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. L’“io” e il “noi” si comprendono in una concezione dell’io che nutre il noi e viceversa: la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale; all’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà». La Repubblica, 26 novembre 2015

“Il diritto della libertà” di Axel Honneth tratta un tema mai esaurito o esauribile una volta per tutte. La prospettiva è la libertà sociale, formula nella quale l’aggettivo esprime in sintesi l’idea capitale attorno alla quale ruotano le quasi seicento pagine che si offrono oggi al pubblico di lingua italiana. La materia — filosofica, giuridica, sociologica — trattata è grande ma la struttura della trattazione è assai semplice. La si può dividere in due parti: “l’io della libertà”, la prima; “il noi della libertà”, la seconda. L’“io” e il “noi” si comprendono in una concezione dell’io che nutre il noi e viceversa: la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale; all’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà. Nel titolo di un suo libro del 2010, Axel Honneth aveva usato, per esprimere in sintesi questo doppio lato della libertà, la formula Das Ich im Wir: un’espressione che già a prima vista si distingue dalle tante teorizzazioni del rapporto di riconoscimento dell’Io a fronte del Tu.

La formula, come vedremo, potrebbe essere rovesciata in Das Wir im Ich. Sciogliendo questi motti, si può dire così: l’asse portante è che la libertà singolare non può esistere se non in connessione con la libertà plurale e che, viceversa, la libertà plurale non può dividersi da quella singolare. Dire connessione, però, è dire troppo poco. Bisogna dire, piuttosto, intrinseco rapporto di mutua penetrazione e fecondazione, in un equilibrio difficile. La preponderanza dell’aspetto soggettivo condurrebbe, infatti, a una concezione individualistica della libertà, che Honneth respinge, così come la preponderanza dell’aspetto oggettivo, nei termini hegeliani dello “spirito oggettivo”, cioè della realtà sociale storicamente determinata, condurrebbe a una sorta di olismo, ch’egli ugualmente respinge, pur ponendosi dichiaratamente, sia pure criticamente, entro un’interpretazione della Filosofia del diritto di Hegel.

Tra la prima e la seconda parte del libro — dedicate, rispettivamente, alla trattazione di concetti e alla loro verifica storico- empirica — sono collocate — sotto il titolo La possibilità della libertà — due sezioni che costituiscono, per così dire, un “a parte” e potrebbero stare in piedi anche autonomamente. Sono dedicate al Daseingrund (termine qui tradotto con “ragion d’essere”, dove l’essere è piuttosto un “esserci”, cioè non un’astrazione ma una collocazione storico- concreta) della libertà giuridica e della libertà morale. Si tratta, per così dire, di due moniti contro l’estremizzazione: il giuridicismo e il moralismo, due fonti di pericolo per la convivenza sociale.

Questi due capitoli rappresentano la cerniera tra la prima parte, d’impostazione filosofica, e la seconda parte d’impostazione sociologica. In queste due parti si traduce la doppia faccia di un libro che, partendo dalle definizioni, giunge all’immersione nelle condizioni delle società in cui viviamo e nelle contraddizioni da cui sono segnate, rispetto alla libertà. La parte filosofica contiene principi normativi: dai concetti, si traggono inclusioni ed esclusioni prescrittive teoriche; la parte pratica contiene verifiche circa le potenzialità e le difficoltà d’inveramento della libertà nelle strutture sociali del nostro tempo. Non, però, come separazione e contrapposizione astratte tra dover essere ed essere, ma come ricerca delle condizioni pratiche di vita di società libere: una ricerca dalle conclusioni piuttosto sconfortanti.

La libertà non è districabile dalla giustizia. Giustizia, nel nostro tempo (la “modernità”), equivale a garanzia di autodeterminazione. Nel nostro tempo: date le premesse assunte, che l’Autore definisce non-kantiane, la giustizia non appartiene al puro ideale, alle formule evanescenti come quella che la identifica con la generalizzabilità delle “massime” delle proprie azioni, ma è un dato storico-sociale. La giustizia come autodeterminazione è lontanissima da quella che tale si considerava nell’antichità, obbiettiva, organica, sovra-individuale, obbligante. La giustizia, per noi, al contrario è “liberatrice”, ma con un vincolo: la “riproducibilità sociale”. Questo concetto, che rappresenta il cavallo di battaglia della sociologia, è assunto qui come qualcosa di simile a un imperativo categorico.

L’autonomia che la compromette non è giustizia, ma corruzione della giustizia.(...) Il primo stadio della libertà è quello negativo, l’assenza di costrizioni esterne. La più semplice, elementare e intuitiva definizione è l’assenza di impedimenti. È la definizione di Thomas Hobbes, risalente al tempo della guerra civile di religione: «Libero è colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fare ciò che ha volontà di fare». (...) Non ci si può fermare qui. Essere liberi nel corpo e nelle azioni, ma schiavi delle proprie passioni irrazionali e dei propri errori, è ancora libertà? Questa è la domanda di Rousseau, che pone la libertà nell’obbedienza alla legge che ogni singolo dà davvero a se stesso, cioè nell’autonomia.

Questo principio sta alla base tanto della libertà del singolo quanto della libertà della società tutta intera. Come la libertà negativa implica la ripulsa delle costrizioni fisiche, così la libertà come autodeterminazione — che l’autore del libro chiama «riflessiva » — esige la purificazione dalle costrizioni morali che inquinano la retta (cioè non perturbata da vizi, passioni, errori) formazione della coscienza. Si tratta, dunque, della sovranità morale rispetto alle pressioni dell’“ambiente” che, con i suoi pregiudizi, le sue lusinghe, le sue seduzioni, i suoi inganni altera la percezione del sé e, alla fine, svuota la libertà del suo contenuto d’autonomia e lo riempie di forze psichiche eteronome. (...) La libertà «sociale» di cui Honneth tratta non è un’alternativa rispetto alle altre due concezioni della libertà. È piuttosto il prolungamento, o l’implicazione necessaria, della libertà riflessiva, così come quest’ultima è lo sviluppo della libertà negativa.

A essere prese in considerazione sono le condizioni istituzionali della libertà, intese non come aggiunte esteriori, ma come necessità intrinseche al suo concetto. Su questo punto si insiste particolarmente, allo scopo — anche — di prendere le distanze, differenziandosene, dalle concezioni della democrazia discorsive nelle quali l’aspetto istituzionale, secondo l’Autore, è concepito come condizione esteriore della libertà. È l’occasione, per Honneth, per prendere qualche distanza da Habermas, il suo predecessore alla direzione dell’Institut francofortese per la ricerca sociale. La teoria del discorso di Habermas, in quanto teoria, rimarrebbe, secondo Honneth, in una sfera di astrattezza; l’intersoggettività, che ne è il nucleo essenziale, resterebbe confinato in un a priori incapace di tradursi in idea politico- sociale concreta, alias “istituzionale”, di libertà.

In altri termini, le istituzioni sarebbero il governo esteriore arbitrale del gioco degli intenti in campo, e l’obiettivo di formulare un’idea di libertà tale da incorporare la dimensione relazionale, intersoggettiva e quindi sociale, sarebbe mancato. (...) Non c’è bisogno di richiamare la letteratura sociologica e psicologica che mette in luce il lato repressivo delle istituzioni e di ogni “istituzionalizzazione” dei comportamenti individuali e collettivi. La libertà consisterebbe, secondo questo punto di vista, nella de-istituzionalizzazione o, comunque, nell’assenza di predeterminazioni istituzionalizzate. Il contrario della visione di Honneth, il quale pone precisamente nell’istituzione la possibilità di libertà. Le istituzioni non sono sorte, necessariamente, per reprimere, ma anche per promuovere la libertà: la libertà concreta, realistica, non velleitaria o puramente agitatoria.

L’esercizio della libertà che non riesce a farsi istituzione”, secondo questa visione sociale della libertà, è sterile. (...) Nelle prime pagine di questo libro si spiega come la libertà sia il tratto caratteristico della modernità, lo shibolet per poter prendere parte al discorso politico moderno. Ma proprio questo libro rafforza la comune consapevolezza della plurivocità della parola, dell’esistenza di numerose concezioni del concetto; il lettore è come condotto per mano, sempre in nome della libertà, anzi della libertà al suo più alto grado, a salire fino a un colmo che sta sul crinale dell’ambiguità: l’ambiguità che connota il concetto di istituzione e, così, anche la immedesimazione istituzionalizzata della libertà degli uni nella libertà di tutti: l’eterno problema dell’equilibrio tra gli uni e i tutti.

Un'intelligente analisi di ciò che si muove sul teatrino della politica italiana, tra destra, "sinistra" e il rampante M5S. Con due commenti in postilla. La Repubblica, 25 novembre 2015

LA FORBICE tra Pd e Movimento 5Stelle si restringe. Come ha evidenziato Ilvo Diamanti, in un eventuale ballottaggio, la vittoria dell’uno o dell’altro dipende dallo spostamento di appena un 2% di elettori. Come è possibile che il partito fondato da Beppe Grillo abbia guadagnato tanti consensi da sfiorare la maggioranza assoluta, e sia considerato una vera alternativa di governo?

L’avanzata grillina dipende tra tre fattori che si intersecano. Il primo riguarda la debolezza dell’offerta politica di destra. Il declino di Berlusconi, unito all’ascesa di un personaggio irruento e tranchant come Salvini, disorientano l’elettorato moderato- conservatore. Di fronte alla ripetitività di slogan vecchi vent’anni da parte del Cavaliere e di dichiarazioni reboanti quanto irrealistiche e velleitarie da parte del leader leghista, gli elettori orientati a destra tenderanno ad astenersi. Non tutti, ovviamente, ma una certa quota rimarrà alla finestra per vedere se si ripresenta una offerta politica degna di interesse ( e del loro voto). Quindi esiste oggi un elettorato fluttuante in cerca di casa. Matteo Renzi ha puntato molto sullo scongelamento del blocco moderato ma ha dimenticato l’ostilità profonda, prodotta da vent’anni di scontri all’arma bianca, che il mondo di destra nutre nei confronti della sinistra. E Renzi è il leader del più grande partito della sinistra italiana, piaccia o non piaccia ai dissidenti e scissionisti vari. Il segretario democrat si è sempre proclamato membro della famiglia socialista e appartenente al mondo della sinistra tanto da portare il partito ad aderire al Pse. Agli occhi di grandissima parte dell’elettorato moderato continua ad essere l’avversario di sempre. La rottamazione, la rottura dei tabù della sinistra storica, un certo adeguamento a idee e proposte di stampo neoconservatore, non bastano a smuovere coloro che si sono attestati da sempre sull’altra sponda.

L’obiettivo strategico di Renzi — attrarre gli elettori del fronte avversario — rischia quindi di infrangersi contro l’indisponibilità a muoversi dei moderati. Anche perché molti di quelli che vengono definiti moderati in realtà non lo sono per nulla: oltre ad essere animati da una avversione radicale nei confronti della sinistra, sono anche attraversati da pulsioni anti- istituzionali e da un sentimento di estraneità e alterità rispetto al sistema. Non altrimenti si spiegherebbe l’impennata di consensi ad un capopopolo come Salvini. Allora è possibile che questo elettorato senta più vicino un partito come i 5Stelle, fuori dagli schemi e contro tutto. E questo è il secondo punto: la capacità del M5S di attrarre consensi da ogni parte, anche da destra.

Ma c’è un terzo aspetto che può costituire il vero salto di qualità del partito di Grillo: propio il fatto che non è più il partito di Grillo. La cancellazione del suo nome dal simbolo può essere semplice cosmesi, ma può anche indicare il passaggio verso una vera e propria istituzionalizzazione, in cui le sorti del partito non dipendono più dal capo bensì emergono da un processo decisionale interno più complesso e articolato, animato da vari leader. Questa trasformazione non è senza costi, però. Dato che lo porterà ad essere più simile ad un partito tradizionale scontenterà il suo elettorato più arrabbiato e antipolitico. Ma nello scontro finale con il Pd anche costoro finiranno per scegliere il “ movimento”. Così come faranno quelli di destra, in odio alla sinistra.

Infine, il M5S gode di un vantaggio inarrivabile rispetto agli avversari su temi che coinvolgono molto i cittadini ( al di là del picco di questi giorni sulla sicurezza, destinato a calare passata l’emozione): l’onestà e l’affidabilità della classe politica. Su questo il M5S non teme confronti: la destra ha uno strascico infinito di guai con la giustizia da non essere nemmeno presa in considerazione, e il Pd ha molti fronti aperti e sta pasticciando troppo ( a partire dal caso De Luca) per ergersi in autorità morale.

L’indisponibilità degli elettori di destra a votare per il Pd nonostante Renzi, pur di attrarli, abbia scontentato una parte suo elettorato tradizionale, e la capacità di un M5S istituzionalizzato di intercettare domande pressanti e ampiamente condivise sulla legalità e l’onestà, rendono lo “ scontro finale” tra Partito democratico e Movimento 5 stelle molto più incerto del passato.


Due commenti all'intelligente (come al solito) contributo di Ignazi. (1) È proprio vero che nei discorsi correnti le etichette prevalgono sulle idee, e le apparenze (o meglio, i camuffamenti) sulla realtà. È proprio giusto parlare di "teatrino della politica", se dove si parla di politica, anche da pulpiti egregi, Matteo Renzi può ancora essere considerato uomo di sinistra. Non si comprende che cosa debba ancora fare per apparire agli elettori di destra come un personaggio affidabile, dopo tutto ciò che ha fatto "di destra". (2) Non stupisce tanto, ahimè, che dallo scenario disegnato da Ignazi manchi del tutto una sinistra "vera". Infatti quella di cui danno conto le cronache (e che si manifesta nel "teatrino") è la sinistra dilaniata tra personalismi, interessi di poltrona, rancori, fedeltà a rassicuranti gusci, o quella incerta, dubbiosa, ambigua che "turbila e non appare".

il diritto all’esistenza della stessa natura umana». Il manifesto, 25 novembre 2015

Il papa va a Bangui ad aprire l’anno santo della misericordia e siccome le grandi idee hanno bisogno di simboli concreti il papa, per significare l’ingresso in questo anno di misericordia, aprirà una porta.

Ma per lo stupore di tutte le generazioni che si sono succedute dal giubileo di Bonifacio VIII ad oggi, la porta che aprirà non sarà la porta «santa» della basilica di san Pietro, ma la porta della cattedrale di Bangui, il posto, ai nostri appannati occhi occidentali, più povero, più derelitto e più pericoloso della terra.

Ma si tratta non solo di cominciare un anno di misericordia. Che ce ne facciamo di un anno solo in cui ritorni la pietà? Quello che il papa vuol fare, da quando ha messo piede sulla soglia di Pietro, è di aprire un’età della misericordia, cioè di prendere atto che un’epoca è finita e un’altra deve cominciare. Perché, come accadde dopo l’altra guerra mondiale e la Shoà, e Hiroshima e Nagasaki, abbiamo toccato con mano che senza misericordia il mondo non può continuare, anzi, come ha detto in termini laici papa Francesco all’assemblea generale dell’Onu, è compromesso «il diritto all’esistenza della stessa natura umana». Il diritto!

Di fronte alla gravità di questo compito, si vede tutta la futilità di quelli che dicono che, per via del terrorismo, il papa dovrebbe rinunziare ad andare in Africa («dove sono i leoni» come dicevano senza curarsi di riconoscere alcun altra identità le antiche carte geografiche europee) e addirittura dovrebbe revocare l’indizione del giubileo, per non dare altri grattacapi al povero Alfano.

Ma il papa, che ha come compito peculiare del suo ministero evangelico di «aprire la vista ai ciechi», ci ha spiegato che il vero mostro che ci sfida, che è «maledetto», non è il terrorismo, ma è la guerra. Il terrorismo è il figlio della guerra e non se ne può venire a capo finché la guerra non sia soppressa. La guerra si fa con le bombe, il terrorismo con le cinture esplosive. Non c’è più proporzione, c’è una totale asimmetria, le portaerei e i droni non possono farci niente. Possiamo nei bla bla televisivi o governativi fare affidamento sull’«intelligence», ma si è già visto che è una bella illusione.

Questo vuol dire che per battere il terrorismo occorre di nuovo ripudiare quella guerra di cui, dal primo conflitto del Golfo in poi, l’Occidente si è riappropriato mettendola al servizio della sua idea del mercato globale, e che da allora ha provocato tormenti senza fine, ha distrutto popoli e ordinamenti, suscitato torture e vendette, inventato fondamentalismi e trasformato atei e non credenti in terroristi di Dio.

E che cosa è rimasto di tutte queste guerre?, ha chiesto il papa nella sua omelia del 19 novembre, la prima dopo le stragi di Parigi. Sono rimaste «rovine, migliaia di bambini senza educazione, tanti morti innocenti: tanti! E tanti soldi nelle tasche dei trafficanti di armi»; ed è rimasto che perfino le luci, le feste, gli alberi luminosi, anche i presepi del Natale che ci apprestiamo a celebrare, sarà «tutto truccato».

E’ rimasto il grande movente della guerra e l’inesauribile riserva del terrorismo: il commercio delle armi, sia per incrementare le ricchezze private che per migliorare un po’ i bilanci pubblici. «Facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’ – ha ironizzato papa Francesco – e andiamo avanti con il nostro interesse».

Rendiamo le armi beni illegittimi se non per le legittime esigenze di difesa di Stati sovrani, disarmiamo il dominio, l’oppressione, l’ingiustizia, l’ineguaglianza, la discriminazione e finiranno non solo le guerre ma finirà anche il mondo di guerra «questo mondo che non è un operatore di pace», e così anche il terrorismo si inaridirà e diverrà sempre più residuale.

E se decideremo di smetterla con i bombardamenti e la guerra, potremo promuovere una vera operazione di polizia internazionale, non solo autorizzata, ma eseguita dall’Onu, e non sotto un comando nazionale, per ristabilire il diritto nelle terre devastate dall’Isis e dunque ripristinare l’integrità territoriale dell’Iraq e della Siria, lasciando ai siriani di decidere cosa fare con Assad.

Il papa aveva detto, già dopo Charlie Hebdo, tornando dalla Corea del Sud, che «l’aggressore ingiusto ha il diritto di essere fermato, perché non faccia del male». Non è solo nostro dovere è suo diritto; e anche i giovani estremisti che vengono reclutati per andare in Siria a indottrinarsi e poi tornare in Europa a suicidarsi hanno il diritto di essere salvati da noi e di non avere alcuna Siria in cui andare a buttare la vita.

Questo è ciò che richiede il diritto internazionale se finalmente si darà attuazione al capitolo VII della Carta dell’Onu, ed è la cosa più «nonviolenta» che si può fare per neutralizzare e battere l’Isis.
Comunicato stampa de "l'Altra Europa con Tsipras", dopo un altro passo dell'escalation bellica. 24 novembre 2015

Il salto di gravità dell’offensiva terroristica guidata dall’Isis continua a dare i suoi terribili frutti velenosi.

Oltre a spingere la Francia verso l’instaurazione di uno stato di emergenza che porta alla sospensione dei diritti civili e verso logiche di coinvolgimento degli altri paesi europei in atti di guerra, con il beneplacito formale degli organi della Ue, scatena antichi contrasti, rivalità e regolamenti di conti.

Il governo turco - che ha finora utilizzato la guerra al terrorismo per farla contro i Curdi che si battono contro l'Isis difendendo loro territori che la comunità internazionale continua a negargli, riconquistando città e posizioni che sembravano perse - ha deciso con un atto di guerra vero e proprio di abbattere un aereo russo.

Non si tratta qui di disputare di quanto e se il velivolo russo abbia violato lo spazio aereo turco. Si tratta di fermare una spirale che ci può portare verso il baratro di una guerra generale. La Turchia ha chiesto la convocazione immediata del Consiglio della Nato Nord. Dal canto suo Putin reagisce parlando di crimine e di conseguenze tragiche.

Chiediamo che l’Onu si occupi immediatamente della questione per fermare il crescendo dello scontro e le sue possibili ripercussioni militari su larga scala. L’Unione europea è chiamata direttamente in causa e deve svolgere finalmente un’iniziativa di pacificazione. Altrimenti assisteremo al trionfo contemporaneo delle strategie terroristiche e di guerra secondo una spirale che ben conosciamo e che ha già portato milioni di morti dalla prima guerra del Golfo, passando per la guerra in Afghanistan, in Iraq, in Libia, fino alla tragedia siriana.

Un contributo decisivo deve e può giungere dai popoli di tutto il mondo, dai movimenti per la pace, da parte di tutti coloro che sono contro il terrorismo e la guerra, due aspetti della stessa barbarie.

Dopo Parigi, l’Europa blinda le frontiere. I volontari della rotta balcanica dei migranti invece propongono una giornata europea di azione il 18 dicembre per «aprire le porte».

Una mobilitazione unitaria per dimostrare che c’è un modo diverso per sconfiggere la paura: togliere muri e barriere. Ai confini, nelle comunità, nelle nostre teste. Come hanno fatto i parigini la notte dell’attacco, accogliendo in casa chi scappava. E chi questa estate ha aperto le case e le auto ai migranti.

Parigi ha dato all’Europa la scusa per completare la blindatura delle frontiere, attuando decisioni prese ben prima dell’attacco. E per chiudere l’eccezione della rotta nei Balcani. La rotta balcanica non è stata un regalo della Merkel. E’ stata conquistata dalla marcia dei migranti, la più grande azione di disobbedienza civile nonviolenta in Europa da decenni. E’ stata sostenuta da un movimento nuovo e davvero europeo, capace di stare per mesi sul campo e di trarre dal volontariato forza e credibilità per l’azione politica.

Da questo movimento arriva il grido di allarme: reagire all’attacco di Parigi con la guerra, la militarizzazione, la chiusura delle frontiere, la limitazione delle libertà civili e democratiche è un regalo alla destra estrema. Che è in testa ai sondaggi in Francia, ha conquistato anche la Polonia, e si sente più forte - mentre ogni notte nell’Europa del nord viene dato alle fiamme un alloggio di migranti.

Non è tema per gli addetti antirazzisti, dicono i volontari dei Balcani. Riguarda tutti e tutte. Il rischio di una Europa che reagisce agli attacchi oscurantisti divenTando sempre più nera e forte. Il lusso della frammentazione non è più permesso, bisogna provare a unificare le lotte.

I diritti dei migranti, la pace e la giustizia sociale sono facce della stessa medaglia, visto che l’insicurezza sociale e l’ingiustizia globale alimentano l’ostilità verso lo straniero.

Il testo dell’appello per la proposta di giornata di mobilitazione in tutta Europa è molto breve.

«Attivisti greci, turchi, dei Balcani occidentali e di tutta Europa impegnati sulle rotte dei migranti si sono incontrati a Salonicco. E propongono a tutte le persone, i movimenti, le organizzazioni sociali, i sindacati che non vogliono vivere in un’Europa e in un mondo oscuro, ingiusto e antidemocratico di mobilitarsi e agire il 18 dicembre. “No ai muri. apriamo le porte”. Pace, democrazia, giustizia sociale, dignità per tutti e tutte».

L’appello arriva da Salonicco, dove si è appena concluso un incontro organizzato per mettere in comunicazione i volontari della rotta balcanica, il movimento dei convogli da Austria e Germania con attivisti su altre rotte, organizzazioni di diversi paesi e numerose reti europee.

Doveva essere un momento di interscambio sui temi della accoglienza, fra movimenti nuovi e organizzazioni attive da tanti anni. Si è svolto nei giorni in cui a Idomeni la Macedonia ha iniziato a bloccare migliaia di persone, mentre agli abitanti di Bruxelles era vietato uscire di casa.

Quando per Madrid venne il tempo del terrore, in una sola notte un grande movimento rese chiaro che sulle risposte al terrorismo non ci sono larghe intese securitarie ma due campi opposti, quello della pace e quello della guerra. Anche oggi c’è bisogno di una risposta forte e popolare, visibile abbastanza da strappare le persone dalle lusinghe della destra e di dare coraggio agli europei buoni.

In questi giorni le manifestazioni previste per la giustizia climatica, aggiornate ai drammi di oggi, possono fare la differenza. Poi, insieme, confidiamo di riuscire a fare un 18 dicembre all’altezza della sfida. Le porte sono aperte.

Sono riusciti nel loro intento i terroristi del 13 novembre se riescono a instaurare in Europa un regime quale quello che Hollande ha instaurato in Francia, Nasce il sospetto che il mandante non sia in Siria.

Il manifesto, 24 novembre 2015

Dopo Parigi, le strade deserte di Bruxelles ci pongono con drammatica evidenza la domanda se la libertà sia un giusto prezzo per la sicurezza.

La Francia ha affrontato la questione con la legge 2015–1501 del 20 novembre, che ha approvato la proroga dello stato di emergenza dichiarato dal governo il 14 novembre, con modifiche e integrazioni («renforçant l’efficacité») della legge 55–385 del 1955 che disciplina lo stato di emergenza.

Per tre mesi si applicano pesanti limitazioni ai diritti e alle libertà, con provvedimenti adottati dalle autorità amministrative e senza intervento del giudice. Fa impressione che in forza di generici richiami all’ordine pubblico e alla sicurezza ministro dell’interno e prefetti possano disporre domicili coatti, arresti domiciliari, accompagnamenti, divieti di contatto con persone individuate, ritiro del passaporto, divieti di circolazione, di assemblea, di riunione, scioglimenti di associazioni (misura che sopravvive alla cessazione dell’emergenza).

Si può dubitare che un arsenale così imponente sia conforme alla Costituzione. Ma era già presente nella originaria legge del 1955, e nel 1985 fu portato al vaglio del Conseil constitutionnel dai parlamentari dell’opposizione, con la legge di proroga dello stato di emergenza dichiarato per la Nuova Caledonia. Si eccepiva la mancanza di un fondamento costituzionale, richiamando la Costituzione solo lo stato d’assedio. Con la decisione 85–187 DC del 25.01.1985 il Conseil diede disco verde con ampia formula.

Oggi si aggiunge la possibilità di perquisizioni a qualunque ora del giorno o della notte in ogni luogo, incluso il domicilio, quando esistono «ragioni serie di pensare che il luogo sia frequentato da persona il cui comportamento costituisce una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico» (art. 11, come modificato).

Per vedersi invasi, potrebbe bastare un amico di famiglia in contatto epistolare o sui social con persona sospetta. Rimangono esclusi solo i luoghi «affecté à l’exercice» di un mandato parlamentare, o dell’attività professionale di avvocati, magistrati e giornalisti. La perquisizione consente la copia integrale delle memorie di cellulari, computer e apparecchi connessi, anche in remoto.

È una previsione da grande fratello. Ma è improbabile che ne venga rovesciato il giudizio di conformità dato dal Conseil nel 1985, se vi si giungerà.

In apparente controtendenza è la soppressione dei controlli sulla stampa e l’informazione previsti nella legge 55–385.

Ma si cancella uno strumento perché non serve. La voce dei terroristi passa oggi non per i tradizionali mezzi di comunicazione ma per i più sofisticati strumenti tecnologici e del mondo virtuale. E la Francia del dopo Charlie Hebdo ha già adottato sull’informazione la legge 912 del 24 luglio 2015, fortemente restrittiva. Si va dai dispositivi di ascolto, alla vigilanza e chiusura di siti Internet, alla installazione presso i gestori di «scatole nere» che filtrano ogni comunicazione.

Anche qui, senza intervento del giudice.

Una legge volta non solo a combattere il terrorismo, ma a tutelare un ampio spettro di interessi strategici (v. art. 2). Solo per pochi limitati profili il Conseil constitutionnel ne ha dichiarato l’incostituzionalità (dec. 2015–713 DC del 23.07.2015). Mentre sono risuonate dure accuse di spionaggio di massa sul modello «Patriot Act» e NSA, e di radicale incostituzionalità.

Deve far riflettere che invece la legge sull’emergenza passi oggi nel sostanziale silenzio di critiche e dissensi e con ampio favore dell’opinione pubblica. Su tutto vince la domanda di sicurezza.

Un vento analogo soffia in Italia. Nei sondaggi cresce il numero di chi accetterebbe uno scambio tra diritti e sicurezza. È una tendenza comprensibile, ma pericolosa. Tutti affermano di voler mantenere il nostro modello di vita. Ma la garanzia di diritti e libertà è la rete invisibile che rende quel modello possibile e vitale.

Sappiamo che nessuno è a rischio zero.

Ma dobbiamo dire con forza che in Italia una legge come quella francese sull’emergenza sarebbe incostituzionale. Ne verrebbero violate la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Garanzie essenziali per cui i poteri del governo e delle autorità amministrative rimangono in ogni caso precisamente limitati, sia nel formulare le regole, sia nell’applicarle.

Deve essere l’assemblea elettiva a consentire alle limitazioni di libertà e diritti; dev’essere il giudice – autonomo, indipendente, imparziale — a valutare i concreti provvedimenti limitativi.

Questo discrimine costituzionale tra legalità e arbitrio va mantenuto. Si può – e dunque si deve — rispettarlo senza affatto sminuire l’efficacia dell’intelligence.

La storia del nostro paese ha già conosciuto tensioni su diritti e libertà. Per le leggi sul terrorismo interno, sulle misure di prevenzione, sulla violenza negli stadi. La Corte costituzionale ha complessivamente assolto la legislazione, e si può dire che ha tenuto ferma la barra del timone. Dobbiamo rimanere in rotta.

Per tre mesi la Francia è un paese sotto tutela. Un paese di sospettati. Poi si vedrà. In Assemblea Nazionale è stato suggerito che il régime d’exception diventi un droit commun: un diritto ordinario dell’emergenza, perché la minaccia durerà oltre il termine della proroga concessa. È molto probabile.

Ma non dimentichiamo che può essere facile assuefarsi a un regime di semilibertà.

Per far vincere l'alleanza tra il terrorismo jihadista e il rigurgito neonazista non c'è di meglio che mescolare nella mistificazione dei racconti gli scherani del Daesh con il popolo dell'Esodo.

La Repubblica, 24 novembre 2015

Secondo l’Is 4000 jihadisti stanno entrando in Europa assieme ai rifugiati. Quattromila carnefici in cammino con le vittime. È un’immagine biblica sulla quale mi permetto di esprimere dei dubbi. Finora si sa solo di un passaporto siriano fra gli attentatori di Parigi. Ma soprattutto: i carnefici hanno davvero bisogno di camminare coi profughi? Hanno modi più spicci per arrivare. Abitano in casa nostra. Sono frutto del nostro mondo. Ci conoscono meglio di quanto noi conosciamo loro. Usano Twitter e Facebook. Ci fanno credere quello che vogliono. Vogliono sollevare odio verso gli inermi e creare un clima da pogrom. E le nostre destre populiste, dalla Francia alla Polonia fanno da docili agenti dei loro veleni.

Essi vogliono che l’Europa si riempia di reticolati e sbatta la porta in faccia agli esiliati, la cui fuga incarna la sconfitta totale della loro cultura di morte. Se succederà, avranno vinto loro. Essi vogliono che noi ci si chiuda, invece di intervenire sul campo a difesa degli inermi in Medio Oriente. Ci illudono di poter rispondere ancora con i missili, perché sanno che i missili fanno vittime civili (distruzione della base di Médecins sans frontières) e alimentano altri rancori. Ma ecco che la reazione della Francia all’attacco su Parigi è iniziata proprio con bombe a distanza. “Raid” contro il cervello dell’Is. Il che pone una domanda collaterale. Se si sapeva dov’era quel cervello, perché non si è intervenuto prima? Quali sono le tempistiche della nostra reazione? Militari o elettorali?

Da camminatore, oso dire che le guerre non si vincono con i droni ma con le scarpe, scendendo in campo. Quando, lungo la via Appia, ho chiesto a un vecchio contadino pugliese se facevo bene ad andare a piedi, costui mi ha risposto che facevo “bene eccome”, e mi ha spiegato che il disordine mondiale, così come la criminalità, nasceva dal fatto che più nessuno, né eserciti né polizia, pattugliava a piedi. Il vecchio era perfettamente conscio che nel Sud le cosche controllano il territorio e lo Stato no. Vedeva nelle bombe intelligenti null’altro che un’ammissione di impotenza. Il fatto è che oggi nemmeno la politica scende più tra le gente. Campa di tv e non sa nulla dei suoi cittadini. Per questo non conosce il nemico.

Dalla mia città, Trieste, vedo passare rifugiati a piedi dal tempo della mia nascita. Gente che è stata sempre circondata da pregiudizi negativi. Chi cammina è sempre un’anomalia. E poi, si sa, come conforta supporre che il male venga solo da fuori! Ho visto gli istriani in fuga da Tito, i curdi in fuga dalla repressione turca, i croati e i bosniaci in fuga dal massacro jugoslavo, i serbi in fuga dalle truppe croate, poi gli albanesi in fuga dalla repressione serba. Oggi i siriani e gli afghani. Sembrano cose diverse, e invece no: è lo stesso film! Dietro allo scontro etnico, religioso o nazionale, c’è sempre la guerra sociale. Quella di una cosca di “primitivi” bene armati contro un popolo di “evoluti” inermi.

L’Is vuole distruggerci non solo perché interveniamo in Siria, ma per ciò che rappresentiamo: una società plurale. Ma anche la Bosnia, la Siria e l’Iraq sono state distrutte per ciò che rappresentavano. Terre dove abitava un Islam tollerante, in coabitazione con i cristiani. Da anni assisto all’indifferenza dell’Occidente di fronte allo smantellamento di queste isole di pluralismo sulla mappa mondiale. Abbiamo ignorato le primavere arabe. Abbiamo alimentato i Taliban perché ci serviva qualcuno che avesse il fegato di affrontare i russi on the ground, salvo poi bombardarli. Ci genuflettiamo davanti agli emiri finanziatori del terrorismo. Abbiamo eliminato Gheddafi e Saddam in nome del denaro, non di un’idea.

Si vince con le scarpe, dicevo. Ma allora mi permetto di dire che, proprio per questo, gli esiliati in cammino troveranno un approdo. Lo troveranno nonostante gli attentati, nonostante eventuali infiltrati che possono averli seguiti, nonostante le mafie che li sfruttano, i nostri reticolati e le nostre paure. L’immigrazione è un destino ineluttabile che possiamo solo subire o governare. Millenni di evoluzione lo dimostrano. La storia non la fanno gli stanziali ma “i piedi instancabili dell’homo sapiens” (folgorante definizione di Ceronetti), quelli di chi supera il dolore del distacco e la paura del mare nero. Vince chi brucia le navi sulla battigia per non cadere nella tentazione del ritorno, chi si taglia i ponti alle spalle per cercare una vita migliore. Nulla può fermare un ventenne che ha lo stomaco vuoto e la testa piena di sogni. Gli occhi dei rifugiati sono spesso più vitali dei nostri. I loro figli più svegli e affamati di vita. Anche per questo abbiamo paura di loro. Temiamo di esserne dominati.

Viviamo in un mondo di uomini soli incollati a Twitter, dove a qualsiasi arruffapopoli basta urlare la parola “sicurezza” per essere eletto. Ma è osceno che sui rifugiati si costruiscano consensi elettorali. Osceno che populismi vigliacchi smantellino spensieratamente l’Europa e se la prendano con i deboli anziché con gli assassini. Mi inquietano coloro che hanno stravolto il paesaggio della nostra Italia con fabbriche piene di immigrati a basso costo e ora urlano contro questi disperati. Mi fa spavento il cinismo di tante organizzazioni umanitarie che sui rifugiati campano alla grande. Vedo popoli che in nome della cristianità respingerebbero anche Cristo alla frontiere. Vedo la sudditanza culturale di troppa Sinistra rispetto a chi urla le ragioni della pancia. Mi fanno paura gli intellettuali che tacciono o, peggio, snobbano la legittima paura della gente.

Io sto con gli esiliati in cammino. Come loro, esercito coi piedi il mio diritto primordiale di accesso allo spazio e apro varchi negli sbarramenti che mi tagliano la strada. Come loro, ho sete di attraversare frontiere e so che chi viaggia rasoterra penetra nei territori e li comprende meglio di chiunque. L’anno scorso su un treno dei Carpazi in compagnia di alcune badanti ho capito dove andava l’Ucraina meglio che dai giornali. A Budapest nel 1986 ho intuito la caduta del comunismo passeggiando fra la gente lungo il Viale dei Martiri prima che intervistando nomenclatura. Nei Balcani prossimi alla disintegrazione è stata la stessa cosa. L’homo erectus che va, capisce il mondo prima di qualsiasi Dipartimento di Stato.

Gli esiliati scappano da Sudest? Io invece ci vado. Sulla via Appia, sudando per 600 chilometri da Roma a Brindisi, ero ben conscio di marciare controcorrente, verso le terre che l’Europa smarrita vede allontanarsi da sé: Grecia e Medio Oriente. Gli stessi mondi che Roma aveva fatto suoi, pacificandoli con i piedi delle sue legioni. Roma, che ha accolto e assimilato i barbari alle frontiere. Roma, che ha avuto imperatori spagnoli, dalmati, nordafricani. Sull’Appia ogni mio passo calpestava le macerie di un equilibrio infranto, di una koinè perduta, di una centralità strategica che il Sud Italia, oggi prossimo a sparire dalle mappe, non sospetta nemmeno di avere avuto. Ogni miglio indicava la direzione mediterranea perduta della nostra politica estera.

L'icona nel sommario è la riduzione dell'immagine qui sopra, che è è tratta dalla rivista online Cultura+

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Possiamo anche comprendere, dopo la tragedia di Parigi, la campagna di enfasi sui valori dell'Occidente scatenata dai media della vecchia Europa. Possiamo anche essere indulgenti, dopo lo shock del 13 novembre, nel leggere l'infedele lista di virtù e primati che la parte del mondo dove tramonta il sole vanterebbe sul resto di popoli della terra. Partecipiamo dello stesso dolore e risentimento per l'aggressione subita, e conosciamo anche l'insuperabile superficialità dei nostri media, la propaganda politica camuffata di informazione ed analisi. Ma la lista dei nostri valori è infedele e incompleta non solo perché si limita a ricordare la libertà individuale, lo stile di vita, il rispetto della donna e pochissime altre cose.

Manca dall'elenco la retorica da primato, la capacità di autoassolversi, l'incapacità congenita di comprendere le ragioni dell'altro. E latitano di fatto anche conquiste positive che effettivamente possediamo: lo spirito critico, la capacità di analisi storica. Queste ultime dovrebbero rammentarci che dentro l'Occidente è fiorita e prospera da secoli la malapianta del razzismo, che anzi l'Occidente stesso nasce come colonialismo, distinzione e sopraffazione dell'altro. Noi datiamo l'inizio dell'Età moderna e dunque la fondazione dell' Occidente con la scoperta delle Americhe, col completamento, a Ovest, della conoscenza del globo.Ma dimentichiamo che quell'avvio dell'occidentalizzazione del mondo coincide con lo sterminio delle popolazioni native: «il più grande genocidio dell'umanità», come lo ha definito Tzevtan Todorov.

Certo, non è questo il momento di andare così indietro nel tempo. Del resto, basterebbe rammentare le vicende recenti, a partire dalla prima Guerra del Golfo, come hanno fatto pochi onesti commentatori, capaci di pensare prima di scrivere. E tuttavia oggi bisogna rinserrare i ranghi e predisporre le difese per evitare che la tragedia si ripeta. Ma è in questi momenti che la mancanza di analisi critica, di lucidità, di onestà storica può indurre a compiere errori fatali. E allora, chiediamo: qual'è il senso dell'espressione “scontro di civiltà”, aggiornato a “guerra di civiltà”? Guerra di civiltà? Ma l'Occidente non ha mai smesso un istante di fare guerra agli altri da quando è sorto e si autodefinito come tale. L'espressione non è solo un capovolgimento clamoroso della realtà storica, è una rappresentazione del presente infondata sino al ridicolo. E' come se due entità alla pari, per l'appunto due civiltà, si fronteggiassero per conseguire un primato assoluto.

Ma non è così. In realtà quello che un tempo era Oriente – ricordate Edward Said? – e ora chiamiamo Islam, non è che un mondo sconfitto, culturalmente annichilito dal dominio dell'Occidente. L'immaginario che noi abbiamo costruito si è ormai imposto come l'unico orizzonte di possibilità a tutti i popoli della terra. Le grandi masse di religione islamica non hanno altra prospettiva che di essere assorbiti dai valori e dagli idoli scintillanti della nostra società. Sono li, condannati a diventare come noi. Ma non è solo da tale immenso accampamento di sconfitti che partono le imprese disperate dei terroristi. Al suo interno le élites musulmane non disdegnano, com'è noto, di assaporare le ebbrezze delle nostre Ferrari. Perché anche l'Islam è diviso in classi, lacerato dalle disuguaglianze.

Tale realtà è vera e nota da tempo. Quel che cambia, quel che oggi appare più esemplarmente visibile, è l'intimo nichilismo del nostro messaggio. Un nichilismo che ha lo stesso volto per i giovani europei, bianchi e cattolici come per i ragazzi musulmani della banlieue parigina. Al di sotto delle fantasmagorie del consumismo, le società capitalistiche del nostro tempo svelano la desertificazione di senso a cui sono approdate. Non hanno nessun progetto di futuro da proporre, nessun nuovo assetto di civiltà con cui attrarre e sedurre culture altre. Tanto meno i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro e senza opportunità. Qualcuno si ricorda più dell'American dream, del sogno americano?

Oggi negli USA come in Europa le nuove generazioni hanno la certezza che non potranno contare sulle stesse opportunità e i vantaggi dei loro padri. Di quale protezione sociale godranno una volta anziani? Quale certezza di occupazione e di reddito, di stabilità nel lavoro, nelle relazioni umane? Quale messaggio di solidarietà, di superiore assetto del vivere in comune, di felicità collettiva lanciano ad esse le élites dell'odierno capitalismo? Tutto ciò che la sua parte più avanzata può offrire di seducente alle nuove generazioni è un nuovo prodotto tecnologico da godere in consumistica solitudine. Perfino il nostro avvenire sul pianeta, a causa dell'esaurimento delle risorse e del riscaldamento globale, appare minacciato. Per il resto, l'intero tessuto della società cosi come l'abbiamo conosciuta viene frantumato, risucchiato negli scambi di mercato. Ci ricordiamo ancora della nota esclamazione di Barbara Thatcher,”non c'è alternativa”? Non era solo un invito a desistere dalla lotta rivolto al movimento operaio e alle sinistre. Era, ed è ancora, uno sbarramento degli orizzonti dello stesso capitalismo, che non ha più nulla da offrire, se non il mondo così com'è.

Eppure l' Occidente per qualche secolo, mentre schiacciava altri popoli, ha tenuta alta la bandiera del progresso, almeno per i propri. Oggi non accade più, non si va avanti, si torna indietro. Perciò nel senso in cui si utilizza oggi il termine, Occidente è una moneta scaduta, non ha più corso. Dovremmo essere onesti e dire la verità. Il messaggio di morte dei terroristi è figlio legittimo di questo capitalismo predatore e senza speranza.

A titolo di doverosa precisazione rispetto a certe pur positive previsioni sociali ed economiche sulle innovazioni tecnologiche e organizzative: attenzione all'invadenza del solito potere finanziario incontrollato.

La Repubblica, 23 novembre 2015

Un ibrido tra i lavoratori in affitto, i lavoratori autonomi e gli agenti di commercio pagati in base ai clienti che procacciano o alle polizze che riescono a fare acquistare. Più che alla sharing economy il lavoro “uberizzato” fa venire in mente una versione tecnologica del mercato delle braccia che ancora esiste nelle campagne del sud e non solo. Certo, l’enorme differenza è che non c’è un singolo insindacabile compratore, ma una miriade di potenziali compratori tra cui scegliere secondo la propria convenienza e bisogno. Anche se poi c’è sempre un “padrone” invisibile, ma potente, che in base alle proprie insindacabili decisioni, pardon algoritmi, decide se tenerti o no sulla propria piazza virtuale e trae consistenti profitti dal tuo lavoro. Anche sulle piattaforme digitali si è lungi dall’essere uguali nei rapporti di lavoro. Imprenditori di se stessi, della propria forza lavoro, con l’illusione della libertà nella gestione del proprio tempo, ma non certo rispetto alle proprie necessità di bilancio, senza protezione finanziaria e senza welfare. Fuori dalla finzione del finto lavoro autonomo delle finte partite Iva e dei contratti a progetto che hanno le stesse rigidità del lavoro dipendente senza le medesime garanzie. Liberi professionisti, che tuttavia devono pagare salata l’intermediazione del loro lavoro. Questo sono i lavoratori che offrono il proprio lavoro sulle piazze intermediate della rete.

Per qualcuno, come si diceva una volta del lavoro interinale, può essere davvero una scelta di vita, che consente di lavorare quando e quanto si vuole, purché si guadagni abbastanza per soddisfare le proprie necessità, purché non ci si ammali troppo spesso o troppo seriamente, e senza preoccuparsi della vecchiaia. Per altri, specie se giovani ancora studenti, un modo relativamente facile di procurarsi un po’ di reddito senza dover dipendere del tutto dai genitori, che tuttavia provvedono al tetto sulla testa e al cibo in frigorifero, o per integrare una borsa di studio. Può anche essere un modo di procurarsi un secondo lavoro esentasse. Per molti, tuttavia, come testimoniano le prime azioni di protesta dei lavoratori per Uber o per Amazon, può essere una trappola sia sul piano economico che dei diritti ad essere trattati con giustizia.

Si veda, per gli aspetti positivi e le potenzialità sociali della sharing economy, l'articolo di Alessandro Rosina

Analogie non tanto paradossali. Servono almeno a ricordare a noi stessi quanti sepolcri imbiancati popolino i media e i palazzi che forgiano il pensiero comune.

Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2015

Magari fa comodo dimenticarlo, ma in Italia ètuttora viva e vegeta un’organizzazione terroristica che per un secolo ha fattomigliaia di morti ammazzati, che 13 e 12 anni fa mise l’Italia a ferro e afuoco con stragi mai viste in Europa e nel mondo (salvo la Colombia e il Libano)e che da vent’anni non spara più perché ha avuto quasi tutto ciò che chiedeva:la revoca di centinaia di 41-bis per i detenuti e l’ammorbidimento progressivodel carcere duro per chi ci è rimasto, una legge più blanda sui pentiti,l’omertà legalizzata con la sostanziale depenalizzazione della falsatestimonianza, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, ladelegittimazione scientifica di magistrati e pentiti, continui limiti alleintercettazioni e alle indagini, grandi opere da subappaltare agli amici degliamici, mano libera sugli affari da Sud a Nord, condoni fiscali per ripulire isoldi sporchi direttamente con lo Stato, addirittura (dal 1999 al 2001)l’abolizione dell’ergastolo, leggi col buco su voto di scambio eautoriciclaggio, ora persino l’innalzamento del limite ai pagamenti in contantida mille a 3 mila euro (così da poter spendere i proventi delle estorsionispicciole senza dare nell’occhio).

Questa organizzazione terroristica, essendoformata da italiani doc, quasi tutti cattolici e molto devoti, non suscita lostesso allarme di quelle di origine maghrebina e mediorientale. Eppurecontrolla da decenni un vasto territorio: non fra Siria e Iraq, ma fra Sicilia,Calabria e Campania, con propaggini non in Libia o in Mali, ma in Lazio, EmiliaRomagna, Piemonte, Lombardia, Val d’Aosta e altre regioni. Non si è maiproclamata Stato solo perché non ne aveva bisogno: diversamente dall’Isis,fortunatamente isolato, esecrato e combattuto dall’intero consesso civile,questa organizzazione terroristica ha sempre avuto ottimi rapporti con quellogià esistente, attraverso premier, ministri, sottosegretari, politici,governatori, sindaci, funzionari, poliziotti, carabinieri, 007, avvocati,banchieri, commercialisti, giornalisti, medici e prelati, ottenendo trattative,leggi di favore, impunità, assunzioni, appalti, finanziamenti, licenze, curesanitarie e sacramenti. Senza tutti questi agganci (i “concorsi esterni”), dopodue secoli di vita, sarebbe stata sconfitta da un pezzo.
Un sette volte presidente del Consiglio, GiulioAndreotti, è risultato associato a essa fino al 1980 (e aveva cominciato nel1946). Il n. 3 del Sisde, Bruno Contrada, era pagato dallo Stato ma lavoravaper essa, infatti fu condannato a 10 anni.

Un tre volte presidente del Consiglio, Silvio B.,leader del centrodestra, intratteneva con essa affettuosi e fruttuosi rapportitramite l’amico Marcello Dell’Utri, che nel 1992-’93 s’inventò Forza Italia eora sconta una condanna a 7 anni per mafia nel carcere di Parma, a qualchecella di distanza da Totò Riina. Un duevolte presidente della Repubblica,Giorgio Napolitano, ora senatore a vita, ha appena rifiutato di testimoniarenel quarto processo su una delle stragi da essa perpetrata, dove morirono ilgiudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta (il primo processo fudepistato da uomini della polizia, che confezionarono ai giudici un pacchettocompleto di falsi colpevoli per risparmiare quelli veri).

Il pm che sostiene l’accusa nel processosull’ultima trattativa fra l’organizzazione e pezzi dello Stato, Nino DiMatteo, è stato condannato a morte dal Riina con un piano stragista giunto altrasporto dell’esplosivo a Palermo, ed è costretto a viaggiare su un bombjammer, ma soprattutto a subire l’isolamento dalle istituzioni e dalla suacategoria, il dileggio dei pennivendoli berlusconiani e l’indifferenza diquelli “progressista”. Invece l’attuale ministro dell ’Interno Angelino Alfano,responsabile dell’ordine pubblico e della lotta al terrorismo, passa per ilnuovo Kennedy (nel senso di JFK) per le intercettazioni ambientali in cui sisentono alcuni mafiosi augurargli una morte violenta per non aver abrogato il41bis. Ora, il 41bis non è stato abolito non solo da Alfano, ma da tutti igoverni succedutisi da quando fu istituito (decreto Scotti-Martelli, 6.8.1992).Ed è di competenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Perché, allora,i mafiosi vogliono farla pagare a quello dell’Interno Alfano?Perché essi stessispiegano che, diversamente da altri, Alfano è stato “portato qua con i votidegli amici. È andato a finire con Berlusconi e poi si sono dimenticati tutti”.Cioè è stato eletto da loro e poi s’è scordato di loro. Ma di questo passaggiocruciale delle intercettazioni non c’è traccia nei titoli dei giornali e deitg, così Alfano può tirarsela da martire ambulante che “rischia ogni giorno lavita per la lotta alla mafia”. Purtroppo i mafiosi dicono ben altro: più checome Kennedy, è come Salvo Lima.

Ora sostituiamo la parola “mafia” con “Isis” eproviamo a immaginare che accadrebbe, in un qualunque paese d’Europa, se siscoprisse che: un ex premier era iscritto all’Isis; un altro – tuttora leaderdel centrodestra – è amico dell’Isis e ha il suo braccio destro in galera percomplicità con l’Isis; pezzi dello Stato hanno trattato con l’Isis per smetteredi combatterla; l’ex presidente della Repubblica rifiuta di testimoniare alprocesso su una strage dell’Isis; e il ministro dell’Interno è stato elettodall’Isis e poi non s’è più fatto trovare. Dovrebbero tutti dimettersi ecorrere a nascondersi, per evitare la lapidazione. Invece, in Italia, l’Isisnon ha (ancora) una sede né un indirizzo. Infatti i nostri eroi sono sempreandati sul classico, cioè su Cosa Nostra. Quindi tranquilli: siamo in buonemani.

Fiaccole di speranza e solidarietà sotto la cupola nera del terrorismo e della paura.

Il manifesto, 23 novembre 2014

Una giornata particolare. Sotto un cielo nero di pioggia e di paura, tra negozi vuoti e strade semideserte. È la Roma che ha accompagnato le due manifestazioni «per la pace e il lavoro», quella della Fiom, per la fratellanza tra le religioni, «Not in my name», quella dei musulmani. Una capitale timorosa perché la paura ormai ha varcato le mura romane e abita nella città indicata, tra allarmi veri e fasulli, come l’obiettivo prediletto dai terroristi.

Per questo, la Fiom in piazza del Popolo e le associazioni italiane dei musulmani in piazza s. Apostoli, sono state innanzitutto una grande prova di coraggio. Coraggiosi e fieri, le donne e gli uomini musulmani insieme ai figli a dire «no al cancro terrorista» (a Roma come a Milano). E coraggiosi le donne e gli uomini del sindacato, tanto più che molte persone, come quelle che di solito si organizzano con le famiglie per le manifestazioni nazionali dei metalmeccanici, questa volta sono rimaste a casa. Perché «è normale avere paura», come ha detto il leader sindacale Maurizio Landini.

Perché è normale chiudersi in casa e rinunciare alla più elementare forma di partecipazione democratica proprio quando, guerra e crisi economica, si danno la mano per cambiare le nostre società fin nei loro fondamenti, a cominciare dalle costituzioni del Dopoguerra.

Succede oggi nella Francia ferita dal terrorismo, come potrebbe accadere domani in Europa se a farsi sentire sarà solo la voce delle bombe, e se la risposta sarà la chiusura delle frontiere. In un colpo solo torneremmo indietro d’un secolo, ai tempi dei nazionalismi, degli scontri tra gli imperi coloniali. E del resto, scendere in piazza per la pace e il lavoro, per la democrazia e la tolleranza ci spiega proprio questo: che la trincea tra progresso e barbarie è tornata ad essere la prima linea del confronto e del conflitto. In un momento storico che vede la massima estensione delle guerre e, insieme, la più grande concentrazione del potere finanziario globale.

Dal palco di piazza del Popolo hanno parlato anche due sindacaliste della Cgt, il maggior sindacato francese, allarmate per un paese trascinato «in una guerra che moltiplica morte e distruzione, impoverisce le popolazioni, alimenta il terrorismo». Hollande «sbaglia strada e la Francia — hanno ricordato — è il terzo produttore di armi dopo la Russia e la Cina».

Ieri è rientrata in Italia la salma di Valeria Solesin, la ragazza uccisa dai kalachnikov dei terroristi dell’Isis. La sua vita di cittadina europea, la sua esperienza di studio e di impegno sociale è la testimonianza forte di una generazione che rappresenta il futuro possibile. E in quel dialogo ravvicinato tra i lavoratori e i musulmani, in quelle due piazze pacifiche e partecipate, insieme alla drammaticità del momento c’erano anche gli anticorpi per resistere alla ferocia del terrorismo e al cinismo di chi, mentre si nutre di armi e di petrolio, sventola la bandiera della libertà.

«La Repubblica

La risposta al terrorismo dev’essere in parte la garanzia della sicurezza. Colpire Daesh, arrestare i suoi adepti. Ma dobbiamo anche interrogarci sulle condizioni politiche di queste violenze, sulle umiliazioni e ingiustizie che in Medio Oriente hanno determinato l’importante sostegno di cui beneficia quel movimento, e in Europa suscitano oggi vocazioni sanguinarie. Al di là del breve termine, l’unica vera risposta sta nell’attuazione, sia qui che laggiù, di un modello di sviluppo sociale ed equo. È una realtà evidente: a nutrire il terrorismo è la polveriera delle disuguaglianze in Medio Oriente, che abbiamo largamente contribuito a creare. Daesh, lo “Stato Islamico d’Iraq e del Levante”, nasce dalla decomposizione del regime iracheno, e più in generale dal tracollo del sistema di confini stabiliti nella regione nel 1920.
Dopo l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq, nel 1990-1991, le potenze coalizzate inviarono le loro truppe per restituire il petrolio agli emiri e alle compagnie occidentali. Si inaugurò in quell’occasione un nuovo ciclo di guerre tecnologiche e asimmetriche: alcune centinaia di morti nella coalizione nata per “liberare” il Kuwait, contro varie decine di migliaia di vittime dal lato iracheno. Questa logica è arrivata al parossismo durante la seconda guerra in Iraq, tra il 2003 e il 2011. Circa 500.000 morti iracheni contro un po’ più di 4.000 soldati americani uccisi. E tutto questo per vendicare i 3000 morti dell’11 settembre, che pure con l’Iraq non avevano nulla a che fare. Questa realtà, amplificata dall’estrema asimmetria delle perdite in vite umane e dall’assenza di sbocchi politici nel conflitto israelo-palestinese, serve oggi a giustificare tutte le efferatezze perpetrate dai jihadisti. C’è da sperare che la Francia e la Russia, entrate ora in azione dopo il fiasco americano, facciano meno danni e suscitino meno vocazioni.

Al di là degli scontri religiosi, è chiaro che nel suo insieme il sistema politico e sociale della regione è fortemente determinato e reso vulnerabile dalla concentrazione delle risorse petrolifere in alcune piccole zone spopolate. Esaminando l’area che va dall’Egitto all’Iran, passando per la Siria, l’Iraq e la Penisola arabica, con un totale di circa 300 milioni di abitanti, si può constatare che il 60-70% del Pil regionale si concentra nelle monarchie petrolifere, con appena il 10% della popolazione. Per di più, nelle monarchie petrolifere, una parte sproporzionata di questa manna è accaparrata da una minoranza, mentre ampie fasce della popolazione sono tenute in uno stato di semi-schiavitù. Ma proprio questi regimi godono del sostegno delle potenze occidentali, ben liete di ottenere qualche briciola per finanziare i propri club di calcio, o di vendere armi. Non c’è dunque da sorprendersi se le nostre lezioni di democrazia sociale non hanno molta presa sui giovani mediorientali.

Quanto ai discorsi sulla democrazia, sarebbe meglio smettere di farli solo quando i risultati elettorali sono di nostro gradimento. Nel 2012, in Egitto, Mohamed Morsi era stato eletto presidente in seguito a regolari elezioni: un evento tutt’altro che banale nella storia elettorale araba. Ma già nel 2013 fu destituito ad opera dei militari. I quali non tardarono a giustiziare migliaia di Fratelli Musulmani, che pure avevano compensato in parte le carenze dello Stato egiziano con la loro azione sociale. Pochi mesi dopo, la Francia cancellò tutto con un colpo di spugna per poter vendere le sue fregate e accaparrarsi una parte delle scarse risorse del Paese. Un caso di democrazia negata.

Resta un punto interrogativo: com’è possibile che alcuni giovani cresciuti in Francia confondano Bagdad con la banlieue parigina, cercando di importarvi i conflitti che nascono laggiù? Non vi sono scusanti. Salvo forse notare che la disoccupazione e le discriminazioni nelle assunzioni non migliorano le cose. L’Europa, che prima della crisi riusciva ad accogliere un flusso migratorio netto di 1 milione di persone all’anno, oggi deve rilanciare il suo modello d’integrazione. È stata l’austerità a far esplodere gli egoismi nazionali e le tensioni identitarie. Solo con uno sviluppo sociale ed equo si potrà sconfiggere l’odio.
© Le Monde 2015 Traduzione di Elisabetta Horvat



Dalla presentazione redazionale dell’articolo di Picketty, che abbiamo riportato nel sommario, sembra che l’economista francese enfatizzi il peso del dato geografico (la «concentrazione delle risorse petrolifere in alcune piccole zone spopolate») nell’immane tragedia costituita dalle manifestazioni della “guerra diffusa” in atto, in Europa e nel suo epicentro siriano. In realtà ci sembra che Picketty metta magistralmente in evidenza quali siano i moventi economici e le ragioni politiche delle strategie del Primo mondo nei suoi interventi nel Medio Oriente (dalle guerre nell’Irak al conflitto israelo-palestinese), il gigantesco danno pagato dagli stati e dai popoli aggrediti dalle armate occidentali per la difesa dei potentati locali e internazionali delle risorse petrolifere, e le immense ingiustizie che ne sono derivate e ne derivano ancora, alimentando le forme estreme del terrorismo.

«Intervista al segretario della Fiom: "Ci mobilitiamo contro il terrorismo e la guerra". Al centro della protesta di domani il contratto e la legge di Stabilità targata Renzi. La Cgil prepara un referendum per abrogare il Jobs Act. "Possibili anche su scuola e ambiente"».

Il manifesto, 20 novembre 2015

«Ad aprire il corteo saranno i lavoratori immigrati, con la scritta “Contro la guerra io non ho paura”. Alcuni di loro parleranno anche dal palco». La manifestazione Unions! di domani a Roma, indetta dalla Fiom e dalla Coalizione sociale, non poteva certo ignorare i fatti di Parigi. Anzi, le riflessioni che Maurizio Landini ci consegna incontrandoci nella nostra redazione — con noi Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco — sono in gran parte dedicate ai gravi fatti che accadono in Europa. Subito dopo, ovviamente, parliamo del contratto dei metalmeccanici, e del contrasto del sindacato alla legge di Stabilità e al Jobs Act. Di Renzi e del Pd, della nuova Sinistra italiana, dei Cinquestelle.

È un errore rispondere con la guerra ai terroristi? Quale altro strumento contro gli attentati?
«Lo diciamo chiaramente: noi siamo contro il terrorismo ma anche contro la guerra. Leader importanti come Blair stanno riconoscendo gli errori delle guerre del passato, e non si può non vedere che quello che viviamo oggi è in parte frutto dei conflitti armati. Dobbiamo muoverci su due terreni: innanzitutto smettere di vendere armi e di comprare petrolio dall’Isis. E poi dobbiamo superare la guerra con un’azione politica molto forte: mettendo intorno a un tavolo non solo i grandi paesi ma anche quelli delle zone calde. Servono azioni di intelligence comune per difenderci, certamente, ma anche e soprattutto iniziative culturali e sociali che tolgano il brodo di coltura dove fioriscono i terroristi».

Azioni culturali?
«Penso, con le dovute differenze, a quello che fecero la sinistra e il sindacato con il terrorismo degli anni Settanta: riuscirono a isolarlo, a prosciugare il brodo di coltura e di possibile connivenza. Allo stesso modo contro questo nuovo terrorismo serve una mobilitazione dal basso, tra le persone, e i musulmani, già divisi tra loro e in guerra da tempo. Per questo scegliamo di marciare con due bandiere: del lavoro e della pace».

Un dialogo non facile, quello con i musulmani, in questa fase.
«É la prima volta che in Europa delle persone scelgono di farsi esplodere per ucciderne altre: non possiamo sottovalutare questa minaccia, ma nel contempo dobbiamo evitare le semplificazioni e le equazioni “musulmano uguale terrorista”. Ho letto a fondo l’ultima enciclica del papa, e mi ha colpito l’analisi rispetto all’attuale modello di sviluppo, la centralità assoluta della finanza e le guerre innescate in questa logica. L’Isis si presenta davanti ai suoi possibili adepti non solo con il volto dell’integrità morale e ideologica, ma anche promettendo risposte alle disuguaglianze della nostra società. Se vogliamo combattere questa strumentalizzazione non possiamo chiuderci in casa, ma al contrario dobbiamo aprirci ancora di più al dialogo e all’inclusione. Verso tutti».

Al Nord nelle fabbriche lavorano molti immigrati. Il modello italiano di integrazione funziona? La Fiom riesce a coinvolgerli?
«Circa il 15–20% dei nostri iscritti, ormai, è di origini non italiane. Abbiamo tanti delegati tra i lavoratori immigrati, che rappresentano sia gli italiani che gli stranieri. Spesso, lo devo dire, con intelligenze e competenze anche superiori alle nostre, se non altro per il difficile vissuto che hanno alle spalle. A Padova, qualche settimana fa, abbiamo tenuto l’assemblea nazionale dei delegati immigrati: c’era anche la Presidente della Camera Laura Boldrini. Sono emerse richieste che dovremmo rivendicare per tutti: l’abrogazione della Bossi-Fini, la cancellazione dell’assurda tassa di soggiorno, un reddito di dignità. E il sindacato può fare tanto: in Germania l’Ig Metall investe 700–800 mila euro per impartire lezioni di tedesco agli immigrati, e per introdurre le altre culture ai lavoratori tedeschi. Tutto questo nelle sedi sindacali: che così diventano punti di riferimento per l’integrazione».

Passiamo al contratto. Siete riusciti a portare Federmeccanica su un unico tavolo.
«Sì, nonostante la presenza di due diverse piattaforme. Si riconosce il fatto che la Fiom è la sigla più rappresentativa. Poi è intervenuta una novità: la Uil è disponibile a sottoporre l’accordo al voto dei lavoratori. Chiediamo che le regole dell’accordo sulla rappresentanza, firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, vengano applicate nel contratto: così potremmo estenderne la validità a tutti i lavoratori, e andare insieme dal governo per chiedere che i minimi contrattuali diventino salario minimo legale».

Quali sono le richieste qualificanti della vostra piattaforma?
«C’è innanzitutto un principio nuovo da segnalare: i diritti da contratto dovranno valere per tutte le figure, fino alle partite Iva. Quindi minimi salariali, maternità, ferie, malattia, infortuni, Tfr. La formazione deve essere un diritto individuale, soggettivo, si devono ridurre gli orari se c’è un maggior utilizzo degli impianti, chiediamo di riformare l’inquadramento. E poi apriamo il nodo della sanità integrativa, ma purché sia valida anche questa per tutte le figure e per i familiari a carico: non sostitutiva di quella pubblica, ma di sostegno, per il rimborso ticket, il dentista, la non autosufficienza».

Che aumento chiedete?
«Del 3% sulle paghe base. Ma rinnovando il modello contrattuale: rinnovi ogni anno come in Germania, e vorremmo poi che il governo defiscalizzasse il primo livello. Se ci intendiamo su questi due punti, possiamo discutere con le imprese anche un eventuale conglobamento dell’attuale indennità perequativa, quella erogata a chi non fa accordi aziendali».

Da cosa viene fuori il 3%?Da tre elementi: l’inflazione; l’andamento del Pil italiano e di settore; la necessità di redistribuire reddito dopo anni in cui si è perso costantemente, indebolito anche dal fiscal drag. Ovviamente dove si vorrà e si riuscirà, ben venga la contrattazione di secondo livello: ma siccome nella realtà si riesce a fare solo nel 20–30% delle aziende, io devo garantire e qualificare il contratto nazionale».

La manifestazione è indetta anche contro la legge di Stabilità.
«Per noi deve cambiare. È una balla che sia espansiva, perché non ci sono investimenti pubblici e non si creano posti di lavoro. Si spendono i soldi per tagliare la tassa sulla casa, mentre si interviene pesantemente sulla sanità. Gli incentivi alle imprese non sono selettivi e vincolati a investimenti. Non c’è una seria lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, ma anzi — con misure come quella sui 3 mila euro– si incoraggiano comportamenti non certo virtuosi. Si sono ridotti gli ammortizzatori sociali, rendendoli addirittura più costosi dei licenziamenti per le imprese. Non si interviene sulle pensioni. Insomma, si prosegue lo schema già adottato per il Jobs Act, per la scuola. Il premier “giovane e sveglio” applica le ricette dell’austerity europea, la lettera della Bce, come fu per Monti e Letta, senza metterle in discussione».

Però ci pare che il sindacato faccia fatica a muoversi. Ma c’è davvero, come dite, tanta contrarietà a Renzi nel Paese?
«Io penso che il consenso per Renzi stia diminuendo, e che tra le persone che lavorano o che cercano lavoro non sia maggioritario. È vero, dall’altro lato, che abbiamo fatto passare un anno dallo sciopero generale. Un po’ dipende dal fatto che il premier decide a colpi di fiducia in Parlamento, nessuno ha mai votato un suo programma, e lui procede anche a dispetto delle proteste. Questo scoraggia le persone dalla partecipazione. E poi c’è la crisi, l’aumento della povertà, il non credere più nei mezzi tradizionali di lotta. Proprio per questo segnalo un’importante decisione della Cgil: la proposta di un referendum per l’abrogazione del Jobs Act. Perché se le leggi ci vengono imposte, dobbiamo lottare con tutti i mezzi legali che abbiamo per cancellarle. In gennaio la Cgil chiamerà al voto 5,5 milioni di iscritti, dopo aver proposto la sua alternativa, il nuovo Statuto dei lavoratori. Io credo che si potrebbe lavorare allo stesso modo anche per la scuola, l’ambiente. E non a caso, nella consultazione per il contratto, abbiamo chiesto ai metalmeccanici se sono d’accordo sul fatto che la Fiom si impegni su tutti questi temi. E in maggioranza ci stanno dando l’ok».

Sono temi che si intrecciano con quelli della nuova Sinistra italiana. Può essere un partito di riferimento per chi lavora?
«Il problema per noi non è avere una forza politica di riferimento, un partito unico, ma riuscire a ottenere che il lavoro diventi tema trasversale a tutta la politica. Mentre oggi, e grazie a precise scelte di Renzi, il tema economico trasversale e dominante — centrale direi — è al contrario l’impresa. Faccio un esempio: lo Statuto dei lavoratori è stato votato negli anni Settanta anche dalla Dc e dal Pli, partiti non certo di sinistra: a quei tempi il lavoro era evidentemente centrale per tutta la politica».

Quindi è tramontata del tutto l’epoca del rapporto diretto tra sindacato e partiti.
«Noi abbiamo sempre presentato le nostre proposte a tutti i partiti, e se le condividono, bene, questo ci aiuterà. Sulle pensioni vedo che la Lega la pensa come noi, sul reddito di dignità i Cinquestelle. Io quando ho cominciato a fare sindacato mi presentavo nella quota Pci della Cgil, oggi è l’opposto: un recente studio sui nostri delegati ha appurato che il 90% di loro non è iscritto a nessun partito. L’autonomia è fondamentale per fare bene il nostro lavoro, nel rispetto di tutte le forze politiche».

La Coalizione sociale sta funzionando? Tracciamo un bilancio.
«Io credo di sì, anche se non ho mai nascosto che fosse una sfida difficile, mentre la gran parte dei media la riduceva al problema «Landini fa un partito». E invece vogliamo ricostruire quel legame tra le persone, che poi ci permetterà magari di pensarla allo stesso modo quando voteremo al referendum sul Jobs Act. Ma partendo dalla base, dai territori, dai bisogni reali, da un nuovo mutualismo. Penso allo sportello anti-usura che abbiamo aperto a Cuneo, alla vendita scontata dei libri scolastici, al Fondo di solidarietà istituito a Pomigliano».

Non è detto che in una società migliore il lavoro sia solo quello che il sistema capitalistico ha deciso di riconoscere (e retribuire) come tale. "Lavoro senza padroni" di Angelo Mastrandrea, (Baldini e Castoldi). «Come autorganizzarsi senza diventare "vite di scarto"».

Il manifesto, 21 novembre 2015

Angelo Mastrandrea racconta un sogno: lavorare senza padroni. Per un paio d’anni ha viaggiato in Grecia, Francia, Italia. Ha incontrato gli operai della Montefibre di Acerra, nel cuore della terra dei fuochi, e ha raccontato il sogno realizzato delle fabbriche recuperate. Ha raccontato le vicende drammatiche della tv pubblica greca Ert, chiusa dal governo Samaras, occupata e recuperata dai giornalisti e lavoratori come ai tempi delle radio libere in Italia. Ha tracciato il profilo della rete «Solidarity4all» che non si limita al mutuo soccorso in Grecia, ma sostiene la nascita di un modello cooperativo per ricostruire il lavoro perduto. La punta di diamante di questo movimento sono i lavoratori della Vio .Me.

Con lo stile del reporter classico, Mastrandrea si è mescolato con gli studenti del liceo sperimentale post-sessantottino di Saint-Nazare che dal 1981 autogestiscono la loro scuola. «Non mi pare che ci sia una gran differenza con gli operai che recuperano una fabbrica – annota – Entrambi vogliono realizzare un’antica aspirazione umana: l’autodeterminazione». I racconti della nuova stagione internazionale dell’autogestione e della creazione di un’economia cooperativa formano oggi un libro, (Baldini e Castoldi, pp.175, euro 15), e offrono un’intuizione.

Dall’Argentina al vecchio continente, la crisi delle multinazionali ha portato a drammatiche crisi occupazionali, ma anche a realizzare l’impensabile. Gli operai messi in cassa integrazione, disoccupati, non sono «vite di scarto», ma singoli capaci di elaborare complesse strategie morali, politiche e collettive. Da Roma a Buenos Aires, dalla Ri-Maflow a Trezzano sul Naviglio fino a Città del Messico, hanno elaborato un modello comune di workers economy, un’economia fondata sui lavoratori che si contrappone all’economia finanziaria che sta distruggendo il tessuto produttivo in Europa come altrove. La curiosità teorica porta Mastrandrea a ricongiungere le fila di un discorso politico che viene da lontano. Le origini della workers economy risalgono a una certa linea del socialismo del XIX secolo, sono riemerse nella teoria del Gramsci greco, l’althusseriano Nikos Poulantzas quando enunciò in Lo Stato, il potere, il socialismo una teoria di un socialismo articolato sul doppio potere: da un lato, la democrazia rappresentativa radicalmente rivista, dall’altro lato lo sviluppo di «forme di democrazia di base e di un movimento auto-gestionario» in grado di «evitare lo statualismo autoritario».

Quello dell’autogestione è un movimento che ha conosciuto diverse fasi, dagli anni Settanta a oggi, in Italia e nel resto d’Europa. Credibilmente, questa esperienza è alla base di una parte non trascurabile del percorso che ha dato vita a Syriza. Sarebbe, anzi, interessante raccontare cosa sta accadendo oggi in Grecia, dopo la drammatica capitolazione di Tsipras nell’Eurogruppo di luglio. Più in generale il problema riguarda il destino di questa «economia di transizione» a un nuovo, immaginoso, «socialismo»: quali sono i suoi strumenti per affrontare il potere e le sue tecniche di cattura amministrativa o giudiziaria? E poi, in che modo queste esperienze di auto-gestione si pongono rispetto ai progetti di rigenerazione dei luoghi in disuso (stazioni e fabbriche comprese) già in atto a Milano e in tutte le «smart city»? Non rischiano di essere riassorbite dal capitale neoliberale e dai suoi progetti di speculazione sulla condivisione nella «sharing economy»?

Lavoro senza padroni è in ogni caso un libro che recepisce la carica etica di uomini e donne di mezza età, di molti giovani, di reagire alla crisi e inventarsi un’altro modo di cooperare e di possedere. Mastrandrea immagina il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà sociale. Dal suo racconto minuto delle difficoltà amministrative, commerciali, produttive affrontate da questo popolo di sperimentatori emerge una passione comune: l’entusiasmo.

«Questa è la principale molla emotiva. Un sentimento che deriva dall’idea di essere artefici del proprio destino, senza sentirsi pedine di un gioco nel quale non si decide nulla». Mastrandrea racconta la vita dei cittadini nel XXI secolo, capaci di reinventare un lavoro che non esiste più – quello della produzione fordista di massa – riconnettendosi con le passioni gioiose rimosse dalla società del rancore organizzato.

"Quos vult perdere Deus prius dementat". Nulla hanno imparato le cornacchie che ci governano, a partire dal socialista Hollande, dagli errori compiuti nel recente passato.

La Repubblica, 21 novembre 2015

NON sappiamo quanto lunga sarà la convivenza con il terrorismo. I timori per la vita non sono amici diretti della libertà; eppure sono condizioni essenziali per creare la sicurezza, grazie alla quale soltanto la libertà può crescere. Su questo paradossale legame di paura, sicurezza, libertà — il paradosso del Leviatano — si incastonano le nostre istituzioni e i nostri diritti.

Non si dà diritto e quindi libertà senza una cornice di sicurezza e di sovranità statale le cui funzioni siano costituzionalizzate e il potere limitato e temperato dalla legge. Su questo “abc” si basa l’Occidente, quel grappolo di libertà, civili, politiche, morali che contraddistingue la nostra vita quotidiana. Se la guerra è una condizione tragica (e a volte necessaria) che ci accomuna tutti alla specie umana, la pratica della legge e dei diritti è quella straordinaria costruzione che qualifica la nostra tradizione dall’antichità, permeando tutte le sfere di vita, religiosa e secolare, privata e pubblica. Questo è l’Occidente.

E lo è soprattutto quando la violenza terroristica, cieca e imprevedibile, costringe a pensare in fretta e con determinazione quali misure prendere. Che cosa fare. Il governo francese ha messo in atto immediatamente dopo l’attentato, quasi reagendo all’emozione dell’indeterminato, una strategia di guerra e di polizia. François Hollande ha proposto modifiche d’urgenza alla Costituzione francese, per estendere nel tempo e nelle prerogative lo stato d’emergenza, e per dettare criteri di revoca della cittadinanza francese nel caso di terroristi che ne abbiano due. Le misure di guerra in Siria e quelle di stato d’emergenza interno prefigurano condizioni di eccezionalità che possono destare preoccupazione.

L’esperienza americana dopo l’11 settembre 2001 dovrebbe assisterci nelle nostre valutazioni. A partire da quella tragedia, George W. Bush prese due decisioni che si rivelarono onerosissime per gli Stati Uniti e il mondo, entrambe improntate alla logica della guerra: contro i nemici esterni e contro i nemici interni (cittadini americani e non). Tutte le forme di intervento vennero rubricate e gestite come operazioni di “guerra”. Si ebbe prima l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq (dove l’argomento era distruggere i siti di produzione di armi nucleari e cacciare il dittatore Saddam Hussein) e, nel frattempo, la creazione di un campo di reclusione per prigionieri-nemici totali situato fuori della giurisdizione americana, a Guantánamo, Cuba (poiché la Costituzione, che non venne comunque mai cambiata, avrebbero vietato una detenzione arbitraria dentro i confini statali).

Come riconoscono ormai tutti gli esperti, queste misure si sono rivelate onerose e fallaci da tutti i punti di vista: giuridico, economico, militare e politico. Con l’alleanza della Gran Bretagna di Tony Blair (il quale recentemente ha chiesto scusa per gli errori commessi con l’invasione dell’Iraq) gli Stati Uniti hanno creato oggettivamente le condizioni di instabilità radicale nelle quali fiorisce oggi il terrorismo dell’Is: la demolizione dello Stato di Hussein in Iraq ha consegnato parte di quel territorio vasto e ricco di petrolio a forze militari terroristiche o a loro sodali. Una condizione che si è recentemente ripetuta con la Libia.

Ha spiegato Romano Prodi, in alcune interviste rilasciate in questi giorni, che la strategia da anteporre a quella militare, e da integrare con quella di polizia, dovrebbe essere l’intervento sulle “libertà economiche” di cui godono i terroristi: libertà di vendere petrolio alle compagnie multinazionali occidentali a costi probabilmente competitivi o a mercato nero. L’introito miliardario di quel libero commercio consente ai terroristi di acquistare armi. Intervenire sul mercato delle armi e del petrolio è possibile solo se tutti gli stati si uniscono per limitare una condizione di quasi totale anarchia, a causa della quale le nostre libertà rischiano di morire.

L’Occidente ha dunque l’arma della legge, che è fortissima se usata con l’obiettivo giusto in mente, quello di combattere le forze terroristiche prima di tutto con l’intelligence e le forze dell’ordine, e intanto togliere loro risorse materiali e sostegno sulla scena globale. Una sinergia di azioni coordinate tra tutti gli stati che si riconoscono nella famiglia dell’Onu può essere vincente, seguendo i dettami della pace perpetua di Kant: primo fra tutto, quello per cui la libertà si difende con armi proprie, che sono il diritto e la legge.

E così sono iniziati i raid statunitensi sui depositi petroliferi controllati dall’Isis. A differenza di Al-Quaeda che finanziava le proprie operazioni con donazioni di ricchi fanatici, l’Isis è capace di produrre petrolio da sé, di vendere le sue risorse e di guadagnarci anche 50 milioni di dollari al mese. Ci sono via vai di migliaia di camion al giorno, il cui valore può anche arrivare a 10mila dollari ciascuno. Dai campi della Siria e dell’Iraq vengono pompati circa 40mila barili al giorno, poi venduti fra i venti e i quarantacinque dollari sul mercato interno e tramite contrabbando. Una “Bonanza” petrolifera per controllare e gestire il Califfato.

L’Occidente sa dei depositi e delle operazioni petrolifere dell’Isis ma il timore è sempre stato di causare troppe vittime civili nei bombardamenti. Gli eventi di Parigi hanno ovviamente cambiato tutto, e in questi giorni si inaugura l’operazione Tidal Wave II. La Tidal Wave I era la missione della seconda guerra mondiale in cui furono colpiti i depositi petroliferi tedeschi in Romania per indebolire i nazisti. Prima degli attacchi, oggi come settant’anni fa, la popolazione è stata avvertita con appositi volantini dal cielo.

Ad oggi, novembre 2015, l’Isis controlla buona parte del territorio siriano e iracheno, con circa 10 milioni di persone sottomesse. Il modo in cui l’Isis gestisce il cosiddetto Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi è di dare abbastanza “autonomia” alle comunità locali tramite governatori regionali, detti walis, che devono seguire le linee generali decise dalla “shura”, una specie di gruppo di consiglieri a livello centrale dell’Isis.

Tre cose sono gestite dall’alto: il petrolio, le strategie per le attività sui social media e le operazioni militari. Le cose più importanti per loro sono i soldi, la propaganda e le azioni di guerra. E i soldi sono il petrolio. Anzi, con il petrolio sono bene organizzati e sempre più sofisticati perché sanno che tutto dipende dai barili che pompano da sottoterra. Gestiscono le riserve che hanno con apposite selezioni del personale, stipendi elevati, di anche mille dollari al mese, e dando priorità a tutti quelli che hanno già esperienza nelle operazioni petrolifere in altri parti del mondo non-Isis. Usano Whatsapp e derivati per contrattare con possibili neo-assunti e per convincerli a trasferirsi nello splendente Califfato.

Fino a poco tempo fa, le operazioni petrolifere dell’Isis erano gestite da Abu Sayyaf, un tunisino. È stato ucciso lo scorso maggio. La sua morte ha portato al sequestro di una enormità di documenti in cui traspare che la produzione e la vendita da ogni pozzo era registrata, e le vendite gestite in modo da ottimizzare i profitti. C’è pure un sistema di tassazione sui residenti. I ricavati vengono gestiti dalla polizia segreta dell’Isis, l’Amniyat, che punisce crudelmente chi abusa dei fondi.

In totale lo Stato Islamico gestisce più di 250 pozzi in Siria con circa 1.300 addetti, fra ingegneri ed operai. Hanno una rete di piccole raffinerie e pure una distribuzione organizzata su gomma. Non si sa esattamente quanti pozzi gestiscano in Iraq, ma si stima che siano centinaia. Si possono dire tante cose sull’Isis, ma una cosa secondo me è vera: hanno idee e strategie malate, ma chiare.

Dall’inizio hanno capito che il petrolio era importante per loro. Nel 2013 occupavano la parte occidentale del Paese, ma l’hanno abbandonata subito dirigendosi verso la parte orientale molto più ricca di greggio, e avendo come obiettivo primario quello di controllarne i giacimenti. Dai pozzi e dalle raffinerie si è passati a un controllo più radicale del territorio della Siria orientale. Da lì sono arrivati a Mosul, nel nord dell’Iraq, conquistata nel 2014. In quella occasione Abu Bakr al-Baghdadi, in un discorso chiese a tutti gli interessati di venire o tornare in Medio oriente a combattere per l’Isis ma che venissero anche ingegneri, dottori e persone altamente specializzate per aiutarli a gestire il petrolio.

A chi lo vendono questo petrolio? Non possono certo esportare direttamente sul mercato straniero, ma il petrolio viene venduto alle comunità sottomesse per fornire loro servizi indispensabili. La città di Mosul, per esempio, ha due milioni di abitanti e tutto il mercato della benzina e del diesel è nelle mani dell’Isis.

La cosa più triste è che pure i ribelli anti-Isis comprano la benzina dall’Isis. La gente dice di non avere altre alternative. Ospedali, negozi, trattori e pure i macchinari per tirar fuori i feriti dalle macerie dalle bombe sono alimentati dal petrolio e dal diesel dell’Isis.

Ovviamente c’è poi il contrabbando che passa principalmente dalla Turchia. Da qui il petrolio riesce ad arrivare su mercati più distanti, più legali. A volte usano le donne come corrieri perché si pensa che destino meno sospetti nella polizia. Si vede che quando serve, c’è la parità dei sessi e alle donne possono essere affidati ruoli importanti, eh? Di fronte a tutto questo sfacelo, mi chiedo come sarebbero le nostre vite se invece che a petrolio le nostre società andassero a sole, a vento e a buonsenso.

Questo articolo è stato ripreso sda un blog del Fatto quotidiano.
Purtroppo certe parole già al loro apparire iniziano ad essere distorte, vuoi per malafede, vuoi per pura ignoranza, vuoi un po' per entrambe. Condivisione, spieghiamolo ai nostri ragionieri, è un po' più di una app o di uno slogan.

La Repubblica Milano, 20 novembre 2015, postilla (f.b.)

Qualche mese fa scrivevamo su queste pagine che la sharing economy non è solo una . È molto di più, come ha confermato la terza edizione di “Sharitaly” che si è tenuta la settimana scorsa a Milano e che aveva proprio come sottotitolo “Non solo app. L’economia collaborativa nelle aziende, nelle pubbliche amministrazioni e nel terzo settore”. Scopo di tale manifestazione - promossa da Collaboriamo e da Trailab con il patrocinio del Comune di Milano - è stato quello sia di arricchire il dibattito teorico sulla sharing economy, sia di favorire la crescita concreta dell’economia collaborativa a Milano e in Italia.

La sharing economy viene spesso fatta coincidere con l’innovazione del car sharing e con la rivoluzione di Uber e di Airbnb, ma è molto di più. È vero che l’economia collaborativa è stata favorita dall’innovazione digitale e dalle nuove potenzialità offerte dal web, ma non è solo una questione di app. È vero che è stata stimolata dalla crisi economica, ma non è solo una questione di costi più bassi. È vero che sta cambiando il modo di intendere il rapporto tra possesso e accesso a beni e servizi, ma non è solo una questione economica. È tutto questo assieme e molto di più. La convenienza economica è importante nel breve periodo, ma l’elemento caratterizzante che può renderla un nuovo paradigma vincente nel medio e lungo periodo è quello sociale e relazionale. Collaborazione e condivisione hanno bisogno di fondarsi sulla fiducia. Su questo punto cruciale l’Italia ha una sua specificità che in parte è un vantaggio e in parte un limite.

Uno dei tratti salienti del modello sociale e di welfare dei Paesi dell’Europa mediterranea è la forte solidarietà. La grande propensione al sostegno reciproco e alla collaborazione si esprime però soprattutto all’interno di reti ristrette, in particolare in quella familiare e parentale. Sono molti gli studi e le ricerche che mostrano come i caratteri antropologici della famiglia italiana siano stati e ancor siano in grado di condizionare il modello economico. Rispetto agli altri Paesi sviluppati da noi è da sempre più forte la fiducia data ai contatti più stretti che alla società più ampia e alle istituzioni. In altre parole, nei Paesi mediterranei dominano i legami forti della famiglia e della comunità locale, mentre poco sviluppati sono i cosiddetti “legami deboli” che invece favoriscono l’interazione sociale ampia.

Questo non significa che in Italia la sharing economy non sia destinata a decollare, ma produce due implicazioni. La prima è che, come accaduto anche per altre innovazioni che si sono dovute confrontare in modo non scontato con il modello culturale italiano, può richiedere un po’ più di tempo prima di consolidarsi pienamente. La seconda è che avrà molta più possibilità di successo, come mostrano anche varie esperienze positive di crowdfunding, all’interno delle comunità locali interagendo sinergicamente con il welfare comunitario. Se però c’è un luogo in Italia in cui i legami deboli sono più attivi e dove i processi di innovazione vengono anticipati è Milano. Grazie anche al ruolo del Comune, questa città sta di fatto già diventando un laboratorio di sperimentazione di modelli di produzione collaborativa e di consumo condiviso. Una Milano che sempre meno sembra accontentarsi di essere la capitale finanziaria e sempre più può cogliere la sfida di un’economia diversa, più capace di creare valore sociale.

postilla
Il richiamo ai vincoli familiari e amicali, correttissimo e dovuto, da parte del sociologo, non sottragga però alle implicazioni direttamente economiche (che non escludono certo queste reti) del modello, che tende a fare sistema nei suoi aspetti organizzativi e motivazionali, assai più di quanto non ci dicano certi superficiali commentatori. Basta pensare che il primissimo e principale esempio del car-sharing, pur decantato e apparentemente coccolato dai media, da un lato viene sempre visto claustrofobicamente in ogni implicazione interna e mai accoppiato a tante altre cose con cui invece si intreccia eccome, dall'altro sono addirittura le istituzioni ad ignorarne, platealmente, le potenziali sinergie a vantaggio del cittadino. Due esempi, sempre per restare agli aspetti tecnologici-organizzativi citati in apertura da Rosina: non esiste a tutt'oggi una app unica trasversale, corrispondente magari a un sistema unificato di funzionamento dei vari operatori e mezzi, e neppure si vedono a occhio nudo stimoli istituzionali a promuoverla; last but not least, ci sono voluti anni e anni e anni, perché nella città forse più avanzata anche da questo punto di vista, Milano, qualcuno iniziasse a vagheggiare (vagheggiare, non si è fatto nulla) di qualche incentivo in più per gli operatori dei veicoli elettrici, che sono, quelli sì, un potentissimo stimolo all'innovazione, se accoppiati al sistema della condivisione, per esempio sul versante dei veicoli, ma anche della produzione e distribuzione sostenibile di energia, e così di questo passo. Sul medesimo giornale, nell'edizione nazionale, leggiamo una lunga intervista sulla «promozione del veicolo elettrico» in cui si propone come rivoluzionaria l'idea di mettere delle prese di corrente sulla A1 Milano-Roma, lasciando ovviamente tutto il resto dell'universo identico, auto di proprietà col solo guidatore incluse: quanta strada c'è da fare! (f.b.)

«San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito». Intervista di Simonetta Fiori a Stefano Rodotà. La Repubblica, 19 novembre 2015

Nelcodice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, diuna incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflittopermanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, ungiurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l'irregolarità el'imprevedibilità della vita e l'astrazione formale della regola giuridica (Dirittod'amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluoanticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e isentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo ledonne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimentovolubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla diregolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi sientra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamentea disagio»

Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell'organizzazionesociale. E dunque il diritto s'è proposto come strumento di disciplinamentodelle relazioni sentimentali che non lascia spazio all'amore. Bastaripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto perun lungo periodo ha sancito l'irrilevanza dell'amore. E di fatto ha sacrificatole donne, codificando una diseguaglianza»

In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non hanulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, laprosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quellepatrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava ilpossesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato ilmodello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà delmarito»

Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anniSettanta del Novecento. Un'anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernitàoccidentale - dalla fine del Settecento in avanti - èstato terribilmente gerarchico. Dopo l'unificazione noi assorbimmo il codicefrancese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglieal marito. Pare che Napoleone durante la campagna d'Egitto fosse rimastocolpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra mogliee marito»

Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Maanche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazieall'influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve dellastoria, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell'incontrotra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»

Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei,Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell'eguaglianza tramarito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regolegiuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto chestavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stavasopra il codice civile»

Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Cortecostituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uominie donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizioneultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale nonsoggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di unacostruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l'Italia èl'unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto lacarta dei diritti dell'Unione europea»

Una carta che nell'accesso al matrimonio cancella il riferimento alladiversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell'articolo, l'articolo nove, bersaglio di unaforte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, cheperò io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo dellaconvenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria dellafamiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare innessun'altra giurisprudenza»

Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciaguratoradicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamentesensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatorenon se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il datonaturalistico e immodificabile»

Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio esull'aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell'ostinata contrarietà, laDc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»

Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l'amore cessò diessere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato diadulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, chemette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche inquella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parolaamore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d'amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?

«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglioè. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l'amore perché lo rispettafino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilitàsociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»

C'è il diritto d'amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedereal matrimonio. Ma c'è anche il diritto d'amore dei figli, che devono poteressere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c'è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessualimostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell'affettività. Eallora, domando, i figli dei genitori single?»

I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figuramaschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulleadozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l'uso autoritario deldiritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e primasaremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuovasituazione. Finché manteniamo il conflitto e l'esclusione, tutto questo diventapiù difficile»

Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delleadozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potràfarlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finiscemai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull'amore»
Sarebbe insensato tentar di risolvere il problema della costruzione di una nuova sinistra senza rompere la barriera che separa il mondo dei frammenti della vecchia sinistra dalla società.

Ilmanifesto, 19 novembre 2015

Ma anche perché la guerra è entrata nella testa dei nostri governanti, nell’agenda e nel lessico delle istituzioni europee, ne ha colonizzato l’immaginario e i protocolli, il linguaggio dei leader e gli ordini del giorno delle assemblee parlamentari.

Il socialista Francois Hollande — il presidente della Francia repubblicana, un tempo emblema delle libertà politiche e dei diritti dell’uomo — che parla con le parole di Marine Le Pen è il simbolo, tragico, di questa metamorfosi regressiva. Il governo “de gauche” francese, che si propone di modificare la Costituzione fino a intaccare le regole sacre dei diritti individuali e addirittura a ipotizzare il ritorno alla pratica primordiale della «proscrizione» — della cancellazione della cittadinanza per i reprobi che «non ne sono degni» trasformandoli in “eslege” -; e poi, appellandosi all’art. 42.7 dei Trattati, trascina l’Europa intera nella sua guerra — in un formale «stato di guerra» -, non rivela solo il compiuto fallimento del socialismo europeo, diventato col tempo non solo altro da sé ma l’opposto di se stesso. Mette in mostra anche uno «stato dell’Unione» ormai gravemente degenerato, incapace di tener fede nemmeno alla più elementare delle sue promesse originarie: tutelare la pace. Difendere i diritti. E intanto si rialzano muri e si chiudono confini contro le prime vittime di questa guerra di massa. Tutto questo la dice davvero lunga sul percorso a ritroso condotto in questi anni di crisi e di resa. E sull’urgenza che, a livello continentale, nasca e si consolidi una sinistra autorevole in grado di colmare quel vuoto. Una sinistra con le carte in regola — e senza scheletri negli armadi, bombe sulla coscienza e operazioni neo-coloniali nel curriculum — per parlare di pace, di giustizia sociale internazionale, di diritti (degli ultimi) e di doveri (dei primi).

I segni dell’emergere di una sinistra nuova, capace di emanciparsi dalla crisi delle socialdemocrazie novecentesche e di ritornare a contare nello scenario inedito attuale sono d’altra parte già visibili, soprattutto sull’asse mediterraneo, dalla Grecia, naturalmente — dove la riconferma del mandato a Tsipras con un voto plebiscitario fa di Syriza un punto fermo di contraddizione e di resistenza nel contesto europeo -, al Portogallo come alla Spagna. E anche in Italia, finalmente, le cose si sono messe in movimento. Il documento Noi ci siamo. Lanciamo la sfida, elaborato e condiviso da tutte le principali componenti di un’articolata area di sinistra — da Sel al Prc, da Futuro a sinistra a Possibile e ad Act, fino a Cofferati e Ranieri e, naturalmente a L’Altra Europa che per questa soluzione si è spesa senza risparmio -, indica finalmente una data, la metà di gennaio, per dare inizio al processo costituente con un appuntamento partecipato e di massa. E contemporaneamente offre una piattaforma politica di analisi e di prospettiva chiara e condivisa in una serie di punti qualificanti: la fine conclamata del centro-sinistra, la constatata natura degradata del Pd oggi incompatibile nel suo quadro dirigente con qualsiasi prospettiva di sinistra, la necessità di costruire, in fretta, un’alternativa autonoma, non minoritaria né testimoniale, competitiva e credibile.

Nello stesso tempo si lavora nelle città che andranno al voto nelle prossime amministrative: è di sabato scorso la formalizzazione, a Torino, di una candidatura forte, condivisa attivamente da tutte le realtà di sinistra, radicata nella storia sociale della città — parlo di Giorgio Airaudo -, in grado di contendere con credibilità il consenso sia a un centro-sinistra esausto, in debito di idee e di proposte, sia al Movimento 5 stelle, costituendo un possibile esempio virtuoso in campo nazionale. Va d’altra parte in questa direzione la formazione, alla Camera dei deputati, di una prima aggregazione, ancora parziale ma significativa, di deputati di Sel e di ex Pd sotto il nome di Sinistra italiana, che costituisce indubbiamente un fattore positivo, in grado di rendere più efficace l’opposizione in Parlamento alle controriforme renziane e di dare visibilità al processo aggregativo, a condizione di considerarla per quello che è: la nascita di un embrione di gruppo parlamentare (l’ha detto bene Cofferati: «Al Quirino è nato un gruppo parlamentare, non un partito»). E di non sovrapporla o identificarla tout court con il processo costituente del «soggetto politico unitario e unico della sinistra», che è — e deve essere — molto più ampio, necessariamente radicato nei territori e partecipato socialmente, caratterizzato da tratti di radicale innovazione di forme, contenuti, facce e linguaggi, se vuole reggere la sfida dei tempi (né considerazioni diverse si possono fare per il gruppo cui ha dato vita, sempre alla camera, Civati).

Dico questo perché il momento è delicatissimo: per il contesto drammatico in cui ci si muove, e per la fragilità dei processi al nostro interno. Ciò che avverrà nelle prossime settimane e mesi ha il carattere di un’ultima chiamata. Un ennesimo fallimento non sarebbe perdonato. La grande partecipazione alle occasioni pubbliche di questi giorni (a Roma al Quirino e a Torino per il lancio della candidatura di Airaudo) ci dice che esiste un’attesa ampia, per rispondere alla quale è indispensabile che la riuscita del processo unitario sia e resti l’ obbiettivo prioritario di tutti e di ognuno, senza piani di riserva, furbizie o espedienti di corto respiro, che non sarebbero compresi da nessuno. Ha perfettamente ragione Carlo Galli quando, su questo stesso giornale, chiede un minimo di pulizia del linguaggio (ci si astenga da espressioni gravide di disprezzo e di pigrizia nel capire come «cosa rossa»). E scrive che «la sinistra di cui c’è bisogno» ha da essere «rossa e realistica» — cioè capace di fare proprie, rinnovandole e rigenerandole nel contesto attuale, le sfide del movimento operaio in una chiave non testimoniale (esattamente l’opposto di una «cosa») -, «radicale e accorta, plurale e unitaria». E aggiunge che deve mostrarsi capace di realizzare un’«accumulazione originaria di pensiero e di energia politica» mettendo insieme molte eredità culturali.

Ma esattamente per questo non può chiudersi, proprio ora, in recinti ristretti. In ciò che sopravvive «dentro le mura». Non può pensarsi — sarebbe mortale — come semplice prolungamento di una parte di ciò che è stato, né come Federazione di frammenti di un’unità passata andata in frantumi, né tantomeno come somma di personalità – o personalismi – in competizione per un’egemonia esangue. L’accelerazione in corso chiede di uscire dalle mura, contaminarsi con ciò che c’è «fuori». Per riportare fra noi chi è uscito, e conquistare chi non c’è mai stato. Ogni altra via ci consegnerebbe a percentuali di consenso residuali, di cui non c’è spazio né bisogno.

Per questo l’incontro di gennaio dovrà essere davvero all’insegna di uno stile nuovo di ragionare e di agire, preparato da un percorso – decine di assemblee, poi una carovana dell’alternativa – nei territori, strutturato in modo tale da restituire la parola a chi in questi anni l’aveva perduta o se l’è vista sequestrare, con un orizzonte compiutamente europeo e trans-nazionale come appunto transnazionali sono le sfide politiche da affrontare. Soprattutto dovrà essere un esercizio di pensiero.

La quotidianità del terrore, che noi sperimentiamo sporadicamente, in tanti paesi è la realtà di ogni giorno. Così come il dramma dei rifugiati che arrivano in Europa, in fuga dall’islamofascismo dell’Is e poi bersaglio dell’odio xenofobo».

La Repubblica, 19 novembre 2015

Certo, gli attentati terroristici di venerdì 13 a Parigi vanno condannati senza riserve, ma... bando alle scuse, vanno condannati davvero, quindi non basta il patetico spettacolo di solidarietà di tutti noi (persone libere, democratiche, civili) contro il Mostro musulmano assassino. Nella prima metà del 2015, a preoccupare l’Europa erano i movimenti radicali di emancipazione (Syriza, Podemos) mentre nella seconda l’attenzione si è spostata sulla questione “umanitaria” dei profughi — la lotta di classe è stata letteralmente repressa e rimpiazzata dalla tolleranza e dalla solidarietà tipiche del liberalismo culturale.

Ora, dopo le stragi del 13 novembre, questi concetti sono stati eclissati dalla semplice opposizione di tutte le forze democratiche, impegnate in una guerra spietata contro le forze del terrore — ed è facile immaginarne gli esiti: ricerca paranoica di agenti Is tra i rifugiati. I più colpiti dagli attentati di Parigi saranno i rifugiati stessi e i veri vincitori, al di là degli slogan stile je suis Paris, saranno proprio i sostenitori della guerra totale da entrambe le parti. Ecco come condannare davvero le stragi di Parigi: non limitiamoci alle patetiche dimostrazioni di solidarietà, ma continuiamo a chiederci a chi giova. I terroristi dell’Is non vanno “capiti”, vanno considerati per quello che sono, islamofascisti, in antitesi ai razzisti europei anti-immigrati, due facce della stessa medaglia.

Ma esiste un ulteriore aspetto che dovrebbe farci riflettere — la forma stessa degli attentati: un estemporaneo, brutale, sconvolgimento della normale quotidianità. Questa forma di terrorismo, una turbativa momentanea, è caratteristica soprattutto degli attentati nei paesi occidentali sviluppati, in contrasto con paesi del Terzo Mondo in cui la violenza è realtà permanente. Pensiamo alla quotidianità in Congo, Afghanistan, Siria, Iraq, Libano... quando mai si manifesta solidarietà internazionale di fronte a qualche centinaio di morti in questi paesi? Dovremmo ricordarci ora che noi viviamo in una “sfera” in cui la violenza terrorista esplode di quando in quando, mentre altrove (con la complicità occidentale) la quotidianità è terrore e brutalità.

I recenti attentati terroristici a Parigi al pari del flusso dei profughi, sono per noi un momentaneo promemoria del mondo violento al di fuori della nostra sfera, un mondo che in genere vediamo in televisione, remoto, distante, non come parte della nostra realtà. È per questo che è nostro dovere acquisire piena consapevolezza della violenza brutale che impera fuori dalla nostra sfera, non solo violenza religiosa, etnica e politica, ma anche violenza sessuale. Nella sua straordinaria analisi del processo Pistorius, Jacqueline Rose indica che l’omicidio della fidanzata va interpretato nel complesso contesto della paura che i bianchi nutrono nei confronti della violenza dei neri nonché della terribile e diffusa realtà della violenza contro le donne: «Ogni quattro minuti in Sudafrica una donna o una ragazza, spesso adolescente, talvolta bambina — è vittima di stupri denunciati e ogni otto ore una donna viene uccisa dal compagno». In Sudafrica questo fenomeno ha un nome: “femminicidio seriale”.

È un aspetto che non deve essere assolutamente considerato marginale: da Boko Haram e Mugabe fino a Putin, la critica anticolonialista dell’Occidente si configura sempre più come rifiuto della confusione “sessuale” occidentale e richiesta di tornare alla tradizionale gerarchia sessuale. Sono ben consapevole che l’esportazione non mediata del femminismo occidentale e dei diritti umani individuali può fare il gioco del neocolonialismo ideologico e economico (ricordiamo tutti che alcune femministe americane hanno appoggiato l’intervento statunitense in Iraq come mezzo per liberare le donne locali, con il risultato esattamente opposto). Ma in ogni caso assolutamente rifiutare di trarne la conclusione che gli occidentali di sinistra dovrebbero scendere a un “compromesso strategico” tollerando in silenzio “il costume” di umiliare le donne e gli omosessuali a beneficio della lotta anti-imperialista.

Quindi torniamo alla lotta di classe e l’unico modo per farlo è ribadire la solidarietà globale degli sfruttati e degli oppressi. Senza questa visione globale la patetica solidarietà alle vittime di Parigi è un’oscenità pseudo-etica.

© Slavoj Zizek Traduzione di Emilia Benghi

Le immagini di morte e distruzione degli ultimi giorni ci ricordano quanto ciascuno di noi sia piccolo al cospetto dei grandi problemi dell’umanità, ma allo stesso tempo ci impongono una scelta, un’assunzione di responsabilità, un impegno collettivo che non lascia spazio all’indifferenza. Ci ricordano quanto sia urgente, come ricordato da Luigi Ciotti in occasione dell’ultimo saluto a Pietro Ingrao, «una politica come strumento di giustizia sociale, dunque di pace», e quanto sia decisivo l’impegno di tutti e di ciascuno al fine di perseguire tale obiettivo.

Nel bisogno di costruire «un altro mondo possibile» è facile individuare le ragioni del nostro impegno, in Italia quanto in Europa, per la costruzione di una sinistra politica all’altezza delle sfide del nostro tempo, ma non sfuggirà a nessuno, neppure all’osservatore meno attento, quanto questo obiettivo sia di là da venire.

Per fortuna qualcosa si muove. Proprio sulle colonne di questo giornale — all’interno dell’ampio dibattito C’è vita a sinistra — è stato possibile trovare diversi e autorevoli spunti sul tema, e la recente creazione del gruppo parlamentare Sinistra Italiana sembra finalmente aver dato una scossa al dibattito, un segnale percepito da molti (e a buon ragione) di controtendenza rispetto alle divisioni degli ultimi anni.

Pensiamo che ciò basti? Che l’iniziativa parlamentare sia esaustiva al fine di costruire un soggetto politico in nome e per conto degli uomini e delle donne che la sinistra ambisce a rappresentare?

Evidentemente no, non lo è, seppur non sia intenzione di chi scrive disconoscerne il valore. Piuttosto dovremmo interrogarci su quali siano gli strumenti utili per rendere la nostra iniziativa politica sempre più partecipata, dal basso e nel basso della nostra società, su come far diventare la rappresentanza istituzionale quello che Stefano Rodotà ha correttamente definito un «terminale sociale» per realtà civiche, reti, sindacati, movimenti, associazioni, singoli cittadini, insomma per quei tanti che, qui ed ora, ci chiedono di condividere un cammino per il cambiamento, per costruire insieme un’alternativa all’attuale stato delle cose.

Democratizzare i processi decisionali, renderli sempre più trasparenti e partecipati, mettere in rete competenze ed esperienze, puntare sullo sperimentalismo democratico, sono tutte sfide dalle quali non possiamo prescindere, ingredienti essenziali per la costruzione di un soggetto politico che sia di tutti e di tutte.

Su questi temi molti di noi sono impegnati da mesi. Come per la costruzione, ad esempio, di una piattaforma digitale che possa essere strumento di partecipazione, condivisione e attivazione che, come ci ha insegnato Manuel Castells, possa utilizzare la tecnologia come strumento di libertà, piuttosto che come dispositivo di dominio. Uno strumento recentemente utilizzato da Podemos per la stesura del proprio programma di Governo, che non sostituisca l’attivismo politico fatto sul territorio e la forma partito, ma che al contrario sia capace di innovare entrambi, renderli più democratici, più partecipati, in una parola più efficaci.

Su questo, come su tanto altro, ci siamo confrontati lo scorso settembre con un gruppo di lavoro che si è appositamente costituito, e che vede l’adesione di diverse esperienze politiche desiderose di lavorare insieme e che hanno risposto positivamente ad una specifica call to action (http:// con -senso .tumblr .com).

In queste settimane stiamo lavorando per valutare alcune strade da perseguire per la realizzazione della piattaforma, ma il suo senso e la sua utilità risponde ad un’esigenza profondamente politica.

Per questo dovremmo allargare ulteriormente le maglie del confronto, trovare le modalità per intrecciare i contributi fin qui elaborati con l’annunciato evento di gennaio che dovrebbe dare il via al percorso costituente. Per farlo servirà un atto di coraggio necessario, ovvero liberare qualsivoglia iniziativa dalla dimensione pattizia, dalla somma algebrica di ceto politico e da spinte identitarie e conservative, puntando al contrario sul riconoscimento delle differenze come valore aggiunto, come forza della nostra azione politica e non come debolezza.

Il resto lo decideranno le donne e gli uomini che parteciperanno al processo stesso, e magari, potremmo scoprire proprio lì, in questo cammino comune, che nella nostra società ci sono risorse più utili e più vitali al fine di costruire un soggetto politico di sinistra (di tutti e tutte) di quanto lo siano gli attuali gruppi dirigenti.

* Act – Agire, costruire, trasformare

«Così procede l'Europa, seguendo il fallimento della politica statunitense come un cagnolino addomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, verso nuove guerre e nuovi esodi».

Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2015

Gli attentati del 13novembre a Parigi sono stati perpetrati da assassini che hanno storie eprovenienze diverse, e sono tuttavia legati da esperienze comuni di foreignfighters, attratti dalla propaganda e dalle guerre dell’Isis. Molti di essi,intervistati, dicono di appartenere alla “generazione della guerra alterrorismo”: guerra scatenata da noi, cui gli affiliati dell’Isiscomincerebbero a rispondere spargendo sangue fin dentro l’Europa. Sempre dalloro punto di vista, a una guerra che ha ucciso migliaia di civili non si puòche rispondere con una guerra contro i civili europei.
L’Europa reagisce:“Siamo in guerra”. Un annuncio ovvio, la guerra è in corso da 14 anni. Quelche conta è capire come mai quest’ultima ha fallito e come combattere l’Isis.L’Europa reagisce anche con più controlli alle frontiere, e pure questo sarebbeovvio se non tendesse a mescolare rifugiati, richiedenti asilo e aspirantikamikaze, politica della migrazione e strategia antiterrorista.

L’unica guerra
ècontro i migranti

Alcunisostengono che fin dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 siamo alleprese, non solo in Europa, con una “guerra ai migranti”. Ma le fughe di massa ele migliaia di morti in mare e su terra sono il danno collaterale di una seriedi guerre che l'Occidente ha scatenato per ragioni geopolitiche in Afghanistan,Iraq, Libia, e prima ancora in ex Jugoslavia: regioni dove ha provocato, epresentato come soluzione, non la pacificazione che pretendeva ma il tracollodelle strutture statali e la loro settarizzazione, etnica o religiosa.L'Occidente ha acuito i conflitti appoggiando l'Arabia Saudita: è il casodello Yemen. In altri casi i profughi sono vittime di dittature che l'Unionefavorisce. La dittatura dell'Eritrea viene addirittura finanziata dall'Unione(e così per i paesi del “processo di Khartoum” di cui si è parlato al verticeeuropeo di La Valletta) nella speranza che il despota Afewerki trattenga ipropri fuggitivi, in galera o nei campi.

E qui che il discorsogeostrategico e la semantica dei rifugiati si congiungono. Il nome piùcorretto da dare a chi approda in Europa non dovrebbe più essere quello dimigranti, o ancor meno migranti illegali, ma di rifugiati: la percentuale deicittadini aventi diritto a protezione, sugli arrivi illegali via mare inEuropa, è stata quest'anno del 75 per cento, secondo l'Economist, soprattuttodalla Siria e altri Paesi in guerra o sotto dittatura. Ma dovremmo chiamarlicol nome che ha dato loro James A. Paul, ex direttore esecutivo del GlobalPolicy Forum a New York. I siriani, gli iracheni, i libici, gli afghani, sonoregime change refugees, rifugiati nati dalla cosiddetta esportazione dellademocrazia che ha caratterizzato il disordine unipolare a guida Usa nel dopo-guerrafredda. È un'espressione che i governi occidentali non useranno mai perché –spiega James Paul– “l’aggressiva bestia nazionalista dell'establishment deiPaesi ricchi non è disposta a imparare la lezione, e a prevedere la vampa diritorno scatenata da futuri interventi militari”.

La strategia militare del regimechange in Afghanistan, Iraq, Libia, ha prodotto caos e Stati falliti, finendocol dar vita e forza all'Isis. Ma l'esperimento è ricominciato tale e qualecon la grande illusione delle primavere arabe, illusione che a partire dal 2011ha ingenerato la campagna per abbattere in Siria Bashar al Assad, mentre l'Isise le forze siriane di al Qaeda hanno anzi ricevuto finanziamenti Usa. Lacampagna in Afghanistan è stata condotta con l'aiuto del Pakistan, quella inSiria con l'aiuto dell'Arabia Saudita e Qatar: sono gli Stati principali da cuiprovengono – fin dall'11 settembre 2001– i dirigenti sia di al Qaeda, siadell'Isis. Anche nello Yemen, la preoccupazione statunitense è stata dispalleggiare l'Arabia Saudita, in funzione anti-iraniana. Il 28 settembre, duegiorni prima di intervenire militarmente in Siria, Vladimir Putin ha dettoall'assemblea dell'Onu: “Chiedo a tutti coloro che hanno creato questa situazione: vi rendete almeno conto ora di cosa avete fatto? Temo che ladomanda non riceverà risposta, perché i responsabili non hanno maiabbandonato la loro politica, basata sull'arroganza, l'eccezionalismo el'impunità”. È difficile dargli torto. Ancora non sappiamo l'esito della suacampagna in Siria. Ma l'egemonia Usa e il suo disordine unipolare sono falliti,lasciando in eredità caos e disperate fughe di popoli.

La nuova Europa
è peggio della vecchia

Al “grande gioco” che ha la Siria come epicentro andrebbero aggiunte le questionigeopolitiche interne all'Unione. Fin dalla guerra di Bush jr in Iraq, nel 2003,l'Unione è divisa in due: una vecchia e una nuova Europa. La seconda vede sestessa come vittima della storia ed è priva di complessi su guerra, pace eautoritarismo. Non che la prima sia aperta ai rifugiati. Ma c'è un vasto arco,a Est, che sembra ignaro della Carta Europea dei diritti o delle ConvenzioniOnu sui rifugiati, e che con la massima impudenza costruisce muri e impedisceogni passo avanti sulla questione. Nelle sue chiusure, l’Est dell’Unione sisente più che mai rafforzato, in questi giorni, dagli eventi parigini. Parlodella Polonia in prima linea – visto il peso politico che ha nell'Unione –e della Repubblica Ceca, della Slovacchia, dell'Ungheria, dei Baltici. Averallargato l'Unione a questi paesi, senza porre condizioni stringenti eridiscutere i rapporti dell'Europa con la Nato, si sta rivelando una sciagura.La loro opposizione è netta a condividere le responsabilità nella sistemazionedei richiedenti asilo, ad accettare i piani di ricollocazione, a evitare laconfusione tra rifugiati e terroristi dell’Isis. Il governo slovacco accetta unsiriani, ma a condizione che siano cristiani. Affermazioni simili sono venutedal governo polacco precedente la vittoria di Jarosaw Kaczynski. L'Ungheriacostruisce muri e agita lo spauracchio di una società multietnica. Nei paesibaltici è del tutto assente una cultura di pluralismo etnico: in Lettonia laminoranza russa è ufficialmente apolide, privata di diritti civili fondamentali.

Ma il peggio ce lo hariservato Donald Tusk, già premier polacco, oggi presidente del Consiglioeuropeo, che ha pronunciato frasi indegne della carica che ricopre. Il 13ottobre, in una lettera ai colleghi del Consiglio europeo, ha scritto: “Lafacilità eccezionale con cui si entra in Europa costituisce uno dei principalipull factor” per migranti e profughi. Lo stesso argomento fu usato perl'operazione Mare Nostrum: salvava troppe persone e fu affossata per essersostituita da Frontex, che non fa più proattivamente Search and Rescue. Nellastessa lettera, Tusk ha auspicato un accordo con la Turchia sui rimpatri. È laparola d'ordine del momento (“la Turchia ci salverà, diventerà il nostro partnerprivilegiato”): questo proprio nel momento il cui Erdogan sta stabilendo unregime liberticida, colpendo i curdi in Siria e Iraq con la scusa di combatterel'Isis in nome della Nato.
Tusk fa capire chebisognerebbe dare qualcosa a Erdogan: “La Turchia ci sta chiedendo di sostenerela formazione di una safe zone nel Nord della Siria, opzione che Moscarifiuta”. Dovrebbe rifiutarla anche l'Unione, ma i suoi dirigenti non si pronunciano.In realtà, la safe zone serve solo a controllare e intrappolare i curdi in Siria.Il 22 ottobre, al Congres-so del Partito popolare europeo di Madrid, ilPresidente del Consiglio Ue ha rincarato la dose: “Dobbiamo smettere di farfinta che il grande flusso di migranti sia qualcosa che noi vogliamo, e chestiamo conducendo una politica intelligente di frontiere aperte. La verità èdiversa: abbiamo perso l'abilità di proteggere le nostre frontiere, la nostraapertura non è una scelta cosciente ma è la prova della nostra debolezza”.

Così procede l'Europa –fingendo di non capire cosa siano la forza e la debolezza, distorcendo parole ecifre, seguendo il fallimento della politica statunitense come un cagnolinoaddomesticato – così procede, sonnambula come tante volte in passato, versonuove guerre e nuovi esodi

L' insegnamento che bisogna trarre dall'aggressione razzista a Milano. Il nostro mondo è intriso dalla paura, ma «alla paura si risponde solo con la buona politica della ragione».

la Repubblica, 14 novermbre 2015

NATHAN Graff, accoltellato a Milano in una via abitata per lo più da membri della comunità ebraica, non corre pericolo di vita: e questa è l’unica buona notizia. Chi l’ha aggredito voleva ucciderlo, su questo non ci sono dubbi. Varie coltellate e la presenza di un complice in macchina depongono sul carattere proditorio e premeditato dell’aggressione. E il ricorso al coltello come arma ci mette davanti a una scelta dall’evidente ascendenza culturale e rituale. Pochi dubbi restano sul movente razzistico.

Ozioso chiederci se si è trattato di un razzismo antico, europeo e nazifascista, o se è un razzismo nuovo, di derivazione pseudoislamica. Ma niente vieta che le due strade si intreccino. La modalità dell’aggressione fa pensare che siamo davanti a un’eco europea della “Intifada dei coltelli”. O altro ancora. Ma intanto una cosa è certa: la paura strisciante di un ritorno in forme nuove dello spettro antico dell’odio per l’ebreo ha da oggi un motivo di più. E c’è da meditare sulle contraddizioni della vita e della storia quando si vede che quella paura è un fiume fatto di tanti rivoli, una corrente sotterranea che si affaccia allo scoperto.
Ha trovato alimento perfino in Israele, nella propaganda del premier Benjamin Netanyahu e nel suo progetto di superfortezza israeliana: suo è stato l’invito agli ebrei d’Europa a lasciarsi alle spalle il continente della Shoah e a ritirarsi in Israele. E intanto la sua politica alimenta l’odio dell’Intifada, con un corto circuito infernale.

Ma parliamo d’Europa visto che il caso nasce a Milano, la nostra città più europea. Devono andarse gli ebrei dall’Europa? Josef Schuster, presidente della comunità ebraica tedesca (una delle più numerose al mondo, circa 200.000 sopravvissuti e rimpatriati), ha ribattuto a Netanyahu garantendo sulla sicurezza di cui godono i suoi rappresentati. Ma gli è scappata una frase che ha meravigliato lui stesso: «Meglio portare un altro copricapo, non la kippah». «Non l’avrei immaginato cinque anni fa — ha detto poi — ed è già un poco spaventoso».

Di fatto c’è, preesiste un’inquietudine, che di tanti episodi diversi finisce col formare un’unica nuvola nera, di paura e di insicurezza. Sfuma nel passato lontano la memoria della Shoah. Si scopre adesso con stupore e delusione che la storia della liberazione di Auschwitz fu tutt’altro che quell’avvio liberatorio di un mondo diverso che abbiamo spesso immaginato. Se c’era qualche illusione in proposito, è stata dispersa dall’inchiesta del giornalista americano Eric Lichtblau (I nazisti della porta accanto, Bollati Boringhieri).
Quella che avrebbe dovuto essere una svolta netta e definitiva fu in realtà tutt’altro: fu un paesaggio di nazisti riciclati e ricercati dall’apparato militar-scientifico americano della guerra fredda e di ebrei spregiati e trascurati, lasciati a lungo a marcire negli stessi lager. E intanto rimaneva vivo un pregiudizio antisemita anche tra i vincitori, come un virus non debellato, pronto a riprendere forza. Oggi si combatte la paura con rimedi solo apparenti, come le leggi contro il reato di negazionismo fatte per rassicurare le comunità ebraiche. È accaduto anche in Italia con un’operazione della cui sensatezza ed efficacia si è molto dubitato. Un placebo contro la paura, appunto.

Alla paura si risponde solo con la buona politica della ragione. Ci si vuole spaventare ma, come ha detto Renzo Gattegna presidente dell’unione delle comnità ebraiche italiane, si deve andare avanti: si rafforzino le misure di sicurezza ma senza cedere alla volontà di seminare il terrore che ha partorito questa aggressione, forse connessa alla prossima visita in Italia del presidente iraniano Hassan Rohani. E intanto ci si aspetta chiarezza sugli autori: che sembrano davvero corpi estranei in una città come Milano, ombre materializzatesi in un contesto di serena vita civile.

Naturalmente il desiderio di allontanare da noi il male non deve farci ombra. Il mare dell’ingiustizia e della violenza del mondo cresce di continuo. Davanti alle porte di ferro dell’Europa si schiacciano moltitudini di migranti, uomini donne e bambini: quanti anni ci vorranno per lasciarli entrare? La non-politica degli Stati nazionali nei loro confronti ha fatto sbottare perfino il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. In queste condizioni si può riaffacciare lo spettro del solito capro espiatorio, l’ebreo. Bisogna dunque che all’aggressione che isola e colpisce un uomo solo per terrorizzarne mille si risponda con una di quelle reazioni collettive che dissipano le ombre e spazzano il cielo dalle nuvole nere vecchie e nuove. L’Europa ne ha trovato la strada quando ha riscoperto nella sua eredità storica i valori di libertà e di solidarietà che le appartengono, veri fondamenti di una costruzione unitaria continuamente a rischio di crollo per il nazionalismo dei governi e per la cieca violenza sociale dei poteri finanziari. È accaduto davanti all’attentato a Charlie Ebdo, quando l’aggressione del terrorismo islamico ha ricevuto la risposta di una Parigi risorta a vera capitale d’Europa, e ora messa di nuovo davanti a una prova durissima. Ed è accaduto quando la cancelliera Merkel ha dato un grande e imprevedibile colpo di timone alla società tedesca stimolandone la virtù dell’accoglienza. Queste sono le risposte giuste ai mostri della paura, sempre in agguato nella società impoverita e frammentata, carica di rancore e di violenza, che il neoliberismo ci ha cucito addosso in questi nostri anni.

. La Repubblica, 17 novembre 2015

Per questa battaglia la vittoria non dipende dai carnefici ma dalle vittime. I terroristi non possono vincere. Non hanno i mezzi per sopraffarci, per governarci. La bandiera nera non sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla “guerra santa”.

Se ci faremo ipnotizzare dal nemico non perderemo solo la guerra. Molto peggio: perderemo noi stessi, ovvero quel che resta delle nostre libertà. Se invece sapremo leggere la cifra di questa sfida e reggere nel tempo agli attacchi con cui i jihadisti cercheranno di convertirci alla loro barbarie, finiremo per averne ragione.

Conviene perciò chiedersi chi siano e quali progetti abbiano i nostri nemici.
I jihadisti sono umani. Certo, usano tecniche disumane. Molti (non tutti) paiono ubriachi di fanatismo. Ma non sono insensibili alla fama, al denaro e al potere. Si occupano anzi di accumularne. In attesa di farsi trovare dalla parte giusta allo scoccare dell’Apocalisse. L’ideologia da fine del mondo è un formidabile magnete, capace di attrarre non solo islamisti radicali emarginati nelle nostre periferie estreme, ma anche figli della buona borghesia europea in cerca di avventura. Persino atei, cristiani, ebrei. A ricordarci quanto fragili e sempre revocabili siano le fondamenta della nostra civiltà.

Sarebbe ingenuo scambiare la propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi per strategia. Il califfato universale è un riferimento metapolitico evocato a fini seduttivi da chi sa di non poterlo avvicinare.
L’obiettivo dello Stato Islamico non è la conquista di Roma, di Parigi o di Washington. È anzitutto di radicarsi nel territorio a cavallo dell’ormai inesistente frontiera fra due Stati defunti - Siria ed Iraq -espellendone o liquidandone le minoranze refrattarie al proprio dominio. A cominciare dagli arcinemici: i musulmani sciiti. Da questo Stato in fieri e grazie al suo marchio vincente il “califfato” mira ad espandere la propria influenza nel mondo sunnita.

Nel loro territorio i jihadisti di al-Baghdadi si dedicano a gestire traffici d’ogni genere - dagli idrocarburi ai reperti archeologici, dalle armi alle droghe e agli esseri umani - i cui mercati di sbocco sono tutti in Occidente. Quando ci interroghiamo sui loro finanziatori, alla lunga lista di entità islamiste e petromonarchie sunnite dobbiamo aggiungere noi stessi.

Di qui alcune conseguenze operative per evitare di suicidarci in questo scontro di lungo periodo, che ci impone pazienza, freddezza, capacità di assorbire attacchi e provocazioni.

Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità. Ma non abbiamo mezzi, uomini e volontà per ingaggiare una grande guerra “stivali per terra” nei deserti mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio.
Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare. Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno alimentato i seguaci del “califfo”. Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi — americani e britannici su tutti — hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano contribuito a nutrire. Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga con l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista. Infine, è ovvio che su questo scacchiere russi e iraniani sono risorse, non avversari. Fare la guerra fredda a Putin e la guerra calda al “califfo”, insieme trattando i persiani da appestati, è poco intelligente.

Terzo. Serrare le file fra tutti gli alleati sul fronte dell’intelligence e delle polizie. Siamo lontani da un’effettiva cooperazione. Un esempio per tutti. Il giorno prima della catena di attentati a Parigi i carabinieri del Ros, insieme alle polizie britannica, norvegese, finlandese, tedesca e svizzera, avevano messo le mani su una rete di sedici jihadisti curdi e un kosovaro, dopo un’indagine di cinque anni condotta soprattutto sulla Rete (“Operazione Jweb”). A coordinare i terroristi era il famigerato mullah Krekar. Non da chissà quale anfratto mediorientale, ma dal suo carcere norvegese. Appartamento di tre stanze e servizi, dal quale — grazie ai laschi standard norvegesi — era in costante contatto in codice via Internet con i suoi diciassette apostoli, e chissà quanti altri. Finché i partner europei e atlantici continueranno a muoversi ciascuno per suo conto e con i suoi metodi, sarà arduo prevenire gli attacchi terroristici.

Quarto, ma non ultimo per rilievo. Resistere alle tentazioni razziste, rilanciate da media in cerca di visibilità. Le equazioni arabo musulmano=terrorista e (peggio) rifugiato=jihadista oltre che false sono pericolose. Manna per la propaganda “califfale”. E conferma che sul decisivo fronte della comunicazione spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi.
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