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«Lo scorso fine settimana, i delegati libici dei due parlamenti hanno annunciato un piano di pace alternativo. Le potenze occidentali hanno respinto l’iniziativa, affermando che il piano dell’Onu era l’unica strada percorribile».

La Repubblica, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

I diplomatici stanno lavorando febbrilmente per risolvere la lunga crisi libica, con un occhio alla necessità di arrestare le ondate di profughi verso l’Europa e l’altro allo sradicamento dello Stato Islamico dalla costa del Nord Africa. Ma ci sono pericoli ancora più grandi, derivanti da un processo affrettato che consacrasse un governo di unità nazionale senza aver consolidato l’appoggio interno o affrontato le preoccupazioni relative alla sicurezza.

Il Governo libico diviso e le sue milizie litigiose stanno, infatti, lacerando il Paese. Questa è la ragione principale per cui lo Stato Islamico si è radicato ancor più profondamente in una base a Sirte, città natale sul Mediterraneo del deposto dittatore libico Gheddafi. Le Nazioni Unite e le grandi potenze puntano sul fatto che una forte spinta da parte della comunità internazionale possa aprire la strada alla creazione di un governo libico che ripristini l’ordine e diventi un partner per la lotta al terrorismo e il controllo delle migrazioni. Sarebbe una scommessa irresponsabile. All’accordo per l’unità sotto l’egida dell’Onu si oppongono rigidamente i due parlamenti rivali della Libia - il Congresso Generale Nazionale (GNC) nella capitale, Tripoli, e la Camera dei Rappresentanti (HoR) nella città orientale di Tobruk.
Lo scorso fine settimana, i delegati libici dei due parlamenti hanno annunciato un piano di pace alternativo. Le potenze occidentali hanno respinto l’iniziativa, affermando che il piano dell’Onu era l’unica strada percorribile. La nuova unica autorità riconosciuta della Libia proposta sarebbe guidata da Faez Serraj, politico relativamente sconosciuto prima della sua nomina da parte dell’Onu a ottobre. È molto probabile che le condizioni di sicurezza impediranno a Serraj e ai suoi colleghi di entrare in carica a Tripoli.
Questo significa che non avranno controllo sull’amministrazione statale, compresa la Banca Centrale. Si potrebbe innescare una rinnovata lotta per il controllo della capitale tra le fazioni che appoggiano e quelle che si oppongono al nuovo governo. Diplomatici esperti e funzionari delle Nazioni Unite coinvolti nel processo dicono che stanno rispondendo a un’enorme pressione politica da parte delle grandi potenze, tra cui gli Stati Uniti. Il preoccupante risultato è che importanti sostenitori libici del piano di pace stanno cominciando a pensare che la comunità internazionale insista per imporre un accordo su un governo che non può sopravvivere nelle fratture del panorama politico libico.
Non è tuttavia troppo tardi per apportare piccole modifiche al summit di domenica a Roma per migliorare le probabilità di successo della trattativa. I negoziatori hanno bisogno di tenere la porta aperta alle varie iniziative di dialogo che i libici hanno lanciato nelle ultime settimane, non di chiudergliela in faccia con aria di sufficienza.
La denuncia del presidente di Antigone, l'associazione che si è costituita parte civile nel processo per le torture della scuola Diaz durante il G8 del 2001.

Il manifesto, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Scompare dai lavori parlamentari la proposta di legge che criminalizza la tortura. Desaparecida. Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato. Era il 9 aprile 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani nel caso Cestaro (torturato alla Diaz) nel condannare l’Italia stigmatizzava l’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano. Renzi aveva promesso che la risposta italiana alla Corte di Strasburgo sarebbe stata la codificazione del reato. Da allora è accaduto qualcosa di peggio che il consueto niente.

Le forze contrarie hanno trovato buoni alleati al Senato. La Commissione Giustizia di Palazzo Madama avvia la discussione di in testo già di per sé non fedele al dettato delle Nazioni Unite. A maggio calendarizza una serie di audizioni. Sono tutte di natura istituzionale. Vengono auditi, in modo informale, i capi delle forze dell’ordine e l’associazione nazionale magistrati. Manca un resoconto stenografico degli incontri. Non vengono sentite le ong, gli avvocati, gli accademici. Così, nonostante le prese di posizione favorevoli al reato da parte dell’Anm, il risultato - prevedibile - è l’approvazione di un testo che pare pensato in funzione della non punibilità dei torturatori.

Un esempio: per esservi tortura le violenze devono essere più di una. Colui che tortura una volta sola pertanto la può scampare. La lettura degli interventi dei parlamentari lascia inebetiti. La pressione istituzionale esterna ha funzionato: viene prima concordato un testo di bassissimo profilo e poi viene messo in naftalina. Siamo quasi alla fine del 2015 e la melina continua senza tema di sottoporsi al ludibrio pubblico. Ma non è finita. C’è qualcosa di peggio che il nulla.

Il governo italiano si rende disponibile a pagare fior di soldi pur di evitare una nuova condanna dei giudici europei. È notizia fresca dei giorni scorsi. Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Ricapitoliamo: era il 2004, tre anni dopo Genova, quando nel carcere di Asti due detenuti vengono torturati. L’indagine questa volta va avanti. Ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali. attraverso il proprio difensore civico Simona Filippi si costituisce parte civile nel processo.

Si arriva al 2012.

Così scrive il giudice nella sentenza: «Dal dibattimento emergono alcuni elementi che possono essere ritenuti provati aldilà di ogni ragionevole dubbio. In particolare, non può essere negato che nel carcere di Asti sono state poste in essere misure eccezionali (privazione del sonno, del cibo, pestaggi sistematici, scalpo) volte a intimorire i detenuti più violenti. Tali misure servivano a punire i detenuti aggressivi…e a dimostrare a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a subire pesanti ripercussioni…I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura…ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984…né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione…in Italia, non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura».

Così il giudice è costretto a non sanzionare gli agenti di polizia penitenziaria. I reati lievi per cui è costretto a procedere sono oramai prescritti. Tutti assolti ma tutti coinvolti e responsabili.

La Cassazione conferma la sentenza. Questa volta Antigone (con il proprio difensore civico) in collaborazione con Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International e con gli avvocati dei due detenuti reclusi ad Asti, presenta ricorso alla Corte europea dei diritti umani. E qui arriviamo ai giorni scorsi. Il ricorso è dichiarato ammissibile. Il Governo, pur di evitare un’altra condanna che stigmatizzi l’assenza del delitto di tortura nel codice penale (dopo il caso Cestaro-Diaz), chiede la composizione amichevole e offre 45 mila euro a ciascuno dei detenuti ricorrenti. Dunque sostanzialmente ammette la responsabilità ma preferisce pagare piuttosto che farsi condannare ed essere costretta ad approvare una legge contro la tortura. Che ne pensano il premier Renzi e il ministro della Giustizia Orlando? Che ne è della promessa del Presidente del Consiglio?

«Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole». Cominciato lo scarica barile. Articoli di Federica Angeli e Ettore Livini su

la Repubblica e di Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

La Repubblica
“HO LUIGI SULLA COSCIENZA
MA L'ORDINE DI MENTIRE CI ARRIVAVA DALLA BANCA”

di Federica Angeli

«Io Luigino me lo sento sulla coscienza perché mi sono comportato da impiegato di banca e se fossi stato una persona che rispettava le regole non gli avrei fatto fare quel tipo di investimento». Marcello Benedetti è un ex impiegato della banca Etruria di Civitavecchia. Licenziato un anno fa da quella filiale per un procedimento penale che ha in corso, Marcello ora monta caldaie in giro per la sua città. Il contratto delle obbligazioni acquistate da Luigino D’Angelo, il pensionato che si è tolto la vita per aver perso 110mila euro, porta la sua firma. Benedetti accetta di rilasciare l’intervista a patto che non si sfiori l’inchiesta che lo ha travolto, e che non riguarda i bond subordinati: su questo non può rilasciare dichiarazioni.

Fu lei a “convincere” Luigino ad investire i suoi risparmi in obbligazioni subordinate?
«Sì, Luigino fu uno dei primi clienti della banca a cui proposi questo investimento».
Lo mise al corrente dei reali rischi che correva in questo tipo di operazione?
Gli occhi si inumidiscono. «Firmò il questionario che sottoponevamo a tutti, nel quale c’era scritto che il rischio era minimo per questo tipo di operazione».
Una bugia scritta in un contratto?
«In realtà nelle successive carte che il cliente firmava, era presente la dicitura “alto rischio”, ma quasi nessuno ci faceva caso. Era scritto in un carteggio di 60 fogli».
E voi impiegati non mettevate al corrente i clienti?
«Avevamo l’ordine di convincere più clienti possibili ad acquistare i prodotti della banca, settimanalmente eravamo obbligati a presentare dei report con dei budget che ogni filiale doveva raggiungere. L’ultimo della lista veniva richiamato pesantemente dal direttore».
Eravate però perfettamente al corrente di cosa significasse vendere ai vostri clienti delle obbligazioni subordinate, giusto?
«Sì. Ogni anno c’era un aumento del capitale e per farlo dovevamo chiamare tutti i clienti e fargli rivedere azioni, obbligazioni, etc».
Che rapporto aveva lei con Luigino?
«Lo conoscevo benissimo, sia lui che la moglie Lidia. Era uno dei clienti più diffidenti e convincerlo a fare proprio quel tipo di investimento non fu facile».
Ma lei nella sua filiale è ricordato per essere quello sempre in cima alla classifica dei report settimanali.
«Sapevo fare bene il mio lavoro. E quando mi resi conto che l’emissione delle obbligazioni subordinate era troppo frequente da parte della banca Etruria capii che era possibile un imminente fallimento. Mi venne in mente dunque di mettere al riparo alcuni clienti, tra cui appunto Luigino. Per cercare di far avere loro la liquidazione sia delle subordinate che delle ordinarie, proposi di fare una gestione di fondo. Ricordo che dissi a Luigino: “Non succederà mai niente alla banca, ma se dovesse in questo modo salvi i tuoi risparmi». Ma lui non volle farlo: il suo problema era che voleva un rendimento semestrale cosa che la gestione del fondo non gli garantiva. Accettarono solo una quarantina di clienti, svuotai il comparto delle obbligazioni. Gli altri sono andati a finire come lui: hanno perso tutto».
Pare di capire che la linea fosse quella di mentire al cliente, o meglio, di omettere verità. È così?
«È così. Quando i clienti venivano a chiederci la liquidità la banca ci diceva di rispondere che non ne aveva e che non sapevamo quando sarebbe stata disponibile. Quando si facevano insistenti, dovevamo dirgli che quelle obbligazioni erano finite nel mercato secondario e che non si vendevano».
Un castello di menzogne senza che la coscienza di nessuno di voi, lei compreso, avesse un sussulto?
«Eravamo tutti in una sorta di sudditanza psicologica. Dal 2007 al 2014 le azioni sono crollate da 17 euro e rotti a 1 euro e 50 e questo era indicativo del fatto che dovevamo dirottare le entrate su altri prodotti e che dovevamo fargli acquistare la qualunque, anche le subordinate. Avendo ingolfato i creditori medio-piccoli tutti noi convincevamo i più danarosi assicurandogli che sarebbe stato un bene per loro, un affare seguendo i nostri consigli. E poi via con lo slalom di bugie, rassicurazioni e risposte evasive».
Ha parlato di pressioni psicologiche.
«All’interno della banca ci dicevano che la banca era sull’orlo del fallimento, e che l’aumento di capitale serviva a salvarci e che se non ci fossimo dati da fare la banca avrebbe chiuso e noi saremmo stati licenziati. Ecco perché ognuno di noi convinceva più clienti possibili».
La logica del mors tua vita mea l’ha spinta a tradire la fiducia dei suoi clienti?
Scoppia a piangere Marcello Benedetti. «Questa è la cosa che non mi perdonerò mai. Aver tradito chi credeva in me. E alla luce della tragedia accaduta al signor Luigino, so che non potrò mai trovare pace né perdonarmi».

La Repubblica

PER UN PUGNO DI EURO I CONFLITTI DI INTERESSE CHI COMPRA E CHI VENDE
di Ettore Livini

Milano. Il loro nome è Bond. Subordinated bond. Al secolo, le obbligazioni subordinate delle banche. Fino a pochi mesi fa uno degli investimenti preferiti degli italiani, sicuro (si pensava) come i Bot e il lieto fine di 007. Oggi, per molti di loro, un incubo: più di 10mila persone hanno visto andare in fumo i risparmi di una vita, in un poker di salvataggi – Pop. Etruria, CariChieti, Banca Marche e Carife - che ha ridotto a carta straccia i 788 milioni di euro di titoli che avevano in portafoglio. Il loro dramma ha fatto scattare l’allarme rosso in centinaia di migliaia di famiglie: gli acquirenti dei 71 miliardi di strumenti simili “piazzati” sul mercato. Gente che spesso li ha comprati senza aver la minima idea del loro rischio, malgrado un tortuoso iter d’acquisto tra prospetti chilometrici, documenti informativi (o presunti tali) e consulenti a volte interessati. Ecco le tappe dell’Odissea di queste obbligazioni, dall’emissione fino alle tasche degli italiani, dal boom all’elettrochoc di queste ore.

Il successo dei bond subordinati è figlio di un’esigenza antica come il mercato: incrociare domanda e offerta. La domanda dei risparmiatori, a caccia di guadagni in un mondo dove i BoT rendono il -0,0003%; l’offerta delle banche, a caccia di liquidità in un momento in cui clienti e imprese faticano a pagare le rate di mutui e prestiti. Questi titoli hanno un forte appeal per entrambi: concorrono al patrimonio degli istituti, aiutandoli a rispettare i parametri imposti dalla Bce e piacciono ai risparmiatori per gli interessi. I bond delle società più solide rendono il 2-3% in più dei titoli di stato, quelle in difficoltà il 10%.
In soldoni, dai 200 ai mille euro l’anno di maggior guadagno per un investimento di 10mila euro. Le obbligazioni strutturate sono così decollate e il loro viaggio verso le tasche dei risparmiatori è iniziato “tarandone” la taglia. Delle 360 emissioni in circolazione (le hanno fatte tutti, da Intesa e Unicredit fino alle mini- banche di montagna) oltre 150 - calcola Consultique – sono accessibili investendo solo mille euro. Cifra alla portata di quasi chiunque, un centesimo dei 100mila di soglia minima per quelle riservate agli “scafatissimi” investitori istituzionali. Che, guarda caso, sono solo 38.
Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole. Quelli delle sigarette sono stampati a caratteri cubitali (“Il fumo uccide”) sui pacchetti. Sui detersivi c’è il teschio per evitare che finiscano ai bambini. Le istruzioni per l’uso dei bond strutturati sono più sobriamente affidate a due strumenti: il prospetto imposto da Consob che elenca i pericoli dell’investimento e il documento Mifid dove la firma dell’acquirente certifica che il venditore ha fatto il suo lavoro: tenendo conto di obiettivi e conoscenza dei mercati e offrendogli prodotti in linea con il profilo di rischio personale.
Funziona? Evidentemente non troppo. Il documento Mifid è un tomo di decine di pagine in caratteri-bonsai che il cliente tende a siglare in automatico fidandosi della banca. I prospetti - completi a norma di legge, per carità – elencano una litania di rischi (compreso quello di bail-in) cui manca solo l’ipotesi di invasione di cavallette. E il consulente è spesso in conflitto d’interessi: quasi sempre è un dipendente della banca che ha emesso i titoli subordinati. A volte è incentivato con bonus e premi per venderli. Questo cocktail esplosivo ha attirato tra 2011 e 2012 il 10,8% dei risparmi tricolori verso le obbligazioni bancarie (a Parigi e Londra erano il 2%). Un esodo che allora non è spiaciuto certo a Governo e Banca d’Italia: buona parte della liquidità raccolta degli istituti è servita in quei mesi di spread alle stelle per acquistare Bot e Btp, regalando ossigeno al Tesoro.
Oggi, a frittata fatta, in nodi sono arrivati al pettine. Il più grande è l’azzeramento del loro valore. Ma non c’è stato bisogno di arrivare fino a qui per far maledire a molti il giorno in cui hanno comprato i bond subordinati. Tanti hanno iniziato prima, quando hanno provato a venderli in anticipo sulla scadenza. Ben 120 obbligazioni, spesso quelle delle realtà più piccole, non fanno mercato. Chi prova a liberarsene non trova un acquirente. Non hanno valori ufficiali. E quasi sempre l’unico disposto ad acquistarle è chi le ha vendute: la banca. Che a quel punto fa il prezzo. Risultato: si resta con il cerino in mano, anche quando si sente puzza di bruciato. Solo pochi obbligazionisti di Banca Marche sono riusciti nelle ultime settimane a scampare al bail- in, perdendo il 50%. Per gli altri l’Odissea è finita male. Forse - dicono in molti con il senno di poi - sarebbe stato meglio non fosse mai iniziata. Vietando la vendita dei bond subordinati ai risparmiatori.
Il Fatto Quotidiano
DI CHI è LA COLPA? BANKITALIA SE LA PRENDE CON LA CONSOB: TOCCAVA A VOI LA VIGILANZA
Dai tempi di Antonio Fazio e le inchieste sui “furbetti del quartierino”, dieci anni fa, mai la Banca d’Italia si era trovata così sotto accusa come ora, per i 130 mila risparmiatori che hanno perso i loro investimenti nel “salvataggio” di quattro banche arrivate al collasso nonostante le ispezioni e i commissariamenti di via Nazionale. Vista la scarsa abitudine alle critiche, i vertici di Bankitalia sbagliano a calibrare le reazioni. Troppo difensivo il governatore, Ignazio Visco: «Siamo sicuri di aver fatto il meglio». Troppo aggressivo il direttore generale Salvatore Rossi che, in un’intervista al Corriere della Sera, scarica le responsabilità sulla Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa: «Non possiamo vietare di vendere questo o quel prodotto. E ricordo che a vigilare sulla sollecitazione al risparmio è preposta un’altra autorità”. Cioè la Consob. Rossi rivendica anche che «il governatore, in tempi non sospetti, ha chiesto di arrivare a vietare la vendita di obbligazioni subordinate agli sportelli in modo che solo investitori istituzionali potessero acquistarli e non i semplici risparmiatori».
Le obbligazioni subordinate sono i titoli al centro del disastro di Banca Marche, PopEtruria, CariChieti, CariFerrara. Si chiamano obbligazioni, ma in realtà sono strumenti che le banche emettono per rafforzare il capitale, in alternativa alle azioni. I risparmiatori pensano di star prestando soldi alla banca, in realtà ne stanno diventando soci. Con tutti i rischi che comporta. Ha ragione Salvatore Rossi? La Banca d’Italia ha fatto la sua parte e la colpa è della Consob?
Prendiamo l’audizione parlamentare del vicedirettore di Bankitalia Fabio Panetta sulle nuove regole europee, il 20 ottobre: «In prospettiva, andrà valutata l’opportunità di introdurre espliciti vincoli normativi al collocamento degli strumenti più rischiosi presso la clientela meno consapevole, limitandone l’offerta a specifiche categorie di investitori professionali». Un auspicio di intervento del governo e del Parlamento. Però poche righe prima, Panetta parlava dell’importanza di fare maggiore attenzione visto che, all’improvviso, in un Paese in cui le banche non erano mai fallite, azionisti e creditori ora rischiano: «Gli intermediari dovranno rispettare scrupolosamente, caso per caso, gli obblighi di trasparenza e correttezza stabiliti per l’emissione, il collocamento e la negoziazione degli strumenti più rischiosi presso la clientela al dettaglio. Le autorità dovranno verificare il rispetto delle regole, intervenendo con decisione per correggere eventuali violazioni».
Non si registrano interventi specifici di prevenzione, se non un vademecum sul sito e un incontro con le associazioni dei consumatori. Anzi, le obbligazioni subordinate in questi anni sono state vendute al retail (i piccoli risparmiatori) perché gli investitori istituzionali non le avrebbero mai comprate. E le emissioni spesso erano conseguenza dei solleciti, proprio di Bankitalia, a rafforzare il capitale. E la Consob? L’autorità guidata da Giuseppe Vegas non ha preso bene l’attacco di Bankitalia: già a fine 2014, quando il bail in è stato approvato a livello europeo, ha stabilito che le banche «hanno il dovere di condurre autonome valutazioni per la delimitazione del perimetro dell’offerta di prodotti finanziari, in coerenza con le connotazioni del proprio target di clientela» anche individuando i prodotti che «non si prestano alla realizzazione delle esigenze di investimento dei propri clienti». E tra queste indicava le obbligazioni subordinate. Dal 2018 la direttiva europea Mifid 2 darà il potere alla Consob di vietare i prodotti che non ritiene idonei alla vendita.
La tensione tra Consob e Bankitalia sul bail in non risale a ieri. In Parlamento, 22 ottobre, Vegas contestava «l’obbligo di differire la diffusione al pubblico della notizia relativa alla procedura di risoluzione (cioè lo smantellamento della banca, ndr) sino al momento della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, sul sito web della Banca d’Italia e su quello dell’ente sottoposto a risoluzione, anche ove la sussistenza dei presupposti per l’avvio della procedura sia già nota all’emittente e ai componenti dei suoi organi di amministrazione». Tutto segreto fino all’ultimo, neppure la Conosb che vigila sulle molte banche quotate può esserne informata. Poi una stoccata in codice: la norma europea. «Tale norma non è volta a recepire specifiche disposizioni della direttiva BRRD, che si limita a raccomandare un ‘efficace regime di riservatezza durante la procedura di risoluzione’». Tradotto: questa segretezza è stata suggerita al governo da Bankitalia che vuole il monopolio sulle informazioni sulle banche da smantellare. Meno si sa, più è difficile criticare.
«Sistema bancario. Contro gli effetti collaterali della grande crisi, restituire un ruolo a soggetti sociali, territorio e credito cooperativo».

Il manifesto, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

Scommetto che siamo stati in molti, appresa la tragica notizia del suicidio di Luigino d’Angelo, il pensionato di Civitavecchia depredato dei propri risparmi, a farci venire in mente la celebre domanda di Bertolt Brecht: «E’ più criminale fondare una banca o rapinarla?». Quesito non lieve e appropriato. Solo che andrebbe riferito non ad una banca sola ma all’intero sistema creditizio, a come viene normato e gestito tanto a livello italiano quanto europeo.

L’unica mela marcia pareva essere il Monte dei Paschi di Siena. Anche lì ci un fu un morto - il responsabile della comunicazione della banca - forse non proprio volontario. Si è voluto far credere che sanata quella falla le meravigliose sorti progressive del sistema bancario privato italiano potessero rifulgere. Di fronte a casi come quelli della Northern Rock inglese, salvata in extremis dal fallimento da una nazionalizzazione di fatto, si disse che le nostre banche non correvano simili rischi perché erano più solide. In realtà si perpetrava scientemente un inganno nei confronti dei piccoli risparmiatori che non hanno molto, presi uno per uno, ma che sono tanti e quindi si può fare cassa, come Ettore Petrolini diceva dei poveri. Bankitalia che avrebbe dovuto esercitare la necessaria vigilanza sugli istituti bancari non lo ha fatto o comunque non in misura opportuna.

Le cronache rivelano che un commissario di Bankitalia a suo tempo mise il naso negli affari di Banca Etruria. Tra questi la costruzione del panfilo più lussuoso del mondo, lungo ben 127 metri, per la quale si costituì una società garantita da un pool di banche con a capo l’Etruria, naturalmente fallita senza dare vita al mostro nautico e lasciando oltre 200 milioni di buco. Ma la credibilità del commissario di Bankitalia scese sotto lo zero quando si scoprì che era indagato altrove per l’acquisto di azioni proprie a prezzo maggiorato.

Così Bankitalia si è ritirata con la coda fra le gambe, evitando di procedere a un commissariamento che probabilmente avrebbe potuto evitare il disastro attuale. Il che non assolve le colpe dell’Europa, o meglio di alcuni paesi come, guarda caso, la Germania che hanno mobilitato 238 miliardi di aiuti per le proprie banche, né tantomeno permette di attribuire il titolo di virtuosi al governo e alle nostre autorità di controllo.

Il commissario europeo agli affari finanziari, Jonathan Hill, ha naturalmente difeso il salvataggio delle quattro banche perché coerente con la nuova normativa del bail-in (che impone il coinvolgimento degli azionisti e degli obbligazionisti), aggiungendo però che le banche italiane vendevano prodotti finanziari a gente ignara. La cosa ha indispettito l’establishment del nostro mondo bancario che ha reagito sostenendo che nei prospetti i rischi erano indicati. Ma si tratta di brogliacci dalla difficile lettura, certamente inadatti per fare da guida a una clientela inesperta. Quando si arriva al dunque il prospetto di Banca Marche, una delle pessime quattro, dice: «E’ quindi necessario che l’investitore proceda alla sottoscrizione (delle obbligazioni) solo dopo averne compreso la natura e il grado di esposizione al rischio». Il maresciallo de La Palisse non avrebbe saputo dire di meglio.

In realtà piccoli e medi risparmiatori sono stati lasciati in balia di voraci sportellisti, pronti a tutto pur di vendere i loro prodotti. E’ uno degli effetti collaterali della grande crisi. Soprattutto quando le banche erano in carenza di liquidità, quindi tra il crack di Lehman Brothers che spaventò il mondo degli istituti di credito e prima dei tassi favorevoli e dei Quantitative Easing di Mario Draghi, spregiudicati operatori hanno fatto di tutto per vendere bond bancari. Ora ve ne è meno necessità, ma nel frattempo – secondo i dati 2014 di Bankitalia – le famiglie italiane si trovano nelle tasche 237,5 miliardi di euro in obbligazioni bancarie. E non c’è da stare allegri.

Che fare allora? In primo luogo, se si vuole tutelare il risparmio e porre un argine a manovre spericolate, quando non direttamente truffaldine, bisognerebbe procedere alla separazione tra banche di investimento e banche commerciali. Quindi evitare di favorire a ogni costo le fusioni bancarie. Il decreto sulle banche popolari a suo tempo deciso dal governo Renzi va proprio in direzione contraria rispetto alla vicinanza fra territorio e istituti di credito. Ma la dimensione ridotta delle banche, i loro legami con zone geografiche circoscritte di per sé non sono una garanzia sufficiente. Lo dimostra la banca Etruria in quel di Arezzo, centro di molti guai per la democrazia italiana e essa stessa perno di un mostruoso connubio fra finanza massonica e finanza cattolica. Come ha scritto ieri Tonino Perna, abbiamo bisogno di più democrazia economica e questo riguarda anche il mondo bancario. Non c’è vigilanza che tenga se non si attribuisce un ruolo attivo ai soggetti sociali, ai soci del credito cooperativo. Se non si ha un’altra idea del credito al servizio e non a dominio dell’economia reale.

Ora si parla di commissioni di inchiesta parlamentare. Non comprendo le obiezioni contrarie. A suo tempo quella sul crack Parmalat svolse un buon lavoro. E’ vero che la qualità dei parlamentari era migliore, ma non è un buon motivo per negare alle Camere un ruolo forte di inchiesta che potrebbe scoperchiare altre pentole in ebollizione.

Intanto il governo prepara un emendamento per far fare da arbitro alla Consob, che giudicherà caso per caso sui 10.350 risparmiatori truffati e per istituire un fondo di 80 milioni (40 dallo Stato e 40 dal mondo bancario).

Basterà? La risposta è facile: no.

Le molte facce dello scandalo del salvataggio dei banchieri (una delle componenti del mondo delle banche). L'articolo di Roberto Saviano, la ripresa del Fatto quotidiano e quella di Repubblica«. PostIl Fatto Quotidiano e la Repubblica, 12 dicembre 2015


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LA MOGLIE DI CESARE
E IL PADRE DI ELENA BOSCHI
di Roberto Saviano

Molti si sono preoccupati di dare ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi nella giornata in cui il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che ha salvato dal fallimento anche la Banca della quale il padre è vicepresidente. Molti hanno sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi del Ministro che, salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul piano politico. Ma non è così.

Perché la Banca sia fallita – dopo essere stata oggetto nei mesi scorsi di sospette speculazioni – è compito degli organi competenti accertarlo (sempre che non si applichino al caso moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili.

Quando è iniziata la paura di aprire un serio dibattito su questo governo? Quando è accaduto che a un primo ministro fosse consentito di prendere un impegno serio sul Sud ad agosto per dimenticarlo del tutto il mese successivo?

Proviamo a immaginare per un attimo che la tragedia che ha colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?

All’alba della Terza Repubblica un ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una vicenda senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione principale ai fini della tassazione un immobile che non lo era), decise di dimettersi. Era iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il Movimento 5 Stelle, con la carica moralizzatrice che gli è propria, aveva ottenuto un risultato impensabile: c’era la necessità di marcare la differenza con il passato. Il passato era la Seconda Repubblica e la sua impostazione liberale, non nel senso classico, ma in quello icasticamente definito da Corrado Guzzanti per il quale la Casa della Libertà era solo un luogo dove ognuno – e i potenti ancor di più – facevano quello che volevano, contro la legge o con l’ausilio di leggi ad hoc.

Si torna sempre a Berlusconi, ma del resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai particolare? I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire il racconto della realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono stati innumerevoli. Ma l’Italia non è mai diventata la Turchia di Erdoğan o la Russia di Putin – amici dichiarati del nostro ex Presidente – perché non eravamo soli. Ognuno di noi sapeva di poter contare sul supporto di altri che come noi spendevano tempo, energie e intelligenza per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca parlamentare e giudiziaria. Sulle pagine del quotidiano un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere, tutelando quelle regole democratiche alle quali il signore di Arcore e il suo codazzo si richiamavano costantemente per fare quello che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?

Perché era giusto sotto Berlusconi chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e all’indecenza ogni volta che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso sbagliato e tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri zelanti siamo indulgenti anche dinanzi a una contraddizione così importante e oggettiva?

Se Berlusconi, che per anni abbiamo considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica conseguenza della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la stagione politica che stiamo vivendo adesso non ha nessuna caratteristica peculiare, nessun pregio o difetto autonomo, ma nasce dalle ceneri di quella esperienza. Il che non vuole dire in continuità, ma neanche ci si può ingannare (o ingannare gli altri) raccontandoci l’incredibile approdo sul suolo italico di una nuova generazione di politici senza passato. Banalmente – questa la narrazione dei media di centrodestra – potremmo dire che quando al potere ci sono le sinistre, si è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono più indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri dubbi che al governo ci sia la sinistra, o anche solo il centro-sinistra, e nemmeno, a dire il vero, una politica moderna: dato il ridicolo (per non dire peggio) ritardo sul tema dei diritti civili.

O forse le ragioni della attuale timidezza risiedono nell’iperattivismo del Renzi I (dato che tutti prevedono un nuovo ventennio per mancanza di alternative, forse dobbiamo prepararci alle numerazioni di epoca andreottiana) che lascia spiazzati, poiché il timore è di sembrare conservatori (con un uso improprio degli hashtag) o peggio nostalgici.

Del resto come si comunica contro gli hashtag del premier senza passare per gufi o nemici del travolgente cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo. Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura.

Ma non cadiamo nella trappola: la felicità di Stato non esiste, è argomento che riguarda gli individui, non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani. E la critica non è insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è spleen: e considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo. Che il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto il governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e ambigua. Lo chiederò fino a quando non avrò risposta.

Il Fatto Quotidiano
LO SCRITTORE: “MARIA ELENA SI DEVE DIMETTERE”
MA L'ARTICOLO È SU ILPOST.IT, NON SU REPUBBLICA

di Silvia Truzzi

Notizia numero uno: Roberto Saviano attacca frontalmente il governo sul l’affaire banche, per «il conflitto di interessi del ministro Boschi, un problema politico enorme». Notizia numero due: il pezzo non è uscito su (giornale di cui l’autore di Gomorra è una delle più autorevoli firme) ma su il post.it (sito d’informazione con il quale Saviano non aveva mai collaborato) e poi ripreso da numerosi altri siti. Notizia numero tre: il lungo e argomentatissimo articolo contiene altre accuse, anche al sistema dei media.

In particolare lo scrittore prova a «che la tragedia che ha colpito il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?».
E ancora: «I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi». E poi quel riferimento, proprio al suo giornale: «Sulle pagine del quotidiano un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere.
Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?». Su questo punto, tra l’altro, bisogna dire che la versione mattutina era leggermente diversa da quella definitiva. Non «sulle pagine del quotidiano Repubblica», bensì «sulle pagine di un quotidiano».
E questo ci porta a una domanda: perché Saviano non ha scritto questo - puntuale e puntuto - pezzo su o sull’Espresso, dove tiene una rubrica? Sembra che lo scrittore lo abbia proposto al suo giornale ma che ieri non ci fosse posto. Ed ecco spiegata la collocazione sul Post diretto da Luca Sofri. Però non è la prima volta che capitano incidenti così. E di incidenti bisogna parlare: a non può aver fatto piacere che un collaboratore tanto prestigioso abbia scritto altrove, dando buca (e pure un buco) al suo giornale. C’è un precedente primaverile: il 6 maggio scorso Roberto Saviano era ospite della riunione di redazione di Repubblica, che quotidianamente viene ripresa sul sito del giornale. Tra le altre cose aveva parlato delle regionali in Campania e della controversa candidatura di Vincenzo De Luca. Ma qualche ora dopo il titolo Gomorra nelle liste di De Luca si poteva leggere su Huffington Post, cui Saviano aveva rilasciato una lunga intervista.
Allora, visto che il Gruppo Espresso possiede il 49% di Huffington Italia, si pensò che fosse una questione domestica. Ma stavolta è diverso: e il Post.it non sono nemmeno lontani parenti. Ciliegina: ieri, nel tardo pomeriggio, il sito di ha pubblicato un lungo audio-intervento in cui Saviano chiede le dimissioni del ministro Boschi e critica duramente l’esecutivo Renzi. È peggio la toppa dell’auto-buco?

La Repubblica

SAVIANO: “LA BOSCHI DEVE DIMETTERSI”
di f.s.

Roma. «Il ministro Boschi deve dimettersi». Roberto Saviano chiede al ministro per le Riforme di lasciare, in un video messaggio pubblicato da Repubblica Tv. Lo scrittore giudica «abnorme» il conflitto di interessi rappresentato da un membro dell’esecutivo che decide sul destino di una banca, la Popolare dell’Etruria, di cui il padre è stato dirigente e il fratello dipendente. «Il governo non doveva occuparsi della banca, oppure deve chiedere al ministro di dimettersi», sostiene Saviano. Il fatto che Boschi non abbia partecipato al voto sul “salva-banche” è solo una «dissimulazione»: «Una struttura politica ha compiuto l’ennesimo atto autoritario».
Dalla Leopolda sono arrivate le reazioni di diversi esponenti del Pd. «Il governo ha fatto quello che era necessario, non capisco la richiesta di dimissioni», ha detto il sottosegretario Scalfarotto. «Servono equilibrio e attenzione, non credo che questo aiuti», ha aggiunto il vice segretario Guerini. E per il sindaco di Firenze Nardella, Saviano è «fuori dal mondo».
Due giorni fa Boschi ha preso le difese del padre Pier Luigi, vice presidente della Popolare fino a febbraio del 2015, data del commissariamento: «È una persona perbene, non sento nessun disagio». Un gesto nobile, secondo Saviano, ma che ricorda le frasi di Marina Berlusconi sul padre. «Questo governo deve essere criticato con lo stesso rigore con cui abbiamo criticato il governo Berlusconi», continua lo scrittore. «Per molto meno siamo scesi in piazza. Non possiamo introiettare l’accusa di disfattismo con cui Renzi reagisce alle critiche». Secondo Saviano sulla vicenda restano «troppe opacità» a cui Boschi deve rispondere: «Se resterà al suo posto è solo perché questo è il Paese del conflitto di interessi».
«Non mera disputa semantica. Il termine radicalizzazione mette in luce processi che conducono i singoli a aderire a Is o Al Qaeda. Il termine terrorismo illumina meglio il modus operandi jihadista nella guerra asimmetrica».

La Repubblica, 10 dicembre 2015 (m.p.r.)

Si tratti del massacro del Bataclan o della strage di San Bernardino, il termine radicalizzazione - lo ha usato recentemente anche Obama, esprimendo il timore per la sua crescente espansione - ricorre sempre più spesso nel linguaggio politico e mediatico. In particolare nel mondo anglosassone o francese, da sempre attento alle fasi che precedono il passaggio alle formazioni, o alle azioni, di tipo jihadista. Nella discussione italiana, invece, è ancora a dominante il termine terrorismo, spesso legato, più che all’efficacia descrittiva, a una concezione rovesciata del politically correct.Una confusione che impedisce di distinguere il prima e il dopo, la fase che conduce a imboccare la via del jihad con la pratica del jihad. Una sovrapposizione non certo ininfluente, se l’obiettivo è la prevenzione mediante svuotamento dell’acqua in cui nuotano i sempre più numerosi pesci radicali.

Non si tratta di una mera disputa semantica. Il termine radicalizzazione mette in luce i processi che conducono i singoli a aderire a gruppi come l’Is o Al Qaeda. Il termine terrorismo illumina meglio il modus operandi degli jihadisti nella guerra asimmetrica, la genesi e la natura delle organizzazioni in cui militano, le loro opzioni politiche e militari, gli effetti che queste producono a livello globale e locale. Il rimando alla radicalizzazione concentra l’attenzione sul prima, sulle fasi che precedono la scelta jihadista. Lo sguardo è rivolto non solo alle cause politiche ma anche alle componenti sociologiche, antropologiche, psicologiche, che conducono l’individuo a quell’opzione. Perché vi sia radicalizzazione occorre che una serie di fatti e fenomeni sociali legati tra loro, o interpretati come tali, producano un mutamento che investe progressivamente l’individuo.
La radicalizzazione non si manifesta improvvisamente: se non agli sguardi esterni che colgono il fenomeno quando i suoi effetti sono già irreversibili. Il percorso che conduce a quell’esito apparentemente improvviso avviene in tempi più lunghi. Perché ha che fare con le motivazioni profonde dell’individuo, che si innescano quando questi incrocia avvenimenti storici che hanno funzione catartica, come la guerra in Siria o la condizione di vita nelle periferie urbane unite al risentimento verso un paese che, nei fatti, non riesce a colmare le fratture sul piano della diseguaglianza e nel quale la doppia memoria, quella dei colonizzatori e quella dei colonizzati struttura, più di quanto si ammetta nelle narrazioni dominanti, i rispettivi immaginari collettivi: come nel caso francese. Perché vi sia radicalizzazione occorre che una traiettoria personale interagisca con un ambiente favorevole e una particolare contingenza storico-politica.
Il focus sui processi di radicalizzazione chiama in causa lo spazio della politica. L’accento sulla sola sicurezza, fattore pur indispensabile, pone, invece, in primo piano il rilievo della dimensione di intelligence, investigativa e repressiva. Ma, come rammenta ogni efficace storia di contrasto alle diverse forme di terrorismo, da sola quella dimensione non è sufficiente. Occorre intervenire sulle cause che lo alimentano. Il nodo è contrarre i processi di radicalizzazione. Ridurli a dimensione residuale.
Non è questa, oggi, la situazione. Il radicalismo islamista, fenomeno che ha una sua autonomia politica e non dipende da questa o quella particolare causa ma dalla credenza in un’ideologia, tanto totalizzante quanto mobilitante, che agli occhi di molti giovani offre una risposta di senso, si diffonde. Perché rinvia al tema, decisivo, delle identità. Identità che, nel tempo della proclamata fine delle ideologie, qualcuno ritrova in una concezione del mondo che si propone come inflazione di valori, come ultima utopia, come solo antagonismo di sistema.
Incidere sui processi di radicalizzazione, compito tanto difficile quanto necessario, è l’unico modo per ridurre un fenomeno che, altrimenti, rischia di dilagare. Mettendo in discussione non solo le relazioni internazionali ma la vita quotidiana e la natura delle democrazie, destinate a diventare altrimenti il terreno delle torsioni e delle ritorsioni. E della guerra civile mimetica. Solo la ripresa di una politica in grande stile, capace di aggredire le cause catartiche che conducono a imbracciare il kalashnikov o indossare una cintura esplosiva, può tentare di farlo. In caso contrario un terrorismo come quello jihadista, di natura globale e che si presenta attrattivamente con il volto del radicalmente altro innestato su simbologie religiose, diverrà endemico.
Succede in Cina, ma è uno specchio per guardare il consumismo occidentale.

La Repubblica, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)

In Cina la parola del 2015 è “troppo”. A votarla, i media di Stato: troppo smog, troppa corruzione, troppo divario tra ricchi e poveri, troppi tonfi in Borsa. Ad essere “troppo”, per la propaganda, è anche un fenomeno fino a ieri ignoto, specchio di tutti gli altri “troppi”: il Natale occidentale. I cinesi delle metropoli lo chiamano, onestamente, Festival del regalo. In dicembre lo celebrano come prologo consumista ai loro festeggiamenti intimi, quelli per il Festival di primavera, il capodanno lunare, tra fine gennaio e i primi di febbraio. È un affare miliardario, ma oggi, per la prima volta dopo trent’anni, c’è un problema: Pechino prende atto che l’Occidente, per il suo Natale, può spendere sempre meno. Non c’entrano gli attriti tra Mao e Santa Claus, la minaccia è una catastrofe economica.

Europa e Usa hanno delocalizzato in Cina l’intera coreografia natalizia: abeti in plastica e palle di vetro, luminarie e addobbi, giocattoli e gadget, perfino i presepi, amorevolmente impacchettati nella nazione che perseguita i cattolici fedeli al Vaticano. Tutto ciò che ha fatto del Natale il più importante evento commerciale globale, esce dalle fabbriche low cost seminate tra il Guangdong e lo Zhejiang. La diagnosi del premier Li Keqiang però è impietosa: iper-produzione. Traduzione: montagne di prodotti natalizi invenduti sommergono in questi giorni migliaia di aziende e magazzini cinesi, paralizzano la megalopoli-mercato di Yiwu, o giacciono nelle navi al largo di Guangzhou, in attesa di commesse last minute che non partono più. Dopo l’allarme, anche l’ordine è partito dall’alto: «Ex compagni, festeggiate».
L’invito del partito-Stato è una sorprendente tregua nella guerra contro «corruzione, vizi, eccessi ed eccentricità ». Se l’Occidente non compra più il suo Natale made in China, tocca ai cinesi riciclarlo in patria, smaltendo le scorte di renne elettroniche e cappucci rossi sintetici nel nome della crescita nazionale. Il cinese medio è sorpreso dall’improvviso via libera ideologico all’occidentalizzazione della vita collettiva: città e villaggi si trasformano in cloni dei mercatini dell’Avvento scandinavi. A Pechino e a Shanghai, nei quartieri diplomatici e nelle ex concessioni straniere, l’ultima moda è bere vin brulé e divorare salsicce nel gelo, tra le bancarelle inghiottite dalle polveri sottili che vendono cosette ben presentate al ritmo di Jingle Bells.
Nel fine settimana, nonostante l’emergenza smog, i negozi della capitale sono stati presi d’assalto da 11 milioni di neo-consumatori fedeli al partito, stimolati da 15 mila giganteschi abeti elettrici e 170 chilometri di luminarie, alimentate dalle centrali a carbone. I media del governo rivelano che in dicembre oltre 13 mila ristoranti cinesi serviranno pranzi natalizi e cenoni “Western Menu”, tra i 60 e i 900 dollari a testa: mega-tacchini Usa che cancellano le vecchie anatre cinesi. L’auto-smaltimento natalizio, secondo gli analisti finanziari, può valere «lo zero virgola che manca a centrare il 7% di crescita del Pil nazionale». Per le banche di Stato il fedele neo consumatore metropolitano, che in un mese spende poco meno del doppio del suo stipendio per le offerte natalizie, è il cliente che salva i bilanci. Le concessionarie d’auto cinesi devono a Babbo Natale due milioni di nuove vetture, il salvagente delle delocalizzate case germaniche e giapponesi.
Se il Natale è un prodotto invenduto che la Cina non riesce più a esportare, diventa automaticamente una merce locale «da assorbire all’interno» e 3 mila studentesse si presentano alla selezione per 40 “babbesse natalesse” al centro commerciale Shing Kong Place, per offrire ai clienti cubetti di ottimo, finto panettone cinese. Un abete infiocchettato e un pacco colorato in ogni casa della Cina: non è un miracolo, nessuno sa bene perché, ma quest’anno tocca al capitalismo riciclato del Natale occidentale salvare la stabilità del «socialismo con caratteristiche cinesi».
Francia e Germania, contro Roma e Atene, chiedono di "ridurre i flussi". Una bimba siriana, un neonato, un ragazzino di 12 anni: annegati sotto gli occhi di Frontex e dei guardiamarina turchi. Perché non li hanno salvati?»

Il manifesto, 9 dicembre 2015

Sei bambini sono morti ieri mattina su un gommone naufragato tra la città costiera turca di Cesme e l’isola greca di Chios. Il più piccolo era ancora in fasce e il più grande aveva 12 anni, così dice, seccamente, il dispaccio della guardia costiera turca che ha recuperato i loro corpi nelle buste nere che siamo stati abituati a vedere in naufragi simili a Lampedusa. Ma c’è qualcosa di strano in questa «tragedia dell’immigrazione» apparentemente uguale a tante altre che i dispacci non dicono. Altri 11 morti si contano alle Canarie, provenieti dal Sahara.

Il tratto di mare tra Cesme e Chios è di poco più di un miglio, 20 minuti di viaggio con il traghetto Erturk Lines per un costo medio di una famiglia di vacanzieri europei con auto al seguito di appena cento euro. Il dispaccio dell’agenzia di Stato turca Anadolu riferisce che sul gommone pieno di migranti all’improvviso hanno ceduto le doghe di legno di rinforzo del fondo del gommone, si sono spezzate, forse per il peso eccessivo o perché il gommone aveva imbarcato acqua appesantendosi ulteriormente.

Ma anche così ciò che non torna è che non ci sia stato un tempestivo intervento della guardia costiera o dell’unità di Frontex che proprio ieri mattina, dal Portogallo, ha iniziato a pattugliare quel tratto di mare fino all’isola più a nord di Lesbo.

È di appena due giorni fa la denuncia dell’ong internazionale Human Right Watch sulle incursioni di uomini vestiti di nero, mascherati in voltocon passamontagna e armati che «a bordo di motoscafi veloci dalla costa turca attaccano i barconi di rifugiati e migranti che cercano di raggiungere le isole greche dell’Egeo». Human Right Watch ha raccolto nove testimonianze tra i migranti dei barconi affondati in questo modo e tornati in Turchia, nella città di Izmir. Dicono che gli uomini neri mascherati si rivolgevano ai migranti in inglese — «Stop, stop», intimavano ai guidatori -, prendevano a manganellate i padri e le madri che imploravano pietà almeno per i loro figli e speronavano le imbarcazioni sovraccariche di persone, mandandole a picco. Bill Frelick, direttore del settore Rifugiati di Human Right Watch si chiede come è possibile che le unità di Frontex non intervengano e come può l’Unione europea far finata di niente di fronte a queste denunce invece di impegnarsi a far luce sulla vicenda.

In base ai dati dell’Unicef un migrante su cinque che quest’anno ha cercato di attraversare il Mediterraneo per raggiungere la ricca Europa è un bambino. Ma quando si va al conteggio dei morti, la percentuale sale a un terzo: dei 3.563 naufraghi accertati di quest’anno nel Mediterraneo, mille erano bambini e minori. Mille Aylan Kurdi, il bambino di quattro anni la cui foto, riverso sulla spiaggia di un’isola greca, ha commosso il mondo intero. In quel pezzo di mare prima di questa ultima strage, altri 185 Aylan erano affogati nello stesso modo.

L’Europa è intervenuta, sì, dando 3,2 miliardi di euro alla Turchia perché, a differenza di quanto ha fatto finora, intervenga per arrestare il flusso dei migranti verso la Grecia. Il primo intervento è stato l’arresto di circa 3mila migranti, una settimana fa, nella città di Ayvacik, cioè a un tiro di schioppo da Cesme, luogo di partenza del gommone naufragato ieri.

Le autorità greche sono distratte dai problemi sul confine a nord, con la Macedonia, impegnate in un brutto braccio di ferro con il governo di Skopje che ha bloccato circa un migliaio di transitanti nella località di confine di Idomeni. Al freddo, senza cibo né servizi i migranti hanno più volte bloccato la ferrovia che collega il porto del Pireo e la sua enorme area industriale di multinazionali con i mercati del Nord Europa.

Fyrom, come si chiama ora l’ex Repubblica macedone, ha in ballo un duro contenzioso economico con Atene: la Grecia quest’estate per frenare la fuga di capitali legata alle paure della Grexit ha bloccato i trasferimenti di capitali, congelando nella «pancia» delle banche greche oltre 6 miliardi di euro di capitali macedoni. I migranti quindi sono usati come arma di ricatto per ottenere lo sblocco dei fondi. Il governo di Skopje però non è l’unico a usare i migranti che premono sulla rotta dei Balcani occidentali per altri scopi, invece di pensare ad aiutarli. Paesi terzi, come il Pakistan, si rifiutano di riaccogliere i «migranti economici» intercettati in Grecia senza un accordo con l’Europa (e relativi fondi)sui rimpatri.

Le renditions continuano a essere esigue sia dalla Grecia che dall’Italia (meno di 200 persone in tutto sono state imbarcate su voli di rientro, su 160 mila che avrebbero dovuto partire).

La Commissione europea, su iniziativa di Francia e Germania, sta mettendo sotto pressione Grecia e Italia affinché attuino i nuovi protocolli di schedatura di massa in funzione anti terrorismo oltre che per frenare l’ondata migratoria. È di ieri la minaccia della Commissione Junker all’Italia: intende aprire una procedura d’infrazione per non aver inserito nel sistema Eurodac il rilevamento delle impronte digitali nei controlli dei richiedenti asilo.

La procedura, salvo ripensamenti dell’ultim’ora, dovrebbe essere aperta già domani. Sempre che sia questo l’obiettivo e non un più invasivo controllo non solo dei migranti ma anche degli spostamenti e contatti dei cittadini europei. Schengen, con l’attuale welfare asimmetrico nei diversi paesi europei, può apparire insostenibile con una recessione che non passa

La Repubblica, 9 dicembre 2015,

LA DEMOCRAZIA della paura ha vinto in Francia con l’arma della retorica xenofoba del Fronte Nazionale. È temuta in tutti i paesi occidentali. Lo si intuisce dalle parole tranquilizzanti usate da Barack Obama nella conferenza stampa tenuta due giorni fa. Il Presidente ha sentito il bisogno di rassicurare gli americani che farà tutto quanto è in suo potere per proteggere la democrazia, aggiungendo che «la libertà è più potente della paura» e deve essere difesa a tutti i costi. Alla sua destra, i candidati repubblicani, Donald Trump in testa, lanciano allarmati proclami di chiusura delle frontiere e perfino di Internet.

Il problema è che di fronte a nemici invisibili e spietati, come i terroristi dell’Is, la libertà cerca riparo nelle politiche di emergenza e queste possono a loro volta essere usate da cinici demagoghi per chiedere misure liberticide radicali, nel nome della difesa della nazione. Questo è il rischio che corre la Francia oggi. La severità tempestiva di Hollande non è riuscita a convincere i francesi che quelle misure di limitazione delle libertà sono sufficienti. E come in un circolo vizioso, la strategia della salvezza nazionale diventa scopo a se stesso; per Marine Le Pen la guerra contro l’Is è un pretesto e le misure antiterrorismo sono la grande opportunità per realizzare il vero obiettivo: risolvere il problema dell’immigrazione con la chiusura delle frontiere. Farla finita con l’Europa. Ecco il progetto dei nazionalisti europei, che hanno in Le Pen la loro leader.

E Marine Le Pen lo sa e usa proprio l’argomento dell’emergenza per chiedere più radicale emergenza. La strada è aperta a esiti terribili. La leader del Fronte Nazionale, oggi primo partito in Francia, invoca passioni ancestrali dell’unità del corpo mistico della nazione contro i nemici interni, gli emigrati,i rifugiati: tutti identificati con i terroristi, con i musulmani. La semplificazione è una retorica spietata che taglia corto sui dettagli e le specificazioni. È per questo potente nell’immaginario collettivo, facile da capire e da reiterare fino al parossismo. Dove il Fronte Nazionale ha stravinto è infatti nelle regioni di confine: a Calais ha superato il 50%, approfittando delle pressioni contro le migliaia di rifugiati — la “nuova giungla” — che sperano di salpare per l’Inghilterra.

La democrazia liberale non ha armi potenti contro la paura perché la libera competizione delle idee vuole ed esige la pace civile e la tranquillità. È debole contro la paura radicale perché la sua regola è quella di riuscire a unire le opinioni senza azzerare le differenze, senza mettere tutti i diversi in un fascio. È debole, soprattutto in Europa, dove si è impiantata sulla nazione, su un corpo che può essere rappresentato in chiave identitaria estrema. Giuseppe Mazzini lo comprese molto bene e insistette nel tenere distinta la nazionalità del corpo politico democratico dalla religione nazionalista. Si tratta di una distinzione raffinata tuttavia, agevole da articolare in tempi di tranquilla politica dell’ordinario. La storia del vecchio continente ce lo insegna: la paura ha travolto le giovani e deboli democrazie del primo dopoguerra. Bastò a pochi demagoghi speculare sull’impoverimento delle masse e la paura fece il suo corso: armando prima i nazionalismi guerrafondai poi i fascismi che imposero regimi a partito unico in nome della salvezza della patria. Quel che venne poi lo sappiamo fin troppo bene.

Da quelle ubriacature nel mito della purezza della nazione ne siamo usciti addomesticando la nazione con i diritti individuali, e la democrazia con il pluralismo dei partiti e la limitazione dei poteri. Ma queste regole, questi diritti non sopravvivono in solitudine, senza il sostegno di un’opinione larga e diffusa, senza un senso comune. Questo è essenziale proprio perché le democrazie non possono evitare che si esprimano idee liberamente, non possono chiudere la bocca ai demagoghi. La loro forza è sotterranea e deve saper emarginare questi rischi senza reprimerli. Questo dovrebbe a maggior ragione succedere in tempi ardui, per non lasciare che astuti capipopolo soffino sul fuoco della paura e aggreghino larghe maggioranze.

La paura travolse le deboli democrazie del primo dopoguerra e torna ad essere un rischio nell’Europa delle solide democrazie costituzionali. Sottoposte allo stress durissimo della crisi economica e del terrorismo. Una risposta, la più facile e, a quanto pare, ciclica, è il populismo, il regime della maggioranza assoluta, il potere del numero grande non per governare nel rispetto del numero piccolo, ma per sopraffarlo e governare contro di esso. Il maggioritarismo è, come ha spiegato Yves Ménie su questo giornale pochi giorni fa, una pericolosa arma in mano ai populisti. È un esito possibile della democrazia della paura — una traiettoria che per l’Europa potrebbe avere effetti devastanti e che attuerebbe in pieno i progetti antieuropei dei suoi nemici.

postilla

Il fatto è che le democrazie "liberali", in un mondo dominato dalla prevalenza degli interessi finanziari della globalizzazione capitalistica, sono passate via via dal rispetto delle regole della democrazia rappresentativa (forma della democrazia liberale) al loro sgretolamento. Questo le ha fortemente indebolite nel rapporto tra governanti e popolo. La Francia di Hollande e l'Italia di Renzi ne sono un esempio clamoroso, per tacere dell'Unione europea. Non dimentichiamo che la conquista del mondo da parte del finanzcapialismo, oggi egemonico, è avvenuta con episodi abbastanza violenti, come l'eliminazione fisica di Salvador Allende e del suo regime democratico in Cile.

La Seconda guerra mondiale non è finita se l'deologia e la prassi d'ispirazione nazista agiscono ancora. Aveva ragione Bertold Brecht: «il ventre da cui nacque è ancora fecondo».

Il manifesto, 9 dicembre 2015

Decreto di espulsione differita. È un foglio che le autorità mettono in mano ai profughi appena sbarcati In Italia, con cui viene ingiunto di abbandonare il paese dall’aeroporto di Fiumicino entro sette giorni. Così, persone appena uscite dall’incubo di un viaggio atroce e disperato, senza denaro, biglietto aereo, documenti, conoscenza della lingua, parenti, amici o strutture di sostegno, vengono abbandonate alla clandestinità e all’arte di arrangiarsi, in territori infestati da mafia e criminalità pronte a reclutarle.

Difficile da credere, ma è così. Per ora ha riguardato un numero ristretto di profughi ai quali è stata negata la richiesta di asilo: in base alla nazionalità o al paese di provenienza, considerato non in guerra; o anche senza aver nemmeno accertato questo dato. È il risvolto locale della decisione di Bruxelles di distinguere tra profughi di guerra e migranti economici: i primi meritevoli di protezione, i secondi da respingere.

Una selezione da affidare agli Hot spot di Italia e Grecia, che però non sono ancora in funzione e che rischiano di trasformare entrambi i paesi in “depositi” incontrollati dei profughi che gli altri Stati non vogliono. Non ci sono soldi per pagare i voli di ritorno, né accordi con i paesi in cui rimpatriare i migranti economici, perché è silenziosamente fallito il vertice di La Valletta, il cui obiettivo era lo scambio di un miliardo e otto di aiuti – soprattutto per organizzare campi in cui internare profughi in fuga o rimpatriati – con la disponibilità dei paesi africani a bloccare quei flussi per conto dell’Europa. Per questo si ricorre ai decreti di espulsione differita.

Quanto questa misura sia non solo cinica e criminale, ma anche miope e stupida, tanto da mettere in pericolo sicurezza e incolumità dei cittadini italiani, soltanto il silenzio complice dei media riesce a nasconderlo.

Con essa l’Unione europea conta di sbarazzarsi, senza sapere come, di almeno la metà dei profughi che hanno raggiunto il suo territorio quest’anno (più o meno un milione; quanti i migranti richiamati ogni anno dall’Europa prima della crisi del 2008 e delle politiche di austerity; e meno di un terzo del necessario per mantenere in equilibrio il saldo demografico dell’Unione, in caduta verticale, e la sua vacillante economia).

Ma ciò che non è andato in porto con i paesi africani sembra invece riuscito con la Turchia: in cambio di tre miliardi – tutti ancora da stanziare, in gran parte a valere sui bilanci di renitenti Stati membri — Erdogan si impegna a trattenere in Turchia (o in un’enclave da ricavare manu militari in territorio siriano) due milioni e mezzo di profughi, in gran parte siriani, iracheni e afghani (ma molti anche subsahariani, senza contare quelli nuovi, che le guerre continueranno a creare).

Questo accordo — fortemente voluto dalla Merkel per bilanciare l’impopolarità creatale, non tanto tra i cittadini tedeschi, quanto in seno all’establishment della Grande coalizione, dall’avventata promessa di accogliere tutti i profughi siriani — è stato fatto nel momento in cui di Erdogan venivano finalmente messi in chiaro i crimini politici, le misure antidemocratiche, i finanziamenti, le armi e l’addestramento offerti all’Isis.

Pur di sbarazzarsi dei profughi l’Unione europea, proprio mentre comincia a bombardare l’Isis senza intervenire sui flussi da cui provengano i soldi, le armi e gli appoggi di cui gode, è disposta a passare sopra a tutte queste cose; e persino a riaprire le procedure di ingresso della Turchia nell’Unione.

Con questo accordo i governi dell’Unione si sono però consegnati in mano a un feroce dittatore, che ora ha a disposizione una bomba umana (a questo servono i due milioni di profughi) da scagliare contro l’Unione appena si dimostrerà poco accondiscendente con le sue richieste. I primi a farne le spese sono i Kurdi, che non otterranno più asilo in Europa non potendo più sostenere di essere discriminati, perseguitati e massacrati in Turchia.

Così i capi di Stato di tutto il mondo, e soprattutto quelli europei, accorsi a Parigi (con puntate a Bruxelles) per lanciare una battaglia che non faranno mai contro i cambiamenti climatici, ne hanno approfittato per decidere invece una guerra; che oltre a creare migliaia di vittime e milioni di nuovi profughi è, di tutte le attività umane, quella che più contribuisce alla produzione di gas di serra; anche se nel computo delle emissioni climalteranti questa minuzia non viene mai calcolata.

Renzi se ne è per ora chiamato fuori, riscuotendo le lodi di sostenitori e avversari; ma solo per tenersi mani e truppe libere per la guerra in Libia che la Nato sta preparando. Non bisogna rifare il disastro della guerra contro Gheddafi, ripete; ma non si vede dove stia la differenza con quella in programma.

Se mettiamo in fila questi episodi grandi e piccoli ne esce il quadro di una governance dell’Unione europea totalmente allo sbando: quasi una banda di ubriachi che non sa più dove andare.

Quanto basta per ridicolizzare Stefano Manservisi (una specie di badante dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini), che concludendo giovedì scorso a Milano un convegno sul XXI rapporto dell’Ismu sulle migrazioni, aveva sostenuto che, se le politiche economiche hanno contribuito a mettere in crisi l’Unione europea, la condivisione delle misure sui migranti ne sta invece ricomponendo l’unità; aprendo la strada all’agognata unione politica…Peccato che quelle misure, oltre a essere criminali, sono inattuabili e, in alcuni casi, come l’accordo con la Turchia o l’entrata in guerra, suicide.

L’Europa allargata ai profughi e ai loro paesi di provenienza è un progetto che deve essere ripensato dalle fondamenta, costruendo innanzitutto un fronte di coloro che non vogliono rinchiudersi in una fortezza dominata dal cinismo, dal nazionalismo e dal razzismo.

Questo modo di governare, che spinge l’Unione europea verso l’insignificanza e la dissoluzione e spiana la strada alle forze antieuropeiste e razziste delle destre, evidenzia l’incapacità di misurarsi con le sfide che il pianeta e la popolazione mondiale si trovano di fronte.

Governano come se tutto dovesse continuare a scorrere come prima. La crisi climatica alle porte, e in molte regioni già in pieno corso, è solo una, e non certo la maggiore, delle questioni sul tappeto, su cui nessun uomo o donna di governo è disposto a giocarsi il proprio ruolo, e meno che mai a mettere in relazione i cambiamenti climatici con i profughi che sta cercando di tenere lontani. La guerra è un’altra quisquilia, affrontata con leggerezza e senza il minimo progetto per il dopo, per far salire di qualche punto la propria popolarità ormai irrimediabilmente a terra (come aveva fatto Blair a suo tempo; e sappiamo come è poi andata). Tutto viene deciso nella convinzione che, vinta la guerra — che in Afghanistan e in Iraq dura da anni e non si sa quando e come possa finire — governi finanza e imprese potranno continuare o riprendere gli affari di sempre.

Lo stesso vale per l’economia: la crisi sarebbe dietro le spalle perché il Pil di alcuni paesi registra un mezzo punto in più, senza considerare la scia di disoccupati, generazioni perdute, devastazioni ambientali, disperazione, miseria e rancori che l’austerity ha creato e a cui la “ripresa” non apporta alcun rimedio.

Peggio ancora per lo spirito pubblico: il pensiero unico, che è una rappresentazione vuota e falsa della realtà, ha lasciato dietro di sé, a destra, al centro e a sinistra, il deserto: una totale incapacità di raccogliere i fili di un progetto di salvaguardia del pianeta, delle vite e dei rapporti sociali tra le persone.

Siamo ormai in trincea, avendo allegramente dilapidato tutto quello di buono che avremmo potuto salvare di un’epoca ormai trascorsa. Dobbiamo prepararci a un lungo periodo di ricostruzione di una prospettiva più umana. Che il papa e la sua enciclica siano diventati un punto di riferimento non è un buon segno: perché è il risultato della miseria altrui.

Il manifesto, 8 dicembre 2015

È il giubileo dei paradossi il Giubileo della Misericordia voluto da papa Bergoglio che si inaugura oggi con l’apertura della Porta Santa a Roma. Il primo paradosso è che in verità è già stato inaugurato due settimane fa, il 29 novembre a Bangui, quando papa Francesco ha aperto la porta della cattedrale della capitale della Repubblica Centroafricana. Un atto che i media hanno doverosamente seguito, ma senza l’eccitazione contagiosa che accompagna di solito le azioni del Papa.

Troppo distante, troppo scomodo, troppo poco sgargiante. Troppo fuori dalla logica cinica che regola i rapporti tra media e Vaticano, monarchia regnante che con i suoi riti spettacolari attira l’attenzione e alza le vendite, al pari dei reali inglesi o altre celebrità. Quindi venerata anche dai più agnostici tra i giornalisti, ma solo se corrisponde alle attese.

Il secondo paradosso è in quel titolo che si rincorre tra i giornali, o piuttosto viene nascosto tra le pagine. Questo giubileo è già un flop. E perché è un flop? Perché le prenotazioni diminuiscono, sono già al 50% in meno rispetto all’anno scorso, dicono gli albergatori, a causa degli attentati di Parigi. Ma è questo il metro di misura per valutare l’evento che vuole aprire i cuori al perdono e alla compassione? Perché dimenticare che papa Francesco ha voluto aprire il giubileo in Africa, ma sconsiglia un inutile e costoso viaggio a Roma, e numerosi eventi e aperture di porte sono previsti in tutto il mondo? È come se fosse in corsa una specie di contesa tra papa Francesco e i media.

Riuscirà il Papa a far arrivare a tutti l’idea base della sua scelta, che punta all’esperienza tutta interiore anche se vissuta in comunità? O vincerà la logica dei media, che privilegia l’eventone, i grandi numeri, l’eccezionalità irripetibile, quello che non si era mai visto prima in una rincorsa senza fine?

Papa Francesco ha una forza comunicativa speciale, del tutto estranea al luogo comune, mediatico e non solo. È il suo orizzonte simbolico a essere divergente dalla mentalità corrente.

Semplice e chiaro nel linguaggio, diretto nello sguardo come nel muoversi, nel toccare senza paura chi gli sta vicino. La misericordia diventa nelle sue parole un’azione comprensibile, che si sottrae alla magnificenza e alle pompa che con tutta evidenza non ama, e a cui tutti vorrebbero ricondurlo. La misericordia a cui vorrebbe portare il gregge umano, credente e non, non è certo la misericordia dei regnanti e dei potenti. Che condonano pene, debiti, azioni negative (i peccati) proprio perché ne hanno il potere, di cui la magnanimità è un attributo non secondario. La misericordia a cui invita papa Francesco è quella degli umani che si riconoscono umani come tutti, è una pratica della fragilità e del limite. Lo dice lui stesso: «Il mondo di oggi ha bisogno di misericordia, ha bisogno di compassione, ovvero di patire con». Ma sarà sufficiente, la sua forza, a rompere le abitudini e gli schemi che i media perpetuano?

Il terzo paradosso è il più complesso, quello contro cui lo stesso Bergoglio potrebbe trovarsi in difficoltà . Perché il terzo paradosso è la sicurezza. Il Papa non impedisce che Piazza San Pietro venga recintata, che chi entra venga sottoposto a un accurato controllo, che siano mobilitati 2000 agenti, che l’intero spazio di Roma sia no-fly. Non può neppure impedire che in nome della sicurezza ci sia una stretta di vite sui clandestini che vivono a Roma, che tutti i posti di blocco e le sorveglianze in atto nei luoghi pubblici abbiano un unico copione: la richiesta di documenti a chi ha un aspetto sospetto.

Certo papa Francesco non può chiedere ai fedeli che vogliono recarsi a San Pietro il coraggio di cui dà l’esempio. Né intende metterne a rischio la vita, lui che per primo ha parlato di una strana terza guerra mondiale a pezzetti in corso nel mondo. In molti hanno chiesto che il Giubileo venisse sospeso, dopo gli attentati di Parigi, un invito che il Vaticano ha respinto subito. Così il Papa che dopo avere aperto la porta santa di Bangui, si è mosso lungo il pericolosissimo quinto chilometro, portando sulla papamobile l’Iman, ed entrando nella Moschea a piedi scalzi, mostra che la misericordia ha molti aspetti.

Se non tutti verranno a Roma, pazienza, non interessa la kermesse. A lui interessa che si aprano i cuori, quelli che la paura vuole chiudere.

Le interviste a Olivier Roy di Giuseppe Acconcia, a Jacques Séguéla di Anais Ginori, a Marin Le Pen di Olivier Mazerolle, Julien Absalon, Aymeric Parthonnaud. Il manifesto e la Repubblica, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)

Il manifesto
«TANTA ASTENSIONE NELLE BANLIEUES
LASCIATE DALLA SINISTRA»
di Giuseppe Acconcia

Abbiamo raggiunto al telefono a Parigi Olivier Roy, docente all’Istituto universitario europeo di Firenze, si è occupato di islamismo politico, jihadismo ed è consulente del ministero degli Esteri francese.
Come hanno votato i giovani delle periferie alle elezioni che hanno portato all’affermazione del Front National?
Pare che in quei quartieri abbia vinto la sinistra. La mia impressione è che ci sia stato un forte astensionismo giovanile nelle periferie. Detestano Sarkozy ma si sentono traditi dal discorso politico di Hollande e del premier Valls.
Come giudica la reazione energica di Hollande che ha imposto un lungo stato di emergenza dopo gli attentati del 13 novembre scorso?
Hollande ha voluto riprendere le redini dello stato. Ma l’Is non si vince con le bombe, è necessaria una coalizione politica. L’imposizione dello stato d’emergenza ha avuto un costo politico enorme: ha minacciato l’intero spazio delle libertà politiche.
Il disagio dei giovani musulmani francesi nasce dall’assenza di sinistra?
Sì, un tempo si riconoscevano nei partiti comunisti, soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Poi questi partiti hanno assunto una posizione ambigua su Islam e immigrazione. Anche l’alternativa della sinistra radicale si è ridimensionata per la sua ambiguità in tema di laicità: vedere una ragazza velata era uno scandalo a sinistra. I giovani delle periferie non sopportano il divieto del velo.

Cosa prevede per la sfida presidenziale del 2017?

«Marine Le Pen arriverà quasi certamente al secondo turno. Dopo, la sfida è aperta. La verità è che ci sono due alternative di governo che si combattono, quella del Fn e dei Républicains. E con tre soggetti politici in un sistema bipolare ce n’è sempre uno che deve morire».

E proprio questa depoliticizzazione delle periferie è la causa del fenomeno dei foreign fighters?
I jihadisti non si interessano alla politica francese. Militano nei quartieri periferici ma non costruiscono un discorso politico nelle periferie. Sono anche disinteressati alla politica estera di Hollande, sebbene non abbiano mai sentito una parola seria levarsi dalla sinistra anti-imperialista. Il loro problema principale riguarda la politica interna di Hollande, la mancanza di lavoro, il discorso politico di destra di Valls.

Quindi l’avanzata del fenomeno jihadista è una conseguenza della crisi della rappresentanza democratica?
Certo, io direi della crisi della cittadinanza. Chi si dà all’Islam radicale non si riconosce nella vita politica, si sente escluso e ha interiorizzato questa esclusione. Per esempio, non ci sono partiti musulmani in Europa. A parte in Belgio, non vedo tentativi seri che rappresentino i giovani musulmani, ad esempio in tema di immigrazione.

Riguarda anche il Belgio dove gli attacchi di Parigi sono stati pianificati?
In Belgio c’è una società comunitarista: fiamminghi, da una parte, e valloni dall’altra. Anche gli immigrati si sono adeguati al comunitarismo creando la loro repubblica di Molenbeek.

Sembra poi che i più radicali nel discorso jihadista siano i convertiti?
Chi pensa che il problema sia l’Islam non riesce ad afferrare come sia possibile che non musulmani (cattolici, atei) passino al jihad. Pensano si tratti di musulmani «nascosti». Non è così. I convertiti all’Islam scelgono il salafismo: sono spesso i più religiosi tra i religiosi.

Evidentemente emerge un forte contrasto tra genitori e figli?
I giovani non sono radicati nell’Islam culturale, religioso, linguistico dei padri ma cercano il loro Islam nel discorso salafita.

È così che nascono i foreign fighters?
Si interessano all’Islam mondializzato, sono internazionalisti in un certo senso. Questa è la genialità di Is: fare appello al jihadista globale. E la risposta arriva dai lupi solitari… Il jihadismo non è un movimento di massa. Richiama individui non integrati socialmente. E nel mercato della rivolta, Is è in testa.

Perché non funziona l’alternativa dell’Islam politico?
I Fratelli musulmani non sono riusciti a creare un’organizzazione internazionale efficace. Sono un movimento gerontocratico in cui è necessario un apprendistato di cinque anni per poter parlare in pubblico. E poi non sono violenti.

La Repubblica
“È LA FINE DEL RAZIONALISMO.
MARINE PUÒ ARRIVARE ALL'ELISEO.
SI REALIZZA L'INCUBO FRANCESEl”
di Anais Ginori

Parigi.«Dopo questo voto, tutto diventa possibile: anche Marine Le Pen all’Eliseo». La Francia si è svegliata ieri mattina con quasi metà delle 13 macro-regioni segnate di blu. Jacques Séguéla non ha dormito tutta la notte. «Dopo gli attentati, per me è stato un nuovo lutto nazionale», racconta il pubblicitario esperto in comunicazione politica, già consigliere di François Mitterrand e di Nicolas Sarkozy. «Anche se il secondo turno di domenica non consegnerà il potere al Fn in tutti gli scrutini ormai il segnale è chiaro. Siamo entrati in un’altra epoca: a noi spetta capire, adattarci. Ma non sarà facile».

Lei che di mestiere studia e anticipa le tendenze, se l’aspettava?
«È un cataclisma che covava da tempo. Tutti ne parlavano, si sapeva, ma nessuno ha fatto niente per tentare di curare i primi sintomi. Ci siamo accorti del danno solo quando la malattia è ormai conclamata».
Quale sarebbe la malattia della Francia?
«Tutto è cominciato con la paura, in particolare il sentimento di insicurezza sociale, provocata dall’immigrazione e dalla globalizzazione. Poi la scelta dell’estrema destra è stata usata come un messaggio di rabbia. Adesso, però, c’è un nuovo salto di qualità».
Di cosa parla?
«Il voto al Fn non è più solo paura e rabbia, ma una vera e propria adesione al discorso semplicistico di Le Pen. In questo, il Fronte si è trasformato in un partito come gli altri. E pazienza se si rischia di gettare il Paese in un vicolo cieco. È la scomparsa del buon senso della razionalità francese. Cartesio si starà rivoltando nella tomba».
La responsabilità è anche della classe politica, incapace di dare risposte?
«A causa del fallimento del governo socialista, di questa sinistra incolore che parla e pensa ancora come nel Novecento, il sogno di un vecchio signore e poi di sua figlia è diventato realtà. Un incubo».
Non vede differenze tra padre e figlia Le Pen?
«Marine ha corretto alcuni estremismi di Jean-Marie, o meglio: li ha messi in sordina. Non appaiono più ma nella base l’anima del Fn rimane la stessa. Di suo, la Presidente del Fn ha portato una capacità di comunicazione straordinaria».
Da questo punto di vista, non ha bisogno di spin doctor?
«Ha la forza del cognome, un talento per parlare alla pancia della gente, è la più giovane dei leader, si presenta come novità nel panorama politico anche se viene da un partito vecchio di quarant’anni. E poi non è sola. Al suo fianco c’è Marion, che ha lo stesso talento, è anche dolce, bella e quindi ancora più pericolosa. Nella triade del governo Fn c’è infine Florian Philippot che si presenta con buoni studi, un profilo più alto».
Lei parla di fallimento socialista, ma non è Nicolas Sarkozy che vede i suoi elettori in fuga verso il Fn?
«È vero, Sarkozy ha perso voti alla sua destra. È la dimostrazione che un discorso centrista, come vorrebbe Alain Juppé, non paga. Qualche anno fa, l’ex Presidente era riuscito a prendersi gli elettori del Fn. Tutti lo criticavano nel suo partito e veniva dipinto come il Diavolo dalla sinistra. Salvo poi vedere ora Hollande che parla di identità nazionale, fa una svolta autoritaria dopo gli attentati, vuole limitare l’immigrazione rispetto a Angela Merkel».
Cosa dovrebbe dire Sarkozy ai francesi in vista del secondo turno?
«Bisogna parlare alla loro intelligenza. Spiegare che se vincesse Le Pen in molte regioni le aziende straniere avrebbero paura di investire e che, al livello nazionale, ci sarebbe un crollo del potere d’acquisto con l’uscita dall’euro. Sono verità che nessuno vuole ascoltare. E purtroppo la classe politica non è più credibile».
Il “sacrificio” dei socialisti, che non si presentano in alcune regioni, è un ”beau geste”?
«È puro marketing politico. La sinistra non è diventata improvvisamente buona e generosa. Questa mossa non impedirà al Fn di vincere al Nord o al Sud, ma intanto i socialisti potranno gettare la croce su Sarkozy. È finito in una trappola infernale».

La Repubblica
“LA MIA VITTORIA UNA SFIDA ALLE ÉLITE.
COSì I SOCIALISTI SI SONO SUICIDATI”
di Olivier Mazerolle, Julien Absalon, Aymeric Parthonnaud

Marine Le Pen, quali sono i vostri obbiettivi per il secondo turno?

«Sei regioni su 12 e nella settima siamo in parità, perché in Normandia credo che ci separi una differenza dello 0,2%. Questo dimostra una crescita incredibile per il Front national, ma bisogna fare anche altre osservazioni. Innanzitutto il risultato molto modesto dell’Ump, che Sarkozy diceva capace di riprendere le forze sotto la sua direzione, ma non è stato così. Quanto al Partito socialista, un vero e proprio crollo, seguito da una specie di suicidio collettivo».

Quali sono i vostri obbiettivi per il secondo turno?
«Il nostro obbiettivo è vincere e ottenere il più alto numero di regioni. Vogliamo poter dimostrare che l’indebitamento, i continui aumenti delle tasse, l’assenza di sostegno alle piccolissime, piccole e medie imprese non sono delle fatalità ma delle scelte politiche adottate dall’Ump e dal Partito Socialista che hanno contribuito a creare la situazione drammatica che sta vivendo oggi il paese».
Lei ha un tono meno trionfalistico di quanto ci si sarebbe potuti aspettare tenendo conto dei risultati.
Significa che non si fida?
«La chiave delle elezioni è nelle mani degli elettori. Il risultato incredibile del Front national è la rivolta del popolo contro le élite. Il popolo non sopporta più il disprezzo in cui è tenuto da anni da una classe politica che cura i propri interessi e non difende in nessun modo gli interessi della popolazione. Questa popolazione, e quella che si è astenuta, può decidere di mobilitarsi, almeno per il secondo turno per un reale cambiamento nelle regioni».
Ieri sera Jean-Marie Le Pen ha detto: “Attenzione al secondo turno!”. Vi siete parlati?
«Non rispondo più a questo genere di domande».

E perché?
«Ma insomma, Jean-Marie Le Pen non è più nel Front national, l’ho detto nella maniera più chiara possibile, e non commento più né le affermazioni né le azioni di Jean-Marie Le Pen. Ha altre domande?».
Sì. Lei afferma che il Front national è l’unico in grado di assicurare l’unità nazionale, ma è il partito che più divide i Francesi: o si è radicalmente a favore del Front national o si è radicalmente contro.
«Che cosa c’è di estremo nel fatto di dire che bisogna fermare l’immigrazione quando non abbiamo neanche i mezzi per accogliere questa gente, che cosa c’è di estremo nel dire che bisogna smettere di sostenere ininterrottamente i grossi gruppi finanziari per aiutare le piccole e le microimprese, che cosa c’è di estremo? Vede bene che queste argomentazioni sono argomentazioni che mirano soltanto a difendere i loro interessi di casta».
Ma non avete ancora convinto tutti. Sos Racisme, ma anche il Crif che rappresenta gli ebrei di Francia, ha lanciato un appello a fare opposizione al Front national.
«Queste strutture sono sempre dalla parte del potere in carica. A ogni elezione se ne escono con queste cose per aiutare il potere a conservare il posto mentre la disoccupazione esplode, la povertà esplode, mentre il nostro paese è in una situazione drammatica per quanto riguarda il debito pubblico e di creazione di ricchezza, mentre la concorrenza internazionale sleale fa dei danni spaventosi».

Al secondo turno bisogna riunire i francesi. Come è possibile farlo quando qualcuno come sua nipote dice che i musulmani non possono avere lo stesso rango dei cristiani o che bisogna tagliare i fondi per la pianificazione famigliare?
«Non è quello che ha detto mia nipote, lei lo sa bene. Tutta questa esagerazione contro il Front national non ha impedito che si realizzassero questi risultati. Non ci sono stati grossi balzi in avanti bensì un movimento che si struttura, che guadagna progressivamente la fiducia dei francesi, elezione dopo elezione. Abbiamo raggiunto il 25% alle europee, il 26 e qualcosa alle cantonali, e oggi abbiamo ottenuto un risultato storico ma non c’è ancora una vittoria».

«Non sarebbe meglio comprendere, finalmente, le ragioni che spingono milioni di cittadini europei ad abbracciare idee e programmi “sbagliati”, poiché quelli “giusti” stanno sostanzialmente fallendo?». Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)

La risposta esatta al successo del Front National in Francia arriva da un altro mondo, il Venezuela, dove in altre elezioni e con altri problemi, Nicolás Maduro, il caudillo travolto dai suoi nemici politici, non ha evocato l’apocalisse e ha preso atto del risultato: “Noi sconfitti ma ha vinto la democrazia”.

Forse il pessimo erede di Hugo Chavez non aveva scelta ma ritornati nel nostro continente ci chiediamo a cosa serva la demonizzazione dei seguaci di Marine e Marion Le Pen, la descrizione di milioni di elettori come dei nazifascisti con le teste rasate oppure dei subumani invocanti l’immediata espulsione di tutti i musulmani dai confini francesi. Certo, domenica sera, di teste rasate ce n’erano in giro a festeggiare, senza contare che le “soluzioni finali” hanno radici profonde nel Paese della Marsigliese ma anche dei collaborazionisti di Vichy. Però, nelle foto dell’esultanza dell’estrema destra, non si vedono camicie brune bensì signori dall’aria benpensante (che forse la volta scorsa avevano votato Sarkozy), alcune dame finte bionde sintoniche alle Le Pen e molti giovani in giacca e cravatta. Insomma, facce della stessa antropologia che in Italia vota per Matteo Salvini, che in Germania riempie le piazze contro la Merkel e le sue aperture ai rifugiati siriani, che ha fornito consensi plebiscitari ai governi xenofobi in Ungheria e Polonia.
Anche se da essi tutto ci divide (e per chi scrive è certamente così), cosa vogliamo fare? Dequalificarli tutti come elettori di serie B, appestati politici da tenere a distanza con una sorta di razzismo alla rovescia? O non sarebbe meglio comprendere, finalmente, le ragioni che spingono milioni di cittadini europei ad abbracciare idee e programmi “sbagliati”, poiché quelli “giusti” stanno sostanzialmente fallendo? Se «in una delle maggiori società dell’Occidente un terzo dei suffragi ha scelto il partito che più rappresenta la collera, il risentimento, l’odio, la paura del terrorismo» (Bernardo Valli), si tratta di una reazione isterica di massa? O di sentimenti diffusi a cui la sinistra di Hollande e la destra moderata di Sarkozy non hanno saputo dare la risposta giusta, regalandoli alla risposta sbagliata anti-immigrati e islamofoba della destra radicale?
E se in termini tattici è comprensibile, in vista dei ballottaggi di domenica prossima, la ricerca di un compromesso tra socialisti e centrodestra per arginare l’offensiva del FN, in procinto di annettersi sei grandi regioni, sarà sufficiente ricreare lo spirito del Front Républicain per arginare la deriva lepenista che rifiuta l’euro e invoca il ripristino della pena di morte? O una volta salvato il salvabile non sarebbe meglio un profondo esame dei vizi e degli errori commessi in questi decenni, a targhe alterne, dalle forze “repubblicane”, dalla politica che si sente buona. Il governo socialista che con le stragi di Charlie Hebdo e del 13 novembre ha mostrato di sé il peggio quanto a impreparazione e superficialità. E l’opposizione conservatrice la cui esistenza è certificata soprattutto dagli scandali da cui deve difendersi il suo malconcio leader Sarkozy.
E sul voto di domenica non avrà avuto anche il suo peso la ragazza Marion che a dispetto del credo reazionario e antiabortista (via le sovvenzioni alle associazioni “multiculturaliste”) impone l’immagine di una politica nuova, femminile, senza scheletri nell’armadio, non più rappresentata dai vecchi politicanti tromboni, attenti soltanto alla conservazione dei propri privilegi? Un po' come in Italia il M5S, o Podemos in Spagna ma con molti meno rischi per la democrazia. Se la Francia repubblicana saprà apprendere la lezione del 6 dicembre, il lepenismo 2.0 potrà essere una delle tante malattie ricorrenti ma guaribili dei sistemi dediti all’autoconservazione. Altrimenti, aspettiamoci un nuovo Houellebecq e una Sottomissione francese riveduta e corretta. Non più un governo islamico moderato che impone lo studio del Corano e consiglia la poligamia, ma una giunta di fascisti in doppiopetto (con l’aggiunta di qualche testa rasata) che persegue la discriminazione etnica e distribuisce armi ai cittadini per la difesa della razza bianca.

Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia neoliberale, Una storia del marxismo è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore». Il manifesto, 8 dicembre 2015

L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.

Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.

La forza degli inediti

Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei suoi partiti.

Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto decisamente molto critico e problematico.
Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo può essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto con la collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo non certo trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica Marx pubblicò pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867, e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che uscì in Germania orientale nel 1953.

Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua personalità, quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto».

Una visione politica

In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa visione della lotta e della emancipazione della classe operaia, che contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.

La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai dubbi, e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una direzione gradualista o migliorista.

Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre del 1879), il grande partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue componenti, a darne una lettura riformista o «revisionista».

Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale (fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani» (termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come «marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.

Le accuse di settarismo

I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il contesto in cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento a questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al «marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato, dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra lui e la corrente francese che al suo nome veniva accostata.

Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica e ideologica» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).

Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una interessante lettera dell’11 giugno 1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si sarebbero mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante e talvolta anche ossessivo.

Il rischio del fideismo

Ma il punto più importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola «marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo e di fideismo.
Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere.

La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse anche diventare una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano questa teoria come loro punto di riferimento ideale.

Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una «dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una ininterrotta ricerca critica.
Aver aperto il Giubileo non a Roma. ma a Bangui "è stato un segno estremo, da solo capace di esprimere la coscienza che il papa ha della gravità della condizione del mondo (e della Chiesa)». La Repubblica, 8 dicembre 2015

OGGI a Roma si apre forse il Giubileo della Misericordia? Eh no, il Giubileo è già stato aperto. Non a Roma né in altro luogo romano o almanco italiano. È stato a Bangui, in Centrafrica. Qui papa Francesco ha spalancato la porta in legno e vetro della cattedrale e ha invitato a vedervi «la capitale spirituale del mondo »: non a Roma. Ora, è vero che altre volte i papi sono stati costretti a celebrare fuori Roma eventi simbolici importanti. La storia cristiana dei Giubilei comincia da quel discusso 1300.

Bonifacio VIII indisse la “perdonanza” che fece affluire a Roma una folla sterminata di pellegrini (fra cui Dante Alighieri). Lo fece oscurando l’indulgenza generale gratuita offerta dal suo predecessore Celestino V. Da allora in poi potere e danaro si mescolarono all’offerta di perdono dei peccati. Finché non fu un monaco tedesco, l’agostiniano Martin Lutero, a negare al papa quel potere sulle anime che ne costituiva la pretesa e la prerogativa fondamentale. Ma il cristianesimo occidentale non aveva mai visto prima di oggi mettere in discussione da parte di un papa il primato di Roma.

Questo è stato un segno estremo, da solo capace di esprimere la coscienza che il papa ha della gravità della condizione del mondo (e della Chiesa). Di fatto non si può dire che l’evento, così importante per Roma e per gli italiani tutti, abbia scosso il resto dell’umanità: altre sono le fedi religiose di cui il mondo è costretto a occuparsi. E l’ennesimo, sgangherato scandalo romano scoppiato proprio mentre il papa partiva per l’Africa ha spiegato a sufficienza perché il Vaticano non possa proprio dichiararsi capitale dello spirito. Intanto in Europa c’è una Germania che sta preparando un altro “giubileo”: la celebrazione dei 500 anni trascorsi da quel 1517 in cui Martin Lutero negando al papa di Roma il potere di cancellare i peccati e spedire in Paradiso le anime del Purgatorio, spalancò le porte a una modernità europea segnata da ben altri macelli religiosi che il preteso jihad di Daesh.

Oggi il Giubileo della Misericordia ripropone l’offerta antica del perdono. Ma non fa menzione né di purgatorio né di inferno né di demonio. La Chiesa apre le braccia al mondo, si preoccupa della tutela della vita umana e dell’ambiente. E lo speciale perdono giubilare torna a concernere le colpe dei singoli individui, dopo che quello dell’anno 2000 aveva sgombrato il campo dalle colpe storiche dei cristiani e della Chiesa. A esseri umani carichi di sensi di colpa e di fallimenti un papa gesuita propone il rimedio di cui i seguaci di Sant’Ignazio sono stati sempre i maestri: il perdono in confessione. Come? Lo dice la bolla e lo spiega bene monsignor Tettamanzi nel suo piccolo libro edito da Einaudi. Ci saranno dei sacerdoti speciali, missionari della misericordia che avranno facoltà di perdonare i peccati anche più gravi, quelli finora delegati ai vescovi. Niente di nuovo: fin dal ‘500 in Europa i “missionari del perdono” furono proprio i gesuiti. Quell’eredità è ben viva nella mente di questo pontefice. Non è un caso se il primo atto di papa Francesco è stato quello di proclamare santo Pietro Fabro, il gesuita figlio di contadini savoiardi esaltato da papa Francesco perché capace di un «dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari ». Perfino con Lutero.

Certo, non è solo sugli affioramenti del passato che si può basare un tentativo di ragionare con calma sul giubileo di Papa Bergoglio. La premessa dovrebbe essere il tranquillo riconoscimento che siamo davanti a un papato che ha modificato la percezione diffusa, non tanto della Chiesa quanto proprio della figura del papa: il quale è percepito e vissuto — in Italia e in altre parti del mondo — come leader sostanzialmente indiscusso, vero capo morale capace di imporre la sua egemonia su popoli e governi. E questo nell’età del populismo.

In mezzo al discredito generale per la politica e al senso di impotenza che pervade i governanti c’è un capitale di attesa e di speranza sul quale papa Bergoglio ha fatto qualcosa di più che avanzare un’opzione: se ne è semplicemente impadronito grazie a doti non comuni di spontanea comunicatività ma anche e soprattutto grazie alla sua capacità di intercettare attese e desideri profondi.

Questo Giubileo è un’occasione utile per guardarsi intorno e capire che cosa stia accadendo nel mondo, specialmente in quello delle religioni storiche. Il clima è insolito, nel mondo come nella Chiesa di Roma: si vive nel clima di una guerra strana, diffusa, «a pezzi» secondo la definizione del pontefice regnante. E questo pontefice è anche lui molto insolito. Averlo scelto la dice lunga sulle preoccupazioni diffuse nell’alta gerarchia cattolica — almeno in quella non romana e nemmanco italiana.

«A 150 anni dalla morte di Pierre-Joseph Proudhon, una riflessione sul significato di un termine che talvolta viene usato del tutto impropriamente» Si tratta della parola "umanità", densa oggi di significati rilevanti.

La Repubblica, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Pochi ricordano il nome di Pierre-Joseph Proudhon, morto centocinquant’anni fa. Qualcuno ne incontra lo sguardo nei musei parigini che espongono i due ritratti del suo amico Gustave Courbet. Compaiono ancora nelle discussioni pubbliche alcune sue frasi taglienti – «la proprietà è un furto», «chi dice umanità vuole ingannarvi». Quest’ultima appartiene all’archivio delle denunce dell’uso strumentale e distorcente di grandi parole, come quelle attribuite a Madame Roland mentre veniva condotta alla ghigliottina («O libertà, quanti crimini si commettono in tuo nome») o a Samuel Johnson («il patriottismo, ultimo rifugio di una canaglia»). L’invettiva di Proudhon ha trovato un rilancio e un’ambigua, rinnovata fortuna quando se ne è impadronito nel 1927 Carl Schmitt, che dell’idea di umanità ha parlato come di una «disonesta finzione», come di «uno strumento ideologico particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche».

Queste parole sferzanti colgono l’uso strumentale del termine, gli abusi linguistici e politici, tra i quali spicca ormai il riferimento alla “guerra umanitaria” per fondare interventi ispirati a pura logica di potenza. La riflessione di Schmitt è accompagnata dal rifiuto della “dottrina della fratellanza e dell’uguaglianza”, sì che la costruzione della “vera humanitas”, svincolata da questi riferimenti, deve rispondere a un «ideale di selezione razziale e matrimoniale», che si converte in un’esclusione dall’umanità di chi non corrisponde ad un determinato modello, con gli esiti violenti che abbiamo conosciuto. Sgombrato il campo dalla disonesta finzione, il dato reale è la consegna alla politica liberata da ogni vincolo di tutti gli esclusi, ormai degradati a oggetti.
Nelle parole di Proudhon si coglie piuttosto una messa in guardia, in quelle di Schmitt una ripulsa. Si avvia così una costruzione dell’umanità “per sottrazione”, con una continua operazione di “scarto” di coloro i quali non sono ritenuti degni di farne parte. Ma questa non è una vicenda che possiamo consegnare al passato, per tranquillizzarci. Viviamo in società che producono quelle che Zygmunt Bauman ha definito “vite di scarto”, selezionate con criteri attinti unicamente dal processo produttivo. Ecco allora un orizzonte ingombro di poveri e disoccupati, precari e immigrati, persone alle quali vengono negate eguaglianza e dignità, destituite di umanità.
Il realismo drammatico di questa constatazione, tuttavia, non ci consegna ad un pensiero che deve espellere da sé la consapevolezza dell’umanità. Al rifiuto dell’altro, al disgusto che può destare il suo modo di vivere, Martha Nussbaum contrappone “la politica dell’umanità”. Alla sottrazione di diritti, che la costruzione per sottrazione dell’umanità implica, si oppone la riflessione di Hannah Arendt, che ci ricorda come «il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa».
Ma come si definisce l’umanità? Chi parla in suo nome? Per rispondere, bisogna muovere da una premessa semplice, anche se impegnativa: può ritrovarsi umanità solo là dove eguaglianza, dignità e solidarietà trovano pieno riconoscimento. Troviamo un riferimento eloquente nelle parole dell’Internazionale: «L’Internazionale futura umanità», bella traduzione del testo originale, dove si dice «l’Internationale sera le genre humain». Perché sottolineare queste parole? Perché l’umanità è declinata al futuro, non è vista come la somma degli esseri viventi, come un semplice dato quantitativo, un insieme biologico, una realtà già esistente, di cui ci si può limitare a prendere atto. È qualcosa da costruire incessantemente attraverso l’azione comune e solidale di una molteplicità di soggetti, che producono non tanto un “valore aggiunto”, ma una realtà continuamente “aumentata”. È il processo al quale stiamo assistendo, quello di umanità che include e riconosce tutti gli altri, quasi capovolgendo la conclusione di Sartre, «l’inferno sono gli altri».
Ma, con la globalizzazione, questa umanità si fa tutta presente, e può essere percepita come invadente. Ogni accadimento, per quanto lontano, ci fa partecipi di quel che accade alle persone colpite da un terremoto, o da uno tsunami, in luoghi che fino a ieri erano remoti e che il sistema della comunicazione avvicina e rende visibili. Questo provoca moti di solidarietà: basta digitare un numero sul cellulare per far arrivare un contributo finanziario all’alluvionato asiatico o al bambino africano. Se, però, queste persone si materializzano ai nostri confini, possono diventare oggetto di rifiuto. È così per i migranti, per i poveri, visti come aggressori o incomodi. Così gli altri tornano ad essere segni d’un inferno al quale si vuole sfuggire.
Di colpo l’umanità si scompone e si immiserisce. Quella lontana suscita ancora sentimenti e azioni solidali, quella vicina turba. L’idea di “prossimo” si rattrappisce, sembra addirittura morire. Al suo posto troviamo spesso comunità chiuse. Ma questa constatazione, ci conferma che l’umanità è una costruzione ininterrotta, non un approdo consolatorio. Vi sono usi di “umanità” che la costruiscono come un riferimento capace di sottrarci a sopraffazioni. Quando si parla di patrimoni dell’umanità, si sfidano sovranità e proprietà, che vorrebbero sottoporre al potere e agli egoismi degli Stati e dei privati pezzi del mondo, e persino ciò che è fuori di esso come spazio e tempo.
Lo spazio extra-atmosferico non può essere sottoposto alla sovranità statale, come il fondo del mare o l’Antartide. I luoghi dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità vengono ritenuti meritevoli di una disciplina che li sottragga agli intenti speculativi nell’interesse anche delle generazioni future. E così cominciano ad individuarsi anche i soggetti che possono parlare in nome dell’umanità, con specifici diritti, obblighi e responsabilità. Compaiono gli Stati che, avendo firmato un trattato comune sullo spazio extra-atmosferico o sul fondo del mare, possono opporsi alle mire di chi vuole appropriarsene. E tutte le persone alle quali, per salvaguardare un sito o un ambiente o una eredità culturale, deve essere attribuito un diritto di azione popolare per impedire che interessi proprietari possano sottrarre all’umanità il godimento di quei beni.
Qui l’umanità comincia a parlare il linguaggio dei beni comuni. L’acqua e l’aria, l’ambiente globale e la conoscenza in Rete, mostrano connessioni che rinviano alla sopravvivenza stessa dell’umanità, all’esistenza di ogni suo componente, quindi alla necessità di sottrarre quei beni a forme di appropriazione che possono determinare la negazione di diritti fondamentali. Ma l’umanità si trova di fronte anche all’imperativo di sottrarre se stessa a trasformazioni che portano verso un ambiguo postumano o addirittura alla sua scomparsa, sopraffatta dall’intelligenza artificiale. È il tema della tecnoscienza ad occupare sempre più l’orizzonte, con le denunce di una persona espropriata di umanità, avviata a divenire una “nano- bio-info-neuro machine”.
Inoltrandosi in questo sconfinato territorio, la comprensione non è aiutata dal cedere agli opposti estremismi di un catastrofismo senza speranza e di un ottimismo senza misura. Le indispensabili analisi del mutamento, di cui non vanno ignorati i benefici, dovrebbero sempre essere accompagnate da un consapevole sguardo all’indietro, mantenendo saldamente al centro eguaglianza e dignità. L’eguaglianza nell’accesso ai vantaggi incessantemente offerti dalla tecnoscienza è condizione indispensabile perché non nasca una società “castale”. La dignità è limite invalicabile, perché proprio qui, reagendo alle aggressioni di ieri e alle negazioni di oggi, possiamo ritrovare il proprio dell’umano.
Intervista di Anais Ginori al politologo Yves Mény. «Il sistema francese non ha corpi intermedi per esprimere il malcontento. I meccanismi istituzionali che garantiscono la governabilità mostrano oggi tutti i loro limiti, alimentando la diffidenza rispetto alla classe politica».

La Repubblica, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Parigi.«È uno tsunami politico sulla Francia ». Il politologo Yves Mény prevede un’onda lunga del voto di ieri. «Quest’elezione è la spia di una crisi all’interno del nostro sistema elettorale e istituzionale», spiega Mény autore di diversi saggi sul populismo e presidente del Consiglio di amministrazione della Scuola Sant’Anna di Pisa.

Quali sono i nuovi rapporti di forza nella politica francese?
«C’è un trionfatore, ovvero il Front National che non aveva mai raggiunto un risultato così alto. Poi c’è un mezzo vincitore, Nicolas Sarkozy che ha fatto meno bene del previsto perché ha subito un’emorragia di voti verso il Fn. E infine c’è un mezzo sconfitto, François Hollande: il partito socialista poteva temere risultati ancora peggiori. In alcune regioni, il crollo è meno duro del previsto, soprattutto se si sommano i voti delle altre liste di sinistra».
È l’avvento di un sistema tripolare?
«Il sistema francese è diventato sociologicamente tripolare, ma con meccanismi elettorali che sono ancora quelli del bipolarismo. La stabilità politica della Quinta Repubblica è fatta con artifici elettorali. Ci deve essere sempre un solo vincitore, che ha maggioranza assoluta e tutti i poteri. Lo vediamo con François Hollande che, nonostante la sua popolarità, è saldamente al comando della Francia. Il successo del Fn evidenzia le contraddizioni del sistema: è primo partito per numero di elettori nelle regionali, ma è praticamente assente dal parlamento».
Ci sarà una crisi istituzionale?
«Intanto abbiamo davanti una crisi morale e politica. Il sistema francese non ha corpi intermedi per esprimere il malcontento. I meccanismi istituzionali che garantiscono la governabilità mostrano oggi tutti i loro limiti, alimentando la diffidenza rispetto alla classe politica. Siamo vicini a un punto di rottura».
Per Marine Le Pen è una nuova tappa verso l’Eliseo?
«Le probabilità che Le Pen arrivi al ballottaggio delle elezioni presidenziali sono oggi forti, mentre non possiamo ancora dire quale sarà l’avversario. Ricordiamoci comunque che un elettore su due non ha votato. Gli elettori del Fn sono quelli che sono andati di più alle urne, con un fenomeno di mobilitazione paragonabile a quello del Movimento Cinque Stelle. È soprattutto un voto di esasperazione. Ma tradurre l’esasperazione in governo è difficile. Questa è la sfida che ha davanti Le Pen».
Il Fn è solo un partito populista o sta cambiando pelle?
«È ancora una forza populista nel senso che non si preoccupa della coerenza nel programma. Se il Front National arrivasse al potere, ci sarebbe una grande disillusione nel suo elettorato. Il programma economico è folle, e quello sociale provocherebbe enormi tensioni. Ma c’è un’evoluzione in corso nel Fn: all’inizio era un movimento, come molte forze populiste, ora è un vero partito che sfrutta appieno il sistema».
Il programma economico è il vero punto debole, come ha denunciato la Confindustria francese?
«Il Fn tende a semplificare una realtà molto più complessa. Propone soluzioni facili quanto azzardate sul piano economico, come l’uscita dall’euro o la pensione a 60 anni. Ricorda le promesse del partito comunista di una volta. Molti punti del suo programma riprendono quelli dell’estrema sinistra».
Come mai Sarkozy non è riuscito a fermare l’avanzata di Le Pen?
«Ha subito una fuga di voti da parte di alcune categorie come i commercianti o i piccoli imprenditori. Sarkozy non è amato nell’elettorato della destra moderata. Ora dovrà affrontare i suoi rivali interni per la candidatura alle presidenziali. Comunque vada la destra repubblicana rischia di uscire indebolita dalle primarie».

Nel secondo turno, i candidati della destra moderata possono ancora battere il Fn?

«Si capirà nelle prossime. Se in alcune regioni resteranno tre liste concorrenti, i candidati socialisti sono paradossalmente favoriti anche se sono arrivati in terza posizione. La sinistra ha infatti una riserva di elettori, tra Verdi o Front de Gauche. Sarkozy invece si è già presentato con una lista di coalizione, insieme ai centristi dell’Udi, e dunque non ha altri bacini di voti in cui andare a pescare».
Il bilancio di un biennio di comando di un uomo di successo. Il vero problema è che nel corso di mezzo secolo di "persuasione occulta" le teste non funzionano più.

Il manifesto, 6 dicembre 2015, con postilla.

L’8 dicembre di due anni fa Renzi è diventato il segretario del Pd. Per chi della velocità aveva fatto un mito, e dall’energia creativa del corpo del capo aveva ricavato l’attestato della garanzia di successo, due anni di potere sono un tempo enorme, valido per sopportare una verifica. Una radiografia l’ha fornita il rapporto Censis con la metafora bruciante del paese in «letargo». Quando Renzi concluse la sua marcia trionfale tra i gazebo, raccolse, oltre al sostegno di ambienti esterni pronti a finanziare una scalata ostile, anche un’ansia di successo, sfumato nel 2013, e un bisogno di rinnovamento delle classi dirigenti. Un biennio di leadership incontrastata basta però per lasciar appassire i sogni di gloria e per smentire ogni attesa di ricambio effettivo nelle pratiche e nei volti del ceto politico locale.

Il governo della mancia per tutti non attira un voto in più al Pd. E le sue disinvolte e creative misure economiche non agganciano la ripresa, anzi aggravano il divario con il passo spedito di altri partner europei. Le esclusioni sociali crescono, l’evasione fiscale e contributiva regna incontrastata, il differenziale territoriale si acuisce, i servizi pubblici, la sanità deperiscono. Galleggia l’illegalità, solerte è la misura per il salvataggio delle banche amiche.

Le imprese, incassato l’oro delle decontribuzioni e dei tagli Irap, continuano a rigettare ogni strategia competitiva fondata sull’innovazione e la qualità. Con la libertà di licenziamento, sancita dalle nuove leggi sul mercato del lavoro varate dal governo, le aziende si sentono protette da una irresistibile corazza. E pensano di proseguire nella strada della competizione al ribasso, tramite la marginalizzazione del sindacato, la precarietà camuffata dalle tutele crescenti. Il basso costo del lavoro è loro garantito in eterno dal potere di licenziare con modico indennizzo monetario.

Presto il nero diventerà la figura dominante nei rapporti contrattuali perché, dopo 40 anni di lavoro e con una pensione che non sarà di molto superiore a quella sociale, al dipendente risulterà più conveniente chiedere di essere pagato in nero, così almeno potrà racimolare qualche spicciolo in più dal mancato versamento dei contributi. Senza una politica degli investimenti, e senza una crescita dei salari pubblici e privati (altro che mance graziosamente elargite, senza alcun progetto di società), il sistema si avvita in una spirale regressiva e catastrofica.

Questo biennio perduto lascerà ferite sociali e politiche difficili da rimarginare. La volontà del capo di governo di presentarsi come il generoso protettore di tutta la nazione, che distribuisce bonus e mance ai ragazzi, ai carabinieri, agli insegnanti, non solo disperde risorse preziose, perché scarse, senza alcun risultato tangibile nell’inclusione sociale ma non viene premiato nella sua spericolata raccolta del consenso clientelare due punto zero.

Ha un bel dire Paolo Mieli che Renzi non è un capo divisivo, ma vive nella splendida condizione di chi ha la felice fisionomia di un leader vincente che scavalca mirabilmente gli steccati e pesca fiducia ovunque. Ascoltando meglio gli umori reali, non mancherà la percezione di un vivo sentimento di inimicizia, e anche di odio politico, che cresce e impedisce allo statista di Rignano di sfondare, nonostante l’infinita presenza in video, il sostegno generale dei media, il gradimento dei poteri che influenzano, la smobilitazione della destra.

Non basta, per rimediare alla deriva, raccogliere l’invito a costruire il partito, senza il quale, in effetti, tra il capo e il territorio esiste solo un solidissimo vuoto. Il problema è che Renzi non può costruire un partito, per ragioni strutturali. Ha distrutto quel poco di organizzazione che rimaneva, costringendo alla fuga gli illusi che fingevano di ritrovare nei gazebo i residui di vecchie simbologie e nei comitati elettorali degli affaristi in carriera i detriti di memorie, e non può edificare una nuova struttura, con gli eventi fuggevoli dei mille banchetti.

A Renzi il partito serve solo come fonte di legittimità per ordinare lo «stai sereno» e per continuare ad abitare a palazzo Chigi finché vuole. Non ha una cultura moderna della leadership, ma sprigiona solo una caricaturale infatuazione per i simboli esteriori del comando da caserma. Non è vero quello che ha raccontato Eugenio Scalfari a Otto e mezzo, e cioè che Renzi comanda da solo perché in tutte le democrazie avviene così.

Ovunque esistono gruppi dirigenti rispettati e non trattati come subalterni inoffensivi con cui il capo scherza nelle direzioni in diretta streaming. Ogni capo convive con oligarchie agguerrite, con gruppi parlamentari non arrendevoli. Persino Obama ne sa qualcosa. E il nuovo leader laburista Corbyn ha avuto l’investitura del partito ma i gruppi parlamentari, espressioni di un’altra cultura politica, non si piegano, e resistono anche platealmente alle sue direttive in politica estera. Non fanno come i deputati del Pd, designati per l’ottanta per cento come seguaci di Bersani, e poi tutti inginocchiati a riverire il nuovo padrone senza mai un cenno di disobbedienza.

Se ci fosse stato un partito, Renzi non lo avrebbe mai scalato, e se avesse, dopo la conquista, ricostruito un partito, proprio i suoi dirigenti lo avrebbero già disarcionato, per una manifesta inattitudine alla leadership autorevole. Altrove a togliere di mezzo un capo che ha perso le regionali, ha liquidato il nucleo organizzativo del partito, costretto alla diserzione la membership, manifestato una palese inadeguatezza al governo e naviga in chiaro affanno nei sondaggi, sarebbe il suo stesso partito. Ma la fortuna di Renzi è di non avere un partito. E può accontentarsi di un simulacro che gli dà i gradi di comandante di giornata.

Due anni terribili di deconsolidamento della democrazia costituzionale e del lavoro sono trascorsi e c’è poco da festeggiare con banchetti unitari in prossimità della catastrofe. Il solo auspicio è che l’odio e la delusione che covano nella sinistra ferita si trasformino in politica, e ci siano classi dirigenti pronte a raccogliere la difficile impresa, di ricominciare con un pensiero critico dopo il forte rumore dello schianto.

"I persuasori occulti" (The Hidden Persuaders) è il titolo del libro del sociologo statunitense Vance Packard che svelò in che modo nel sistema capitalistico i padroni della produzione foggiavano le menti dei consumatori per indurli a desiderare determinati prodotti e diventarne acquirenti. Il libro, del 1957, fu pubblicato in Italia del 1958 , ed ebba un certo rilievo nel dibattito della "società opulenta". Negli stessi anni l'economista statunitense J.K Galbraith aveva pubblicato il suo fondamentale testo "La società opulenta" (The Affluent Society), tradotto n Italia nel 1959. La cultura ufficiale della sinistra trascurò del tutto il profondo mutamento della società e degli strumenti di potere che quelle analisi rivelavano, e questa fu una delle ragioni essenziali della loro sconfitta (vedi in proposito anche l'articolo di Alfonso Gianni, Dialoghi sul declino della sinistra)
Non solo una recensione, ma un contributo rilevante per la ricerca di una "nuova sinistra". L'errore del passato (non si è compreso che la talpa del neoliberismo lavorava nel profondo), le scarne possibilità per il futuro.

Il manifesto, 5 dicembre 2015


Simul stabunt vel simul cadent, è la diagnosi, o meglio la narrazione di quanto è accaduto, ove i soggetti avvinghiati da questo comune destino sono la socialdemocrazia europea e il comunismo più o meno inverato. Lo sviluppo della contraddizione alto/basso, connessa con un anticapitalismo strutturale e attivo che riporti in auge i concetti di socialista e di comunista, “marxianamente intesi come sinonimi”, ricusando la dimensione da politique politicienne del termine sinistra, può essere la terapia e la soluzione per riempire quel vuoto che la crisi di quest’ultima ha lasciato. Questa è la sintesi che si può trarre da un piccolo ma densissimo libro che contiene una conversazione fra Carlo Formenti e Fausto Bertinotti (Rosso di sera, Jaca Book, Milano 2015, pp. 108, euro 12).

Se per comunismo inverato è sufficiente riferirsi al campo sovietico e al suo crollo per chiarire di cosa si parla (il libro tace delle sorti del comunismo cinese e questo è indubbiamente un limite che i due autori si sono scientemente dati), maggiormente complessa è la definizione di socialdemocrazia. Per farlo Bertinotti ricorre alle caratteristiche che John K. Galbraith usò per definire il capitalismo dei “trenta gloriosi”, ovvero l’intervento dello Stato in economia; una politica fiscale ridistributrice di reddito verso il basso; relazioni sociali di lavoro basate sulla contrattazione collettiva. In questi tre tratti si può riconoscere anche l’essenza della prassi della socialdemocrazia europea. Parlando di quella tedesca in particolare andrebbe un aggiunto un altro elemento non trascurabile, la Mitbestimmung, ovvero la partecipazione, seppur parziale (e spesso inefficace come si è visto nel caso Volkswagen) dei lavoratori nel controllo delle imprese. Definita così l’esperienza socialdemocratica non può non essere accostata a quella del New Deal roosveltiano, ma con due differenze che Bertinotti opportunamente sottolinea. Mentre il New Deal si cala in un’epoca di de globalizzazione segnata dalla Grande Crisi, la storia degli anni migliori della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare è tutta iscritta in una nuova fase di sviluppo del sistema capitalistico. In secondo luogo mentre negli Usa il motore del New Deal è direttamente lo stato, in Germania è il partito socialdemocratico che assume su di sé la costruzione di un simile quadro sociale e istituzionale. La formidabile crescita tedesca nel dopoguerra non è tuttavia attribuibile solo ai meriti della socialdemocrazia, quanto al fatto che la Germania ha sfruttato i vantaggi delle politiche keynesiane mondiali e ha goduto della rendita di posizione di bastione contro l’espansionismo sovietico. Il piano Marshall è servito anche a questo.

Il welfare state, oltre che derivare da una migliore comprensione dei meccanismi che producono le crisi economiche, è stato concepito dalle classi dirigenti, anche quando veniva ad esse strappato da dure lotte di classe, come la soluzione per ammorbidire la rivolta sociale e incanalarla entro i binari del sistema dato. Il ruolo funzionalista della socialdemocrazia non nasce solo nell’epoca del suo inarrestabile declino. Nello stesso tempo esso originava uno spazio contrastante con la sola produzione di valori di scambio.

Tuttavia non vi è una meccanica automaticità in quel simul stabunt vel simul cadent. Infatti le teorie neoliberiste compaiono da subito sullo scenario postbellico, con il famoso manifesto di Mont Pelerin del 1947, nel quale von Hayek, von Mises, Milton Friedman, Eucken (l’autore nel 1936 dell’atto fondativo dell’ordoliberalismo), Popper e altri ancora si propongono di difendere la libertà dell’uomo tanto dal comunismo sovietico quanto dalle politiche keynesiane. E’ lì che comincia quel lungo lavoro da talpa che li vedrà vincenti agli inizi degli anni Ottanta. Questa è una delle ragioni, per la quale il crollo del comunismo e la contemporanea crisi irreversibile della socialdemocrazia, non trova una risposta a sinistra. Quando la sinistra “rivoluzionaria” si trova il campo sgombro dai nemici e dai contendenti che riteneva principali, lo incontra già occupato dal neoliberismo il cui percorso aveva del tutto sottovalutato. La “rivoluzione restauratrice” messa in atto su scala mondiale da parte di quest’ultimo è stata potente e ha fatto egemonia. Anche nei confronti dei movimenti rivoluzionari dell’occidente, spesso risucchiati nella modernizzazione capitalistica, con vantaggi per i singoli al prezzo di una sconfitta rovinosa per le collettività. Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro – su cui non si indaga mai abbastanza e sulle quali Carlo Formenti ha fornito in precedenti libri sui knowledge workers importanti contributi - hanno tolto il terreno sotto i piedi per la rinascita di una sinistra. E’ quindi fuorviante prendersela con la “mutazione antropologica” delle giovani generazioni.

Più che di un superamento definitivo del clivage destra/sinistra – ancora percepibile nel senso comune, quando dalle sigle si scende sul terreno dei valori, come quello dell’uguaglianza – si dovrebbe dire della crisi profonda del pensiero e dei soggetti che dovrebbero farsene carico. Che fare allora? La risposta che Bertinotti fornisce sta nella riconsiderazione del populismo che assume “come centrale il conflitto alto/basso al posto di quello destra/sinistra”. Tuttavia il populismo è intrinsecamente ambiguo. Possiamo individuare un prevalente, in base al quale concludere che ve ne sono almeno due, uno di destra e uno di sinistra (ecco tornare il vecchio clivage), uno dall’alto e uno dal basso. Ma qui non siamo in America Latina, ove “indigenismo” e miseria sociale sono le basi e le molle del populismo, se si vuole ingenuo ma non ambiguo. Nel caso italiano più che l’ombra di Laclau insistono quelle dell’Uomo qualunque di Giannini e il più tradizionale trasformismo. Il caso del M5Stelle è emblematico. Per mantenere viva e pagante la sua ambiguità condita di wenofobia rifiuta le alleanze, ma quando vi è costretto dai meccanismi istituzionali, vira a destra, come con Nigel Farage nel Parlamento europeo.

D’altro canto ogni progetto di trasformazione deve fare i conti con il potere. Bertinotti scarta le semplificazioni alla Holloway, mostrando più considerazione per le tesi più raffinate di Dardot e Laval su una “possibile trasformazione sociale senza conquista del potere”. Del resto la potestà degli stati nazionali è stata svuotata dalla dimensione sovranazionale della governance a-democratica e dall’extraistituzionalizzazione dei poteri reali. Lo si è visto nel caso greco e nella sostanziale impraticabilità del piano B, a meno di non farlo coincidere con la Grexit di Schauble. Ma resta il tema della forza, senza la quale non si può spezzare quella potente dell’avversario né resistere al suo ritorno. La forza è in primo luogo egemonia, avvio di un potere costituente, con altri mezzi e regole di quello costituito. Così possono accadere la vittoria di Syriza in Grecia, ammaccata ma non piegata dai colpi della Troika; quella di Corbyn nel Labour; il governo delle sinistre in Portogallo, con un diverso ruolo dei socialisti. Tutto fragile, ma certamente il mondo non è né un algoritmo né un ologramma.

Sull'episodio più vergognoso del giorno un commento di Adriano Prosperi e una nota di Maria Novella De Luca.

La Repubblica, 5 dicembre 2015




SE IL CARCERE CANCELLA LA COSTITUZIONE
di Adriano Prosperi

Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: «Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». Gli è stato risposto: «In questo carcere la Costituzione non c’entra niente». E anche: « Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni».

La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì. Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, “n’existe pas”, la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana.

Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E.A.Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio.

Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio — quello carcerario — dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantanamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta. Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni.

È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva.

BOTTE IN CARCERE
INDAGA IL MINISTERO
di Maria Novella De Luca

Orlando invia gli ispettori negli istituti coinvolti dalle registrazioni del detenuto ora ricoverato a Torino Manconi: “Abusi anche a Napoli”. Il sindacato: “Tutto da verificare, polizia penitenziaria è istituzione sana”

Le registrazioni di Rachid Assarag sono diventate un caso. Quelle voci che testimoniano botte e sevizie ai detenuti in diverse carceri italiane, violenze definite addirittura «educative» dagli agenti di custodia, hanno spinto ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando a chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di inviare gli ispettori nei diversi istituti di pena dove gli abusi sarebbero avvenuti. Gli audio raccolti di nascosto da Rachid Assarag, detenuto marocchino condannato per stupro, che ha registrato decine di conversazioni con le guardie che lo picchiavano in cella, hanno fatto tornare in primo piano il dramma della violenza nelle carceri.

Rachid Assarag, detenuto dal 2009, ha già cambiato undici istituti di pena. Dopo aver subito le prime violenze nel penitenziario di Parma («fui picchiato da quattro agenti con la stampella a cui mi appoggiavo per camminare») Rachid prova a denunciare l’accaduto. Ma la risposta è il silenzio. Così trasferito di prigione in prigione, Rachid inizia a registrare di nascosto ogni abuso che lo riguarda. Gli audio, resi pubblici dall’associazione “A buon diritto”, di cui è presidente Luigi Manconi e pubblicati ieri da Repubblica. it, sono agghiaccianti. «Brigadiere — chiede Rachid — perché non hai fermato l’agente che mi picchiava?». «Fermarlo? No, io vengo e ti do altre botte», la risposta. E poi: «Il detenuto — afferma il cosiddetto “brigadiere” nella prigione di Prato — quando esce da qui è più delinquente di prima, perché è l’istituzione carcere che non funziona ». Ma c’è di peggio. Come quando lo stesso interlocutore afferma che per i detenuti le botte sono «educative » e, accusato dall’abile Rachid di non rispettare la Costituzione, risponde: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni. Qui tutto è illegale...».

Commenta Fabio Anselmo, legale di Assarag. « I fatti sono gravissimi. In alcuni casi di parla anche delle morti dei detenuti. Rachid sa di aver sbagliato, ma si chiede perché il carcere debba infliggergli anche una ulteriore pena. Le sue registrazioni comunque sono già state ammesse da due giudici a Firenze e a Parma».

Scettico invece sulle prove degli abusi subiti da Rachid, Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. «Non so come sia possibile che un detenuto tenga con sé un registratore. Sarà necessario verificare tutto, ma deve essere chiaro che la polizia penitenziaria è una istituzione sana».

Conferma al contrario il racconto del detenuto marocchino Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. «Sapevamo delle sue denunce, informammo il sostituto procuratore di Parma che si attivò. E in quel carcere, allora, il clima era sicuramente di intimidazione». Avverte Luigi Manconi: «Il caso di Rachid non è isolato. Noi continuiamo a ricevere segnalazioni di violenze e abusi. E tra queste le più preoccupanti arrivano da Poggioreale, dove in due padiglioni già noti, Milano e Napoli, sembra che accadono fatti su cui si dovrebbe indagare». Intanto Rachid ormai in sedia a rotelle, dopo aver perso 18 kg per lo sciopero della fame iniziato un mese fa, è stato ricoverato nel Centro clinico del carcere di Torino.

Intervista a Gino Strada di Vera Mantengoli: «Mi domando cosa voglia dire bombardare i terroristi. Non solo è la risposta sbagliata, ma non è nemmeno praticabile. Qualcuno pensa che i terroristi girino con dei cartelli con la scritta: «Sono un terrorista, colpiscimi»? A rimetterci sono i civili».

La Nuova Venezia, 5 dicembre 2015 (m.p.r.)

Venezia, città per l’abolizione della guerra. È questo il sogno di Gino Strada, primo cittadino italiano ad aver ricevuto qualche giorno fa in Svezia il Premio Right Livelihood, il Nobel alternativo dedicato a persone o gruppi che si stanno impegnando per una società migliore, come ha fatto il fondatore di Emergency dalla sua nascita, nel 1994. I semi per il suo sogno veneziano ha iniziato invece a piantarli in questi giorni nella sede della Giudecca dove, per la prima volta, si sono radunati per il Primo meeting internazionale sulla creazione di un network di risposta clinica alle malattie emergenti" (Emerging diseases Clinical Assessment and Response Network - Edcarn) un centinaio di medici ed esperti di Emergency, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Istituto nazionale malattie infettive «Lazzaro Spallanzani».

Qual è il suo progetto per Venezia?
«Vorrei che questa diventasse la sede internazionale per la nostra campagna contro l’abolizione delle armi e della guerra. Per adesso stiamo svolgendo degli incontri per medici e addetti ai lavori, ma nei prossimi mesi prenderà forma il nostro progetto. Per adesso lo stiamo studiando, ma penseremo anche a un modo di coinvolgere i singoli cittadini. Venezia è una città con una storia di grande apertura e dialogo, capace di parlare a tutti e quindi si presta particolarmente a questo messaggio.
L’Italia però produce e vende molte armi.
«Siamo tra i primi Paesi a produrne. È molto positivo che il premier Matteo Renzi non abbia voluto intervenire nella guerra, ma sarebbe ancora più positivo smettere di dare armi all’Iraq e uscire da questi meccanismi. Mi domando, anche da un punto di vista pratico, cosa voglia dire bombardare i terroristi. Non solo è la risposta sbagliata, ma non è nemmeno praticabile. Qualcuno pensa che i terroristi girino con dei cartelli con la scritta: «Sono un terrorista, colpiscimi»? A rimetterci sono i civili.
Da cosa deriva questo impegno contro la guerra? Quando ha iniziato a occuparsi delle vittime di guerra?
«Era il 1988, in Pakistan. Erano le vittime del conflitto afghano. Quando guardi in faccia le conseguenze di cosa vuol dire usare le armi ti rendi completamente conto che la guerra è una follia scelta da piccoli cervelli che fanno solo disastri.
Molti hanno donato fondi in ricordo della volontaria Valeria Solesin, una delle vittime del Bataclan a Parigi. Cosa ne farete?
«Non sappiamo ancora a quanto ammontino, anche perché il fondo per le donazioni rimane aperto. Li useremo tutti per costruire la seconda ala del reparto maternità dell’ospedale afghano che intitoleremo sicuramente a lei. Adesso i lavori sono fermi perché è freddissimo, ma li riprenderemo presto e contiamo di finire per ottobre prossimo.
Da pochi giorni ha ricevuto un prestigioso premio del valore di circa 100 mila euro. Nel 2015 la Fondazione ha ricevuto ed esaminato 128 proposte da 53 Paesi. È il primo italiano. Come si sente?
«Sono contento. È un riconoscimento che servirà in futuro a Emergency. Non abbiamo ancora deciso su quali progetti investire, ma di sicuro li useremo per le nostre attività».
In questi giorni si è tenuto un importante convegno. Avete raggiunto dei risultati?
«È la prima volta poi che si parla di Ebola in maniera così approfondita perché su questa epidemia la comunità medica non è mai stata preparata, mentre ora abbiamo tanto materiale per sviluppare meglio un piano di intervento».
«Un paese che ha ripreso a camminare, non certo a correre”: sintetizza così il rapporto annuale Censis , con un messaggio venato di chiaroscuri». Che cosa c'è sotto al fumo della propaganda di Renzi e dei renzichenecchi in giro nelle piazze d'Italia (quelle vere, e soprattutto quelle virtuali).

La Repubblica, 5 dicembre 2015

UN Paese in cui gli indicatori volgono al segno “più” ma con grande fatica (una “Italia dello 0 virgola”): ancora portato a rinchiudersi in un “recinto tranquillizzante ma inerte”; immerso “in un clima di mediatica attesa e di annuncio della ripresa che però non si tramutano in un forte investimento collettivo”. Un Paese che rimane esposto al rischio di un “letargo esistenziale” ma che si è comunque rimesso in movimento, sia pur in modo stentato e contradditorio: segnale non irrilevante se si pensa al Paese sfiduciato e sfibrato disegnato ancora l’anno scorso dal Censis (“dopo anni di trepida attesa la ripresa non è arrivata e non è data per imminente”). È davvero lungo il tunnel che abbiamo percorso: già nel 2007 del resto, alla vigilia della grande bufera, il Censis aveva parlato di “malattia dell’anima”, di una società ripiegata su se stessa e sempre più attraversata da un’illegalità quotidiana e diffusa. Una società indebolita e quasi incapace di reagire alla prolungata emergenza provocata poi dalla crisi internazionale. Esposta da allora all’erosione continua di redditi, consumi e — soprattutto — speranze: nel 2010 il rapporto delineava un’Italia “senza più legge né desiderio” e “incapace di sognare”, e ne diventavano simbolo i moltissimi giovani che non studiano, non hanno lavoro e non lo cercano neppure (un macigno che tuttora permane, come il rapporto di quest’anno ricorda).

Veniva così alla luce un “disastro antropologico” di più lunga durata, annotava il Censis alla fine del 2011. L’anno in cui l’irresponsabilità berlusconiana aveva fatto intravedere anche per l’Italia un “rischio greco”: mesi difficilissimi, segnati anche da un deterioramento della nostra immagine internazionale “vissuto un po’ con dolore e un po’ con vergogna”. Il fondo più buio di una deriva che l’azione del governo Monti arrestò quasi sull’orlo del baratro senza riuscire però a ridare slancio al Paese (“non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo” si annotava alla fine del 2012): di qui le difficoltà degli anni successivi, segnati dal “problema della sopravvivenza” e dall’incapacità di far interagire e rendere trainanti gli elementi di vitalità pur presenti in settori dell’economia, della società, della cultura.

Di “sospensione delle aspettative” il Censis parlava ancora l’anno scorso, e in questo quadro possono essere meglio apprezzati i primi segnali di ritrovata fiducia di quest’anno, dalla crescita dell’acquisto di beni durevoli al dinamismo del mercato immobiliare, in un panorama di più generale ripresa dei consumi ma segnato al tempo stesso da nuovi squilibri sociali (alimentati anche dal restringimento del welfare). Segnato da una ripresa dell’occupazione che non coinvolge ancora i giovani, che pur pensano al futuro con maggior ottimismo (un altro dato da capire meglio). Rimane molto rilevante inoltre il denaro non investito ma immobilizzato in un “risparmio cautelativo” volto a fronteggiare le emergenze (non senza ragioni, dato che l’anno scorso vi hanno dovuto attingere più di tre milioni di famiglie).

Permangono insomma i tratti di una “società a bassa consistenza e quindi con scarsa autopropulsione”, poco dinamica. Vi è certo stato un “volontarismo della politica”, si osserva - in positiva controtendenza rispetto a rassegnazione e pessimismo - ma non è riuscito a ridare slancio all’economia e alla società per l’assenza di un progetto generale, di un’idea di futuro capace di radicarsi nel corpo vivo del Paese. Per una enfatizzazione della decisione di vertice, a partire dall’azione di governo, che non ha saputo costruire una vera “catena di comando”. Non ha saputo penetrare nelle pieghe reali della società: non vi è stata dunque quella “osmosi tra primato della politica e mondi vitali sociali” che ha caratterizzato le fasi più espansive della nostra storia.

E questa mancata dialettica fra politica e società ha lasciato la cultura collettiva “prigioniera della cronaca”, del giorno per giorno e dei messaggi più negativi. Ha lasciato ancora isolati gli elementi e i fattori più dinamici, troppo spesso lontani dalla luce dei riflettori. Troppo spesso sottovalutati o considerati solo marginalmente: “il resto”, per dirla con il Censis, rispetto agli ingannevoli pilastri delle narrazioni prevalenti. Eppure è proprio a questo “resto” che occorre guardare, sottolinea il rapporto: ai settori capaci di vincere le sfide internazionali, ai nostri tradizionali punti di forza nella stessa manifattura e soprattutto alle sinergie e alla “ibridazione” di differenti comparti e competenze, capaci di dar vita ad un nuovo Italian style (dall’abbigliamento all’agroalimentare e al turismo).

Si aggiungano altri elementi significativi, relativi ad esempio all’immigrazione: su di essa ha certo agito il peso della crisi, si annota, ma hanno operato anche significativi elementi di “integrazione molecolare” capaci di evitare, forse, il “rischio banlieue”.

Non mancano altri segnali positivi, pur “minori”, connessi anche agli stili di vita. Né mancano, sul versante opposto, le forti inquietudini connesse alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e dell’Europa. Vi è in realtà una grande domanda sottesa all’intero rapporto: qual è il Paese che esce dagli anni della crisi? Quali ne sono le potenzialità e le modificazioni profonde, le propensioni generali e le pulsioni particolaristiche? Non siamo rimasti uguali, il Censis ce lo ricorda, e questa domanda non può essere elusa.

Tra bugie e reticenze continua l'attiva partecipazione del governo italiano alle stragi in atto ne paesi amici. Una commessa del 2013 mai revocata.

Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2015
«L’Italia non vende bombe all’Arabia Saudita per la guerra nello Yemen, dove c’è chi dice muoiano civili, ma comunque si tratta di un intervento autorizzato dall’Onu». Il ministro della Difesa Pinotti è tornata sulla polemica delle bombe made in Italy usate da Ryad in Yemen, riuscendo a contraddire non solo se stessa (aveva appena dichiarato che queste forniture sono “regolari ”) ma gli stessi documenti del governo - che riportano numero e valore delle bombe vendute - e perfino l’Onu che non ha mai autorizzato i raid e anzi ne chiede da mesi la fine.

Duro il commento di Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere (Opal) e di Rete Disarmo: `La Pinotti o mente sapendo di mentire, oppure non sa di cosa parla». Il ministro sostiene che l’Italia non vende bombe ai sauditi e che quelle che da mesi vengono spedite “non sono italiane”, bensì bombe tedesco-americane che dal 2013 “transitano” in », dice Beretta al Fatto.

«Innanzitutto la legge 185 del 1990 vieta non solo l’esportazione ma anche il transito di armi verso Paesi in guerra. Poi, contrariamente a quanto dice la Pinotti, si tratta di ordigni fabbricati o assemblati nello stabilimento sardo della Rwm Italia. Che la vendita sia stata contrattualizzata da ditte americane come la Raytheon e appaltate alla ditta tedesca Rheinmetall, da cui dipende la Rwm Italia, non cambia nulla: sono forniture che vanno autorizzate dal governo, ed elencate nelle relazioni che ogni anno il governo trasmette al Parlamento».

La fornitura è stata autorizzata prima che Ryad entrasse in guerra a marzo. Le centinaia di ordigni partiti a ritmo serrato dall’Italia alla volta dell’Arabia Saudita fanno parte della commessa da 62,3 milioni di euro per 3.950 bombe Mk83 della Rwm Italia autorizzata dal governo nel 2013, insieme alla vendita di 985 bombe Paveway IV sempre della Rwm Italia per 5,9 milioni, anche queste già consegnate. Nel 2014 la stessa ditta è stata autorizzata a vendere altre 1.260 Paveway per 15,2 milioni e 209 bombe Blu109 per 3 milioni, quasi tutte ancora da consegnare, con tutta probabilità sempre all’Arabia Saudita.

L'entrata in guerra di Ryad non dovrebbe indurre il governo a interrompere le forniture, anche se già autorizzate? «Assolutamente sì -afferma Beretta - come nel 2013 quando l’allora ministro degli Esteri Bonino sospese le forniture di armi già autorizzate verso l’Egitto per il rischio che venissero usate nelle violenta repressione delle proteste. Oggi abbiamo la certezza che le bombe esportate dall’Italia vengono usate dall’Arabia Saudita nei bombardamenti in Yemen che non solo, contrariamente a quanto dice la Pinotti, l’Onu non ha mai autorizzato, ma che lo stesso segretario generale Ban Ki-moon ha condannato per le troppe vittime civili”. Non “qualcuno”come dice la Pinotti, bensì l’Onu ha contato da marzo almeno 2.355 civili uccisi, di cui almeno 640 bambini, denunciando violazioni dei diritti umani e possibili crimini di guerra. Ce n’è abbastanza perché l’Italia segua l’esempio della Germania, che a gennaio ha deciso di interrompere le forniture all’ArabiaSaudita. «Continuare a inviare armi è una decisione politica del governo Renzi - spiega l’analista di Opal - di cui si deve assumere la responsabilità».

«Per quanto aberrante dopo ogni

mass shooting ancora più americani si armano, e altre vittime attendono il loro turno, in una roulette russa collettiva che rende ormai troppe parti dell’America meno sicure del Medio Oriente». Il manifesto, 4 dicembre 2015 (m.p.r.)
Per capire la reazione delle «due Americhe», dopo l’ennesima strage, la carneficina di San Bernardino, bastava dare un’occhiata alle prime pagine di ieri dei due principali tabloid newyorkesi. Il New York Post, il giornale di Rupert Murdoch, titolava a grandi caratteri «Muslim Killers», sullo sfondo di un’immagine cruenta dell’eccidio. Il Daily News, il quotidiano di Mortimer Zuckerman, titolava, a caratteri cubitali, «Non sarà Dio a metterci una pezza». E intorno al grande titolo i tweet di quattro alti esponenti repubblicani che commentano la strage rivolgendo al Signore i loro pensieri e le loro preghiere per le vittime. Decedute chissà come, visto che non è neppure nominata la parola gun, arma da fuoco.

La guerra civile americana dei nostri tempi è segnata quotidianamente da morti e feriti. Le mass shooting, le «sparatorie nel mucchio», s’alternano agli omicidi di singoli o pochi individui, opera di lupi solitari fuori di testa, raramente opera di più persone, com’è il caso di San Bernardino, con il coinvolgimento ancora oscuro di una giovane coppia, un americano di origini pachistane, Syed Farook, e di una pachistana, Tashfeen Malik.

In questo far west post-moderno si fronteggiano, appunto, anche le «due Americhe», quella che da tempo e con sempre più insistenza chiede, implora, almeno una maggiore regolamentazione della vendita e del possesso delle armi da fuoco e l’America che, a ogni strage, prega il Signore per le vittime e propone ancora più armi, pistole, fucili, mitra, e maggiore libertà di possederle ed esibirle, anche nei luoghi pubblici, anche nelle scuole e nelle università, secondo la pazzesca teoria che, se si è armati, ci si può difendere in situazioni come quella di San Bernardino.

Per quanto aberrante, proprio questa teoria si rafforza dopo ogni mass shooting (gli omicidi di singoli, anche se centinaia, migliaia, non fanno notizia, come gli incidenti stradali), e ancora più americani si armano, e altre vittime attendono il loro turno, in una roulette russa collettiva che rende ormai troppe parti dell’America meno sicure del Medio Oriente.

Non è solo la forza della National Rifle Association, la potente lobby delle armi, a consentire un simile rovesciamento del senso comune. C’è una destra violenta, oltranzista e razzista che cerca il dominio anche attraverso la costante e crescente alimentazione della paura, sia quella proveniente dal «nemico esterno», oggi l’islam, sia quella di un «nemico interno», nero o ispanico, gente dalla pelle scura di qualche slum degradato.

Così, perfino il ripetersi di omicidi di africani americani perpetrati da agenti di polizia dal manganello o dal grilletto facile diventa, nella narrazione che ne fanno la destra e i suoi media, la litania di episodi di allarme e di paura sulla pericolosità sociale dei neri, da cui occorre difendersi. Con le armi, ovviamente.

La vicenda di San Bernardino, così com’è sintetizzata dalla prima pagina del New York Post, rafforza un’ulteriore base ideologica a una simile propaganda. Non serve neppure usare la parola terrore o terrorismo, basta dire muslim. Ed ecco che il «nemico esterno» diventa anche il «nemico interno».

Questa volta gli autori di una strage sono identificati con la loro religione di appartenenza. Che importa che la comunità islamica americana sia complessivamente ben integrata nella società di cui fanno parte, molto più che in Europa? La destra soffia sul fuoco e la stigmatizza. Ne aizza le componenti più inquiete, marginali, così da indicare poi l’intera comunità come un-American e renderla dunque bersaglio di avversione e anche di odio.

C’è sempre stata questa destra senza inibizioni, in America. E ha avuto anche una grande influenza sulla politica del partito repubblicano, e su frange di quello democratico. Ma nell’establishment moderato ha trovato un certo contrappeso, un limite. Oggi quell’argine non ha più consistenza. Un clown violento come Donald Trump è in cima ai sondaggi, con un distacco considerevole rispetto agli inseguitori, e, si votasse domani, sarebbe lui lo sfidante repubblicano per la successione a Obama. E non è forse Trump a dire e a ripetere che l’11 settembre 2001 nella larga comunità islamica del New Jersey, che vive di fronte a New York, si festeggiò e si inneggiò all’attacco terroristico? Quando un giornalista gli ha chiesto se la sua proposta di una banca dati nazionale dei musulmani non sarebbe cosa diversa dalla persecuzione subita dagli ebrei nella Germania nazista, e lui ha risposto: «Me lo dica lei».

Un fascista. A definirlo così sono esponenti repubblicani di primo piano. «Is Donald Trump fascist?» si chiede sul New York Times Ross Douthat. E sono tante ormai le ragioni per dire sì, il messaggio del miliardario campione dell’antipolitica è decisamente di stampo non semplicemente conservatore ma fascista, un mix di istigazione all’odio verso le minoranze e gli immigrati, estrema misoginia, perfino disprezzo per i portatori di handicap.

Il clown grida nei comizi: non sono un intrattenitore. Ha ragione. Sì, Trump ormai va preso molto seriamente. Non arriverà forse alla meta, e forse, se non riuscirà a conseguire la nomination repubblicana, potrebbe decidere di correre da indipendente, consentendo così a Hillary di vincere più facilmente sull’avversario conservatore a cui Trump sottrarrebbe voti.

È probabile che finisca così. Ma intanto lo scoperchiamento e l’esibizione delle parti peggiori dell’America, che avvengono grazie al suo essere al centro per mesi della scena, al suo gigionismo fascista, danno voce, come egli stesso rivendica, a una maggioranza silenziosa che non deporrà più le armi, non solo metaforicamente, a maggior ragione se il prossimo presidente sarà ancora democratico. Le «due Americhe» saranno ancora più nemiche.

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