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«La risposta affidata solo alle armi è troppo semplice rispetto a una sfida complicatissima dal punto di vista militare e politico. E non ferma la propaganda dell’Is che ha ormai fatto breccia anche in Europa».

La Repubblica, 4 dicembre 2015 (m.p.r.)

La settimana scorsa, in un pomeriggio piovoso nel sobborgo brussellese di Molenbeek, un uomo di 27 anni di nome Montasser parlava di Siria di fronte a un tè e a del pane arabo. Parlava di un uomo più giovane, di 19 anni, con cui era stato in contatto. Il ragazzo era in Siria orientale con lo Stato islamico, e si era offerto per una missione suicida. Montasser cercava di convincerlo a non morire. Non ci era riuscito. Alcuni giorni prima il ragazzo si era fatto saltare in aria contro le «forze nemiche infedeli» in Iraq.
L’episodio illustra molte cose di grande importanza nel momento in cui lo sforzo militare contro l’Is sale di livello. Dimostra che l’Is continua a esercitare forte attrattiva sui giovani musulmani europei, nonostante l’intensificazione dei bombardamenti. Dimostra che i confini del Medio Oriente, vecchi di un secolo, sono irrilevanti per Daesh e seguaci. E mette in evidenza che i raid aerei garantiranno benefici solo marginali nella battaglia contro l’Is. La minaccia dello Stato islamico per l’Europa è come una catena di meccanismi diversi, ma collegati. C’è il meccanismo che attira adolescenti dall’Europa alla Siria. C’è il meccanismo dello Stato che li addestra, li condiziona psicologicamente e poi gli assegna delle missioni. C’è il meccanismo che li rispedisce in patria per uccidere e quello che li mette in condizione di farlo una volta in Francia, Belgio, Regno Unito, Italia o altrove. Tutti questi meccanismi devono agire insieme perché Daesh possa effettuare un attacco contro città europee. E devono essere tutti smantellati per eliminare la minaccia.

L’Europa si è accorta che la cooperazione fra i servizi di intelligence non è andata di pari passo con l’allargamento dell’Ue, e che la mancanza di confini interni significa che bisogna incrementare le risorse per la vigilanza contro possibili minacce. Ci saranno investimenti in risorse tecnologiche, e modifiche legislative per garantire maggiori possibilità di intrusione. Si cercherà di trovare dei modi per individuare in numero maggiore gli estremisti già noti e impedire loro di sfruttare il caos portato dalla crisi dei profughi. David Cameron, il premier britannico, ha detto al Parlamento che la strategia oltre ai raid aerei comprende 70.000 potenziali alleati sul terreno e uno sforzo diplomatico per mettere fine alla guerra civile. Ma queste decine di migliaia di combattenti sono qualcosa che si può solo sperare, non prevedere. E anche i più ottimisti si limitano a sperare in piccoli passi verso una soluzione diplomatica finale al problema più generale del conflitto nella regione.

Uno degli obbiettivi principali della campagna aerea è impedire allo Stato islamico di sfruttare il petrolio. Ma oggi l’Is dal petrolio guadagna molto meno di un anno fa, e gran parte dei suoi introiti viene dalle tasse, non dal commercio. E le tasse non si possono colpire con bombe o missili. La verità, come i leader politici sanno, è che Daesh prospera non in virtù della sua forza, ma per la debolezza e l’interesse egoistico degli Stati che lo circondano, e in virtù della battaglia settaria fra sunniti e sciiti. I raid aerei servono a poco per risolvere le ragioni che spingono alcuni ragazzi a lasciare posti come Molenbeek e andare in Siria. Perché ci vanno? Se c’è qualche legame con la povertà, è un legame indiretto. La disoccupazione è chiaramente un fattore.

Chi si occupa di radicalizzazione sottolinea che quasi nessuno di quelli che vanno in Siria ha responsabilità finanziarie. Probabilmente perché chi queste responsabilità le ha avverte un senso del dovere, o magari perché l’atto stesso di provvedere ad altre persone attraverso il proprio lavoro offre un ruolo e uno status che mettono al riparo dal rischio di radicalizzazione. La cosa più importante sono le persone, non le statistiche o i luoghi. La radicalizzazione è un processo, non un evento. Una ricerca dell’Università di Oxford mostra che nella maggioranza dei casi a spingere una persona verso l’estremismo islamista sono amici o familiari. La militanza islamica non è un lavaggio del cervello. È un movimento sociale che viaggia attraverso reti di parentela e amicizia per irretire giovani del tutto normali. La propaganda li attira perché, per quanto deviati e distorti siano i loro desideri, offre qualcosa. Una volta in Siria, nello spazio ristretto di brutalità e violenza del conflitto e dentro un gruppo estremista, si instaura una dinamica differente. Se mai tornano a casa, non sono più normali.

Nulla di tutto questo si può risolvere con i raid aerei, ma il problema vero è che le immagini di jet pesantemente armati che decollano verso i bersagli in Siria ci rassicurano. E ci sviano anche, perché pensiamo che i nostri leader abbiano trovano una risposta semplice e concreta alla sfida complicatissima che abbiamo di fronte. Significa che la prossima volta che ci sarà un attacco nell’Europa continentale la gente sarà arrabbiata e delusa. Sarà anche più spaventata di prima, perché qualcosa non ha funzionato. Provocare paura è ciò che vogliono i terroristi. Questa settimana, mentre l’Europa si accinge alla «guerra» contro l’Is, i nostri leader farebbero bene a ridurre le aspettative, invece di accrescerle.

Traduzione di Fabio Galimberti

«Libertà di stampa. Direttore e caporedattore di "Cumhuriyet" accusati di spionaggio per un articolo sul traffico d'armi in Siria. Incarcerati su denuncia del presidente turco». Appello degli intellettuali.

Il manifesto, 3 dicembre 2015

Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet è stato arrestato il 26 novembre scorso dalle autorità turche insieme ad Erdem Gül, capo della redazione di Ankara dello stesso giornale. I due sono stati fermati con l’accusa di aver divulgato lo scorso maggio notizie sul sequestro e la perquisizione di alcuni camion appartenenti ai servizi segreti turchi (Mit) carichi di armi e diretti in Siria. L’accusa a carico dei due giornalisti è di spionaggio politico e militare, divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato e propaganda a favore di organizzazioni terroristiche, più precisamente quella che fa capo al predicatore islamico Fetullah Gülen. Esule da anni negli Stati Uniti, Gülen è stato un tempo alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan, ma oggi è accusato di essere l’architetto del cosiddetto «stato parallelo» contro cui le operazioni di polizia si contano ormai a centinaia.

In particolare, i giornalisti di Cumhuriyet sono accusati di aver costruito notizie false attraverso informazioni ricevute dall’organizzazione di Gülen, allo scopo di dare un’immagine della Turchia come collaboratrice di gruppi terroristi.

L’arresto è l’esito di un’indagine lanciata a fine maggio scorso, quando Cumhuriyet aveva pubblicato un articolo dal titolo «Ecco le armi che Erdogan sostiene non esistano», in cui si rendeva pubblico il sequestro, avvenuto nel gennaio 2014 da parte della polizia, di tre camion carichi di armi nascoste sotto casse di medicinali diretti in Siria. L’arsenale includeva munizioni per artiglieria e mitragliatrici, colpi di mortaio e munizioni per contraerea, contenuti in casse con scritte in cirillico e partite dall’aeroporto Esenboga di Ankara.

L’operazione di polizia, avviata da una soffiata ricevuta dal procuratore generale di Adana che aveva quindi autorizzato le indagini ed il sequestro, rischiava di porre nuovamente la Turchia sul banco degli imputati per l’atteggiamento ambiguo nei confronti dello scenario siriano e dei gruppi armati che vi combattono. Non è mai stato chiarito a chi fosse destinato il carico di armi.

La circolazione della notizia sui media nazionali era poi stata immediatamente bloccata da un’ordinanza del tribunale di Adana, che aveva disposto il bando di ogni materiale scritto, audio video e online sulla perquisizione dei camion, mentre i contenuti già online venivano cancellati.

Erdogan stesso aveva commentato l’episodio sostenendo che i responsabili della divulgazione avrebbero pagato un prezzo salato. Il presidente turco aveva sporto personale denuncia contro Dündar, chiedendone due ergastoli più 42 anni di carcere per aver minato gli interessi dello stato attraverso l’uso di falso materiale giornalistico.

Dopo il blocco delle indagini e la restituzione dei camion al personale del Mit (i Servizi segreti turchi), grazie all’intervento diretto del governatore di Adana, diversi membri ed ufficiali delle forze di polizia erano stati posti in stato di accusa ed espulsi. Durante la propria deposizione, l’autista Murat Kislakci dichiarò che per diverso tempo aveva guidato camion da Ankara alla cittadina di Reyhanli, sul confine turco-siriano, e che sapeva perfettamente di lavorare per il Mit. L’avvocato Hasan Tok, legale rappresentante del comandante delle forze di polizia di Adana colonnello Ozkan Çokay, aveva poi rilasciato una dichiarazione secondo la quale, nel corso di un’udienza, il procuratore di Adana Ali Dogan avrebbe dichiarato che «oltre duemila camion sono stati inviati in Siria dalla Turchia».

L’arresto di Dündar e Gül ha scatenato le proteste di diverse personalità di spicco del mondo politico e dei sindacati. Manifestazioni in segno di solidarietà si sono svolte in questi giorni a Istanbul di fronte alla sede di Cumhuriyet.

L'APPELLO
dii Noam Chomsky, Edgar Morin, Fr,Carl Bernstein, Günter Wallraff, Zülfü Livaneli, Ali Dilem, Thomas Piketty...

Prima di tutto, come primo ministro e ora come presidente, Recep Tayyip Erdogan ha disposto una repressione metodica dei media in Turchia per anni. Erdogan sta perseguendo giornalisti di tutti i colori politici in maniera sempre più feroce nel nome della lotta al terrorismo e per la difesa della sicurezza dello stato. Gli arresti del regime di Erdogan, le minacce e intimidazioni non sono degni di una democrazia.

Can Dündar, direttore del quotidiano , e il capo-redattore del suo ufficio di Ankara, Erdem Gül, sono in prigione dallo scorso 26 novembre. Sono accusati di spionaggio e terrorismo perché lo scorso maggio hanno pubblicato le prove delle consegne di armi da parte dei Servizi di Intelligence turchi a gruppi islamisti in Siria. Sono entrambi giornalisti esemplari nella ricerca della verità e nella difesa delle libertà. Il presidente Erdogan ha detto pubblicamente che Dündar «pagherà per questo». Ma i giornalisti di Cumhuriyet hanno fatto solo il loro lavoro, pubblicando informazioni che erano di interesse generale.
In un momento in cui il terrorismo internazionale è al centro delle preoccupazioni di tutti, è inaccettabile che le accuse politiche siano usate per sopprimere il giornalismo investigativo.
L’arresto dei due giornalisti è l’esempio più estremo dell’uso della giustizia a fini politici per mano della magistratura turca.
Molti giornalisti sono in prigione con accuse pretestuose di propaganda terroristica e insulti al presidente Erdogan. Il regime usa anche leve economiche per mettere pressione crescente sui media, mentre vengono approvate leggi draconiane. Noi, in qualità di figure pubbliche, sindacati per la libertà di stampa e ong, rifiutiamo la clamorosa erosione delle libertà di stampa in Turchia. Il paese è al 149esimo posto su 180 nell’indice di libertà dell’informazione di Reporters Without Borders.
Facciamo appello alle autorità turche perché liberino Can Dundar e Erdem Gul senza indugio, di far cadere tutte le accuse a loro carico, e di liberare tutti i giornalisti al momento il prigione per la loro attività giornalistica e le opinioni che hanno espresso.
Sollecitiamo le istituzioni e i governi dei paesi democratici di prendersi le proprie responsabilità e rispondere agli eccessi sempre più autoritari del presidente Erdogan.
Primi firmatari:

Noam Chomsky, linguista, Usa; Edgar Morin, sociologo, Francia; Carl Bernstein, giornalista, Usa; Günter Wallraff, giornalista, Germania; Zülfü Livaneli, scrittore, Turchia; Ali Dilem, fumettista, Algeria; Thomas Piketty, economista, Francia; Claudia Roth, politico, Germania; Paul Steiger, giornalista, Usa; Kamel Labidi, giornalista, Tunisia; John R McArthur, media executive, Usa; Jack Lang, ex ministro, Francia; Reporters Without Borders (Rsf); Committee to Project Journalists, (Cpj); International Press Institute (Ipi); World Association of Newspapers and News Publishers (Wanifra); International Federation of Journalists (Ifj); European Federation of Journalists (Efj); Ethical Journalism Network (Ejn); Global Editors Network (Gen); Turkish Association of Journalists (Tgc); Turkish Union of Journalists (Tgs)…

La Repubblica online, 2 dicembre 2015

Parla al rientro dal viaggio in Kenya,Uganda e Centrafrica, Papa Francesco. Fa riferimento alla realtà vista nella sua visita. Ma non solo. «La distanza tra ricchi e poveri in Africa ma anche in tutto il mondo rappresenta uno scandalo», dice. E ancora: «La convivenza fra ricchezza e miseria è uno scandalo, una vergogna per l'umanità».

«Tutelare il creato riformando il modello di sviluppo perché sia equo, inclusivo e sostenibile: è questa la sfida globale della nostra epoca», ha detto il Papa nell'udienza generale. Secondo Francesco, l'Europa è un continente dove i giovani «sono pochi perché la natalità sembra un lusso" mentre in Africa gran parte della popolazione è costituita da minorenni, «una promessa per andare avanti».

Il Papa ha poi ricordato la sua tappa in Centrafrica. «Questa visita - ha detto - era in realtà la prima nella mia intenzione, perché quel Paese sta cercando di uscire da un periodo molto difficile, di conflitti violenti e tanta sofferenza nella popolazione. Per questo ho voluto aprire proprio là, a Bangui, con una settimana di anticipo, la prima Porta Santa del Giubileo della Misericordia, in un Paese che soffre tanto, come segno di fede e di speranza».

«Passare all'altra riva, in senso civile, significa lasciare alle spalle la guerra, le divisioni, la miseria, e scegliere la pace, la riconciliazione, lo sviluppo. Ma questo presuppone un 'passaggio' che avviene nelle coscienze, negli atteggiamenti e nelle intenzioni delle persone. E a questo livello è decisivo l'apporto delle comunità religiose».ha aggiunto Bergoglio riferendo che per questo motivo, nel recente viaggio apostolico in Africa, ha «incontrato le Comunità Evangeliche e quella musulmana, condividendo la preghiera e l'impegno per la pace».

Il Papa ha concluso l'udienza generale soffermandosi, a braccio, sui missionari, «uomini e donne che hanno lasciato tutto: la patria, da giovani, e se ne sono andati là, in una vita di tanto, tanto lavoro, alle volte dormendo sulla terra», e esortando i ragazzi presenti in piazza san pietro a non escludere di scegliere la vita in missione.

«La Francia, non contenta del disastro provocato in Libia dall’ignoranza di Sarkozy, reitera errore e vittime in Siria, attirandosi – a proposito di guerre «utili» - l’attacco di quella parte del Daesh come movimento che filtra anche sul territorio dell’Europa occidentale».

Sbilanciamoci.info, 1 dicembre 2015

Vedo che la «guerra giusta» di Norberto Bobbio, contro la quale ci eravamo battuti, riappare travestita da guerra «utile», ma non è una gran trovata. Utile per chi? Ogni guerra è sempre utile a una delle due parti in causa, almeno a breve termine, quindi il giudizio di valore va sempre spostato sulla causa del conflitto, mentre il metodo di risolverlo con una guerra va sempre rifiutato.
Ricordiamoci di come apparve la seconda guerra mondiale a Gandhi e a molte parti del mondo non occidentale; se si è contro la guerra, non è possibile una guerra giusta, la guerra va misurata non nei termini dei rapporti di forza che ha prodotto, ma va rifiutata sempre per la quantità di vittime che produce. Non è semplice, perché - per esempio - io non tendo a definire «ingiusta » la seconda guerra mondiale perché i milioni di morti da ambedue le parti l’hanno subita; eppure, per la mia generazione, sulla vita dei cittadini i governi non dovrebbero aver potere di vita o di morte (come nel caso della soppressione della pena di morte).

In verità, per le guerre questo potere gli è lasciato - e non dovrebbe esserlo - con l’argomento per cui Daesh non si potrebbe danneggiare o sconfiggere in altro modo, anche perché si tratta di un nemico diffuso e meno esposto di quanto non sia un paese con il suo stato, con un territorio preciso dove si dispiegano eserciti, fortificazioni, industrie militari, sistemi di trasporto. In realtà, anche Daesh è più presente e concentrato in certi territori e, soprattutto, i mezzi militari gli sono forniti nientemeno che dall’Occidente, al più attraverso la mediazione di un altro paese. Nel caso della Turchia questa mediazione non è necessaria perché nella coalizione internazionale contro Daesh nessun altro stato partecipa alla guerra contro i curdi, che per Ankara sono il principale nemico. Il lancio di un missile turco contro l’aereo militare della Russia, che è in guerra contro Daesh ma non contro i curdi, ne è un segnale minaccioso, tranquillamente sopportato dall’Occidente.

In verità, la guerra nel Medio Oriente ha presentato e presenta sovente, a partire dall’Afghanistan, diversi fronti, anche in parte nascosti, aspetto che non è l’ultima delle sue specificità; essa mette in rilievo le ragioni per cui il più vasto movimento pacifista dei tempi recenti le è nato contro. E non solo i civili ne sono regolarmente le vittime (a ogni attacco, specie aereo) ma, come in tutti i conflitti con una forte componente ideologica, le parti non corrispondono nettamente a un territorio ben definito. Insomma, il carattere particolarmente brutale e non giustificabile delle guerre è qui singolarmente evidente.

La Francia, non contenta del disastro senza via di uscita provocato in Libia dall’ignoranza di Sarkozy, reitera errore e vittime in Siria attirandosi addosso - a proposito di guerre «utili» - l’attacco di quella parte del Daesh come movimento che filtra anche sul territorio dell’Europa occidentale, figlio non soltanto (anche se in buona parte) del disagio sociale, ma di una disperazione più interiorizzata e profonda che ha portato sinora giovani francesi e belgi a concludere le azioni omicide attivando le cinture esplosive e togliendosi la vita.

Non ci si racconti che attendevano di essere accolti nell’aldilà da centinaia di vergini vogliose, disperavano della vita in terra, senza nulla che le dia un senso umano o sovrumano. Manca nel nostro mondo il solo elemento in grado di sconfiggere Daesh, cioè un senso umano o oltre umano che non sia il successo nel denaro, che non a caso essi bruciano, o lo spettacolo inteso in senso proprio come distrazione dal reale.

«Per il momento quello che si può dire con certezza è che se in precedenza l’Europa aveva fama di continente in cui i muri cadevano, oggi è il continente in cui tornano a sorgere». La Repubblica, 2 dicembre 2015
SORGONO muri in tutta Europa. In Ungheria hanno la forma fisica di recinzioni in rete metallica, filo spinato e lamette, un po’ come la vecchia Cortina di ferro. In Francia, Germania, Austria e Svezia i muri sono i controlli alle frontiere, momentaneamente ripristinati nello spazio senza confini di Schengen.

E ovunque in Europa sorgono muri mentali, sempre più alti ogni giorno che passa, cementati da un misto di paure — del tutto comprensibili dopo i massacri di Parigi da gente che poteva circolare a suo piacimento tra Francia e Belgio — e di beceri pregiudizi alimentati da politici xenofobi e giornalisti irresponsabili.

Nel 2015 assistiamo a un 1989 alla rovescia. Non dimentichiamo che la demolizione fisica della Cortina di ferro iniziò con il taglio della recinzione di filo spinato che separava l’Ungheria dall’Austria. Ora è l’Ungheria che per prima ha eretto nuove recinzioni ed è il suo premier, Viktor Orbán, il primo ad alimentare i pregiudizi. Bisogna chiudere le porte ai migranti musulmani, ha detto quest’autunno, «per mantenere l’Europa cristiana». Si unisce al coro anche una buona cristiana dello stampo di Marine le Pen, la rappresentante del Front National che detta il passo della politica francese.

Molti europei ora sostengono che i loro paesi devono ripristinare i controlli alle frontiere, anche all’interno dell’area Schengen. Lasciando perdere i dubbi circa l’efficacia di un simile atto sotto il profilo della sicurezza, chiudendo le frontiere interne all’Europa si rischia di distruggere ciò che gli europei apprezzano di più dell’Unione. Non è solo retorica. Nell’ultimo sondaggio Eurobarometer, condotto in tutti i paesi UE, alla domanda “Qual è secondo voi il maggior beneficio derivante dall’Unione Europea”, il 57% degli intervistati ha risposto “la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi”.

Si è tornati ai muri per tre ordini di motivi. Innanzitutto, in paesi come la Gran Bretagna ma anche in altre parti dell’Europa del nord, hanno influito le pure e semplici dimensioni della circolazione di persone entro i confini dell’Ue. Gli est europei sono arrivati soprattutto dopo il grande allargamento del 2004, simbolicamente incarnato dall’”idraulico polacco”; a loro si è aggiunto lo stuolo degli immigrati dall’Europa meridionale, da quando la crisi dell’Eurozona ha spinto laureati spagnoli, portoghesi e greci a spostarsi a Londra o a Berlino per fare i camerieri.

Il secondo motivo è la crisi dei profughi. Secondo le stime Unhcr (Agenzia Onu per i rifugiati) al 19 novembre erano 850.571 “i profughi e i migranti” giunti quest’anno via mare in Europa, altri 3.485 sarebbero morti o dispersi. Il Mediterraneo è diventato orizzonte di speranza per i disperati e una tomba d’acqua.

Poco più del 50% degli arrivati via mare proviene dalla Siria, il 20% dall’Afghanistan. Moltiquelli che ce la fanno sono profughi nella piena accezione del termine, ossia nutrono “fondato timore di persecuzione” nel proprio paese. Ma, come indica l’Unhcr, tra loro inevitabilmente c’è chi fugge dalle intollerabili condizioni materiali degli stati falliti.

Poi ci sono i terroristi islamici, ultimamente dediti a falciare innocenti spettatori di concerti e avventori dei bistrot parigini. In gran parte sono cresciuti in Europa anche se alcuni apprendono il mestiere di assassini in Siria o in Afghanistan. Almeno uno dei killer di Parigi probabilmente si è intrufolato nell’Europa senza confini di Schengen come “profugo” (reale o presunto) con passaporto siriano. Per certo i killer potevano spostarsi liberamente tra Parigi e Bruxelles.

Così nell’attuale bouillabaisse dei timori europei, mescolata dai demagoghi, tutto si confonde: il migrante regolare, cittadino dell’Unione; il migrante irregolare, che viene da fuori; il migrante mezzo migrante economico e mezzo rifugiato; il profugo di guerra dalla Siria; il classico rifugiato politico dall’Eritrea; il musulmano; il terrorista. In un certo senso si passa, senza soluzione di continuità, dall’idraulico polacco al kamikaze siriano.

Nel frattempo il nuovo governo dell’idraulico polacco, composto principalmente da buoni cristiani, si è allineato a Ungheria e Slovacchia dichiarando che non accoglierà immigrati musulmani. Niente samaritani, grazie, siamo cristiani. Oltre al divario tra il nord e il sud d’Europa creato dalla crisi dell’Eurozona, emerge una nuova divisione tra Est e Ovest. L’Europa dell’Est rifiuta la solidarietà così spesso richiesta ai partner europei sotto altri aspetti. L’Europa sud orientale è tra due fuochi. Presto potrebbe succedere qualcosa di molto grave nei Balcani se non si renderanno meno permeabili i confini esterni dell’Ue soprattutto per chi proviene dalla Turchia, mentre il Nord Europa dice “basta”.

Angela Merkel ha detto una volta che per far apprezzare ai giovani la libertà di cui gode l’Europa aperta si dovrebbero chiudere le frontiere nazionali per un paio di giorni, e la cancelliera sa bene cosa significhi vivere dietro una Cortina di ferro. Beh, è probabile che ci tocchi fare questo esperimento, in parte proprio per il generosissimo errore di calcolo fatto dalla Merkel nel dichiarare benaccetti in Germania tutti i rifugiati senza prima essersi assicurata che gli altri Paesi europei avrebbero seguito il suo esempio. Se l’esperimento avrà o meno l’effetto desiderato è un’altra questione. Per il momento quello che si può dire con certezza è che se in precedenza l’Europa aveva fama di continente in cui i muri cadevano, oggi è il continente in cui tornano a sorgere.

Traduzione di Emilia Benghi

Sembra che con l'Italicum Matteo Renzi e il suo partiti rischino di perdere, a vantaggio di M5S. Ecco le varie ipotesi sulle quali si ragiona

Il manifesto, 1 dicembre 2015, con postilla

I sondaggi elettorali confermano che, in un probabile ballottaggio, sulla base dell’attuale versione dell’Italicum, Pd e M5S si trovano sostanzialmente alla pari. Tutto ciò contribuisce ad alimentare voci e ipotesi su un possibile, ulteriore ripensamento dell’impianto di questo sistema elettorale. Al centro, l’alternativa tra il premio alla lista, previsto nell’attuale versione della legge, e il ritorno ad un premio assegnato alla coalizione vincente.

Sull’onda dell’euforia per il 40% delle Europee, il premio alla lista è divenuto la pietra angolare di una visione fondata sull’idea di un partito «pigliatutti»; non ci voleva molto a capire la natura estremamente volatile del voto europeo e la fragilità del disegno strategico che veniva incardinato nel nuovo sistema elettorale. Da molti mesi, oramai, con qualche oscillazione, i sondaggi danno stabile il Pd intorno al 31–33% (una percentuale alta, ma fragile, in assenza di un qualche bacino potenziale di voti a cui fare ricorso in caso di ballottaggio); il M5S è solidamente ben oltre il 25%, mentre, a destra, (come aveva mostrato il voto regionale in Liguria o in Umbria), le possibilità di un rapido ricompattamento sono tutt’altro che remote. Una geografia statica, peraltro, quella fotografata oggi dai sondaggi, che non può considerare ancora gli effetti che potrebbero derivare dalla presenza sul mercato elettorale di una nuova formazione di sinistra potenzialmente a doppia cifra.

In questo quadro, lo spettro di un ballottaggio a rischio agita i sogni del Pd renziano, e riemerge così l’ipotesi di una modifica che reintroduca il premio alla coalizione: certo, non mancano coloro che esortano Renzi a «tenere la barra dritta». La tesi che dovrebbe indurre a conservare il premio alla lista si fonda su un argomento: in sede di elezioni politiche, l’elettorato moderato del centro-destra non voterà mai per il M5S o, viceversa, l’elettorato grillino non potrebbe mai votare per un fronte Salvini-Berlusconi. Questa lettura è illusoria, perché ignora il fatto che l’attuale elettorato della destra è tutt’altro che moderato: le quote di elettorato centrista, che avevano scelto Monti nel 2013, sono già transitate nel Pd; altri spezzoni si stanno riciclando, e così hanno fatto e stanno facendo vari notabilati locali. E perché ignora anche altri dati: quelli che mostrano (ad esempio, in Veneto) un’elevata contiguità e mobilità tra il voto alla Lega e quello al M5S. E perché, infine, sembra non considerare quello che si sta rivelando il capolavoro politico di Grillo: riuscire a conservare un posizionamento del suo partito che lo mette in grado tuttora di catalizzare tutti gli umori anti-sistema (con una provenienza equamente distribuita da destra e da sinistra, e dal non-voto, come mostrano le indagini sull’«auto-collocazione» degli elettori del M5S). Nell’uno o nell’altro caso di un possibile ballottaggio, segmenti consistenti di elettorato potranno confluire e sovrapporsi. A ciò si aggiunga che, nelle condizioni attuali, appare probabile un alto tasso di astensione: il che rende ancora più aleatorio ogni calcolo razionale.

Ultimo appello alle minoranze

D’altra parte, per il Pd, il dilemma è serio: tornare al premio di coalizione significa rinnegare tutte le scelte compiute fin qui, ripensare la strategia della terra bruciata alla propria sinistra, tornare a pensarsi solo come una parte di un più largo schieramento di centro-sinistra, accettando l’idea di avere altri interlocutori in quest’area. Certo, con la disinvoltura tattica di Renzi, non si può escludere nulla; ma le scelte sull’Italicum si riveleranno decisive e irreversibili. Restare ancorati al premio alla lista implica una logica per molti versi avventurista: una logica da «rischiatutto» puntando su un ricatto (non si sa quanto credibile) nei confronti di un elettorato di sinistra costretto a scegliere tra Renzi e Grillo (o Salvini).

Non sappiamo se si possono creare condizioni tali da riaprire veramente la partita. Certo è che le scelte sull’Italicum saranno decisive anche per coloro che ritengono ancora possibile una battaglia interna al Pd, per ridefinirne la collocazione. Una sorta di ultimo appello per le minoranze del Pd: rassegnarsi al premio alla lista significherebbe infatti sanzionare definitivamente il ruolo neocentrista e neotrasformista del Pd. Chi spera ancora che il Pd possa restare uno spazio, se non ospitale, quanto meno abitabile, per una qualche posizione di sinistra, potrebbe individuare qui un terreno su cui cercare di far pesare le sue forze residue: non puntando su questioni marginali e assai dubbie, come quella del voto di preferenza, ma riproponendo con forza la questione del premio alla coalizione e mettendo al centro la grave questione democratica che viene posta dal nesso tra la riforma costituzionale che è stata approvata e il sistema elettorale..

Lo spettro dell’Unione
Non mancano gli argomenti: anche coloro che, con ottime ragioni, contestano l’intero impianto di un sistema elettorale fondato sulla logica del premio, possono convenire che un premio alla coalizione vincente, specie dopo un ballottaggio, costituisce comunque un male minore. E soprattutto, si può rispondere con nettezza anche all’unico argomento che può avere una qualche presa, anche nell’elettorato democratico: ossia, che «non si può tornare ai tempi dell’Unione», cioè alle coalizioni ampie e rissose. Per evitare questo pericolo, si può proporre un semplice accorgimento: prevedere che, nel conteggio dei voti validi di una coalizione, siano esclusi i voti delle liste che rimangono sotto-soglia (che può essere fissata anche al 3 o al 4%). Questa clausola può avere effetti significativi: scoraggia la frammentazione «in entrata», mentre i partiti maggiori non avrebbero alcun incentivo ad aggregare una sfilza di micro-liste, ma solo quello di creare un’alleanza politica solida con soggetti di una qualche consistenza.

E vi sono anche considerazioni tattiche, di cui tener conto. Si potrebbero anche creare condizioni tali per cui il famoso coltello dalla parte del manico potrebbe ritrovarsi nella mani di coloro che si oppongono all’Italicum: in caso di una crisi o di una rottura, la minaccia di elezioni anticipate potrebbe anche rivelarsi un’arma spuntata. Si dovrebbe votare, infatti, con il sistema proporzionale residuale, emerso dalla sentenza della Corte costituzionale: e chissà che, da questo maledetto imbroglio, non possa nascere stavolta anche un effetto imprevisto positivo, ovvero il famigerato ritorno al proporzionale. Ma qui si dovrebbe aprire una vera discussione politica, e un confronto serio anche tra gli esperti, che finalmente metta a nudo uno dei tanti falsi idoli che hanno avvelenato l’indefinita transizione italiana, ovvero che la «governabilità» possa essere assicurata solo da un sistema elettorale maggioritario. Ritengo che non sia così e che anzi, nelle condizioni in cui ci troviamo, una sorta di nuovo anno zero per la ricostruzione della democrazia italiana, il ritorno ad un serio sistema proporzionale costituisca un passaggio ineludibile e necessario.

postilla

Non vogliamo essere troppo pessimisti, ma cominciamo a temere che il punto d'approdo (o almeno l'obiettivo strategico) di Renzi è una legge elettorale di un solo articolo: "Sono indette le elezioni. Ha vinto il partito di Matteo Renzi"

Romano Prodi, intervistato da Giampiero Calapà, commenta la decisione dell'Isis di stabilire la sua capitale in Libia raccontando come la guerra contro Gheddafi del 2011 sia stata “una scelta incomprensibile”.

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2015

Ha un grande rammarico Romano Prodi in questi giorni, non è il Quirinale né Palazzo Chigi: “Avrei voluto finire la mia attività aiutando un processo di pace, ma non mi è stato possibile. Forse avrei potuto concretamente dare una mano per tentare di portare la pace in Libia ma non mi è stato permesso”. Nel suo sobrio ufficio, alla Fondazione per la cooperazione dei popoli, a Bologna, legge con preoccupazione le notizie su Sirte e sul tentativo di spostare la capitale del Califfato del terrore da Raqqa, Siria, in Libia, a soli 600 chilometri dalla Sicilia: “Avrei davvero voluto lavorare per impedirlo, ma non me lo hanno permesso”.

Per il New York Times l’intero gruppo dirigente dell’Isis in Libia viene dall’estero, da Siria e Iraq… com’è stato possibile permetterglielo?
«Non mi stupisce: Sirte è strutturata per essere sede di un potere centrale, non per niente è stato l’ultimo bastione di Gheddafi. E ha un alto valore simbolico proprio perché era la capitale reale del Colonnello, la città degli incontri bilaterali, delle strette di mano che contavano. L’Isis, a parte Siria e Iraq, ha almeno altre due grandi aree territoriali nelle sue mani che sono il Sahel, a sud della Libia, e il Sinai. Ricordo che quando facevo il giro delle “sette chiese” come inviato Onu per chiedere risorse per il Sahel, l’unico Paese che manifestò la sua opposizione all’argine francese contro i jihadisti fu l’Egitto governato in quel momento dai Fratelli musulmani».

Come andò?
«L’allora presidente Morsi in un colloquio mi disse che quella francese in Mali era una guerra coloniale, poi prima di salutarmi, però, preoccupato mi chiese: “Pensa che i terroristi del Sahel possano arrivare nel Sinai?”. Gli risposi che non lo sapevo ma che sapevo bene che quantità grandi di armi si spostavano in Egitto dalla Libia. L’arsenale di Gheddafi ha fornito armi a tutti: gli esperti dell’Onu parlavano di 4 milioni di kalashnikov. La guerra di Libia è stata un totale disastro».

Quella guerra, nel 2011, fu voluta fortemente anche da Giorgio Napolitano.
«Non so chi l’abbia voluta perché non ero io al potere. So solo che è incomprensibile e incompreso come l’Italia abbia potuto prendere una decisione di quel tipoı.

La consultarono?
«Mai stato consultato né prima né durante né dopo».

Intanto in Siria le bombe russe colpiscono mercati, case di civili… La strategia di Putin è quella giusta?
«No. I bombardamenti possono essere uno strumento provvisorio ma non ricordo una volta in cui siano davvero serviti a portare la pace. E continuo a non comprendere perché si bombardino le città e non i pozzi e le auto-cisterne. Vorrei ricordare che, Russia a parte, sul fronte Nato il 70 per cento dei bombardamenti rimane americano in Siria e Iraq, questo nonostante l’esposizione e l’impegno della Francia».

E il regime di Erdogan in Turchia incassa 3 miliardi di euro dall’Ue per sigillare i confini ai profughi.
«Era l’unica carta in mano agli europei, a cominciare dalla Merkel, per tenere a bada le tensioni interne che possono derivare da un flusso incontrollato di migranti. Una carta, però, giocata in modo spregiudicato. È un errore mettere questo discorso insieme a quello dell’ingresso della Turchia in Europa. Motivare una decisione così seria e importante che prosegue da anni su un’emergenza è sbagliato. Le due cose non vanno messe assieme e si facciano procedere i negoziati secondo le sacre regole dei negoziati stessi».

L’Isis ha bilanci più floridi di molti Paesi arabi.
«La metà di quella ricchezza arriva dal petrolio, il resto da estorsioni, traffico di esseri umani e dall’esercizio di un’autorità statale. Poi ci sono i finanziamenti che passano per fondazioni dei paesi dell’area del Golfo Persico».

Putin, Erdogan, sauditi, Iran, Assad, Hezbollah: chi i nemici e chi gli amici?
«Quando si sbaglia la prima volta, penso alla guerra tra l’Iraq e l’Iran, si continua a sbagliare, errore dopo errore, fino alle guerre a Saddam e Gheddafi. Tutti contro tutti: c’è una vignetta di Kal sull’ultimo numero dell’Economist che rende bene l’idea».

La guerra a Saddam nel 2003. Si racconta di un G8 con un furibondo scontro a cena tra Blair e Putin…
«Putin si alzò dal tavolo e gridò a Blair: “You are not God” (tu non sei dio). Vede, la guerra in Iraq spaccò l’Europa, frantumò tutte le alleanze. Io dovetti rinunciare al secondo mandato alla presidenza della Commissione europea. Ascoltare oggi Blair scusarsi perché quelle maledette armi di distruzione di massa non esistevano lascia un peso enorme».

L’Europa esclusa da Israele per i colloqui di pace. Tel Aviv procederà solo con bilaterali con Regno Unito, Francia e Germania. Italia neppure citata. Siamo irrilevanti?
«Israele pensa non sia importante trattare con l’Italia, è più che essere irrilevanti. Nonostante la nostra natura di Paese del Mediterraneo. È un segno di ingratitudine: tra l’altro le nostre forze armate proteggono i loro confini in Libano. Il discorso così filoisraeliano di Renzi a Gerusalemme nel luglio scorso pensavo che sarebbe servito. Il conflitto israelo-palestinese rimane l’origine e la madre di tutti i conflitti, ma finché al governo di Israele ci sarà Netanyahu la pace è impossibile».

Intanto in Francia crescono i consensi per Marine Le Pen. È più pericolosa lei di suo padre Jean-Marie?
«Sì, perché il padre le elezioni le perdeva. Adesso il Front national al populismo di destra (legge, ordine e xenofobia) unisce quello anticasta di sinistra e per farlo Marine ha ucciso politicamente il padre».

Gli Usa hanno “allertato” i loro concittadini in Italia a stare lontani da Colosseo, Vaticano e Scala di Milano.
«È isteria collettiva, dopo l’11 settembre non abbiamo sconsigliato i viaggi in America. Serve un rafforzamento dell’intelligence, questo sì: ci vorrebbe un’autorità di coordinamento europea e ne avrebbe bisogno proprio la Francia, che si è sempre opposta a esercito e difesa europea comune».

Che effetto le fa la Capitale d’Italia commissariata nell’anno del Giubileo?
«Mi ha scioccato molto. Ma il Giubileo, come l’apertura della Porta Santa a Bangui in Centrafrica mostra, non è un fatto solo romano e va oltre l’esistenza di un sindaco. L’immagine di Roma nel mondo, purtroppo, peggio di così non può essere, non possiamo che risalire».

Per il ministro Padoan la mancata crescita economica e le stime al ribasso sono colpa dell’Isis. È possibile?
«Già alla vigilia della strage di Parigi c’erano segnali di allarme. Mi hanno perciò un poco sorpreso le dichiarazioni del ministro Padoan che, in un certo senso, mettono le mani avanti riguardo a un possibile peggioramento dell’economia. Spero che non abbia notizie ancora più cattive. Io ritengo poco probabile che eventi pur così tragici possano avere conseguenze molto negative sull’economi».

Non ha più rinnovato la tessera del Pd?
«Da tre anni ormai».

Molti militanti l’hanno seguita, pare che l’emorragia di tessere non si fermi.
«Un partito è fatto per dibattere e discutere, il calo delle tessere dipende dal calo politico, non ne è la causa».

Cosa vuol fare da grande, Professore?
«Quello che faccio adesso. Sono fuori dalla politica ma posso permettermi il lusso di tenere contatti in giro per il mondo e parlare ai giovani e ai meno giovani di quello che sta accadendo. La rottamazione non mi ha preoccupato perché se sono stato rottamato può volere dire che ero fatto di ferro. Se fossi stato di legno mi avrebbero o segato o bruciato. Ma mai rottamato».

La Repubblica, 30 novembre 2015

RICOMINCIARE dalle periferie. Non è rivolto solo alla Chiesa cattolica il messaggio che scaturisce dal coraggioso viaggio di Francesco in Africa. Aprendo la Porta santa nella cattedrale di Bangui, infatti, il papa ha trasformato questa poco nota città africana nella «capitale spirituale del mondo» e dato inizio qui ad un Anno santo della misericordia che, nelle sue intenzioni, riguarda tutta l’umanità. Ma esponendosi personalmente ai rischi del conflitto in cui oggi si contrappongono cristiani e musulmani nella Repubblica Centrafricana, ha anche voluto tenacemente testimoniare che le religioni non sono un ostacolo bensì una risorsa per la pace. È un messaggio importante anche per un’Europa spaventata dalla violenza delle sue periferie.

Con la battuta sulla sua paura delle zanzare più che dei terroristi, Francesco ha fatto capire che non teme gli uomini, neppure i più pericolosi. Ma a chi gli ha chiesto se ci potesse essere una giustificazione religiosa dei tragici eventi di Parigi ha risposto che tanta violenza «non è umana». Contro un terrorismo che si alimenta anzitutto «di paura e povertà », il dialogo interreligioso deve puntare sulla comune umanità che unisce tutti. La sua tenace volontà di portare fino a Bangui questo messaggio - contro le raccomandazioni di tanti - non è rimasta senza risposta. La presidente Samba Panza ha confessato «tutto il male che è stato fatto nella Repubblica centrafricana nel corso della storia» e chiesto «perdono a nome di tutti coloro che hanno contribuito alla discesa agli inferi» di questo paese. E l’imam Oumar Kobime Layama ha condannato le violenze perpetrate dai miliziani musulmani di Seleka, sconfessando il loro richiamo alla fede islamica. Al Papa verrà inoltre consegnato un inatteso accordo tra le due principali fazioni in lotta. Il Centrafrica spera intensamente che la visita di Francesco segni un nuovo inizio, aprendo la via della pace e riportando cristiani e musulmani a ritessere legami di «appartenenza e convivenza».

Dagli “inferi” di Bangui il messaggio di Francesco rimbalza nelle periferie europee, dove il malessere di molti giovani - non solo immigrati - genera un radicalismo che si incontra con l’ideologia fondamentalista e la violenza estrema del Daesh. I tragici eventi di Parigi hanno fatto crescere in Europa tensioni, contrasti e pregiudizi tra non musulmani e musulmani. Ma contro il terrorismo ci sono state anche dichiarazioni di imam e leader islamici europei, manifestazioni pubbliche di musulmani, presenze di uomini e donne di fede islamica nei talk-show. Sono voci di chi non è mai stato favorevole al terrorismo e non aveva il dovere di dissociarsi, ma ha capito che non basta più astenersi dalla violenza e rispettare le leggi. È una novità importante. Secondo molti, però, sono ancora pochi i musulmani che scendono in piazza e permangono in loro incertezze e ambiguità. Per questi critici manca il riconoscimento che la violenza scaturisce dalle radici stesse dell’Islam. Insomma, il dialogo non sarebbe solo inutile, ma anche impossibile e persino sbagliato. In questo clima, qualche settimana fa l’invito ufficiale in Italia di al-Tayyeb, rettore di Al Azhar e più alta autorità islamica che abbia preso esplicitamente posizione contro lo stato islamico, è stato bruscamente annullato. Ma pretendere immediata e totale identità di vedute su tutto ciò di cui si discute significa rinunciare alla convergenza di tanti in una comune opposizione alla violenza del Daesh.

L’esigenza del confronto culturale — e del dialogo interreligioso — appare sempre più forte. Subito dopo gli eventi di Parigi è risuonato il grido “siamo in guerra”. C’è chi ha parlato di 11 settembre europeo, è riapparso lo scontro di civiltà, è stata rievocata Oriana Fallaci. Ma poi sono sopravvenuti altri ricordi: la guerra in Afghanistan, quella in Iraq e l’intervento in Libia. Ricordi, cioè, di successi militari che si sono poi rivelati fallimenti politici, con un “dopo” almeno in parte peggiore del “prima”. Tony Blair ha riconosciuto l’errore commesso. Il vuoto che si è creato dopo Saddam Hussein è stato infatti riempito dallo “Stato islamico” e ha innestato un aspro scontro tra sunniti e sciiti.

«Occorre resistere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi» e «di dare addosso al nemico interno», ha ammonito Habermas, richiamando l’attentato di Utoya compiuto da un fondamentalista cristiano, Breivik. Non è l’Islam a scatenare il radicalismo, è il radicalismo dei giovani nelle periferie europee a cercare l’ideologia fondamentalista. In una partita che si gioca in gran parte sul terreno della propaganda e attraverso strumenti mediatici, sul web prima che nei campi di battaglia, coinvolgere i musulmani contro la violenza è cruciale: sono loro che più di altri possono oggi raggiungere quanti si stanno trasformando in foreign fighters.

«Il sogno di ricostruire e unificare il mondo arabo. Un progetto che però si è andato a infrangere contro le mire egemoniche di paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia, che per perseguire i propri interessi nazionali in Medio Oriente “crearono” paesi tra loro diversi: la Siria, il Libano, l’Iraq».

La Repubblica, 29 novembre 2015 (m.p.r.)

Per capire cosa succede nel mondo islamico è necessario avere una cultura storica: senza storia infatti non può esserci alcuna comprensione degli avvenimenti. Bisogna sapere, per esempio, che nell’antico Califfato c’era piena libertà religiosa sia per i cristiani che per gli ebrei, mentre l’intolleranza più cieca riguardava solo il mondo cristiano: basti pensare alle Crociate, all’Inquisizione, alle persecuzioni anti- ebraiche.

In realtà il vero problema del mondo arabo è stata la sua colonizzazione durata secoli, dalla fine del 400 dopo Cristo alla decomposizione dell’Impero ottomano. Da queste macerie nacque un sogno: il sogno di ricostruire e unificare il mondo arabo, il sogno di Lawrence d’Arabia. Un progetto che però si è andato a infrangere contro le mire egemoniche di paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia, che per perseguire i propri interessi nazionali in Medio Oriente “crearono” paesi tra loro diversi: la Siria, il Libano, l’Iraq. Ed è stato un peccato, perché una nazione unificata araba avrebbe potuto svilupparsi in senso multietnico, visto che in ognuno di quei territori avevano sempre convissuto islamici, cristiani ed ebrei. Questa nazione avrebbe potuto consolidarsi, svilupparsi in un clima di libertà religiosa.
Le cose sono andate diversamente. Prima con la frantumazione in Paesi differenti, ognuno inserito in una differente sfera d’influenza. E poi, molto più recentemente, con gli effetti della strategia americana, con la seconda guerra del Golfo che è servita solo a distruggere lo stato iracheno. Ora da una parte c’è la componente sciita; dall’altra quella curda, decisa a diventare indipendente; e infine quella sunnita.
In questo contesto esplosivo - e con le conseguenze di una serie di fenomeni storici come il fallimento del socialismo arabo, il fallimento delle nuove democrazie, il problema palestinese irrisolto, il sottosviluppo economico e un sentimento diffuso e generalizzato di umiliazione collettiva - si è arrivati alla situazione attuale. In cui perfino nei “laici” Territori occupati la radicalizzazione del conflitto e la disperazione hanno portato a una crescita del potere dei fattori religiosi.
A questo punto, serve in primo luogo una risposta di tipo culturale. Dobbiamo introdurre nei nostri paesi l’insegnamento delle religioni, non del cattolicesimo ma di tutte le diversità: perché la religione non è, come pensava Voltaire, un’invenzione della cura, ma, come diceva Karl Marx, è il sospiro della creatura infelice. In altre parole, è l’infelicità umana che alimenta la religione.
In secondo luogo, per favorire l’integrazione degli studenti musulmani, bisogna mostrare come la Francia - proprio come l’Italia, o la Spagna - sia in realtà una nazionale multiculturale. In Italia ad esempio non ci sono solo discendenti dei latini, è una nazione composta da popoli diversi, siciliani, piemontesi, trentini. E ci sono molti ebrei. L’Italia insomma non ha una razza unica, ma tante diverse, con lingue diverse che col tempo si sono integrate. È la vera eredità dell’universalismo dell’impero romano. La storia insomma deve aiutare anche i giovani a capire come l’integrazione, nel tempo, sia possibile.
Terzo tema: cosa fare oggi con la parola “terrorismo”? Una parola che in realtà non è quella giusta, perché è vuota. Una parola che non contiene in sé una vera fede, una vera passione, ma solo un mondo dalla realtà rovesciata. Era così anche in fenomeni terroristici di altro tipo, come le Brigate Rosse e l’eversione nera in Italia. Le persone non nascono terroriste, si comincia magari per seguire un qualche ideale di salvezza. Come succede con l’Is: dal disagio storico e sociale si passa a pensare di essere al servizio di Dio. E nel caso degli estremisti islamici, il fuoco, il carburante che alimenta la loro follia è la questione irrisolta del Medio Oriente. Questo fuoco è come un cancro, che fa metastasi ormai nell’intero pianeta. Ecco perché bisogna risolvere una volta per tutte il problema mediorientale. Imponendo la pace a tutti le componenti che alimentano questa guerra civile. È questo l’unico modo per isolare il fanatismo di Daesh e del sedicente Califfato.
Ma come fare? A questo punto, ricostruire l’integrità della Siria e dell’Iraq appare impossibile. L’unica soluzione allora è riprendere, tornare a far vivere il sogno di Lawrence d’Arabia, promuovendo una grande Confederazione del Medio Oriente in cui sia ripristinata la libertà di culto. Se decidiamo che è davvero questo lo scopo da raggiungere, allora possiamo portare avanti una grande coalizione che promuova la pace. Solo così quel concetto vuoto che chiamiamo “terrorismo” potrà essere progressivamente liquidato. Questa è una missione vitale, non solo per i francesi o gli europei, ma per tutta l’umanità.
Questo testo è l’intervento che l’autore ha tenuto al convegno internazionale di Rimini organizzato da Edizioni Erickson

«È trascorso oltre un anno dall’inizio delle operazioni Usa in Siria (quasi 3mila bombardamenti), un anno e 4 mesi da quelle in Iraq (altri 3.500) e lo Stato Islamico resta – più o meno - dov’era».

Il manifesto, 28 novembre 2015 (m.p.r.)

Dodici morti, tra loro cinque bambini: è il bilancio del raid che ieri ha colpito la scuola Heten, a Raqqa. Da quando la città siriana è stata eletta «capitale» del Califfato, la scuola era usata come base dai miliziani. Per ora nessuno sa dire che bandiera fosse stampata sul jet responsabile dell’attacco, la francese, la statunitense o la russa. Si aggiungono alle centinaia di civili vittime della coalizione.
A far uscire le loro storie provano attivisti e organizzazioni, a volte i familiari. È quello che ha fatto Muawiyya al-Amouri, padre siriano di sei figli, uccisi ad agosto a Atmeh, città settentrionale vicino Idlib. Ha denunciato la morte dei bambini in un raid Usa, mai reso noto se non giovedì quando il commando generale Usa ha ammesso di aver bombardato nelle vicinanze di Atmeh. Il target era una postazione dell’Isis: «La coalizione spende molto tempo per individuare i target, assicurare la massima efficacia e minimazzare le potenziali vittime civili», ha detto il portavoce Tim Smith.
Rispondono analisti e attivisti: ad Atmeh l’Isis non c’è Quelle morti risollevano una questione in ombra: cosa e come i raid colpiscono Daesh. Con quali informazioni di intelligence e con quanta precisione. È trascorso oltre un anno dall’inizio delle operazioni Usa in Siria (quasi 3mila bombardamenti), un anno e 4 mesi da quelle in Iraq (altri 3.500) e lo Stato Islamico resta – più o meno - dov’era. Si è ritirato da Sinjar, su pressione della controffensiva peshmerga e dei kurdi siriani delle Ypg; ha perso Kobane e parte del distretto di Hasakah dietro le operazioni congiunte di esercito siriano e combattenti kurdi; ha perso il collegamento diretto tra Raqqa e la seconda «capitale», l’irachena Mosul, dopo l’intervento di Erbil. Ma continua a controllare ampi territori, un terzo dell’Iraq e un terzo della Siria: una catena che parte dal confine nord occidentale tra Siria e Turchia, passa per Raqqa e arriva all’Iraq orientale, Fallujah e Ramadi, e a quello meridionale, dove ha postazioni vicino alle frontiere con Giordania e Arabia saudita. Così mantiene aperto il collegamento tra le due realtà – l’irachena e la siriana – tramite il valico di Al Qaim, lungo l’Eufrate, trasferisce uomini e armi e tiene in piedi i traffici commerciali, il sistema di contrabbando e quello amministrativo.
È uno dei motivi per cui Mosca e Washington concentrano buona parte della forza di fuoco contro camion di petrolio: l’Isis si adatta, dice il ricercatore siriano al-Hashimi, e ora non usa più camion da 36mila litri, ma veicoli più piccoli, da 4mila. E, aggiunge, i miliziani si sono spostati da zone residenziali e campi di addestramento in bunker e tunnel sotterranei. Nei raid della coalizione sono morti oltre 20mila miliziani, ma altrettanti ne sono entrati via Turchia per la quasi totale incapacità di controllare gli spostamenti da fuori e di reagire alla propaganda islamista. Sono stati distrutti meno di mille veicoli militari, a dimostrazione che manca un elemento fondamentale: informazioni di intelligence credibili che informino sulla posizione dei miliziani.
Non avendo uomini sul terreno, se non qualche centinaio di consiglieri militari, e continuando ad affidarsi ai gruppi di opposizione moderata ad Assad, gli Stati uniti sono rallentati, vanno alla cieca. Tanto da decidere di appoggiarsi a chi i risultati li ottiene: i kurdi siriani che hanno fondato un nuovo fronte insieme ad assiri e arabi, le Forze Democratiche. Va meglio a Mosca che dalla sua ha l’esercito governativo e i servizi segreti di Damasco. I risultati si vedono: a due mesi dal lancio dell’operazione russa, le truppe del presidente Assad non hanno sfondato, ma sono avanzate a nord di Latakia (verso l’obiettivo principe, Aleppo) e al centro, verso Palmira e nei dintorni di Homs. La presenza più capillare di uomini collegati direttamente o indirettamente a Damasco garantisce una maggiore precisione. La stessa a cui anela la Francia: giovedì Parigi e Mosca hanno annunciato uno scambio regolare di informazioni tra aviazioni.
Dall’altro lato del confine del «Califfato», in Iraq, dopo la strategica vittoria a Sinjar il resto della controffensiva anti-Isis è in stallo: a Ramadi, capoluogo dell’Anbar, calda provincia sunnita, le forze governative irachene non sfondano. Hanno ripreso il parziale controllo di alcuni quartieri – secondo l’esercito la metà – della città e bloccato il ponte usato dall’Isis per i rifornimenti. Ma, mentre i civili pagano la rappresaglia degli islamisti che stanno distruggendo decine di case per vendetta, l’impressione è che non si riesca ad avanzare con regolarità. A farlo sono le milizie sciite legate all’Iran e in contrasto con i kurdi a Kirkuk. Tensioni interne che lasciano le operazioni per la liberazione di Anbar e, a seguire, Mosul ancora solo sulla carta.

«La rimozione dell’Occidente per quanto riguarda l’Arabia Saudita è sorprendente: saluta la teocrazia come sua alleata, ma fa finta di non sapere che è lo sponsor ideologico principale del mondo della cultura islamista». Newsletter comuneinfo.net, 27 novembre 2015

Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio comune dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è meglio vestito e più ordinato, ma fa le stesse cose. Lo Stato islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta contro il terrorismo, l’Occidente fa la guerra contro l’uno ma stringe la mano all’altro.

Questo è un meccanismo di negazione, e la negazione ha un prezzo: preservare la famosa alleanza strategica con l’ Arabia Saudita con il rischio di dimenticare che il regno si basa anche su un’alleanza con un clero religioso che produce, legittima, diffonde, predica e difende il Wahhabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam di cui si nutre Daesh. Il wahabismo, un radicalismo messianico che sorse nel 18° secolo, spera di ristabilire un fantasticato califfato centrato su un deserto, un libro sacro, e due luoghi sacri, La Mecca e Medina. Nato nel massacro e nel sangue, si manifesta in un rapporto surreale con le donne, un divieto contro i non-musulmani di calpestare territorio sacro, e leggi religiose feroci. Che si traduce in un odio ossessivo di immagine e raffigurazione, e quindi dell’arte, ma anche del corpo,della nudità e della libertà. L’Arabia Saudita è un Daesh che ce l’ha fatta.

La rimozione dell’Occidente per quanto riguarda l’Arabia Saudita è sorprendente: saluta la teocrazia come sua alleata, ma fa finta di non sapere che è lo sponsor ideologico principale del mondo della cultura islamista. Le generazioni più giovani dei radicali nel cosiddetto mondo arabo non sono nate jihadiste. Esse sono state allattate al seno della Fatwa Valley, una sorta di Vaticano islamico con una vasta industria che produce teologi, leggi religiose, libri e aggressive politiche editoriali e mediatiche.

Si potrebbe controbattere: non è l’Arabia Saudita stessa un bersaglio possibile del Daesh? Sì, ma concentrarsi su questo farebbe trascurare la forza dei legami tra la famiglia regnante e il clero che rappresenta la sua stabilità – e anche, sempre di più, la sua precarietà. I reali sauditi sono catturati in una trappola perfetta: Indeboliti da leggi di successione che incoraggiano il turnover, si aggrappano ai legami ancestrali tra re e predicatore. Il clero saudita produce l’islamismo, che minaccia il paese e al tempo stesso dà legittimità al regime.

Si deve vivere nel mondo musulmano per capire l’immensa influenza trasformatrice dei canali televisivi religiosi sulla società mediante l’accesso ai suoi punti deboli: nuclei familiari, donne, aree rurali. La cultura islamista è diffusa in molti paesi (Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania…). Ci sono migliaia di giornali islamici e preti che impongono una visione unitaria del mondo, la tradizione e l’abbigliamento nello spazio pubblico, sulla formulazione delle leggi del governo e sui rituali di una società che essi reputano essere contaminate.

Vale la pena di leggere alcuni giornali islamici per vedere le loro reazioni agli attentati di Parigi. L’Occidente è raccontato come una terra di “infedeli”, gli attentati sono il risultato dell’attacco contro l’Islam. I musulmani e gli arabi sono diventati i nemici della secolarizzazione e degli ebrei. La questione palestinese viene invocata insieme allo stupro dell’Iraq e alla memoria del trauma coloniale, e impacchettata in un discorso messianico destinato a sedurre le masse. Questa narrazione trova ampio spazio negli strati sociali subalterni, mentre i leader politici inviano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un crimine contro l’umanità. Questa situazione totalmente schizofrenica procede parallelamente alla negazione occidentale del ruolo dell’Arabia Saudita.

Tutto ciò lascia scettici sulle fragorose dichiarazioni delle democrazie occidentali sulla necessità di combattere il terrorismo. La loro guerra non può che essere miope poiché ha come obiettivo l’effetto non la causa. Poiché l’Isis è una cultura prima che una milizia, come si fa a evitare che le generazioni future si rivolgano allo jihadismo se l’influenza della Fatwa Valley, dei suoi chierici, della sua immensa industria editoriale e della cultura che produce rimane intatta?

Curare la malattia è quindi una questione semplice? Sembra difficile. L’Arabia Saudita rimane un alleato dell’Occidente nello scacchiere mediorientale. Viene preferita all’Iran, il Daesh grigio. E qui c’è la trappola. La negazione crea l’illusione dell’equilibrio. Lo jihadismo viene denunciato come il male del secolo ma non viene preso in considerazione ciò che lo crea e lo alimenta: questo consente di salvare la faccia, ma non salva le vite umane.

Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma ha anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo complesso religioso-industriale. Se l’intervento occidentale ha fornito delle ragioni ai disperati del mondo arabo, il regno saudita ha donato loro credenze e convinzioni. Fino a che questo punto non verrà compreso si potranno vincere battaglie, ma non si vincerà la guerra. Gli jihadisti saranno uccisi solo per rinascere di nuovo nelle generazioni future allevate con gli stessi libri.

Gli attentati di Parigi hanno evidenziato nuovamente questa contraddizione ma – come è successo dopo il 9/11 – essa rischia nuovamente di essere cancellata dalle nostre analisi e dalle nostre coscienze.

Kamel Daoud è uno scrittore di origine algerina, i suoi libri (scritti in francese e non in arabo) sono tradotti in molti paesi. L’articolo è stato scelto e tradotto da Maurizio Acerbo (della segreteria nazionale del Prc) che ringraziamo. La versione originale, in inglese e francese, è sul sito del New York Times.

i da ascoltare e i giornali da leggere sono davvero pochini. Il manifesto, 28 novembre 2015

Francesco è da ieri in Uganda per la seconda tappa del suo viaggio apostolico in Africa che si concluderà domani a Bangui — Repubblica Centrafricana — con l’apertura della porta santa che segnerà l’inizio del Giubileo della misericordia.

Ad accoglierlo venerdì pomeriggio all’aeroporto di Entebbe — a 40 km dalla capitale Kampala — c’erano il presidente Yoweri Museveni, personalità politiche e religiose oltreché uomini e donne di tutte le età ammassate lungo i cordoni del percorso verso il palazzo presidenziale.

Prima di lasciare il Kenya per l’Uganda il papa ha visitato in mattinata la grande bidonville ai margini di Nairobi, Kangemi (più di 100 mila i residenti): «Mi sento a casa qui».

Riferendosi all’«ingiustizia terribile dell’emarginazione urbana», «come non denunciare le ingiustizie che subite?» ha detto Bergoglio rivolgendosi agli abitanti, ai volontari e al clero nella piccola chiesa Saint-Joseph Travailleur, nel cuore di una baraccopoli dalle strade piene di buche, le fogne a cielo aperto e baracche fatiscenti a poche centinaia di metri dai compound residenziali. «Si tratta di ferite inferte dalle minoranze che si aggrappano al potere e alla ricchezza, che egoisticamente sperperano mentre una maggioranza crescente è costretta a fuggire verso periferie abbandonate, sporche e fatiscenti».

Un discorso, quello sulle periferie, che va a integrarsi a quello sull’ambiente del giorno prima dalla sede del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente con cui ha invocato un accordo globale sui cambiamenti climatici alla Cop21.

Dalla bidonville Francesco ha condannato «le nuove forme di colonialismo che fanno dei Paesi africani i pezzi di un meccanismo, le parti di un gigantesco ingranaggio e li sottomettono a diverse pressioni perché siano adottate politiche di emarginazione, come quella della riduzione della natalità». Inoltre «privare una famiglia dell’acqua, per pretesti burocratici, è una grande ingiustizia, soprattutto quando si lucra su questo bisogno», ha lamentato il papa denunciando la mancanza di accesso alle infrastrutture di base come bagni, fognature, illuminazione, strade, scuole, ospedali, centri per il tempo libero, lo sport, e l’arte. Aggiungendo che è un dovere di tutti garantire ai poveri nelle aree urbane l’accesso alla terra, a un alloggio e al lavoro.

Dopo Kangemi, dallo stadio Kasarani di Nairobi — gremito di gente — Papa Francesco ha esortato i giovani del Kenya a non cedere al dolce richiamo della corruzione (che pochi giorni fa ha portato a un rimpasto di governo). La corruzione «è come lo zucchero, dolce, ci piace, è facile». «Anche in Vaticano ci sono casi di corruzione» (con il chiaro riferimento ai recenti casi Vatileaks). «Ogni volta che mettiamo nelle nostre tasche, distruggiamo il nostro cuore, distruggiamo la nostra personalità e distruggiamo il nostro Paese. Per favore, non sviluppate quel gusto per quello zucchero che si chiama corruzione».

Il papa ha poi esortato i giovani a prendere posizione contro il tribalismo, invitando i presenti a tenersi per mano in simbolo di unità: «Siamo tutti una nazione». In Kenya dopo le elezioni del 2007 furono circa 1.200 le vittime causate da violenze interetniche.

E in riferimento alla minaccia terroristica (il Kenya ha subito diversi attacchi dal gruppo integralista somalo degli Al-Shabaab): «Se una giovane donna o uomo non ha lavoro, non può studiare, che cosa può fare? La prima cosa che dobbiamo fare per fermare un giovane dall’essere reclutato è l’istruzione e il lavoro».

In Uganda, a voler incontrare il papa — nel corso della giornata di oggi — c’è anche il presidente del Sud Sudan Salva Kiir, giunto nel Paese inaspettatamente senza aver precedentemente annunciato la visita.

Oltre a corruzione e diritti degli omosessuali (i gruppi Lgbt hanno fatto appello al pontefice affinché denunci le leggi omofobiche e le persecuzioni da parte della società civile), ci si aspetta che Papa Francesco si pronunci anche sulla situazione in Sud Sudan e le sue relazioni con il Sudan.

Il Sud Sudan — resosi indipendente dal Sudan nel 2011 — è afflitto dalla guerra civile dal dicembre 2013, quando una controversia politica tra Kiir e il suo vice Riek Machar è sfociata in un conflitto armato che ha riaperto linee di frattura etniche. Kampala ha inviato truppe intorno a Giuba — la capitale del Sud Sudan — per sostenere il governo del presidente Salva Kiir subito dopo gli scontri scoppiati con le truppe fedeli al vice presidente del Sud Sudan Riek Machar. Ed è stata proprio la loro presenza uno dei principali motivi di contesa alla base di prolungati negoziati di pace tra i due Paesi andati avanti nella capitale etiope Addis Abeba per quasi due anni.

Tra crescenti pressioni internazionali e la minaccia di sanzioni, Kiir e Machar hanno firmato un accordo di pace nel mese di agosto, in rispetto del quale il mese scorso l’Uganda ha annunciato l’imminente ritiro delle truppe dal Sud Sudan (con il plauso delle potenze regionali e occidentali, a scongiurare il rischio — come si temeva — che il coinvolgimento dell’Uganda potesse trasformare la lotta tra le due parti in un conflitto regionale).

Le associazione per la difesa dei diritti umani hanno accusato entrambe le parti di abusi e violenze alla base degli scontri tra il gruppo etnico dei Nuer cui appartiene Machar e quello dei Dinka di cui è membro Kiir. Il conflitto ha fatto più di 10.000 vittime e costretto più di 2 milioni di persone ad abbandonare le loro case.

L'annuncio della Francia di derogare alla Convenzione di Anais Ginori e l'intervista

di Fabio Gambaro al sociologo Alain Touraine. La Repubblica, 28 novembre 2015 (m.p.r.)


DIRITTI UMANI, PARIGI ALL'EUROPA "ORA STOP ALLA CONVENZIONE" È POLEMICA:"COSì TROPPI ABUSI

di Anais Ginori
Parigi. Con una lettera di poche righe, la Francia ha comunicato al Consiglio d’Europa che derogherà alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo. E’ un passaggio formale, ma che segnala la volontà politica del governo di Parigi di sfruttare al massimo lo stato di emergenza, dichiarato la notte del 13 novembre e che consente in particolare di fare perquisizioni e decidere arresti domiciliari senza l’autorizzazione dei magistrati, limitando anche il diritto a manifestare. E’ l’ennesimo segnale che il paese si muove su un crinale sempre più stretto tra lotta al terrorismo e il rispetto delle libertà. Negli ultimi giorni, alcune associazioni hanno incominciato a denunciare presunti abusi da parte della polizia. Il quotidiano Le Monde e il sito Mediapart hanno aperto un proprio osservatorio in cui sono già state raccolte decine di testimonianze e segnalazioni tra le oltre 1600 perquisizioni condotte finora dalle autorità.

E’ stato lo stesso Segretario del Consiglio europeo, Thorbjorn Jagland, a rendere nota la comunicazione della Francia. «I provvedimenti presi nel quadro dello stato di emergenza proclamato in seguito agli attentati terroristici su vasta scala - scrive il governo di Parigi - sono suscettibili di richiedere una deroga a certi diritti garantiti» dalla Convenzione firmata a Roma nel 1950. Il testo sul cui rispetto vigila il Consiglio europeo garantisce i principi fondamentali, come il diritto a un processo giusto, il rispetto della vita privata, la libertà di espressione e religione. Tutti diritti che sono pesantemente minacciati negli ultimi quattordici giorni.
La Convenzione non prevede sospensione possibile per il divieto di tortura e la riduzione in schiavitù, ma tra le libertà su cui è possibile derogare c’è quella di movimento, il governo può dichiarare il coprifuoco, e quella di manifestare: molti attivisti che vengono per la Cop21 che inizia lunedì in una capitale blindata sono stati perquisiti preventivamente per il timore di disordini. Molti avvocati hanno fatto ricorso contro arresti domiciliari decisi contro cittadini incensurati che non sono mai andati in paesi legati al terrorismo.
La Francia fa appello all’articolo 15 della Convenzione che prevede esplicitamente la sospensione di alcuni diritti in caso di guerra o minaccia per la Nazione. In questo modo, cittadini che si sentono vittima di abusi non potranno ricorrere all’organismo europeo per chiedere un processo contro la Francia. Altri paesi hanno fatto in passato deroghe di questo tipo: la Gran Bretagna dopo gli attacchi del 2001 e l’Irlanda durante la lotta al terrorismo dell’Ira. Ma nel caso della patria dei Diritti dell’Uomo è una prima assoluta, tanto che il New York Times qualche giorno fa ha titolato un editoriale “Hollande War’s on Liberties”. Lo stato di emergenza è stato dichiarato dal governo per tre mesi, e il premier Valls non esclude di prolungarlo.
L'ALLARME DI TOURAINE "DIFENDERSI È GIUSTO
MA SALVIAMO LE LIBERTà"
intervista di Fabio Gambaro a Alain Touraine

Il sociologo Alain Touraine, 90 anni, è uno dei più autorevoli intellettuali europei

Parigi. «La Francia non deve diventare Guantanamo». Alain Touraine reagisce così alle conseguenze dei massacri del 13 novembre che hanno spinto il governo francese allo stato d’urgenza e alle deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani. «Dopo la violenza dell’attacco subito, la Francia ha il diritto e il dovere di difendersi, ma deve farlo restando all’interno della democrazia », ci dice il novantenne sociologo francese, che in Francia ha appena pubblicato un nuovo libro, Nous, sujets humains (Fayard). «Di fronte a 130 morti il governo non aveva scelta. In una situazione del genere non si può cercare la via del compromesso. Si può solo dire: siamo in guerra e combatteremo. Ma ciò non significa che si debba toccare la costituzione come ha proposto Hollande. Non dobbiamo fare come hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act. Erano il paese della libertà e della democrazia, sono diventati un paese aggressivo, intollerante e violento. La Francia deve restare il paese dei diritti dell’uomo. Da noi Guntanamo o Abu Ghraib non devono essere possibili».

Il governo però annuncia deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani...
«E’ certamente grave. E una tale situazione comporta rischi per le libertà dei cittadini. Bisognerà essere molto vigilanti e critici di fronte a tutte le derive possibili, anche facendo appello all’opinione pubblica. Capisco la pressione cui è sottoposto il governo, costretto a mostrarsi fermo per evitare di lasciare spazio al Fronte Nazionale. Ma ciò non significa accettare di rimettere in discussione i principi democratici».
Non crede che questo sia il prezzo da pagare per difendersi?
«La Francia fa bene a difendersi, come fa bene a bombardare l’Is in Siria. Siamo in guerra, quindi dobbiamo reagire militarmente. Tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola dell’Is, che vorrebbe un nostro intervento delle truppe di terra. In realtà, l’orribile violenza della jihad mira a farci perdere la testa per spingerci a reazioni impulsive, all’interno come all’esterno del paese. Noi non dobbiamo seguirli su questa strada. Come ha detto Hollande nel suo discorso in omaggio delle vittime, dobbiamo combattere i terroristi restando noi stessi, con i nostri valori, la nostra cultura e il nostro attaccamento alla libertà. Occorre esser più efficaci, non meno liberi».
Hollande ha molto insistito sulla fratellanza, un valore in cui oggi i francesi sembrano riconoscersi. E’ importante anche per lei?
«In passato mi sono spesso vergognato del mio paese, ma oggi provo rispetto e tristezza per questa nostra comunità che soffre. Ne sono fiero e sono dunque sensibile allo slancio di fratellanza che attraversa la Francia. Quello del presidente è stato un discorso giusto e equilibrato, lontano da ogni nazionalismo, perché qui non stiamo difendendo la nazione ma la libertà di tutti. Da diversi anni stiamo attraversando una fase di arretramento, siamo disorientati e in crisi. Abbiamo dunque bisogno di rialzarci e di ricominciare a sperare. E oggi, proprio attraverso la prova terribile dei massacri del 13 novembre, e prima quelli di gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyper Casher, noi francesi stiamo ritrovando un po’ di autostima, un po’ di noi stessi. Che forse è il primo passo per poter uscire dalla crisi e ricominciare a guardare avanti. Sono contento che Hollande abbia concluso il suo discorso insistendo sulla gioventù che rappresenta il futuro di tutti noi».
Dalla tragedia può quindi nascere qualche ragione di speranza?
«L’enorme reazione di solidarietà dopo i massacri è forse il segno di un ritorno di quei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza - a cui personalmente aggiungo la dignità - di cui abbiamo più che mai bisogno. Si tratta di valori universali che vengono prima della politica. La reazione dei francesi e il loro omaggio alle vittime ci dicono che l’etica sta al di sopra dell’interesse politico».
A Parigi in questi giorni sventolano tantissime bandiere francesi. E’ la sinistra che si riappropria del patriottismo e di un simbolo che era stato confiscato dalla destra?
«Sì, ma non bisogna dimenticare che la sinistra francese in passato è stata spesso molto nazionalista. Il colonialismo e la guerra d’Algeria sono opera della sinistra. Quindi non ci si deve stupire più di tanto. Naturalmente sono contento che oggi i francesi si ritrovino uniti dietro la bandiera e la marsigliese. Secondo me però non è patriottismo, ma solo amore della libertà e di quei valori che sono di tutti, non solo dei francesi. Anche questo è un segno di una risposta democratica».
Eppure i sondaggi dicono che il Fronte Nazionale cresce. E’ preoccupato?
«Sono inquieto, ma penso che sia anche giusto relativizzare. Dopo tutto quello che è successo, Marine Le Pen guadagna solo un punto o due. Non c’è stato lo smottamento che forse lei sperava. Come pure i francesi non hanno ceduto alla violenza e al razzismo nei confronti del mondo musulmano. Non c’è stato panico, non c’è stata la guerra civile che auspicavano i terroristi. La democrazia per ora ha vinto».

«Da Pericle al mondo globale.Un saggio di Salvadori su come si è ridotta una forma di governo. L’impoverimento riguarda le modalità elettorali ed è dimostrato dalla forza di plutocrazie sovranazionali». La Repubblica, 28 novembre 2015

Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, di Massimo L. Salvadori (Donzelli, pagg. 507, euro 35)
La democrazia – il potere, la sovranità suprema, il governo del popolo – ha sempre costituito, a partire dal V secolo a. C., quando trovò nell’Atene di Pericle la sua prima grande espressione, un problema: circa il modo di intenderla, la sua possibilità di attuazione, i suoi vantaggi o svantaggi, il suo essere unicamente un mito o anche una realtà. Dal Settecento in avanti non sono poi mai venute meno, e nei modi più aspri, le divisioni che hanno contrapposto i fautori della democrazia diretta ai sostenitori della democrazia rappresentativa. Credo che nessuno meglio di Hans Kelsen abbia chiarito che la democrazia in senso proprio può essere ed è stata soltanto quella diretta degli antichi, ma che quest’ultima è incompatibile e inapplicabile nelle società complesse; che l’unica forma realizzabile di democrazia è la rappre-sentativa, ma che tale forma comporta di necessità il trasferimento della sovranità del popolo ai suoi rappresentanti, titolari della facoltà di elaborare e approvare le leggi, e quindi una sostanziale limitazione e mutazione della natura della democrazia stessa. Il che induce a domandarsi se ciò non significhi ridurre la democrazia unicamente a un mito. Chi guardi alla sostanza di quella che viene definita democrazia rappresentativa, liberaldemocrazia o democrazia liberale non può non rendersi conto di come essa sia altra cosa dal potere sovrano del popolo.

(…) Il principio della sovranità popolare – che ha avuto una forza tanto irresistibile da diventare un dogma politico – non ha mai avuto riscontro nell’esercizio concreto del potere. Dove e quando astrattamente affermato con la maggiore forza, è stato in pratica vanificato; nei regimi liberaldemocratici esso è stato celebrato come ideologia legittimante, ma in concreto soggetto ai limiti impliciti nel trasferimento della sovranità effettiva ai parlamenti e ai governi, lasciando al popolo l’illusione di essere pur sempre sovrano grazie al voto nelle competizioni elettorali.

Ciò che sembra doversi concludere è che la «democrazia» realizzata è consistita e consiste in quel movimento e in quelle lotte degli strati inferiori per la conquista e la difesa dei diritti politici e sociali, nel loro accesso alla rappresentanza parlamentare e alla formazione – mediante i propri partiti – dei governi. (…) Si tratta non della «crazia del demos», ma di sostanziali «atti di crazia». Questo ci dice una concezione realistica della democrazia, la quale ha raggiunto la sua espressione e il suo momento più alto nei sistemi di «democrazia sociale», di cui sono stati esempi «classici» il governo della socialdemocrazia in Svezia e il sistema del welfare, nei quali la libertà per l’insieme della società e una politica orientata ad assicurare la giustizia sociale in un grado mai raggiunto prima e altrove si sono positivamente coniugate.

(…) Oggi il processo di impoverimento graduale della democrazia è giunto al punto per cui: la sovranità del popolo non va oltre il voto di elettori nella loro maggioranza etero-diretti, atomizzati e disorganizzati; il potere economico è tornato in maniera pressoché incontrastata nelle mani dei proprietari e dei ceti superiori; il potere politico – che per gran parte dell’Otto e del Novecento era stato un attributo dei leader dei partiti, degli organizzatori delle masse, dei parlamentari e dei componenti il governo - nei singoli Stati territoriali è infeudato alla plutocrazia sovranazionale o quanto meno influenzato in maniera decisiva da essa; il potere dell’informazione e dei media che orientano politicamente le masse è subalterno a chi ne detiene la proprietà o il controllo; quella che era stata la grande rete sia delle sezioni dei partiti di massa sia dei quotidiani e dei periodici che contribuivano in maniera determinante alla formazione e partecipazione politica degli uomini comuni è largamente smantellata.

Detto tutto ciò, i regimi che continuiamo a definire «democratico-liberali » non sono naturalmente assimilabili a quelli che sopprimono le libertà politiche e civili, il pluralismo culturale e partitico e trasformano il voto tout court in plebisciti a favore del governo. Ma è davvero arduo ritenere che essi abbiano a che fare con «il potere del popolo ». Le elezioni, rimaste formalmente libere (per quanto in alcuni casi palesemente manipolate, anche nei paesi di antica democrazia liberale, come – basti questo unico clamoroso esempio - negli Stati Uniti, dove nelle elezioni presidenziali del 2000 la vittoria venne sottratta ad Al Gore e attribuita a Bush jr.), consentono pur sempre cambiamenti di governo. Il che non è così poco. Sennonché le elezioni vedono le masse relegate a una posizione di passività – con un’inversione di tendenza storica senza precedenti rispetto al moto ascensionale iniziato negli ultimi decenni del XIX secolo - di fronte alla forza di condizionamento e di orientamento di cui sono capaci le élites partitiche ed economiche. Per questo i governi presentano essenzialmente la natura di «governi a legittimazione popolare passiva».

Se la democrazia possa o meno riconquistarsi un avvenire, sia pure nei limiti intrinseci alla democrazia liberale, ciò dipenderà dalla capacità o meno della parte del demos oggi umiliata e offesa di dotarsi del necessario vigore e della capacità di iniziativa per incidere con autentica efficacia sui centri non già formali ma sostanziali del potere.

È da dubitarsi che – come credono Wolin e Crouch – la riconquista democratica possa venire principalmente dall’iniziativa di intellettuali, giornalisti e gruppi di volenterosi ben pensanti. Questa iniziativa non è da trascurare e sottovalutare; se ne vedono segni tanto in Europa quanto in America. Ma l’obiettivo può essere conseguito unicamente attraverso la rinascita di solide organizzazioni anzitutto partitiche, in grado di rappresentare, difendere gli strati sociali più deboli e farne valere gli interessi. Quel che si deve ammettere è che il barometro non tende al bello.

Per convincere sul suo “basta guerra” Renzi deve spiegare almeno tre agende: l'atteggiamento del suo governo su Afghanista, Israele, Libia. Altrimenti il suo rifiuto di rispondere alla chiamata alle armi di Holland non significa un cambio d'orizzonte, ma di casacca. Il manifesto, 28 novembre 2015

Ma allora è possibile? E’ possibile che un governo occidentale diserti una nuova guerra, dica no ad aggiungere un intervento armato alla litania di conflitti nei quali siamo presenti militarmente? Matteo Renzi da Hollande a Parigi e Paolo Gentiloni al vertice parlamentare della Nato a Firenze, dicono no alla partecipazione all’ennesima coalizione di volenterosi impegnati più o meno in una nuova guerra di vendetta in Siria che nulla risolverà creando ulteriori stragi, rovine e divisioni, producendo alla fine nuova guerra

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Qualcuno rimarrà stupito da questo nostro riconoscimento al governo italiano, ma diversamente non diremmo la verità. Soprattutto noi che siamo strenuamente e senza ritegno contro ogni guerra, impegnati nella difesa della Costituzione, che all’articolo 11 recita: «L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un articolo spesso cancellato da chi, come l’ex presidente Napolitano, avrebbe dovuto salvaguardarlo come presidio prezioso di democrazia. E’ possibile dunque contraddire quel “militarismo umanitario” che ha modificato alla radice la natura stessa della sinistra, italiana e internazionale.

Per questo corriamo il rischio di essere smentiti, a ore o a giorni. Perché, come denuncia il papa, questo mondo di trafficanti di armi “delinquenti” (a Finmeccanica devono essere fischiate le orecchie) «non riconosce la strada della pace ma vive per fare la guerra, con il cinismo di dire di non farla»: e qui Renzi (con tutto il Pd) deve essersi sentito chiamato in causa. Se il no alla guerra fosse convinto, perché allora restiamo in guerra in molti scenari internazionali?

L’affermazione di Renzi: «Non solo impegno militare ma cultura», propone uno scambio ineguale tra F-35 e biblioteche davvero riprovevole. E il ministro Gentiloni, quando in parlamento dichiara: «Ma noi siamo solo il sesto partner commerciale con Riyadh», non risponde certo alle interrogazioni che gli chiedono ragione del commercio di armi italiane con la petromonarchia — medioevale e criminale quanto a diritti umani — dell’Arabia saudita che, proprio con le nostre bombe sta massacrando gli sciiti in Yemen. Proprio quando i regimi del Golfo dovrebbero essere isolati per il loro sostegno alla guerra e allo Stato islamico.

Per convincere su “basta guerra” Renzi deve spiegare almeno tre agende. Quella dell’Afghanistan, dove abbiamo deciso di allungare la missione militare con un “signorsì” alle pressioni della Casa bianca, nello stesso giorno in cui il premier canadese Trudeau ritirava il contingente di Ottawa: un’altra guerra di vendetta dopo l’11 Settembre – dura ormai da 14 anni, più del Vietnam , con i talebani all’offensiva e massacri di civili. A proposito, si è fatto sentire l’assordante silenzio del governo italiano sulla strage Nato di Kunduz, di medici e paramedici di Médecins Sans Frontières.
Inoltre diamo rinnovato sostegno militare ad Israele, «sola luminosa democrazia del Medio Oriente», dice Renzi, dimenticando l’occupazione in armi dei Territori palestinesi dal 1967, come denunciano due Risoluzioni storiche dell’Onu, mentre il governo d’estrema destra di Netayahu ha ultimato la trasformazione dei Territori occupati in un alveare di colonie, presidi militari, Muri, ghetti e blocchi che rendono impossibile la nascita dello Stato di Palestina, al di là delle chiacchiere sui due Stati. Infine, non è confortante la dichiarazione «non vogliamo una Libia bis», quando invece della “guerra in comune” in Siria prepariamo una nuova avventura in Libia «contro gli scafisti», mentre si annuncia a priori, come ha fatto Mister Pesc Federica Mogherini, i «dolorosi effetti collaterali che produrrà». Il fallimento del lavorio per un governo unitario, utile solo a trovare un interlocutore che prepari universi concentrazionari per profughi e migranti, dice che il disastro della guerra a Gheddafi è incolmabile. E che rischiamo di fare proprio in Libia un’altra Libia bis.

Resta da chiedersi perché il governo Renzi stavolta diserti. C’è probabilmente la consapevolezza che la distruzione con le guerre occidentali di tre Stati mediorientali fondamentali, come Iraq, Siria e Libia sia all’origine del radicalismo islamista estremo; come l’evidenza del peso insopportabile della spesa annuale militare italiana: 29,2 miliardi di euro, equivalenti a 80 milioni di euro al giorno, a fronte dei tagli “necessari” a sanità e lavoro, con ormai l’impossibilità di convincere i governati su questa spending vergognosa. Senza escludere il peso tutto politico della “rifondazione cristiana” avviata da Bergoglio, che non può non riecheggiare al presidente del consiglio l’ amato La Pira. Purtuttavia resta fortissima la tentazione della guerra e della politica ridotte ad alleanza militare “umanitaria”.

Visto il ruolo atlantico dell’Italia, non è un cambiamento d’orizzonte, ma di casacca. Andiamo a vedere, con l’iniziativa dei movimenti, cosa c’è sotto il nuovo vestito di scena del potere. Oggi chi lotta per la pace è più forte non più debole
Vasta ( e confusa) è l'area nella quali si svolge animosamente la ricerca di una sinistra del XXI secolo.

Huffington Post, 28 novembre 2015

Alessandro Di Battista non fa a tempo a citare l’asilo nido realizzato dal sindaco grillino di Pomezia che subito il prof. Rodotà s’accalora: “Gli asili erano le bandiere del Pci in Emilia, venivano da tutto il mondo a studiarli. Sono un pezzo della cultura della sinistra, dei diritti sociali, che non può essere abbandonato”. La platea – in parte grillina, in parte di reduci dei girotondi e di delusi dalle sinistre – si appassiona. Una donna in prima fila propone la sua risposta: “È finito tutto dopo la morte di Berlinguer!”. Rodotà sorride amaro: “Forse è proprio così”.

Sala Umberto, un vecchio teatro nel centro di Roma. Si presenta l’ultimo numero di Micromega, sul palco c’è anche il direttore Flores d’Arcais. Il titolo della serata la dice già lunga: “La rivolta del cittadino contro il partito unico del privilegio e del conformismo”. Sembra il titolo di un post di Beppe Grillo, e invece è quel che resta del Palavobis e delle piazze di Cofferati, più di dieci anni dopo. La sentenza di Flores pare inappellabile: “Ha ragione Di Battista, a sinistra non c’è più nulla da rianimare. Ci sono solo pezzi di partitocrazia, e la sinistra fuori dal Pd è ancora peggio, sono i pezzi di partitocrazia emarginati da quelli vincenti”. L’ex garante della lista Tsipras ci va giù durissimo con Vendola: “Dopo quella telefonata a capo chino con l’uomo delle relazioni esterne di Ilva non capisco come possa stare ancora in politica, ma ognuno ha la dignità che ha. E peggio di lui sono quelli che gli stanno ancora intorno e non l’hanno buttato giù”.

A Renzi ci pensa Rodotà: “In lui vedo un retaggio craxiano più ancora che berlusconiano…”. Fuori due. I maitre a penser della sinistra giustizialista e dei diritti non vedono più nulla nel loro vecchio campo. Il sol dell’avvenire, ormai, è solo a cinque stelle. E quando il Dibba rivendica il mancato sostegno a Bersani nel 2013, tutti gli danno ragione. E lui: “Se avessimo fatto l’inciucio con uno dei partiti responsabili del disastro, oggi non saremmo un’opzione possibile per il futuro”. Applausi.

“Chi ha votato Pd voleva queste riforme? Voleva il ponte sullo stretto e le trivellazioni? Voleva De Luca?”, arringa Di Battista, supportato da una robusta claque che lui ogni tanto ferma con la mano per evitare il “santo subito”. Rodotà annuisce. “Con loro non ho sempre avuto un rapporto idilliaco, ma quando salirono sul tetto della Camera scongiurano la modifica dell’articolo 138 voluta dal governo Letta”. E ancora: “A me non piace lo spirito da curva, sono un vecchio signore, ma oggi per restare in contatto coi cittadini e non trasformarsi in oligarchia servono forme nuove di comunicazione…”.

C’è anche un ricordo personale del prof. Rodotà, che aleggia per due ore la sala: il ricordo di quei giorni del 2013 in cui “un popolo lo voleva al Quirinale”, dice il Dibba, e quella piazza gridava “Ro-do-tà”. La sala è commossa: “Sarebbe stato un grande presidente”.

Lui dà atto ai grillini di quell’omaggio: “Da allora mi riconoscono anche i ragazzi di 20 anni, ho ampliato in modo smisurato la platea a cui riesco ad arrivare”. Flores è assai più pragmatico: la sue guerra trentennale contro i “politici di professione” si invera nelle proposte grilline. “Fui io a proporre nel 1986 il tetto ai mandati, volevo persino metterlo in Costituzione. Ora loro lo fanno, la loro coerenza mi ha stupito”. E’ lui a sottolineare il collegamento coi girotondi, con i giorni del Palavobis e dell’indignazione della società civile contro Berlusconi. E oggi? “Oggi l’unica forza che assomiglia a quelle istanze è il M5s, l’unico movimento votabile. E infatti io lo voto sistematicamente da anni”. Applausi scroscianti, ma Flores, come ai tempi dei girotondi, vuole anche dettare l’agenda del partito di riferimento (anche se a fine 2013 definiva “molto inquietante” Casaleggio): “Dovete essere meno autoreferenziali, sulla Consulta andate all’offensiva, proponete voi tre nomi: Cordero, Carlassare e Rodotà”.

Il prof si chiama fuori: “No, non tiratemi più in ballo, io mi sono autorottamato!”. Flores è un fiume in piena e si rivolge al Dibba: “Organizziamo dei seminari con dei vostri parlamentari ed esponenti della società civile. Sarebbe un segnale grandioso. Solo se si apre alla società civile il M5s può davvero vincere a Torino e Roma, e anche nelle altre città”.

Dall’astio verso Napolitano (“Credevo di aver toccato il fondo con Cossiga e invece no…”, dice Flores) al reddito di dignità, dal no alle riforme costituzionali al parlamento delegittimato dopo la sentenza sul Porcellum: tra i due intellettuali e il giovane e arrembante Dibba la sintonia è pressoché totale. Il deputato ribadisce la coerenza del suo movimento, le regole da rispettare, dai soldi al tetto ai mandati all’impedimento a candidarsi a sindaco per chi sta in Parlamento. “A volte questa coerenza è faticosa…”, si sfoga. E a più riprese ribadisce che “secondo i sondaggi oggi potrei essere il sindaco della Capitale… un mestiere che mi renderebbe molto orgoglioso, durante il Giubileo tutti i grandi della terra che vengono a Roma incontrano anche il sindaco”, racconta con un (grande) retrogusto di rimpianto: “Ma non lo posso fare perché le istituzioni non sono un autobus da prendere per le convenienze personali”. La rinuncia pesa, la folla in platea lo incoraggia. Lui torna sul nazionale: “I più pericolosi oggi sono i partiti che si dicono di sinistra e che ti prendono in giro con il sorriso”. Flores è d’accordo: “E’ dai giorni dell’avvento di Blair che dico che ormai la scelta è tra due destre…”. Oppure cinque stelle. “Secondo me il M5s a Roma ce la può fare”, li benedice Rodotà.

Laudato si' il costituzionalista sottolinea come «la tradizione cristiana non abbia mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto di proprietà privata, e abia messo in risalto la funzione sociale di qualsiasi forma di proprietà». Casadellacultura.it, 25 novembre 2015 (m.p.r.)

La grandezza di questa straordinaria Enciclica, che ha il fine precipuo di offrirci una visione del mondo in contrasto con l'attuale immaginario collettivo, si nota già nella scelta del filo conduttore dell'intero discorso: la bellezza. Se ne parla all'inizio (par. 1), ricordando «la casa comune come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia», e se ne riparla frequentemente, come quando si ricorda che «suolo, acque, montagne, tutto è carezza di Dio» (par. 84), o quando si afferma «Dio ha scritto un libro stupendo, le cui lettere sono la moltitudine delle creature presenti nell'universo» (par. 85).

Sappiamo che definire 'intellettualmente' la bellezza non si può. Lo aveva detto Kant qualche secolo fa e lo si deve ribadire anche oggi, nell'imperante relativismo filosofico secondo il quale è bello ciò che piace a ciascun individuo, indipendentemente da qualsiasi canone o regola estetica.

Ciò non ostante, se non è possibile una definizione concettuale, è certamente possibile affermare che il bello è certamente qualcosa che 'si percepisce' in modo intuitivo da parte di ogni uomo. Lo conferma il fatto che l'educazione alla bellezza non può essere espressa in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione stessa di ciò che è bello. D'altro canto, è intuitivo anche il concetto opposto alla bellezza: la bruttezza, che deve essere intesa come la percezione di una mancanza di bellezza, o un accumulo di imperfezioni, che suscita indifferenza o dispiacere e genera una percezione negativa dell'oggetto. La scelta di Papa Francesco di mantenere la bellezza come punto fermo di riferimento ha dunque anche un significato, per così dire, di comunicazione diretta. Tutti infatti sono in grado di distinguere il 'bello' dal 'brutto', trattandosi di una scelta intuitiva e non intellettualistica.

Tuttavia, se la bellezza la si percepisce intuitivamente, ciò non significa che non si possa definire quale cosa possa essere 'oggetto di bellezza'. E qui è da porre in evidenza che per la nostra cultura occidentale (Aristotele, Platone, Vico, Kant) il 'bello' esiste 'nella natura' e 'nell'arte'. Nella Critica del giudizio Kant definisce il «bello naturale» come il «bello d'arte»e il «bello d'arte» come il «bello di natura». Insomma gli oggetti di un 'giudizio' di bellezza possono essere la Natura nel suo complesso e l'attività artistica dell'uomo.

A questo punto, considerando il 'bello' (che proviene da una intuizione) come oggetto di una riflessione intellettuale, ci si accorge che c'è un elemento comune nei caratteri di qualsiasi cosa noi definiamo 'bella': è 'l'armonia' tra le varie componenti dell'oggetto e tra l'oggetto e il contesto naturale nel quale l'oggetto si trova. E, a questo proposito, è puntuale il richiamo dell'Enciclica a S. Francesco d'Assisi: «Egli manifestò un'attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati. Amava ed era amato per la sua gioia, la sua dedizione generosa, il suo cuore universale. Era un mistico e un pellegrino che viveva in semplicità e in una meravigliosa armonia con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso» (par. 10).

L'armonia, come agevolmente si capisce, è espressione, nel campo del 'bello', di un principio universale che governa il mondo e l'universo intero: 'l'equilibrio'. Qualità che riguarda, sia il mondo naturale, sia il mondo delle attività umane. Equilibrio, armonia, bellezza, appaiono, dunque, come concetti strettamente connessi, per cui si può capire perché taluni studiosi hanno parlato di bellezza, non solo per la natura e per l'arte, ma anche per le forme di governo, le strategie, i modelli matematici e così via dicendo. D'altro canto quante volte noi stessi abbiamo detto 'questo articolo è bello, questo libro è bello', per dire che si tratta di un'opera ben fatta, che segue i criteri della logica e che raggiunge i fini che l'autore si era proposto di perseguire. Anche a questo proposito, sono puntualissime le affermazioni di Papa Francesco, che richiama, insieme, «l'armonia», gli «equilibri naturali» e le «leggi di natura», che dell'armonia e dell'equilibrio sono la massima espressione.

L'Enciclica osserva infatti che «la legislazione biblica si sofferma a proporre all'essere umano diverse norme, non solo in relazione agli altri esseri umani, ma anche in relazione agli altri esseri viventi: se vedi l'asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti. Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d'uccelli con uccellini o uova e la madre che sta covando gli uccellini o le uova, non prenderai la madre che è con i figli» (par. 68). Ed è sempre la legislazione biblica «che ha cercato di assicurare l'equilibrio e l'equità nelle relazioni dell'essere umano con gli altri e con la terra dove viveva e lavorava», ponendo in evidenza che «il dono della terra con i sui frutti appartiene a tutto il popolo»(par.71).

Se i concetti di equilibrio, armonia, bellezza investono l'universo intero, esprimendosi nelle leggi di natura, non si può fare a meno di ricordare, nel contesto su cui andiamo riflettendo, che tutto l'universo non è immobile, ma scorre nello spazio e nel tempo, mentre tutti gli esseri viventi nascono, crescono e muoiono sempre rinnovando la loro specie. Insomma, se ne deve dedurre, come diceva Platone, che «questo mondo è davvero un essere vivente dotato di anima», o, se si preferisce, che la Natura è essenzialmente «vita». Del resto, la parola 'natura' deriva dal participio futuro del verbo nascor, e significa, dunque, ciò che nasce, nel momento in cui nasce, e, quindi, la vita. Altrettanto è da dire per la parola greca fusis, che significa 'natura', e viene dal verbo fuo, che significa generare, per cui 'natura' è ciò che viene generato, considerato nel momento in cui è generato, e, dunque, significa vita. Ed è sintomatico che l'Enciclica Laudato si' si concluda proprio con un inno alla vita, osservandosi che «la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da se stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature» (par. 240), osservandosi ancora che «la vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati» (par. 243).

Eppure questa «madre bella», continua Papa Francesco (par. 1 e par. 2), «protesta per il male che le provochiamo, a causa dell'uso irresponsabile e dell'abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c'è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell'acqua, nell'aria e negli esseri viventi».

Sull'onda di questo grido di dolore, l'Enciclica passa a considerare le cause di questo abuso e di questo saccheggio. «Osservando il mondo notiamo che questo livello di intervento umano, spesso al servizio della finanza e del consumismo, in realtà fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre più limitata e grigia, mentre contemporaneamente lo sviluppo della tecnologia e delle offerte di consumo continua ad avanzare senza limiti» (par. 34).

L'Enciclica continua su questa via con delle affermazioni di grandissimo rilievo. Essa sottolinea che «la politica non deve sottomettersi all'economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l'economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana» (par. 189). E' arrivato il momento di opporsi decisamente all'idea di una «crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a spremerlo fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente» (par. 106). D'altro canto, sottolinea Papa Francesco, «i poteri economici continuano a giustificare l'attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull'ambiente […] Oggi qualunque cosa che sia fragile come l'ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta» (par. 56).

Al contrario, incalza Papa Francesco, «dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature […] I testi biblici ci invitano a coltivare e custodire il giardino del mondo […] custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare»(par. 67).

Di qui la grande e innovativa affermazione secondo la quale «quando parliamo di ambiente facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra natura e la società che la abita». Questo non deve farci «considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati». (par 139). «La relazione originariamente armonica tra essere umano e natura si è trasformata in un conflitto. Per questo è significativo che l'armonia che san Francesco d'Assisi viveva con tutte le creature sia stata interpretata come una guarigione di tale rottura» (par. 66).

Alla luce di questi fondamentalissimi principi, l'Enciclica entra poi direttamente anche nel campo giuridico, affermando che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto di proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualsiasi forma di proprietà […] Dio ha dato la terra a tutto il genere umano perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno […] non sarebbe veramente degno dell'uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». La Chiesa insegna «che su ogni proprietà privata grava sempre un'ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha dato loro» (par. 93). Di conseguenza, «l'ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l'umanità e responsabilità di tutti» (par. 95).

Sempre sotto il profilo giuridico, Papa Francesco, dando molto risalto al concetto di «comunità» - sia che si tratti di quella che noi chiamiamo 'comunità biotica', sia che si tratti di quella che noi chiamiamo 'comunità politica' o Stato - sottolinea con molta chiarezza che «sono funzioni improrogabili di ogni Stato quelle di pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all'interno del proprio 'territorio'»(par. 177), mentre le relazioni tra gli Stati devono salvaguardare la «sovranità di ciascuno» (par. 173). Per Papa Francesco, dunque, la 'globalizzazione' riguarda solo la 'transitabilità' dei confini e non fa venir meno l'idea stessa della 'comunità politica', cioè l'essenzialità dei Popoli e dei territori, e, quindi l'importanza 'degli Stati nazionali', che, purtroppo, perdono potere a causa «della dimensione economica finanziaria» (par.175). Né è da sottovalutare l'importanza che l'Enciclica dà alla «partecipazione» popolare (par. 181 e par.183) e alle «comunità locali», nelle quali «possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra» (par. 179). In altri termini, secondo Papa Francesco «se riconosciamo il valore e la fragilità della natura, e allo stesso tempo le capacità che il Creatore ci ha dato, questo ci permette oggi di porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato», ed alle sue conseguenti devastazioni ambientali (par. 77).

Dunque, ben diverso deve essere il comportamento che l'uomo deve mantenere verso la natura. Anzi si deve necessariamente ritenere che uomo e natura, agendo entrambi sul piano della soggettività, sono naturalmente stretti da un 'patto' inviolabile secondo il quale il 'dono' immenso che la natura fa all'uomo porgendogli, con i servizi ambientali, tutto ciò di cui ha bisogno, compreso il soddisfacimento dell'insopprimibile desiderio di 'bellezza', deve essere ricompensato dall'uomo, non solo con il rispetto della natura, ma anche e soprattutto con una sua completa dedizione alla cura e al benessere della natura stessa. E questo 'patto', come sottolinea Papa Francesco, deve consistere in una «conversione ecologica», che deve avvenire riconoscendo «il mondo come dono ricevuto dall'amore del Padre [con] l'amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell'Universo una stupenda comunione universale» (par. 191). E se si tiene conto che oggi la terra è abitata da sette milioni e duecentomila abitanti, e che la stessa, come hanno affermato gli scienziati, dal 2 agosto 2012 non è più in grado di rigenerare quanto noi consumiamo, appare evidente che in queste parole di Papa Francesco deve scorgersi un invito a quella che noi chiamiamo 'decrescita'. Occorre cambiare gli 'stili di vita'. Si deve respingere il 'consumismo', si deve, in ultima analisi ristabilire un 'equilibrio' tra l'azione dell'uomo e la vita di tutti gli altri esseri viventi.

Il problema, a questo punto diventa necessariamente giuridico. Ci si deve chiedere, infatti, quali devono essere i comportamenti che l'uomo deve seguire per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni. E qui la risposta non può non essere che quella di un 'giusnaturalista', fondata, cioè, sul 'diritto naturale', al quale Papa Francesco riserva tanta rilevanza. Infatti, non è chi non veda come una risposta data secondo i criteri del 'positivismo giuridico', oggi degradato a 'nichilismo giuridico', non avrebbe senso, per il semplicissimo fatto che il positivismo toglie alla natura ogni valore e ritiene che l'uomo può fare tutto ciò che vuole, purché obbedisca a leggi emanate secondo particolari procedure preventivamente stabilite.

Insomma, è inevitabile rivolgersi al 'diritto naturale', secondo il quale il comportamento dell'uomo deve essere indiscutibilmente conforme alle 'leggi di natura', poiché soltanto queste consentono alla natura e all'opera dell'uomo di esplicitarsi nella 'bellezza', che appare come supremo valore da conservare e proteggere.

E si deve sottolineare a questo punto che l'antica diatriba tra positivismo e giusnaturalismo è stata risolta dal costituzionalismo moderno del secondo dopoguerra, che ha dato nuovo impulso al giusnaturalismo, inserendo nelle Costituzioni europee il valore della natura e dell'arte. Lo afferma esplicitamente l'art. 9 della nostra Costituzione, secondo il quale «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e storico della Nazione», mentre l'art. 33 della stessa Costituzione sancisce che «l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento». Né è da sottovalutare il fatto che l'art. 117, del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione, novellato con legge costituzionale n. 3 del 2001, ha assegnato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie dell'«ambiente, ecosistema e beni culturali». Il 'giusnaturalismo', dunque, è entrato a pieno titolo nella Costituzione e la 'bellezza', che si esprime nella natura e nell'arte, è da ritenere, a sua volta, 'valore costituzionale'.

Nel giusnaturalismo costituzionale (anche se taluno lo nega) risiede, a nostro avviso, la 'bellezza' della nostra Costituzione: infatti, il dar rilievo, non solo al «lavoro» umano, considerato il «fondamento» della Repubblica, ma anche al paesaggio, ai beni artistici e storici, all'arte e alla scienza, nonché all'ambiente, all'ecosistema e ai beni culturali in genere, vuol dire che la Costituzione stessa pone in 'equilibrio', e quindi in 'armonia' tra loro, il valore Uomo e il valore Natura, considerando entrambi indispensabili per lo «sviluppo della persona umana» e il «progresso materiale e spirituale della società» (art. 3 e art. 4 Cost.). Oggetto di regolamentazione, in altri termini, è la 'vita nel suo complesso' che, come sopra si notava, è la massima espressione della 'bellezza'. E a questo punto non si può sottacere che la 'bellezza' della quale è ammantata la nostra Costituzione deriva anche da quella che è stata definita 'l'etica repubblicana', il fatto cioè che tutte le disposizioni costituzionali si ispirano ai principi di 'libertà, eguaglianza e solidarietà' (l'eguaglianza soprattutto), principi che costituiscono, per così dire, l'asse portante del 'bello' che si ritrova nella nostra Carta costituzionale.

Dunque, per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni, la via è già tracciata: è scritta nella Costituzione, che è impostata secondo le linee di Papa Francesco poco sopra esposte, e che è, come si accennava, 'equilibrata' e 'armonica', quindi 'bella'.

Questo testo è uno stralcio di una più ampia lectio magistralis - intitolata L'Enciclica 'Laudato si' di Papa Francesco. Riflessi giuridici - tenuta da Paolo Maddalena all'inaugurazione dell'anno accademico dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose Euromediterraneo di Tempio Pausania il 17 ottobre 2015.

«Repubblica centrafricana. Il conflitto in corso da tempo ha costretto più di mezzo milione di persone a cercare asilo nei paesi vicini. E i continui scontri tra bande rischiano di far saltare le elezioni». Il terribile scenario nel quale papa Francesco ha scelto di aprire il Giubileo della misericordia. Il manifesto, 28 novembre 2015

Sarà Bangui ad aprire domani l’anno santo del Giubileo della misericordia, tra i derelitti del pianeta e non tra i fasti di San Pietro. A dispetto delle allerte dell’intelligence mondiale, il papa a conclusione del suo viaggio in Africa di ritorno dal Kenya e dall’Uganda metterà piede nella Repubblica Centrafricana.

Dove né le forze francesi dell’Operazione Sangaris né quelle regionali africane sono riuscite ad arrestare una spirale di violenza che sta facendo strage di civili almeno dalla débâcle di Bangui nel marzo 2013 a opera della coalizione Seleka (coalizione di fazioni ribelli dissidenti di diversi movimenti politico-militari) in nome dell’accesso alle risorse a favore delle popolazioni del nord, soprattutto di quelle petrolifere nelle mani della China National Petroleum Corporation.

E che vede la contrapposizione tra due bande di combattenti assoldati da burattinai politici che mirano al controllo del territorio e delle risorse minerarie di cui il Paese è ricchissimo.

Da una parte dunque i Seleka (gli stranieri del nord di fede islamica che non parlano né francese né sango, scesi alla conquista delle popolazioni del sud), dall’altra gli Anti-Balaka (in maggioranza giovani analfabeti orfani di famiglie uccise dai ribelli Seleka), cristiani e animisti la cui ala minoritaria — i Combattants pour la libération du peuple centrafricain — sarebbe legata al Front pour le retour à l’ordre constitutionnel en Centrafrique (Froca), il movimento creato in Francia dall’ex presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé.

Un conflitto di cui subiscono le tragiche conseguenze soprattutto le popolazioni civili e che non ha risparmiato neanche Medici Senza Frontiere — l’ong impegnata nella Repubblica Centrafricana dal 1997 — quando fu attaccata nell’aprile del 2014 dai ribelli Seleka (almeno 22 le vittime tra civili e operatori).

Sarebbero più di un milione i bambini nella Repubblica Centrafricana che hanno urgente bisogno di aiuti umanitari, mentre quasi la metà di quelli sotto i cinque anni sono malnutriti. A renderlo noto giorni prima dell’arrivo del Papa è l’agenzia Onu per l’infanzia, l’Unicef.

«La violenza che ha afflitto questo paese ha avuto un impatto devastante sulla vita dei bambini», ha detto Mohamed Fall, rappresentante Unicef nella Repubblica Centrafricana. «Per far fronte ai bisogni umanitari abbiamo bisogno di un maggiore sostegno internazionale».

Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite, il conflitto ha costretto circa mezzo milione di persone a cercare asilo nei paesi vicini, mentre i recenti attacchi ai convogli hanno ostacolato le consegne di aiuti e le azioni di soccorso.

Gli scontri tra le milizie dei Seleka e quelle degli Anti — balaka che si pensasse potessero dissuadere il pontefice dal mettervi piede, rischiano però di far slittare ancora una volta le elezioni del prossimo 27 dicembre già rimandate lo scorso ottobre.

L’arrivo di Francesco è previsto per domani: «Siamo fiduciosi che la visita del Papa sarà promuovere la riconciliazione in un paese che ha un disperato bisogno di pace» sostiene Fall.

Quest’anno l’Unicef ha ricevuto 37 milioni di dollari su circa 70 milioni di cui ha bisogno per provvedere a interventi di soccorso urgenti per i bambini più vulnerabili della Repubblica Centrafricana.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite visto in esclusiva dalla Thomson Reuters Foundation i ribelli nella Repubblica Centrafricana avrebbero rapito, bruciato e sepolto vive «streghe» in cerimonie pubbliche, sfruttando superstizioni ampiamente diffuse con l’obiettivo di controllare il territorio.

Il rapporto mostra fotografie delle vittime legate a pali di legno, nonché i torsi carbonizzati di quelli sottoposti al rituale.

Le torture sarebbero avvenute tra dicembre 2014 e l’inizio del 2015 sotto direttive dei leader della milizie Anti-Balaka (a maggioranza cristiana) che da più di due anni combattono in tutto il Paese contro i ribelli (a maggioranza musulmana) dei Seleka.

Secondo ricercatori dell’Onu, mentre la credenza nella stregoneria è comune in tutta l’Africa, in questo caso sembra che i ribelli Anti-Balaka abbiano sfruttato tali superstizioni per intimidire, estorcere denaro e esercitare autorità su aree senza legge.

«Cgil, Cisl minoranza Dem e 5 Stelle: “Sostituzioni ingiustificate, il governo rischia di dismettere il servizio pubblico”».

La Repubblica, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Roma. Azzerato il vertice di Ferrovie dello Stato. Nel cda decisivo di ieri mattina si è consumato l’atto finale del lungo addio dell’amministratore delegato Michele Mario Elia e del presidente Marcello Messori. Dopo mesi di incertezza e pressione del governo sul vertice del gruppo ferroviario, sono arrivate le dimissioni della maggioranza dei consiglieri del cda. Una mossa che ha costretto, di fatto, anche il resto del consiglio alla resa, dopo le resistenze di Messori e Elia al passo indietro.

Ora, nei piani di Matteo Renzi e del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, si schiudono le porte verso una privatizzazione senza le resistenze del vertice di Fs a partire dal 2016. Al posto dei due dirigenti dimissionari nelle prossime ore potrebbero essere indicati i nomi di Renato Mazzoncini (ad di Busitalia, società del gruppo) e Simonetta Giordani come presidente. Per quest’ultima potrebbero schiudersi in alternativa le porte di Rfi o Trenitalia, i cui cda andranno rinnovati assieme a quello di Fs.
Anche sul numero dei consiglieri nelle ultime ore si sarebbe aperta una riflessione all’interno dell’esecutivo. Il cda di Ferrovie è infatti l’unico ad avere 9 consiglieri contro i 5 delle altre società partecipate dal Tesoro. Possibile dunque un taglio di quattro posti. Allo stesso modo anche il cda di Rfi - che ieri ha acquisito la società Bari Fonderie Meridionali con 100 dipendenti per 6,5 milioni - e quello di Trenitaliapotrebbero passare a 3 consiglieri concentrando in un’unica poltrona ad e presidente.
I sindacati però cominciano a fare la voce grossa. Dopo la minaccia di mobilitazione di tutta la categoria, lanciata pochi giorni fa dalla Cisl, il responabile dei Trasporti Giovanni Luciano chiede che le Fs «vengano tutelate: non si mette a rischio un’impresa solida e competitiva per ipotetici introiti economici tra l’altro modesti. Chi vuole fare affari sulle Fs?». Duro anche il commento della Cgil che con il segretario della Filt Franco Nasso parla di «fatto irrituale, difficile da comprendere e non giustificato dalle condizioni dell’azienda. La discontinuità nei vertici, collegata all’ancora confuso progetto di privatizzazione, sono ragione di forte preoccupazione». E per Claudio Tarlazzi della Uil «è bagliato affrontare una scelta così complessa e strategica per il Paese con mere logiche di far cassa».
Anche il fronte politico è in fibrillazione a partire dal Pd. Pier Luigi Bersani chiede un percorso di maggiore «trasparenza» sul caso Ferrovie. Più a sinistra si fa sentire Stefano Fassina per Sinistra italiana: «Il governo - dice l’ex vice ministro all’Economia col Pd - conferma la volontà di disinvestimento nei confronti del servizio pubblico di mobilità delle persone, un vero e proprio “bene comune”». Dai 5 Stelle, infine, critiche durissime: «Le dimissioni in massa sono tabula rasa per dare mano libera a Renzi. È la fine di ogni velleità di promozione e sviluppo del trasporto pubblico locale».

«Avrei voluto parlare di come quella triade abbia perso buona parte del suo valore quando i loro propinatori nel XIX secolo hanno rivolto i loro interessi verso gli altri continenti; e dimenticando Liberté, Fraternitè, Egalité, hanno brutalmente sfruttato le popolazioni che li abitavano da millenni. Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2015 (m.p.r.)
Una settimana fa sono stata invitata da Radio 3 a partecipare alla serata organizzata a Villa Medici per la sera del 25 in solidarietà con la Francia per quanto di orrendo era avvenuto il 13 novembre a Parigi, scegliendo di intervenire per circa cinque minuti con una poesia o altro. Avevo qualche dubbio a partecipare che mi è stato contestato affermando che sarei stata libera, assolutamente libera, di leggere quello che volevo. Così infatti è stato. Con un inconveniente. Che mi sono trovata come un alieno o forse è meglio dire come l’uomo di Neanderthal che si aggira nella foresta in cerca di un habitat. La colpa è certo mia che ho frainteso il significato della serata durante la quale sono state lette delle bellissime poesie e brani di libri con meravigliose descrizioni della bellezza di Parigi e l’incanto della Francia, o sul legame che gli italiani sentono per un paese che è stato l’epicentro della meravigliosa triade Liberté, Fraternité, Egalité.
Io invece avrei voluto parlare di come quella triade abbia perso buona parte del suo valore quando i loro propinatori nel XIX secolo hanno rivolto i loro interessi verso gli altri continenti; e dimenticando Liberté, Fraternitè, Egalité, hanno brutalmente sfruttato le popolazioni che li abitavano da millenni. A volte in maniera orrenda e inaccettabile, come è accaduto al Belgio sotto il regno di Leopoldo II che ancora oggi una imponente statua celebra nel centro di Bruxelles: il Re (era alto quasi due metri) ritto sul piedistallo, e aggrappati alle sue gambe gli indigeni in adorazione. Dimenticando che nel convegno che si era svolto a Vienna dal novembre del 1884 al febbraio del 1885, al quale avevano partecipato i principali paesi europei più Turchia e Stati Uniti, si era decisa la spartizione di buona parte dell’Africa. Ma il giovane Leopoldo II, non pago di avere ottenuto il bacino del Congo, un territorio vasto quanto l’Europa esclusa la Russia, si impadronì di lì a poco anche del Sudan orientale e delle provincie del Kasai e del Buluba, in tutto quasi dieci milioni di chilometri quadrati. Ma attenzione: l’intera colonia fu dichiarata “Proprietà dello Stato”, ossia del Re.
Un privato dominio al di fuori di ogni controllo dove la popolazione era schiava nel vero senso del termine. E quando lo sviluppo dell’industria automobilistica rese molto redditizio il caucciù per le gomme, quel territorio ricco delle foreste che lo produceva, divenne una fonte inesauribile di arricchimento per Leopoldo II; e una tragedia immane per indigeni, comprese donne e bambini. Indigeni che venivano condotti al lavoro legati uni gli altri. E se a fine giornata non raccoglievano la quantità richiesta di caucciù, gli venivano amputati un braccio o una gamba e alle donne le mammelle.
Ne parlarono a suo tempo Mark Twain ne Il soliloquio di Re Leopoldo pubblicato nel 1905 sotto lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens Arthur, e Conan Doyle in The crime of the Congo (Il crimine del Congo) pubblicato nel 1908. E nel 1998 con un documentatissimo libro ricco di fotografie Adam Hochschild: King Leopold’s ghosts (Gli spettri del Congo Rizzoli 2001). Nel giro di 23 anni (dal 1886 al 1908) la popolazione era stata ridotta a un quinto. E le fotografie dei cadaveri accumulati in pile uno sugli altri per spaventare gli indigeni e costringerli al lavoro coatto sembrano sinistramente anticipare di alcuni decenni quelle che saranno le montagne di corpi che si presenteranno di fronte alle truppe alleate quando nell’aprile del 1945 verranno spalancati i cancelli di Auschwitz, Birkenau o Mathausen.

«Quando furono scatenate le guerre in Afghanistan e Iraq sapevamo che quei conflitti avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Per questo non si può non reagire». Un appello di intellettuali francesi.

Il manifesto, 27 novembre 2015

Nessuna interpretazione monolitica, nessuna spiegazione meccanicistica può far luce sugli attentati. Ma possiamo forse rimanere in silenzio? Molte persone — e le comprendiamo — ritengono che davanti all’orrore di questi fatti, l’unico atto decente sia il raccoglimento. Eppure non possiamo tacere, quando altri parlano e agiscono in nostro nome: quando altri ci trascinano nella loro guerra. Dovremmo forse lasciarli fare, in nome dell’unità nazionale e dell’intimazione a pensare in sintonia con il governo?

Si dice che adesso siamo in guerra. E prima no? E in guerra perché? In nome dei diritti umani e della civiltà? La spirale in cui ci trascina lo Stato pompiere piromane è infernale. La Francia è continuamente in guerra. Esce da una guerra in Afghanistan, lorda di civili assassinati. I diritti delle donne continuano a essere negati, e i talebani guadagnano terreno ogni giorno di più. Esce da una guerra alla Libia che lascia il paese in rovine e saccheggiato, con migliaia di morti, e montagne di armi sul mercato, per rifornire ogni sorta di jihadisti. Esce da una guerra in Mali, e là i gruppi jihadisti di al Qaeda continuano ad avanzare e perpetrare massacri. A Bamako, la Francia protegge un regime corrotto fino al midollo, così come in Niger e in Gabon. E qualcuno pensa che gli oleodotti del Medioriente, l’uranio sfruttato in condizioni mostruose da Areva, gli interessi di Total e Bolloré non abbiano nulla a che vedere con questi interventi molto selettivi, che si lasciano dietro paesi distrutti? In Libia, in Centrafrica, in Mali, la Francia non ha varato alcun piano per aiutare le popolazioni a uscire dal caos. Eppure non basta somministrare lezioni di pretesa morale (occidentale). Quale speranza di futuro possono avere intere popolazioni condannate a vegetare in campi profughi o a sopravvivere nelle rovine?

La Francia vuole distruggere Daesh? Bombardando, moltiplica i jihadisti. I «Rafale» uccidono civili altrettanto innocenti di quelli del Bataclan. E, come avvenne in Iraq, alcuni civili finiranno per solidarizzare con i jihadisti: questi bombardamenti sono bombe a scoppio ritardato.

Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semi-schiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche?

La guerra alla jihad, si dice con tono marziale, si combatte anche in Francia. Ma come evitare che vi cadano dei giovani, soprattutto quelli provenienti da ceti non abbienti, se non cessano le discriminazioni nei loro confronti, a scuola, rispetto al lavoro, all’accesso all’abitazione, alla loro religione? Se finiscono continuamente in prigione, ancor più stigmatizzati? E se non si aprono per loro altre condizioni di vita? Se si continua a negare la dignità che rivendicano?

Ecco: l’unico modo per combattere concretamente, qui, i nostri nemici, in questo paese che è diventato il secondo venditore di armi a livello mondiale, è rifiutare un sistema che in nome di un miope profitto produce ovunque ingiustizia. Perché la violenza di un mondo che Bush junior ci prometteva, 14 anni fa, riconciliato, riappacificato, ordinato, non è nata dal cervello di bin Laden o di Daesh. Nasce e prospera sulla miseria e sulle diseguaglianze che crescono di anno in anno, fra i paesi del Nord e quelli del Sud, e all’interno degli stessi paesi ricchi, come indicano i rapporti dell’Onu. L’opulenza degli uni ha come contropartita lo sfruttamento e l’oppressione degli altri. Non si farà indietreggiare la violenza senza affrontarne le radici. Non ci sono scorciatoie magiche: le bombe non lo sono.

Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome.

Primi firmatari:

Etienne Balibar, Ludivine Bantigny (storica), Emmanuel Barot (filosofo), Jacques Bidet (filosofo), Déborah Cohen (storica), François Cusset (storico delle idee), Laurence De Cock (storica), Christine Delphy (sociologa), Cédric Durand (economista), Fanny Gallot (storica), Eric Hazan (editore), Sabina Issehnane (economista), Razmig Keucheyan (sociologo), Marius Loris (storico e poeta), Marwan Mohammed (sociologo), Olivier Neveux (storico dell’arte), Willy Pelletier (sociologo), Irene Pereira (sociologa), Julien Théry-Astruc (storico), Rémy Toulouse (editore), Enzo Traverso (storico)

(Traduzione di Marinella Correggia)

Il manifesto, 27 novembre 2015

«Più che le persone, mi fanno paura le zanzare»; «Io voglio andare. Se non mi ci portate voi, datemi un paracadute». Sono solo un paio di battute, colte “al volo” – è il caso di dirlo – sull’aereo che il 25 scorso portava papa Francesco a Nairobi, capitale del Kenya e prima tappa del viaggio di cinque giorni che lo sta vedendo impegnato nel continente dalle risorse del suolo e del sottosuolo più ricche al mondo e dalle popolazioni più miserabili della terra. Come tale gigantesco, incrollabile, insostenibile paradosso sia possibile, e come tutti lo accettiamo senza fiatare, è forse la spina avvelenata che sta contagiando il mondo: che lo sta portando verso una catena di guerre, di violenze e di disastri sia ecologici sia sociali che potrebbe anche rivelarsi di proporzioni mai viste.

Perché dev’esser chiaro che questa è la posta in gioco. E che, tra i grandi leaders mondiali, questo gesuita italoargentino che al suo paese qualcuno accusa di essere «un gaucho peronista irresponsabile» è l’unico ad affrontarla direttamente e a chiamare le cose con il loro nome: come ha fatto nell’enciclica Laudato si’. I rischi sono molti ed evidenti: per lui, per chi gli sta vicino, per le folle che accorrono a salutarlo. Lui lo sa bene.

E sa bene che, quando il pericolo è relativo e non incombe, lo si può anche evitare; ma quando è lì, ci è addosso, minaccia di sopraffarci, allora non c’è nulla da fare: va affrontato a muso duro. E lui, dietro certi suoi disarmanti sorrisi, la grinta del duro ce l’ha eccome.

In un raid mozzafiato, rifiutando papamobili corazzate e giubbotti antiproiettile, questo ciclone quasi ottantenne sta visitando un bel pezzo di Africa centroccidentale: il Kenya dove i cattolici sono quasi 9 milioni, l’Uganda dove superano i 14, la Repubblica Centroafricana dove sono invece piuttosto pochi mentre forti sono le comunità cristiano-evangeliche e musulmana, che lui visiterà tra domenica e lunedì.

Senza per nulla minimizzare le tappe a Nairobi in Kenia e a Kampala in Uganda, è proprio a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, che avranno luogo gli incontri più significativi: anzitutto al visita al campo profughi, quindi la messa nella cattedrale e l’apertura della prima Porta Santa di quel Giubileo della Misericordia che – il papa ci tiene – non dovrà avere Roma come centro e mèta bensì svolgersi fondamentalmente in quelle periferie che egli ama e nelle quali vede le chiavi per il destino del mondo di domani. Quindi il papa visiterà la grande moschea della capitale.

Se non ci saranno intoppi gravi, è evidente che questo è solo il principio. Non potrà non esserci un’altra visita, specie nei paesi dove i fedeli cattolici sono ancora più numerosi: 31 milioni nella Repubblica Democratica del Congo, 20 in Nigeria. Va ricordato che in Africa i cattolici sono 200 milioni, vale a dire il 17% della popolazione cattolica del mondo; nel clero, i preti africani stanno ormai diventando sempre più numerosi e a loro viene sovente affidata l’evangelizzazione e la pastorale rivolta agli europei. Ecco perché Francesco sostiene che la risorsa più preziosa dell’Africa non sono né il petrolio, né l’oro, né i diamanti, né l’uranio, né il coltan, bensì gli uomini. Eppure da questo continente sfruttato e distrutto soprattutto a causa della scellerata complicità tra le lobbies multinazionali che lo dissanguano sfruttandolo e i corrotti governi locali che tengono loro il sacco ricevendone laute prebende mentre la guerra infuria e le bande terroristiche impazzano, la gente è costretta a fuggire. Derubati in casa loro e quindi cacciati. Inaudito, ignobile, intollerabile.

In Africa c’è anche una grave minaccia terroristica: il papa lo sa bene e non sottovaluta in pericolo. Non ci sono prove effettive che gruppi come Boko Haram o come le molte milizie attive in area somala da dove irradiano la loro violenza siano strutturalmente legate all’IS del califfo al-Baghdadi. Egli agisce forse solo in franchising, apponendo il suo trade mark agli attentati e alle azioni violente che riescono e dando così l’impressione di una potenza intercontinentale che non possiede. Ciò non diminuisce però di un grammo la pericolosità dei guerriglieri islamisti. In Uganda agisce, ai confini con il Ruanda e il Congo, la Adf-Nalu (“Forze democratiche alleate – Esercito Nazionale di Liberazione dell’Uhanda”), che ormai ha assunto un inquietante colore confessionale da quando a guidarlo c’è Jamil Mukulu, un ex cristiano convertito alla setta musulmana taqlib.

Quel ch’è accaduto il 20 scorso nel Radisson Hotel di Bamako nel Mali, è ancora troppo recente per essere già stato dimenticato: dei clienti uccisi una volta appurato semplicemente che non conoscevano il Corano. Qualche giorno fa i rappresentanti dell’Unione europea, riuniti a Malta, hanno stanziato un po’ meno di 2 miliardi di euro per sostenere lo sviluppo economico africano e rimpatriare i migranti irregolari: una goccia nell’oceano, che per giunta – come assicura padre Mussie Zerai, dell’autorevole agenzia Habeshia – finirà quasi del tutto nelle tasche di governanti e di politicanti locali. Eppure l’equilibrio sociopolitico del mondo discende dalla necessità di una ridistribuzione delle ricchezze nel continente africano.

Il papa lo sa; e sa benissimo altresì che il terrorismo è imprevedibile e che – se non si coordinano bene intelligence e infiltrazione per distruggerne le centrali – i quasi 36.000 uomini del servizio sociale non possono far quasi nulla per tutelare la sicurezza da nessuno. Lo ha detto chiaro e tondo: «Il terrorismo si alimenta di paura e povertà». Ma no, i soliti esperti tuttologi abituali ospiti dei talk-show durante i quali discettano su tutto, dalla questione femminile alla Juventus, gli hanno dato sulla voce giudicando la sua tesi “semplicistica” e “superficiale”, ribadendo con sussiego che alla base del terrorismo c’è l’ideologia distorta dei fondamentalismi. Ma sfugge a questi competenti per autolegittimazione che in una dottrina nella quale la fede viene degradata a base politica di un nuovo imperialismo vi sono sì i teorici che sanno quel che fanno, ma la massa di manovra agisce in quanto esasperata dalle sue condizioni economiche e incapace di disporre di un linguaggio sociale che non faccia riferimento al bagaglio religioso.

Ma alla base di tutto v’è una miseria che dilaga in Asia, in Africa, in America latina , che tocca a differenti livelli il 90% della popolazione del globo (e tra loro più poveri, quelli che vivono sotto la soglia di sopravvivenza fissata dalla Banca Mondiale, i fatidici due dollari al giorno, sono 700 milioni) e che è aggravata dall’informazione.

Non esiste povero e isolato centro che non sia raggiunto dalla Tv o dalla rete informatica. Ora, i miserabili che pensavano alla loro condizione economica come “naturale”, sanno e vedono; gli africani ai quali le multinazionali fanno pagare perfino l’acqua potabile sanno che là, “in Occidente”, c’è chi nuota in piscine private olimpioniche la cui capacità sarebbe tale da soddisfare le esigenze idriche giornaliere di migliaia di persone. E non ci stanno più. Ora, tra loro molti non trovano di meglio del jihadismo islamista per reagire; se piegheremo quella forza eversiva, non illudiamoci. Ne nasceranno altre: in quanto esse costituiscono le risposte distorte, scorrette, crudeli, disperate, a una situazione intollerabile.

Il papa chiede giustizia per i poveri nel nome del Cristo, povero tra i poveri. Quelli tra noi che sono insensibili alla parola di Dio e alla voce dell’umanità, si muovano almeno per egoismo, per legittima difesa. Per troppo tempo i poveri non si sono mossi perché non sapevano. Ora che sanno, non illudiamoci: o costruiamo tutti insieme una società più giusta e dignitosa, o ci travolgeranno.

«Il modo in cui Hollande sta gestendo la crisi lascia l’Unione europea in secondo piano. Forse basterà a risolvere l’incerto futuro della Siria. Di certo, non aiuta a schiarire il futuro incertissimo dell’Europa», nè quello degli altri teatri della guerra diffusa, come ormai conviene battezzare la terza querra mondiale.

La Repubblica, 27 novembre 2015 (m.p.r.)

Da Obama a Putin, dalla Merkel a Cameron, tutti dicono di sì a Hollande che, in nome della sua Parigi insanguinata, invoca una «grande coalizione» contro Daesh. Il presidente francese incassa anche un grosso successo con l’assenso russo a combattere a fianco di «un’alleanza a guida Usa». Un passo che modifica il quadro degli equilibri mondiali. L’unico che gli ha sparato contro, in modo neppure tanto metaforico, è Erdogan.

Il missile con cui ha fatto abbattere un jet russo è stato un estremo tentativo di boicottare la nascita di una alleanza mondiale che avvii a soluzione la crisi siriana. Una prospettiva in cui Ankara ha molto da perdere, a cominciare dalla inevitabile creazione di una nazione curda e semi indipendente ai suoi confini. Ma se Erdogan può tenere in ostaggio l’Europa usando l’arma dei rifugiati, il suo tentativo di tenere in ostaggio il mondo giocando sulle divisioni che riguardano la sorte del dittatore siriano Assad è probabilmente destinato a fallire. Con l’offensiva terroristica lanciata contro l’Occidente, con i morti di Parigi e dell’aereo russo esploso sul Sinai, il sedicente Califfato è riuscito a coalizzare contro di sé l’intero Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: impresa mai così compiutamente realizzata in sessant’anni di crisi e di sforzi diplomatici.

Quali saranno i risultati concreti della coalizione voluta da Hollande è ancora tutto da vedere. I cacciabombardieri della portaerei Charles De Gaulle difficilmente riusciranno da soli a risolvere una guerra che si trascina da quasi cinque anni. Ma intanto l’attivismo diplomatico del presidente francese sta avendo effetti politici di grande portata su almeno tre fronti.
Il primo fronte è ovviamente quello siriano, dove finalmente le grandi potenze e le potenze regionali sono costrette a lavorare davvero per cercare una soluzione che consenta di riportare la pace del Paese. La guerra ha fatto comodo a molti. Ora però, se Daesh è destinato alla sconfitta militare sul terreno, tutte le capitali coinvolte in questo conflitto sono consapevoli che occorre un accordo preventivo su come riempire il vuoto che sarà lasciato dalla scomparsa del Califfato. Nessuno vuole ripetere l’errore della Libia, dove la caduta di Gheddafi ha lasciato un buco che nessuno si è preoccupato di riempire.
Il secondo fronte è quello dei rapporti con la Russia. Dopo la gravissima crisi ucraina, le relazioni tra Mosca e l’Occidente erano precipitate ad un livello da Guerra fredda. La visita di Hollande al Cremlino, non come mediatore di un conflitto irrisolto e forse irresolubile, ma come alleato di una coalizione nascente a fianco degli americani, cambia in un colpo il quadro delle relazioni internazionali e relativizza la profondità del fossato che separa la Russia dall’Europa. Non a tutti questo fa piacere, come dimostrano i missili turchi. Ma il riavvicinamento conferma la tesi, sempre sostenuta dall’Italia, che il Cremlino è comunque un interlocutore indispensabile del mondo occidentale.
Il terzo fronte è quello dell’Europa, che si trova ancora una volta messa in discussione. Hollande ha giustamente detto che l’attacco contro Parigi è stato un attacco contro l’Europa. Ma si è ben guardato dal trarne le conseguenze. La richiesta francese di solidarietà ai partner comunitari è stata fatta in base ad un articolo del Trattato, il 42.7, che di fatto consente a tutti di mantenere le mani libere e garantisce così all’Eliseo un ruolo di «pivot» nel coordinare la reazione europea. Se avesse invocato l’articolo 44 dello stesso Trattato, Hollande avrebbe comunitarizzato questa crisi, che sarebbe passata sotto il controllo di Bruxelles e del Comitato politico e di sicurezza, il Cops, che è un organo del Consiglio Ue. Non lo ha voluto fare, per gli stessi motivi per cui, all’indomani della strage di Charlie Hebdo, si è opposta alla creazione di una “intelligence” europea.
Anche nel momento del massimo pericolo, la Francia non rinuncia al proprio ruolo di stato- potenza, sia pure al centro di un concerto di altri stati europei. L’emergenza terrorismo le offre semmai l’opportunità di riequilibrare almeno in parte, sul piano militare, la supremazia che la Germania aveva acquisito sul piano economico e politico. Oggi la Merkel è costretta a seguire Hollande, offrendogli aiuto in Africa o mettendogli a disposizione i Tornado della Luftwaffe, come Hollande l’aveva seguita, molto a malincuore, nell’apertura alla redistribuzione dei migranti. Lo stesso Cameron è obbligato a tornare davanti ai Comuni per richiedere il permesso di mandare la Raf in Siria, negatogli mesi fa. Renzi, il più renitente dei partner europei anche perché aspetta (e spera) il riconoscimento di un ruolo dell’Italia in Libia, è convocato a Parigi per un breve colloquio prima che Hollande parta per Mosca. E comunque neppure lui può esimersi dall’offrire un piccolo contributo italiano per alleviare lo sforzo dei soldati francesi in Libano. I belgi, maltrattati per le pretese carenze della loro intelligence sul terrorismo, sono ridotti ad offrire una fregata che scorta la portaerei Charles De Gaulle nei mari siriani in quello che sembra un omaggio più che una difesa.
Tutto giusto, per carità. In questa crisi la supremazia francese ha radici legittime. Da mesi la Francia si è assunta l’onere di combattere il Califfato anche in nome e per conto di quegli europei che non lo hanno voluto o potuto fare. Parigi ha pagato un prezzo altissimo per questo impegno. È logico che oggi riscuota la solidarietà dei partner ed è incoraggiante che questi onorino, sia pure a prezzo scontato, i propri obblighi morali. Ma il modo in cui Hollande sta gestendo la crisi lascia l’Unione europea in secondo piano. La relega al ruolo di spettatore consenziente di un balletto degli stati nazione sotto regia francese. Forse questo basterà a risolvere l’incerto futuro della Siria. Di certo, non aiuta a schiarire il futuro incertissimo dell’Europa.

Il manifesto, 26 novembre 2015

È la povertà ad alimentare il terrorismo. Papa Francesco, appena arrivato in Kenya, prima tappa del suo viaggio apostolico in Africa cominciato ieri e che nei prossimi giorni lo porterà anche in Uganda e Repubblica Centrafricana, interviene sul tema di maggiore attualità di queste settimane.

Lo fa pochi minuti dopo il suo atterraggio all’aeroporto internazionale «Jomo Kenyatta» di Nairobi quando – dopo aver effettuato una breve visita di cortesia al presidente della Repubblica del Kenya, Uhuru Kenyatta, e aver piantato un albero nel giardino della State House di Nairobi – incontra, oltre al presidente, i ministri del governo e gli ambasciatori.

«Fintanto che le nostre società sperimenteranno le divisioni, siano esse etniche, religiose o economiche, tutti gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a operare per la riconciliazione e la pace», dice Bergoglio nel suo discorso. «Nell’opera di costruzione di un solido ordine democratico, di rafforzamento della coesione e dell’integrazione, della tolleranza e del rispetto per gli altri, il perseguimento del bene comune deve essere un obiettivo primario. L’esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione».

Dalla giustizia sociale all’ambiente, anche perché, spiega Bergoglio, «vi è un chiaro legame tra la protezione della natura e l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo». C’è la denuncia dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, da parte soprattutto dei Paesi industrializzati del nord, spesso proprio a danno dei popoli dell’Africa. «Il Kenya è stato benedetto non soltanto con una immensa bellezza, nelle sue montagne, nei suoi fiumi e laghi, nelle sue foreste, nelle savane e nei luoghi semi-deserti, ma anche con un’abbondanza di risorse naturali», dice Bergoglio. «La grave crisi ambientale che ci sta dinnanzi esige una sempre maggiore sensibilità nei riguardi del rapporto tra gli esseri umani e la natura. Noi abbiamo una responsabilità nel trasmettere la bellezza della natura nella sua integrità alle future generazioni e abbiamo il dovere di amministrare in modo giusto i doni che abbiamo ricevuto. Tali valori sono profondamente radicati nell’anima africana. In un mondo che continua a sfruttare piuttosto che proteggere la casa comune, essi devono ispirare gli sforzi dei governanti a promuovere modelli responsabili di sviluppo economico».

Di ecologia si è parlato anche nell’incontro fra la delegazione vaticana, guidata dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, e quella keniana, in cui era presente il ministro dell’Ambiente che, riferisce il direttore della Sala stampa della Santa sede padre Lombardi, ha introdotto il tema della tutela del clima in vista della Cop21 di Parigi e assicurato l’impegno del Kenya per il vertice. E quello ambientale sarà uno dei temi che ricorrerà più volte durante i sei giorni della trasferta africana. Già questo pomeriggio, quando papa Francesco, dopo un incontro ecumenico ed interreligioso con i rappresentanti di varie fedi e una messa nel campus dell’università (molto probabilmente saranno ricordati i 147 studenti uccisi, ad aprile, dagli jihadisti di Al-Shabaab al Garissa University College), farà visita alla sede Onu di Nairobi, una delle più grandi al mondo, dove ci sono gli uffici della Unep (agenzia per l’ambiente) e dell’Un-Habitat (agenzia per gli insediamenti umani): «Ci si attende un discorso ampio che riprenda i temi della Laudato si’», ha anticipato Lombardi.

Domani Bergoglio partirà per l’Uganda, da dove, riferisce Frank Mugisha, leader della ong Sexual minorities, è giunta al papa da parte degli attivisti gay la richiesta di un’udienza privata e l’appello affinché denunci le leggi omofobiche: in Uganda l’omosessualità è un reato, punito anche con l’ergastolo.

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