Il «cantiere per la pace» che è nato in una saletta affollatissima e piena di giovani del centro congressi di via Frentani a Roma coinvolgerà in ogni sua iniziativa locale o nazionale anche rappresentanti delle comunità musulmane in Italia, i cosiddetti musulmani moderati, ovvero un milione e mezzo di persone che vivono e lavorano nel Belpaese. Per vincere oltre i guerrafondai e le politiche securitarie contro i migranti, l’islamofobia e en passant le sirene dei media che tornano ad evocare lo scontro di civiltà.
«Se una coalizione sociale da sola non può risultare vincente, specie quando i temi che affronta sono di natura ormai sovrannazionale, è ancora più vero che una sinistra priva di insediamento e chiaro riferimento sociale non può esistere se non nella fantasia.».
Huffington Post, 18 novembre 2015
Non si può certo dire che il cammino per l’unità della sinistra sia semplice e lineare. Mi riferisco ovviamente alle forze e alle persone che si sentono e si collocano alla sinistra di un Pd che del campo della sinistra non fa più parte da tempo, per esplicita scelta del suo gruppo dirigente, in primis del suo segretario. Eppure tale cammino è in corso. Alcuni organi di stampa amano fare del gossip sull’argomento. Personalizzando le varie posizioni e contrapponendole come in una commedia dell’arte. Ognuno fa il suo mestiere, anche se sarebbe opportuno farlo meglio. E questo vale per tutti, nessuno, ma proprio nessuno escluso.
Sta di fatto che il “caso italiano”, di cui ormai parlano solo gli storici, si è completamente rovesciato. Siamo il paese dell’Unione europea dove la sinistra è più debole, o tra le meno consistenti sia in termini di consenso, misurato o no attraverso il termometro elettorale, che in quelli di forza nella presenza politica e nella vita sociale del paese. Conseguentemente in termini di organizzazione.
Eppure, da quando L’Altra Europa con Tsipras raggiunse, anche se di pochissimo, quel quorum alle europee che permise un’inversione di tendenza nei confronti della coazione a ripetere la sconfitta, un nuovo percorso ha preso inizio fino a giungere alla condivisione di un breve documento che convoca un’assemblea nazionale per il 15.16.17 gennaio 2016. Il documento (“Noi ci siamo, lanciamo la sfida” nel sito de L’altra Europa con Tsipras) è stato elaborato e condiviso da Act!, Altra Europa con Tsipras, Futuro a Sinistra, Partito della Rifondazione Comunista, Possibile, Sinistra Ecologia Libertà. Alle riunioni del tavolo hanno partecipato Sergio Cofferati e Andrea Ranieri.
Nel corso di quella assemblea verrà definita una carta di valori e un’agenda di impegni politici che - attraversando le elezioni amministrative, la raccolta di firme per i referendum già in preparazione contro l’Italicum, la cattiva scuola, lo sblocca Italia e il Job Act, nonché la celebrazione del referendum noTriv e quello contro la revisione della Costituzione messo in atto con la legge Boschi-Renzi - ci porterà nell’autunno del 2016 a dare vita a un nuovo soggetto politico della sinistra in grado di affrontare le prove dell’ impegno politico, sociale e elettorale che si imporranno.
Il cupo clima che si sta stendendo sull’Europa, a seguito degli attacchi omicidi dell’Isis e della risposta guerrafondaia e securitaria promossa da Hollande, richiedono una risposta nel contesto continentale e di ogni singolo paese, che imponga una svolta rispetto alle politiche dell’austerity e della fobia dei migranti, alle logiche di limitazione dei diritti e delle libertà, allo scatenarsi delle pulsioni di guerra su cui si orientano le attuali elites europee, delle quali il governo Renzi non è che un’articolazione.
Dopo la firma di quel documento sono intervenuti nuovi elementi che dimostrano che il processo unitario è in atto ed è un obiettivo realistico. Lo ha evidenziato il successo della manifestazione al teatro Quirino di Roma– che non ci sarebbe stato o non in quei termini senza avere alle spalle quella intelaiatura che ho decritto - che ha visto la nascita di un gruppo parlamentare unito, pronto a dare battaglia in primo luogo contro un’iniqua legge di stabilità.
Contemporaneamente procede la costruzione di una nuova coalizione sociale, che ha come protagonista la Fiom (li vedremo in piazza contro la legge di stabilità a Roma il 21 novembre), e che può contare non solo su molte organizzazioni dell’associazionismo, ma soprattutto su quell’attivismo e protagonismo sociale diffuso e per ora anonimo che non ha mai cessato di esistere nel nostro paese e che reclama un fronte unificatore. Un tema complesso, poiché chiama in causa anche una rifondazione del sindacato, a fronte dei nuovi processi intervenuti nel mondo del lavoro, che hanno rotto le vecchie paratie fra lavoro dipendente e autonomo, fra posto fisso e precariato, fra lavoro intellettuale e manuale, creando una situazione socialmente inedita tutta da studiare e mettere alla prova.
Se una coalizione sociale da sola non può risultare vincente, specie quando i temi che affronta sono di natura ormai sovrannazionale, è ancora più vero che una sinistra priva di insediamento e chiaro riferimento sociale non può esistere se non nella fantasia. I due processi sono quindi destinati a contaminarsi e incrociarsi sempre più frequentemente, non sono confondibili né sovrapponibili, ma non possono ignorarsi. Soprattutto neppure le dichiarazioni sprezzanti di Renzi li possono cancellare.
«Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la «fortezza Europa», non è solo questione di umanità, è anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra».
Il manifesto, 18 novembre 2015 (m.p.r.)
La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di «quinte colonne» e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, «a pezzi».
Questa guerra, o quel suo «pezzo» che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti.
Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di Usa e Ue; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da Usa e Ue, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche.
A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto. La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione.
Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue «province» vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una «islamizzazione» feroce e fasulla.
Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace. Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. «Si ammazzano tra di loro» viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità.
È di fronte a quel disprezzo che si formano le «quinte colonne» di giovani, in gran parte nati, cresciuti e «convertiti» in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali).
Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci.
Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la «fortezza Europa», dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. È anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra.
Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’Ue, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il “peso” dell’accoglienza.
Eppure, fino alla crisi del 2008 l’Ue assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile?
Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale.
Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste.
Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli «scafisti» di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai servizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine.
Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria.
Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio.
«Li stiamo armando noi».
Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2015 (m.p.r.)
«Il Kuwait è l’epicentrodel finanziamento deigruppi terroristi in Siria»,mentre il Qatar necostituisce il retroterra graziea “un habitat permissivoche consente ai terroristi dialimentarsi ”. Lo sostieneDavid Cohen, sottosegretarioamericano per il terrorismoe l’intelligence finanziaria,citando un rapportodel Dipartimento di Statodel 2013. Dai due Paesi edall’Arabia Saudita, per ilWashington Institute forNear Policy, l’Isis ha ricevutooltre 40 milioni di dollarinegli ultimi due anni. Al terrorismoislamista non mancanobenefattori nel Golfo.
E l'Italia che fa? Firmacommesse, esporta armi, intascapetrodollari. Quandol’11 settembre Matteo Renziha siglato un memorandumd’intesa con il primo ministrokuwaitiano, Finmeccanicaha registrato un +5,4%in Borsa. Spianava la stradaall’acquisto per 8 miliardi dieuro di 28 caccia Eurofighterdi un consorzio europeo incui l’azienda guidata daMauro Moretti pesa quasi lametà. La firma definitiva èquestione di settimane, laDifesa ci lavora dal 2012 e laministra Roberta Pinotti si èrecata più di una volta in Kuwait.Sarà la più grande commessamai ottenuta da Finmeccanica.
Il committente èil governo del Paese che il ilDipartimento di Stato Usaindica come base dei “finan -ziamenti a gruppi estremistiin Siria”.Del resto, dal 2012 al 2014il made in Italy ha esportatoarmi al Kuwait per 17 milionidi euro. Al Qatar 146 milioni.Come prevede la legge, tuttoapprovato dal governo.Proprio il Qatar è stato indicatocome il principale finanziatoredel Califfato daGeorge Smiley, nome di coperturadi un trafficanted’armi italiano intervistatodomenica da Report. Ha dettoda Londra: “È stato armatoin funzione anti Iran, ma poici è scappato di mano. Nelnostro ambiente si sa perfettamenteche l’Isis è una creaturadell’Occidente. Anchel’Italia a sua insaputa ha armatol’Isis, armando la Siriadi Assad e addestrando le sue milizie che poi sono passateall’Isis”. Poi fa il nome di OmaarJama, nipote dell’exdittatore del Puntland in Somalia,accusato di essere iltramite tra “insospettabiliche vivono a Roma” e i terroristidi Al Shabaab, affiliatiad Al Qaida in Africa.
Questo ex studente di Giurisprudenzaa Firenze è indagatoper reclutamentoclandestino di contractor etraffico d’armi dalla Dda diNapoli. Nel 2007, invece, halavorato come consulente della Spm, riconducibile aStefano Perotti, accusato diaver pagato benefit all’ex topmanager del Ministero delleInfrastrutture Ercole Incalzain cambio di appalti. È lavicenda che ha portato alledimissioni del ministroMaurizio Lupi.Nella ricostruzione di Report spuntano un campo diaddestramento nel Principatodi Seborga, paesino autoproclamatosiindipendentein provincia di Imperia, ipalazzi di Finmeccanica eGiorgio Carpi, indagato pertraffico d’armi con i Casalesie fondatore della LegioneBrenno, una struttura militaresegreta nata nel 1993 peroperare in Croazia.
È ben più che un’ipotesi chel’Isis sia stato armato e finanziatodalle monarchie delGolfo e si sia rafforzato con lacomplicità della Turchia.“L’Unodc (l’agenzia Onu chesi occupa di criminalità edroga, ndr) – spiega GiorgioBeretta dell’Opal (Osservatoriopermanente sulle armileggere) – stima che il 90%dei traffici illegali di armiproviene dal commercio legale.Frutto della triangolazioneo dell’aver armatogruppi che poi cambiano alleanze”. Dal 2005 al 2012 ivari governi italiani hannoconfermato commesse per375,5 milioni di euro in Libia(ora a chi sono in mano?).
InArabia Saudita, dove Renzi èappena stato in visita, esportiamobombe che per le associazionipacifiste vengonosganciate contro gli sciiti inYemen. L’ultimo carico èpartito da Cagliari il 29 ottobre.Per l’autorevole Sipri(Stockholm InternationalPeace Research Institute),l’Italia è stata la principale esportatriceeuropea di armiin Siria dell’ultimo decennio,131 milioni di euro. Abbiamorifornito sia Assad, sial’opposizione. Dal 2011 leconsegne sono sospese, maaumentano quelle verso iPaesi confinanti. La Turchiaper esempio: da meno di 30milioni di euro nel 2009 a oltre85 nel 2014. Difficile pensareche a Istanbul siano diventatitutti collezionisti diarmi o che il tiro al piattellosia diventato lo sport più diffuso.
Dopo l'11 settembre europeo qualcosa è improvvisamente cambiato nello spazio politico del dibattito sulla sinistra.
Il manifesto, 17 novembre 2015
Pochi giorni fa il manifesto ha pubblicato un inserto/dossier (da lunedì 16 sarà possibile anche acquistare il pdf sul sito, ndr), ispirato e curato da Norma Rangeri, dal titolo significativo “C’è vita a sinistra ”.
L’ho trovato molto interessante e ricco di spunti di riflessione, ma anche carente di un quid che non riuscivo ad identificare. Come se tutta la discussione fosse fuori dal tempo che stiamo vivendo perché non prendeva in considerazione qualcosa che ha modificato profondamente lo “spazio politico”, per usare una categoria di Bourdieu. Sentivo che alla nostra discussione mancasse non un tema, sia pure importante, ma proprio una dimensione che caratterizza il nostro tempo.
Purtroppo, adesso mi è chiaro: quel qualcosa che mancava, quella dimensione ignorata, si è tragicamente materializzata nella strage di Parigi, un vero e proprio 11 settembre per l’Europa. Questa forma di terrorismo ha un impatto devastante sulla popolazione europea, crea un panico generalizzato, un senso di insicurezza tale che si traduce sul piano politico in una richiesta pressante di Ordine, Vendetta, Guerra.
Altro che politiche di accoglienza, che integrazione di immigrati, che società multiculturale, con questa orrenda strage cambia lo scenario politico europeo, spalancando un’autostrada per la cultura della Destra xenofoba, razzista e guerrafondaia. Che poi siano i governi socialisti o socialdemocratici a portare avanti questa politica non fa che aggravare la situazione.
Certo, lo sappiamo che l’Occidente ha praticato un terrorismo sistematico nei confronti di molti popoli del mondo, che i droni che uccidono civili in Afghanistan o in Iraq sono più buoni dei terroristi islamici solo perché non vediamo gli effetti di queste azioni: i media non ci fanno vedere donne e bambini massacrati, povere case sventrate e ridotte in macerie. Come nella striscia di Gaza,
dove Israele ha compiuto veri e propri atti terroristici, con molte più vittime di quelle che ha fatto finora l’Isis in Europa.
E potremmo continuare, ma servirebbe a poco per convincere la maggioranza degli europei che la strada della guerra, che Hollande ha già abbracciato con entusiasmo per vendicarsi della strage di Charlie Hebdo e che oggi ripropone con più forza, ci porta verso l’autodistruzione.
Provate a convincere i nostri concittadini, quelli che non leggono il manifesto, che bisogna ritornare a una pratica politica di ampio respiro per sconfiggere il terrorismo.
In primis, isolando il governo dell’Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo che finanziano il terrorismo da molti anni, ed anche quelli occidentali che agiscono attraverso i servizi segreti. Allo stesso tempo contrastando il governo israeliano con tutti i mezzi — anche con le sanzioni — finché rimangono occupati i territori palestinesi, e poi sostenendo tutte le esperienze democratiche che tra mille difficoltà resistono nel Nord Africa ed in Medio Oriente, a partire da un sostegno forte e convinto al governo tunisino. Ci siamo già dimenticati della strage dell’Isis al museo Bardo di Tunisi che ha causato tante vittime e un danno enorme alla fragile economia tunisina: da quel momento le navi da crociera hanno saltato la tappa di Tunisi e complessivamente i flussi turistici sono crollati dell’80 per cento!
Un fatto è certo: il Califfato Islamico ha una strategia politica e usa gli attacchi terroristici come strumento per conseguire i suoi fini.
Di contro, l’Occidente risponde istericamente, accecato dalla sete di vendetta, non ha più una visione e una strategia politica, e ripete i tragici errori fatti dopo l’11 settembre in Afghanistan ed Iraq.
Come non si è mai sconfitta la mafia mandando l’esercito, così non verrà mai sconfitto l’Isis con le bombe.
Anzi, i bombardamenti occidentali, colpendo tanti civili innocenti (i famosi “effetti collaterali”) fanno crescere l’odio e la sete di vendetta dei parenti delle vittime, procurando al Califfato islamico un “esercito terrorista di riserva”.
Fare vedere che esiste concretamente un’altra strada per combattere il terrorismo islamico è oggi una priorità politica per chi vuole costruire un futuro diverso per l’Europa.
Questa è la più grande sfida per la Sinistra Europea nel XXI secolo.
Domenica 15 novembre ci volevano i primi commenti sul manifesto di Samir Amin, di Tommaso di Francesco e Giuliana Sgrena, i dati forniti da Antonio Mazzeo sul crescente impegno militare della Francia in Africa, utili a fornire all'osservatore sgomento davanti all'attualità parigina un sistema di coordinate per non abbandonarsi all'angoscia della "guerra al terrorismo" proclamata dagli USA ormai 14 anni fa, e ora di nuovo sulla bocca di politici europei e della 'intellighenzia" rappresentata da Eugenio Scalfari. Non sanno costoro che questa strategia ha provocato finora solo altro terrore e molte altre centinaia di migliaia di morti nel mondo? Perseverare mi sembra diabolico, significa giocare col fuoco accettandola provocazione dei terroristi.
Se si vuole veramente spezzare la spirale della violenza a livello globale che ha chiuso il vecchio e aperto il nuovo millennio bisogna cambiare non solo politica, ma anche la nostra economia che crea e approfondisce le diseguaglianze e le contrapposizioni nel mondo. È dalla fine del mondo bipolare (1989/90) che il capitalismo occidentale ha intensificato la sua ingerenza bellica nei paesi dell'ex "Terzo mondo" per assicurarsi il controllo sulle zone medio-orientali e quelle asiatiche dell'ex-URSS con le principali risorse naturali. E già prima, durante gli anni '80, la guerra Iraq-Iran, quando gli USA sostenevano un Saddam Hussein, fu una guerra "nostra", condotta per procura. L'attualità è vecchia.
E dalla prima Guerra del Golfo (1991) all'attentato alle Torri gemelli (2001) hanno smantellato il sistema di garanzie e di Diritti umani dell'ONU, istituito dopo la Seconda Guerra mondiale, e da allora i conflitti armati in cui interviene la Nato alla "periferia" non si contano piú.
Anche nella nostra ricca Europa la politica neoliberale ha accentuato le diseguaglianze e minato le garanzie democratiche, creando una, se non già due generazioni di giovani prive di prospettive di vita attiva. E tra questi si trovano anche i giovani immigrati di seconda o terza generazione, particolarmente numerosi in nazioni con un forte passato coloniale, come Francia, Inghilterra o Belgio. Altro fertile terreno per il nichilismo politico e il fanatismo religioso: ed è già da tempo che giovani attentatori portano l'assassinio di civili innocenti dalla periferia fin nei centri del nostro mondo benestante, dove "noi" abbiamo invece il diritto-dovere di divertirci, come ribadiscono i giornali.
Ma ora l''Europa e le sue singoli nazioni si trovano in penose difficoltà di fronte al grande problema dei crescenti numeri di profughi dell' ex Terzo mondo, proprio perché hanno preferito per decenni di ignorare il carattere strutturale del fenomeno.
Se non si riesce ad invertire la rotta - impostando grandi programmi di investimenti pubblici nella formazione e per creare lavoro vero, oltre a riorganizzare il lavoro complessivo distribuendolo tra tutti, in modo da poter assorbire anche qualche milione di profughi, che del resto sono necessari per mantenere l'economia europea almeno ai livelli attuali anche nei prossimi decenni - non ci resterà che la "guerra contro il terrore", sia in Medio Oriente che in patria.
Il Presidente socialista Hollande annuncia questo in magna pompa da Versailles, cantando la Marseillese, e lo stato d'emergenza dovrà durare almeno tre mesi. E chiede il sostegno dell'Europa, ovvero della Nato.
Eppure si potrebbe anche dedurre dalla storia recente che l'Europa - che ha già mille altri problemi - farebbe bene a mettere fine al suo impegno militare "out of area" nel resto del mondo, anche perché ormai i suoi interessi non sempre coincidono ancora con quelli degli USA. A venticinque anni dalla cessazione della storica funzione antisovietica della Nato, per cui era nata, sarebbe ora di metterne seriamente in questione la ragion d'essere. Altrimenti le stragi parigine non saranno che un ulteriore sanguinosa tappa in una "guerra" invincibile da ambe le parti, a cui seguiranno altre guerre.
«Dopo Parigi. Bisogna rimettere la pace, e non la vittoria, al centro della nostra agenda politica».
Il manifesto, 17 aprile 2015 (m.p.r.)
Sì, siamo in guerra. O meglio, siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, paghiamo il prezzo e portiamo il lutto. Ogni persona morta, certo, è insostituibile. Ma di quale guerra si tratta? Non è semplice definirla, perché è fatta di diversi tipi, stratificatisi con il tempo e che paiono ormai inestricabili. Guerre fra Stato e Stato (o meglio, pseudo-Stato, come «Daesh»). Guerre civili nazionali e transnazionali.
Guerre fra «civiltà», o che comunque si ritengono tali. Guerre di interessi e di clientele imperialiste. Guerre di religione e settarie, o giustificate come tali. È la grande stasis del XXI secolo, che in futuro - ammesso che se ne esca vivi - sarà paragonata a modelli antichi, la Guerra del Peloponneso, la Guerra dei Trent’anni, o più recenti: la «guerra civile europea» fra il 1914 e il 1945.
Questa guerra, in parte provocata dagli interventi militari statunitensi in Medioriente, prima e dopo l’11 settembre 2001, si è intensificata con gli interventi successivi, ai quali partecipano ormai Russia e Francia, ciascun paese con i propri obiettivi. Ma le sue radici affondano anche nella feroce rivalità fra Stati che aspirano tutti all’egemonia regionale: Iran, Arabia saudita, Turchia, Egitto, e in un certo senso Israele - finora l’unica potenza nucleare.
In una violenta reazione collettiva, la guerra precipita tutti i conti non saldati delle colonizzazioni e degli imperi: minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitrariamente, risorse minerarie espropriate, zone di influenza oggetto di disputa, giganteschi contratti di fornitura di armamenti. La guerra cerca e trova all’occorrenza appoggi fra le popolazioni avverse.
Il peggio, forse, è che essa riattiva «odi teologici» millenari: gli scismi dell’Islam, lo scontro fra i monoteismi e i loro succedanei laici. Nessuna guerra di religione, diciamolo chiaramente, ha le sue cause nella religione stessa: c’è sempre un «substrato» di oppressioni, conflitti di potere, strategie economiche. E ricchezze troppo grandi, e troppo grandi miserie. Ma quando il «codice» della religione (o della «controreligione») se ne appropria, la crudeltà può eccedere ogni limite, perché il nemico diventa anatema. Sono nati mostri di barbarie, che si rafforzano con la follia della loro stessa violenza – come Daesh con le decapitazioni, gli stupri delle donne ridotte in schiavitù, le distruzioni di tesori culturali dell’umanità.
Ma proliferano ugualmente altre barbarie, apparentemente più «razionali», come la «guerra dei droni» del presidente Obama (premio Nobel per la pace) la quale, ormai è assodato, uccide nove civili per ogni terrorista eliminato.
In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle «due sponde» del Mediterraneo diventano ostaggi. Le vittime degli attentati di Parigi, dopo Madrid, Londra, Mosca, Tunisi, Ankara ecc., con i loro vicini, sono ostaggi.
I rifugiati che cercano asilo o trovano la morte a migliaia a poca distanza dalle coste dell’Europa sono ostaggi. I kurdi presi di mira dall’esercito turco sono ostaggi. Tutti i cittadini dei paesi arabi sono ostaggi, nella tenaglia di ferro forgiata con questi elementi: terrore di Stato, jihadismo fanatico, bombardamenti di potenze straniere.
Che fare, dunque? Prima di tutto, e assolutamente, riflettere, resistere alla paura, alle generalizzazioni, alle pulsioni di vendetta. Naturalmente, prendere tutte le misure di protezione civile e militare, di intelligence e di sicurezza, necessarie per prevenire le azioni terroristiche o contrastarle, e se possibile anche giudicare e punire i loro autori e complici. Ma, ciò facendo, esigere dagli Stati «democratici» la vigilanza massima contro gli atti di odio nei confronti dei cittadini e dei residenti che, a causa della loro origine, religione o anche abitudini di vita, sono indicati come il «nemico interno» dagli autoproclamatisi patrioti. E poi: esigere dagli stessi Stati che, nel momento in cui rafforzano i propri dispositivi di sicurezza, rispettino i diritti individuali e collettivi che fondano la loro legittimità. Gli esempi del «Patriot Act» e di Guantanamo mostrano che non è scontato.
Ma soprattutto: rimettere la pace al centro dell’agenda, anche se raggiungerla sembra così difficile. Dico la pace, non la «vittoria»: la pace duratura, giusta, fatta non di vigliaccheria e compromessi, o di controterrore, ma di coraggio e intransigenza. La pace per tutti coloro i quali vi hanno interesse, sulle due sponde di questo mare comune che ha visto nascere la nostra civiltà, ma anche i nostri conflitti nazionali, religiosi, coloniali, neocoloniali e postcoloniali. Non mi faccio illusioni circa le probabilità di realizzazione di quest’obiettivo. Ma non vedo in quale altro modo, al di là dello slancio morale che può ispirare, le iniziative politiche di resistenza alla catastrofe possano precisarsi e articolarsi. Farò tre esempi.
Da una parte, il ripristino dell’effettività del diritto internazionale, e dunque dell’autorità delle Nazioni unite, ridotte al nulla dalle pretese di sovranità unilaterale, dalla confusione fra umanitario e securitario, dall’assoggettamento alla «governance» del capitalismo globalizzato, dalla politica delle clientele che si è sostituita a quella dei blocchi. Occorre dunque resuscitare le idee di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti, il che presuppone una rifondazione dell’Organizzazione – certamente a partire dall’Assemblea generale e dalle «coalizioni regionali» di Stati, invece della dittatura di alcune potenze che si neutralizzano reciprocamente o si alleano solo per il peggio.
Dall’altra parte, l’iniziativa dei cittadini di attraversare le frontiere, superare le contrapposizioni fra le fedi e quelle fra gli interessi delle comunità, il che presuppone in primo luogo poterle esprimere pubblicamente. Niente deve essere tabù, niente deve essere imposto come punto di vista unico, perché per definizione la verità non preesiste all’argomentazione e al conflitto.
Occorre dunque che gli europei di cultura laica e cristiana sappiano quel che i musulmani pensano circa l’uso della jihad per legittimare avventure totalitarie e azioni terroristiche, e quali mezzi hanno per resistervi dall’interno. Allo stesso modo, i musulmani (e i non musulmani) del Sud del Mediterraneo devono sapere a che punto sono le nazioni del «Nord», un tempo dominanti, rispetto al razzismo, all’islamofobia, al neocolonialismo. E soprattutto, occorre che gli «occidentali» e gli «orientali» costruiscano insieme il linguaggio di un nuovo universalismo, assumendosi il rischio di parlare gli uni per gli altri. La chiusura delle frontiere, la loro imposizione a scapito del multiculturalismo delle società di tutta la regione, questa è già la guerra civile.
Ma in questa prospettiva, l’Europa ha virtualmente una funzione insostituibile, che deve onorare malgrado tutti i sintomi della sua attuale decomposizione, o piuttosto per porvi rimedio, nell’urgenza. Ogni paese ha la capacità di trascinare tutti gli altri nell’impasse, ma tutti insieme i paesi potrebbero costruire vie d’uscita e costruire argini.
Dopo la «crisi finanziaria» e la «crisi dei rifugiati», la guerra potrebbe uccidere l’Europa, a meno che l’Europa non dia segno di esistere, di fronte alla guerra.
E’ questo continente che può lavorare alla rifondazione del diritto internazionale, vegliare affinché la sicurezza delle democrazie non sia pagata con la fine dello Stato di diritto, e cercare nella diversità delle comunità presenti sul proprio territorio la materia per una nuova forma di opinione pubblica.
Esigere dai cittadini, cioè tutti noi, di essere all’altezza dei loro compiti, è chiedere l’impossibile? Forse; ma è anche affermare che abbiamo la responsabilità di far accadere quel che è ancora possibile, o che può tornare a esserlo.
«La "notte delle stragi" sconvolge e sorprende, ma possiamo davvero stupirci per gli attentati? Abbiamo vissuto l'illusione di poter combattere una guerra tenendo la violenza lontano dai nostri confini. Oggi la risposta sembra essere: più bombe, più raid, più repressione. Ma non è vero -non è mai vero- che non c'è alternativa».
Altreconomia.it, 14 novembre 2015 (m.p.r.)
Come a gennaio, con l'assalto a Charlie Hebdo; come nei giorni scorsi, con l'esplosione sull'areo russo in volo sul Sinai, così la notte delle stragi a Parigi,oltre all'orrore per tante persone innocenti trucidate, sembra suscitare una certa sorpresa nella popolazione, o almeno in gran parte di essa. Ci scopriamo fragili, vulnerabili e sale quindi un senso di smarrimento, ma davvero possiamo sorprenderci per gli attentati nel cuore dell'Europa? Non siamo forse in guerra, noi Europa, noi Nato, nel Vicino Oriente e non da oggi? Abbiamo dimenticato anche le stragi di Madrid e Londra?
Da un quindicennio ormai combattiamo una guerra che ha causato centinaia di migliaia di vittime e generato un caos geopolitico senza precedenti. L'Isis è solo la più recente, e forse la più attrezzata, fra le molte milizie contro le quali stiamo combattendo. Spesso si tratta di ex alleati, che si è pensato di sostenere e utilizzare contro temporanei nemici comuni, salvo poi trovarseli contro; altre volte si tratta di formazioni che pescano miliziani e trovano consenso sull'onda di sentimenti antioccidentali alimentati dalla guerra incessante che conduciamo fra l'Afghanistan, l'Iraq e la Siria, uno spicchio di mondo nel quale si condensano troppi interessi economici e politici e troppi rancori storici.
Gli attentati ci ricordano che siamo in guerra; sono un brusco risveglio dall'illusione che si possa fare la guerra per procura e senza pagarne conseguenze sul proprio territorio. Lo Stato islamico sta portando la guerra in Europa con gli strumenti tipici di tutte le guerre asimmetriche: l'azione terroristica.
Se questa è la scelta, diventerà impossibile, di fronte alla prossima strage in Europa, reagire con stupore. Ma già la carneficina di Parigi dovrebbe farci aprire gli occhi sulla nostra condizione di belligeranti e sulvicolo cieco nel quale ci siamo infilati.
Oggi la via della guerra totale all'Isis viene presentata come ovvia e senza alternative e si accompagna a una promessa di sicurezza che non potrà essere garantita, ma che dovrebbe bastare a mantenere sotto controllo l'opinione pubblica europea, che è sotto choc, frastornata e bisognosa di rassicurazioni. Nella realtà siamo probabilmente agli esordi di una fase molto cruenta della guerra in corso, vista la capacità dell'Isis di ribattere colpo su colpo alle azioni militari degli stati nemici, colpendoli là dove sono più vulnerabili, cioè al livello della popolazione civile: è toccato ai turisti russi di ritorno dal mar Rosso dopo i raid in Siria dell'aviazione di Mosca;ai cittadini francesi al ristorante, allo stadio e nella sala da concerto dopo i raid dell'aviazione francese annunciati in pompa magna quest'estate.
Ma non è vero -non è mai vero - che non esistono alternative. C'è la via lunga indicata già all'indomani dell'11 settembre da quelle che furono bollate come "anime belle": è la via della convivenza e del dialogo in situazioni di conflitto; la via del freno alla depredazione delle risorse; la via del riconoscimento dei diritti delle persone, compreso quello di emigrare dal proprio paese; la via del rafforzamento di istituzioni sovranazionali -rifondando l'Onu- e del ridimensionamento delle alleanze politico-militari che hanno occupato gli spazi della democrazia.
Lungo questa via, un futuro c'è. E c'è anche la materia prima per affrontare lo status quo, ossia l'espansione militare dell'Isis o anche il fascino che esso esercita su tanti giovani che vi vedono uno strumento di ribellione e di riscatto dalle umiliazioni subite per mano delle potenze belliche occidentali. Certo, è una via impervia, non foss'altro perché nuova e da mettere in pratica in un contesto infuocato. Forse non darebbe risultati immediati, ma avrebbe il grande merito di far intravedere una via d'uscita accettabile e - soprattutto - desiderabile.
I nostri governi dicono che la via giusta è la radicalizzazione dello scontro militare, ma abbiamo alle spalle almeno un decennio di fallimenti e non vi è ragione di pensare che stavolta l'esito sarebbe diverso. Abbiamo perso molti anni, denigrando la cultura del pacifismo e sgretolando dall'interno l'autorità e il potenziale degli istituti sovranazionali, a cominciare dall'Onu.
Oggi vediamo i risultati raccolti nel Vicino Oriente: un'impressionante quantità di morti; paesi ridotti in macerie e trasformati in ribollenti fucine di movimenti armati; azioni terroristiche contro gli stati in guerra; un caos geopolitico che non lascia intravedere soluzioni possibili.
Il tutto con un corollario che sta già diventando realtà, ossia il degrado delle democrazie europee: stiamo innalzando muri (anche fisici!) contro persone in fuga dal caos generato - anche, se non soprattutto - dalle nostre guerra e ci apprestiamo a vivere in uno stato d'emergenza quotidiano, con tutto ciò che ne consegue.
Solo i cittadini europei, in una fase storica che sembra ormai segnata da un destino di guerra, potrebbero cambiare il corso delle cose, ma dovrebbero ribellarsi ai loro governanti e alle loro fallimentari politiche di potenza e così ridare senso a ciò che intendiamo per democrazia.
Sarebbe la premessa per affrontare le sfide del nostro tempo su basi nuove.
Una cantata, senza musica, se non rumori di guerre. Molti perché, laceranti per noi che apparteniamo alla parte benestante del pianeta.
Felicità futura online, 15 novembre 2015
e perfino Scalfari arriva a scrivere che non basta fare la guerra all'Isis con le bombe ma bisogna mandare i soldati a combattere, allora davvero gli uomini del Primo mondo hanno perso la ragione, e l'orgogliosa civiltà dell'Europa è un morto che cammina. Pochissime le isole d'intelligenza che rimangono vive.
Il manifesto, 15 novembre 2015, con postilla
Ma non abbiamo ancora finito di contare i morti che già si alzano, forti quanto irresponsabili, le grida di chi chiama ad una nuova, «necessaria» guerra di vendetta per rispondere a chi colpisce la capitale morale d’Europa. Il vero grido di allerta positivo l’ha però reclamato Barack Obama che, in solidarietà con la Francia ferita, ha dichiarato: «Liberté, egalité, fraternité». La sigla vera della civiltà europea. Ma non sempre il mondo ha conosciuto la Francia e l’Europa come espressione questi valori. È invece accaduto più spesso il contrario, con l’esportazione di guerra, interessi economici e di dominio.
A Parigi i jihadisti dell’Isis che ha rivendicato, hanno ucciso metodicamente, ricaricando le armi automatiche contro ostaggi inermi, oltre che con l’esplosione dei kamikaze. Sempre al grido di «Allah è grande».
Con questo dichiarando la matrice religiosa integralista, contro obiettivi «laici» del divertimento di massa, come un concerto e uno stadio; e insieme disprezzando milioni di persone che aderiscono all’islam come religione di pace.
Quel che faceva presagire un nuovo attacco eclatante non era solo la litania di attentati e minacce avvenuti in quasi tutta Europa, ma proprio la continuazione della guerra occidentale con un nuovo protagonismo neo-coloniale proprio della Francia, in Siria ma prima ancora in Mali, Niger e Ciad. Una guerra che ha distrutto Stati decisivi per la stabilità dell’area mediorientale, come Iraq, Libia e Siria. Per la quale l’ex premier britannico Tony Blair ha nei giorni scorsi chiesto «scusa», riconoscendo che se la devastazione occidentale dell’Iraq non ci fosse stata, l’Isis probabilmente nemmeno esisterebbe.
Esiste invece e si abbevera come sanguisuga alle macerie delle nostre guerre o dimenticanze. Come per la crisi palestinese abbandonata alla strategia d’Israele che detta l’agenda mediorientale a tutta l’Europa, a cominciare dall’Italia.
Che fare allora? Le decisioni di Hollande con la dichiarazione dello stato d’emergenza, la chiusura delle frontiere, la consegna di proclamare il coprifuoco in aree a rischio, la proibizione di manifestazioni introducono di fatto uno stato di polizia e dei Servizi segreti — il cui protagonismo non ha mai fermato il terrorimo — proprio quando bisognerebbe confermare lo stato di diritto, purtroppo compromesso ampiamente in Unione europea dai diktat sulla crisi economica. Invece solo la democrazia difende davvero la democrazia mobilitando le sue forme e la sua rappresentanza popolare. L’America di Bush rispose con il patriot act all’attacco alle Twin Towers, abolendo l’habeas corpus e avviando la costruzione del campo di concentramento di Guantanamo, con tante carceri segrete illegali della Cia (sparse in tutta Europa).
È a dir poco controproducente e favorisce l’obiettivo terrorista di aizzare la repressione indiscriminata e la limitazione delle libertà per tutti, controbattere ora al terrorismo islamico con un «Patriot act europeo»; il rischio è corrispondere alla ventata di xenofobia che, dopo il dramma dei rifugiati che attraversano in fuga il Vecchio continente, divamperà ancora più forte. Marine Le Pen ha sospeso i comizi del Front National «per rispetto» delle vittime: tanto la campagna elettorale per la destra estrema (in Francia, in Italia e in tutta Europa) la fa lo Stato islamico.
Se «siamo in guerra», come rispondere allora? Soprattutto dobbiamo fermare le guerre che sono seminagione d’odio.
Una nuova guerra contrassegnata dalla sola iniziativa occidentale, alimenterebbe quel che è accaduto dopo le guerre a seguito dell’11 settebre 2001. Da allora infatti l’Afghanistan resta in guerra dopo 14 anni di intervento Usa ed è nata una nuova generazione di jihadisti integralisti dalle ceneri di tre stati (Iraq, Libia e Siria) che l’intraprendenza americana e francese ha distrutto alimentando nuovi conflitti sanguinosi, tra sunniti e sciiti e con i kurdi. Brodo di coltura dell’Isis coccolato e finanziato dall’Arabia saudita, grande alleato strategico dell’Occidente in chiave anti-Iran. Quando appare evidente che l’iniziativa jihadista ha nel mirino anche l’Iran che tratta con gli Usa, vince la partita sul nucleare, combatte l’Isis in Siria e avvia un nuovo asse con Mosca.
postilla
Riportiamo la frase dell'articolo domenicale di Eguenio Scalfari su la Repubblica di oggi:
Per contrastare e vincere occorre innanzitutto comprendere. Su questo giornale ci si impegna spesso nel farlo; rara avis.
Il manifesto, 15 novembre 2015
L’occidente è attonito di fronte agli atroci attentati di Parigi. Angoscia, paura, impotenza sono i sentimenti di chi non riesce a decifrare il linguaggio del terrorismo globalizzato. Siamo abituati a rispondere al terrorismo con le bombe e i droni che possono uccidere, forse, Jihad John, lo sgozzatore folle, ma non riescono a impedire l’abbattimento di un aereo russo sul Sinai o l’attacco simultaneo in diverse piazze di Parigi.
Il terrorismo non può cancellare la voglia di vivere. La cultura della vita deve sconfiggere la cultura della morte di chi combatte la propria battaglia con il martirio, in nome di dio, colpendo indiscriminatamente.
È una cultura che non ci appartiene e che non appartiene ai sostenitori di uno stato laico. Non a caso la Francia sembra un obiettivo privilegiato del fanatismo dei jiahdisti, come lo è stata la Tunisia fra i paesi musulmani.
L’occidente non può e non deve arrendersi ma deve essere consapevole che non può contrastare il terrorismo con armi convenzionali, si tratta di una guerra asimmetrica che deve essere affrontata con altri mezzi. Innanzitutto quello ideologico: il terrorismo globalizzato è l’estremizzazione dell’islam globale, che attira molti adepti non solo tra gli immigrati di seconda/terza generazione, magari emarginati, delle banlieus ma anche molti europei e americani. In una società dove i valori della democrazia sono stati usurpati dal populismo, dalla xenofobia e dalla violenza non resta che rivolgersi a chi offre un’identità, un senso di appartenenza, e quindi al nazionalismo o al fondamentalismo religioso.
L’Isis che ha rivendicato gli orribili massacri di Parigi, e altri, non è una entità astratta, il frutto di un incidente della storia, e tra chi ha sostenuto questi terroristi ci sono paesi occidentali e amici dell’occidente. Innanzitutto la Turchia. Erdogan ha incarcerato i giornalisti che hanno denunciato (con prove) le forniture di armi ai terroristi. E quando la Turchia si è schierata con i paesi impegnati nella guerra all’Isis – dopo averlo rifornito perché faceva parte dell’opposizione ad Assad – ha colpito i suoi oppositori kurdi, gli unici in grado di contrastare gli islamisti con un progetto di società laico e democratico. Senza un progetto alternativo di società è difficile avere la forza per combattere il fanatismo religioso.
Basterebbero poche misure concrete per mettere in seria difficoltà l’Isis: bloccare tutto il commercio delle armi e boicottare l’acquisto del suo petrolio. Chi acquista questo petrolio? Chi fornisce i mezzi per l’acquisto di armi?
La riconquista da parte dei Peshmerga iracheni di Sinjar, abitata dagli yazidi e da un anno nelle mani dell’Isis, è una buona notizia. Ma non basta per mettere in seria difficoltà l’Isis. L’Ue sostiene la Turchia per l’accoglienza dei profughi – in modo da evitare che vengano in Europa – ma quando siamo stati nel Kurdistan abbiamo verificato che i profughi – in maggioranza – non volevano andare nei campi organizzati dal governo turco che combatte la loro gente, allora perché non aiutare i kurdi che effettivamente sostengono i profughi? Soprattutto quelli che vogliono tornare nel loro paese, quando potranno farlo. La Turchia impedisce il passaggio dei mezzi per la ricostruzione di Kobane (Rojava, Kurdistan siriano). Perché l’occidente non impone alla Turchia l’apertura della frontiera con la Siria per il passaggio di aiuti umanitari invece che lasciare a Erdogan la discrezione sul passaggio di terroristi utilizzati per gli attentati contro i kurdi? Essere nella Nato è l’alibi per la Turchia così come l’ospitalità data alle basi americane è il passe-partout dell’Arabia saudita per fornire l’appoggio ai gruppi più fanatici del terrorismo mediorientale.
Sostenendo la Turchia e l’Arabia saudita non siamo dalla parte di chi combatte il terrorismo, al contrario lo sosteniamo anche ideologicamente.
Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2015
La "via tedesca" al neoliberismo ha radici culturali difficili da svellere, soprattutto se la sinistra non c'è più. Il manifesto, 14 novembre 2015
Alla questione che Thomas Mann poneva agli studenti di Amburgo nel lontano 1953 — se si dovesse avere una Germania europea o un’Europa tedesca — le classi dirigenti hanno già risposto nella maniera peggiore. Ma non per questo la questione è chiusa per sempre. Gabriele Pastrello — La Germania: problema d’Europa? Asterios, pp. 74, euro 7 — torna a ragionarci sopra in un libro denso, ma scorrevole che interviene con grande rigore nel dibattito sul ruolo della Germania nella più grande crisi economica del capitalismo europeo. Malgrado le ridotte dimensioni, l’autore non adotta uno stile pamphlettistico. Non troviamo invettive, né l’adagiarsi su un crescente sentire antitedesco – dopo il trattamento riservato alla Grecia da un lato e l’affaire Volkswagen dall’altro — ma lo snodarsi di argomentazioni che ci dipingono, quasi con stile espressionista, un quadro della Germania di oggi. Un pregio se non raro, certamente infrequente.
L’autore si pone in primo luogo il compito di demolire alcuni luoghi comuni. come quello di una crescita virtuosa basata sulle proprie forze. «La Germania, si può dire, è stato in tutto il dopoguerra il parassita delle politiche keynesiane mondiali. Il mondo cresceva grazie a quelle, e così le esportazioni tedesche». Il Piano Marshall aveva, anche, questo scopo. La Conferenza di Londra del 1953 – richiamata giustamente dai greci come possibile modello per risolvere il problema dell’oggi – condonò i debiti di ben due guerre mondiali alla Germania per permetterle di ripartire. Un’altra parte fu rimandata a dopo l’unificazione tedesca. Ma quando questa ci fu – e Pastrello giustamente la chiama «annessione», uno snodo essenziale nella crescita tedesca – Kohl si oppose a riaprire la questione. E la Merkel lo ha recentemente ribadito in modo stizzito.
La ferocia di un primato
Naturalmente, come si è visto nel caso greco, la Germania non ha restituito il favore a nessuno. Anzi ne ha approfittato per costruire il suo primato nel contesto europeo, pur cercando di nascondere l’aggressività e il cinismo di questo lungo processo «sotto le spoglie della pacifica concorrenza, di una superiorità meritata e ( in teoria ) non inibita agli altri». Per farlo si è dotata di una teoria economica che viene da lontano e che oggi attraversa, seppure in misure diverse, i partiti della Grosse Koalition, socialdemocrazia inclusa. Si tratta dell’Ordoliberalismo che muove i suoi primi passi da un manifesto stilato a Friburgo nel 1936 ad opera di Walter Eucken, Franz Bohm e Hans Grossman-Dorth, economisti e giuristi di ambiente cattolico e liberale. Con quel progetto essi cercavano già di delineare il futuro di una Germania postnazista, fondato sulla «fiducia dogmatica che la libertà della concorrenza producesse spontaneamente libertà politica, crescita economica e progresso sociale».
L’idea non è poi tanto diversa da quella che diede il via all’attuale Unione europea. Cioè passare, per via progressiva e quasi naturale, dalla liberalizzazione dei mercati a una costruzione politica e istituzionale unitaria. Il primo significato di ordo era «ordine naturale». Ma poiché si vide ben presto che da solo questo ordine non si imponeva, prevalse il secondo significato del termine, cioè gerarchia, attraverso la quale decostruire e ricostruire costituzioni e leggi, ridisegnare lo spazio politico e geografico. È quanto avviene sotto i nostri occhi, con lo strutturarsi in senso sempre più autoritario del sistema di governance della Ue. Un processo che si è accentuato per diretto impulso della Germania particolarmente dal 2010 in poi, come reazione delle elite dirigenti europee alla crisi economica, con il Fiscal Compact, il Two Pack e il Six Pack. Il recente documento dei cinque presidenti è un ulteriore passo in avanti su questa strada. Così come l’unione dei mercati dei capitali (Cmu nell’acronimo inglese) che si propone l’abbattimento dei residui controlli sui movimenti di capitale, affidando quindi alla finanza privata la soluzione della crisi, dopo che questa ne è stata una delle principali responsabili.
Per quanto Walter Eucken sia stato uno dei fondatori della Mont Pelerin Society, il centro pensante dell’estremismo liberista dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, va conservata una differenza fra quest’ultimo e l’ordoliberalismo. Per la scuola austriaca dei Mises e degli Hayek, i neoliberisti per eccellenza, lo Stato è pura negatività – come fu nella propaganda e più o meno nella pratica di governo di Reagan e della Thathcer –; per gli ordoliberali lo Stato può essere un mezzo utilissimo, purché al servizio del mercato. L’atteggiamento di questi ultimi nei confronti del movimento operaio e sindacale è stato quindi più avvolgente che non distruttivo. Almeno fino a un certo punto. Lo dimostra l’esperienza della Mitbestimmung in Germania, grazie alla quale nelle imprese medio grandi rappresentanti di lavoratori siedono in consigli di sorveglianza. Ma questo sistema mostra oggi evidenti crepe e non ha impedito la grande truffa della Volkswagen.
Un ospite inatteso
Queste differenze si riverberano anche nella dialettica che si è aperta in seno ai gruppi dirigenti tedeschi. La prospettiva di Schäuble e di Issing delineata per la Grecia, la Grexit, corrisponde in realtà ad una visione gerarchizzata in senso anche geografico dell’Europa, ridotta a puro spazio tedesco, di schmittiana memoria, che può o anche deve scontare la fuoriuscita dei paesi mediterranei. In una intervista dello scorso luglio, Otmar Issing giungeva a denunciare un ruolo politico da parte della Bce per i suoi interventi in salvataggio dell’Euro. Con l’espulsione dei paesi più deboli, rimarrebbe così uno spazio più ristretto ma più coeso, al quale la Francia fornirebbe copertura politica, non senza tensioni con il confinante germanico, per permettere al modello tedesco di competere più spregiudicatamente nella globalizzazione mondiale.
Ma qui, avverte opportunamente Pastrello, si affaccia un altro attore, gli Usa, per nulla convinti di cedere il loro antico primato mondiale. Ne è prova il Trattato transoceanico di libero scambio (Ttip), che travolgerebbe ogni lascito della civiltà giuridica europea, fornendo «alle grandi multinazionali statunitensi un quadro istituzionale quanto più vicino alle loro condizioni di partenza per permettere loro di potere galoppare in uno spazio europeo».
E le sinistre? In realtà la socialdemocrazia tedesca, punta di diamante di quella europea, vive una profonda crisi ed anche le istituzioni frutto di quel compromesso sociale che l’ha vista protagonista ne soffrono acutamente, incapaci di reagire al giro di vite imposto dalla governance europea. Per questo sarebbe illusorio, anche se qui Pastrello si mostra più indulgente, fondare sulla socialdemocrazia le speranze per una salvezza dell’Europa. La strada, non facile, è quella di potenziare la crescita di una sinistra di alternativa, come quella che abbiamo visto in Grecia e in questi giorni in Portogallo. Cui compete di mantenere viva la possibilità di dare vita a un’Europa unita e democratica, su base federale e con politiche di nuovo sviluppo sociale. Solo così potrebbe riaprirsi qualche varco anche in casa socialista, come appunto ora a Lisbona.
«In queste ore terribili, stiamo diventando tutti meno liberi. Se vogliamo sperare di riconquistare la nostra libertà, abbiamo una sola strada: costruire un mondo più eguale. Più fraterno. È la lezione della Rivoluzione francese: liberté, egalité, fraternité».
La Repubblica, blog "Articolo 9", 14 novembre 2015
Il 15 del mese di piovoso dell’anno II (e cioè il 3 febbraio del 1794) tutti, a Parigi, poterono finalmente vedere in faccia la Rivoluzione. La faccia era quella di Jean-Baptiste Belley, primo deputato nero e rappresentante della colonia francese di Santo Domingo alla Convenzione, cioè al parlamento rivoluzionario.
Nel 1789 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino scaturita dalla Rivoluzione aveva spaccato in due la storia dell’umanità, scrivendo che «tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti». Da allora in poi, non possiamo non dirci francesi, non possiamo non dirci rivoluzionari. Niente più re o regine, principi o duchi: solo cittadini, tutti eguali, tutti liberi.
Ma ora, con l’arrivo a Parigi del deputato Belley, quelle parole avevano finalmente un volto: un volto nero, per la prima volta eguale ai volti dei bianchi.
Il 16 del mese di piovoso tutta l’assemblea della Convention si alzò in piedi all’ingresso di Belley, e cominciò ad applaudire. Tutti i deputati, tutti bianchi si alzarono uno per uno, e abbracciarono il primo deputato nero della storia. Pochi minuti dopo, l’assemblea votava l’abolizione della schiavitù: non c’erano più re, e ora non c’erano più schiavi.
E il grande rivoluzionario Danton poté dire: «Fino ad ora non abbiamo che dichiarato la nostra stessa libertà, una libertà egoista. Oggi proclamiamo a tutto l’universo, e per tutte le generazioni future, la Libertà universale».
L'America, figlia di una Rivoluzione ancora più antica, arrivò a fare altrettanto – solo dopo una guerra civile e grazie alla sovrumana forza di Abramo Lincoln – approvando il Tredicesimo Emendamento alla Costituzione l'8 aprile del 1864.
Il pittore Anne-Louis Girodet ritrasse quindi il deputato Belley in questo quadro indimenticabile (Versailles, Musée du Chateau). La composizione e la tradizione degli infiniti ritratti di tiranni sono state redente da questo capolavoro morale. Il magnifico nero della pelle di Belley è accostato al candido marmo di un busto all’antica che ritrae uno dei filosofi cari alla Rivoluzione. E il deputato è stretto in vita dalla fascia con il tricolore della Rivoluzione. Come dir meglio che il passato serve a costruire il futuro, che la filosofia serve a cambiare il mondo, che la cultura è un'unica cosa con la politica?
Il cittadino Belley guarda lontano. Guarda fino a noi: alla nostra società finalmente multietnica. Il suo volto libero è, per sempre, il ritratto di ogni rivoluzione.
Oggi abbiamo disperatamente bisogno di ritrovare quello sguardo.
Grazie alla Lega di Salvini e Calderoli e al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, da oggi per scongiurare il
tentato furto della tua automobilole puoi uccidere. In Italia. Il Fatto quotidiano, 14 novembre 2015
Sventurato il popolo che ha bisogno di eroi” recita un verso, abusato, di Bertold Brecht. L’ultimo eroe della Lega di Salvini si chiama Antonio Monella. Nel 2006 ha sparato e ucciso un ragazzo albanese di 19 anni che voleva rubargli il SUV. Era stato condannato a 6 anni e 2 mesi di carcere per omicidio volontario. Ieri la figura eroica di Monella è stata celebrata dalle istituzioni nazionali: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, gli ha concesso la grazia su parere positivo del ministero della Giustizia, guidato dal dem Andrea Orlando. Una grazia parziale: la pe- na di Monella viene decurtata di due anni. Poiché gliene restano da scon- tare meno di tre, ora può uscire di galera e accedere ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. L’ultima parola spetterà comunque al tribunale di Sorveglianza.
La sua vicenda, per la Lega, si è trasformata in un trionfo politico. A fine agosto, nel pieno della bagarre che ha preceduto il voto sulla riforma Costituzionale, il senatore del Carroccio Roberto Calderoli aveva proposto di rinunciare ai suoi 600 mila emendamenti proprio in cambio della grazia. La valanga di proposte di modifica che poteva rallentare il percorso delle riforme è poi effettivamente scomparsa. La pratica Monella invece si è sbloccata pochi mesi più tardi, dopo un’attesa durata oltre un anno (la richiesta era stata inoltrata al momento dell- carcerazione). Il regista dell’operazione, oltre allo stesso Calderoli, è il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri (che ieri infatti ha parlato di “atto giusto ed equilibrato”). Ma pure Salvini in questi mesi si è speso in un lungo – evidentemente fruttuoso – pressing sul ministro della Giustizia Orlando.
L’8 settembre il segretario leghista si vantava di aver ottenuto la stretta di mano decisiva: “Il ministro mi ha assicurato che entro settembre manderà avanti la richiesta con parere favorevole”.
L’ISTRUTTORIA del guardasigilli è arrivata all’attenzione di Mattarella non prima di novembre. Ieri il presidente ha sciolto le riserve. Dal Quirinale spiegano la decisione così: Monella è stato un detenuto impeccabile, ha dimostrato di essersi ravveduto, prima dellacondanna era incensurato. Ha pesato, soprattutto, il parere positivo delministero della Giustizia. Lo stesso Orlando che era stato criticato a lungodalla Lega per aver rallentato il percorso della grazia. Inutile, ieri, provarea chiedergli per quale motivo abbia cambiato idea: ogni tentativo – con lui econ il suo staff – è stato infruttuoso. La scelta del Quirinale, su un caso così delicato econtroverso, potrebbe aver creato un precedente pericoloso. La propagandaleghista sembrava non aspettare altro.
Calderoli si è spinto più in là: “Si è stabilito unprincipio – ha detto al Fatto – e adesso bisogna cancellare il reato di eccessodi legittima difesa. Il senso di questa decisione mi sembra chiaro: se entri a casa mia per rubare, ho il diritto diproteggermi”. E anche di uccidere.
Giampaolo Cadalanu, intervista il filosofo Marek Halter. «È successo tutto a pochi metri da casa mia. Siamo di fronte a un nuovo conflitto, diverso dal passato. Adesso la Francia rischia di cadere nelle mani di Marine Le Pen». La Repubblica, 14 novembre 2015
MAREK Halter ha vissuto gli orrori del nazismo, è fuggito dal ghetto di Varsavia, è scampato alla repressione sovietica. Ma al telefono dalla sua casa di Parigi, a pochi passi dal Bataclan, sembra far fatica ad afferrare quello che sta succedendo nella sua stessa città.
Riesce a capire che cosa sta succedendo?
«È una nuova guerra, l’ho scritto appena due settimane fa sul Journal de Dimanche. Il mondo sta cambiando. E cambia la forma della guerra. Nel ’39 si mandavano aerei e carri armati, oggi ci sono persone pronte a morire pur di uccidere in nome di Dio. E opporvisi è difficilissimo».
Che succederà adesso?
«Ho una paura, che è quasi una certezza: quello che sta succedendo aiuterà la destra estrema, alle prossime elezioni guadagnerà milioni di voti. La chiamano già la guerra con l’islam. E stanno lanciando la guerra contro i rifugiati, perché i figli di quelli che scappano da Iraq e Siria vengono in Francia per uccidere. È la democrazia a essere in pericolo. La gente ha paura, e apre agli estremismi. Non è impossibile che domani ci siano attacchi contro i musulmani in Francia, o attentati alle moschee».
Come si può evitare che questa profezia di sventura si realizzi?
«Per la gente semplice siamo già in una guerra di religione. Ed è difficile trovare una via d’uscita. Già tempo fa ho chiesto ai musulmani di Francia di mobilitarsi per dire che sono solidali con le vittime degli attentati e prendere le distanze dai jihadisti, altrimenti la popolazione francese penserà che sono complici o conniventi. Il pericolo è una guerra di religione. Non possiamo spiegare alla maggioranza della gente che reagire è sbagliato. I nostri vicini sono musulmani, in Francia sono sette milioni, io mi raccomando con loro, perché si muovano a protestare contro questi assassini. E la gran parte della comunità è d’accordo»
Come si può reagire?
«È difficile fare qualsiasi cosa. Se ci fosse stato da affrontare un esercito regolare, in una guerra tradizionale, un paese da sessanta milioni di abitanti avrebbe reagito adeguatamente. Ma così? Non possiamo certo schierare cento poliziotti per ogni stazione della metropolitana. E una risposta politica non c’è».
Si è fatto un’idea di chi possano essere questi attentatori?
«Di sicuro c’è che erano ben organizzati. Sono certo che molti di loro abbiano la cittadinanza francese. Non vengono dall’Iraq, ma sono nati in Francia e uccidono invocando Allah. Ed è molto difficile proteggersi contro il vicino che parla la tua lingua e conosce la tua città».
E adesso, le possibili conseguenze politiche sono inquietanti.
«Vincerà Martine Le Pen. E in realtà bisogna darle ragione, quando dice che gli islamici non sono buoni francesi: non sono pronti a morire per la democrazia, ma per Allah sì».
Crede che questi avvenimenti possano spingere l’Occidente a far pressione su Israele per raggiungere finalmente una soluzione al problema palestinese?
«No, per i jihadisti il problema non c’è, non parlano nemmeno più dei palestinesi. Alla soluzione dei due Stati pensano le persone per bene. Ma sempre di più in Occidente si sentiranno vicini a Netanyahu, perché adesso comprendono i sentimenti degli israeliani davanti al terrorismo».
«Lo scrittore racconta la reazione del suo paese alle immagini dei profughi in fuga. Tutti noi siamo i prodotti di un contesto, e talvolta siamo prigionieri di un contesto. Metteteci in uno stato di guerra e combatteremo, odieremo, diventeremo nazionalisti e fanatici».
La Repubblica, 13 novembre 2015 (m.p.r.)
Questa settimana, in un caffè di Gerusalemme, con l’audio del televisore appeso al muro silenziato, ho sentito una donna alle mie spalle dire a un’amica: «Questa ondata di profughi siriani, non so...».
«Che cosa non sai? Ha chiesto l’amica ». «Da quando li fanno vedere in televisione con le mogli, i figli... non so, non sembrano nemmeno siriani». «E cosa sembrano?». «Non so... sembrano… le loro facce, il loro modo di parlare… Lo vedi che hanno paura, e si portano in spalla i bambini…» L’amica ha replicato: «Quelli, anche nella situazione in cui si trovano, ci scannerebbero tutti subito. Guarda cosa fanno tra di loro in Siria, tra fratelli, pensa cosa farebbero a noi se potessero». «Hai ragione», ha commentato sconsolata la prima, «comunque mi dispiace per i bambini». E l’amica ha ribattuto: «Certo, avrebbero dovuto pensarci prima di iniziare con tutto questo casino».
L'illuminata politica dell'UE per "risolvere" la più vicina delle tragedie del secolo: paghiamo i negrieri per salvare gli schiavi.
Il manifesto, 13 novembre 2015
Facciamo un passo indietro. Offrire un po’ di quattrini in cambio delle repressione dei migranti da parte dei paesi «di fuori» è prassi ventennale in Europa. L’allora ministro Dini propose nel 1995 di aprire campi di detenzione per «clandestini albanesi» in Albania. Un’idea così insensata che Tirana la lasciò subito cadere. I governi italiani hanno sempre stipulato trattati di riammissione con Tunisia, Libia ecc., per lo stesso «nobile» motivo e infischiandosene se, con Gheddafi e Ben Alì, i migranti venivano vessati, spogliati di tutto e fatti morire nel deserto. Dal 2000 in poi, la prassi è divenuta normale per l’Unione europea. Diciamo che da ieri la politica della Ue verso l’Africa ha gettato trionfalmente la maschera.
Salvini, Le Pen, Grillo, Pegida ecc. diranno che è troppo poco, ma in fondo ammetteranno che questa è la strada giusta. «Aiutiamoli a casa loro!» non era forse uno slogan di Bossi?
Ora, la realtà, secondo stime della World Bank, è che solo una quota minima di migranti sub-sahariani (il 30% del totale) sceglie di spostarsi verso l’Europa, mentre più della metà migrano verso altri paesi africani e una piccola quota in Asia In altre parole, anche l’Africa è soprattutto terra di immigrazione. Analogamente, gran parte dei rifugiati e profughi di guerra è ospitata non in Europa, ma in Turchia, Giordania, Libia o e così via. Come spiegare allora il vertice di La Valletta?
Si tratta di una sorta di esternalizzazione preventiva, il cui scopo è scaricare sui paesi africani il controllo sia dei loro migranti e profughi, sia di quelli, provenienti dall’Asia, che scegliessero le rotte africane dopo la chiusura delle frontiere mediterranee e balcaniche. E come? In sostanza, incarcerando migranti e profughi, in lager vecchi o nuovi, grazie alla carità pelosa della Ue, in attesa che la situazione in Tunisia, Libia (e Siria) si chiarisca, magari con qualche bombardamento o intervento limitato. D’altronde, niente di nuovo sotto il sole: è da una quindicina d’anni che paesi come il Marocco o la Tunisia allestiscono Cpt a vantaggio dell’Europa.
E così lo scenario che si disegna è quella di un continente di 480 milioni di abitanti che dice di andare in crisi per l’arrivo di alcune centinaia di migliaia di persone, che sigilla le frontiere nei già turbolenti Balcani provocando una crisi dopo l’altra tra Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia ecc., che si fa condizionare da nazisti o da gente alleata di Casa Pound, che dice di combattere i trafficanti per tener fuori migranti e profughi – e che soprattutto sta militarizzando il Mediterraneo, intasandolo di fregate e cannoniere, manco fossimo nel caos che ha preceduto la prima guerra mondiale.
Queste centinaia di migliaia di esseri umani in fuga dalla guerra o della fame sono divenuti merce di scambio e ricatto politico tra maggioranze e opposizioni, tra governi europei e potenze emergenti, tra Ue e stati africani o asiatici. Un bambino morto su una spiaggia turca emoziona il mondo, ma l’emozione sfuma in pochi giorni e lascia lo spazio a queste tremende burocrazie europee e statali con le loro organizzazioni e nuove missioni dai nomi dementi, Frontex, Triton, Eunavfor Med e altre che inevitabilmente impareremo a conoscere. Tutte prive di senso rispetto al loro obiettivo sbandierato di salvare vite umane, ma tutte coerenti nel controllare, registrare e internare.
In questo panorama di sigle, dichiarazioni, accordi, leggi prive di senso, facce feroci di ministri e migliaia di poveri annegati, spicca il sorriso vacuo di Renzi. Certo l’Italia non è più sola. È davvero in buona compagnia.
Le tre risposte alla hegeliana "morte di Dio", e la «quarte risposta, minoritaria ma forse più promettente»: quella su cui lavora Vito Mancuso, sulla via aperta da Teilhard de Chardin.
La Repubblica, 13 novembre 2015
Vito Mancuso, Dio e il suo destino, (Garzanti pagg. 464, euro 20)
Hegel ha scritto che il sentimento fondamentale dei tempi moderni è la morte di Dio. A questa diagnosi, ripetuta qualche decennio dopo da Nietzsche, filosofi e teologi hanno dato tre risposte principali. La prima è quella che chiamerei “ermeneutica”: Dio non è morto, ma semplicemente non è stato ancora interpretato per quello che è. La rivelazione è un processo che ha luogo nella storia e che chiede l’intervento attivo dell’uomo, in un processo di miglioramento storico.
La seconda è quella eroica: Dio è morto, dobbiamo attendere un oltreuomo che possa essere un nuovo dio. Purtroppo, se sul conto del vecchio Dio si possono mettere azioni discutibili, il nuovo Dio, come insegna la storia degli ultimi due secoli, non è piazzato meglio. La terza, meno sbandierata ma ben più praticata, è quella che direi “secolaristica”, e che è stata enunciata da Joseph de Maistre: la morte di Dio, quando pure avesse avuto luogo non comporterebbe nessuna conseguenza sul piano della fede e della religione, dal momento che Dio ha lasciato in eredità il proprio potere al Papa, che a questo punto è autorizzato a governare la chiesa in piena autonomia.
Resta una quarta risposta, minoritaria ma a mio avviso più promettente, seguita nella modernità da Schelling e in genere a tutti i filosofi che si sono accostati alla teologia con un atteggiamento naturalistico (ad esempio, Emerson) a cui si ricollega in maniera seria, profonda e autonoma Vito Mancuso in Dio e il suo destino, appena uscito da Garzanti (pagg. 464, euro 20). L’idea di fondo è che la rivelazione non ha avuto luogo un giorno, nella storia, ma è un processo continuo e non concluso. L’evoluzione ha dato vita a un mondo materiale che è insieme un mondo spirituale in cui ha luogo la manifestazione è l’azione di Dio, sicché tra evoluzione e rivelazione non c’è contrasto ma complementarità.
Il vecchio Dio (che Mancuso chiama “Deus”), il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma in buona parte anche di Cristo, non ha mantenuto le sue promesse, e si è presentato anzitutto come un Dio geloso, autoritario e vendicativo. Ha incarnato anzitutto il potere, e non ne sentiremo la nostalgia. E Dio, l’alternativa e il successore di Deus, com’è? Uno degli autori più presenti in Mancuso è Spinoza, e in effetti si sarebbe portati a pensare a una prospettiva panteistica, non troppo diversa, d’altra parte, da quella che Mancuso aveva proposto nel suo fortunatissimo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina 2007). Tuttavia, Mancuso caratterizza la propria posizione come “panenteismo”, che non è un refuso per “panteismo” ma piuttosto il modo in cui molti filosofi hanno evitato l’accusa di spinozismo, che ancora due secoli fa poteva procurare seri guai. Mentre il panteista identifica Dio e il mondo, il panenteista ritiene che il mondo sia incluso in Dio, che ne sia la forza animatrice.
Se il panteismo ha un modello meccanicistico, il panenteismo ha un modello biologistico, è, per così dire, una bioteologia, per la quale Dio è lo slancio vitale che pervade la natura. Il panenteismo di Mancuso deve molto all’evoluzionismo di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il gesuita, filosofo e scienziato francese già molto presente nella sua riflessione sul destino post mortem dell’anima. L’evoluzione non vale solo per la vita, vale per il cosmo intero considerato come un grande animale vivente (secondo l’intuizione di Platone), che si sviluppa a partire da un ricettacolo, la chora, lo spazio neutro da cui hanno origine tutte le cose, e che si presta facilmente a venire riletto in termini biologistici, giacché lo stesso Platone la definisce come “matrice”.
Il discorso fila. Richiamarsi a Dio, anzi, a Deus, non è far ricorso a un vecchio nome di cui si può fare a meno senza per questo escludere il divino? Persone che credevano che il mondo fosse non più vecchio di 6000 anni (era l’idea dominante ancora nell’Ottocento) e che non potessero nascere nuove specie (in gioco era la perfezione del piano divino), non potevano piegare l’esistenza di strutture complesse — fossero il mondo, la mente o il linguaggio — se non ricorrendo all’ipotesi di una creazione divina o di una costruzione concettuale, ossia, per parlare come de Maistre, di una “azione temporale della provvidenza”. È da questa penuria di tempo che deriva la concezione del sommo artigiano, del disegno intelligente. Ma se contiamo su un tempo infinitamente più lungo, sprofondato in quelle che Vico definiva “sterminate antichità”, tutto cambia. Perciò 13,7 miliardi di anni, il tempo che ci separa dalla nascita del tempo, sono più che sufficienti per rendere conto di tutto quello che è accaduto senza l’aiuto di Dio, né come inizio né come termine del processo evolutivo.
Se le cose stanno così, però, sorge un interrogativo molto semplice. C’è ancora bisogno di postulare l’intervento di un logos (o più modestamente di un senso qualsiasi) per rendere conto di un mondo che deve la sua emergenza — tra errori, incoerenze e mostruosità di ogni sorta — solo a una immane disponibilità di tempo, materia ed energia? È, ad esempio, l’idea del filosofo australiano Samuel Alexander (1859-1938) in un libro ai suoi tempi abbastanza famoso: Spazio, tempo e deità (1920). Alexander è considerato il padre dell’emergentismo, cioè di una concezione che Mancuso (a pag. 389) considera coerente con il suo panenteismo, e propone una potente visione cosmogonica, descrivendo uno sviluppo ascendente di livelli dell’essere che prende l’avvio dallo spaziotempo e ascende alla materia, all’organismo, all’uomo e a Dio, concepito come la totalità emergente del mondo.
La differenza tra una prospettiva emergentista radicale e il panenteismo di Mancuso è tutta qui. Per Mancuso tutto è in Dio, compresa l’emergenza del mondo (e, nel mondo, delle svariate idee che sono state formulate su Deus), ma allora abbiamo a che fare o con una riproposizione del Dio creatore, o con un Dio fannullone alla Wittgenstein, con un senso del mondo che è fuori del mondo e che dunque, propriamente, non esiste. Per l’emergentismo radicale, invece, Dio non è ancora, ma non è escluso che, come sono sorte le amebe, il calcolo differenziale e i quartetti di Beethoven venga un giorno in cui, magari tra milioni di anni, a esseri presumibilmente diversissimi da noi si presenti un Dio, «come se un Tu (scriveva Vittorio Sereni) dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti./ E quante lagrime e seme vanamente sparso».
Il caso del Portogallo è, insieme a quello della Grecia, molto utile per comprendere che cosa sta accadendo nel nostro subcontinente nel suo governo e nelle sue società. Nel male e nel bene. Intervista di Valeria Cirillo e Dario Guarascio a Francisco Louçã.
Sbilanciamoci.info, 12 novembre 2015
L’impasse politica che sta investendo il paese, il protagonismo del Presidente della Repubblica, il peso dell’austerità e dei vincoli europei. La crisi portoghese come paradigma del corto circuito tra rispetto del vincolo esterno e l’esercizio dei poteri democratici. Intervistiamo Francisco Louçã, economista dell’Università di Lisbona, ex parlamentare e membro del Blocco di Sinistra.
Cosa sta avvenendo in Portogallo e cosa ha di nuovo la situazione attuale?
La novità principale è rappresentata dal cambiamento dei rapporti di forza parlamentari dato dal fatto che il partito di estrema destra – che è stato al governo negli ultimi anni – ha perso oltre un milione di voti – all’incirca il 12% - ed è ora in minoranza in parlamento. E, a quanto pare, non è più nelle condizioni di governare. Questo ha condotto, per la prima volta in quaranta anni, ad una discussione politica tra il partito socialista – partito tradizionale e conforme all’europeismo per come esso è oggi concepito a Bruxelles – ed i partiti della sinistra (il Partito Comunista ed il Blocco di Sinistra). Una discussione per tentare di costruire un’alternativa all’austerità ed alle politiche messe in atto sino ad ora. E questa è una grossa novità.
Come crede reagiranno la Germania e l’Europa di fronte alla possibilità che il Portogallo si doti di un governo contrario al proseguimento dell’agenda dell’austerità?
Wolfgang Schauble e Angela Merkel saranno più cauti questa volta perché vorranno sicuramente evitare un altro caso greco. Anche perché il governo che potrebbe emergere dall’accordo tra i socialisti portoghesi e la sinistra, e questo è importante sottolinearlo, sarebbe decisamente più moderato rispetto a quelli che erano i propositi del primo governo Syriza. Si tratterebbe di un governo principalmente incaricato di assumere delle misure emergenziali tese ad alleviare le sofferenze più acute degli strati bassi della popolazione. Per una questione di realismo politico, la Germania non ha intenzione di scatenare un nuovo conflitto. Credo che accetterebbe di confrontarsi con un governo di tipo socialdemocratico tanto più che non si tratterebbe di un governo di sinistra analogo al primo governo Tsipras. In ogni caso cercheranno, per quanto gli è possibile, di evitare che un tale governo possa nascere continuando a sostenere la necessità di una coalizione unitaria tra centro-destra e centro-sinistra.
Che forme e che intensità stanno assumendo le pressioni esterne sulla dinamica politica portoghese? Vi sono ingerenze analoghe a quelle andate in scena in Grecia durante le fasi più dure del confronto tra Tsipras e la Troika?
Ci sono ingerenze molto forti, ma non siamo ai livelli raggiunti in Grecia. Non abbiamo un intervento di destabilizzazione del sistema bancario ad opera della BCE come quello visto nel paese ellenico. Tuttavia, le pressioni ci sono e sono tutt’altro che nascoste dal momento che la Commissione Europea sta formalmente intimando a al futuro governo – di qualunque governo si dovesse trattare – di non azzardarsi a deviare dal programma prestabilito. Un programma che ha al suo centro una profonda riforma del sistema pensionistico ed un vastissimo piano di privatizzazioni che, tuttavia, non saranno attuabili nei termini indicati da Bruxelles nel caso la coalizione con la sinistra andasse al governo.
Come spiega, in un tale contesto, la scarsa intensità della reazione popolare e, più in generale, del conflitto sociale?
Fino ad ora, l’unica area politica che sta cercando di mobilitare la propria base è la destra. Tuttavia, la manifestazione andata in scena qualche giorno fa per dare sostegno al premier uscente ha visto una bassissima partecipazione. Meno di un migliaio di persone. Per quanto riguarda l’assenza di mobilitazioni popolari, penso che ci siano due spiegazioni fondamentali. In primo luogo, la situazione non è ancora chiara e le persone sono in attesa per comprendere cosa accadrà nelle prossime settimane. Inoltre, la struttura sociale è cambiata molto durante gli anni della Troika e questo ha avuto effetti anche sulla struttura e le dinamiche sociali. La percentuale di coloro che sono coperti da un contratto collettivo di lavoro è, dopo cinque anni di austerità e di riforme strutturali, precipitato ad un livello pari al 5% della forza lavoro totale. Questi lavoratori spesso scelgono di non prendere parte alle mobilitazioni per paura di essere licenziati. Le persone sono molto spaventate, e questa è, dal mio punto di vista, la principale spiegazione dell’assenza di mobilitazioni di massa contro l’austerità. Le persone sono spaventate dal rischio di rimanere senza lavoro.
Pensando a quanto è accaduto la scorsa estate in Grecia ed all’attuale crisi politica portoghese - con il ruolo anomalo esercitato dal Presidente della Repubblica il quale è parso negare la legittimità costituzionale ai partiti che non intendessero riconoscere la primazia degli attuali principi europei, e cioè dei principi dell’austerità - come vede la relazione, sempre più complicata, tra l’Europa e l’esercizio delle prerogative democratiche negli stati membri?
È una questione complicata. Per essere concreti, io penso che l’Europa abbia assunto una configurazione tale per cui al suo interno i governi non possono far altro che imporre austerità, vivendo perennemente nelle condizioni di debitori in difficoltà. Si tratta di un sistema che genera, in modo quasi naturale, politiche di destra e profonde restrizioni degli spazi di democrazia. Lo spettro delle scelte politiche – e in particolar modo delle scelte di politica economica – è fortemente ridotto dai vincoli di bilancio, dall’euro, dall’orientamento dell’OECD e delle altre istituzioni sovranazionali, dal dominio della Germania in Europa – con ciò che questo significa dal punto di vista del comportamento della borghesia europea. Tutti questi elementi stanno agendo in modo combinato contribuendo a produrre una progressiva riduzione della democrazia e della libertà di scelta politica dei popoli europei.
Che ruolo possono giocare, in questo quadro, le costituzioni nazionali? La difesa della democrazia potrebbe passare dalla difesa delle costituzioni nazionali e, in particolare, delle parti delle stesse che riguardano la tutela e l’esercizio dei diritti sociali?
Le costituzioni dei vari stati membri sono molto diverse tra loro. Tuttavia, nel caso portoghese, si tratta di una costituzione relativamente giovane, promulgata subito dopo la rivoluzione e caratterizzata da un forte progressismo. Anche quando è stata in minoranza in parlamento, ad esempio, la sinistra ha potuto sbarrare la strada alle misure maggiormente antipopolari derivanti dai pacchetti di austerità appellandosi alla Corte Costituzionale e sfruttando la forza della Costituzione nazionale. Io penso che questo sia un punto centrale. La costituzione è legata in modo decisivo alle prerogative popolari ed all’esercizio della sovranità. Non vi può essere democrazia senza sovranità. Senza la libertà, da parte del popolo, di assumere posizioni e decisioni politiche che possano anche contrastare con la visione dominante. Difendere tali spazi di democrazia e di sovranità popolare è l’unica strada per combattere la xenophobia, il razzismo e le misure antipopolari e antidemocratiche che sono nell’agenda delle destre. E per combattere a difesa degli interessi di chi è oggi si trova al fondo della scala sociale.