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Un'analisi e alcune proposte alternative per il bilancio preventivo triennale dello Stato (2016-2018.

Sbilanciamoci.info, 2 novembre 2015

Sbilanciamoci! ha partecipato alle audizioni relative all’esame della manovra economica per il triennio 2016-2018 avviate questa mattina [2 novembre] dalle Commissioni Bilancio congiunte del Senato e della Camera dei Deputati.

Secondo Sbilanciamoci! anche la manovra di quest’anno va nella direzione sbagliata. Prima ancora che per il merito delle singole misure, per l'impianto generale e la visione di fondo che la ispira: per definizione la finanza pubblica è il problema, quella privata la soluzione; l'unico obiettivo del Governo sembra quello di migliorare la competitività delle imprese e puntare sulle esportazioni. Si continua a pensare la crisi come un problema di offerta, trascurando una domanda che non riparte, a causa delle enormi disuguaglianze, della mancanza di investimenti pubblici e dei problemi strutturali del Paese. Manca un strategia industriale di lungo respiro.

1. Tecnicamente non è una manovra espansiva. E’ previsto un deficit obiettivo nel 2016 pari al 2,2%, del PIL, a fronte del 2,6% dello scorso anno e un avanzo primario del 4,3 nel 2019, che rischierebbe di strangolare l'economia del paese. Allo stesso tempo controllo e riqualificazione della spesa pubblica restano sulla carta e costringono il Governo a spendere i margini recuperati sui saldi per neutralizzare – unicamente per quest'anno – le clausole di salvaguardia, anziché per rilanciare il sistema.

2. L’attenzione resta concentrata sull'offerta anziché alla domanda.

3. Si prosegue sulla strada delle privatizzazioni e della svendita del patrimonio pubblico.

4. Per il Mezzogiorno c’è poco, salvo i milioni destinati alle grandi opere come la Salerno-Reggio Calabria.

5. Si taglia il Servizio Sanitario Nazionale di 2 miliardi rispetto a quanto concordato con le Regioni e sebbene vi siano alcune misure di lotta alla povertà, si tratta di stanziamenti limitati e frammentati, per i Fondi Sociali le risorse sono insufficienti, mentre manca una misura strutturale di sostegno al reddito.

6. Manca l'annunciato stanziamento aggiuntivo di 100 milioni per il Servizio Civile Nazionale per il 2016.

7. Ciò mentre si tagliano la Tasi, l’Imu agricola e sui macchinari imbullonati con un mancato gettito complessivo stimato in 4,6 miliardi di euro.

8. A livello dei Ministeri la spending review privilegia il Ministero per l'istruzione (-220 milioni nel 2016) e quello per l'economia (- 116 milioni) mentre risibile è il taglio al bilancio del Ministero per la Difesa (-19 milioni) e dell'Interno (-27,1 milioni).

Le priorità di Sbilanciamoci! per il 2016
Rilanciare l'economia: con investimenti pubblici mirati, per una nuova politica industriale
Ridurre le diseguaglianze: con politiche di redistribuzione del reddito e del lavoro.
Una buona spesa pubblica. Riqualificando e riorientando la spesa pubblica, tagliando quella sbagliata: quella militare, per le grandi opere, gli investimenti che distruggono l'ambiente, i sussidi all'istruzione e alla sanità privata.
Un nuovo modello economico e sociale sostenibile: per rilanciare l’economia e l’occupazione, il benessere delle persone e la salvaguardia dell'ambiente sono il punto di partenza.

Alcune delle proposte di Sbilanciamoci! per il 2016
Rendere il fisco più equo: non aumentare, ma redistribuire il prelievo fiscale dai poveri ai ricchi, dai redditi da lavoro e di impresa ai patrimoni e alle rendite.
Investimenti pubblici in economia per un piano del lavoro: con 5 miliardi si possono creare per 250mila posti di lavoro aggiuntivi.
Welfare: No ai tagli alla sanità; incremento del fondo sociale e del fondo per le non autosufficienze fino a 600 milioni; introdurre una forma di sostegno al reddito strutturale la cui copertura sarebbe garantita dalla riforma fiscale; portare gli stanziamenti per il servizio civile nazionale a 302,5 milioni per garantire l’avvio del servizio ad almeno 55mila giovani; chiudere i Cie e i Cara (-500 milioni) e destinare le risorse risparmiate al sistema di accoglienza ordinario e agli interventi di inclusione sociale.
Istruzione: Tagliare i fondi per le scuole private e per l’ora di religione, aumentare i fondi per l'autonomia scolastica, per gli stages e per i progetti scuola- lavoro.
Università: Avviare un piano straordinario per l’assunzione di 10mila ricercatori; no al contributo di 50 euro per il rilascio del visto per studenti stranieri, aumentare le risorse per il fondo borse di studio.
Ambiente: tagliare di 1 miliardo i finanziamenti per le grandi opere a vantaggio di piccole opere e di un piano nazionale della mobilità che privilegi il trasporto pubblico locale e stanziare 500 milioni per interventi di tutela del territorio; investire davvero nella lotta ai cambiamenti climatici grazie allo sviluppo delle energie rinnovabili, all’introduzione della carbon tax e di una tassa automobilistica sulle emissioni Co2; tutelare la biodiversità destinando risorse adeguate agli interventi nelle aree protette e adeguando i canoni di concessione per attività estrattive.

Da referendum al Parlamento, un esame rigoroso e appassionato dei temi ineludibili se il «mondo della sinistra» vuole contare nella ricomposizione in atto del quadro politico.

La Repubblica, 2 novembre 2015

NO, non si possono valutare le novità che ogni giorno compaiono nel mondo della sinistra ritornando a quel pensiero di Mao secondo il quale «grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente». E neppure ci si può affidare alla speranza di cento fiori che fioriranno. Proprio perché si tratta di iniziative significative, servono analisi rigorose, senza nostalgie o compiacenze, per cercar di cogliere gli elementi di una consapevole discontinuità e i segni di una attenzione per la realtà legata ad uno sguardo sul futuro.

Il sistema politico italiano si sta riassestando. Matteo Renzi persegue la sua costruzione del partito della nazione esercitando una forte capacità di attrazione verso un mondo di destra disgregato e alla ricerca di approdi. Il Movimento 5Stelle sembra anch’esso guardare oltre i suoi abituali confini, consapevole di una forza che gli proviene dal suo apparire come l’unica plausibile opposizione. Gli spezzoni della destra si agitano, alla ricerca di un federatore che possa ripetere quel che Berlusconi fece nel 1994, contando magari su una modifica della legge elettorale che riapra le porte alle coalizioni.

A sinistra si moltiplicano le iniziative, e si può provare ad elencare le più importanti. È annunciata per sabato prossimo la costituzione di un nuovo schieramento parlamentare, nel quale dovrebbero confluire gli eletti di Sel, quelli già usciti o in via di uscita dal Pd, quelli che hanno già abbandonato altri gruppi. È appena nato un Comitato per il no nel futuro referendum sulla riforma costituzionale e lo stesso sta avvenendo per contrastare l’Italicum, impugnandolo davanti alla Corte costituzionale e preparando un referendum che ne cancelli gli aspetti più negativi. È stato avviato un lavoro comune tra Libera, Caritas, Coalizione sociale per sostenere una legge che introduca un reddito giustamente chiamato “di dignità”. Altri gruppi si sono già organizzati per arrivare a referendum abrogativi di norme della legge sulla scuola e in materia di lavoro. Il Forum dell’acqua prosegue la sua difesa davanti ai giudici del risultato del referendum del 2011, in molte città viene riproposto il tema della tutela dei beni comuni e si agisce a difesa dei diritti sociali.

Di fronte a questa abbondanza sono possibili alcune prime conclusioni e nascono molti interrogativi. L’insistenza sui referendum fa emergere una linea che mette in primo piano l’iniziativa diretta dei cittadini e apre spazi alla loro partecipazione. È evidente la volontà di reagire al localismo, alla frammentazione delle iniziative, poiché il referendum è uno strumento che unifica, che promuove una discussione nazionale su grandi temi sociali e istituzionali. Ma, imboccando con tanta determinazione la via dell’appello diretto al popolo, non si finisce con il secondare proprio quel populismo che viene additato come un rischio da evitare?

In realtà, nel momento in cui la verticalizzazione e la concentrazione del potere impoveriscono la democrazia rappresentativa e fanno deperire pericolosamente controlli e contrappesi, il referendum si presenta come uno strumento per ricostruire equilibri costituzionali e reagire ai processi di esclusione che sono all’origine dell’astensionismo elettorale. Esattamente l’opposto di un suo uso plebiscitario, che si ha quando, dall’alto, si chiede la conferma di una decisione già presa. Siamo piuttosto di fronte ad una di quelle strategie “contro-democratiche” esplorate da Pierre Rosanvallon, per reagire alla “presidenzializzazione della democrazia”, attivando poteri di partecipazione e controllo dei cittadini. Ma, nella particolare situazione italiana, il referendum costituisce anche uno strumento per la costruzione dell’agenda politica, per individuare questioni rilevanti che altrimenti sarebbero oscurate dalla forza di interessi particolari o da arretratezza politica e culturale.

Questo ci porta agli interrogativi sollevati dalle altre iniziative. Stanno per nascere gruppi parlamentari dichiaratamente di sinistra e che, indubbiamente, si configureranno come il primo passo verso la nascita di un nuovo partito. Come si muoveranno? La finalità di dar vita a una visibile e consistente opposizione può far correre il rischio di una esclusiva preminenza dell’attività di contrasto delle iniziative del Governo, di un eterno contropiede. Finalità necessaria, ma che dovrebbe essere accompagnata da un altrettanto intenso lavoro su questioni specifiche, ignorate o sottovalutate dall’azione governativa.

La costruzione dell’agenda politica non può essere tutta lasciata all’esterno. Alla società e al suo modo di organizzarsi si deve guardare non solo per reagire a chi ne vuole certificare l’irrilevanza e cancellare ogni soggetto collettivo. Nel momento in cui si cerca di allargare l’orizzonte politico, non basta il ricorso intelligente a tutti gli strumenti parlamentari disponibili, che possono incontrare resistenze difficilmente superabili. Per batterle, è indispensabile che i gruppi parlamentari siano un vero “terminale sociale”, per creare sui singoli temi quella pressione collettiva essenziale per superare gli ostacoli.

Questa è una considerazione che vale anche per i referendum, non pianificabili a tavolino, ma che hanno successo solo se preceduti e accompagnati da un intenso lavoro sociale, come insegna il referendum sull’acqua. L’essere terminali sociali, tuttavia, non può trasformare il lavoro dei gruppi parlamentari in un semplice rispecchiamento di tutto ciò che si muove nella società. Non si deve confondere la molteplicità delle iniziative con la frammentazione. Per uscire da questa situazione, serve un lavoro culturale, una riflessione sulla democrazia che misuri tutti gli effetti a cascata del congiungersi di riforma costituzionale e legge elettorale, con la nascita di un governo del Primo ministro che modifica la forma di governo e lambisce la forma di Stato. E si deve valutare la situazione italiana come parte della più generale discussione sulle sorti della democrazia, che recentissimi studi italiani hanno messo in evidenza e che dovrebbero essere meditati anche per ristabilire la comunicazione tra cultura e politica.

La politica è selezione di domande, individuazione di priorità. Operazioni che non possono essere affidate solo ai gruppi parlamentari. Se davvero si vuole rendere concreto e visibile un nuovo campo della sinistra, i diversi soggetti oggi all’opera devono essere capaci di parlarsi, di confrontarsi continuamente. Non è impresa facile, perché vi sono identità forti che temono di perdere rendite acquisite e ombre del passato che temono d’essere cancellate. Ma le forze in campo dovrebbero essere guidate dalla consapevolezza che i loro attuali limiti possono essere superati solo se si crea una massa critica in grado di promuovere mutamenti reali.

Le indicazioni puntuali non mancano. Di fronte ad una distribuzione a pioggia di risorse nella materia del sostegno al lavoro è tempo di passare ad una nuova impostazione, di cui il reddito di dignità è l’esempio più chiaro. Devono essere garantite nuove forme di intervento dei cittadini: con una semplice modifica dei regolamenti parlamentari si può rendere obbligatorio l’esame delle leggi d’iniziativa popolare; riprendendo in sede parlamentare il tema dei beni comuni, si possono sottrarre all’abbandono, alla dissipazione, alla speculazione risorse importanti. Si deve abbandonare il perverso scambio tra impoverimento dei diritti sociali e concessione al ribasso di qualche diritto civile. Si deve riprendere una seria discussione sull’Europa. L’elenco si può allungare, ma questo dovrebbe essere il compito di una discussione corale che abbia come bussola la ricostruzione di una politica costituzionale.

Analisi sintetica ma precisa delle caratterisctiche del renzismo. Manca solo un elemento, la cui presenza è facile da individuare nella realtà ma difficile da documentare finché il Re e i suoi vassalli sono al potere: l'utilizzazione spregiudicata dell'arma del ricatto.

Il manifesto online, 1° novembre

Gli avve­ni­menti romani delle ultime set­ti­mane hanno posto in luce, mi pare, alcuni ele­menti di fondo sulla tran­si­zione ita­liana verso la post-democrazia, ossia il supe­ra­mento della sostanza della demo­cra­zia, con­ser­van­done le appa­renze, secondo un pro­cesso in corso in tutti gli Stati libe­rali, ma con delle pecu­lia­rità pro­prie, che hanno a che fare con la sto­ria ita­liana e, forse, anche l’antropologia del nostro popolo.

Senza più entrare nel merito della vicenda della cac­ciata di Igna­zio Marino dal Cam­pi­do­glio, su cui peral­tro mi sono già espresso più volte, a netto soste­gno del sin­daco, pur rile­van­done le debo­lezze e gli errori (ha sin­te­tiz­zato bene ieri l’altro sul mani­fe­sto Norma Ran­geri: «non è il migliore dei sin­daci, il mestiere poli­tico non è il suo, si è mosso fidan­dosi … del suo cer­chio magico»), e con­tro l’azione del Pd, irre­spon­sa­bil­mente soste­nuta anche dal M5S, all’unisono con le frange della destra estrema, pro­pongo alcune rifles­sioni che hanno biso­gno natu­ral­mente di essere appro­fon­dite, oltre che discusse.

I Tesi

Le assem­blee elet­tive, ossia quella che si chiama «la rap­pre­sen­tanza», hanno un valore ormai nullo. Depu­tati, sena­tori, con­si­glieri regio­nali e comu­nali, sono pedine inin­fluenti, che si muo­vono all’unisono con gli orien­ta­menti dei capi e sottocapi. Obbe­di­scono in modo auto­ma­tico, ma cosciente, nella spe­ranza di entrare nell’orbita del potere «vero», o quanto meno avvi­ci­narsi ad essa, e diven­tare sia pure a livelli infe­riori o addi­rit­tura infimi, «patro­nes» di pic­cole schiere di “clien­tes». Il potere legi­sla­tivo è com­ple­ta­mente disfatto.

II Tesi

I par­ti­titi poli­tici, tutti, sono diven­tati «par­titi del capo». I mili­tanti, e per­sino i diri­genti, dal livello più basso a quelli via via supe­riori, non con­tano nulla. Tutto decide il capo, cir­con­dato da una schiera di fedeli, i “guar­diani”. Le forme di reclu­ta­mento e di sele­zione, che dalla base giun­gono al ver­tice, sulla base di per­corsi lun­ghi, tra­gitti di «scuola poli­tica», hanno per­duto ogni sostanza; con­tano con­su­lenti, ope­ra­tori del mar­ke­ting, son­dag­gi­sti, costrut­tori di imma­gine. Il distacco tra il capo, e il ristret­tis­simo ver­tice intorno a lui, e lo stesso par­tito, inteso come strut­tura di ade­renti, intorno, di sim­pa­tiz­zanti, o di sem­plici elet­tori, appare totale. Se crolla il capo, crolla il par­tito, nel Pd come è acca­duto in Forza Ita­lia, e come acca­drà nel Movi­mento 5 Stelle, se i mili­tanti non scel­gono una via diversa.

III Tesi

Il Vati­cano, e le gerar­chie della Chiesa cat­to­lica, costi­tui­scono non sol­tanto uno Stato nello Stato, ma uno Stato poten­zial­mente ostile, che eser­cita un’azione diret­ta­mente poli­tica, volta a con­di­zio­nare, fino al sov­ver­ti­mento, gli stessi ordi­na­menti libe­rali; diventa «potenza amica» solo quando e nella misura in cui il potere legit­timo si piega ai suoi dettami.

IV Tesi

I grandi media non eser­ci­tano sem­pli­ce­mente un’influenza, come sosten­gono certi mass­me­dio­logi; essi rap­pre­sen­tano pie­na­mente un potere, capace di creare o distrug­gere lea­der, cul­tu­rali o poli­tici o spor­tivi. Abbiamo avuto esempi pic­coli e grandi, di distru­zione o costru­zione, da Roberto Saviano a Renata Pol­ve­rini, fino a Igna­zio Marino, osan­nato chi­rurgo, esem­plare per­fetto della «società civile», poli­tico one­sto, sin­daco in grado di sve­lare e sgo­mi­nare l’intreccio affaristico-mafioso della capi­tale, diven­tato improv­vi­sa­mente il con­tra­rio di tutto ciò, a giu­sti­fi­ca­zione della sua orche­strata defenestrazione.

V Tesi

La lotta poli­tica pro­cede oggi su due livelli distinti ed oppo­sti: il livello palese, che finge di rispet­tare le regole del gioco, privo di effet­tua­lità; e un secondo livello, nasco­sto, che conta al cento per cento, nel quale si assu­mono deci­sioni, si scel­gono i can­di­dati ad ogni carica pub­blica, e si pro­cede nella sele­zione (sulla base di cri­teri di mera fedeltà a chi comanda) dei «som­mersi» e dei «sal­vati». Il livello som­merso è in realtà un potere sol­tanto indi­ret­ta­mente gestito dal ceto poli­tico: è ema­na­zione di poteri forti o for­tis­simi ita­liani o stra­nieri, di lobby, palesi o occulte, alcune delle quali cor­ri­spon­denti a cen­trali criminali.

VI Tesi

Il Par­tito Demo­cra­tico, rap­pre­senta oggi la forza ege­mone della destra ita­liana: una forza irre­cu­pe­ra­bile ad ogni istanza di sini­stra. Il suo capo Mat­teo Renzi costi­tui­sce il mag­gior peri­colo odierno per la demo­cra­zia, o per quel che ne rimane. Ogni suo atto, sia nelle forme, sia nei con­te­nuti, lo dimo­stra, giorno dopo giorno. Il suo cini­smo (quello che lo portò a ordi­nare a 101 peo­nes di non votare per Romano Prodi alle ele­zioni pre­si­den­ziali; lo stesso cini­smo che lo ha por­tato a ordi­nare a 25 con­si­glieri capi­to­lini ad affos­sare Marino e la sua Giunta) è lo stru­mento primo dell’esercizio del potere.
Renzi si è rive­lato un per­fetto seguace dei più agghiac­cianti «con­si­gli al Prin­cipe» di Nic­colò Machiavelli.

VII Tesi

La rea­zione spon­ta­nea, dif­fusa, robu­sta alla defe­ne­stra­zione di Igna­zio Marino dal Cam­pi­do­glio testi­mo­nia dell’esistenza di un’altra Ita­lia: i romani che hanno soste­nuto «Igna­zio», con estrosi slo­gan, nelle scorse gior­nate, al di là dell’affetto o della stima per il loro sin­daco, hanno voluto far com­pren­dere che la can­cel­la­zione della demo­cra­zia trova ancora osta­coli e che esi­stono ita­liani e ita­liane che «non la bevono», che la «que­stione morale» con­serva una pre­senza nell’immaginario dell’Italia pro­fonda (che dun­que non è solo raz­zi­smo e igno­ranza, egoi­smo e paras­si­ti­smo, tutti ele­menti forti nel «pac­chetto Ita­lia»); esi­stono ita­liani e ita­liane pronti a resistere.

Su loro occorre fare affi­da­mento, per costruire prima una bar­ri­cata in difesa della demo­cra­zia, quindi per pas­sare al con­trat­tacco, tra­sfor­mando la spon­ta­neità in orga­niz­za­zione, la folla in massa cosciente, il dis­senso in pro­po­sta poli­tica alter­na­tiva. Che il «caso Marino» costi­tui­sca l’occasione buona per far rina­scere la volontà gene­rale e sol­le­ci­tarla all’azione?

Sulla poca stampa indipendente sopravvissuta si consolida la tesi affaristica delle ragioni della defenestrazione del sindaco di Roma.

Il Fatto Quotidiano, 1° novembre 2015

Che sarà mai questo mirabolante “modello Milano” che, giubilato Marino in tempo per il Giubileo, il nostro premier ha in mente per salvare Roma dal baratro in cui l’ha cacciata il suo stesso partito? Tre ipotesi si rincorrono.

1 ) “Modello Milano” significa prendere il prefetto meneghino Francesco Paolo Tronca e farlo commissario del Comune di Roma per “dare inizio al Dream Team” (Matteo Renzi dixit), “così il Giubileo andrà bene come l’Expo” (Angelino Alfano). Ora, il Tronca è talmente milanese da esser nato a Palermo, però gli son bastati gli ultimi due anni da prefetto all’ombra della Madonnina per diventare un bauscia modello. Quattro anni fa l’Unità, non ancora house organ renziano, raccontò che Tronca, non ancora prefetto ma solo capo del Dipartimento Vigili del Fuoco (nominato dal ministro leghista Bobo Maroni), usò un’auto e un autista destinati al soccorso antincendi per far scarrozzare allo stadio Olimpico suo figlio e un amichetto per la partita Roma-Inter di Coppa Italia.

Fra un taglio di bilancio e l’altro, le rappresentanze sindacali dei pompieri denunciarono il caso e aggiunsero – sempre secondo l’Unità – che “al prefetto Tronca sarebbero stati assegnati ben due attici, in via Piacenza, a due passi dal Quirinale: alloggi di servizio che non gli spetterebbero”, e addirittura alcune “auto nuove nuove dei Vigili del Fuoco di Cortina d’Ampezzo”. Allora Tronca era considerato vicinissimo alla Lega e figurarsi la gioia di Maroni, nel frattempo asceso dal Ministero dell’Interno al Pirellone, quando due anni dopo se lo ritrovò prefetto di Milano. Ora però Tronca è stato scelto personalmente da Renzi, quindi non è più leghista, ma alfiere del “modello Milano”: a patto che l’Unità non ripeschi dall’archivio quella notiziola sul suo malvezzo – più romano che milanese di far scarrozzare il figlio in auto blu. C’è chi, come l’ex portavoce di Fini Salvo Sottile, per un caso analogo s’è beccato una condanna per peculato. Sarebbe seccante ricordarlo proprio ora che Tronca va al posto di un sindaco indagato per peculato. Il modello Milano andrebbe subito a farsi fottere.

2 ) “Modello Milano” significa trapiantare le virtù della “capitale morale d’Italia” - l’ha detto Raffaele Cantone, quindi sarà vero senz’altro - nel corpaccione vizioso della capitale politica, perché la prima “ha gli anticorpi” e l’altra no (Isernia e Caltanissetta, per dire, ancora non si sa, ma il commissario anticorruzione ci farà tosto sapere). Fermi restando i noti vizi e stravizi della Roma che conta, resta da capire quali siano esattamente le virtù di Milano che conta. Lì, finché non fu aperta Expo e la Procura schiacciò il tasto “pausa” per carità di patria ad arresti e avvisi di garanzia, era tutto un susseguirsi di retate perché i virtuosissimi politici e amministratori di destra e di sinistra non erano riusciti a completare i lavori della kermesse (40% di opere mai fatte), ma in compenso le mazzette viaggiavano con puntualità svizzera. E, a occuparsene, non erano nuove leve del malaffare, insospettabili e irriconoscibili a occhio nudo: erano le stesse di Tangentopoli, solo invecchiate di vent’anni. Greganti, Frigerio, Grillo (Luigi), Maltauro.

Eppure né il commissario Occhio Di Lince Sala, né i suoi sponsor al Comune e alla Regione, s’erano accorti di nulla. Siccome poi la Regione Lombardia era stata sciolta anzitempo nel 2013 per gli scandali Formigoni, Minetti, Trota, Boni, Penati e note spese, col contorno di qualche ’ndranghetista (milanesissimo, dunque provvisto di robusti “anticorpi”), anche i nuovi inquilini del Pirellone si son dati da fare: il 1° dicembre il governatore Bobo Maroni andrà a processo per turbativa d’asta ed è indagato per i suoi favori a due amichette sue; il suo vice Mario Mantovani, forzista, soggiorna attualmente a San Vittore per corruzione. Completano il quadro, sempre a proposito di “modello Milano” e “anticorpi”, i comuni dell’hinterland infiltrati dalle mafie, come Buccinasco, Desio e Sedriano. Degna, anzi sacra corona per la Capitale Morale.

3) “Modello Milano” vuol dire che Roma, per il Giubileo, deve prendere esempio da Expo. Il tempo è poco, ma ce la si può ancora fare. Funziona così. Si favoleggia dell’arrivo di 24-30 milioni di visitatori da tutto il mondo, poi ne arrivano solo 18 (record storico negativo dal 1962, pari al dato di Expo Hannover 2000, detto anche “il flop del millennio”), ma si arrotonda a 21 e lo si spaccia per un trionfo. Si buttano dalla finestra 2,4 miliardi di denaro pubblico (1,3 per la costruzione, 960 milioni per la gestione e 160 per l’acquisto dei terreni da privati, decuplicando il prezzo di mercato), poi si dice che i costi saranno coperti dalla vendita dei biglietti a 22 euro di media, poi la media ufficiale scende a 19 euro e quella reale a molto meno (centinaia di migliaia di ticket regalati o svenduti a 5 euro), con un bel buco finale di 1 miliardo a carico nostro, ma nessuno ci fa caso. Si scopre poi che i terreni sono altamente inquinati, dunque vanno bonificati, per un costo preventivato di 5 milioni a carico dei proprietari, che però non vogliono pagare e intanto il conto sale a 72 milioni, e indovinate chi li paga. Si shakera il tutto con copiosi investimenti pubblicitari su giornali e tv, che in cambio suonano trombe e trombette. Infine si proclama eroe nazionale l’artefice del capolavoro, con monumento equestre incorporato, e lo si candida a sindaco.

Ora, per carità, va bene tutto: ma abbiamo come il sospetto che di magliari e leccaculi Roma ne abbia a sufficienza, senza bisogno di importarli da Milano.

«Il trucco principale risiede nella definizione di “servizio pubblico”: a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo; b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum».

Il Manifesto, 31 ottobre 2015

«Per chi legge in buona fede il mandato negoziale del TTIP, è del tutto evidente che i servizi pubblici non sono oggetto di negoziazione». Così ripete ad ogni occasione il viceministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” verrebbe da rispondere citando il famoso “belzebù” della prima repubblica. D’altronde, basta leggere quanto previsto dal CETA (Accordo commerciale Ue-Canada, la cui ratifica partirà nel 2016) e dal TTIP (Accordo Usa-Ue, in fase di negoziazione) per capire chi ha ragione.

Il trucco principale risiede nella definizione di “servizio pubblico” adottata in questi accordi. Una definizione che si basa su due negazioni: a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo; b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum. Da queste designazioni emerge chiaramente come l’istruzione e la sanità non vanno considerate servizi pubblici, in quanto possono essere erogati anche da soggetti privati, così come l’acqua, l’energia, i rifiuti e il trasporto pubblico, in quanto per la loro erogazione è previsto il pagamento di una tariffa. Persino la tessera della biblioteca di quartiere (5 euro/anno), essendo un corrispettivo una tantum, ne fa decadere il carattere di servizio pubblico.
Di conseguenza, il viceministro Calenda ha ragione quando sostiene che i servizi pubblici sono esclusi dai negoziati commerciali, a patto che precisi che, per CETA e TTIP, i servizi pubblici sono solo i seguenti: l’amministrazione della giustizia, la difesa, l’ordine pubblico e la definizione delle rotte aeree internazionali (!).
Tutto questo non basta: dentro quasi ogni capitolo dei negoziati CETA e TTIP troviamo elementi che vanno nella direzione della privatizzazione dei servizi pubblici. Vediamone solo alcuni:
a) si passerà dagli “elenchi positivi”, sinora utilizzati negli accordi commerciali, all’approccio dell’”elenco negativo”; ovvero, mentre sinora erano i governi a stabilire quali servizi mettere sul mercato, da adesso tutti i servizi sono soggetti a privatizzazione, salvo quelli contenuti in esplicite eccezioni; b) verranno adottate le clausole “standstill” e “ratchet”: la prima prevede l’impegno a non adottare nella legislazione nazionale misure più restrittive rispetto a quelle previste negli accordi; la seconda prevede che un paese non possa reintrodurre una determinata barriera precedentemente rimossa su un determinato settore; con buona pace del referendum sull’acqua e di tutti i processi di rimunicipalizzazione del servizio idrico in corso in diversi paesi europei; c) saranno impedite la libera distribuzione di acqua ed energia per finalità di interesse pubblico, così come gli obblighi di servizio universale previsti nei servizi postali; d) verrà resa obbligatoria la gara internazionale per ogni appalto pubblico, con la fine di ogni fornitore locale e processi infiniti di esternalizzazione.
Senza contare come CETA e TTIP consentano alle imprese di citare in giudizio i governi per ogni norma da queste considerata ostativa al raggiungimento dei propri obiettivi di profitto.
Con buona pace di Calenda, l’attacco ai servizi pubblici è uno degli obiettivi primari di CETA e TTIP. D’altronde, se i servizi pubblici gli stanno tanto a cuore, può il viceministro gentilmente spiegare perché l’Unione Europea –e dunque anche l’Italia- partecipa al TISA (Accordo sul commercio dei servizi), altro trattato segreto, il cui unico obiettivo è la liberalizzazione totale dei servizi pubblici?

Grandi opere. Il Commissario anticorruzione ha esaltato l’Expo, ma ha dimenticato la mafia negli appalti. Il manifesto, 31 ottobre 2015

Cri­mi­no­gena. Que­sto è il giu­di­zio che Raf­faele Can­tone ha recen­te­mente dato alla legge «Obiet­tivo del 2001» con cui sono stati per­pe­trati gradi scempi ambien­tali e urba­ni­stici. Nono­stante que­sto pesante giu­di­zio quella legge è ancora in vigore: Mat­teo Renzi si guarda bene dall’abrogarla. Sono state sol­tanto accan­to­nate alcune opere inu­tili, ma le pro­ce­dure sem­pli­fi­cate fanno ancora gola. Siamo dun­que in un paese che lascia in vita una legge cri­mi­no­gena e in una città che ha con­tri­buito per numero e qua­lità a riem­pire le patrie galere.
Appena dieci giorni fa a Milano sono stati arre­stati il vice­pre­si­dente della Giunta regio­nale e vari altri galan­tuo­mini. Tutto mira­co­lo­sa­mente supe­rato. Raf­faele Can­tone ha affer­mato durante una ceri­mo­nia di esal­ta­zione di Expo 2015 che Milano ha riat­ti­vato gli anti­corpi con­tro la cor­ru­zione. Evi­den­te­mente l’uso spre­giu­di­cato della reto­rica è una coperta buona a nascon­dere la realtà, com­presi gli arre­sti del mag­gio 2014 quando fu sgo­mi­nata la cupola che gover­nava gli appalti Expo.
Ma è dav­vero così? Expo è la leva su cui risor­gerà Milano e l’Italia? Per costruire la grande fiera sono stati spesi 14 miliardi di euro, come ha dimo­strato Roberto Perotti. A que­sta folle cifra dob­biamo aggiun­gere un gigan­te­sco soste­gno pub­blico: abbiamo infatti assi­stito a quo­ti­diane rubri­che sulle tele­vi­sioni e sui quo­ti­diani, inne­ga­bili spinte alla visita. Saranno rag­giunti i 20 milioni di visi­ta­tori. Se divi­diamo quel numero per le somme spese, ogni visi­ta­tore ci è costato 750 euro. Una somma ragio­ne­vole o era pos­si­bile – come pure ipo­tizzò qual­cuno — orien­tare l’esposizione dedi­cata al cibo verso le cen­ti­naia di luo­ghi straor­di­nari d’Italia in cui avven­gono le pro­du­zioni di qua­lità tanto decan­tate a parole? Si tratta spesso di luo­ghi mar­gi­nali, abban­do­nati da anni di assenza di pro­getti, dove i pro­dut­tori fanno fatica a man­te­nere le quote di mer­cato. Una Expo decen­trata che avrebbe fatto cono­scere al mondo la straor­di­na­rietà del pae­sag­gio ita­liano e rivi­ta­liz­zato le aree mar­gi­nali, for­nito occa­sioni di svi­luppo ad imprese vere.
Vinse il para­digma della con­cen­tra­zione soste­nuto dall’agguerrita classe diri­gente mila­nese. Grande quar­tiere di espo­si­zione, grandi for­ni­ture di cemento e asfalto (sono stati urba­niz­zati 105 ettari di ter­reni agri­coli), gradi affari. Ter­reni pagati a peso d’oro; alber­ghi pieni, valori immo­bi­liari in rialzo per la feli­cità della grande pro­prietà edilizia.
Milano ha dun­que bene­fi­ciato dell’effetto dro­gato dalla spesa di 14 miliardi, ma come esso possa rap­pre­sen­tare un modello per il paese è dif­fi­cile da com­pren­dere. Tra due giorni, appena spente le luci, reste­ranno tutti i pro­blemi sul tap­peto. Per­ché in Ita­lia non si inve­ste più nelle città e man­cano pro­grammi di lungo periodo. Durante i sei mesi di mani­fe­sta­zione, ad esem­pio, si poteva almeno ragio­nare sul futuro delle aree Expo. Nulla. Hanno taciuto comune e regione. Si espri­mono solo i diri­genti della Con­fin­du­stria lom­barda che pro­pon­gono sulle pagine del Cor­riere della Sera la rea­liz­za­zione di una città della scienza e della ricerca — ovvia­mente a carico dei con­tri­buenti — e sopra­tutto «tempi bre­vis­simi» per le decisioni.

E così tor­niamo al punto di par­tenza. Forse Raf­faele Can­tone voleva sol­tanto magni­fi­care il modello isti­tu­zio­nale del Com­mis­sa­rio straor­di­na­rio, e cioè di una figura in grado di svol­gere la regia di ope­ra­zioni com­plesse e garan­tire effi­cienza. Siamo sem­pre den­tro al cul­tura degli anni ’90, altro che anti­corpi. La crisi dei governi delle città è sotto gli occhi di tutti ma l’unica strada da per­cor­rere è quella di resti­tuire ai comuni le risorse per gover­nare: la strada della straor­di­na­rietà è solo una peri­co­losa scor­cia­toia. Non c’è infatti chi non veda che in que­sto modo si crea una for­bice mici­diale: le opere rite­nute impor­tanti ver­ranno affi­date a figure straor­di­na­rie sle­gate dal con­trollo demo­cra­tico men­tre l’ordinarietà, come la man­canza di acqua nella città di Mes­sina, sarà lasciata sulle spalle di sin­daci senza risorse e auto­no­mia. La inne­ga­bile crisi del modello demo­cra­tico non si affronta con la cul­tura della straor­di­na­rietà. E’ più impor­tante chiu­dere tutte le leggi di deroga, ad ini­ziare dalla «cri­mi­no­gena» legge Obiettivo.

I Il manifesto, 30 ottobre 2015

Il sin­daco Marino ha riti­rato le dimis­sioni. Lo ha fatto, come aveva annun­ciato, entro i venti giorni pre­vi­sti da quel 12 otto­bre quando la scelta di dimet­tersi era arri­vata sull’onda di alcuni espo­sti per la vicenda degli scon­trini fasulli. Ora, final­mente, il Pd, quello romano scre­di­tato dall’inchiesta di mafia-capitale e quello nazio­nale gover­nato dall’uomo solo al comando, è nudo di fronte alla que­stione romana che in sé, per la via “extra­par­la­men­tare” che l’ha con­no­tata, rias­sume la que­stione democratica.

Il ritiro delle dimis­sioni toglie di mezzo alibi e ipo­cri­sie, fa piazza pulita della foglia di fico degli scon­trini usati per gestire, con un com­mis­sa­rio di gra­di­mento ren­ziano, l’importante par­tita del Giu­bi­leo. È peral­tro curioso l’accostamento — da parte del governo — tra la mani­fe­sta­zione cat­to­lica del pel­le­gri­nag­gio reli­gioso con l’Expo, una mani­fe­sta­zione laica misu­rata più che con il sof­fio dello spi­rito santo con i bilanci tra costi e ricavi. Ancora più curioso che un asses­sore del Pd, il tori­nese Espo­sito, sia andato a spie­gare in tv il gran peso avuto, nella vicenda delle dimis­sioni di un sin­daco, dalla “sco­mu­nica” del papa in mis­sione a Fila­del­fia. Come se l’aria di Roma pro­vo­casse repen­tine conversioni.

La scelta di por­tare la crisi romana nell’aula del con­si­glio comu­nale ripu­li­sce un po’ l’aria mefi­tica pro­vo­cata da que­sta brutta com­me­dia gestita dal com­mis­sa­rio Orfini in modo cata­stro­fico, e di certo su man­dato di Renzi. Per­ché è evi­dente che un pre­si­dente del con­si­glio non può “sfi­du­ciare” un sin­daco eletto diret­ta­mente dai cit­ta­dini. Per­ché è chiaro che un segre­ta­rio di par­tito non può deci­dere di col­pire un “suo” sin­daco col­pe­vole di nulla quando si è fatto gran vanto di indos­sare la maglia del poli­tico garan­ti­sta anche verso diri­genti di par­tito e ammi­ni­stra­tori locali inda­gati dalla magi­stra­tura. Oltre­tutto la linea di far dimet­tere i con­si­glieri del Pd potrebbe otte­nere il cla­mo­roso risul­tato, annun­ciato dalle voci della sera, di incas­sare addi­rit­tura la firma di Ale­manno. Un vero capolavoro.

Quali sono allora le colpe poli­ti­che del sin­daco di Roma? Qual è il bilan­cio di que­sti due anni di sin­da­ca­tura? E quando sareb­bero state avvi­state que­ste maga­gne poli­ti­che, se il Pd fino all’anatema papale e fino alla bolla degli scon­trini non ne aveva mai fatto questione?

Come mai, dopo mafia-capitale, Marino era con­si­de­rato un esem­pio di buona ammi­ni­stra­zione, un nemico dei poteri capi­to­lini, un avver­sa­rio delle potenti lobby (dai vigili urbani, alle alte por­pore, ai com­mer­cianti, a certi con­si­gli di ammi­ni­stra­zione…) e ora, invece, è giu­di­cato un inca­pace della peg­gior spe­cie? Le buche nelle strade, la spor­ci­zia, gli auto­bus scas­sati, qui, nella capi­tale, non godono delle atte­nuanti che ven­gono rico­no­sciute alle altre ammi­ni­stra­zioni (man­canza di fondi, poli­ti­che di tagli ai ser­vizi). Anzi abbiamo sen­tito rispol­ve­rare il cli­ché di Milano capi­tale morale — il magi­strato Can­tone ha la memo­ria molto corta — e magni­fi­care la per­for­mance dell’Expo come se né l’una, né l’altra aves­sero rischiato di affon­dare negli scan­dali, nelle rube­rie, nelle atti­vità delle grandi fami­glie mafiose. E meno male che il pre­si­dente della repub­blica man­tiene il dove­roso riserbo, altri­menti il pal­ma­rés del sin­daco mar­ziano avrebbe fatto il pieno.

La situa­zione è grave ma non è seria. Chi ne farà le spese, in un modo o nell’altro, sarà il Pd. Ma a essere col­pita è anche la gestione demo­cra­tica di que­sta vicenda che doveva essere trat­tata alla luce del sole, in Cam­pi­do­glio, non nelle stanze del Naza­reno, non nel modo fazioso di larga parte dei quo­ti­diani nazio­nali (quelli locali hanno fatto una oppo­si­zione “edi­li­zia” dall’inizio della sin­da­ca­tura), non attra­verso infor­ma­zioni pilo­tate e inte­res­sate. Marino non è il migliore dei sin­daci, il mestiere poli­tico non è il suo, si è mosso fidan­dosi soprat­tutto dei “suoi”, del suo cer­chio magico. Ma sicu­ra­mente non è peg­giore di quelli che vogliono far­gli le scarpe.

Fin qui abbiamo assi­stito al primo e secondo atto della tragi-commedia romana. Ora aspet­tiamo il gran finale. Che per più di qual­cuno non sarà indo­lore. E poi si vada alle ele­zioni al più presto.

«Le virgolette di Naipaul, premio Nobel della letteratura, raffigurano alla perfezione anche il mondo del XXI secolo, pieno di "scuole" che non educano, "ospedali" che non curano, "poliziotti» che spesso sono criminali, "imprese private» che esistono solo grazie allo Stato o "ministeri della Difesa" che attaccano i loro cittadini».

La Repubblica, 30 ottobre 2015 (m.p.r.)

NEL 1980, dopo aver visitato l’Argentina, il romanziere V. S. Naipaul scrisse: «In Argentina molte parole hanno un significato ridotto rispetto a prima: generale, artista, giornalista, storico, professore, università, direttore, manager, industriale, aristocratico, biblioteca, museo, zoo; tante parole devono essere messe tra virgolette».

È una brillante metafora che trasmette con grande efficacia una realtà complessa dove quello che appare molto spesso non è. Però le virgolette a cui si riferisce questo premio Nobel della letteratura non sono solo un fenomeno argentino del secolo scorso. Raffigurano alla perfezione anche il mondo del XXI secolo, pieno di «scuole» che non educano, «ospedali» che non curano, «poliziotti» che spesso sono criminali, «imprese private» che esistono solo grazie allo Stato o «ministeri della Difesa» che attaccano i loro cittadini. Viviamo in un universo infestato di istituzioni che perseguono in modo più che relativo gli scopi che giustificano la loro esistenza. E di situazioni disegnate deliberatamente per raggirare gli ingenui.
Alcuni giorni fa, per esempio, il governo russo ha annunciato di voler inviare «volontari» a combattere in Siria (le virgolette non sono mie, ma del titolo del New York Times). Questi «volontari» russi in Siria sono sospettosamente simili ai «militanti nazionalisti filorussi» che hanno invaso la Crimea e continuano a combattere contro l’Ucraina. E la verità è che tanto i «volontari» russi in Siria quanto i «militanti» che combattono in Ucraina sono in realtà militari russi o mercenari a libro paga di Mosca. Sembrerebbe che il Cremlino abbia sviluppato una forte preferenza per l’uso di «organizzazioni non governative» (così, tra virgolette) per conseguire obbiettivi militari e politici.

Il Nashi, per esempio, è un «movimento» di giovani russi che si dichiara «democratico, antifascista e contro il capitalismo oligarchico». Va tutto fra virgolette perché in realtà questa Ong è un ente promosso, organizzato e patrocinato dal governo russo. Che non è l’unico a usare quelle che si è cominciato a chiamare Ongog, cioè organizzazioni non governative organizzate e controllate dai governi. Già nel 2007 scrissi: «La Federazione degli affari femminili in Birmania è una Ongog. E anche l’Organizzazione per i diritti umani del Sudan. L’Associazione delle organizzazioni non a scopo di lucro e non governative del Kirghizistan, e la Chongryon (Associazione generale dei residenti coreani in Giappone) sono Ongog. È una tendenza mondiale, sempre più estesa: governi che finanziano e controllano organizzazioni non governative, spesso e volentieri in modo occulto».

Anche in Paesi con governi autocratici o democrazie illiberali stanno proliferando «mezzi di comunicazione privati e indipendenti» che in realtà non lo sono. Canali radiofonici, televisivi, giornali e riviste creati o comprati da «investitori privati» e che nominalmente sono indipendenti, ma editorialmente sono al soldo del governo che clandestinamente li finanzia e li controlla.

In questi Paesi il presidente, dittatore o capo di Stato normalmente esercita un controllo clandestino, ferreo, su «senatori», «deputati », «procuratori», «magistrati» e «tribunali elettorali» spacciati per «arbitri imparziali», su «elezioni democratiche» che spesso e volentieri sono truccate e fraudolente. Per questo in Russia, Iran, Venezuela o Ungheria, per esempio, i concetti di «democrazia», «separazione di poteri» ed «elezioni» devono essere messi fra virgolette per mettere in guardia dal fatto che non hanno lo stesso significato che altrove.

E non è solo un problema degli Stati. Il mondo delle organizzazioni internazionali è inondato di virgolette. Avete mai sentito parlare del Consiglio per i diritti umani dell’Onu? La sua missione è «promuovere e proteggere i diritti umani nel mondo». Chi ne fa parte? Fra gli altri, solo per citarne alcuni, Cuba, il Congo, la Cina, la Russia, il Kazakistan, il Venezuela e il Vietnam. Un altro esempio istruttivo di quanto siano diventate indispensabili le virgolette è la «Carta democratica» dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa). Nel 2001, con grande sfarzo ed emozione, i Paesi democratici dell’America Latina concordarono tutti che il «rafforzamento e la difesa delle istituzioni democratiche» era una priorità, e che se in un Paese membro si fosse prodotta una rottura o un’alterazione delle istituzioni tale da nuocere gravemente all’ordine democratico, ciò avrebbe rappresentato un «ostacolo insormontabile» per la permanenza di quel governo nell’organizzazione.

Non è stato così. Non solo l’Osa non si è mossa quando sono avvenute eclatanti violazioni dell’«ordine democratico» in diversi Paesi della regione, ma appare seriamente intenzionata ad accogliere un altro paladino della democrazia: Cuba.

Forse, però, il Paese che più ha bisogno di virgolette per poter essere interpretato è la Cina. La Cina del sistema «comunista» che è diventato un pilastro fondamentale dell’economia capitalista mondiale. E solo per fornire un altro esempio, la Cina che ora ci obbliga a mettere fra virgolette il concetto di «isola». Ha preso quattro scogli in una zona del Mar della Cina Meridionale la cui sovranità è fortemente contestata e le ha fatte «crescere». Così, invece di essere scogli non abitati e non abitabili in mezzo all’oceano, ora sono piccole «isole» dove Pechino ha già installato basi navali e aeree.

Il XXI secolo sarà «il secolo delle virgolette»?

Traduzione di Fabio Galimberti

Quarant'anni dopo la Rivoluzione dei garofani, ecco adesso la Reazione dei crisantemi: crisantemi per la morte della democrazia. Un colpo di stato bianco, perché "glielo chiede l'Europa". Huffington post, 28 ottobre 2015
Desta sgomento se non vera e propria indignazione il silenzio su quanto sta avvenendo in Portogallo dopo la tornata elettorale che ha visto le destre perdere più dell’11% dei consensi e quindi la maggioranza assoluta. Fatta eccezione per la stampa specialista e quella politicamente agguerrita, i mass media generalisti del nostro paese ignorano il vero e proprio crimine contro la democrazia che il Presidente del Portogallo, Anibal Cavaco Silva sta mettendo in atto.

Malgrado che - con qualche sorpresa non solo dei commentatori internazionali, ma persino degli stessi protagonisti diretti - le sinistre in Portogallo fossero riuscite a trovare un accordo per potere governare il paese, potendo contare su un ruolo e un comportamento dei socialisti in controtendenza rispetto a quelli della socialdemocrazia europea. Malgrado che nel parlamento eletto lo scorso 4 ottobre i conservatori abbiano 107 seggi, mentre i socialisti 86, i comunisti 17 e il Bloco de Esquerda - la formazione di sinistra vicina alla Syriza di Tsipras – 19. Malgrado che quindi la maggioranza parlamentare, che è di 116 seggi, appartenga a queste tre ultime formazioni politiche, potendo esse contare su 122 voti. Malgrado che pochi giorni fa il Parlamento portoghese abbia eletto, come proprio Presidente, Eduardo Ferro Rodrigues con 120 voti provenienti dai partiti della sinistra. Malgrado tutto ciò, il Presidente del Portogallo ha incaricato il leader conservatore Passos Coelho, uscito pesantemente ridimensionato dalla prova elettorale, di formare un governo che inevitabilmente sarà di minoranza.

Ancora più sconcertanti, se possibile, sono le motivazioni della scelta presidenziale. Il capo dello Stato portoghese ha infatti dichiarato che “In 40 anni di democrazia, nessun governo in Portogallo è mai dipeso dall’appoggio di forze politiche antieuropeiste…che chiedono di abrogare il Trattato di Lisbona, il Fiscal Compact, il Patto di Crescita e di Stabilità…che vogliono portare il Portogallo fuori dall’Euro … e dalla Nato” e che quindi sarebbe suo preciso dovere e rientrerebbe nei suoi poteri costituzionali “fare di tutto ciò che è possibile per prevenire l’invio di falsi segnali alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati”.

Il programma di governo delle sinistre portoghesi non è affatto antieuropeista, è per cambiare l’Europa in senso sociale e democratico. Vuole evitare che il paese sia nuovamente sottoposto ad un altro memorandum di politiche economiche recessive e di impoverimento sociale. Già cinque sono stati quelli comminati dalla Ue al paese lusitano e il partito di Passos Coelho ha perso la maggioranza assoluta proprio perché ne rivendicava la bontà, cosa che evidentemente non è piaciuta affatto all’elettorato portoghese. Comunque a un capo dello stato compete solo la tutela della Costituzione del proprio paese e non certo di sindacare l’indirizzo politico delle forze che vincono le elezioni.

Ciò che quindi risulta sconvolgente da queste dichiarazioni presidenziali è la palese ammissione di una totale sottomissione alla logica dei mercati finanziari, veri dominus della situazione europea e internazionale, capaci in quanto tali di prevalere su qualsiasi indicazione democratica espressa dalla volontà popolare. Si dirà, e giustamente, che questo era già accaduto, in particolare in Grecia, ma in questo caso repetita non iuvant, anzi dimostrano il carattere a-democratico della costruzione europea e la violenza della reazione appena forze di sinistra conquistano il consenso popolare. Il sostanziale silenzio dei mass media chiude il cerchio, mostrando a quale infimo livello è giunta la sensibilità democratica dei grandi organi di informazione in particolare nel nostro paese.

Ma la partita è tutt’altro che chiusa. Sia in Portogallo che in Europa. I partiti di sinistra hanno già annunciato di non volere concedere la fiducia, che dovrà essere votata entro il 9 novembre. Se, come i numeri sulla carta ci dicono, il nuovo esecutivo non dovesse ricevere l’avvallo del parlamento, il presidente dovrebbe scegliere se confermare Passos Coelho fino allo scioglimento dell’assemblea o incaricare il leader del Ps ed ex sindaco di Lisbona António Costa, che tra i partiti delle sinistre è il maggiore. Si deve altresì tenere conto che non è possibile sciogliere il Parlamento e convocare elezioni anticipate prima di gennaio, perché il Portogallo è entrato nel semestre bianco che precede l’elezione di un nuovo presidente della repubblica.

E allora, che senso potrebbe avere la scelta del capo dello Stato portoghese? Solo quello di affidarsi alla speranza che si provochi un ripensamento, ovvero una spaccatura all’interno del partito socialista portoghese, considerato come l’anello più debole del patto stretto tra le sinistre. Per ora non sembra. Anzi l’effetto dell’atto presidenziale è stato piuttosto quello di compattare il partito. Sarà decisivo nei prossimi giorni vedere quale sarà il comportamento degli altri partiti socialisti e socialdemocratici a livello europeo. Finora la reazione più significativa è venuta dal Partito socialista francese, il cui segretario, Jean Christophe Cambadelis, ha dichiarato in una nota di sostenere “l’alternativa rappresentata dai socialisti e dalla coalizione di sinistra”. Se i pronunciamenti di questo tipo aumenteranno e se si svilupperà una pressione democratica popolare a livello europeo, il governo di minoranza della Troika avrà vita effimera. E sarebbe un segnale importante anche per le prossime e vicine elezioni spagnole, oltre che per l’Europa nel suo complesso.

Intervista di Roberto Ciccarelli all'economista Gianfranco Viesti. Una critica severa alla "legge di stabilità":«È una mano­vra poco equa per­ché pre­mia in misura cospi­cua i più abbienti e rilan­cia molto poco i con­sumi». Il manifesto, 29 ottobre 2015

L’austerità non è uguale per tutti sostiene Gian­franco Vie­sti, ordi­na­rio di Eco­no­mia appli­cata all’Università di Bari in un’analisi sulla poli­tica eco­no­mica dal 2011 a oggi pub­bli­cata sul Menabò del sito Etica e eco­no­mia. L’economista con­ferma la sua ana­lisi dopo avere stu­diato le carte della legge di sta­bi­lità. Si parte dall’eliminazione della tassa sulla prima casa. «È una mano­vra poco equa per­ché pre­mia in misura cospi­cua i più abbienti e rilan­cia molto poco i con­sumi. Lo sostiene anche la Banca d’Italia: i con­sumi aumen­tano soprat­tutto quando cre­sce il red­dito di chi ha meno – sostiene Vie­sti — Non sono un rigo­ri­sta e non cri­tico il governo per­ché aumenta il defi­cit. Il pro­blema è che le risorse non sono molte e andreb­bero cali­brate sull’equità e sullo sviluppo».
Dove andreb­bero inve­stiti que­sti fondi?
Negli inve­sti­menti pub­blici e in inter­venti di coe­sione sociale con­tro la povertà. Se dob­biamo lavo­rare sul lato delle ridu­zioni fiscali è molto più oppor­tuno inter­ve­nire sul lavoro che sulla casa. Su que­sto sono d’accordo tutti: l’Ocse, la Com­mis­sione Euro­pea. Lo era lo stesso mini­stro Padoan.

Che però ha cam­biato idea come sul tetto del con­tante. Per­ché secondo lei?
La crisi è molto dura e il governo per­se­gue un con­senso con que­ste mano­vre poco lun­gi­mi­ranti, ma molto utili per il con­senso immediato.

Il governo ha sta­bi­lito una misura con­tro la povertà asso­luta. La ritiene suf­fi­ciente?
Ho letto con molto favore il com­mento di Mas­simo Bal­dini che ritiene che il tipo di stru­mento adot­tato sia quello giu­sto. Si va verso l’estensione del Soste­gno per l’Inclusione Attiva (Sia). Potrebbe essere un passo per un inter­vento di sistema con­tro la povertà, ma il pro­blema è che le risorse stan­ziate sono esi­gue.

Come mai la spen­ding review si è fer­mata a 5 miliardi, la metà di quanto annun­ciato dai com­mis­sari Gut­geld e Perotti?
Per­ché forse le stime erano gon­fiate. È molto dif­fi­cile tro­vare risparmi a regime che non impat­tino sui ser­vizi. La spen­ding review è uno stru­mento molto dif­fi­cile, biso­gna usarlo come un bisturi, farla poco alla volta, non si può pen­sare di rica­vare a bre­vis­simo ter­mine risul­tati così grandi.

Alla sanità saranno tagliati 2,3 miliardi e si pre­pa­rano 15 miliardi di tagli per il pros­simo trien­nio. Quali saranno le con­se­guenze?
Temo cat­tive. Ci saranno riper­cus­sioni sulla frui­zione del ser­vi­zio dei più deboli. Mi sem­bra che il governo pro­ceda rapi­da­mente per­ché vuole i risul­tati sui saldi. Il mio timore è che que­ste misure ridur­ranno le pre­sta­zioni soprat­tutto nelle aree dove il ser­vi­zio è meno effi­ciente e dan­neg­gerà anche un set­tore della medi­cina, quella pre­ven­tiva, che è molto impor­tante. È una situa­zione preoccupante.

Si parla di una pro­roga della decon­tri­bu­zione per le assun­zioni per una cifra dimez­zata rispetto al 2015. Cosa pensa degli effetti del Jobs act e quali risul­tati pro­durrà sull’occupazione al Sud?
Ci vuole molta cau­tela. Quelli sul lavoro sono inter­venti molto costosi e di que­sti tempi biso­gna pen­sarci con atten­zione. In alcuni casi pos­sono por­tare a occu­pa­zione che però col tempo sva­ni­sce. Ciò detto in que­sto momento non mi sento di attac­care que­ste misure per­ché oggi serve aumen­tare la com­po­nente di lavoro nella ripresa. Lo stru­mento decon­tri­bu­tivo può essere effi­cace. Le prime stime mostrano risul­tati sor­pren­denti anche al Sud.

Ma si tratta di pre­ca­riato e di lavoro a ter­mine.
Lo vedremo, si tratta di lavoro con le nuove regole. Per il momento non è detto che sia vera né l’una, nè l’altra ipo­tesi. Vedremo.

Basterà l’assunzione di 1500 ricer­ca­tori per recu­pe­rare il ter­reno per­duto dall’università?
Asso­lu­ta­mente no. Nella mano­vra l’articolo sui 500 «super-professori» rimanda a un prov­ve­di­mento attua­tivo che non cono­sciamo e rischia di creare scom­pi­glio tra chi ha par­te­ci­pato all’abilitazione e non ha avuto ancora il posto. Sem­bra poi che il governo sbloc­cherà gli sti­pendi fermi da anni, ma que­sto potrebbe pro­durre uno choc sui bilanci degli ate­nei che dovranno affron­tarlo con le risorse di prima. Nella sta­bi­lità man­cano risorse per affron­tare l’emergenza dram­ma­tica del diritto allo stu­dio. E poi c’è il dub­bio più grande di tutti: i nuovi mille ricer­ca­tori saranno distri­buiti in base alla valu­ta­zione della qua­lità della ricerca, cioè un cri­te­rio distri­bu­tivo che dà molto a poche uni­ver­sità e molto poco a tutte le altre. Que­sto prov­ve­di­mento aumenta mol­tis­simo la ten­denza alla bifor­ca­zione del sistema uni­ver­si­ta­rio, più del pas­sato. È una scelta pro­fon­da­mente sba­gliata. Sem­bra la rea­liz­za­zione della distin­zione tra ate­nei di serie A e B fatta da Renzi tempo fa. Un paese è forte se la sua uni­ver­sità è forte, non se conta solo su poche eccellenze.

Sin­da­cati e impren­di­tori si chie­dono dove sia finito il «master plan» pro­messo da Renzi per il sud. Esi­ste o non esi­ste?
Che io sap­pia esi­ste un tavolo di lavoro per defi­nire alcuni patti tra governo-regioni-città. Che cosa ci sia in que­sti patti non è dato sapere. Il rischio che ci siano le cose che già ci sono m a scritte in un altro modo. Sta di fatto che il piano annun­ciato da Renzi ad ago­sto nella legge di sta­bi­lità non c’è.

Il sot­to­se­gre­ta­rio alla pre­si­denza del Con­si­glio De Vin­centi sostiene che per il Sud ci saranno 11 miliardi di inve­sti­menti nel 2016.
Il governo ha chie­sto l’applicazione della clau­sola di fles­si­bi­lità sugli inve­sti­menti alla Com­mis­sione Euro­pea. Que­sta clau­sola per­mette di tenere fuori le risorse nazio­nali che cofi­nan­zino i fondi euro­pei. Que­sta misura ser­viva nel 2015 quando c’era da chiu­dere i vec­chi pro­grammi. Non sap­piamo se potrà essere appli­cata nel 2016. In più non si sa se die­tro que­sta acce­le­ra­zione ci siano pro­getti reali. Il timore è che l’annuncio serva solo per tenere buona l’Europa. Ci fac­ciano vedere l’elenco delle opere. Se esi­stono, tanto di cappello.
Per­ché il Sud, più di tutti, è stato col­pito dall’austerità?
Dal governo Monti in poi l’intervento pub­blico è cam­biato mol­tis­simo e in maniera oscura, con immensi impatti ter­ri­to­riali. Bloc­chi del turn over nella P.A., tagli alla sanità, alle regioni, al tra­sporto pub­blico, aumenti delle sovra­tasse comu­nali e regio­nali. Tutto que­sto ha col­pito in maniera dram­ma­tica il Sud. Oggi è neces­sa­rio un discorso molto alto su quali diritti di cit­ta­di­nanza ci pos­siamo per­met­tere con minori risorse pub­bli­che e come le rior­ga­niz­ziamo. Pro­ce­dendo invece così alla fine ci sarà un pezzo di paese che avrà diritti di cit­ta­di­nanza infe­riori a quei pochi che aveva prima della crisi. Non dico diamo più soldi al Sud. Più sem­pli­ce­mente dico che gliene stiamo dando molti di meno e que­sto non aiuta la ripresa economica.

Corradino Minea è finalmente uscito dalla "sinistra tremula" e ha abbandonato il partito di Renzi. Racconta com'è andata. Molto istruttivo per comprendere l'Italia di oggi. Il manifesto, 29 ottobre 2015, con postilla

Il rap­porto con il gruppo del Pd si era logo­rato. Se rivedo il film degli ultimi mesi, ho votato in dis­senso su jobs act, scuola, Rai, Ita­li­cum e legge costi­tu­zio­nale. Cosa che mi met­teva un po’ in imba­razzo e capi­sco che met­tesse in imba­razzo anche chi aveva appro­vato quelle scelte sba­gliate. Inol­tre la bat­ta­glia nel gruppo aveva perso appeal, aveva minore agi­bi­lità dopo che la mag­gio­ranza della mino­ranza si era messa a lavo­rare Renzi ai fian­chi, per logoralo.

Ma senza con­te­starne la nar­ra­zione che è, secondo me, parte fon­dante della sua poli­tica. Io penso al con­tra­rio che solo una gene­rosa assun­zione di respon­sa­bi­lità poli­tica possa aiu­tare il paese, e quel che resta della sini­stra, a uscire dal cono d’ombra lo sta cac­ciando una poli­tica tanto piro­tec­nica quanto inconsistente.

Sono que­ste le ragioni poli­ti­che delle mie dimis­sioni dal gruppo. Poi c’è la cro­naca, il motore ultimo di una scelta. Quella provo a rac­con­tarla da cro­ni­sta. Mar­tedì 27, Luigi Zanda con­voca i sena­tori in assem­blea, non si sa per discu­tere cosa. Il diret­tore del gruppo mi chiama due volte: «Vieni?», «par­te­cipo a tutte le riu­nioni», «Sta­volta Zanda ti vuole». Capisco.

Si aprono le danze. Il capo­gruppo loda i suoi sena­tori, «siete il soste­gno della legi­sla­tura - dice - e dun­que della Repub­blica». Loda per­sino chi «gli ha fatto male» votando in dis­senso sulla riforma costi­tu­zio­nale, «ma almeno con loro ho par­lato, con la Amati, con Cas­son, ho par­lato con Tocci». Solo Mineo è stato sleale: «Non è venuto nella mia stanza a dirmi che avrebbe votato con­tro. E que­sto (severo!) viola il nostro statuto».

Ma lo sape­vano tutti, l’avevo detto nel gruppo, nei cor­ri­doi, ovun­que. Cosa non ho fatto? Ho omesso di baciare la pan­to­fola del Pre­si­dente. Subito si sca­tena il pro­cesso: durerà due ore e mezzo. Pro­ta­go­ni­sti, nel ruolo della base indi­gnata, sena­tori incra­vat­tati e sena­trici tiratissime.

«Mi ha fatto male vederlo inviare un tweet dopo che il governo era andato sotto sul canone Rai». «Lo hanno applau­dito i gril­lini! (Alzando la voce)». «Rag­giun­giamo un com­pro­messo sul senato, nep­pure siamo con­tenti e lui viene in aula a demo­lirlo!». «Vuole farsi espel­lere per­ché cerca visi­bi­lità». «Un par­tito non è un pol­laio e Renzi ha vinto».

Ci sono stati anche inter­venti di tenore diverso, pochi!. Tocci, sull’assurdità di imporre una disci­plina da cen­tra­li­smo demo­cra­tico nel par­tito in fran­chi­sing di Mat­teo Renzi. For­naro, che ha ricor­dato come la nar­ra­zione ren­ziana demo­nizzi la mino­ranza prima che la mino­ranza parli o pensi. Lo Giu­dice, per il quale la libertà non può valere solo quando con­viene al ver­tice (come per le unioni civili).

Poi Zanda con­clude pro­nun­ciando la parola «incom­pa­ti­bi­lità» (tra me e il suo magni­fico gruppo). E cala l’asso: li avrei defi­niti «servi», in aula, quando avevo obiet­tato alla Finoc­chiaro che Pon­zio Polito non era stato affatto, come ella pre­ten­deva, un poli­tico inca­pace di deci­dere, ma un servo ipo­crita del suo padrone, l’imperatore, che con­di­vi­deva le ragioni del Sine­drio e voleva che si man­dasse a morte Gesù. Se qual­cuno del gruppo si è sen­tito offeso - avevo scritto a suo tempo a Zanda dopo aver subito una con­te­sta­zione in aula ad opera di taluni del Pd - se qual­cuno s’è sen­tito offeso deve avere una gigan­te­sca coda di paglia. Zanda sapeva.

Nel par­tito della nazione con­vive tutto e il con­tra­rio di tutto, ma la nar­ra­zione deve essere una sola, quella del segre­ta­rio pre­mier. Tutto qui. Ora imbian­che­ranno i sepol­cri dicendo che la mia uscita era scritta, che l’assemblea non c’entra, che il par­tito di Renzi non espelle. E que­sto è vero, non espelle, usa la sua mac­china nar­rante per far sì che i dis­si­denti si auto espel­lano, uno alla volta. Civati, Fas­sina, Mineo. E domani, chi? Men­tre gli iscritti e gli elet­tori se ne vanno più nume­rosi. Ma che importa, basta vin­cere anche per un voto, anche se al bal­lot­tag­gio voterà meno della metà degli ita­liani. L’importante è vin­cere, con­tro un avver­sa­rio che si cerca di costruire come perdente.

E ora? Gruppo misto, bat­ta­glia in senato dove la mag­gio­ranza balla e bal­lerà ancora. Lavoro nelle città e con le per­sone, per­ché «c’è vita a sini­stra». A con­di­zione di saper essere uni­tari e gene­rosi. E di rilan­ciare una bat­ta­glia cul­tu­rale, dopo un quarto di secolo di subal­ter­nità alla cul­tura della destra.

postilla

Sempre più spesso si sentono storie che ricordano il processo raccontato dal senatore Mineo. Dalle scuole agli uffici, dalle fabbriche alle giunte comunali chi vuole esprimere un dissenso nei confronti di chi comanda è costretto a tacere; oppure ad andarsene. Il regime feudale instaurato da re Renzi, con la complicità dei cortigiani, dei servi e degli ignavi sta completando il suo progetto. Libero di raccontare ciò che non condivide è soltanto chi ha le spalle coperte: da una ricchezza personale, o da una pensione, o da un laticlavio.

Nel 40° anniversario dell'assassinio di Pierpaolo Pasolini. «Pensatore pessimista e profetico, volle mostrare il vero volto, feroce e repressivo, dell’autorità.,nascosto sotto le spoglie dell’edonismo»

LaRepubblica, 28 ottobre 2015

L’Italia di oggi nacque con il boom economico, la grande trasformazione che ne riplasmò sentimenti, mode, abitudini, comportamenti politici, scelte di vita. Pier Paolo Pasolini ne fu protagonista e testimone e il suo lavoro si propone allo storico come una fonte indispensabile per avvicinarsi al senso profondo di quegli anni. Ma Pasolini ha anche egli stesso uno sguardo da storico, interessato al mutamento,alle brusche impennate della grande storia che rompono la crosta dell’immobilismo,

spezzano equilibri plurisecolari. Così, quando riflette sulla società italiana, lo fa con consapevolezza di chi si misura con una questione — quella della continuità/ rottura tra il fascismo e l’Italia repubblicana — che è tipicamente storiografica. Schierandosi decisamente per la “continuità”, il suo riferimento è a una Democrazia Cristiana che «sotto lo schermo di una democrazia formale e di un antifascismo verbale, ha perpetuato la stessa politica del fascismo», dando vita a un «regime poliziesco parlamentare ». Il blocco sociale su cui si fondava il consenso democristiano era lo stesso del fascismo mussoliniano: la piccola borghesia e i contadini uniti al grande capitale. Identico era anche il cemento ideologico fondato sul cattolicesimo e su valori quali la moralità, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, la patria, la famiglia.

La tesi della “continuità” era in gran parte condivisa dagli storici di allora. A marcarne l’originalità fu piuttosto il film su Salò o le 120 giornate di Sodoma , del 1975. In quel caso davvero si spinse in territori che la stessa storiografia ufficiale aveva fino ad allora complessivamente ignorato, restituendo al fascismo la sua essenza biopolitica, attribuendogli un Potere in cui si incarnava il Male assoluto. In quella Salò, il Potere consumava la sua ultima, parossistica orgia e lasciava affiorare, senza più mediazioni ed orpelli istituzionali, la volontà di impadronirsi — attraverso il sesso — dei corpi dei propri sudditi; una volontà di dominio che era la diretta conseguenza di quella “politicizzazione della vita” attraverso la quale, come avrebbe sottolineato Agamben, nelle esperienze del totalitarismo novecentesco il corpo dell’individuo diventava la posta in gioco delle strategie politiche, la politica si trasformava in biopolitica: la nuda vita, l’esistenza biologica degli individui, fino ad allora confinata in una terra di nessuno, veniva inserita nel circuito della statualità, con la vita e la morte che non erano più concetti scientifici ma politici, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle vittime.

Ma Pasolini “storico” fu originale anche per altri aspetti. Fu tra i pochi, infatti, ad accorgersi di una “rottura” ben più profonda, avvenuta nell’inconsapevolezza di molti. «La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa — scriveva, nel 1974 — Non c’è più dunque differenza apprezzabile… tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente, e quel che più impressiona, fisicamente, interscambiabili... I giovani neofascisti che con le loro bombe hanno insanguinato l’Italia, non sono più fascisti... Se per un caso impossibile essi ripristinassero a suon di bombe il fascismo, non accetterebbero mai di ritornare ad una Italia scomoda e rustica, l’Italia senza televisione e senza benessere, l’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio, l’Italia con le donne chiuse in casa e semivelate. Essi sono pervasi come tutti gli altri dagli effetti del nuovo potere che li rende simili tra loro e profondamente diversi rispetto ai loro predecessori». Con le piazze arroventate da uno scontro ideologico ancora tutto novecentesco, queste considerazioni suscitarono un inevitabile scalpore. Pasolini argomentava il suo pessimismo segnalando due “rivoluzioni”, quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione, avvenute proprio negli anni del boom. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale. Il nuovo Potere, nonostante le sue parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili ad uniformasi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole... Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata ». Certo, erano giudizi eccessivi, disperati quasi. Pure oggi, alla luce di tutto quello che è successo dagli anni Ottanta, il pessimismo pasoliniano assume i tratti di una lucida profezia.

Se vogliamo difen­dere il pro­getto poli­tico dei Padri costi­tuenti, p o se ne vogliamo imma­gi­nare un altro che sal­va­guardi i suc­ci­tati prin­cipi e pre­sti atten­zione alla gente comune, tocca radu­nare truppe, armarsi e com­bat­tere». Il manifesto, 27 ottobre 2015


Qual­cuno ancora non l’ha inteso. Di per sé la demo­cra­zia non è gran cosa. Sarà un nobi­lis­simo ideale, ma quella toc­cata agli umani è una mise­ria. Come ebbe a dire Schum­pe­ter, è una gara per le cari­che pub­bli­che e per i divi­dendi che offrono. Basta vin­cere le ele­zioni. Un tempo gli elet­tori si atti­ra­vano esi­bendo alcuni sacri prin­cipi – ugua­glianza, soli­da­rietà, ecc. – e attuando poli­ti­che piut­to­sto gene­rose nei loro con­fronti, non­ché arruo­lan­doli e asso­cian­doli tra­mite i par­titi. Per com’è fatta da ultimo la com­pe­ti­zione poli­tica, gli elet­tori sono attratti mediante costo­sis­sime cam­pa­gne media­ti­che. Quindi, si fa eco­no­mia di poli­ti­che «sociali», per fare quelle gra­dite a chi finan­ziale cam­pa­gne elet­to­rali: a cena o in sedi più riposte.

Per rin­ca­rare la dose: la com­pe­ti­zione demo­cra­tica è con­ge­ni­ta­mente truc­cata. Chi scrive le regole sono i gio­ca­tori, ma non sem­pre tutti d’intesa fra loro. Le scri­vono i vin­centi a spese della concorrenza.

Le ultime leggi elet­to­rali adot­tate in Ita­lia lo con­fer­mano come meglio non si potrebbe. Con­tano invero molto le cir­co­stanze. Nel 1946– 48, quando si adot­ta­rono pro­por­zio­nale e bica­me­ra­li­smo, i vin­centi erano tanti e nes­suno era in grado di imporsi agli altri: furono costretti a un accordo piut­to­sto equo. Non appena però la Dc si con­vinse che cir­co­stanze e rap­porti di forza erano cam­biati, adottò la legge truffa.Qui sta tut­ta­via il bello delle ele­zioni. Non è detto che quando i vin­centi le riscri­vono, o rein­ter­pre­tano, a pro­pria misura, le regole fun­zio­nano secondo le attese. Padri e padrini dell’Italicum si ten­gano per avvertiti.

La demo­cra­zia elet­to­rale man­tiene un mar­gine, sep­pur ristretto, di impre­ve­di­bi­lità. Inol­tre, le ele­zioni cicli­ca­mente si ripe­tono. Com­pe­ti­ti­vità e cicli­cità sono pregi fon­da­men­tali. Il loro primo pre­gio sta nel fatto che se non ci sono la demo­cra­zia diventa auto­cra­zia e la demo­cra­zia (elet­to­rale) è un mar­chio oggidì quasi irri­nun­cia­bile. In secondo luogo, com­pe­ti­ti­vità e cicli­cità assi­cu­rano che nes­sun risul­tato è mai per sem­pre. Prima o dopo, il dia­volo ci mette la coda.

La com­pe­ti­ti­vità, tut­ta­via, se non è resa fit­ti­zia, ha pure un altro pre­gio. Costringe i con­cor­renti a mostrarsi un po’ gene­rosi con gli elet­tori: se vuoi che ti votino, qual­cosa devi con­ce­der­gli. Suf­fra­gio uni­ver­sale e wel­fare sono esi­stiti per que­sta ragione. Pro­prio per bloc­care que­sta pos­si­bi­lità – defi­nita di volta in volta dai catoni di accatto dema­go­gia, clien­te­li­smo, assi­sten­zia­li­smo o popu­li­smo – le regole demo­cra­ti­che sono state da un quarto di secolo ricon­ge­gnate ridu­cendo a due le alter­na­tive e ren­den­dole fit­ti­zie. Dato che i con­cor­renti, per inse­guire l’elettore inter­me­dio, pro­met­tono e fanno tutti le stesse cose. Oppresso da tale com­pe­ti­ti­vità simu­lata, lo Stato sociale ci ha lasciato le penne. Men­tre metà elet­tori, disgu­stati, non votano nem­meno, le ele­zioni oggi si vin­cono con una man­ciata di voti, lau­ta­mente pagati da chi ha i soldi. Come si voleva.

Qual­cuno a que­sto punto invo­cherà la Costi­tu­zione e le tavole dei diritti. Ma andiamo alla sostanza: costi­tu­zioni e diritti sono ten­ta­tivi d’irrigidire giu­ri­di­ca­mente un equi­li­brio di potere dato sto­ri­ca­mente e pro­iet­tarlo nel tempo. La costi­tu­zione del ‘48 voleva irre­ver­si­bile l’antifascismo e il – mode­sto – comune deno­mi­na­tore che legava le forze poli­ti­che che la sot­to­scris­sero, ovvero l’attenzione per il mondo del lavoro e le classi popo­lari. La Costi­tu­zione è per­tanto un incro­cio tra un pro­gramma poli­tico solenne e un pezzo di carta. Dopo un avvio sfer­ra­gliante, per un po’ il pro­gramma poli­tico ha fun­zio­nato. Ma non per forza intrin­seca, ma per­ché c’erano lar­ghis­sime truppe elet­to­rali e impo­nenti orga­niz­za­zioni di massa che lo garantivano.

Al con­tempo, i par­titi erano in con­cor­renza tra loro per l’elettorato popo­lare. Aggiun­gia­moci, infine, che c’era una classe poli­tica che, pur tra tanti distin­guo, ci cre­deva. Per for­tuna c’è anche chi fa poli­tica non solo per vin­cere le ele­zioni, ma anche per attuare qual­che nobile ideale. Alla lunga la Costi­tu­zione si è ridotta a un pezzo di carta.

Com­pe­ti­zione effet­tiva, vasti elet­to­rati e orga­niz­za­zioni di massa in grado di susci­tarli sono ciò che con­sente di arre­dare la demo­cra­zia in maniera non troppo misera.

Bene, la reto­rica della gover­na­bi­lità ad ogni costo, di destra e di sini­stra, ha azze­rato la com­pe­ti­zione e quella mora­li­sta ha accu­sato i par­titi di essere la sen­tina di ogni vizio. Le sen­tine si pos­sono anche svuo­tare. Si è detto invece che i par­titi erano con­ge­ni­ta­mente viziosi e li si è ridotti a ectoplasmi.

Con­clu­sione. Se vogliamo difen­dere il pro­getto poli­tico dei Padri costi­tuenti, per­ché lo rite­niamo ancora valido, o se ne vogliamo imma­gi­nare un altro che sal­va­guardi i suc­ci­tati prin­cipi e pre­sti atten­zione alla gente comune, tocca radu­nare truppe, armarsi e com­bat­tere. Con armi paci­fi­che, ma che fac­ciano arre­trare l’avversario. Non è facile, per­ché l’avversario è attrez­zato: fra le altre cose ci ha inca­te­nati ai dik­tat dell’Europa dei banchieri.

Ma non è detto che sia impos­si­bile. Non è impos­si­bile, ad esem­pio, esco­gi­tare tec­ni­che comu­ni­ca­tive utili aggi­rare le blin­da­ture dei media, che sono in mano ai ric­chi. I cosid­detti par­titi popu­li­sti, si badi, ci stanno riu­scendo, sep­pur nell’intento d’instradare la demo­cra­zia sui binari del raz­zi­smo e dell’intolleranza. Tant’è che pure a sini­stra da qual­che parte qual­cosa si muove: in Inghil­terra, nella peni­sola ibe­rica, in Grecia.

Chissà per­ché la sini­stra ita­liana è rima­sta finora pri­gio­niera di per­so­na­li­smi e nar­ci­si­smi, limi­tan­dosi a pestare i piedi per i diritti vio­lati e per le male­fatte di que­sto e quello. Chi dice però che non possa far di meglio?

«In un saggio di Sergio Flamigni la collaborazione tra ex Br ed esponenti democristiani per impedire una ricostruzione veritiera del sequestro». L'incognita aperta è la solita: a chi è giovato quell'assassinio? Chi ricorda il clima politico di quel tempo non ha dubbi.

La Repubblica, 26 ottobre 2016

Patto di omertà (Kaos) è molto più di un nuovo (ennesimo) libro sul caso Moro: è una lezione di metodo e una pietra d’inciampo. L’autore, Sergio Flamigni, ex senatore del Pci in cui ha militato sin dalla giovinezza, partigiano prima, poi giovanissimo dirigente forlivese, è il massimo esperto della vicenda, a cui si dedica da una vita, da quando entrò nella prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto ( 1979-‘83). Instancabile “cercatore di verità”, come ama definirsi, fondatore del principale archivio italiano sul terrorismo, otto libri all’attivo (il più noto La tela del ragno), torna sulla vicenda e ripercorre le carte alle luce delle acquisizioni più recenti.

Perché – ecco il metodo- nel proliferare incontrollabile di pubblicistica interessata, memorie contraddittorie e dichiarazioni tardive, spesso su funzionari dello Stato ormai defunti (lo storico Gotor ha ben analizzato come il proliferare di narrazioni e testimonianze, solo in parte veritiere, comunque verosimili, sia funzionale all’oscuramento della verità sugli aspetti più indicibili del delitto), i documenti restano il riferimento imprescindibile, e vanno riletti e ristudiati nel tempo, con pazienza e umiltà.

C’è stato (e ancora resiste) un patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano: questa la tesi di fondo, ampiamente documentata, di Patto d’omertà . Lo scopo? Impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro, in cui trovino risposta i quesiti ancora aperti (Flamigni stila un elenco circostanziato delle lacune, gravissime: basti ricordare che ancora non si conosce l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani).

Al posto della verità, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la collaborazione sotterranea tra figure chiave delle due parti (mentre all’esterno si sbandierava strumentalmente la retorica della “riconciliazione”, ricordate?) ha confezionato una ricostruzione lacunosa e in più punti falsa del caso Moro da dare in paso all’opinione pubblica, le cui architravi sono: (1) la strage di via Fani e i 55 giorni sono stati eseguiti e gestiti solo dalle Br, senza aiuti e complicità esterne; (2) non vi furono omissioni e manovre occulte all’interno degli apparati dello Stato durante i 55 giorni; (3) non vi furono trattative occulte.

Una versione di comodo sia per gli ex Br, perché salvaguardava i loro miti identitari della “purezza rivoluzionaria” e della “geometrica potenza”, sia per la Dc (Cossiga e Andreotti in testa), perché contrastava con le evidenze di un’insufficiente impegno governativo per salvare Moro. L’architrave della versione ufficiale, sdoganata grazie alla compiacenza, ahimè, di vari esponenti della magistratura coinvolti nei processi Moro, è il cosiddetto “memoriale Morucci” (passato dalla scrivania dell’allora presidente Cossiga prima di pervenire ai magistrati), che tradisce la propria natura mistificatoria sin dal nome: bisognerebbe chiamarlo infatti “memoriale Morucci-Cavedon”, perché è frutto di molti colloqui tra l’ex Br dissociato e Remigio Cavedon, giornalista, direttore del quotidiano Dc Il popolo e consulente personale di politici del calibro di Mariano Rumor, al punto che Morucci ammise di non saper più distinguere con precisione cosa fosse esclusivamente farina del proprio sacco (indigna leggere che il magistrato, anziché approfondire il punto, abbia lasciato correre).

La parte più consistente e appassionante del saggio di Flamigni è la meticolosa analisi testuale del documento, che mette in luce omissioni e falsità sulla base delle innumerevoli fonti scritte e orali accumulatesi nei decenni. L’altra sezione “scandalosa” e illuminante riguarda il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.

Ha il pregio della chiarezza, il libro di Flamigni. Grazie alla limpida cronologia sinottica degli avvenimenti e delle indagini dalla mattina del 16 marzo 1978 al ’97, quando l’ex capo delle Br Moretti ottenne la semilibertà, fornita in apertura, si presta ad essere letto e compreso anche da chi sa poco o nulla. Circoscrive le lacune e le omissioni documentali per poter ribadire quanto invece sappiamo per certo, a dispetto delle menzogne governative e brigatiste.

Per anni Flamigni è stato deriso, denigrato come un pazzo visionario, osteggiato con cause per diffamazione (da cui è sempre uscito vincente, anche contro Cossiga), adesso, dopo che i fatti gli hanno dato ragione su tutto (dalle carte rimaste nascoste in via Montenevoso all’esistenza di un “quarto uomo”, solo per citare le più clamorose “anticipazioni” scaturite dalle sue ricerche), il rischio è che la sua voce limpida sia sommersa dal rumore.

Mentre la nuova Commissione Moro, agli occhi degli addetti ai lavori, sembra dedita principalmente a confondere le acque e sfornare scoop di dubbia fondatezza con pretese di scientificità (clamorosa la “ricostruzione 3D” della strage di via Fani che fa a pugni con le perizie) che non a far procedere le conoscenze e dove, a dispetto delle direttive altisonanti del Governo sugli archivi del terrorismo, ancora non sono saltati fuori i verbali delle riunioni del comitato di crisi interforze attivo durante il sequestro (e pieno di affiliati alla P2), questo saggio è una preziosa pietra d’inciampo.

Sappiamo moltissimo, del caso Moro, e ciò che non sappiamo getta luce sull’“anatomia del potere italiano” (per citare un saggio di Gotor, altro caposaldo sulla vicenda) e le caratteristiche del terrorismo in Italia: Patto di omertà consolida e approfondisce il patrimonio di verità, insegna a ragionare e a non cedere allo scetticismo.

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Lo scopo era impedire una ricostruzione veritiera del sequestro e dell’omicidio

Nell'intervista di Antonio Gnoli la vita di una protagonista di una delle principali correnti politiche e culturali che hanno attraversato l'Italia dalla Resistenza a oggi. raccontata da chi la sta vivendo.

LaRepubblica, 1 febbraio 2015

Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune.

Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po' rassegnata e un po' incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K.S. Karol. «Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l'amore è stato un'esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato», dice.

Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur . Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese»Collera perché?«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico»

Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi»

Ma non era comunista?
«Era prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere "Louis Aragon"! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio».

Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo»

E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».

Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
«Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura».

Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».

Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».

Ma anche una linea da osservare.
«Togliatti era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita».

Con chi si è complicata la vita?
«Con Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere».

Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l'Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato».

Quell'anno alcuni restituirono la tessera.
«E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante».

Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti»

Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».

Foucault aveva sparato a zero contro l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i piedi»

Ha conosciuto Foucault personalmente?

«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un'intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l'Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno»

Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un'amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt'altro modo».

Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis»

Quale malattia?

«Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci»

Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».

A proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi?
«Lucio non era affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane»

Tra le figure importanti nella sua vita c'è stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme»

Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo?
«Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente dall'Italia non sono stati rovinati»

Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho una certa invidia per le mie amiche - come Margarethe von Trotta - che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un'altra»

Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
«Non ho più un'idea di Dio dall'età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio»

Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».


Il rapporto con suo padre come è stato?
«Era un uomo all'antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C'era molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che eravamo parte dell'impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent'anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine di Pola»

Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po' strana»

Si riconosce un lato romantico?«Se c'è si ha paura di tirarlo fuori. Non c'è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell'innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro»

Come vive il presente, questo presente?
«Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita»

Ha mai pensato di tornare in Italia?
«No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe»
È l'orgoglio che glielo impedisce?
«È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh»

E le sue radici: Pola? L'Istria?
«Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me»

«Hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune».

La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)

Chi ha vinto e chi ha perso nel Sinodo sulla famiglia? Molti ritengono che il Papa sia uscito rafforzato da questo difficile passaggio. Ma si tratta di una vittoria singolare. Se avesse voluto affermare la sua volontà, il Papa avrebbe potuto scegliere strumenti molto più efficaci di un Sinodo. Si è proposto, piuttosto, di promuovere un libero dibattito fra tante «opinioni diverse» da cui è scaturisse l’«immagine viva» di una Chiesa che non usa «moduli preconfezionati». Con l’applauso che ha accompagnato queste parole del suo discorso finale i vescovi hanno riconosciuto apertamente che l’obiettivo è stata raggiunto. Di sicuro, perciò, hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune.

È stato inoltre ipotizzato una pesante condizionamento della Curia sul dibattito sinodale. Ma una Curia, prevalentemente italiana, come quella dell’ultima fase del pontificato di Benedetto XVI oggi non esiste più. Proprio tra i suo collaboratori, Francesco ha trovato un convinto sostegno, come mostra l’efficace lavoro compiuto da padre Lombardi e da quanti sono stati in prima linea nelle tempeste mediatiche dei giorni scorsi. Si deve anche a loro se è uscito complessivamente sconfitto il “partito mediatico” - prevalentemente italiano - che ha lavorato intorno al monsignore gay, al rilancio della lettera dei tredici cardinali e allo strano falso del tumore del Papa e di cui hanno fatto parte anche giornali e televisioni che hanno usato questi “scoop” per far circolare l’ipotesi di un nuovo Vatileaks. Ma il Sinodo non è stato seriamente condizionato da questo “partito mediatico”.
Francesco, piuttosto, ha subito un’opposizione a viso aperto di curiali e non curiali, in gran parte non italiani, come l’australiano Pell, il gunineano Sarah, il tedesco Muller ecc. Non italiani sono stati anche gli artefici della convergenza che invece ha aperto la strada ad un esito condiviso, in particolare austriaci e tedeschi come i cardinali Shoenborn e Marx. Ma non si può dire che il Papa abbia vinto attraverso l’affermazione del suo partito: un “partito del Papa”, infatti, non esiste per il semplice motivo che Francesco non ha fatto nulla per crearlo.
Tutto ciò significa che Francesco vuole distruggere il potere del Papa? C’è chi ha visto in questo sinodo una vittoria delle Chiese locali sul controllo centrale. Indubbiamente, lo stesso Francesco ha usato il termine decentramento, commemorando l’istituzione dell’organismo sinodale voluta da Paolo VI nel 1965. Ma per lui decentramento è anzitutto quello che si realizza rispetto a se stessi. E le dinamiche di questo Sinodo hanno rilanciato l’importanza del Papa non solo quale garante dell’unità della Chiesa, ma anche come animatore di un cambiamento costante dei cattolici in sintonia con il cambiamento incessante dei tempi. Non è più tempo oggi di una dialettica tra conservatori e progressisti tutta interna alla logica della cristianità. Prevale piuttosto una dialettica tra le spinte autoreferenziali di una struttura ecclesiastica che cerca di conservare se stessa, non solo a Roma ma anche nelle diocesi di tutto il mondo, e spinte missionarie di una Chiesa in uscita, in cui spesso gli impulsi che vengono dal centro sono essenziali per dar voce alle domande non raccolte della periferia.
Chiedersi chi ha vinto e chi ha perso in questo Sinodo significa, insomma, scoprire quanto la Chiesa cattolica sia cambiata in soli due anni di pontificato di Francesco. Lo conferma anche l’impianto della relazione finale - simile a quello della Laudato Si - che si apre con un’analisi del contesto antropologico, sociale, economico in cui si colloca la famiglia oggi, condivisibile anche da parte di non credenti. Solo dopo aver messo a fuoco che la famiglia costituisce un cardine prezioso per tutta la società contemporanea, il testo si chiede che cosa la Chiesa può fare per aiutarla. Nessun modello di famiglia cristiana da imporre, ma piuttosto l’interrogativo su come mettersi al servizio della famiglia comunque questa si presenti: problematica, ferita, a tappe…
La vera battaglia che Francesco cerca di vincere è quella di spingere i vescovi ad andare incontro alla realtà e soprattutto, agli uomini e alle donne che li circondano: è questo lo scopo ultimo di un “discernimento” che non riguarda solo i divorziati.
«L’ex premier britannico, intervistato dalla Cnn, ammette una serie di errori. Dai dossier sulle armi di distruzione di massa al diffondersi del terrorismo islamico». Ma per i governanti non è vero che "chi rompe paga".

La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)

Londra. Dodici anni dopo la controversa invasione che è costata centinaia di migliaia o forse milioni di vite umane, e il posto di primo ministro a lui, Tony Blair dice: «I am sorry». L’ex leader laburista chiede scusa, anzi tre volte scusa: per gli errori dello spionaggio britannico che avevano attribuito a Saddam Hussein il possesso di armi di distruzione di massa (la ragione ufficiale per l’intervento militare del Regno Unito accanto agli Stati Uniti), per errori nella pianificazione della guerra e per la mancata comprensione di quelle che sarebbero state le conseguenze del conflitto, ovvero per l’instabilità che ha sconvolto l’Iraq e le regioni circostanti.

Di fatto Blair ammette la propria responsabilità anche per l’ascesa del fanatismo islamico, incluso il sorgere dell’Is, il sedicente Califfato dei jihadisti che oggi controlla parte dell’Iraq e della Siria. Ma l’ex premier continua a rifiutare di scusarsi per avere abbattuto Saddam. Un mea culpa parziale ma pur sempre clamoroso, fatto in una lunga intervista alla , la rete televisiva Usa di sole news, con una serie di dichiarazioni rimbalzate al di qua dell’Atlantico che ieri occupavano la prima pagina del Mail on Sunday, del Sunday Times e di altri giornali inglesi. Un rilievo comprensibile, considerato che è la prima volta che Blair chiede formalmente scusa e ammette sbagli nella organizzazione e gestione della guerra in Iraq, oltre che del dopoguerra.
Parole che fanno tanto più notizia dopo che, qualche giorno fa, proprio un quotidiano di Londra ha rivelato un memorandum segreto della Casa Bianca in cui Blair, un anno prima dell’entrata in guerra, si era di fatto impegnato con l’allora presidente americano George W. Bush a partecipare al conflitto come alleato degli Stati Uniti in qualunque caso e circostanza. Cioè indipendentemente dalle motivazioni ufficiali - il possesso di armi chimiche o biologiche - in seguito usate da Downing street per convincere il parlamento britannico e l’opinione pubblica del proprio paese ad approvare la guerra.
Tenuto conto che è poi emerso che Saddam Hussein non aveva armi di distruzione di massa, gli ha chiesto la , ritiene che la guerra in Iraq sia stata un errore? «Mi scuso per il fatto che l’intelligence da noi ricevuta al riguardo fosse sbagliata. E mi scuso per alcuni degli errori che abbiamo fatto nella pianificazione e, certamente, per il nostro errore nel non comprendere cosa sarebbe accaduto in Iraq una volta che Saddam fosse stato rimosso dal potere. Ma faccio fatica a scusarmi per avere rimosso Saddam».
E a una domanda successiva, sulla responsabilità della guerra in Iraq sul diffondersi dell’estremismo islamico anti-occidentale e in particolare all’ascesa dell’Isis, Blair risponde: «Penso ci siano elementi di verità in una simile visione. Non si può dire, naturalmente, che quelli di noi che hanno rimosso Saddam non hanno responsabilità per la situazione che si è creata (nella regione, ndr) nel 2015».
L’ex premier non accetta di essere chiamato un «criminale di guerra » per i morti e i danni materiali causati dal conflitto e rivendica il fatto di avere vinto un’elezione (la sua terza consecutiva) dopo la guerra; ma riconosce che l’Iraq è stato «un enorme problema politico» per lui.
In effetti è stato il problema che gli ha fatto perdere il posto, perché senza le polemiche sulla guerra difficilmente il suo vice Gordon Brown sarebbe riuscito a costringerlo a dimettersi nel 2007 per sostituirlo a Downing street: è verosimile che Blair sarebbe rimasto ancora al potere e avrebbe cercato di vincere una quarta elezione, contro il conservatore David Cameron, nel 2010. Come che sia, oltre a pesare sul giudizio della storia, il “mea culpa” di Blair potrebbe pesare sull’inchiesta ancora in corso sulla guerra in Iraq, affidata a una commissione indipendente britannica. Due precedenti inchieste governative avevano assolto Blair da ogni responsabilità e particolarmente dal sospetto di avere tramato insieme ai capi dei servizi segreti per gonfiare il dossier sui presunti armamenti di distruzione di massa in mano a Saddam. Ma 12 anni dopo l’Iraq continua a essere lo spettro che tormenta il laburista di maggiore successo elettorale della storia.
«L’Africa non ha bisogno di aiuti, ma di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata». L'entità e le cause della crescente diseguaglianza tra ricchi e poveri e tra bianchi e neri. La

Repubblica, 26 ottobre 2015

La fine dell’apartheid ha reso indubbiamente possibile l’uguaglianza formale dei diritti civili fondamentali, ma non ha consentito di ridurre la disuguaglianza abissale delle condizioni di vita. Una constatazione motivata in parte da fattori internazionali.

A poco più di vent’anni di distanza dalla fine dell’apartheid e dalle prime elezioni libere (1994), il Sudafrica si interroga più che mai sul problema delle disuguaglianze. La strage di Marikana, dove 34 minatori in sciopero per chiedere aumenti salariali erano stati massacrati dalla polizia, nell’agosto del 2012, continua a tormentare la coscienza del Paese. L’Anc (African National Congress), al potere senza interruzione dall’inizio della transizione democratica, ha reso possibile un’uguaglianza nei diritti civili fondamentali: il diritto di voto, il diritto di spostarsi liberamente sul territorio e di svolgere, teoricamente, tutte le professioni. Ma questa uguaglianza formale non ha consentito di ridurre l’abissale disuguaglianza delle condizioni di vita e dei diritti reali. Il diritto a un lavoro e a un salario dignitosi, il diritto a una scuola di qualità, il diritto di accedere alla proprietà, il diritto a una reale democrazia economica e politica. Il Paese si è sviluppato, la popolazione è cresciuta notevolmente, ma la promessa di uguaglianza non è stata mantenuta.

Secondo gli ultimi dati disponibili, il 10% più ricco si accaparra circa il 60-65% del reddito nazionale, contro il 50-55% in Brasile, il 45-50% negli Stati Uniti, il 30-35% in Europa. Peggio ancora: questo scarto estremo che separa il 10% in alto (composto ancora in larga maggioranza da bianchi) dal 90% in basso si è aggravato dopo la fine dell’apartheid. Questa triste constatazione si spiega in parte con fattori internazionali: la deregolamentazione e l’esplosione dei compensi nel settore finanziario (molto importante in Sudafrica), l’aumento delle quotazioni delle materie prime (che beneficia soprattutto una minuscola élite di bianchi), un dumping fiscal e sociale generalizzato. Ma si spiega anche con l’insufficienza delle politiche messe in atto dall’Anc: i servizi pubblici e scolastici disponibili nelle zone più disagiate rimangono di mediocre qualità; nessuna riforma agraria ambiziosa è mai stata realizzata, in un Paese dove i neri si erano visti sottrarre il diritto di possedere terre ed erano stati parcheggiati in riserve e township, dal Natives Land Act del 1913 fino al 1990; il patrimonio fondiario, immobiliare e finanziario resta largamente nelle mani dell’élite bianca, così come le risorse minerarie e naturali; le timide misure di empowerment economico della comunità nera, che mirano a costringere gli azionisti bianchi a cedere una quota delle loro azioni a neri, sulla base di transazioni volontarie ai prezzi di mercato, hanno beneficiato un’infima minoranza di neri che aveva già i mezzi (o le conoscenze politiche) per comprarle.

Risultato prevedibile: l’Anc è sempre più contestato a sinistra dal partito degli Economic Freedom Fighters (Eff), che propongono una serie di misure radicali: istruzione e previdenza sociale per tutti, ridistribuzione delle terre, nazionalizzazione delle risorse minerarie. La minoranza bianca è spaventata: la settimana scorsa una deputata bianca, una sorta di Nadine Morano locale, reclamava il ritorno dell’ultimo presidente dell’apartheid. Per riprendere in mano la situazione, l’Anc potrebbe introdurre, a partire dal 2016, un salario minimo nazionale e utilizzare questo strumento per ridurre le disuguaglianze, come fece il Brasile con Lula. Qualcuno pensa anche all’introduzione di un imposta progressiva sui capitali, per poter ridistribuire gradualmente il potere economico. Il progetto, già preso in considerazione fra il 1994 e il 1999, alla fine era stato abbandonato dall’Anc. Secondo l’ex presidente Mbeki, la polizia e l’esercito, tuttora guidati da bianchi, non l’avrebbero permesso.

Una cosa è certa: che si tratti di nazionalizzazione delle miniere, o di un qualsiasi progetto che costringa le multinazionali e i detentori di patrimoni a contribuire in misura più significativa di adesso alle casse dello Stato, il Sudafrica avrebbe bisogno della collaborazione dei Paesi ricchi, e non della nostra ipocrisia. L’élite finanziaria sudafricana lo ripete fino alla nausea: negli anni 80 eravamo costretti a negoziare, ma oggi possiamo facilmente trasferire i nostri fondi all’estero e nei paradisi fiscali. L’opacità del sistema finanziario internazionale è un autentico flagello per l’Africa: si calcola che il 30-50% delle attività finanziarie del continente si trovi in qualche paradiso fiscale. Eppure, se solo Europa e Stati Uniti decidessero di farlo sarebbe tecnicamente semplice creare un vero e proprio registro mondiale dei titoli finanziari. Come spiega Gabriel Zucman ne La richesse cachée des nations (Le seuil, 2014), basterebbe che le autorità pubbliche unificassero e prendessero il controllo dei depositari privati che attualmente svolgono questo ruolo. L’Africa non ha bisogno di aiuti: ha bisogno di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata in permanenza.

(traduzione di Fabio Galimberti) L’autore è direttore didattico all’Ehess e professore alla Scuola di economia di Parigi

C
Traduco in italiano l’ultimo articolo di Bia Sarasini sul : ci siamo fatti prendere in giro per un anno e mezzo e forse più da Sel, che non aveva nessuna intenzione di unificarsi con L’altra Europa e con Rifondazione, ma voleva solo logorarle, cosa che aveva cominciato a fare fin da prima della campagna elettorale e che alla fine le è riuscito benissimo.

Abbiamo perso per strada oltre un milione di elettori, quarantamila persone che avevano firmato con entusiasmo il nostro manifesto, migliaia di compagni disgustati dal nostro tergiversare, tre quarti dell’intellighenzia italiana che si era illusa di trovare nel nostro progetto un punto di riferimento, il lavoro di decine di comitati locali.

Abbiamo sprecato il “momento magico” del risultato elettorale sparando a palle incatenate contro Barbara Spinelli - figura senza la quale la nostra lista non sarebbe mai nata - cosa che peraltro avevamo cominciato a fare già durante la campagna elettorale, sostenendo che un bel bikini avrebbe attirato più voti dei suoi noiosi discorsi politici. Adesso non contiamo più niente e ci rendiamo conto che quelli con cui avevamo promesso di fare il big bang della sinistra, compresi molti fuoriusciti dal PD, pensano solo a rifare il centro-sinistra perché non sanno concepire nient’altro.

D’altronde neanche noi sappiamo bene che cosa fare, ma andiamo avanti così. Speriamo che il buon dio ci aiuti.

«Disoccupazione e disuguaglianza nell’accesso all’istruzione sfavoriscono ancora, 20 anni dopo la fine dell’apartheid, la maggioranza nera del Paese». Secondo

Il manifesto, 24 ottobre 2015

Tra gas lacri­mo­geni, gra­nate stor­denti, lanci di pie­tre e canti, è cul­mi­nata ieri davanti all’Union Buil­ding di Pre­to­ria — sede della Pre­si­denza della Repub­blica e degli uffici del Governo suda­fri­cano — la mega pro­te­sta degli stu­denti uni­ver­si­tari esplosa circa dieci giorni fa in un grande movi­mento a livello nazio­nale, pro­ba­bil­mente il più grande dalla fine dell’apartheid nel 1994.

Jacob Zuma non ha per ragioni di sicu­rezza incon­trato i mani­fe­stanti come pre­ce­den­te­mente annun­ciato, ma ha reso noto sulla tv di stato — dopo un incon­tro con i lea­der degli stu­denti, le auto­rità uni­ver­si­ta­rie e fun­zio­nari di governo — di aver con­ge­lato il piano degli aumenti delle tasse uni­ver­si­ta­rie per il 2016. Le prime dimo­stra­zioni con­tro il piano degli ate­nei di aumen­tare le tasse annuali sino all’11,5% a par­tire dall’anno pros­simo (e dun­que con­tro la deci­sione del governo di non inter­ve­nire con mag­giori finan­zia­menti a soste­gno dell’istruzione) sono scop­piate il 13 otto­bre scorso all’University of the Wit­wa­ter­srand (Wits) di Johannesburg.

Da allora le pro­te­ste (echeg­giate su Twit­ter sotto l’ashtag #Fee­sMust­Fall) hanno col­pito almeno altre 15 uni­ver­sità, costrin­gen­dole alla sospen­sione delle lezioni. A Johan­ne­sburg, migliaia di stu­denti della Wits e dell’University of Johan­ne­sburg hanno sfi­lato per le strade e si sono radu­nati davanti al Luthuli House, quar­tier gene­rale dell’African Natio­nal Con­gress (Anc) per con­se­gnare le loro richie­ste al segre­ta­rio gene­rale del par­tito al governo Gwede Man­ta­she. Nell’Eastern Cape, presso la Nel­son Man­dela Metro­po­li­tian Uni­ver­sity (Nmmu), la poli­zia ha spa­rato pro­iet­tili di gomma e gra­nate assor­danti per disper­dere gli stu­denti. A Cape Town, 23 stu­denti sono stati arre­stati mar­tedì scorso per aver bru­ciato pneu­ma­tici e eretto bar­ri­cate agli ingressi dell’università (Uct).

La rivolta è arri­vata anche, il giorno dopo, davanti alla sede del Par­la­mento a Cape Town, dove la poli­zia in assetto anti­som­mossa ha lan­ciato gas lacri­mo­geni e gra­nate stor­denti con­tro cen­ti­naia di stu­denti che ave­vano fatto irru­zione all’interno della recin­zione presso l’entrata prin­ci­pale dell’edificio per impe­dire al mini­stro della Finanze Nhla­n­hla Nene di illu­strare il bilan­cio prov­vi­so­rio dello Stato.

La dichia­rata esi­genza degli ate­nei uni­ver­si­tari di aumen­tare le tasse per poter assi­cu­rare i loro stan­dard for­ma­tivi non ha incon­trato la soli­da­rietà delle classi diri­genti al potere e la loro dispo­ni­bi­lità a mag­giori sov­ven­zio­na­menti ma ha tro­vato la rab­bia degli stdenti neri. A evi­den­ziarsi ancora una volta è la pro­ble­ma­tica mag­giore che fa da sfondo a tutte le altre in un Paese che arranca a rina­scere dalle ceneri del vec­chio regime dell’apartheid, vale a dire l’accesso equo e garan­tito all’istruzione. Le pro­te­ste di que­sti giorni in Suda­frica, lungi dal coin­vol­gere alcuna parte poli­tica, caval­cano un males­sere gene­rale della popo­la­zione che non può pre­scin­dere dalla divi­sione tra bian­chi e neri che ancora affligge la nazione arco­ba­leno. A mani­fe­stare e a difen­dere le loro ragioni con­tro un aumento delle tasse (non bilan­ciato con i red­diti delle fami­glie di pro­ve­nienza) che per mol­tis­simi signi­fi­che­rebbe la rinun­cia agli studi sono gli stu­denti neri (i bian­chi lo fanno per solidarietà).

Disoc­cu­pa­zione, povertà, dise­gua­glianza nell’accesso alle risorse eco­no­mi­che e all’istruzione sfa­vo­ri­scono ancora — più di vent’anni dopo la fine dell’apartheid — la mag­gio­ranza nera del Paese.

E restano figlie di poli­ti­che eco­no­mi­che ed edu­ca­tive che con­ti­nuano a rei­te­rarsi a svan­tag­gio delle classi più svan­tag­giate. Alla rab­bia degli stu­denti molti dei quali sono «born free» cioè nati liberi nel post-apartheid, la poli­zia e le classi dell’Anc al potere hanno oppo­sto gas lacri­mo­geni e pro­iet­tili di gomma susci­tando addi­rit­tura le pre­oc­cu­pa­zioni del dipar­ti­mento di stato ame­ri­cano che attra­verso il por­ta­voce John Kirby si è detto inten­zio­nato a con­ti­nuare a moni­to­rare la situa­zione. Imma­gini spe­cu­lari a quelle di un pas­sato mai del tutto sra­di­cato e che ripor­tano alla mente quelle, certo più dram­ma­ti­che e feroci, del mas­sa­cro nella town­ship di Soweto del 16 giu­gno del1976 quando la poli­zia aprì il fuoco con­tro 10 mila stu­denti neri che pro­te­sta­vano con­tro un decreto del regime di intro­durre l’Afrikaans nelle scuole come lin­gua obbligatoria.

Non è la prima volta che gli stu­denti scen­dono in piazza quest’anno per sol­le­vare que­stioni legate a divi­sioni raz­ziali ancora ben radi­cate. È quanto è suc­cesso ad aprile scorso con le pro­te­ste stu­den­te­sche che hanno gui­dato la cam­pa­gna di rimo­zione delle sta­tue di per­so­naggi sto­rici che hanno fatto la sto­ria del colo­nia­li­smo e dell’apartheid. E che ha visto cadere per prima quella di Cecil Rho­des (impe­ria­li­sta bri­tan­nico della fine dell’800), divelta dal soste­gno da cui per anni ha sovra­stato l’entrata dell’University of Cape Town (Uct).

Lo storico Nicola Labanca ricostruisce la nostra politica in Abissinia concentrandosi sulla vergogna delle leggi razziste: una vera e propria apartheid. La Repubblica, 25 ottobre 2015

Nell’autobiografia delle vergogne nazionali è rimasto sullo sfondo, come una fotografia imbarazzante. Italiani che non sposano le nere. Di più: non frequentano gli stessi locali e gli stessi luoghi di lavoro. E ai “meticci”, figli della colpa, impediscono ogni diritto: di essere riconosciuti dal genitore cittadino o di andare a scuola con i colonizzatori bianchi. Quello impiantato negli anni Trenta in Africa Orientale fu l’impero più razzista, più sistematicamente vessatorio e divisivo, tra quasi tutti i regimi coloniali delle potenze europee. È la tesi sostenuta da Nicola Labanca, studioso dell’espansione coloniale, nel suo nuovo libro che documenta la costruzione in Etiopia, Eritrea e Somalia di un razzismo legalizzato in anticipo di un anno e mezzo sulle leggi antisemite adottate nella penisola. Un altro colpo inferto al mito degli “italiani brava gente”.

Il saggio di Labanca ha anche il merito di sottrarre la guerra d’Etiopia alla veste un po’ stretta di impresa coloniale, collocandola all’interno di un gioco di interessi internazionali che sfoceranno nella seconda guerra mondiale. E guarda a quella vicenda anche con gli occhi di uomini e donne africani vessati dalle nostre pretese imperiali: ancora troppo poco sappiamo degli amministratori coloniali costretti a improvvisare la gestione di un impero sproporzionatamente grande, tra buona volontà, inesperienza e talvolta malafede. Una rimozione testimoniata anche dal silenzio che ha avvolto in queste settimane l’ottantesimo anniversario della guerra d’Etiopia, in un paese che ha fatto degli anniversari il nuovo totem memoriale. Certo è difficile essere fieri della legislazione che il 19 aprile del 1937 diede avvio alla istituzionalizzazione del razzismo, con il divieto di relazioni matrimoniali con gli indigeni. Una norma che allora non turbò le coscienze, in linea con “la superiorità civile e morale” dell’uomo bianco sull’uomo nero.

La norma del 1937 segnò il principio di un nuovo canone razzista che secondo Labanca ha poche analogie con il resto del mondo coloniale. Non che gli altri imperi si distinguessero per liberalità e inclusione, essendo la separazione razziale pratica quotidiana. Ma ciò che distinse gli italiani fu la traduzione in norma codificata di quella che altrove rimase una consuetudine. E in una classificazione generale di razzismo coloniale che va dal silenzio omertoso di tanti sistemi giuridici alle gerarchie razziali degli spagnoli in America Latina (fondate su un’inventata limpieza de sangre ), l’Italia si mostra molto più vicina alla «brutale semplificazione binaria del sistema sudafricano » (nel dopoguerra si sarebbe chiamato apartheid). Solo nel 1947 ci saremmo liberati di quelle leggi ingombranti. A condizione però di non parlarne più.
Una decisa critica ai contorcimenti dei resti della vecchia sinistra, che riprende il cammino come se nulla fosse cambiato, e alle incertezze della sinistra radicale.

Il manifesto, 24 ottobre 2015

Allora, era qui che dove­vamo arri­vare, il futuro della sini­stra è il ritorno al pas­sato dell’Ulivo di Prodi? Mesi e mesi di tavoli, incon­tri, riu­nioni, e annessi rin­vii che spez­zano il cuore e i pro­getti in vista del magic moment, sem­pre alla ricerca della mai rag­giunta con­giun­tura per­fetta, era per ritro­vare l’antico cen­tro­si­ni­stra? Quello bello, di un tempo, quando non c’era la crisi all’orizzonte, il wel­fare era soste­ni­bile e l’Europa era ancora un bel sogno in cui cre­dere, men­tre nes­suno imma­gi­nava l’apparire del par­tito della nazione?

Non che ci sia da stu­pirsi. La fram­men­ta­zione dello spa­zio poli­tico a sini­stra è sem­pre rima­sta tale, nono­stante l’impegno gene­roso di tante e tanti, nono­stante lo sforzo di tenere un filo che leghi le mille espe­rienze tra sociale senza rap­pre­sen­tanza e poli­tico che non trova una forma. Nono­stante il suc­cesso — mode­sto ma unico — dell’ultimo pro­getto uni­ta­rio della sini­stra, il risul­tato della lista l’Altra Europa con Tsi­pras alle Euro­pee del 2014, senza igno­rare la delu­sione e gli abban­doni che ne sono seguiti. Non c’è da mera­vi­gliarsi che le ine­vi­ta­bili e fin troppo con­te­nute rot­ture — vista la rotta impressa dal segre­ta­rio Mat­teo Renzi — che sono in corso nel Pd, fac­ciano fatica a orien­tarsi nel campo nuovo in cui ven­gono tro­varsi, quello che il gergo media­tico con­ti­nua a chia­mare sini­stra radi­cale, e che più volen­tieri fac­ciano rife­ri­mento ai momenti migliori del pas­sato recente. E a parte la mera­vi­glia che sicu­ra­mente avrà colto l’eccellente Pro­fes­sore nel vedersi con­si­de­rare il rife­ri­mento di un pro­getto di sini­stra, addi­rit­tura di una “cosa rossa”, il fatto sor­pren­dente è che in que­sto qua­dro vien can­cel­lata la crisi eco­no­mica che ha scon­volto la scena mon­diale. Come sem­bra spa­rita la crisi del wel­fare e della buona vec­chia social­de­mo­cra­zia, che dallo tsu­nami della crisi è stata spaz­zata via.

E lo dico senza dimen­ti­care, anzi, le mie sim­pa­tie uli­vi­ste del pas­sato. Pro­prio per­ché ne ho seguito passo passo l’intera evo­lu­zione, l’evocazione attuale mi sem­bra assurda. La muta­zione del Pd impressa da Renzi è l’ostacolo più evi­dente. Una muta­zione che si sta com­ple­tando sotto nostri occhi, con l’espulsione dal pro­prio pro­filo non tanto delle radici sto­ri­che che nella comu­ni­ca­zione di pro­pa­ganda ven­gono — con misura — col­ti­vate, quanto del radi­ca­mento sociale.

È così sor­pren­dente, que­sta pro­spet­tiva, che viene da chie­dersi se non sia uno dei tanti gio­chi in corso per affon­dare defi­ni­ti­va­mente ogni ten­ta­tivo di sini­stra nel nostro paese. Una sini­stra anti­li­be­ri­sta, che punti a pro­teg­gere i gio­vani, i pen­sio­nati, le donne, i lavo­ra­tori, dalla vio­lenza dell’attacco sociale, una sini­stra che vede nel governo Renzi l’interprete fedele, anzi, crea­tivo — del dise­gno libe­ri­sta delle élite euro­pee. Come si fa a pen­sare ad alleanze con chi taglia la sanità pub­blica? Come non vedere pro­spet­tive diverse in Europa, per esem­pio in Portogallo?

Certo, ogni pro­po­sta è legit­tima, in un ter­reno che non vede ancora in campo un pro­getto comune, un ter­reno che non ha nome, tanto che si ritrova a essere iden­ti­fi­cato con un richiamo che nella ver­sione più bene­vola appare nostal­gica, come “cosa rossa”. E non si può certo imma­gi­nare che ci sia un’unica pro­spet­tiva, l’esatto con­tra­rio dell’idea in cui ci siamo spesi in tante e in tanti. L’idea di un met­tersi in mar­cia, di avviare insieme un pro­getto che nel cam­mi­nare prende forma. Un met­tersi in moto che ha biso­gno di un avvio, un ini­zio. Un ini­zio fin troppo atteso.

Abbiamo discusso, nei mesi scorsi, della vita a sini­stra. La vita, se c’è, a un certo punto prende forma, vive appunto. Credo che con­ti­nuare a tra­sci­nare la deci­sioni di par­tenza di riu­nione in riu­nione sia un gioco mor­tale. Si potrebbe anche chia­marlo gioco delle tre carte, vedo e non vedo, ci sono e non ci sono. È diver­tente, ma solo per chi tiene il banco. Che non è nes­suno dei par­te­ci­panti. E il banco sono il governo, o l’Europa, o il libe­ri­smo, fate voi. Che a gio­care ci siano solo uomini non è un det­ta­glio irrilevante.

P

A BRUXELLES si discute in questi giorni la scelta del governo italiano di tagliare le tasse sulla prima casa. Il ministro Pier Carlo Padoan ha riconosciuto che «c’è una tassa oggetto di dibattito» e di dissenso, non solo dentro il Pd. E l’esito di questo dibattito e di questo dissenso è stata la dichiarazione di Matteo Renzi per cui viene abolita la tassa sulla prima casa se la prima casa non è assimilabile a un castello o comunque non è di lusso. Come sappiamo, la rimozione della tassa sulla prima casa ha sempre incontrato resistenze, non solo nella sinistra del Pd, ma anche negli organismi internazionali (l’Fmi, l’Ocse, la Commissione Ue), favorevoli sì a un taglio delle imposte, ma in primo luogo sul lavoro e per incentivare i consumi. E in Italia, come già Mario Monti ebbe a dire quando introdusse l’Imu, la tassa sulla casa è l’unica vera imposta patrimoniale: un tentativo di riequilibrare i divari di ricchezza e un antidoto all’evasione, in quanto nella nostra società le proprietà sono più rintracciabili dei redditi. Vi sono dunque ragioni di equità che hanno motivato la discussione sulla scelta fiscale del governo. Ragioni che mettono in luce la differenza fra proporzionalità (flat tax o imposte piatte) e progressività.

Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53 stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».

A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi). Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di sopportazione».

Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità e di coerenza con la Costituzione.

Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva ». Ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere, stimolando comportamenti virtuosi.

Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale ». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione, la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.

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La Repubblica, 22 ottobre 2015

C’È un detto di Gesù da sempre inquietante che in queste ore assume una dimensione ancora più sinistra. «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi » (Luca 17,37). Il detto si ritrova anche in Matteo 24,28, e in entrambi i Vangeli la frase è del tutto fuori contesto, appare come una specie di masso erratico piovuto dall’alto, completamente a prescindere da ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Non è nota l’occasione concreta che spinse Gesù a pronunciare quelle parole, tuttavia esse nella loro forza icastica non fanno che fotografare un’esperienza concreta della vita naturale, a quei tempi sotto gli occhi di tutti. Anche ai nostri giorni però, mutate le forme, non manca la presenza degli avvoltoi. Soprattutto se a essere in gioco è il corpo del Papa. E ancora di più se si tratta del corpo di “questo” Papa.

Che papa Francesco sia come minimo scomodo a una non piccola parte dei poteri politici, economici, finanziari e ovviamente ecclesiastici è un semplice dato di fatto, lo documenta bene un recentissimo libro di un giornalista di Avvenire, Nello Scavo, dal titolo I nemici di Francesco, sottotitolo: «Chi vuole screditare il papa, chi vuole farlo tacere, chi lo vuole morto». Ma ora la notizia del tumore al cervello, diffusa dal Quotidiano nazionale parlando di «una macchia, un piccolo tumore al cervello» è destinata ad aumentare a dismisura il volo minaccioso degli avvoltoi. Il portavoce papale padre Lombardi ha subito smentito seccamente la notizia. E L’Osservatore Romano ha parlato di «polverone sollevato con intento manipolatorio». Certo è che sarebbe difficile oggi nascondere a lungo una notizia sulla salute del Pontefice: il corpo del Papa, a differenza dei secoli passati quando era velato alla vista dei più e viveva in una dimensione sacrale che portava a pensarlo come quasi divino, del tutto privo delle manchevolezze dei comuni mortali, ora è quotidianamente esposto allo sguardo delle telecamere di tutto il mondo. Avvenne una quindicina di anni fa con Giovanni Paolo II, il cui morbo di Parkinson, prima sistematicamente negato dal portavoce vaticano, poi divenne evidente agli occhi di tutti. La salute del corpo di un Papa non è mai stata solo un fatto privato, e oggi lo è meno che mai.

Il punto vero e proprio però non riguarda la salute di Jorge Mario Bergoglio, riguarda gli avvoltoi. Ciò che colpisce infatti è che la notizia è uscita solo ieri (a dieci mesi di distanza dall’ipotetica visita specialistica) e soprattutto a poche ore dalla chiusura dello strategico Sinodo sulla famiglia. Una casuale combinazione? Ovviamente no; piuttosto l’alzata in volo di uno stormo di neri avvoltoi. Naturalmente non mi riferisco ai giornalisti che, in possesso della notizia, hanno fatto solo il loro mestiere come avrebbe fatto ogni altro giornalista del mondo; mi riferisco piuttosto a coloro che, proprio ora, hanno fatto filtrare la notizia nel momento forse più delicato del pontificato di Francesco.

In questo Sinodo infatti il Papa si gioca la gran parte della sua impresa riformatrice: se i vescovi a maggioranza gli diranno di no e bocceranno il suo desiderio di aperture, il suo pontificato è destinato a passare alla storia come il desiderio di un profeta solitario e sognatore, ben poco capace però di tradurre le sue parole e i suoi gesti in leggi e precetti concreti, come ogni pontefice degno di questo nome è invece chiamato a fare.

Io non so se vi sia un’unica regia dietro l’outing di monsignor Charamsa dichiaratosi gay e convivente all’inizio del Sinodo, dietro la diffusione di una lettera di una decina di cardinali anti-riforme a metà del Sinodo, e ora dietro questa notizia consegnata alla stampa proprio in prossimità della chiusura del Sinodo. Certo è che tutti e tre gli episodi incorniciano i lavori dell’assise vescovile. Come secondo ogni regia che si rispetti, l’ultimo colpo è stato il più devastante, perché mira a far credere al mondo che Jorge Mario Bergoglio è un Papa malato, per di più malato al cervello, nella sede decisionale della persona, sollevando così una serie di dubbi e di sospetti sulla sua effettiva capacità di guidare la Chiesa.

Molti dei cardinali che tre anni e sette mesi fa lo elessero ora gli sono ostili, perché non si immaginavano certo una tale forza riformatrice in quell’argentino che aveva fama di conservatore e che invece si è rivelato subito all’altezza della spinta innovatrice di papa Giovanni XXIII. Il papa bergamasco morì di tumore allo stomaco, ma prima riuscì, a dispetto della Curia, a convocare il Concilio Vaticano II e a iniziare l’opera di rinnovamento della Chiesa. L’opera purtroppo rimase a metà, perché a causa dei timori di Paolo VI non toccò proprio i temi della morale familiare e sessuale su cui papa Francesco ha convocato il Sinodo con l’intenzione di estendere il rinnovamento conciliare anche qui. Non sono pochi nella Chiesa coloro che glielo vogliono impedire senza comprendere l’importanza della posta in gioco.

Non si tratta infatti solo di qualche norma di disciplina ecclesiastica, in gioco c’è il cambio di rotta iniziato dalla Chiesa cattolica con il Vaticano II e rimasto incompiuto, volto a disegnare un cattolicesimo non più nemico del mondo moderno, come lo è stato per secoli, ma a fianco della vita degli uomini. In un mondo sempre più piccolo il compimento del processo iniziato con Giovanni XXIII è la condizione sine qua non perché la Chiesa cattolica sia fattore di pace e non di divisione. Papa Francesco lo sa e agisce di conseguenza. Molti però dentro la Chiesa o non lo sanno o non lo desiderano. Essi non esitano a unirsi ai numerosi gruppi di potere economico e politico fuori della Chiesa che hanno visto la recente enciclica sull’ecologia come una seria minaccia ai loro affari. E tra nemici interni e nemici esterni vi sono addirittura alcuni che non esitano a trasformarsi in avvoltoi e a volteggiare sinistramente sul corpo del Papa

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