’unica prospettiva, l’esatto contrario dell’idea in cui ci siamo spesi in tante e in tanti. L’idea di un mettersi in marcia, di avviare insieme un progetto che nel camminare prende forma. Un mettersi in moto che ha bisogno di un avvio, un inizio. Un inizio fin troppo atteso.
Abbiamo discusso, nei mesi scorsi, della vita a sinistra. La vita, se c’è, a un certo punto prende forma, vive appunto. Credo che continuare a trascinare la decisioni di partenza di riunione in riunione sia un gioco mortale. Si potrebbe anche chiamarlo gioco delle tre carte, vedo e non vedo, ci sono e non ci sono. È divertente, ma solo per chi tiene il banco. Che non è nessuno dei partecipanti. E il banco sono il governo, o l’Europa, o il liberismo, fate voi. Che a giocare ci siano solo uomini non è un dettaglio irrilevante.
P
Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53 stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».
A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi). Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di sopportazione».
Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità e di coerenza con la Costituzione.
Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva ». Ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere, stimolando comportamenti virtuosi.
Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale ». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione, la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.
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La Repubblica, 22 ottobre 2015
Che papa Francesco sia come minimo scomodo a una non piccola parte dei poteri politici, economici, finanziari e ovviamente ecclesiastici è un semplice dato di fatto, lo documenta bene un recentissimo libro di un giornalista di Avvenire, Nello Scavo, dal titolo I nemici di Francesco, sottotitolo: «Chi vuole screditare il papa, chi vuole farlo tacere, chi lo vuole morto». Ma ora la notizia del tumore al cervello, diffusa dal Quotidiano nazionale parlando di «una macchia, un piccolo tumore al cervello» è destinata ad aumentare a dismisura il volo minaccioso degli avvoltoi. Il portavoce papale padre Lombardi ha subito smentito seccamente la notizia. E L’Osservatore Romano ha parlato di «polverone sollevato con intento manipolatorio». Certo è che sarebbe difficile oggi nascondere a lungo una notizia sulla salute del Pontefice: il corpo del Papa, a differenza dei secoli passati quando era velato alla vista dei più e viveva in una dimensione sacrale che portava a pensarlo come quasi divino, del tutto privo delle manchevolezze dei comuni mortali, ora è quotidianamente esposto allo sguardo delle telecamere di tutto il mondo. Avvenne una quindicina di anni fa con Giovanni Paolo II, il cui morbo di Parkinson, prima sistematicamente negato dal portavoce vaticano, poi divenne evidente agli occhi di tutti. La salute del corpo di un Papa non è mai stata solo un fatto privato, e oggi lo è meno che mai.
Il punto vero e proprio però non riguarda la salute di Jorge Mario Bergoglio, riguarda gli avvoltoi. Ciò che colpisce infatti è che la notizia è uscita solo ieri (a dieci mesi di distanza dall’ipotetica visita specialistica) e soprattutto a poche ore dalla chiusura dello strategico Sinodo sulla famiglia. Una casuale combinazione? Ovviamente no; piuttosto l’alzata in volo di uno stormo di neri avvoltoi. Naturalmente non mi riferisco ai giornalisti che, in possesso della notizia, hanno fatto solo il loro mestiere come avrebbe fatto ogni altro giornalista del mondo; mi riferisco piuttosto a coloro che, proprio ora, hanno fatto filtrare la notizia nel momento forse più delicato del pontificato di Francesco.
In questo Sinodo infatti il Papa si gioca la gran parte della sua impresa riformatrice: se i vescovi a maggioranza gli diranno di no e bocceranno il suo desiderio di aperture, il suo pontificato è destinato a passare alla storia come il desiderio di un profeta solitario e sognatore, ben poco capace però di tradurre le sue parole e i suoi gesti in leggi e precetti concreti, come ogni pontefice degno di questo nome è invece chiamato a fare.
Io non so se vi sia un’unica regia dietro l’outing di monsignor Charamsa dichiaratosi gay e convivente all’inizio del Sinodo, dietro la diffusione di una lettera di una decina di cardinali anti-riforme a metà del Sinodo, e ora dietro questa notizia consegnata alla stampa proprio in prossimità della chiusura del Sinodo. Certo è che tutti e tre gli episodi incorniciano i lavori dell’assise vescovile. Come secondo ogni regia che si rispetti, l’ultimo colpo è stato il più devastante, perché mira a far credere al mondo che Jorge Mario Bergoglio è un Papa malato, per di più malato al cervello, nella sede decisionale della persona, sollevando così una serie di dubbi e di sospetti sulla sua effettiva capacità di guidare la Chiesa.
Molti dei cardinali che tre anni e sette mesi fa lo elessero ora gli sono ostili, perché non si immaginavano certo una tale forza riformatrice in quell’argentino che aveva fama di conservatore e che invece si è rivelato subito all’altezza della spinta innovatrice di papa Giovanni XXIII. Il papa bergamasco morì di tumore allo stomaco, ma prima riuscì, a dispetto della Curia, a convocare il Concilio Vaticano II e a iniziare l’opera di rinnovamento della Chiesa. L’opera purtroppo rimase a metà, perché a causa dei timori di Paolo VI non toccò proprio i temi della morale familiare e sessuale su cui papa Francesco ha convocato il Sinodo con l’intenzione di estendere il rinnovamento conciliare anche qui. Non sono pochi nella Chiesa coloro che glielo vogliono impedire senza comprendere l’importanza della posta in gioco.
Non si tratta infatti solo di qualche norma di disciplina ecclesiastica, in gioco c’è il cambio di rotta iniziato dalla Chiesa cattolica con il Vaticano II e rimasto incompiuto, volto a disegnare un cattolicesimo non più nemico del mondo moderno, come lo è stato per secoli, ma a fianco della vita degli uomini. In un mondo sempre più piccolo il compimento del processo iniziato con Giovanni XXIII è la condizione sine qua non perché la Chiesa cattolica sia fattore di pace e non di divisione. Papa Francesco lo sa e agisce di conseguenza. Molti però dentro la Chiesa o non lo sanno o non lo desiderano. Essi non esitano a unirsi ai numerosi gruppi di potere economico e politico fuori della Chiesa che hanno visto la recente enciclica sull’ecologia come una seria minaccia ai loro affari. E tra nemici interni e nemici esterni vi sono addirittura alcuni che non esitano a trasformarsi in avvoltoi e a volteggiare sinistramente sul corpo del Papa