Perché è stanco signor Levy?
«Perché non vedo alcun cambiamento in vista nell’atteggiamento di Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Anzi, con Trump, Israele ormai si sente protetto qualsiasi cosa voglia fare. E stanco perché l’Onu, come ha dimostrato la sua debole e vigliacca reazione al massacro perpetrato l’altro ieri dall’esercito israeliano contro i civili di Gaza, ormai è definitivamente nelle mani degli Stati Uniti, ossia della cricca razzista e integralista installatasi nella Casa Bianca al seguito di Trump e del suo genero Jared, ebreo americano, esponente della potente famiglia Kushner, da sempre finanziatrice delle colonie illegali nei Territori palestinesi».
La destra ebraica e i religiosi che formano l’attuale governo non temono una nuova Intifada?
«È un rischio che non ha problemi a correre perché l’unico obiettivo di questo governo è rimanere al potere. E per rimanerci sa che deve solleticare gli istinti più bassi e alimentare le paure più irrazionali della società israeliana sempre più oltranzista e xenofoba anche a causa del lavaggio del cervello mediatico. La paura principale è il terrorismo che viene facilmente sovrapposto ad Hamas. Che, pur avendo dimostrato di non essere in grado di minacciare davvero l’esistenza di Israele, viene additata come il demonio; ma, ciò che è più grave, è che tutti gli abitanti di Gaza vengono ormai considerati dalla maggior parte degli israeliani come terroristi a priori. Molti si scordano che a Gaza ci sono anche palestinesi di religione cristiana. Per quanto riguarda una terza intifada, non credo ci sarà. I palestinesi sono stanchi di combattere e sono troppo indeboliti dal gioco sporco delle grandi potenze e dei paesi arabi che hanno contribuito a dividerli al proprio interno, rendendoli ancora più deboli.
Ma i responsabili di Hamas manipolano la popolazione che governano nella Striscia e usano i civili come carne da macello. Non ultima la bimba di 7 anni mandata nella zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza e Israele, come ha denunciato proprio il suo giornale, per provocare i soldati israeliani.
«Ciò che di sbagliato e criminale fa Hamas va ovviamente riportato, come tutte le altre notizie di interesse pubblico. Resta il fatto che l’esercito israeliano non ha scusanti per il massacro, da scrivere a caratteri maiuscoli, che ha perpetrato lungo la zona di sicurezza voluta da Israele per umiliare e provocare la gente che ha, anzi aveva, i campi con cui si sostenta proprio in quella fascia di territorio».
Questa volta le Forze di Sicurezza Israeliane (IDF) non si sono fatte scrupolo di reprimere nel modo più violento la manifestazione voluta da Hamas per ricordare il ‘diritto al ritorno’ promesso loro già nel 1948 dall’Onu?
«Da anni Israele e le nostre forze di sicurezza violano apertamente i diritti dei palestinesi, ribadisco vittime innocenti della più lunga occupazione della storia contemporanea, nell’indifferenza o falsi strali della comunità internazionale. Israele si è sempre fatto beffa delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Purtroppo non c’è nulla di nuovo sotto il sole».
Israele ha commesso un crimine di guerra a Gaza questa volta?
«Lo ha fatto anche prima, e più volte. Ma non lo definirei un crimine di guerra , semplicemente perché a Gaza non vi è guerra, c’è solo sopruso e ingiustizia. L’esercito israeliano è uno dei più forti e potenti al mondo e continua a spacciarsi per quello anche più etico quando invece, nella realtà, fa il tiro al piccione contro persone imprigionate da decenni e private di tutto proprio dallo stesso Stato israeliano. L’esercito più potente ed etico che ammazza dei disperati perché gli tirano addosso delle pietre. Vergognoso».
Crede che sia finita qui?
«No, purtroppo. Da qui al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, ci saranno probabilmente, altri massacri ad armi impari. Se non scoppierà la Terza Intifada penso che tutto finirà come sempre. Ossia con l’assoluzione di Israele da parte di un mondo cinico e indifferente».
Sull'argomento vedi il recente articolo Palestina e Israele 101 anni dopo
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile
Non tutti ricordano come e perché lo stato d’Israele nacque, proprio su quelle terre, sulle quali oggi i palestinesi soccombono, uccisi o feriti dalle armi di Israele. La vicenda è interessante in relazione sia al presente immediato (ciò che accade nella striscia di Gaza), sia in relazione alla guerre diffusa e ormai globale tra mondo giudaico-cristiano e mondo musulmano. I giovani non sanno (nelle scuole questa storia non è mai stata raccontata), gli adulti e i vecchi, se mai l’hanno saputa, l’hanno dimenticata. Del resto i media, nella loro sistematica banalizzazione e semplificazione dei fatti, fanno d’ogni erba un fascio e presentano il conflitto israelo-palestinese come una rissa da cortile.
Ricordiamo dunque i fatti, riprendendoli da un articolo del giornalista israeliano Gideon Levy, collaboratore del quotidiano di Tel Aviv Haaretz, che abbiamo a suo tempo pubblicato su eddyburg (Il peccato originario dello stato israeliano).
La nascita di Israele avvenne, di diritto e di fatto, il 2 novembre 1917, quando la Gran Bretagna, sottoscrivendo il “Balfour agreement [1]” s’impegnò a facilitare la nascita di uno stato per il popolo ebraico in Palestina. La Palestina apparteneva allora all’impero ottomano, solo più tardi divenne colonia dell’impero britannico; ma con l’impegno a realizzare l’accordo Balfour, la Gran Bretagna avrebbe ottenuto, come ottenne, l’appoggio della potente lobby ebrea dell’America del Nord per la partecipazione degli USA alla prima guerra mondiale.
Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono in Palestina. Da subito - osserva Gideon Levy - si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato. Non fu un caso che un piccolo gruppo di ebrei sefarditi che abitavano in Palestina si oppose a Balfour e difese l’uguaglianza con gli arabi. E non fu un caso che furono messi a tacere.
La dichiarazione Balfour permise alla minoranza ebrea di controllare il paese, ignorando i diritti nazionali di un altro popolo. Cinquant’anni dopo la pubblicazione del documento, Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza. Le invase con lo stesso piglio colonialista. E ancora oggi prosegue la sua occupazione, trascurando i diritti degli altri abitanti.
Se si guarda alle vicende della politica quando è diventata storia si scoprono le ragioni delle tragedie che affliggono oggi l’umanità, Si riesce a comprendere la tragedia delle migrazioni di oggi se si è compreso che lo sfruttamento dell’Africa compiuto dal colonialismo europeo fu un errore, del quale oggi paghiamo il prezzo. Così, l’immissione forzosa di un aggressivo corpo estraneo nei territori dei palestinesi è stato la causa (o la più importante delle cause) che ha scatenato il conflitto, tra il mondo giudaico-cristiano e il mondo musulmano.
[1] Questo è il testo originale della lettera con cui il ministro degli esteri dell’UK Balfour comunica al governo USA l’accordo raggiunto
«Foreign Office
November 2nd, 1917
Dear Lord Rothschild,
I have much pleasure in conveying to you, on behalf of His Majesty's Government, the following declaration of sympathy with Jewish Zionist aspirations which has been submitted to, and approved by, the Cabinet.
"His Majesty's Government view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use their best endeavours to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country."
I should be grateful if you would bring this declaration to the knowledge of the Zionist Federation.
Yours sincerely,
Arthur James Balfour»
Non sappiamo che cosa succederà in questa giornata, non sappiamo se rivedremo le nostre ragazze per fare i workshop e, anche se sta spuntando l’alba, la giornata si annuncia drammatica” scrive la cooperante italiana Meri Calvelli»
Gaza, 30 marzo 2018, Nena News – Piove questa mattina in Palestina, è la giornata della terra e centinaia di migliaia di palestinesi si preparano alla marcia del 42° anniversario, che segna uno dei tanti capitoli neri verso questo popolo; il 30 marzo del 1976, la polizia israeliana represse proteste di cittadini palestinesi contro la confisca di terre in Galilea destinate alla costruzione di insediamenti ebraici. Nove manifestanti vennero uccisi e centinaia furono feriti e arrestati. Da allora, ogni anno è commemorata tale data come “Giornata della Terra palestinese”.
Qui a Gaza la sicurezza locale, ha chiesto di non muoverci, di non andare alle frontiere, di evitare ogni situazione di eventuali caos. Siamo a Gaza per un progetto di Scambio e Formazione, che svolgiamo 2 volte l’anno, sul territorio di Gaza; un territorio sotto assedio, chiuso sigillato come un carcere di massima sicurezza senza fine pena per 2 milioni di persone. Il progetto incontrerà decine e decine di giovani ragazzi e ragazze di bambini e adulti, che per non morire di depressione si attivano ogni giorno creando i diversivi di divertimento e attività’ che nessuno gli concede; si attivano per creare le basi di una resilienza quotidiana necessaria ad affrontare una vita che non presenta nessun futuro da molto tempo; una aspettativa di vita che prevede forse per loro solo la morte in diretta di decine di persone che ogni giorno tentano di fuggire da questa gabbia, o che comunque costretti a morire perché impossibilitati ad uscire anche se sono malati.
Una vita fatta di mancanza di luce, di acqua, e anche se trovano il cibo sufficiente per mangiare ogni giorno, non trovano la bellezza di poter pensare che potrebbero andare a lavorare o a fare il giro del mondo. Solo pochi ce la fanno, se aiutati adeguatamente ad uscire di qui. Oggi la marcia, nel suo ennesimo anniversario vorrebbe ribadire la necessità di uscire e di ritornare anche solo a vedere, quella che era la loro terra di Palestina, magari a visitare i propri vecchi cari dall’altra parte dei territori occupati, magari di poter incontrare amici diversi e lontani che la gabbia di Gaza ha escluso.
La marcia, che è stata organizzata pacificamente da molte centinaia di migliaia di palestinesi, incontrerà sul campo barriere, droni, spari e gas. Non si prevedono buoni propositi dall’altra parte, i tanti cecchini piazzati lungo tutto il confino, terranno d’occhio uno ad uno i tanti che si riverseranno verso le barriere, con l’ordine di sparare su ognuno di loro. Le ragazze con le quali avremo i workshop nei prossimi giorni ci hanno detto che parteciperanno alla manifestazione, in modo pacifico con le mani alzate, senza sassi e senza fuochi, ma che saranno pronte ad andare verso un confine aperto anche a costo di morire. Non sappiamo che cosa succederà in questa giornata, non sappiamo se rivedremo le nostre ragazze per fare i workshop e anche se sta spuntando l’alba, la giornata si annuncia drammatica.
Avvenire,
«La denuncia della onlus Rainbow4Africa: i cinque gendarmi della dogana hanno costretto un migrante sospettato di essere uno spacciatore a sottoporsi al test della urine. «Grave ingerenza»©
Cinque agenti delle dogane francesi hanno fatto irruzione armati nella sala della stazione di Bardonecchia, al confine tra Italia e Francia, e hanno costretto un migrante sospettato di essere uno spacciatore a sottoporsi al test delle urine. A denunciare lo sconfinamento è la Rainbow4Africa, onulus che assiste i migranti che tentano di varcare la frontiera delle Alpi per raggiungere la Francia
Sull'operazione, che ha provocato una violenta polemica politica, la Farnesina ha chiesto spiegazioni al governo francese e ha convocato l'ambasciatore di Parigi a Roma, Christian Masset. "Attendiamo a breve risposte chiare, prima di intraprendere qualsiasi eventuale azione", dicono al ministero degli Esteri.
Intanto è arrivata una prima reazione dalla Francia. "Al fine di evitare qualsiasi incidente in futuro, le autorità francesi sono a disposizione di quelle italiane per chiarire il quadro giuridico e operativo nel quale i doganieri francesi possono intervenire sul territorio italiano in virtù di un accordo (sugli uffici di controlli transfrontalieri) del 1990 in condizioni di rispetto della legge e delle persone". Lo rende noto un comunicato del ministro francese dei conti pubblici, Gérald Darmanin, cui fanno capo i doganieri, sulla vicenda di Bardonecchia.
Rainbow4Africa: grave ingerenza
È stata una "grave ingerenza nell'operato delle Ong e delle istituzioni italiane", si legge in una nota diffusa a tarda sera, in cui Rainbow4Africa ha ricordato che "un presidio sanitario è un luogo neutro, rispettato anche nei luoghi di guerra".
I fatti: poco dopo le 19 di venerdì, i douaniers sono entrati nella saletta gestita dal Comune di Bardonecchia dove dall'inizio dell'inverno operano i volontari della Ong torinese e hanno prelevato un migrante giunto da un treno appena arrivato in stazione. Poi hanno intimato ai volontari di fargli usare il bagno per costringerlo a sottoporsi alle analisi delle urine. I volontari presenti hanno provato a chiedere spiegazioni, ma inutilmente.
Di "atto di forza" ha parlato il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato, che si è detto "arrabbiato e amareggiato": "Non contesto che gli agenti francesi possano svolgere attività di controllo in territorio italiano in base al diritto internazionale ma non in un luogo deputato alla mediazione culturale, questo denota un po' di confusione". Per il primo cittadino si tratta di "istituzioni che hanno bisogno di mettersi in mostra" mentre la collaborazione tra le amministrazioni locali sui due lati del confine "è ottima".
Sulla porta della sala, teatro del blitz, vicino alla stazione di Bardonecchia c'è un cartello firmato dallo stesso sindaco che spiega come gli unici autorizzati ad entrare siano i volontari e il personale della struttura.
Bardonecchia sulla rotta dei migranti
Da alcuni mesi Bardonecchia, località sciistica della Valle di Susa, si trova al centro della rotta dei migranti che, abbandonata la via di Ventimiglia, tentano di raggiungere la Francia nonostante la neve e il gelo. Nella sala della stazione di Bardonecchia, oltre ai volontari operano i mediatori culturali e gli avvocati di Asgi, associazione studi giuridici immigrazione. "Riteniamo questi atti delle ignobili provocazioni", ha detto il presidente di Rainbow4Africa, Paolo Narcisi, "abbiamo fiducia nell'operato delle istituzioni e della giustizia italiana, che sono state investite della responsabilità di attuare i passi necessari verso la Francia. Il nostro unico interesse rimane assicurare rispetto dei diritti umani dei migranti".
Di «episodio allucinante» parla anche l'avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi. «Ci sono degli accordi tra le polizie di frontiera - ricorda il legale - che prevedono la possibilità di controlli. Questi, però, devono avvenire anche con la presenza degli agenti del Paese in cui avviene l'operazione. Un conto è un controllo, un conto una vera e propria irruzione - continua Trucco -. A quanto risulta le modalità sono state brutali, in un luogo in cui le persone ottengono accoglienza e assistenza. Il ragazzo bloccato è stato costretto a sottoporsi all'esame delle urine, un esame che deve per forza avere alle spalle un'ipotesi di reato. A quanto si apprende, in questo caso l'ipotesi di reato sarebbe inesistente. La persona è stata rilasciata».
Intanto sulla vicenda monta anche la protesta della politica. Per Giuseppe Civati (Possibile) il blitz è stato «un'arrogante intimidazione», mentre Augusta Montaruli, deputata di Fratelli d'Italia, parla di «comportamento gravissimo» da parte degli agenti di frontiera francesi. E l'ex-presidente del Consiglio, Enrico Letta, rilancia su Twitter: «Irruzione polizia francese a Bardonecchia ennesimo errore su questione migranti. Poi in Europa si stupiscono dell'esito elettorale in Italia!».
"Il diritto internazionale riconosce ogni Paese sovrano sul suo territorio, ma ammette che un altro Paese possa agire su tale territorio previa autorizzazione - spiega Edoardo Greppi, docente di Diritto internazionale all'Università di Torino - cosa che in questo caso non è avvenuto. Cosa strana, aggiungo io, giacché le polizie di frontiera hanno rapporti praticamente quotidiani. Ora bisogna capire perché questo è avvenuto, inoltre per un'indagine ad personam minima che non ha portato a nulla. È giusto che l'Italia si esprima su questa vicenda, ma con toni non bellicosi come ho sentito in queste ore, anche per non pregiudicare i rapporti con la Francia in un momento in cui il presidente Macron si è detto più volte, pubblicamente, disponibile a rivedere le norme e i dettati europei su questa materia riconoscendo all'Italia una primarietà legata alla sua stessa natura geografica".
il Fatto quotidiano, 31 aprile 2018. Italia bugiarda. Non è la Libia il criminale che rigetta i profughi nelle grinfie dei loro torturatori o nelle fiamme degli inferni da cui fuggono, ma il nostro governo e l'EU
«Il caso Open Arms - Il nostro governo si comporta con i libici come con un protettorato, ma rifiuta di assumersi le proprie responsabilità»
È ora di fare chiarezza sulla politica italiana e dell’Unione europea concernente i rifugiati provenienti dalla Libia. I fatti, innanzitutto.
La zona libica di ricerca e soccorsi in mare (zona Sar) è un’invenzione di comodo: dal dicembre scorso non esiste più. Lo ha confermato l’Organizzazione Marittima Internazionale (Omi), e lo ha ammesso tra le righe il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, rispondendo il 26 marzo a una mia domanda nella Commissione libertà pubbliche del Parlamento europeo: “Non considero come acquisita la zona Sar della Libia. Ci fu una dichiarazione unilaterale nell’estate 2017 che creò una certa situazione che non riesco per la verità a qualificare”. La risposta è volutamente evasiva e il motivo delle ambiguità europee è evidente: la zona Sar lungo le coste libiche fu proclamata per ridurre drasticamente le attività delle navi Ong e per scaricare sulla Libia (governo provvisorio e milizie) la responsabilità giuridica connessa al rimpatrio e alla detenzione sempre più cruenta dei migranti in fuga verso l’Europa. Sotto forma di finzione tale responsabilità libica deve continuare a esistere, e infatti la Commissione si è guardata dal far proprie le ammissioni del direttore di Frontex.
Quel che invece appare sicuro è il ruolo italiano – e dell’Unione – nella gestione dell’area chiamata tuttora, abusivamente, zona Sar della Libia. Se ne è avuta certezza definitiva in occasione del sequestro della nave dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms. Nel decreto di convalida della confisca, il giudice per le indagini preliminari di Catania ha detto come stanno le cose in maniera difficilmente equivocabile: “La circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona Sar non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici” (il corsivo è mio). L’affermazione è cruciale, perché per la prima volta si dice che è l’Italia a coordinare le cosiddette guardie costiere libiche (il più delle volte miliziani ed ex trafficanti non controllabili). Le indagini giudiziarie sulle attività di ProActiva OpenArms diventano a questo punto non tanto secondarie quanto pretestuose. La vera questione riguarda l’attività del governo italiano e le intese tra quest’ultimo e il governo di Accordo Nazionale nonché le milizie libiche, intese appoggiate dall’Unione europea.
Ne consegue che l’Italia ha una responsabilità diretta nella decisione di respingere migranti e richiedenti asilo verso la Libia o altri paesi africani, e di esporli a grave rischio umanitario. Come sostiene Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): “Sembra fuori discussione il fatto che le azioni poste in atto dall’Italia, intervenendo con propri mezzi, uomini e risorse, anche se al di fuori del territorio nazionale, costituiscano esercizio della propria giurisdizione con tutte le conseguenze che ne conseguono, in primis il fatto che l’Italia risponde alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo”. Si ripetono così i respingimenti che già una volta, nel caso Hirsi del 2012, spinsero la Corte europea per i diritti umani a condannare l’Italia di Berlusconi: per i respingimenti collettivi operati nel 2009 e per aver esposto i rimpatriati forzati al “rischio serio di trattamenti inumani e degradanti”. Vero è che le autorità italiane si limitano oggi a “gestire” le guardie costiere libiche anziché intervenire di persona, ma il coordinamento fa capo a loro.
La via scelta dalle autorità italiane e da quelle dell’Unione è quella di perseguire gli operatori umanitari che si assumono l’onere di portare le persone soccorse in mare non nei luoghi “più vicini” bensì in luoghi sicuri (place of safety), come prescritto dalla Convenzione Sar del 1979. È una scelta – quella italiana – fatta in violazione del diritto internazionale, come affermato da 29 accademici europei in un appello che chiede al Consiglio di sicurezza dell’Onu di occuparsi del caso Italia-Libia.
Una denuncia simile era già venuta il 1 marzo dal relatore speciale Onu sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, Nils Melzer: “Gli Stati devono smettere di fondare le proprie politiche migratorie sulla deterrenza, la criminalizzazione e la discriminazione. Devono consentire ai migranti di chiedere protezione internazionale e di presentare appello giudiziario o amministrativo contro ogni decisione concernente la loro detenzione o deportazione”.
Il ruolo dell’Italia sta divenendo sempre più oscuro, anche alla luce del caso, denunciato lo scorso 27 marzo dal Libya Observer, secondo cui le autorità libiche avrebbero delegato un cittadino italiano appartenente alla Missione di assistenza alla gestione integrata delle frontiere in Libia (Eubam Libia) a rappresentare ufficialmente la Libia in una conferenza internazionale. Questo in violazione della sovranità e dell’indipendenza della Libia, secondo la denuncia presentata dal delegato libico presso l’Organizzazione mondiale delle dogane Yousef Ibrahim al ministero degli Esteri di Tripoli, al direttore generale delle dogane e all’incaricato d’affari libico a Bruxelles.
Il governo italiano si sta comportando come se la Libia fosse un suo governatorato (la storia si ripete, e non è una farsa), ma senza assumersi responsabilità rispetto alla legge internazionale e allo specifico divieto del refoulement e dei trattamenti inumani.
«Franco Piperno, ex leader di Potere Operaio, docente di Fisica ed esperto di astronomia, osserva le vicende italiane col telescopio dell’analisi politica, orientato anche da quel pizzico di ironia che da sempre lo accompagna».
Professore, il successo dei 5stelle e della Lega ha radici profonde? Siamo di fronte ad un fenomeno che viene da lontano?
«Credo proprio di sì. Del resto questo accade pure in altri Paesi europei e negli Usa. C’è una forte crisi della rappresentanza. È un fatto che nel corso della storia si è riproposto diverse volte. Basti pensare a quel che si verificò al tempo della Repubblica di Weimar. Questa volta è un po’ più grave, perché non si tratta di un problema che possa essere risolto modificando la legge elettorale. Siamo in presenza di una sfiducia diffusa. Non è rivolta solo contro i rappresentanti, bensì contro la rappresentanza. Ho l’impressione che la diffidenza nei confronti dei rappresentanti, in quanto tali, riguardi il trasformismo, un fenomeno che l’Italia conosce bene sin dai tempi dell’unità».
È una sfiducia che travolge la sinistra in Europa a tutti i livelli?
«Sì. Pensiamo alla parabola di Syriza. Tsipras è una brava persona e quelli intorno a lui non sono certo corrotti, ma alla fine volendo prendere il potere, è il potere che li ha presi. Ed è inevitabile. Sono stato un po’ di tempo in Spagna con i compagni di Podemos e ho visto che gran parte della giornata passava ad individuare candidati, elezioni in un comune o in un altro. Questa è un’ulteriore prova della crisi della rappresentanza. Un conto è avere un’organizzazione di base, qualsiasi essa sia, e porsi poi il problema di rappresentarla. Completamente diverso è rovesciare il problema, cioè avere la rappresentanza e poi creare il movimento.
«Il caso di Liberi e Uguali è forse il più melanconico. Un intero ceto politico con anni di esperienza alle spalle si è candidato a dirigere. Non è che abbiano fatto ricorso ai legami che magari venivano dalla tradizione tanto del Pci come della Dc. No, si sono offerti direttamente come ceto politico. E anche i compagni di Rifondazione e Potere al Popolo o il Partito comunista di Rizzo rischiano di essere assorbiti da codesto meccanismo. È come se ci fosse un mercato in cui compaiono questi rappresentanti. Nulla di più».
Come spiega il successo di Lega e 5stelle nel sud?
«Entrambi hanno alla loro origine elementi interessanti. Penso alla Lega di Gianfranco Miglio e alla sua idea di federalismo spinto. Il limite era che si trattava di un federalismo concepito per regioni, e niente è più disastroso degli Stati regionali. Però c’era allo stesso tempo un’esigenza contro Roma, intesa come lotta alla centralizzazione. Invece, per quanto riguarda i 5Stelle, il reddito di cittadinanza e il tema della democrazia diretta erano interessanti, ma la mia impressione è che entrambi, Lega e 5Stelle, abbiano già fatto una brutta fine. Matteo Salvini si propone come primo ministro dell’Italia, quindi scordando tutto quello che andava fatto per costruire un’Italia federale che si sarebbe potuta costruire solo attorno alle città. Infatti, mentre le regioni sono un’invenzione, le città costituiscono la vera storia del nostro Paese.
Dal canto loro, i 5 Stelle hanno completamente abbandonato la tematica della democrazia diretta?
«Sì, e in un certo senso hanno pure fatto bene, perché ci sono dei casi di democrazia diretta paradossali. Alcuni di loro, per esempio, hanno ottenuto l’elezione dopo essere stati scelti da un centinaio di persone, quando andava bene. Lo stesso Di Maio mi dà un po’ l’impressione che sia stato estratto a sorte. Non dico che non abbia delle capacità, non lo so, non posso giudicarlo. Però appare evidente che è un esempio di democrazia affidata al caso. Questa storia della rete come democrazia diretta non solo è del tutto inconsistente, ma è quanto di più qualunquistico possa esistere.
In appena due anni i grillini in Calabria sono passati dal 4% al 40% senza aver nessun consigliere comunale, regionale, in pratica senza esistere e senza nessun candidato noto. Com’è possibile?
«La loro forza proviene dalla dissoluzione dei riferimenti precisi. Fossero di classe o culturali, non c’è più niente. Per ottenere la vittoria nel sud, è come se i 5 Stelle si fossero alleati con alcuni degli aspetti più riprovevoli del meridione. Per esempio, pensare che i problemi del sud debbano essere risolti dallo Stato centrale. Certamente nel risultato che hanno ottenuto c’è una componente di protesta che va considerata, ma accanto ad essa c’è anche dell’astuzia».
la RepubblicaRignano, e che sta finalmente scomparendo dal teatrino della politica italiana
Il Pd rimane alla finestra a guardare, senza far nulla. La classica posizione dei depressi. C’è da capirlo. Una sconfitta così devastante, che ha portato il partito al minimo storico, annichilisce. Sette punti percentuali e 170 deputati in meno rispetto al risultato del 2013, giudicato allora dai renziani una sconfitta nonostante il Pd in coalizione con Sel godesse della maggioranza assoluta alla Camera, sono i dati duri e inoppugnabili della catastrofe. Nonostante tutto questo, Matteo Renzi, il leader che ha condotto il partito al disastro, continua a spadroneggiare. Le sue dimissioni sono una delle più sonore fake news degli ultimi tempi. Riunisce i suoi in qualche caminetto discreto e indica le azioni che solerti luogotenenti rendono operative. Invece di assumere un atteggiamento di decoroso e doveroso distacco, l’artefice della peggior Waterloo della sinistra italiana continua a voler dettar legge.
Può farlo perché sappiamo con quale cura abbia confezionato liste di fedelissimi alle elezioni, assicurandosi un adeguato manipolo di yes- man in Parlamento. Grazie al controllo di gran parte dei gruppi parlamentari, come si è visto con la scelta dei capigruppo, continua a dare la linea. Che è quella dell’immobilismo: rimanere a guardare le iniziative degli altri attori politici nell’attesa di un loro passo falso. Questa strategia avrebbe una sua logica se fosse chiaro cosa il Pd (o meglio, Renzi) si propone di fare dopo. Godere degli insuccessi altrui può lenire qualche taglio dell’anima ma politicamente è del tutto sterile.
Invece di discutere sul significato del risultato elettorale e sulle prospettive future, il Pd si ripiega in un immobilismo cadaverico, seguendo, in questo, la parola d’ordine lanciata da Renzi all’indomani delle elezioni. In effetti, solo se il Pd rimane imbalsamato in un rifiuto pregiudiziale ad ogni relazione politica con gli altri partiti, quasi una autoghettizzazione, l’ex segretario può mantenere il suo potere di interdizione.
Perché questo sembra l’obiettivo primario di Renzi: mantenere la propria presa sul partito, costi quello che costi. Se Renzi ricordasse quanto disse nella direzione che sancì la scissione dei bersaniani ( febbraio 2017), e cioè che si era « chiuso un ciclo alla guida del Pd, perché abbiamo preso un Pd che aveva il 25% e nell’unica consultazione politica lo abbiamo portato al 40,8%» dovrebbe umilmente prendere atto che portare il Pd al 18% implica una uscita di scena.
Allo stesso tempo, però, la minoranza, a parte il tonitruante Emiliano che ogni tanto lancia i suoi fulmini, si limita a qualche flebile lamento. Non è in grado di alzare la voce intimando a chi ha perso di passare la mano senza brigare e tramare. Fino a che il Partito Democratico non risolve la contraddizione di una leadership effettiva benché dimissionaria e, soprattutto, sfiduciata dai 2 milioni e mezzo di elettori mancati all’appello, non riuscirà né a ripensare sé stesso, né a progettare una strategia.
Forse, l’unica certezza è che lo sfondamento al centro con politiche pro-market, da tanti evocato per giustificare la politica renziana, sia fallito quanto la riproposizione di ricette socialdemocratiche pre- globalizzazione avanzate dagli scissionisti. Per ragionare a testa fredda sul futuro bisogna chiudere un altro ciclo, quello renziano.
il manifesto,
Nell’era dei paradossi accade che mai la società umana ha prodotto tanta ricchezza e mai così alto è stato il numero di chi muore di fame. Più tecnologia e conoscenze produciamo e più ci avviciniamo alla soglia della catastrofe ambientale e nucleare. Mai abbiamo avuto tanti mezzi di informazione, tanta facilità di comunicazione in tempo reale e contemporaneamente tanta ignoranza a livello di massa. Naturalmente con conseguenze enormi sul piano politico.
La nostra visione del mondo si basa essenzialmente sulla percezione e, ad esclusione degli addetti ai lavori, su qualunque fenomeno sociale del nostro tempo la coscienza collettiva si forma solo sulla percezione. L’ultimo delitto visto in televisione, ripreso dalla stampa, dibattuto sui talk show. Stragi di donne, tragedie familiari, giovani uccisi da assassini che restano ignoti: è il piatto forte dei telegiornali Tg. Chi sa che siamo, insieme alla Grecia e Malta, il paese europeo con il più basso tasso di omicidi? Malgrado mafia, camorra e ‘ndrangheta viviamo in un paese tra i più tranquilli dell’Unione europea, che a sua volta è un’area tra le meno violente del mondo relativamente ai fatti di cronaca nera.
Stesso discorso vale per i migranti. Quando chiedo ai miei studenti quanti sono gli immigrati in Italia, la maggior parte pensa che siano tra il 30 e il 40 per cento della popolazione italiana. Una vera e propria invasione! Quando gli comunichi che non arriva al 9 per cento, una delle percentuali più basse della Ue, rimangono perplessi e increduli. Se questo succede nelle aule universitarie, possiamo immaginare cosa accade fuori. Solo una estrema minoranza conosce la realtà, approfondisce i dati, ha un approccio scientifico alle questioni più delicate e importanti del nostro tempo.
Anche in passato l’umanità ha convissuto con una percezione falsa della realtà. Siamo stati convinti per millenni che il sole girasse intorno alla terra, così come pensavamo che gli animali e le piante fossero stati creati con le attuali fattezze fin dalla notte dei tempi. Galileo, Darwin e altri scienziati ci hanno convinto che la nostra percezione era falsa, ma ci sono voluti molti decenni, qualche volta secoli.
Credo che in questa fase della storia umana sia diventata una necessità di prima grandezza diffondere un approccio scientifico ai fenomeni sociali, economici e politici. Non tutti possiamo diventare scienziati, ma tutti possono avere a disposizione una cassetta degli attrezzi che faccia leggere in maniera non superficiale, istintiva la realtà sociale. Abbiamo bisogno di giornalisti, artisti, docenti, educatori – a partire dalla scuola elementare– capaci di costruire uno spirito critico, per aiutare a selezionare le informazioni, a difendersi dal bombardamento mediatico. Non a caso stanno distruggendo definitivamente il ruolo della scuola come palestra di idee e individui pensanti, per questo è ricorrente l’idea di abolire la Tv pubblica che ancora riserva qualche spazio all’approfondimento.
E’ un’onda reazionaria che coinvolge l’Europa, e la risposta non può essere cercata nel breve periodo o in un cambio del brand politico. Si tratta piuttosto di una sfida antropologica: il profilo di essere umano costruito da questo modo di produzione capitalistico nell’era dell’iperinformazione/deformazione della realtà.Non dimentichiamo che una parte preponderante della sinistra storica aveva le sue basi nel marxismo, una visione che tentava di interpretare la storia con un metodo scientifico.
Forse è proprio da quell’approccio che dovremmo ripartire, in maniera non meccanicistica, per contrastare il mix di razzismo-neoliberismo che ha impregnato la gran parte della società contemporanea.
E’ il terribile e reale rischio di far trionfare il «disumano», denunciato più volte da Marco Revelli, con cui dobbiamo fare i conti prima di pensare alle alchimie dei governi e dei partiti. E’ quel «restiamo umani!», quel grido disperato di un grande testimone del nostro tempo, come Vittorio Arrigoni, che ci deve spingere a spendere le nostre migliori energie, ognuno secondo le proprie capacità, per far riemergere l’umanità dentro la nostra società.
il Fatto quotidiano,
Naturalmente, è del tutto sbagliato sostenere che gli elettori hanno mandato il Pd all’opposizione. Gli elettori italiani non votavano sul quesito Pd al governo/Pd all’opposizione. Nessun elettore in nessuna democrazia parlamentare ha un voto di governo e/o un voto di opposizione. Comunque, gli elettori che hanno votato Pd volevano conservarlo al governo del Paese. Che adesso l’ex segretario del Pd interpreti il voto al suo partito come rigetto della sua azione di governo è confortante, ma troppo poco troppo tardi. Ed è sbagliato pensare che quegli elettori non desidererebbero, a determinate condizioni, che possono essere costruite, vedere il loro partito in posizioni di governo a temperare il programma degli alleati e a tentare di attuare parti del suo programma.
Quando ascolto molti parlamentari del Pd ripetere senza originalità quello che ha detto Renzi, mi infastidisco. Subito dopo mi interrogo e capisco. Siamo di fronte a un’altra conseguenza nefasta della legge Rosato. Non fatta per garantire qualsivoglia variante di governabilità, la legge Rosato non è stata, ma era prevedibile, neppure in grado di dare rappresentanza all’elettorato. I parlamentari eletti non hanno dovuto andarsi a cercare i voti. La loro elezione dipendeva dal collegio uninominale nel quale erano collocati/e e dalla eventuale frequente candidatura in più circoscrizioni proporzionali. Come facciano questi/e parlamentari a interpretare le preferenze e le aspettative di elettori che non hanno mai visto, con i quali non hanno mai parlato, ai quali non torneranno a chiedere il voto, potrebbe essere uno dei classici, deprecabili misteri ingloriosi della politica italiana e di leggi elettorali, come la Rosato. Formulata e redatta con precisi intenti particolaristici: rendere la vita difficile al Movimento 5 Stelle, creare le condizioni per un’alleanza Pd-Forza Italia, soprattutto consentire a Renzi e Berlusconi di fare eleggere esclusivamente parlamentari fedeli, ossequienti, totalmente dipendenti, per questi obiettivi, ma solo per questi, la Rosato ha funzionato. Adesso sì che i conti tornano. Il Pd va all’opposizione, almeno per il momento, perché lo dice, lo intima il capo che ha fatto eleggere la grande maggioranza dei deputati e dei senatori.
Costoro, da lui nominati, dovrebbero dichiarare candidamente che seguono le indicazioni-direttive, non degli elettori, ma di Renzi. Naturalmente, nonostante tutta la mia scienza (politica), neppure io sono in grado di dire che cosa preferiscono gli elettori del Pd.
Sono i dirigenti del Pd, meglio se nell’Assemblea del Partito, quindi non precocemente, che debbono decidere, ma dirigenti non sono coloro che si accodano alle preferenze inespresse e che seguono opinioni e sondaggi scarsamente credibili poiché fondati su ipotesi. Dirigenti/leader sono coloro che precisano le alternative, le dibattono, le scelgono, le confrontano con le proposte degli altri. Poi, se il Pd è un partito (e non un grande gazebo come vorrebbero coloro che stanno chiedendo già adesso fantomatiche primarie che servono a scegliere le candidature, per il parlamento non le ho viste, non i programmi) sottoporrà ai suoi iscritti, come hanno fatto i socialdemocratici tedeschi, un eventuale programma di governo concordato con altre formazioni politiche. Questa è la procedura democratica attraverso la quale si giunge al governo o si va all’opposizione. Il resto è fuffa/truffa.
bocchescucite.org, 25 marzo 2018. Un grido di dolore. Un'invettiva che non si può non condividere. Un gesto d'amore che dovrebbe suscitare un moto di rabbia e un coro di ribellione che non coinvolgesse solo gli Happy Few
Sono indignato per quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi verso i migranti, nell’indifferenza generale. Stiamo assistendo a gesti e a situazioni inaccettabili sia a livello giuridico, etico ed umano.
E’ bestiale che Destinity, donna nigeriana incinta, sia stata respinta dalla gendarmeria francese. Lasciata alla stazione di Bardonecchia, nella notte, nonostante il pancione di sei mesi e nonostante non riuscisse quasi a respirare perché affetta da linfoma. E’ morta in ospedale dopo aver partorito il bimbo: un raggio di luce di appena 700 grammi!
E’ inammissibile che la Procura di Ragusa abbia messo sotto sequestro la nave spagnola Open Arms per aver soccorso dei migranti in acque internazionali, rifiutandosi di consegnarli ai libici che li avrebbero riportati nell’inferno della Libia.
E’ disumano vedere arrivare a Pozzallo sempre sulla nave Open Arms Resen, un eritreo di 22 anni che pesava 35 kg, ridotto alla fame in Libia, morto poche ore dopo in ospedale. Il sindaco che lo ha accolto fra le sue braccia, inorridito ha detto :”Erano tutti pelle e ossa, sembravano usciti dai campi di concentramento nazisti”.
E’ criminale quello che sta avvenendo in Libia, dove sono rimasti quasi un milione di rifugiati che sono sottoposti - secondo il il Rapporto del segretario generale dell’ONU , A. Guterres- a “detenzione arbitraria e torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale, a lavori forzati e uccisioni illegali.” E nel Rapporto si condanna anche ”la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia Costiera libica nei salvataggi e intercettazioni in mare.”
E’ scellerato, in questo contesto, l’accordo fatto dal governo italiano con l’uomo forte di Tripoli, El- Serraj (non c’è nessun governo in Libia!) per bloccare l’arrivo dei migranti in Europa.
E’ illegale l’invio dei soldati italiani in Niger deciso dal Parlamento italiano, senza che il governo del Niger ne sapesse nulla e che ora protesta.
E’ immorale anche l’accordo della UE con la Turchia di Erdogan con la promessa di sei miliardi di euro, per bloccare soprattutto l’arrivo in Europa dei rifugiati siriani, mentre assistiamo a sempre nuovi naufragi anche nell’Egeo: l’ultimo ha visto la morte di sette bambini!
E’ disumanizzante la condizione dei migranti nei campi profughi delle isole della Grecia. “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi- ha detto l’arcivescovo Hyeronymous di Grecia a Lesbos- è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza la “bancarotta dell’umanità.”
E’ vergognoso che una guida alpina sia stata denunciata dalle autorità francesi e rischi cinque anni di carcere per aver aiutato una donna nigeriana in preda alle doglie insieme al marito e agli altri due figli, trovati a 1.800 m , nella neve.
Ed è incredibile che un’Europa che ha fatto una guerra per abbattere il nazi-fascismo stia ora generando nel suo seno tanti partiti xenofobi, razzisti o fascisti.
“Europa , cosa ti è successo?”, ha chiesto ai leader della UE Papa Francesco. E’ questo anche il mio grido di dolore.
Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come “patria dei diritti”.
Ho paura che, in un prossimo futuro, i popoli del Sud del mondo diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti.
Per questo mi meraviglio del silenzio dei nostri vescovi che mi ferisce come cristiano, ma soprattutto come missionario che ha sentito sulla sua pelle cosa significa vivere dodici anni da baraccato con i baraccati di Korogocho a Nairobi (Kenya).
Ma mi ferisce ancora di più il quasi silenzio degli Istituti missionari e delle Curie degli Ordini religiosi che operano in Africa.
Per me è in ballo il Vangelo di quel povero Gesù di Nazareth:”Ero affamato, assetato, forestiero…” E’ quel Gesù crocifisso, torturato e sfigurato che noi cristiani veneriamo in questi giorni nelle nostre chiese, ma che ci rifiutiamo di riconoscere nella carne martoriata dei nostri fratelli e sorelle migranti. E’ questa la carne viva di Cristo oggi.
Napoli, 24 marzo 2018
L
e non vi è bastata la donna morta con il suo tumore addosso mentre veniva trattenuta sul confine perché scavallarlo fino ad arrivare al primo ospedale sarebbe stato contro le regole; se non vi basta la guardia alpina colpevole di avere salvato una famiglia surgelata, con bambini piccoli e la madre in gravidanza, pescata sulle alpi; se non vi basta la nave della ONG Proactiva open arms tenuta sotto sequestro come se fosse il ferrarino di qualche boss di ‘ndrangheta mentre quella porzione di Mediterraneo in cui la ONG operava rimane sguarnita, a disposizione dei rastrellamenti degli schiavisti libici travestiti da guardia costiera; se non vi basta l’Europa che dispiega tutta la propria forza giudiziaria per Carles Puigdemont mentre chissà come se la godono i responsabili della Thyssenkrupp a cui il mandato d’arresto europeo ha fatto poco più del solletico nonostante la tragedia accaduta in Italia in cui sono morti sette operai ma pare che non interessi poi troppo a nessuno.
Se non vi basta tutto questo allora sappiate che una delle tante (brutte) facce di questa Europa, che si sta già preparando per richiamare l’Italia poiché qui si andrebbe in pensione troppo bene e troppo presto, ha la forma del muro di cemento, alto tre metri e lungo più di ottocento chilometri, che la Turchia del presidente Tayyp Erdogan ha piazzato sul proprio confine per tappare gli esuli che provano a scappare dalla Siria. Sappiate che sono stati regalati dall’Unione europea anche i mezzi militari Cobra II che sparano contro chi tenta di avvicinarsi (anche se è un provare a mettersi in salvo) e che contravvengono tutti i faldoni di diritto umanitario di cui l’Europa si fregia e intanto se ne frega.
È il lato oscuro ma prevedibile di un’Europa che ancora una volta si dimostra inflessibile con i disperati (che siano pensionati greci, lavoratori anziani italiani o profughi siriani) mentre continua a perdonarsi una certa mollezza con il dispotico turco così come con le multinazionali. È l’Europa “dei popoli” sempre più Europa “dei pochi” che riduce tutto a un freddo conto economico come un commercialista che vorrebbe mettere a bilancio la paura, l’amore, l’esser soli e il tentativo di sopravvivere. È l’Europa contro cui tutti promettono di alzare la voce e invece continua indisturbata a interpretare i grumi peggiori.
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la Repubblica, 28 marzo 2018. Matteo Renzi ha rottamato. Ma così piccolo, e così inconsapevole, che non provoca molte speranze
Nello zoo delle nostre istituzioni è riapparso un animale che credevamo estinto: il Parlamento. Soffocato durante la lunga stagione bipolare dalla dittatura dei governi, con un presidenzialismo di fatto se non anche di diritto. Imbavagliato dai decreti legge, dall’abuso dei voti di fiducia (108 nei 57 mesi della legislatura scorsa), da canguri, ghigliottine e altre diavolerie procedurali inventate per bloccare il dibattito in aula. Deformato nella sua capacità di rappresentare gli italiani dai premi di maggioranza, concessi in dote a questo o a quel partito. Screditato dal trasformismo degli eletti (566 cambi di casacca nell’ultimo quinquennio: un record). Infine preso in ostaggio da leader che abitavano fuori dalle aule parlamentari (nella XVII legislatura fu il caso di Grillo, Berlusconi, Renzi).
Osservatorio del Sud, 24 marzo 2018.
Dal mercato al progetto
Il flusso di immigrati provenienti da vari Paesi del Sud e dell’Est del mondo si iscrive in un vasto processo di destrutturazione demografica, ma anche di mobilità sociale, che ha dimensioni grandiose e di lunga data. Solo di recente è esploso in forme caotiche e drammatiche a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che «Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato». E i maggiori centri di attrazione erano e sono gli USA, l’Europa e l’Australia. Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa 1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate.
In questo quadro europeo confuso e generatore di sentimenti xenofobi, la sinistra ha, in Italia, la possibilità di indicare una soluzione non contingente e transitoria al problema. Una via difficile, ma affatto utopica, che potrebbe addirittura fare da modello anche per altri paesi del continente. Noi possiamo indicare agli italiani e agli europei, contro la politica della paura e dell’odio, una prospettiva che non è solo di solidarietà e di umano e temporaneo soccorso a chi fugge da guerre e miseria. Con le donne, gli uomini e i bambini che arrivano sulle nostre terre noi abbiamo l’opportunità di costruire un inserimento stabile e cooperativo, relazioni umane durevoli, fondate su nuove economie che gioverebbero all’intero Paese.
Un grave squilibrio territoriale.
Occorre partire da una considerazione d’insieme relativa alle condizioni dell’Italia dei nostri giorni.
Il nostro paese soffre di un grave squilibrio nella distribuzione territoriale della sua popolazione. Poco meno del 70% di essa vive insediata lungo le fasce costiere e le colline litoranee della Penisola, mentre le aree interne e l’osso dell’Appennino, soprattutto al Sud, sono in abbandono. Secondo indagini del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione dell’omonimo Ministero, le aree interne rappresentano circa i 3/5 del territorio nazionale e accolgono poco meno di ¼ della popolazione.
Ebbene, queste aree non hanno bisogno che di popolazione, di nuove energie, di voglia di vivere, di lavoro umano.Queste terre possono rinascere, ricreare le economie scomparse o in declino con nuove forme di agricoltura che valorizzino l’incomparabile ricchezza di biodiversità dell’agricoltura italiana.
Un’agricoltura della ricchezza bioagricola
A che cosa ci riferiamo allorché parliamo di agricoltura per ridare vita e nuovi presidi territoriali alle aree interne? Si tratta di uno dei tanti slogan di propaganda politica “movimentista” ? Oppure di un’utopia che non ha alcun fondamento economico, né dunque alcuna possibilità di riuscita? All’obiezione si deve innanzi tutto rispondere con una considerazione storica. Non si tratta, infatti, di una progettazione o addirittura di una aspirazione a vuoto di volenterosi militanti. Per secoli l’agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne”, vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola.
La seconda obiezione, relativa all’economicità di una agricoltura in queste aree è che occorre intendersi su che cosa si intende per economicità. Per far questo occorre liberarsi di una idea riduzionistica di agricoltura che ha dominato per tutto il secolo passato. In queste aree non si può pensare alla pratica agricola come una impresa industriale che deve strappare margini crescenti di profitto, generare accumulazione di capitale, con sovrana indifferenza per ciò che accade alla fertilità del suolo, alla distruzione della biodiversità, all’inquinamento delle acque, alla salute degli animali, dei lavoratori e più in generale dei cittadini.
Ma che tipo di agricoltura si può oggi praticare su terre lontane (ma non lontanissime, l’Appennino dista sempre relativamente poco dal mare) dai grandi snodi viari e commerciali? La dove non è possibile, né utile, né consigliabile organizzare produzioni di larga scala? Qui si può praticare soprattutto frutticultura e orticoltura di qualità. E sottolineo questo aspetto di novità storica della agricoltura di collina rispetto al passato. Si tratta di una agricoltura di qualità perché essa utilizza con nuova consapevolezza culturale un’attività produttiva fondata sulla valorizzazione di un dato storico eminente della nostra millenaria tradizione produttiva: l’incomparabile ricchezza della nostra biodiversità agricola.
Tale straordinaria biodiversità agricola - frutto dell’originalità della nostra storia e della varietà dei climi e degli habitat che, dalle Alpi alla Sicilia, si ritrovano nella Penisola, - ha espresso la sua vitalità nell’agricoltura promiscua preindustriale. Campi nei quali coesistevano alberi da frutto di diverse varietà, ulivi, viti insieme spesso ai cereali, agli orti. Oggi questa agricoltura ritrova ragioni economiche per rifiorire, innanzi tutto perché è in grado di offrire prodotti che hanno qualità intrinseche superiori, sia di carattere organolettico che nutrizionale, rispetto a quelli industriali di massa. In tanti vivai, Istituti di ricerca - e nelle coltivazioni degli amatori - si conservano ancora in Italia centinaia di varietà di meli, peri, susini, mandorli, peschi, viti a doppia attitudine, insieme a un vasto patrimonio di germoplasma, ecc.
E invece l’organizzazione di una distribuzione alternativa (tramite i gas, i gruppi del commercio eco-solidale, a km 0, ecc) può cambiare la natura stessa del prodotto finale. La diversità e varietà dei sapori, la salubrità e ricchezza vitaminica e minerale del frutto, la sua freschezza e assenza di conservanti e residui chimici, ne fanno un bene che acquista anche sotto il profilo culturale un nuovo valore. E naturalmente il rapporto diretto fra produttore e consumatore tende a rendere bassi e accessibili i prezzi. Dunque, non si propone il ripristino dell’ ”agricoltura della nonna”, ma una nuova economia rispondente a una elaborazione culturale più avanzata e ricca del nostro rapporto col cibo, che incorpora anche una superiore visione della pratica agricola come parte di un ecosistema da conservare.
Questa agricoltura può far ricorso a molti elementi di economicità e di riduzione dei costi, di norma esclusi nelle pratiche industriali. Intanto la varietà delle colture - anche nelle coltivazioni orticole, grazie alla sapienza consolidata della pratica degli avvicendamenti e delle alternanze, ma anche alle nove tecniche come l’agricoltura sinergica - costituisce un antidoto importante contro l’infestazione dei parassiti. E’ nelle monoculture, infatti, che questi possono produrre grandi danni, e debbono essere controllati - anche se con decrescente efficacia - tramite costosi e ripetuti trattamenti chimici.
Altre economie
Nei frutteti si può molto utilmente praticare l’allevamento dei volatili ( polli, oche, faraone,ecc).Tale pratica già nota ai primi del ‘900 in alcuni paesi europei ( ad esempio nei meleti della Normandia)8 e oggi sperimentata da alcune aziende ad agricoltura biologica, combina un insieme sorprendente di vantaggi. I volatili, infatti, ripuliscono il terreno dalle erbe infestanti e lo concimano costantemente con i loro escrementi, facendo risparmiare all’azienda il lavoro e i costi del taglio delle erbe e quello della fertilizzazione del suolo. Ma aggiungono all’economia aziendale uno straordinario apporto produttivo: le uova, i pulcini e la carne di pregio commerciabili tutto l’anno.
Sempre sul piano del contenimento dei costi è utile rammentare che qualunque azienda agricola produce una quantità significativa di biomassa. Sia sotto forma di rifiuti organici domestici, che quale residuo dei tagli, potature, controllo delle siepi, ecc. Ebbene, questo materiale - tramite il metodo del cumulo - si può trasformare in utilissimo compost per fertilizzare il suolo, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici, e risparmiando su tale voce di spesa che grava invece in maniera crescente sull’agricoltura industriale. Il costo dei concimi, è noto, dipende dal prezzo del petrolio. Un grande agronomo biodinamico, Eherfried Pfeiffer, sosteneva che un buon terriccio di cumulo può avere una capacità fertilizzante due volte superiore a quella del letame bovino: il più completo fra i fertilizzanti organici. Di questo terriccio si potrebbe fare commercio, come si fa commercio del fertilizzante ottenuto dalla decomposizione di sostanza organica da parte dei lombrichi. Nel Lazio, ad es., esiste qualche azienda che vende humus, un terriccio ricavato dalla “digestione” di letame bovino ad opera dei lombrichi.
Sempre sul piano del risparmio dei costi - senza qui considerare la buona pratica di impiantare pannelli solari sugli edifici, case, stalle, uffici, ecc, per rendere l’azienda autonoma sotto il profilo energetico - una riflessione a parte meriterebbe l’uso dell’acqua. La presenza di questo elemento è ovviamente preziosa e spesso indispensabile nelle agricolture delle aree interne. Ad essa si attinge normalmente con i pozzi azionati da motori elettrici. Se l’elettricità è generata da pannelli fotovoltaici il costo è ovviamente contenuto. Ma spesso non è così. E ad ogni modo, in tante aree interne, l’acqua potrebbe essere attinta in estate senza costi se durante l’inverno venissero utilizzati sistemi di raccolta delle acque piovane.
Infine due questioni rilevanti: il reperimento dei suoli dove esercitare le nuove economie e i protagonisti primi del progetto, vale a dire gli imprenditori, gli uomini e le donne che accettano la sfida. Per quanto riguarda la terra, la sua disponibilità e i suoi prezzi variano molto nelle stesse aree interne. In Toscana il valore fondiario può essere proibitivo, ma in tante aree appenniniche esso ha scarso valore. Senza dire che esiste un po’ in tutte le regioni d’Italia una superficie non trascurabile di terreni demaniali, soggetti a usi civici, o appartenenti ai comuni. Ma sia per questi ultimi che per quelli di proprietà privata si rendono oggi necessarie forme di regolazione e di facilitazione - laddove non esistono già - di accesso alla terra a costi contenuti.
Altro rilevante problema è quello degli imprenditori. E’ evidente che non si può lasciare l’iniziativa imprenditiva alla spontaneità e alla capacità attrattiva di un progetto. Sarà necessaria un’azione concordata con le varie forze territoriali in campo (amministrazioni, Coldiretti, sindacati, comitati locali, associazioni, cooperative, ecc.) che devono svolgere una funzione iniziale di promozione e coordinamento, oltre che di conoscenza e informazione: disponibilità della terra, presenza di boschi e macchie, ecc. Ma è evidente che la ricostruzione di un nuovo ceto di agricoltori per le aree interne passa oggi attraverso una nuova politica dell’immigrazione. Ebbene in che modo, con che mezzi, con quali forze si può perseguire un così ambizioso progetto?
Risulta necessario, in via preliminare, cancellare la legge Bossi-Fini e cambiare atteggiamento di legalità di fronte a chi arriva. Occorre dare agli immigrati che vogliono restare la possibilità di trovare un lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nella selvicoltura, nei servizi connessi a tali settori, nel piccolo artigianato. Non si capisce perché i giovani del Senegal o dell’Eritrea debbano finire schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori e non possano diventare coltivatori o allevatori in cooperative, costruttori e restauratori delle case che abiteranno, dei laboratori artigiani in cui si insedieranno altri loro compagni. Ricordiamo che gli indiani hanno salvato di fatto l’allevamento bovino nel Nord d’Italia. Ricordo che tra gli immigrati sono presenti attitudini e saperi agricoli che potrebbero avere ben altra destinazione.
Certo, il motore politico-istituzionale per avviare l’operazione dovrebbe essere un vasto movimento di sindaci. Su tale fronte, la strada è già stata aperta alcuni anni fa non senza risultati. Mimmo Lucano e Ilario Ammendola, sindaci di Riace e Caulonia, in Calabria, hanno mostrato come possano rinascere i paesi con il concorso degli immigrati, se ben organizzati e aiutati con un minimo di soccorso pubblico. I sindaci dovrebbero fare una rapida ricognizione dei terreni disponibili nel territorio comunale: patrimoniali, demaniali, privati in abbandono e fittabili, ecc. E analoga operazione dovrebbero condurre per il patrimonio edilizio e abitativo. A queste stesse figure spetterebbe il compito di istituire dei tavoli di progettazione insieme alle forze sindacali, alla Coldiretti, alle associazioni e ai volontari presenti sul luogo. Se i dirigenti delle Cooperative si ricordassero delle loro origini solidaristiche potrebbero dare un contributo rilevantissimo a tutto il progetto. Sappiamo che a questo punto si leva subito la domanda: con quali soldi? E’ la risposta più facile da dare. Soldi ce ne vogliono pochi, soprattutto rispetto alle grandi opere o alle altre attività in cui tanti imprenditori italiani e gruppi politici sono campioni di spreco. I fondi strutturali europei 2016-2020 costituiscono un patrimonio finanziario rilevante a cui attingere. E per le Regioni del Sud costituirebbero un’occasione per mettere a frutto tante risorse spesso inutilizzate.
E qui le forze della sinistra dovrebbero fare le prove di un modo antico e nuovo di fare politica, mettendo a disposizione del movimento i loro saperi e sforzi organizzativi, le relazioni nazionali di cui dispongono, il contatto coi media. Esse possono smontare pezzo a pezzo l’edificio fasullo della paura su cui una destra inetta e senza idee cerca di lucrare le proprie fortune elettorali. L’immigrazione può essere trasformata da minaccia in speranza, da disagio temporaneo in progetto per il futuro. Così cessa la propaganda e rinasce la politica in tutta la sua ricchezza progettuale. In questo disegno la sinistra potrebbe gettare le fondamenta di un consenso ideale ampio e duraturo.
il manifesto
Cosa è successo alla politica che non comprendiamo? Perché dopo il grande successo referendario siamo arrivati a un governo che si annuncia inquietante? E perché la sinistra è diventata così tanto odiosa agli occhi della gente? In politica non è dato il lutto, quella fase di ripensamento doloroso necessario per metabolizzare gli errori e riprendere a vivere; il lutto richiede tempo, il tempo del lutto: kairos lo chiamavano i greci; un lutto collettivo è impensabile dati i tempi della decisione che ha una ricaduta immediata sulla vita delle persone in carne ed ossa (immigrazione, ius soli, scuola, ecc.).
Che fare dunque? Riazzerare tutto? E chi ci garantisce che non si ripercorrerebbe la stessa strada andando incontro agli stessi problemi e alla stessa tragica sorte? Eppure, come ha affermato Gaetano Azzariti (il manifesto del 24 marzo) un popolo cosciente, in occasione del referendum, era sceso in campo contro la stessa volontà dei partiti, aveva riempito le piazze e i luoghi della discussione pubblica, un popolo scomparso il giorno del voto. I partiti vincenti rappresentano solo la pancia del paese e interpretano strumentalmente le esigenze degli abitanti.
Per la sinistra un partito non c’è più, si è progressivamente prosciugato, scolorito inseguendo le magnifiche sorti annunciate dal neoliberismo, la sua ideologia dei consumi e dell’individuo fai-da-te. E’ diventato incolore, sbiadito, un sepolcro imbiancato da cui la vita (politica) è sfuggita per andare altrove, per riempire il bottino elettorale dei 5stelle o addirittura della Lega.
Perché a sinistra del Pd, bisogna ammetterlo, non è nato nulla che possa dare una speranza (se non un modesto terreno residuale di LeU e Potere al Popolo). La stessa parola sinistra è diventata odiosa: sei ancora di sinistra? Ti senti spesso dire come fossi una reliquia del passato, come se ancora ascoltassi le canzoni di Tony Dallara e i suoi gorgheggi a singhiozzo.
Resta una sinistra sociale disorganizzata che non ha rappresentanti, afona, dunque inefficace politicamente. Bisognerebbe dare fiato a questa sinistra sociale, l’unica che non arretra, che è molecolarizzata nelle pratiche quotidiane, negli episodi di solidarietà ai migranti, nell’accoglienza, nella produzione di cibo buono non adulterato, nelle scuole, nelle università.
Il referendum lo ha dimostrato: sono molti di più di quanto crediamo, sono un popolo. Ma quando si arriva al voto essa si disperde, cerca i suoi rappresentanti in ordine sparso, perde la sua carica antagonista, si sfibra, muore sciogliendosi nell’informe o nella regressione.
La sinistra sociale non chiede un partito, non almeno di quelli che abbiamo conosciuto nella storia; purtroppo la sua forza è proprio questa: aver metabolizzato e capitalizzato l’esaurimento dei partiti (ancora una volta il referendum lo ha dimostrato).
Oggi nessuno andrebbe più a una manifestazione indetta da un partito; il popolo invece partecipa in massa a manifestazione contro il razzismo, contro il femminicidio, contro la “buona scuola”, per la ricerca, per l’inquinamento, per il consumo di suolo e la cementificazione progressiva di coste e territori.
Dunque una sinistra c’è, è al lavoro ogni giorno, prende iniziative lontano dai partiti, ma evapora quando si tratta di rappresentarsi nelle forme tradizionali.E’ un’indicazione di lavoro politico.
il Fatto Quotidiano
Avantage de la science, J-J Grandville |
Non ha tratto insegnamenti da questo apologo il legislatore che ha obbligato tutti gli studenti d’Italia a devolvere un numero assai elevato di ore (200 nei licei, 400 negli istituti secondari d’altro tipo) ad attività professionali non retribuite: attività che in molti casi non solo distraggono energie e concentrazione, ma, svolgendosi durante l’orario di lezione, portano i giovani a perdere ore d’insegnamento, configurando classi “à la carte” in cui di giorno in giorno si vede chi c’è (il lunedì 3 studenti sono dal tornitore, il martedì tornano quelli ma mancano i 5 che sono in biblioteca, e il mercoledì invece altri 2 che vanno in aeroporto). Con quale profitto per l’insegnamento frontale (ormai ritenuto un optional, non teso alla formazione di cittadini consapevoli, ma giustificabile solo in quanto propedeutico a un – peraltro fantomatico – lavoro specializzato), è facile immaginare.
Questo è il sistema che la “Buona scuola” renziana (legge 107/2015) ha introdotto sotto il nome altisonante di “Alternanza scuola-lavoro”, provando goffamente a mettere a sistema alcune splendide esperienze che non avevano alcun bisogno di diventare obbligatorie per tutti: se un istituto elettrotecnico toscano o un avanzato convitto del Friuli avevano avviato da anni benemerite collaborazioni con imprese interessate a formare da subito i propri futuri lavoratori, bastava tutelare quelle esperienze e promuoverle nei giusti limiti, non imporre a un liceo classico campano o a uno scientifico del trevigiano d’inventare improbabili convenzioni con aziende che finiscono per “fare un favore” alle scuole prendendo dei giovani a fare, gratis, lavori di contorno. Il tutto - lo ha denunciato abilmente Christian Raimo - senza che sia chiaro a nessuno il disegno pedagogico sotteso, sepolto in formule burocratiche del peggior gergo, e in griglie in cui si valuta l’ “imparare a imparare”, l’assimilazione della “cultura d’azienda” e simili amenità.
Dopo aver sancito ufficialmente la svalutazione dell’apprendimento tramite lo studio (ove mai, in una società come la nostra, qualche giovane ancora vi credesse), e aver indotto l’illusione di un contatto con il mondo del lavoro laddove in realtà inculca da subito il principio del lavoretto a gratis, l’Alternanza scuola-lavoro non ha finito di far danni: in queste settimane, infatti, in previsione della chiusura dell’anno scolastico e con particolare riferimento alle classi terminali, i Consigli di classe devono stabilire le modalità della valutazione di questa attività “on the job” (sic), che non ha una casella a sé stante (non è, per intenderci, una “materia” in più), ma deve rifluire e influire sulla valutazione disciplinare complessiva dello studente.
La Guida operativa del ministero in materia è, come spesso, poco chiara: prevede in sostanza che si acquisiscano le valutazioni in itinere dei tutor esterni (di norma, ovviamente, assai benevole: in molti casi tutti gli allievi hanno il massimo, così non si creano problemi), le autovalutazioni degli studenti (ovviamente positive, anche se poi, in via confidenziale, molti confessano di non aver fatto assolutamente nulla in quelle ore), e che poi il Consiglio di classe metta in opera strumenti di verifica (una presentazione di 10 minuti? una relazioncina di due pagine?) per giudicare e certificare un’attività che si è svolta per intero fuori dalle mura della scuola.
Accade così che alcune scuole decidano di formulare un voto (di norma alto) che andrà a far media con quelli della disciplina o delle discipline più “affini” al tema dell’attività lavorativa; altre, di spalmare il voto addirittura su tutte le discipline curricolari (non senza motivo: in molte griglie si prevedono voti su “competenze sociali e civiche”, “economia”, “lingua italiana”, “lingua straniera”, “scienza e tecnologia”, anche se - per dire - uno fa fotocopie o frigge patatine da McDonald’s); e in percentuali - per quanto riguarda il “far media” con i voti sudati nei compiti in classe o nelle interrogazioni - che ogni scuola decide a suo modo (50 e 50? 60 e 40?).
Anche per quanto riguarda l’esame di Stato, la valutazione delle esperienze di Alternanza scuola-lavoro finisce per innalzare la media con cui gli studenti vengono ammessi alla maturità, anzi il loro “credito scolastico”, come si dice oggi.
In una scuola in cui - come sa chiunque abbia insegnato un solo giorno – studenti e genitori spesso si alleano contro i docenti per rivendicare voti alti anche a fronte di uno scarso impegno, l’Alternanza scuola-lavoro rappresenta una svolta ideologica che mina alle fondamenta, anche in sede di valutazione dello studente, la credibilità di un sistema di trasmissione del sapere serio e non (posticciamente) orientato sulla sua presunta caratura professionalizzante.
Che qualche docente di italiano, di greco o di matematica, già sballottato fra mille moduli, registri elettronici e vessazioni burocratiche, continui a insegnare con passione in un contesto del genere, è ormai un vero miracolo.
José Saramago, figlio del popolo, diceva sempre di dovere la sua vena di scrittore al fatto di aver trovato nell’istituto tecnico che frequentava, in un angolo remoto del Portogallo, un professore di lettere serio, severo e preparato. Chissà se oggi gli avrebbe prestato altrettanto credito.
la Repubblica,
Nicola Sartor, accento sulla o come si addice «al figlio di un vicentino concepito a Trieste e partorito a Bolzano», è rettore dell’Università di Verona. 65 anni, economista. Nella città delle due destre, la Lega di Tosi e l’altra destra, l’Ateneo è indicato come una roccaforte - culturale della sinistra. «È il segno dei tempi», sorride, e spiega: «Sono un uomo di cultura liberale. Cattolico. Ho prestato servizio da indipendente come sottosegretario nel secondo governo Prodi. Ero in Banca d’Italia, mi chiamò Padoa Schioppa. Il mio compito era banale. Portare l’Italia fuori dalle procedure di deficit. Dovevo solo difendere il rigore finanziario. Le scelte politiche non competono a chi deve far tornare i conti. Non ero eletto, cosa che dà il grande vantaggio di non avere un collegio elettorale con interessi da difendere». Accetta di analizzare la condizione della sinistra ma lo fa, dice, da osservatore: «Da semplice cittadino elettore, la politica non è la mia competenza. Posso dirle però qualcosa delle politiche economiche».
Avvenire, 22 marzo 2018. I progressi dello "sviluppo" generano morte. Guerre, saccheggio delle risorse altrui per aumentare i profitti degli sfruttatori, disastri climatici prodotti da uno crescita energivora dei paesi del benessere sono i fattori del genocidio in atto
«L'emergenza riguarda 11 milioni di persone in più rispetto a un anno fa. Allarme in Myanmar, Nigeria, Repubblica democratica del Congo, Sud Sudan e Yemen»
Aumenta la fame nel mondo e mette sempre più a rischio la vita. Sono 124 milioni le persone in 51 Paesi (11 milioni di persone in più di un anno fa) che vivono una situazione di crisi alimentare acuta, tale da aver bisogno di un'azione umanitaria urgente. A far arretrare il pianeta, dopo decenni di politiche che avevano portato a un miglioramento, sono stati i cambiamenti climatici e i conflitti. È quanto emerge dal rapporto del Fsin, la Rete di informazione sulla sicurezza alimentare, elaborato da Ue e agenzie Onu e presentato a Roma nella sede della Fao.
il manifesto, 20 marzo 2018. L'illusione delle intelligenze artificiali. Una critica al mito di un'intelligenza distinta dalla carnalità della persona, e nella quale corpo e mente siano due entità indipendenti l'una dall'altro
Già nel 1984 il neurobiologo Antonio Damasio sconfessò questo mito con il suo celebre libro, L’errore di Cartesio, partendo dal famoso incidente capitato a Phineas Gage, l’operaio che sopravvisse alla ferita infertagli da un’asta metallica che gli trapassò il cranio da una parte all’altra.gran parte dei sentimenti umani originano da uno stato corporeo. Il rapporto indissolubile corpo-mente è l’esito di un lungo processo evolutivo durato milioni di anni. La scienza e la medicina occidentale, invece, trattano separatamente i due elementi, il corpo e la mente, come fossero indipendenti, come fossero parti separate, parti di una macchina banale, per usare l’espressione di von Foerster che chiamava medici e chirurghi semplici banalizzatori, al pari dei meccanici che riparano le auto.
Le emozioni o i sentimenti influenzano le nostre capacità raziocinanti e meno male che sia così! Quella intelligenza (semmai ci fosse) che non si fa condizionare dai sentimenti sarebbe una intelligenza fredda, incapace di comunicare con altri, astratta, incapace di comprendere il dolore, l’altruismo, la solidarietà, l’amore: l’algoritmo appunto.
Diceva Marcello Cini: «Il soggetto acquista “conoscenza” dell’oggetto di natura diversa perché non è più soggetto esterno, ma diventa un soggetto “interno” a un metasistema che lo comprende insieme all’oggetto, e questo coinvolgimento induce in lui, in quanto organismo integrato di cervello e visceri, un insieme di reazioni fisiche e mentali diverse da quelle che provoca in lui l’esperienza di chi descrive dall’esterno in modo che altri soggetti interagiscono con gli oggetti con i quali sono a loro volta coinvolti attraverso esperienze emotive» (Cini, 1999). Se fosse vera la dicotomia tra sentimenti e ragione, sarebbe una dicotomia allucinante che genererebbe mostri. Siamo invece un «impasto» evolutivo complesso tra capacità raziocinante e sentimenti, meschini o nobili che siano.
Queste semplici considerazioni mi sono venute leggendo l’articolo di Roberto Ciccarelli, Anche la-macchina-che-si-guida-sola di Uber uccide (il manifesto del 19 marzo) che descrive l’uccisione di un pedone che stava attraversando la strada da parte di un veicolo autoguidato, a Tempe, periferia di Phoenix. Ancora sopravvive il mito che una mente infallibile basata su un algoritmo sia più sicura di un’auto guidata da un umano, perché – dicono le ditte produttrici di tali veicoli – una distrazione umana può causare un incidente mortale.
Questo fallace mito è mantenuto in vita dalle grandi Corporation per battere la concorrenza degli avversari e mantenere alti i profitti. In quello che è il suo ultimo libro (Il supermarket di Prometeo, la scienza nell’era dell’economia della conoscenza, Codice edizioni, 2006), Marcello Cini si occupava di questo tema a lui caro, affermando che: «Il XXI secolo si sta sempre più caratterizzando come l’epoca in cui, grazie agli strumenti forniti dalla scienza e dalla tecnologia, la produzione e la distribuzione di beni materiali viene progressivamente sostituita dalla produzione e dalla distribuzione di un bene collettivo e non tangibile: la conoscenza, sia essa l’ultima frontiera della ricerca piuttosto che l’intrattenimento di massa. Tutto questo in nome di una presunta democratizzazione del sapere che però risponde ed è soggetta unicamente alle leggi di mercato imposte da un’economia capitalistica e sempre più invasiva. Ma c’è una contraddizione profonda fra la produzione di conoscenza frutto al tempo stesso di una creatività e del patrimonio culturale comune all’umanità intera attraverso un processo evolutivo non finalistico, e la crescita dell’economia che è finalizzata alla produzione di profitto».
la Stampa,
«Oggi manifestazioni di massa in tutto il Paese, Trump nel mirino. "Questo movimento sarà come il pacifismo mezzo secolo fa"»
Se la marcia fosse stata convocata, con la macchina del tempo, 50 anni fa, nel mitologico 1968, l’appuntamento sarebbe stato certo al West End, il bar di fronte alla Columbia University, dove la generazione beat di Allen Ginsberg intagliava versi sui tavoli di legno, e le speranze degli attivisti per i diritti civili e la pace in Vietnam si affilavano con una birra Budweiser.
Almeno finché Mark Rudd, lo studente di Columbia militante negli Students for a Democratic Society, Sds, che avevano approvato nel 1962 il Manifesto di Port Huron, redatto dal futuro marito di Jane Fonda Tom Hayden - giustizia e democrazia per il XX secolo - non lasciò il bar, per andare a cena pochi isolati a sud di Broadway, al Red Building.
Alla testa del corteo di New York, la giornata di contestazione è nazionale con un grande comizio a Washington, marcerà Alex Clavering, che nel 2020 si laureerà in legge alla Columbia. Alla radio del campus racconta «Quando ho sentito della sparatoria a Parkland, in Florida, ho pensato ai miei ragazzi, ho fatto l’insegnante in Malesia come borsista Fulbright. E se fossero caduti loro?». Alex non è andato al bar West End a ciclostilare come ai tempi delle «migliori menti della mia generazione» cantate da Allen Ginsberg nel poema «Urlo», e del resto il quartiere è mutato, tra sushi bar e palestre di Tai Chi, West End non esiste più, come Luncheonette, il bar edicola dove si faceva politica e il padrone serviva le uova al tegamino, scoprendo sull’avambraccio il numero tatuato ad Auschwitz. Ha preferito aprire una pagina Facebook con 30 amici, invitandoli all’impegno.
Quando Alex Clavering, con gli amici Julia Ghahramani, laureanda nel ’20, e Ankit Jain, avvocato l’anno prossimo, si fanno fotografare con la tradizionale felpa Columbia, felici sulla scalinata dell’Alma Mater, la statua di bronzo che dà le spalle alla vecchia libreria, hanno raccolto l’adesione di 25.000 newyorkesi, «saremo in strada con voi contro le armi», e la firma solidale di altri 75.000. Le radio locali ne hanno fatto degli eroi, con gli ospiti a ridere quando Alex, 26 anni, ammette candido: «Per capirci, io sono di gran lunga il più vecchio tra gli organizzatori». Per pagare le spese, assicurazioni comprese - sì, nelle proteste del XXI secolo occorre mettersi al riparo, se si rompe un vetro o ci si sbuccia un ginocchio, chi paga? - servono 100.000 euro e i ragazzi sono tornati online con un GoFundMe, sottoscrizione digitale, 22.000 già in cassa dopo una settimana, gli altri potrebbero essere coperti dal fondo dell’ex sindaco tecnocratico della metropoli, Michael Bloomberg, via la sua associazione Everytown for gun safety.
I cartelli in preparazione non denunceranno solo le troppe armi, in mano a chiunque, killer o squilibrati, con le stragi di odio o follia che innescano. Le femministe sfileranno contro la violenza in famiglia e gli stupri, le minoranze, sottobraccio ai compagni bianchi, ricorderanno la violenza che le armi infliggono alle comunità locali, i gay marceranno con le loro bandiere.
Alex, Julia e Ankit, futuri giuristi, sanno che l’America è divisa a metà, e che le 24 ore in cui il presidente Trump ha imposto tariffe a Pechino dichiarando guerra commerciale alla Cina, mentre le Borse cedevano e veniva cacciato il consigliere per la sicurezza nazionale, il moderato generale McMaster, sono state definite dall’esperto Ian Bremmer «il giorno peggiore in politica estera del XXI secolo». E le massime del nuovo consigliere per la sicurezza, il falco John Bolton, «Le Nazioni Unite? Mai capito a che cosa servano…», «Attaccare la Corea del Nord è ammesso dal diritto internazionale…» fanno il giro del web, spaventando.
Nel 2011 New York si riempì con i picchetti di Occupy Wall Street. Impressionato, l’ex presidente Bill Clinton commise un errore grave, definendo i pochi militanti senza programma o leader «l’evento maggiore degli ultimi tempi». Occupy svaporò in fretta, e un lustro dopo il Paese elesse Trump. Ora è alla prova un nuovo movimento: durerà oltre il 24, saprà diventare forza politica? Eleonore, 22 anni, bionda, studentessa di Kierkegaard, non ha dubbi: «È l’effetto magico di Trump. Un ragazzino della seconda media, per protestare contro le armi, rifiuta di farsi un selfie con lo speaker della Camera Ryan. Io alla sua età a stento sapevo cosa fosse la Camera! Guarda la mappa elettorale americana degli under 30, vedrai solo blu, il colore dei democratici. Perfino negli Stati da sempre repubblicani, vinciamo noi. Il movimento contro le armi sarà come il pacifismo o i diritti civili mezzo secolo fa, unificando una generazione. Come i nostri padri e nonni cambiarono allora l’America, così oggi la cambieremo noi. Il presidente non lo sa ancora, ma saremo noi, in piazza e nelle urne 2018 e 2020, a batterlo. Voi adulti sarete i primi a stupirvi, l’ho spiegato anche a mamma e papà».
Avvenire
Il Rapporto globale sulle crisi alimentari, diffuso ieri, ci sbatte in faccia un’amara realtà: la fame nel mondo continua ad essere una piaga irrisolta e, anzi, sta aumentando in maniera preoccupante. Al punto che ben 124 milioni di persone (l’equivalente di due Italie!) vivono in una situazione che necessita di «un’azione umanitaria urgente». Stiamo parlando di un fenomeno di portata globale, che dovrebbe essere – come fu negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso – almeno oggetto di mobilitazione nella società civile e nella Chiesa, per diventare priorità nell’azione politica. Oggi, invece, sulla fame nel mondo grava un silenzio mediatico pressoché assordante. Come scriveva nel lontano 1952 Josué de Castro, l’autore di Geopolitica della fame, «gli individui si vergognano così tanto di sapere che un gran numero dei loro simili muore a causa della mancanza di cibo che coprono questo scandalo col silenzio totale».
I dati sono così eloquenti nella loro drammaticità che dovrebbero scuoterci, non foss’altro a motivo del fatto che è evidente come un peggioramento delle condizioni di vita nei Paesi più poveri alimenti ulteriormente il flusso migratorio.
Se, infatti, sino a qualche anno fa – anche sull’onda dell’impegno per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio – la curva dei denutriti nel mondo andava lentamente calando, negli ultimi tempi si è assistito ad una pericolosa inversione: erano 80 milioni le persone nella trappola della fame del 2015, oggi sono un terzo in più. Solo nel 2017 sono aumentate del 15% rispetto all’anno precedente. Se le cose non cambiano, la situazione peggiorerà ulteriormente. Specie per l’Africa, il continente che, da questo punto di vista, appare più vulnerabile.
Colpa dell’aumento della popolazione? No, non è la demografia il cuore del problema, con buona pace dei neo-malthusiani. Serve un surplus di tecnologia? Male non farebbe, per aumentare la redditività dei raccolti. Ma, ancora una volta, non è questa la chiave decisiva. I dati dicono (e non da oggi) che i fattori decisivi, quando si parla di fame, sono le guerre e i cambiamenti climatici.
In entrambi i casi, siamo in presenza di emergenze figlie di comportamenti umani da cambiare radicalmente e non il risultato di fatalità da accettare passivamente. Sì, perché ormai sappiamo che anche i cambiamenti climatici sono in buona misura frutto di un’altra guerra, quella alla natura e ai suoi equilibri, all’ecosistema in cui l’uomo è inserito. Una guerra che sta prendendo una deriva che sa di follia.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha così commentato il Rapporto: «Sta a noi ora agire per rispondere ai bisogni di chi affronta ogni giorno la maledizione della fame e per affrontarne le cause alla radice». Già: servono interventi seri e organici, non (soltanto) sacchi di viveri da inviare quando in tv compaiono immagini strappalacrime di africani scheletriti.
Anche papa Francesco, qualche mese fa, in un messaggio alla Fao, aveva chiesto interventi radicali, partendo dal mutamento profondo degli stili di vita e delle politiche perché «fame e malnutrizione non sono fenomeni strutturali di alcune aree, ma sono la condizione di un generale sottosviluppo causato dall’inerzia di molti e dall’egoismo di pochi».
Ebbene, il monito vale per tutti: per i Paesi (occidentali ma non solo: è la Cina il primo inquinatore al mondo) che, sull’onda del consumismo, bruciano risorse ambientali come se un certo modello di mal-sviluppo fosse reversibile e privo di conseguenze.
Vale per chi, con le armi, fa affari d’oro sulla pelle dei poveri: aziende e governi del Nord del mondo (europei, Italia inclusa), ma anche – come ha denunciato di recente la rivista “Africa” – molti Paesi africani che hanno iniziato a produrre le proprie armi. autonomamente, con «aziende che sono cresciute fino a diventare veri colossi» dell’industria della guerra.
R.it ambiente, 21 marzo 2018. Chi non ce l'ha per nulla, chi poca, chi molta e sana e la beve, chi ce n'ha molto e l'imbottiglia e la vende, chi ce l'ha inquinata. Indovinate un po' dove stanno i ricchi, i ricchissimi, i benestanti sani e dove quelli inquinati, e dove stanno i poveri. È un giochino di malasocietà
«Si celebra in tutto il mondo ogni 22 marzo. L'allarme dell'Onu: da qui al 2050, se le risorse idriche non saranno gestite meglio, 5 miliardi di persone dovranno fare i conti con la carenza d'acqua per almeno un mese all'anno»
Le risorse naturali non sono distribuite in modo equo sulla Terra. E' così che nella parte povera del mondo centinaia di bambini muoiono ogni giorno a causa dell'acqua contaminata, mentre in Italia, dove l'acqua esce limpida dai rubinetti, l'imbottigliamento frutta miliardi alle aziende private, ma rende pochissimo alle Regioni che concedono le fonti. L'occasione per fare il punto è la Giornata mondiale dell'acqua che ricorre il 22 marzo. A istituirla, nel 1992, è stata l'Onu, che nei giorni scorsi ha lanciato il suo allarme: da qui al 2050, se le risorse idriche non saranno gestite meglio, 5 miliardi di persone dovranno fare i conti con la carenza d'acqua per almeno un mese all'anno.
L'emergenza, tuttavia, è già adesso ed è ancora più grave: ogni giorno oltre 700 bambini - ricorda l'Unicef - muoiono per malattie legate all'acqua non pulita e alle scarse condizioni igienico-sanitarie. Per 2 miliardi di persone l'accesso all'oro blu è ancora un lusso, e in sua assenza prolifera la morte. La mancanza d'acqua e di servizi igienici adeguati contribuisce alla morte di 1 bambino su 5 sotto i cinque anni, evidenzia Save The Children. L'acqua contaminata è uno dei maggiori vettori di malattie quali il colera, la dissenteria, il tifo, la poliomielite e la diarrea. Solo quest'ultima provoca ogni giorno il decesso di circa mille bambini con meno di 5 anni, 361mila in un anno. E' un grido d'allarme, quello che sale dal lato povero del Pianeta, che richiama tutti all'urgenza di attuare il sesto obiettivo Onu di sviluppo sostenibile: acqua pulita e servizi igienico-sanitari per tutti entro il 2030, sperabilmente molto prima.
Alle nostre latitudini, invece, l'acqua rappresenta tutt'altro tipo di bene: prettamente economico e custodito in tasche private. In Italia l'imbottigliamento crea un giro d'affari stimato in 10 miliardi di euro all'anno, con un fatturato per le aziende di 2,8 miliardi, di cui solo lo 0,6% arriva nelle casse dello Stato. I conti li fa un dossier di Legambiente e Altreconomia: i canoni di concessione pagati dalle imprese raggiungono al massimo i 2 millesimi di euro al litro, un costo di 250 volte inferiore rispetto al prezzo medio di vendita dell'acqua in bottiglia. Si propone quindi un canone minimo a livello nazionale di almeno 20 euro al metro cubico, cioè 2 centesimi al litro imbottigliato. L'aumento permetterebbe alle Regioni di incrementare gli introiti di oltre 200 milioni di euro all'anno: risorse utili per interventi in favore dell'acqua di rubinetto e per la tutela della risorsa idrica.
Articolo ripreso da R.it ambiente dalla pagina qui raggiungibile