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Terribili ombre di un passato che credevamo sepolto. Aveva ragione Bertold Brecht: il ventre che generò il nazismo è ancora fecondo.

La Repubblica, 20 dicembre 2015

In Danimarca si pensa di vendere a caro prezzo il biglietto di ingresso ai migranti. La ministra per l'integrazione Stoejberg ha presentato una proposta di legge per "espropriare" all'ingresso tutti i migranti di ogni bene al di sopra di una piccola cifra. Un pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni. Non del tutto inedito, tuttavia.

Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi.

Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del '900 questi morti sono rappresentanti con una info-grafica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen.

La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro?

La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia.

È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese. Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti.

Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso. Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore.

Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo. Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.

Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

«Nei poteri economici comincia ad affacciarsi la sensazione che proprio il governo dell’inesperienza, che pure sposa il loro programma massimo contro il mondo del lavoro, costituisce un fattore di blocco».

Il manifesto, 19 dicembre 2015

È solo l’economia reale che organizza l’opposizione al governo. Non certo il Movimento 5 Stelle, che mostra le intenzioni bellicose contro l’esecutivo della decostituzionalizzazione votando proprio per il giurista amico dell’Italicum. E festeggia per aver inviato alla Consulta un suo candidato moderato, un tempo politicamente vicino a Nicolazzi, il ministro che fece aprire uno svincolo sull’autostrada per raggiungere il paese d’origine.

E’ difficile stabilire se la maggiore fonte di inquietudine per il governo sia costituita dalle grane, per salvataggi, decreti e plusvalenze, in cui è incappata “la chierichetta” diventata ministro delle riforme, o dalla campana a ritmo lento che suona dalle parti di via dell’Astronomia. Il governo dei “senza retroterra” non è stato una buona idea uscita dal senno confuso dei poteri forti.

E ora anche la Confindustria certifica quello che tutti percepiscono nella loro vita reale. E cioè che “lo psicologo in capo”, che intrattiene il pubblico con le slide e con le barzellette lo distrae per spingerlo alla fiducia a comando, non ha combinato nulla di costruttivo. Anzi ha peggiorato le cose, al punto che gli industriali, incassato oro contante grazie alle generose decontribuzioni, ammettono che «l’economia italiana, anziché accelerare, sta rallentando».

Il mito della velocità, del cambiamento di passo, mostra la corda. E si rivela una pura invenzione volontaristica. Per l’uscita dalla crisi non basta una sterile invocazione magica priva di ogni efficacia reale. Dopo i sorrisi e le canonizzazioni del premier, la Confindustria deve ammettere che la ripresa non c’è, a dispetto di un intreccio di irripetibili congiunture internazionali straordinariamente favorevoli. E che, a confronto, la risposta offerta dal cacciavite di Letta era persino più efficace del trapano impugnato dal loquace rottamatore.

Ora gli studi della Confindustria parlano di «mistero» della stagnazione che mette in ginocchio l’Italia. Per gli industriali «il mancato decollo della ripartenza resta un vero rebus». Queste formule, che evocano l’ignoto, però sono l’estremo rifugio linguistico per non indicare chiaramente le responsabilità acclarate, che hanno un volto preciso: il governo della narrazione. Con bonus clientelari e con l’aggressione ai diritti del lavoro, l’esecutivo crede di surrogare l’adozione di politiche industriali di svolta.

Nei poteri economici comincia ad affacciarsi la sensazione che proprio il governo dell’inesperienza, che pure sposa il loro programma massimo contro il mondo del lavoro, costituisce un fattore di blocco. Un paese che versa in una «stagnazione secolare» non ha bisogno di uno “psicologo in capo” ma di una politica che poggi su altri interessi sociali rispetto a quelli dominanti. Non funziona la ricetta che unisce chiacchiera e precarizzazione del lavoro come fattore competitivo sostitutivo rispetto ai costi dell’innovazione tecnologica.

Qualcosa si sta precocemente rompendo nella costituzione materiale del renzismo. Le cronache di fallimenti delle banche amiche, di vendite allegre di teatri storici, di pratiche affaristiche scambiate con nomine pubbliche sub condicione, svelano la genesi oscura della fortuna dei soldati della rottamazione. Le ricostruzioni giornalistiche rompono il velo protettivo e rivelano una miscela di banche, massoneria deviata, amministrazione in appalto che ha scaldato i motori di una spettacolare scalata al potere.

Questi rampolli di famiglie in affari sono partiti dal controllo di una città-azienda, conquistata grazie al soccorso delle truppe di Verdini. E poi hanno racimolato le risorse per viaggiare in aerei privati e affrontare la sfida dei gazebo. Hanno raccolto i fondi necessari per edificare una potenza personale, per tessere rapporti opachi (consulenze, promozioni, incarichi) e dare l’assalto al governo.

Senza una colossale potenza economica-finanziaria-mediatica alle spalle, il sindaco di una città non sarebbe mai stato così influente da essere ricevuto dalla cancelliera tedesca. E senza l’avallo preventivo di potenze europee, il capo dello Stato non avrebbe accettato il cambio della guardia a palazzo Chigi, con la fine dei governi del presidente. Liquidata la porzione di classe politica di estrazione comunista e scacciato i sindacati dalla sala verde, i poteri influenti hanno a lungo gioito.

E però oggi che la gestione del potere si rivela un colossale fiasco, si apre una riflessione in seno alle spaurite classi dominanti. E un dubbio le divora: il governo dell’inesperienza che segue i dettami della Confindustria non sarà un ostacolo obiettivo alla rinascita economica? La questione l’aveva segnalata già Marx. Il quale scriveva che alla borghesia non conviene «un autogoverno di classe» e più funzionale ai suoi stessi interessi è il progetto di dotarsi di un ceto politico differenziato e autonomo.

La Confindustria deve ammettere che lo scambio tra contenuti economici della legislazione gestiti direttamente dalle imprese e gioco della comunicazione dato in concessione al rottamatore si rivela sempre più inefficace. Anche i poteri forti sono costretti a cimentarsi su un interrogativo di Weber. E cioè sono afflitti dal timore che del marketing come tecnica competitiva, che rinvia alla padronanza politica delle semplificazioni usate strumentalmente, con Renzi si esageri, sino a scivolare nel marketing come sostanza di una politica che smarrisce il senso della realtà, la complessità dell’agenda, la percezione della temporalità.

Rispetto alla metamorfosi del leader, che converte l’uso di ritrovati demagogici in politica della pura demagogia o capo istrione, Weber innalzava due antidoti: il partito strutturato, in grado di selezionare e controllare il capo, e l’esperienza accumulata entro un apprendistato nelle commissioni parlamentari. Entrambi questi correttivi in Italia sono saltati, ed è il solo paese europeo ad avere avuto tre premier non parlamentari in vent’anni.

Niente di formalmente illegittimo, ma un presidente del consiglio senza mandato parlamentare è la spia di una catastrofe del sistema politico. E un leader senza un apprendistato di partito è possibile solo in un sistema a traino populista investito da intensi momenti di antipolitica.

Dopo aver brindato al decesso della mediazione politica, i poteri economici tremano per i guai provocati da una classe dirigente improvvisata e vittima della comunicazione.

La sinistra europea ha abbandonato la critica del capitalismo ed ha abbracciato le teorie del neoliberismo proprio nella fase in cui il capitalismo provoca il massimo di disagio sociale. Perciò appare inevitabile, con questa sinistra, il rafforzamento della destra populista.

La Repubblica, 19 dicembre 2015

La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ». Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. «La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola – nel deserto intellettuale francese – che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».

Come spiega questa evoluzione della sinistra?

«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».

Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?

«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo – basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” – è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo ».

In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra?
«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale.

E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».

Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...

«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale – la “crescita”– sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto – e dunque di ogni profitto – è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».

Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?

«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».

Il manifesto, 19 dicembre 2015

Aveva detto: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e invece Matteo Renzi, subito dopo la chiamata di Barack Obama, ha annunciato da Porta a Porta (a questo punto la prima Camera del Paese) l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, di 450 soldati.

Una svolta del «disertore» Renzi, passata quasi sotto silenzio, anzi sotto banco. Perché si tratta di «stivali a terra», truppe sul campo, quelle che l’America non mette più in questa misura, tanto che delega l’appalto del presidio di guerra proprio all’Italia che si accoda così alla scia dei pesanti bombardamenti Usa nella regione.

Dopo le gravi responsabilità degli Amici della Siria (Stati uniti, Paesi europei, Turchia e petromonarchie del Golfo) che per più di due ani hanno destabilizzato questo Paese «perché Assad se ne deva andare», favorendo indirettamente e direttamente la nascita dello Stato islamico.

Andiamo in armi a Mosul per difendere l’importantissima struttura della mega-diga, ora ripresa dai peshmerga ma diventata famosa nel 2014 per lo sventolìo di bandiere dell’Isis che annunciava la sua estensione e visibilità dalla Siria alla provincia irachena di Anbar, proprio con la conquista di Mosul. Da dove infatti il «califfo» Al Baghdadi ha fatto il suo proclama al mondo. Una zona dunque ad alto rischio.

Che, pur accerchiata ma da eserciti quasi pronti a farsi la guerra fra loro, resta saldamente in mano alle milizie dell’Isis. Le stesse che approfittano anche del conflitto tra l’autorità centrale di Baghdad e il governo del Kurdistan iracheno impegnato nella separazione dall’Iraq e, sotto la guida di Barzani, a chiamare – assai poco fraternamente con i kurdi del Rojava e quelli del Pkk – in soccorso l’esercito turco, subito inviato da Erdogan. Per cominciare a farlo evacuare il governo iracheno ha dovuto presentare una mozione al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Ora l’Italia invia in quest’area di conflitto aspro con il nemico Califfato ma anche tra «alleati», centinaia di soldati a presidiare una zona che, nel prosieguo della guerra, diventerà peggio di Nassiriya.

Renzi aveva detto e ripetuto «senza una strategia non c’è intervento militare», e invece corriamo al seguito della strategia Usa mirata ai suoi dividendi di guerra e ad impegnare la più presentabile Italia in sostituzione dell’improponibile Sultano atlantico di Ankara. In Iraq, da dove ci siamo ritirati da anni. Mentre si apre anche la possibilità di un intervento in Libia, ora che, divisa e in guerra civile, vede la firma dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk per un governo di carta che chiami truppe occidentali a definire hotspot «sicuri» per recintare la disperazione dei profughi.

Non solo ci appaltano una guerra, ma annunciamo che lo facciamo per un appalto. Per la ditta di Cesena, il Gruppo Trevi, che avrebbe dovuto avere una committenza milionaria per la sistemazione della diga di Mosul, ma ancora non ce l’ha. E allora corriamo manu militari per il made in Italy in concorrenza con gli interessi tedeschi per lo stesso subappalto. Finalmente una chiarezza: stavolta non è una guerra «umanitaria» ma d’affari.

Un altro sbattimento di tacchi, un altro signorsì di Matteo Renzi dopo la decisione di estendere, su richiesta della Casa bianca, la missione militare italiana in Afghanistan, dove siamo in guerra con la Nato da «soli» 14 anni contro il nemico talebano che resta sempre all’offensiva. Presa a ridosso della strage Nato dell’ospedale Msf di Kunduz e nello stesso giorno in cui il neo-premier canadese Trudeau ritirava il contingente di Ottawa. Insomma, da un appalto all’altro.

Il Parlamento europeo approva una risoluzione sulla trasparenza nell’export bellico. potente contributo del mondo nordatlantico alle fortune militari del Daesc. Naturalmente l'Itslia è in buona posizione tra i mercanti di morte.

Il manifesto, 18 dicembre 2015
Opaco, maneggevole, smontabile come nei film di spie hollywoodiani, il fucile di precisione BushmasterX152S, è pubblicizzato in America, dov’è prodotto, come «l’arma perfetta per un killer». Nei video di propaganda più recenti è esibito anche dai guerrieri del Califfato come un gioiello crudele o il regalo di un Babbo Natale nero.

Molte altre armi nuove, luccicanti, non vecchi ferri in dotazione all’esercito iracheno, arrivano all’Isis da paesi impegnati a combatterne l’avanzata, almeno ufficialmente: missili anticarro Milan prodotti in Belgio o in Francia, mortai turchi, fucili tedeschi, batterie anti-aeree statunitensi, tank russi, pick-up d’assalto coreani. È ciò che documenta il rapporto pubblicato tre giorni fa da uno dei più importanti centri di ricerca internazionali sui traffici di armi e munizioni: «Taking stock, the arming of Is», prodotto dall’Armament Research Services con Amnesty international, che cerca di ricostruire gli approvvigionamenti di armamenti, leggeri e pesanti, in dotazione ai tagliagole del Califfato.

E girano per l’Europa denunce specifiche contro governi, come quello inglese, accusati di aver autorizzato la vendita di sofisticati fucili da cecchino, con binocolo ottico all’avanguardia, all’Arabia Saudita che — è dimostrato — sono stati usati per reprimere nel sangue manifestazioni civili durante le primavere arabe in Yemen.

Sfavillanti fucili sniper sono serviti allo stesso brutale scopo, nel Bahrein, ed erano di fabbricazione italiana, modello Beretta, anche se prodotti dalla consorziata finlandese Sako. E dopo la denuncia di Amnesty sono stati interdetti dal governo della Finlandia.

Le ong indipendenti, insomma, stanno dando battaglia sulla tradizionale oscurità che ammanta i traffici delle industrie armiere, tanto che la questione è approdata a Strasburgo, dove ieri in seduta plenaria il Parlamento europeo ha approvato un codice di regolamentazione in otto punti per migliorare la trasparenza e i controlli sull’export di armamenti convenzionali e tecnologia militare dall’Ue verso paesi terzi.

Stante il pilastro che la gestione di questo tipo di commercio è — e resta, come da trattati — appannaggio degli stati nazionali, gli eurodeputati hanno convenuto che in una mutata situazione geopolitica, sempre meno stabile, soprattutto per quanto concerne i paesi confinanti e vicini, specialmente mediorientali, l’export incontrollato di armamenti potrebbe mettere a rischio la sicurezza dei cittadini europei, oltre a non corrispondere al rispetto dei diritti umani.

Pertanto la risoluzione – approvata con 249 sì, 164 no e 128 astenuti – pur non essendo vincolante e non prevedendo sanzioni per chi non vi ottempera, invita caldamente gli stati membri a rendere maggiormente trasparenti le licenze alla vendita di armi, ribadisce gli standard minimi di limitazione approvati in sede Onu, e arriva ad ipotizzare una autorità garante o quanto menouna relazione annuale sulle esportazioni di armi da parte delle autorità dell’Unione, che — piccolo particolare — si conferma il primo esportatore al mondo di prodotti per la guerra, dagli elmetti con visore termico agli stabilizzatori di mira e quant’altro.

L’Italia non è affatto in fondo alla lista come al solito.

Anzi, primeggia in questo caso (come si vede dal grafico a torta dell’ultimo rapporto dello Stockholm institute of peace research, altro importante centro di ricerca) con un 3% dell’intero volume di affari del settore nel 2014 (26 miliardi solo verso paesi terzi), percentuale quasi doppia rispetto della Germania.

E con l’industria di Stato — Finmeccanica, 64% delle autorizzazioni italiane — salda nella top ten delle corporation armiere.

Anche se nel 2014 sono i produttori emergenti a guadagnare di più in un mercato abbastanza statico: Turchia, Brasile, Corea, India. La Turchia con le nuove aziende Tai e Aselan, dice il rapporto Sipri, oltre l’autosufficienza ha una «esportazione particolarmente aggressiva».

Anche l’Onu sta cercando di vincolare maggiormente il commercio di armi e una decina di giorni fa il trattato Att, di cui l’Italia figura tra i proponenti, ottenendo oltre 50 firme, è diventato giuridicamente vincolante.

L’Att imporrebbe parametri di riferimento per valutare le autorizzazioni all’esportazione: dagli embargo, al rispetto della convenzione di Ginevra e all’esclusione dei paesi destinatari coinvolti in conflitti, al rispetto dei trattati sulle mine anti-uomo. Finora l’Att è stato approvato da 157 paesi con 26 astenuti (tra cui Iran, India, Egitto, Russia, Siria e paesi del Golfo).

Washington l’ha firmato ma non ratificato

Intervista di Emilio Randacio al giudice Giuliano Turone: «Bisogna ricordare cosa è stato questo paese nel dopoguerra. Dallo sbarco degli alleati in Italia, c’é stata una sorta di investitura da parte degli americani in Sicilia, di uomini di Cosa nostra».

La Repubblica, 17 dicembre 2015 (m.p.r.)

Ma chi e stato Licio Gelli? Cosa ha rappresentato il gran Maestro della Loggia Massonica P2? Per rispondere, forse, non ci sono parole migliori se non quelle di Giuliano Turone, il giudice di Milano che insieme a Gherardo Colombo, nel marzo del 1981 ordinò alla Guardia di Finanza di perquisire Castiglion Fibocchi, dove venne trovata la lista della P2. Gelli? «Il grande notaio di un sistema di potere occulto».

Cosa ricorda di quel giorno, dottor Turone?
«Quando la Finanza ci chiamò per dirci cosa aveva trovato, la nostra prima reazione fu di estrema attenzione, perché non pensavamo di trovare tutto quel materiale. Stavamo indagando sull’omicidio di Ambrosoli e sul rapimento “fasullo“ di Michele Sindona. I contatti tra il banchiere e Arezzo erano stretti, e da qui la perquisizione».
Cosa venne sequestrato quel giorno?
«Una quantità di carte impressionante. C’erano le liste della P2, certo, ma non solo. C’erano buste sigillate con la sigla di Gelli che contenevano documenti con dentro i misteri della storia d’Italia, molti dei segreti di cui Gelli era il grande custode».
Fino a quel giorno cosa si sapeva della loggia P2?
«Si sapeva che esisteva una loggia di cui faceva parte sia Gelli che Sindona, ma non di questa importanza. Quando abbiamo scoperto che nell’elenco comparivano ministri e capi dei Servizi, abbiamo deciso di comunicarlo a Palazzo Chigi».
Quando avete scoperto l’importanza di quel ritrovamento, cosa avete fatto?
«Il giorno stesso abbiamo deciso di trasferire immediatamente a Milano le carte per fotocopiarle una a una in tre copie, tutte autenticate a mano da un cancelliere. Ci sono voluti giorni per completare il lavoro. Ricordo che per evitare depistaggi o sottrazioni, chiudemmo tutte le copie in tre diverse casseforti dell’ufficio istruzione. In agosto, l’inchiesta passò per competenza a Roma, ma nessuno, poi, riuscì mai a smentire nulla sulla genuinità di quei documenti».
Ma cosa è stata la P2, da quello che avete scoperto attraverso la vostra inchiesta?
«Uno strumento principe per creare meccanismi di potere occulti che prendeva decisioni di rilievo per le sorti del Paese. Questo non lo diceva solo la nostra inchiesta milanese, ma fa anche parte delle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi».
E Licio Gelli e stato il direttore di questo strumento?
«Gelli era il custode, non il grande capo. Lui era stato designato come il notaio di questo meccanismo».
Chi aveva interesse che il potere venisse gestito in questo modo occulto?
«Bisogna ricordare cosa è stato questo paese nel dopoguerra. Dallo sbarco degli alleati in Italia, c’é stata una sorta di investitura da parte degli americani in Sicilia, di uomini di Cosa nostra. Sono stati insediati anche sindaci che appartenevano a Cosa nostra e alla ‘ndrangheta. Questo perché c’era il timore che l’Italia diventasse un paese sotto il controllo di Mosca. Gli Usa, in questo senso hanno obiettivamente rafforzato Cosa nostra, che era intimamente collegata sia a Sindona che a Gelli. Dalle carte di processi dei primi anni ‘90, sappiamo che Licio Gelli dialogava con i capi palermitani della mafia.
«Gli incentivi monetari forniti alle imprese non si sono concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma hanno piuttosto favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti ‘permanenti’».

Sbilanciamoci.info, 17 dicembre 2015

Come risposta alla crisi del 2008, le economie della periferia europea hanno adottato politiche deflattive con l’obiettivo di recuperare competitività e far ripartire crescita ed occupazione. Il tutto in completa ottemperanza ai dettami della visione neoliberista che egemonizza l’agenda di politica economia europea. In Italia, la legge 183 del 2014, evocativamente denominata ‘Jobs Act’, ha svolto un ruolo chiave determinando uno storico cambiamento nell’equilibrio delle relazioni industriali.

Portando a completamento il percorso di riforma cominciato all’inizio degli anni 90, il Jobs Act ha sancito un definitivo livellamento verso il basso delle tutele dei lavoratori. Le più rilevanti modifiche introdotte dalla legge riguardano: i) l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale a ‘tempo indeterminato’, pensata per divenire la forma prevalente nel sistema italiano, che elimina ogni obbligo di reintegro del lavoratore nel caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo oggettivo (tranne nei casi di dimostrata discriminazione o di licenziamento comunicato oralmente); ii) l’introduzione della videosorveglianza per mezzo di dispositivi elettronici – misura che ha dato adito a forti polemiche circa la violazione della privacy e delle libertà individuali; iii) la completa liberalizzazione dell’uso dei contratti atipici. In particolare, per i contratti a termine viene meno per i lavoratori il diritto all’assunzione a tempo indeterminato e al risarcimento monetario nel caso di superamento da parte dell’azienda del limite del 20% del totale dell’organico a tempo indeterminato. E’ stato inoltre aumentato il tetto al reddito percepibile tramite lavoro accessorio, incentivando di fatto l’uso dei voucher -rapporti di lavoro senza alcuna garanzia e tutela per i lavoratori- da parte delle imprese.

Il tema più dibattuto della legge 183/2014, sia sul piano politico sia su quello sindacale, rimane il ‘contratto a tutele crescenti’ che pone fine alla cosiddetta ‘tutela reale’ (racchiusa nell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, abrogato dal Jobs Act) quale attributo dei contratti “stabili e indeterminati”. I nuovi rapporti di lavoro così definiti, infatti, non possiedono la caratteristica della stabilità dal momento che il licenziamento senza diritto al reintegro è sempre possibile senza una giusta causa e, allo stesso tempo, enormemente meno oneroso per le imprese (l’obbligo è stato ridotto a un indennizzo di due mensilità per anno di lavoro al lavoratore licenziato).

Tuttavia, nominalmente il ‘contratto a tutele crescenti’ viene presentato come “indeterminato”. Tuttavia, l’indeterminatezza si risolve in questo: il lavoratore non sa quando esattamente si risolverà il suo rapporto di lavoro, ma sa che ciò può avvenire in qualunque momento se il datore di lavoro decide in questo senso. Inoltre, la Legge di Stabilità 2015 ha incentivato l’utilizzo del nuovo contratto attraverso la decontribuzione totale del costo del lavoro per le imprese per tre anni; un incentivo valido sia per le nuove assunzioni che per la trasformazione di contratti a termine (ma non di apprendistato) già in essere.

In un articolo appena pubblicato come working paper (prodotto nell’ambito del progetto europeo Horizon 2020 ISIGrowth), abbiamo proposto una valutazione preliminare degli effetti del Jobs Act. Quest’ultimo viene inquadrato quale tassello finale di un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro cominciato a metà degli anni ’90 e assunto come elemento cardine della politica economica italiana. Tale strategia si rifà ad un approccio di tipo neoliberale in nome del quale le ‘rigidità del mercato del lavoro’ – ovvero la presenza di sindacati, del salario minimo, della contrattazione nazionale o delle tutele reali contro il licenziamento – sarebbero le cause principali della disoccupazione persistente, del mancato incontro tra domanda ed offerta nel mercato del lavoro e, più in generale, delle deboli performance competitive delle economie.

I fatti stilizzati messi in luce nel working paper mostrano come la debole dinamica dell’economia italiana – in particolar modo per quel che riguarda occupazione e produttività – non appare invertirsi lungo tutto il periodo di liberalizzazione analizzato.

Tra il 1995 e il 2014, l’economia italiana è stata caratterizzata da esigui investimenti in Ricerca e Sviluppo, sia pubblici che privati. Tale dinamica ha indebolito la struttura industriale, rendendola sempre meno competitiva e capace di espandersi. La politica economica, piuttosto che affrontare le proprie criticità strutturali, ha scelto invece di inseguire pedissequamente la via della deflazione e della deregolamentazione del mercato del lavoro, senza interrogarsi sulla validità di tale scelta.

Ma il progressivo e costante alleggerimento dei vincoli ed il parallelo rafforzamento degli incentivi alle imprese non ha intaccato nessuna delle problematiche storicamente rilevanti del mercato del lavoro italiano: la relativa minor partecipazione delle donne al lavoro; la persistenza del tasso di disoccupazione giovanile; il forte divario tra nord e sud del paese circa la performance produttiva ed occupazionale. Non fa eccezione il Jobs Act.

Attraverso l’uso di dati, sia di fonte amministrativa che campionaria (Indagine sulle Forze di Lavoro), viene evidenziata l’inefficacia del Jobs Act nel raggiungere gli obiettivi previsti in termine di espansione dell’occupazione e di riduzione della quota dei contratti a tempo determinato. Lo stesso dicasi per la riduzione di quelli atipici.

I dati mostrano, infatti, come la gran parte dell’incremento occupazionale riguardi i contratti a tempo determinato. Al contrario, l’aumento dei contratti a tempo indeterminato è dovuto principalmente alla trasformazione di contratti a termine preesistenti e non alla creazione di nuova occupazione. In particolare, è importante sottolineare come gli incentivi monetari forniti alle imprese non si siano concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma abbiano, piuttosto, favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti ‘permanenti’. Questi ultimi, come già argomentato, solo virtualmente permanenti, contrariamente agli sgravi contributivi per le imprese, la cui portata nei bilanci è molto reale e tutt’altro che marginale.

Al netto di trasformazioni e cessazioni, dunque, i contratti a tempo indeterminato rappresentano una quota modesta, il 20% sul totale dei contratti stipulati durante i primi nove mesi del 2015. Inoltre, in termini di ore lavorate, i risultati lasciano emergere che i contratti part-time – per lo più dal carattere involontario – sono più numerosi proprio fra i tempi indeterminati piuttosto che fra i contratti a tempo determinato.

I dati dell’Indagine sulle Forze di Lavoro confermano come l’incremento dell’occupazione, dopo l’introduzione del binomio Jobs Act-decontribuzione, è sostanzialmente debole e, in gran parte, dovuto a nuovi contratti a tempo determinato. Inoltre, l’aumento più sensibile dei contratti a tempo indeterminato sembrerebbe aver interessato le coorti più anziane (oltre 55 anni) di lavoratori e non le coorti più giovani. L’occupazione giovanile e la variazione del tasso di inattività di questi ultimi sembrerebbe essere principalmente spiegato dalla recente introduzione del programma ‘Garanzia Giovani’ e dall’esplosione dei cosiddetti vouchers (come emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti di natura amministrativa).

I dati dell’Indagine sulle Forze di Lavoro mettono ulteriormente in luce l’incapacità del Jobs Act di rispondere ai compiti che era stato chiamato ad assolvere. Da questo punto di vista, il working paper ISIGrowth mostra come tra il primo ed il secondo trimestre del 2015, in Italia, il 35% dei disoccupati ha smesso di cercare lavoro, transitando dalla disoccupazione all’inattività. Un’evidenza che spiega, tra le altre cose, la riduzione del tasso di disoccupazione tanto decantata in questi mesi dal governo Renzi. L’insieme di evidenze disponibili e raccolte finora – confermate dalle più recenti rilevazioni Istat- testimonia come il trend di indebolimento della struttura occupazionale italiana non ha mostrato segni di inversione dall’introduzione del Jobs Act in poi. Quest’ultimo sembra invece facilitare lo spostamento di parte della forza lavoro italiana verso il settore dei servizi a scarso contenuto tecnologico (magazzinaggio, ristorazione e turismo), senza nessun incremento occupazionale nell’industria.

Questo elemento risulta di estrema pericolosità se legato agli effetti della crisi sulla struttura dell’economia italiana. In particolare, la significativa riduzione della capacità produttiva osservata fra il 2008 ed il 2013 e la sofferenza del settore manifatturiero segnalano la necessità di politiche industriali e interventi pubblici diretti a stimolare la creazione di produzioni – ed occupazione – stabili, qualificate e ad alta intensità tecnologica. La strada scelta dal governo italiano appare, tuttavia, opposta. L’aver scelto il Jobs Act, ovvero il definitivo smantellamento delle tutele dei lavoratori, quale elemento cardine della propria strategia di politica economica ha un unico significato: invitare le imprese italiane a competere abbattendo i costi (cioè i salari) disincentivando la strada dell’investimento in tecnologia, innovazione e formazione dei lavoratori.

In conclusione, il combinato disposto ‘Jobs Act’-decontribuzione si è rivelato, sin ora, inefficace in termini di quantità, qualità e durata dell’occupazione generata. Il potenziale effetto deflattivo di tali politiche, inoltre, rischia di contribuire ulteriormente all’indebolimento della struttura occupazionale ed industriale italiana, già gracile all’inizio della crisi del 2008 e pesantemente colpita da quest’ultima.

Lo "scandalo Boschi-Renzi" ha rivelato che, più che una truffa e una rapina, si tratta di un sistema di un programma di saccheggio sistematico dei poveri, dei medi e dei poco ricchi a vantaggio dei più ricchi e potenti.

ATTAC online, 18 dicembre 2015

C’è un piccolo paese dell’entroterra toscano, in cui un’intera comunità di 300 famiglie si è trovata in una notte con i risparmi di una vita totalmente azzerati. E con la drammatica scoperta che quel funzionario di quell’unica banca che incontravano tutti i giorni -che nella comunità locale era uno dei punti di riferimento cui affidarsi- li aveva coinvolti in un giro di investimenti ad alto rischio, finito nel peggiore dei modi. Naturalmente, quel funzionario non era diventato improvvisamente malvagio: stava solo cercando di eseguire al meglio il suo lavoro, essendo, ormai da anni, la sua efficienza contrattualmente misurata in base a quanti prodotti finanziari aveva collocato presso i propri concittadini.

Vero è che fino al 2009, quando una banca proponeva ad un cittadino un investimento in obbligazioni subordinate, aveva l’obbligo di comunicare gli scenari probabilistici dello stesso. Ma sono arrivati gli anni della crisi, e il mandato di Bankitalia ad una forte ricapitalizzazione delle banche ha spinto queste ultime, data la fuga dei classici investitori istituzionali, ad inondare i cittadini di prodotti finanziari: ed ecco allora la Consob eliminare prima l’obbligo di comunicazione degli scenari probabilistici, poi, dal 2011, persino la comunicazione facoltativa degli stessi.

Solo per fare un esempio, ai cittadini che hanno investito in obbligazioni subordinate della Banca dell’Etruria e del Lazio nell’ottobre 2013, nessuno ha comunicato una probabilità pari al 62,7% di perdere la metà del capitale.

E, naturalmente, quanto prescritto dalla normativa europea in merito alla profilatura del cliente, ovvero alla sua conoscenza e propensione agli investimenti finanziari, è stato facilmente aggirato, facendo risultare, nell’ultimo caso delle banche coinvolte, il 75% dei cittadini come grandi conoscitori degli strumenti finanziari.

Il via libera alle banche verso la spoliazione dei cittadini ha fatto da specchio alle contestuali gestioni del credito da parte delle stesse, che, in molti casi, le ha portate al fallimento.

Come sempre, ad ogni scoppio del bubbone, la prima reazione a tutti i livelli è lo scarico delle responsabilità verso l’anello superiore od inferiore della catena, a cui segue una levata di scudi generale in direzione di drastiche misure affinché non accada mai più. Fino all’ormai classica conclusione in cui il nuovo scandalo viene riclassificato nella categoria di ”mela marcia in albero sano”.

Che le cose non stiano affatto così ce lo dicono i dati: in questi ultimi 7 anni sono oltre 35 i miliardi fatti investire ai cittadini in obbligazioni subordinate e, mentre le quattro banche, ormai famose, vengono salvate dai provvedimenti governativi, sono ad oggi altre 12 quelle commissariate per gli stessi motivi.

Per farsi un’idea di cosa sia strutturalmente diventata l’attività di gestione del risparmio, basti vedere cosa scrive Consob (procedimento 20638/14) in merito all’attività di Poste Italiane, ovvero la società a cui si rivolge la parte più semplice dei risparmiatori: “vendite di prodotti in conflitto di interesse con la rete BancoPosta, strutture commerciali pressate per raccogliere volumi e incentivi legati al budget, forme di marketing scorrette, poche e ottimistiche profilazioni di clienti che permettevano al 74,5% di essi di sottoscrivere strumenti complessi (come le opzioni certificates su sottostanti cartolarizzati)”.

Siamo dunque di fronte ad una crisi di “sistema”, che, aldilà delle situazioni specifiche, può essere affrontata solo con proposte sistemiche. La prima delle quali non può che essere una legge che sancisca la netta separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, avviata con un immediato provvedimento di divieto totale di vendita di prodotti finanziari agli sportelli; in secondo luogo, occorre una drastica inversione di rotta sulla trasformazione delle banche popolari in SpA ed una loro reale riforma, che ne sancisca la territorialità, attraverso la gestione partecipativa dei lavoratori e delle comunità locali; il terzo filone non può che riguardare l’inversione di rotta sulla privatizzazione di Poste italiane e sulla trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti, da avviare con la separazione, e relativa immissione in un circuito pubblico, partecipativo e sociale, del risparmio postale; in quarto luogo, provvedimenti in favore del risparmio etico e della diffusione di tutte le esperienze, anche autorganizzate, che vanno in quella direzione.

Perché o si mettono in campo con la mobilitazione diffusa misure che disegnano un’altra società basata sulla mutualità cooperante, o niente e nessuno ci salverà da un modello che ci vuole tutte e tutti immersi nella solitudine competitiva.

«Draghi duro con l’Italia “Occupazione al palo Grecia meglio di voi”. “Due nuovi posti su tre sono precari”. “I conti pubblici deviano troppo e la vigilanza europea non funziona”».

La Repubblica, 18 dicembre 2015

Nelle pieghe dell’ultimo Bollettino della Bce, sempre molto cauto sulla ripresa che è debole e piena di rischi, ci sono diverse brutte notizie sull’Italia e il lavoro. L’Eurotower è dura. Dice per esempio che, da noi, l’occupazione è al palo mentre altrove in Europa aumenta; che la Grecia ha fatto meglio; che 2 su 3 dei nuovi posti di lavoro il 63% - sono precari, o a tempo determinato, o stagionale.

«Questo accade quando si fanno i provvedimenti avendo la presunzione di conoscere e non avendo il coraggio di confrontarsi sulla realtà» accusa il leader della Cgil Camusso. In realtà il Bollettino, nel citare quest’ultimo dato- politicamente tra i più sensibili- mette a confronto il secondo trimestre 2013 con lo stesso periodo del 2015 e dunque non può tener troppo nel conto il Jobs Act che entra in vigore a marzo. Sconta invece la decontribuzione, cioè l’esonero contributivo per i nuovi assunti a tempo indeterminato, scattato invece il primo gennaio.

Ma al di là dell’impatto delle riforme, dall’analisi di questi esperti emerge una Italia a passo di lumaca sul fronte del lavoro, mentre per esempio Germania e Spagna hanno contribuito per quasi due terzi all’incremento del numero degli occupati nell’area euro nel secondo trimestre. E come se non bastasse, da noi come in Spagna frena pure la crescita dell’occupazione femminile.

Il Bollettino Bce arriva all’indomani del rialzo dei tassi deciso dalla Fed e salutato con una certa euforia dalle Borse europee. Le piazze finanziarie Ue volano, di fronte al primo aumento del costo del denaro dal 2006. I listini corrono tutti, come fosse un rally, per poi rallentare nel finale con Wall Street. Milano da sola guadagna l’1,48% .

Gli analisi s’aspettano tre rialzi dei tassi nel 2016 da parte della Fed, sicura sulla salute dell’economia americana e certa di non intravedere rischi di recessione all’orizzonte, secondo le rassicurazioni del presidente JanetYellen.

La Bce di Mario Draghi, invecce, scatta un quadro più cauto: ci sono ancora pericoli per la crescita, rischi geopolitici legati alle incertezze dell’economia mondiale. L‘afflusso dei rifugiati potrebbe pesare sui bilanci di alcuni paesi, quali l’Italia, con un impatto sui conti pubblici dello 0,2%.

Ed è duro il giudizio della Bce sui bilanci pubblici. Con l’Italia, accusata di deviare troppo dalle regole, come anche il Belgio. Ma pure con le autorità Ue: la clausola sulle riforme strutturali e sugli investimenti, per esempio,introdotte dalla Commissione a gennaio «può ridurre in maniera sostanziale i requisiti di aggiustamento strutturale », per i paesi ad alto debito. La stessa vigilanza Ue sui conti è giudicata al dunque poco trasparente e asimmetrica.

«Continua l’azione del governo a sostegno della crescita e dell’occupazione in un quadro di progressivo consolidamento della finanza pubblica per il 2016», puntaulizza il ministro Padoan. Dal suo osservatorio inoltre la ripresa dell’economia italiana si sta rafforzando, nonostante lo scenario internazionale sia più difficile. «Se guardiamo a 12 mesi fa la situazione è radicalmente diversa. Occorre ora rendere la ripresa robusta per trasformarla da ciclica a strutturale ».

Una modificazione che farebbe bene anche al lavoro, sia italiano che europeo. Il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro «rimane elevato e, con l’attuale ritmo a cui si sta riducendo, occorrerà molto tempo prima che si torni ai livelli pre-crisi», è il monito del Bollettino. E più avanti: «Con circa 7 milioni di persone (5% della forza lavoro) che lavorano attualmente a tempo parziale per mancanza di un’occupazione a tempo pieno e con oltre 6 milioni di lavoratori scoraggiati (coloro che hanno rinunciato a cercare un’occupazione) il mercato del lavoro nell’area dell’euro rimane nettamente più debole di quanto indicato dal solo tasso di disoccupazione”.

«Il governo del grande inganno. La menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. E la democrazia rischia di andare in malora».

Ilmanifesto, 17 dicembre 2015, con postilla

La politica in democrazia si affida a due funzioni fondamentali: l’esercizio di un potere legittimo (fondato sul consenso della maggioranza) e la produzione di narrazioni pubbliche. Il rapporto tra queste due funzioni costituisce un buon criterio di giudizio sulla qualità di un governo.

Quanto maggiore è la distanza tra l’una e l’altra (quanto meno attendibili sono le informazioni diffuse dal governo in merito ai propri obiettivi e alla situazione reale del paese), tanto minore è la legittimità sostanziale di un governo. Il quale si pone fuori dal quadro democratico se, nel perseguire i propri disegni, si affida alla menzogna politica, deformando per questa via l’esercizio della sovranità popolare. Stando così le cose, si può sostenere che il governo in carica è un esempio di violazione dei principi democratici, benché i critici che si ostinano ad affermarlo siano sempre meno numerosi (e sempre più rassegnati).

Naturalmente il governo Renzi è un paradigma di potere antidemocratico in primo luogo per i suoi obiettivi. Renzi e i suoi sodali non fanno altro, da quasi due anni, che attaccare diritti e condizioni materiali del lavoro dipendente, smantellando tutele giuridiche e contrattuali e conquiste salariali strappate in decenni di lotte. Non fanno altro che bombardare lo Stato sociale (la sanità; il sistema pensionistico, ormai tra i più iniqui d’Europa; i meccanismi di salvaguardia del diritto allo studio) e le condizioni di vita dei meno abbienti, circuìti con l’uso circense del denaro pubblico in funzione di mancia elettorale. Non fanno altro che spostare ricchezza verso l’alto a forza di privatizzazioni, misure fiscali anticostituzionali e regalìe varie, come quelle varate dal decreto salvabanche, che, con tutti i disastri che sta provocando, ha già fatto la fortuna dei nuovi vertici bancari e alla fine vedrà, come di consueto, l’intervento salvifico della Cassa depositi e prestiti. Non fanno altro, infine, che colpire le istituzioni fondamentali della democrazia rappresentativa dando corpo a un disegno autoritario che conferisce ogni potere all’esecutivo, cioè alla cricca dirigente del partito di maggioranza relativa (vale a dire al 15, 20 per cento al massimo del corpo elettorale).

Ma il governo Renzi è un caso estremo di violazione dei principi democratici anche per la distanza tra pratica e narrazione propagandistica. Qui sta forse la più grande differenza rispetto ai governi Berlusconi e alla destra in generale, che se non altro non ha mai nascosto di voler difendere sopra ogni altra cosa la «libertà» dei privati, cioè proprietà, patrimoni e privilegi. Anche Renzi capeggia un governo di destra; realizza politiche di destra; trasforma il paese in base a un disegno schiettamente di destra. Ma – come a suo tempo Tony Blair – fa tutto questo da uomo «di sinistra». Agisce come capo di un partito che, per storia e ragione sociale, rappresenta, in linea di principio, la prima forza dello schieramento progressista. Ma mente sistematicamente, raccontando storie cucite su misura per quella parte della società, sempre più disorientata e depressa, che, continuando a pensarsi di sinistra, tende a prendere sul serio la fanfara propagandistica di questo governo.

Il mantra ossessivo del paese che finalmente «riparte» è la menzogna più odiosa, mentre le nuove povertà dilagano, soprattutto al Sud e tra i più giovani, di pari passo con la disoccupazione e la precarietà. È una bugia che fa il paio con lo slogan del capitalismo compassionevole di George Bush jr., con quel «nessuno sarà lasciato indietro» spudoratamente sbandierato mentre le ineguaglianze esplodevano nel cuore della metropoli capitalistica e la miseria si abbatteva su milioni di proletari.

Ma è soltanto la menzogna più clamorosa. Il governo e il suo «capo» mentono su tutto. Promettono l’esatto contrario di quel che fanno in politica estera, mentre nulla, sui fronti di guerra in Nord Africa, in Medio Oriente e in Asia centrale, è cambiato rispetto all’«interventismo democratico». Raccontano un paese modello sul piano della difesa ambientale, mentre l’Italia registra il record europeo delle morti per smog e l’aria della Val Padana si conferma la più inquinata del continente. Vantano meriti inventati come la fine del precariato nella scuola o l’aumento di spesa nella sanità, mentre decine di migliaia di precari rimangono come sempre al palo e quasi ogni mese il servizio sanitario si vede costretto a nuovi tagli. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito.

Nulla di nuovo, si dirà. Salvo che la menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. Non è vero che, siccome l’uso mendace della comunicazione è da sempre un classico di questo governo (si può dire che è, insieme alla manutenzione delle lobbies, la principale occupazione di chi lo guida), allora in quest’ultimo biennio non è cambiato nulla. Siamo un paese sempre più confuso e sfiduciato, oltre che malandato e depresso. E la fiducia è un bene fragile oltre che prezioso: facile a disperdersi, difficilissimo a ricostruirsi. Solo che, senza fiducia nella politica e nei propri rappresentanti, è la democrazia stessa che rischia di andare in malora.

Quello della verità (della veridicità) in politica è un vincolo tassativo, che coinvolge pesantemente la responsabilità di tutta una classe dirigente. Il che chiama in causa, con Renzi e il suo governo, altri comprimari: la «grande stampa» in primo luogo, senza la cui quotidiana complicità questo gigantesco inganno non sarebbe possibile. E il Partito democratico tutto. Che non soltanto oggi permette a Renzi di fare il proprio comodo a danno del paese, ma gli si è consegnato due anni fa ben sapendo a cosa andava incontro. Senza contare – a dirla tutta – la parte avuta dai i suoi fondatori, già negli anni Novanta, nel Grande Trasformismo che ha lasciato il paese senza anticorpi contro la normalizzazione oligarchica neoliberale.

postilla

«Dire ciò che è, rimane l'atto più rivoluzionario», ha scritto Rosa Luxemburg. Fare il contrario è l'atto è più reazionario. Eppure tra l'Ottobre rosso e la Vandea c'è stata l'affermazione della borghesia e l'invenzione della democrazia liberale: avremmo almeno potuto fermarci lì, e invece anche quella hanno distrutto, dai Chicago boys e Pinochet e poi giù giù fino a Renzi.

Le contraddizioni tra le diverse volontà e i diversi soggetti che ambiscono a costruire una sinistra per il XXI secolo hanno condotto finora in un vicolo cieco. Come uscirne? Una proposta.

Il manifesto, 16 dicembre 2015

Per quanto brusca e ingloriosa, la fine del tavolo che discuteva dell’inizio di un processo costituente un nuovo soggetto politico della sinistra, merita qualche considerazione. Se non altro per capire se quel progetto è realistico e da dove ripartire, poiché rimettere insieme le gambe del tavolo è impossibile.

Si era partiti dalla semplice convinzione che non si potesse predicare una unità più ampia se in primo luogo le forze che avevano dato vita al risicato successo elettorale della lista dell’altra Europa per Tsipras non avessero esse stesse dato il via a un processo di unificazione e ricomposizione, superando le passate divisioni e scissioni. Un processo, non un atto singolo. Naturalmente un processo costituente è impegnativo perché chiama le forze che vi partecipano a raggiungere un obiettivo e a seguire una condivisa road map. Il suo fallimento non permette di riannodare il filo sulla bobina di partenza come se nulla fosse stato. Allo stesso tempo la delineazione di un percorso non prevede che tutti i nodi siano sciolti in anticipo, ma lungo il cammino. Come era scritto nel breve documento «Noi ci siamo, lanciamo la sfida», condiviso da tutti, anche da Civati prima di ricusarlo con una scelta unilaterale che però non metteva in discussione il progetto collettivo, tanto è vero che le porte del medesimo restavano aperte. Il dibattito condotto sul manifesto («C’è vita a sinistra») aveva articolato e approfondito la discussione.

Ma non si è riusciti a superare una doppia evidente contraddizione. Quella di chi pretende che non si formi un partito, ma nello stesso tempo non vuole sciogliere il proprio, come è evidente nella intervista a Ferrero su questo giornale (ieri, ndr). Quella di chi dice di volersi sciogliere, come Sel, ma vuole uniformare da subito i modelli di organizzazione di tutti, anticipando la costruzione di un gruppo parlamentare che secondo alcuni dovrebbe già essere immagine e sostanza del nuovo partito.

Sono stati avanzati tentativi di mediazione fra queste posizioni, come da ultimo quello di Act, ma senza successo. Il tentativo di abbellire questa modesta polemica facendo riferimento alla modellistica europea o latinoamericana con cui si sono organizzate le forze della sinistra, lascia il tempo che trova, sia perché quelle forme organizzative hanno origini in tradizioni, culture e processi storici assai diversi, sia perché in esse hanno agito singolarità irripetibili di donne e uomini. Ogni processo reale non può che essere originale e per darvi vita ci vuole una buona dose di coraggio intellettuale e politico che finora è mancata. Non ci si è voluto tagliare i ponti alle spalle, anzi si è pensato di fortificarli, dando più l’impressione di preparare vie di fuga che non di camminare verso una meta condivisa.

Se la necessità di un nuovo soggetto politico della sinistra non viene messa in discussione, almeno a parole, è però chiaro che la strada per perseguirlo va cambiata. Dal fallimento del tavolo nessuno può trarre la conclusione di andare avanti da solo e parlare in nome di quel progetto. Non andrebbe lontano e originerebbe nuove fratture. Un’eterogenesi dei fini. Se la crisi della rappresentanza politica è così forte da coinvolgerci direttamente, vedo solo due possibilità.

Da un lato si tratta di impegnarsi attorno alle questioni teoriche e politiche che presiedono la formazione di un nuovo soggetto. Come l’analisi del moderno capitalismo finanziario globale e i progetti portanti di una società di alternativa. Qui incontriamo la questione del Pd e della socialdemocrazia europea. Non si tratta di negare la sempiterna necessità di una politica di alleanze, ma di spezzare la gabbia delle coalizioni. Quindi di fare i conti definitivi con il centrosinistra.

Il pasticcio delle primarie milanesi dice che questo nodo non è sciolto. La nostalgia dell’ulivismo è fuorviante. Fu in realtà la degenerazione del Pd a seppellirlo. Il Pd catch all senza il governo non è nulla. La distruzione e la neutralizzazione dei corpi intermedi della società — che coinvolge anche il sindacato, da qui le difficoltà anche della coalizione sociale — comincia da se stesso. Stabilire un’alleanza strategica con il Pd vuole dire diventare satelliti dell’attuale sistema di potere.

Dall’altro lato, dobbiamo rendere persone e movimenti protagonisti di liste alternative di sinistra nelle prossime amministrative. E soprattutto concentrarci nella battaglia referendaria, sul referendum costituzionale (che deciderà anche della vita dell’attuale governo) come sulla raccolta delle firme per i referendum sociali. Non è irrealistico pensare che nel corso di queste battaglie emerga nuova linfa vitale per fare ripartire su basi più larghe e più solide il processo per un nuovo soggetto della sinistra.

Cronaca e commenti sulla Leopolda di Sandra Bonfanti (la Commissione potrebbe sevire se...) e Alessandro Robecchi (il rito renziano). Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)



BANCHE,
PERCHÉ SERVE LA COMMISSIONE
di Sandra Bonfanti

Sono d’accordo con tutto quello che ha scritto Roberto Saviano. Sono convinta che questo governo sia nel mezzo di un conflitto di interessi grande come il buco che si è inghiottito i risparmiatori beffati. Sono anche sconvolta da quell’atteggiamento di sfida, quell’aria di serena attesa del futuro, quell’arroganza del potere, quell’attacco alla libera informazione che abbiamo visto regnare all’interno della Leopolda. E sono sconvolta infine dagli applausi che hanno accompagnato ogni riferimento al potere conquistato. Fuori aspettavano di potersi avvicinare. Con i loro tristi cartelli, in mezzo al traffico di auto e bus, nell’aria irrespirabile di una delle città più inquinate, i truffati dalle banche. In tutti i sensi.

Le mozioni di sfiducia riusciranno a qualcosa? Di solito i ministri colpiti ne escono vincitori. Ma questa volta è diverso. È diverso anche perché quella risposta del premier «faremo una commissione d’inchiesta» è a dir poco patetica. Ricordo ancora Bettino Craxi presidente del Consiglio che usciva da un incontro con Sandro Pertini durante uno dei molti scandali che già allora assediavano la Repubblica. Passò tra noi giornalisti e disse quella frase rimasta celebre: «Tanto quando non si vuole arrivare a niente si fa una commissione d’inchiesta» e se ne andò col sorriso di chi la sa lunga. Non è proprio così.
Una commissione servirebbe sì se fosse seria. Ma nella storia politica italiana ce ne sono state poche. Alla fine sono sempre prevalsi gli interessi politici sulla verità, all’insegna di un “salviamoci tutti”, “noi vi salviamo i vostri e voi salvate i nostri”. Non succederebbe così anche oggi? Se fosse seria la commissione d’inchiesta si proporrebbe non solo di sapere come sono andate le cose nelle quattro banche, non solo di certificare se e semmai chi ha guadagnato con operazioni del tipo di insider training (di quelle che negli Usa, ad esempio, prevedono pene da mettere i brividi) non solo se e quanti conflitti di interesse si sono aggirati nei mesi del governo Renzi, ma, se fosse seria la commissione d’inchiesta farebbe luce sul lato oscuro della vicenda, cioè sulle voci che da tempo indicano in questa ed altre banche una concentrazione massonica insidiata soltanto da Cl e Opus Dei.
È vero o non è vero? È vero che in Toscana tutto è così. È vero che anche Verdini rientra in questa categoria? È vero che anche il Monte dei Paschi è una storia di questo tipo? E via dicendo. Ecco: se funzionasse, la commissione su Banca Etruria e le altre, bisognerebbe che facesse luce una volta per tutte. È verosimile, questo? Penso di no, a meno che la pressione dei cittadini ingannati non faccia il miracolo. A meno che la si smetta di sghignazzare e si cominci a capire che la vita è qualcosa di più serio di un gioco di ragazzi, anche se sono quelli della Leopolda.
Nella relazione finale della commissione Anselmi si legge: «A completare il quadro concorrevano inoltre, i contatti emergenti con esponenti di numerose banche pubbliche e private per alcune delle quali le presenze (nella loggia P2, ndr) erano particolarmente significative per qualità e rappresentatività, come per la Banca Nazionale del Lavoro (quattro membri del consiglio di amministrazione, il direttore generale, tre direttori centrali di cui uno segretario del Consiglio), il Monte dei Paschi di Siena (il Provveditore), la Banca Toscana (il direttore centrale), l’Istituto centrale delle casse rurali e artigiane (il presidente e il direttore generale), l’Interbanca (il presidente e due membri del Consiglio), il Banco di Roma (due amministratori delegati e due membri del consiglio di amministrazione). Infine: il Banco Ambrosiano col presidente e un membro del consiglio di amministrazione. Soltanto il Monte aveva fatto in seguito una inchiesta che mise in luce “casi di trattamento di favore»: Allora…

Si può fare nell’Italia di oggi una inchiesta seria sulle banche? Sarebbe la miglior risposta... ma Bettino Craxi docet, ancora. La generazione Leopolda sorride, ci sarebbe da vergognarsi.


“PANETTONE O PANDORO?”
IL “MOOD” DEL “QUESTION TIME” STILE LEOPOLDA

di Alessandro Robecchi
Ho perso il treno per Firenze e non me lo perdonerò mai. Avrei potuto essere tra quei giovani virgulti chiamati a fare le domande ai ministri del governo, nello showroom delle idee di Matteo Renzi. Per esempio, adeguandomi al clima di aspro confronto, avrei potuto chiedere alla ministra Boschi: «Parliamo un po’ di suo padre. Alla mattina, caffelatte o ginseng». Bisogna avere coraggio quando si fanno domande ai potenti. Matteo Renzi lo aveva detto: «I ministri saranno interrogati dai partecipanti alla Leopolda in un modo innovativo e divertente», e in effetti ci siamo divertiti.
Abbiamo in action quello che si vorrebbe dalla libera stampa. Niente che non si fosse già sentito nelle polemiche sui cattivi talk show o nelle solite lamentazioni contro “i giornali” (e questo in particolare), ma insomma, vedere così plasticamente rappresentato il sogno del «giornalismo di rinnovamento» (copyright Marianna Madia) è stato istruttivo. Ecco, avrei voluto essere lì, adeguarmi, entrare nel mood lepoldo: «Caro ministro dei Trasporti, e del cambio Shimano che mi dice? Lei ce l’ha sulla bicicletta?». Nei casi estremi, tipo con il ministro Poletti, mi sarei limitato, come fanno i professori umani, a dire: «Mi dica un tema a sua scelta», certo che quello si sarebbe incasinato da solo.
Per farla breve: esiste una linea invisibile superata la quale la propaganda diventa autocaricatura, spesso è una linea sottile, difficile da individuare, ma va dato atto agli strateghi renzisti di aver superato quel confine di alcuni chilometri. Alla Leopolda mancava la piramide di Panseca, quella che rese monumentali (e poi monumentalmente ridicoli) i tronfi trionfi craxiani. Ma il resto c’era tutto, compresa la lezione di question time come lo desidererebbe qualunque potente sulla terra: “Compagno Stalin, ci conferma che nei gulag si mangia benissimo?”.
Ora, su tutto questo si può fare satira e umorismo, ma come restare indifferenti alle vicende umane? Come non provare un moto di tenerezza per quei giovani chiamati ad agevolare le passerelle ministeriali con il loro umile lavoro di comparse? Uno si può immaginare l’angoscia della vigilia, la febbrile compilazione delle domande, i mille dubbi: non avrò osato troppo? Non sembrerò scomodo e importuno? “Ministra Giannini, come si può rendere magnifica la già meravigliosa riforma della scuola, forse con dei lapislazzuli? ”. Beh, mi pare una domanda equilibrata … Ecco, siccome l’esempio vale più di mille discorsi, ci hanno fatto proprio l’esempio, ci hanno mostrato come si fa. Presentarsi con il nome di battesimo, essere informali, dare del tu al ministro. E poi trafiggerlo con argomenti inoppugnabili e domande che non lasciano scampo: “Panettone o pandoro?”. Ma forse la commedia dell’arte leopolda non era per tutti e alcune cose erano, diciamo così, a uso interno, come quelle campagne pubblicitarie che tendono a fidelizzare il cliente.
Se le precedenti Leopolde dovevano far conoscere il prodotto, questa qui appena conclusa aveva un altro scopo: convincere i clienti a non andarsene, giurare che il prodotto funziona, stimolare il consumatore. E per fare quello, motivare i venditori. E in più ancora, mostrare che ci sono nuove leve di venditori che premono, che si fanno notare, che incalzano con severità e spirito battagliero: “Ministro, cosa si prova a cambiare il paese?”. Brivido. Se è questo che volevano, i grandi comunicatori, ci sono riusciti in pieno: la chiesa di Renzology ne esce perfettamente rappresentata, i suoi sacerdoti sono stati interrogati da adepti intimoriti, il Ron Hubbard di Rignano ha scritto un altro capitolo e indicato nuovi nemici: i giornali cattivi che durante la messa – maledetti – scrivevano di banche.
«Ieri il premier è tornato ad attaccare i giornali. Sembra non capire che il confronto serve a crescere, a misurarsi, che è il sale della democrazia. Sembra non capire che non bastano i simulacri di confronto quali sono state le imbarazzanti domande concordate della Leopolda».

La Repubblica, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)

Ricordo un’intervista a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, sull’Huffington Post. Era del 2013 e riguardava una bufera piccola perché periferica, piccola perché marginale rispetto a ciò che riguarda il governo centrale. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris voleva che suo fratello Claudio, che aveva costruito la campagna elettorale (è attribuibile a lui lo slogan “scassiamo tutto”, versione napoletana della rottamazione renziana) e gli aveva fatto da consulente praticamente gratis, avesse un incarico retribuito e lo voleva alla direzione del Forum delle culture. Si levarono scudi contro questa candidatura e a Cantone fu chiesto se si trattava di sciacallaggio o di legittima critica. Rispose che «(gli sciacalli ndr) ci sono, ma non mi permetto assolutamente di annoverare tra questi i media, che registrano fatti e opinioni, favorendo così l’indispensabile controllo da parte dell’opinione pubblica».

Perché ho ricordato questa vicenda? L’ho fatto perché il potere, sempre, deve sottostare a delle regole auree e una di queste, in democrazie avanzate, è costituita dalla accettazione della funzione di controllo svolta dai media. Non è sciacallaggio, non è remare contro, ma è svolgere un’azione fondamentale e doverosa di controllo sulla cosa pubblica; per fare ciò bisogna porre delle domande, magari trovare le risposte per offrirle ai cittadini, perché possano giudicare il governo in maniera consapevole. Non era sciacallaggio parlare del fratello di De Magistris e non lo è chiedere chiarezza sul padre del ministro Boschi.
Lo sciacallaggio lo fa chi come Salvini dà dell’infame a Renzi e gli addossa la colpa del suicidio del pensionato che ha perso i suoi investimenti. Lo fa chi inquina la politica irresponsabilmente con una demagogia violenta e incivile. Lo fa chi crede che porre domande a un esecutivo equivalga a volerlo mandare a casa.
Ieri il premier è tornato ad attaccare i giornali. Sembra non capire che il confronto serve a crescere, a misurarsi, che è il sale della democrazia. Sembra non capire che non bastano i simulacri di confronto quali sono state le imbarazzanti domande concordate della Leopolda. Mentre ascoltavo il lungo discorso del premier che ha chiuso la manifestazione, la mia attenzione è stata catturata da una frase detta con leggerezza, quasi con disattenzione «Quindici mesi fa il mio babbo - ha detto Renzi - è stato indagato e gli è crollato il mondo addosso. La procura ha chiesto l’archiviazione del suo caso, ma lui passerà il suo secondo Natale da indagato. Io gli ho detto “zitto e aspetta”. Ma lui mi dice che dovremmo passare al contrattacco, io, però, non dirò mezza parola, perché ho fiducia nella giustizia».
Non so se ho capito bene - anche se è tutto piuttosto chiaro - ma il premier riferisce che suo padre, per una vicenda giudiziaria personale, avrebbe detto «dovremmo passare al contrattacco ». «Dovremmo» chi? Viene da chiedersi. Perché il premier si sente coinvolto nella strategia difensiva di suo padre? A che titolo dovrebbe eventualmente dire quella «mezza parola»? E a chi? Nel ruolo di figlio o di presidente del Consiglio? (Ma è poi possibile smettere di essere il presidente del Consiglio per occuparsi, in forma privata, di questioni giudiziarie che riguardano familiari?). E ancora, «passare al contrattacco»: contro chi? Non gli viene in mente che nel suo ruolo non può neanche permettersi di scegliere o meno se passare al contrattacco, in risposta a una vicenda privata?
Che cosa può significare questa frase? Che la linea del governo in materia di giustizia la detterebbe Renzi padre? Cos’è questo: un avvertimento o semplici parole in libertà? Sembra che il presidente del Consiglio, desideroso di rispondere con il sorriso, non sia stato in grado di misurare le proprie parole. Oggi, a bocce ferme, ha il dovere di chiarire cosa intendesse e quanto le vicende familiari influiscono sull’azione del suo governo.

Il manifesto, 16 dicembre 2015

Nella storia, noi ingraiani del Pci, e ancor più noi del Manifesto e poi del Pdup, siamo annoverati fra gli avversari di Armando Cossutta. E non si può certo negare che il contrasto politico sia stato fra noi duro e di sostanza. E però io, ma credo anche gli altri miei compagni, provo grande tristezza nel momento in cui apprendo della sua scomparsa. Non solo per nostalgia della nostra vecchia comunità comunista che ogni giorno riceve dalla realtà attuale una nuova botta, sicché gli antichi contrasti ci sembrano minuzie rispetto ai solchi che oggi si sono aperti con una sua parte così consistente, quella che ancora sta nel Pd. Non solo. È perché io a Cossutta volevo bene, e credo lui ne volesse a noi: nonostante la durezza della nostra radiazione, cui il gruppo di compagni che a Cossutta si ispirava dette un sostanziale contributo, è rimasta reciproca stima. Che ci consentì di ritrovarci assieme, impegnati sullo stesso fronte, a partire dall’avvio del processo di scioglimento del Pci, nel 1989.

Quando io militante molto romana ho sentito per la prima volta il suo nome è stato peraltro in una fase in cui siamo stati dalla stessa parte: lui dirigente di primo piano della Federazione di Milano, io ancora impegnata nella ribellione della Federazione giovanile contro la settaria chiusura di una parte dei vecchi. Che a Milano avevano una vera roccaforte contro cui si batterono, membri della stessa segreteria federale, sia Rossana Rossanda che Cossutta. È stato solo anni dopo che diventò esplicito tema di scontro politico il giudizio sull’Urss, e dunque il tema del rapporto fra il Pci e il Pcus.

Ancor oggi mi chiedo il perché di quel suo filosovietismo, che peraltro lui stesso ripensò quando all’inizio degli anni Novanta venne un giorno nella redazione del manifesto per ragionarne con pacatezza, riconoscendo la validità delle nostre obiezioni che erano invece state solo frettolosamente condannate.

È un interrogativo che riguarda tutto il Pci, anche se la corrente «cossuttiana» protrasse a lungo la sua fedeltà, in polemica con la rottura che Berlinguer aveva invece operato nel 1981. Io credo che più che un giudizio di merito sui pregi di quel socialismo già dagli anni Sessanta così segnato dal «breznevismo», si sia trattato del timore che, nel condannare quell’esperienza, venisse meno nel grande corpo dei comunisti italiani l’orizzonte dell’alterità, la coscienza che nonostante l’accettazione da parte del Pci delle regole del sistema democratico rappresentativo, il suo pieno inserimento nelle sue istituzioni, non si era perduto l’obiettivo strategico: la costruzione di una società alternativa al capitalismo. Una esigenza che forse proprio lui sentiva di più per esser stato per anni responsabile della politica degli enti locali del partito, che ha orientato nel senso delle più spericolate alleanze moderate.

Il legame con Mosca, insomma, era per lui una sorta di polizza di sicurezza, di certificazione del permanere di una identità rivoluzionaria.

Molti anni dopo, del resto, nella prima fase di vita di Rifondazione Comunista, quando si strinse fra Armando Cossutta (non con tutti i suoi) e i compagni ex Pdup che in quel partito erano entrati, un accordo forte sui connotati che la nuova formazione avrebbe dovuto avere, non ci fu alcun dissenso sul documento politico approntato per il Congresso costitutivo, in cui netta fu la presa di distanza dall’esperienza sovietica. (Non la cancellazione dell’importanza della rivoluzione d’ottobre, come poi il Pds si affrettò a fare, che era bene — si riaffermò — ci fosse stata, pur «avendo esaurito la sua carica propulsiva», per citare la frase di Berlinguer).

Con Cossutta, dicevo, ci siamo ritrovati dopo la Bolognina. Lui non era più nella direzione del partito, come del resto Ingrao. C’era stato un ricambio. E perciò a votare subito contro la proposta di Occhetto ci ritrovammo solo in tre: un’inedita coalizione, due ex Pdup (rientrato nel Pci poco prima della morte di Berlinguer), io e Magri, e Cazzaniga, giovane filosofo di Pisa, in quota Cossutta.

L’alleanza, come è noto, non si saldò subito, e a contestare la scelta dello scioglimento del Partito furono due diverse mozioni: la numero 2 che aggregava ingraiani e i più autorevoli berlingueriani, la numero 3, quella dei cossuttiani. Ma dopo il congresso di Bologna, in vista del ventesimo di Rimini, che avrebbe dovuto confermare la scelta, i due gruppi si unificarono e fu presentata una sola mozione. Insieme ottenemmo l’adesione del 35% del partito.

Perdemmo, ma non si trattava di una forza di poco conto. La divisione si riprodusse sul che fare di questa forza, se usarla dentro il partito o invece per costruirne un altro. Ad Arco di Trento, dove si tenne l’ultima nostra assemblea precongressuale, i due vecchi leader, Ingrao e Cossutta, tornarono a dividersi: Ingrao disse io comunque resto nel gorgo, Cossutta io comunque esco. Ma le due componenti si mischiarono nella scelta sicché a fondare il primo nucleo di Rifondazione furono compagni che provenivano da posizioni assai diverse.

Non starò certo a rifare la storia di quel tempo ormai remoto. Se non per testimoniare del legame strettissimo che si creò fra noi e Cossutta, e del coraggio di Armando nell’affrontare la diffidenza «antimanifestina» dei suoi vecchi compagni nei nostri confronti.

A me fu affidata la direzione del settimanale Liberazione, un compito difficilissimo, vi assicuro, per gli assalti continui che dovetti subire per le scelte che compivo. Ma sempre ho potuto contare sulla leale difesa di Cossutta. Che a Lucio Magri affidò addirittura la relazione al II° congresso di Rifondazione, nel momento burrascoso dell’arrivo sulla scena di Berlusconi e mentre il Pds ancora oscillava fra alleanza centrista e centrosinistra.

In quella fase Cossutta aveva ancora il controllo determinante del nuovo partito per il peso che vi aveva la vecchia base del Pci, ma ne temeva la deriva settaria, così come quella dei nuovi arrivati non provenienti dalle fila del Pci: i sindacalisti di base fuori dalla Cgil e Democrazia Proletaria. Bisognava trovare una figura per dirigere Rifondazione che non avesse vissuto gli scontri interni al Pci sì da superare i rancori del passato. Ed è così, di nuovo in accordo con Magri, che si pensò a Bertinotti, che aveva una storia socialista e sindacalista, non il nostro vissuto.

Mi fermo qui: raccontare quanto accadde dopo significherebbe riaprire un dibattito troppo vecchio e che comunque non è certo questa l’occasione per riattivare. Se ne ho accennato è per dire di come sia possibile superare vecchie rotture e costruire inediti accordi, un’esperienza da rinverdire.

Ad Armando Cossutta, che era il più anziano ed autorevole fra noi, va il merito di essersi mosso senza arroganze, senza sotterfugi, con intelligenza e lealtà. Le rotture successive di Rifondazione — quella che spinse molti di noi ex Pdup ad abbandonare nel 94–95, quella che indusse lo stesso Cossutta a rompere nel 1998; e infine quella di Sel — hanno tutte origine nel nodo irrisolto della discussione che seguì quel secondo congresso di Rifondazione che pure si era concluso quasi all’unanimità.

Se non suonasse retorico mi verrebbe di promettere, in morte di un compagno cui leviamo le bandiere e di cui piangiamo la scomparsa, che ci impegneremo finalmente a condurre su questi temi una riflessione comune e pacata. Ciao compagno Cossutta.

La Repubblica, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)

La crisi dell’acqua a Messina non è un incidente di percorso, ma il preannuncio del mondo che verrà. Anzi, che è già venuto: megalopoli come San Paolo, Lagos, Mumbai (ma anche Los Angeles) sperimentano frequenti siccità. L’urbanizzazione che concentra nelle città il 53% della popolazione mondiale (nel 2030 sarà il 70%) non fa i conti con l’ambiente, con l’esaurirsi delle risorse naturali, con carestie che parevano dimenticate ma colpiscono un miliardo di esseri umani ammassati negli
slum.

Secondo il geografo M. Gandy, «non c’è nessun modo per placare questa sete urbana e industriale: nuove fonti di approvvigionamento semplicemente non esistono». Mutamenti climatici, disastri idrogeologici, mancata manutenzione dei suoli, cementificazione di superfici agricole aggravano una crisi che ci sforziamo di non vedere. In un libro recente, Water 4.0, David Sedlak (che insegna ingegneria sanitaria) prefigura un mondo in cui crescono insieme lo spreco e la penuria, e l’acqua è un prodotto troppo costoso per i poveri. L’acqua è la cartina di tornasole del degrado ambientale, e il mondo distopico di Mad Max di George Miller (2015), dove un tiranno la elargisce capricciosamente alle plebi, rischia di essere il nostro. Messina mostra in piccolo quel che a San Paolo riguarda 21 milioni di abitanti.

Nel 1979 Hans Jonas, nel suo Principio responsabilità, proclamava “l’imperativo ecologico”: «La comunanza dei destini dell’uomo e della natura, riscoperta nel pericolo, ci fa riscoprire la dignità propria della natura, imponendoci di conservarne l’integrità». Ma in nome di che cosa? Due correnti del pensiero ecologico hanno tentato una risposta. Nel 1969 un chimico, James Lovelock, lanciò “l’ipotesi Gaia”, secondo cui la Terra è un sistema unitario che si autoregola puntando a risultati ottimali. Se questa visione porta il nome della dea greca della Terra, Gaia, è su proposta di un vicino di casa di Lovelock, William Golding (l’autore del Signore delle mosche), che vi alluse anche nel suo discorso di accettazione del Nobel (1983).
Ancor più influente è lo storico L. White, che imputava (1967) la crisi del rapporto uomo-natura alla convergenza tra concezione cristiana dell’uomo e fede baconiana nella tecnologia: donde la distruzione di risorse naturali e «il carcinoma dell’urbanizzazione non pianificata». Per White, la via d’uscita è «trovare una nuova religione, o ripensare la nostra» secondo l’insegnamento di San Francesco, «il piú grande radicale della storia cristiana dopo Gesú», perché ha «sostituito l’idea dell’eguaglianza di tutte le creature (incluso l’uomo) a quella del dominio illimitato dell’uomo sulla natura».
San Francesco è stato dunque il santo patrono degli ecologisti cinquant’anni prima dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco (24 maggio 2015), dove il Cantico delle Creature innesca la riflessione sulla «smisurata e disordinata crescita di molte città, invivibili dal punto di vista della salute, non solo per l’inquinamento da emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano, i trasporti e l’inquinamento visivo e acustico. [...] Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sommersi da cemento e asfalto, privati del contatto con la natura. In alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza; altrove si sono creati quartieri residenziali “ecologici” a disposizione di pochi, dove altri non entrino a disturbare una tranquillità artificiale. Gli spazi verdi sono curati nelle aree “sicure”, non dove vivono gli scartati della società».
Parlando di ambiente, uno storico (White) e un chimico (Lovelock) richiamano precedenti religiosi o mitici; il Papa propone una diagnosi orientata su un asse non solo religioso, ma etico-politico, e aggiornata sull’orologio dei movimenti ecologici e per il diritto alla città. Perciò l’enciclica condanna la crescita delle megalopoli, la privatizzazione degli spazi, la formazione di ghetti urbani per «gli scartati della società», e parla di responsabilità come «cura della casa comune», missione affidata da Dio all’uomo, ma anche secondo il diritto, «moderatore effettivo delle regole per le condotte consentite alla luce del bene comune, funzioni irrinunciabili di ogni Stato: pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all’interno del proprio territorio». Questo rimescolarsi delle carte, dove il linguaggio religioso invade testi scritti da studiosi laici e il Papa adotta un linguaggio secolarizzato, nasce dalla drammatica situazione del mondo che ci circonda, che impone una responsabilità comune.
Il nesso forte, che ricorre nell’enciclica, tra devastazioni dell’ambiente, minacce alla salute e crescita delle povertà, indirizza la diagnosi verso le pratiche della democrazia, inclusa quella azione popolare che viene dal diritto romano e che risalta in alcune recenti Costituzioni dell’America Latina (Brasile, Colombia): «Poiché il diritto si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso ong e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non controllano il potere politico non è possibile contrastare i danni ambientali». Questo ammonimento ci riguarda tutti: al centro dell’enciclica, come delle riflessioni di filosofi e giuristi, sono i diritti delle generazioni future, giacché «l’ambiente è bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti».
Perciò, oltre ogni differenza ideologica, «è urgente elaborare un pensiero comune pratico, uno stesso insieme di convinzioni volte all’azione, innescata dai principi del bene comune e indirizzata alla politica» (J. Maritain).

Disuguaglianza Che cosa si può fare?) che, sulla scia del riformismo del XIX secolo, propone un piano per finanziare una significativa espansione della sicurezza sociale. La Repubblica, 5 dicembre 2015

Anthony Atkinson occupa un posto speciale fra gli economisti. Nell’ultimo mezzo secolo, a dispetto delle tendenze dominanti, è riuscito a collocare il tema della disuguaglianza al centro del suo lavoro, dimostrando che l’economia è anzitutto e soprattutto una scienza sociale e morale. Nel suo nuovo libro, “Disuguaglianza. Che cosa si può fare?” — più personale dei suoi precedenti e totalmente centrato su un piano d’azione — ci offre le linee guida di un nuovo radicale riformismo. Qui c’è qualcosa che ricorda il riformismo sociale progressista

del britannico William Beveridge e il lettore potrà godersi il modo in cui Atkinson presenta le sue idee. Atkinson, studioso inglese la cui prudenza è leggendaria, rivela un lato più umano, si butta nella disputa e presenta un elenco di proposte concrete, innovative e convincenti per dimostrare che le alternative esistono ancora, che la battaglia per il progresso sociale e l’uguaglianza deve rivendicare la propria legittimità, qui e ora. Propone benefici universali per le famiglie finanziati dal gettito di una tassazione progressiva. Difende anche l’idea di posti di lavoro garantiti nel settore pubblico a salario minimo per i disoccupati e la democratizzazione dell’accesso alla proprietà di beni attraverso un innovativo sistema nazionale di risparmio, con rendimenti garantiti per i depositanti.

In Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Atkinson lascia il terreno della ricerca accademica e si avventura nel campo dell’azione e dell’intervento pubblico. Così facendo, ritorna al ruolo dell’intellettuale pubblico, che non ha mai davvero abbandonato, sin dagli inizi della sua carriera.

Si assume dei rischi e propone un vero piano d’azione. Atkinson traccia distinzioni e prende posizione in modo assai più drastico di quello che in genere la sua innata cautela lo induce a fare. Non ha scritto un libro divertente, ma nelle sue pagine troviamo l’ironia mordace che i suoi studenti e colleghi conoscono bene.

L’idea di tornare a una struttura fiscale più progressiva ha un ruolo decisamente importante nel piano d’azione proposto da Atkinson. L’economista non lascia alcun dubbio: lo spettacolare abbassamento delle aliquote fiscali per i redditi più alti ha contribuito fortemente all’aumento della disuguaglianza a partire dagli anni Ottanta, senza produrre benefici corrispondenti per la società nel suo complesso. Perciò non dobbiamo perdere tempo, dobbiamo invece buttare alle ortiche il tabù secondo il quale i tassi d’imposta marginali non devono mai superare il 50 per cento. Atkinson propone una riforma di vasta portata dell’imposta britannica sui redditi, con aliquote massime innalzate al 55 per cento per redditi annui superiori alle 100.000 sterline e al 65 per cento per quelli al di sopra delle 200.000, oltre a un innalzamento del tetto per i contributi alla previdenza nazionale.

Tutto questo renderebbe possibile finanziare una significativa espansione della sicurezza sociale e del sistema di ridistribuzione dei redditi in Gran Bretagna, in particolare con un netto aumento dei benefici per le famiglie (che raddoppierebbero, addirittura quadruplicherebbero in una delle varianti proposte) e anche con un aumento dei benefici pensionistici e per la disoccupazione per quanti hanno minori risorse.

Se queste proposte, giustificate statisticamente e finanziate dal gettito fiscale, venissero adottate, si verificherebbe una caduta significativa dei livelli di disuguaglianza e povertà nel Regno Unito. Secondo le simulazioni, quei livelli scenderebbero dai loro attuali valori quasi americani fino al punto di avvicinarsi alle medie dei Paesi europei e dell’Ocse. Questo è l’obiettivo centrale del primo gruppo di proposte di Atkinson: non si può pretendere tutto dalla ridistribuzione fiscale, ma è comunque da lì che si deve partire.

Il piano d’azione di Atkinson però non si ferma qui. Al centro del suo programma sta una serie di proposte che puntano a trasformare lo stesso funzionamento dei mercati del lavoro e del capitale, introducendo nuovi diritti per quelli che oggi ne hanno di meno.

Anziché scendere nel dettaglio delle proposte, voglio concentrarmi in particolare sul problema del più ampio accesso a capitale e proprietà. Atkinson qui presenta due idee particolarmente innovative. Da un lato, richiede la costituzione di un programma nazionale di risparmio che consenta a ogni risparmiatore di ricevere un rendimento garantito sul proprio capitale (al di sotto di una certa soglia di capitale individuale). Data la fortissima disuguaglianza di accesso a equi rendimenti finanziari, in conseguenza soprattutto della scala degli investimenti da cui una persona parte (situazione che con tutta probabilità è stata aggravata dalla deregulation finanziaria degli ultimi decenni), trovo questa proposta particolarmente valida. Nella prospettiva di Atkinson, essa è strettamente collegata al più ampio problema di un nuovo approccio alla proprietà pubblica e al possibile sviluppo di una nuova forma di fondo patrimoniale sovrano. L’autorità pubblica non può rassegnarsi a continuare semplicemente ad accumulare debiti su debiti e a privatizzare incessantemente tutto ciò che possiede.

D’altro lato, accanto a questo programma di risparmio garantito e assicurato, Atkinson propone di istituire una “eredità per tutti”, che assumerebbe la forma di una dotazione di capitale assegnata a ogni giovane cittadino/a al raggiungimento dell’età adulta, cioè al compimento dei diciotto anni. Questa dotazione sarebbe finanziata da imposte sugli immobili e da una struttura fiscale più progressiva.

L’unica critica che si può muovere al piano d’azione di Atkinson è la sua eccessiva concentrazione sulla Gran Bretagna. Tutte le sue proposte sociali, fiscali e di bilancio sono concepite per un governo britannico e lo spazio dedicato alle questioni internazionali è relativamente limitato. Per esempio, solleva brevemente l’idea di un’imposta minima sulle grandi multinazionali, ma poi la possibilità di una tale imposta è confinata alla categoria delle “idee da perseguire”, senza alcuna proposta concreta. Considerato il ruolo centrale che ha il Regno Unito nella concorrenza fiscale europea, oltre che nella mappa mondiale dei paradisi fiscali, ci si sarebbe aspettati una trattazione più rilevante di proposte per la definizione di una tassazione comune sui profitti, oppure per lo sviluppo di un registro mondiale (o almeno euro- americano) dei titoli finanziari. Atkinson allude chiaramente a questi aspetti, così come alla creazione di una “Autorità fiscale mondiale” e al possibile aumento degli aiuti internazionali all’1 per cento del Pil, ma vi dedica meno attenzione che alle proposte strettamente attinenti al Regno Unito.

Questo stesso limite, tuttavia, costituisce anche il principale punto di forza del libro. Atkinson ci dice che i governi, anche se hanno timori, non hanno alcuna reale scusa per l’inazione, perché è ancora possibile agire su una base nazionale. Il nucleo centrale del piano d’azione proposto da Atkinson potrebbe essere realizzato nel Regno Unito senza doversi preoccupare di aspettare fumose prospettive di cooperazione internazionale. Se è per quello, potrebbero essere adattate e applicate anche in altri Paesi.

(Traduzione di Virginio B. Sala)

Anthony Atkinson, Disuguaglianza Che cosa si può fare? ( Raffaello Cortina, pagg. 392, euro 26)

Articoli di Andrea Fabozzi, del deputato PD Franco Monaco e del giurista Gianni Ferrara sul vistoso strappo alla democrazia e alla dignità (residua) del Parlamento operato da Renzi.

Il manifesto, 15 dicembre 2015

CONSULTA.
OBBLIGO DI TRATTARE CON M5S

di Andrea Fabozzi

Ventinove votazioni a vuoto in un anno e mezzo, tre soltanto negli ultimi venti giorni e il Pd cosa propone: scheda bianca per la trentesima votazione, e così anche ieri pomeriggio il parlamento in seduta comune non ha eletto i tre giudici che mancano alla Consulta da un tempo ormai record. Scheda bianca per prendere altro tempo, anche se l’unica strada possibile per uscire dall’impasse è ormai chiara anche ai renziani più devoti agli ultimatum del capo. Serve un accordo con il Movimento 5 Stelle, i grillini del resto hanno già da giorni mutato atteggiamento e sono pronti a sostenere il candidato di Renzi, Augusto Barbera, solo chiedendo che venga fatto cadere il prescelto dai Berlusconiani - prescelto sulla carta visto che l’avvocato Francesco Paolo Sisto non mette d’accordo neanche i suoi. Da stasera il parlamento sarà convocato ogni sera alle 19 (e lo spoglio ci sarà solo verso le 23); le premesse per un cambio di schema e dunque una soluzione - se non oggi, domani - ci sono, ma solo le premesse.

Renzi non vuole cedere su Barbera perché il professore è stato un tenace sostenitore della riforma costituzionale e soprattutto della legge elettorale, che o presto (attraverso i ricorsi in tribunale) o tardi (attraverso l’iniziativa della minoranza in parlamento, una volta promulgata la legge di revisione della Costituzione) arriverà davanti ai giudici delle leggi. Il presidente del Consiglio non accetta che per chiudere un accordo i 5 Stelle vogliano sindacare le scelte del Pd, e d’altra parte i 5 Stelle hanno risparmiato il fastidio ai democratici selezionando all’interno della loro rosa l’unico candidato che non si è mai avanzato critiche all’Italicum. Si tratta del professore emerito Franco Modugno, l’unico che anche nella votazione di ieri ha raccolto voti in maniera significativa (110, comunque qualcuno in più dei votanti grillini).

La votazione di ieri si è fatta notare soprattutto per gli assenti, oltre duecento. D’altronde la seduta di lunedì è tradizionalmente difficile perché scarsamente frequentata. Impossibile in queste condizioni raggiungere qualsiasi accordo e il problema rischia di riproporsi oggi, visto che alla camera lavorano ancora soltanto le commissioni, soprattutto la commissione bilancio sulla legge di stabilità e gli argomenti all’ordine del giorno (come il caso delle banche) non sono di quelli che favoriscono accordi.

Un accordo tra il Pd, il resto degli alleati centristi di governo e il Movimento 5 Stelle, al quale potrebbero aderire i parlamentari di Sinistra italiana, si potrebbe chiudere sacrificando Sisto. E convincendo gli indecisi di Forza Italia a rinunciare del tutto al loro candidato, anche con l’argomento che molto presto potrebbe presentarsi l’occasione di scegliere ancora un altro giudice di nomina parlamentare.

Il terzo giudice, allora, oltre Barbera e Modugno, potrebbe essere un candidato dei centristi, ma non la professoressa Ida Nicotra indicata da Alfano ma impallinata già al debutto, due votazioni fa. Il Corriere della Sera ieri ha fatto il nome del giurista Alessandro Pajno, tra gli uomini più vicini al presidente della Repubblica Mattarella, che non incontrerebbe obiezioni tra i grillini. È un cattolico ma non esattamente nelle corde del Nuovo centrodestra e ha più il profilo per essere indicato alla Consulta dalle supreme magistrature amministrative (è presidente di sezione del Consiglio di Stato) o eventualmente dal presidente della Repubblica. Renzi punta a una composizione della Corte che gli dia garanzie nel giudizio sull’Italicum, le camere conservano nello scrutinio segreto gli ultimi spazi di manovra e così sono trascorsi invano diciotto mesi di votazioni inutili. Da stasera a oltranza.

I SETTE VIZI CAPITALI
DEI CAPI-PARTITO
SUI TRE NUOVI GIUDICICOSTITUZIONALI
di Franco Monaco
L’impasse sui tre giudici della Consulta è sempre più umiliante e imbarazzante. Mi sia lecito fare qualche appunto a margine.
Primo: si spiega perfettamente l’ulteriore discredito - come se ve ne fosse bisogno - gettato sul parlamento dalla sua ingiustificabile inadempienza. Essa investe l’istituzione, ma anche tutti e singoli i parlamentari. Si deve tuttavia sapere che essi (intendo i singoli parlamentari) sono totalmente esclusi da tali decisioni, gestite nella forma più verticistica dai capi partito. Nonostante le mie rimostranze, mai, dico mai, quantomeno il gruppo parlamentare cui appartengo [il PD n.d.r.] ci ha dato modo di discutere non dico i nomi (che pure non dovrebbe essere vietato), ma quantomeno metodo e profilo di essi. Dunque, risponda chi più precisamente deve risponderne, ovvero i vertici dei partiti.

Secondo: mi si è obiettato che, in passato, si è sempre fatto così (ieri il bigliettino allungato in aula, ora l’sms all’ultimo minuto). Non è esattamente così e tuttavia non è un buon argomento. Anche per due novità specifiche che riguardano l’elezione attuale: (1) la circostanza che questa volta si tratta di eleggerne ben tre e dunque di concorrere significativamente a disegnare il profilo complessivo della futura Corte; (2) proprio in queste settimane, la Camera sta varando una riforma costituzionale di grande portata che, comunque la si giudichi, disegna una democrazia maggioritaria (specie se la si considera associata all’Italicum) e che, conseguentemente, prescriverebbe di marcare vieppiù la terzietà degli organi di garanzia. Mai come ora.
Conseguenza? Terzo rilievo: a maggior ragione ci si dovrebbe orientare su figure di alto profilo e a tutti gli effetti indipendenti. Non figure controverse (erano necessarie 20 votazioni per comprendere che Violante, a torto o a ragione, rappresentava un nome divisivo e dunque un ostacolo a quella larga intesa prescritta dal quorum?).

Quarto: giusto per farsi carico di questa esigenza di terzietà e sapendo quanto sia facile cadere in tentazione da parte dei partiti, sarebbe utile ancorarsi a una sorta di convenzione: no al passaggio diretto, senza soluzione di continuità, dal parlamento o dal governo agli organi di garanzia. Per essere esplicito: no a Sisto oggi (che peraltro fatica a raccogliere anche i voti di Fi). Come sarebbe stato meglio evitare ieri, in questo caso per il Csm, l’elezione di due ex colleghi che menziono per onestà intellettuale proprio perché amici che stimo: Legnini e Balduzzi. Piuttosto che Leone e Casellati, a suo tempo molto esposti politicamente nella stagione da dimenticare (o da ricordare!) delle leggi ad personam.
Quinto: tra le motivazioni dell’impasse, si dice, vi sarebbero ragioni di puntiglio rappresentate come ragioni di principio e cioè la tesi secondo la quale non devono essere gli altri gruppi a scegliere il «nostro». Tesi da confutate in radice: il criterio più convincente e più coerente con la suddetta «terzietà» è semmai che i principali gruppi convergano su tutti e tre i nomi. Non è impossibile. In passato ci si è riusciti.Nessuno può sedersi al tavolo dicendo: Tizio o morte. Sennò effettivamente non se ne esce. L’imparzialità non è la somma delle partigianerie.

Sesto rilievo: la discussione non possono essere confinate nel perimetro della maggioranza di governo. Stando alla tradizione e alle consuetudini parlamentari, gli attuali tre grandi raggruppamenti dovrebbero poter esprimere candidati (naturalmente con il suddetto profilo). In concreto, non si capisce perché non lo possa fare il gruppo 5 stelle, tanto più se si considera che, nel caso concreto, esso ha proposto un metodo di trasparente confronto e, quanto al merito, un candidato da tutti giudicato all’altezza.

Settimo: il Pd propone Barbera. Anche sul suo nome si può discutere. Non è un mistero che, anche in settori del Pd, gli si rimprovera di avere ispirato le riforme di stampo maggioritario e segnatamente il ddl Boschi che a taluni non piacciono. È un argomento. Ma, complice la mia stima per la persona e lo studioso, mi sentirei di fare tre osservazioni (1) egli teorizzava il «modello Westminster» ben prima della stagione renziana; (2) è costituzionalista di vaglia, ha tutti i titoli per la Consulta, come ha riconosciuto anche Zagrebelsky, che pure ha posizioni politico-costituzionali assai lontane dalle sue; (3) per come lo conosco, sono sicuro che, una volta eletto, egli di sicuro non si farebbe dettare i comportamenti dal governo.
Da vecchio cattolico, credo nella «grazia di stato».

LE CAMERE E L'ARBITRIO
di Ganni Ferrara


L’impotenza dimostrata finora dal Parlamento ad eleggere i tre giudici costituzionali, prima ancora e invece che deprecata, andrebbe spiegata. Ne risulterebbero le ragioni, se ne scoprirebbero le responsabilità. Si dedurrebbe innanzitutto che questa elezione non ha precedenti, non per il ritardo e la difficoltà di scegliere candidati adeguati al tipo e al valore dei giudizi di costituzionalità, ma per la posta che è in gioco. Una posta che va ben oltre la valutazione della conformità a Costituzione di una legge o di un atto avente forza di legge o l’esercizio di un’attribuzione ad uno o ad un altro potere dello stato o tra Stato e Regioni o tra Regioni. È in gioco il ruolo stesso della Corte, la sua funzione di garanzia effettiva della Costituzione. È in gioco la forma di governo sancita in Costituzione. È in gioco la fisionomia dell’ordinamento della Repubblica, la determinazione di suoi principi fondanti, la sua identità.

È della democrazia italiana che si tratta, è la democrazia italiana ad essere stata posta in gioco con le due operazioni di chirurgia istituzionale compiute dal governo Renzi e dalla sua maggioranza con l’Italicum e col cosiddetto «superamento» del bicameralismo. È di queste due leggi, della loro costituzionalità che sarà chiamata a giudicare la Corte costituzionale. Con buona pace degli assertori, ingenui o ipocriti, della unitarietà e della neutralità della scienza giuridica, le sentenze, specie se di costituzionalità, riproducono, ineluttabilmente l’orientamento, la cultura, la sensibilità, lo specifico canone interpretativo dei testi normativi che adotta il giudice che le pronunzia e, se giudice collegiale, quella della maggioranza dei membri del collegio. Ebbene, come mai finora così decisamente, questi fattori interverranno a determinare il giudizio su queste due leggi. L’ingresso di tre giudici, con i loro orientamenti, le loro sensibilità, nel collegio giudicante si pone perciò come decisivo. Decisivo, per ribadire lo spirito e la lettera della sentenza n. 1 del 2014 sulla incostituzionalità del porcellum e, di conseguenza, della trascrizione delle sue disposizioni nell’Italicum. O, invece, per discostarsi da tale sentenza e chissà in che misura. Decisiva l’integrazione della Corte anche per il giudizio sul «superamento» del bicameralismo e sugli effetti che, combinandosi con l’Italicum, rispettino o violino il principio della separazione dei poteri, cardine della democrazia costituzionale.

Il Costituente non era né un ingenuo, né un ipocrita. Era ben consapevole della complessità delle esigenze da soddisfare con la scelta del modo di composizione di un organo competente a giudicare gli atti parlamentari per antonomasia, le leggi. Strutturò con molta saggezza questo organo per far sì che in esso potessero confluire le culture giuridiche derivanti dalle tre esperienze, quella giurisprudenziale, quella dottrinale, quella forense. E, quanto a queste due ultime, affidò al Parlamento il compito di provvedervi, ma gli impose il modo, quello che avrebbe garantito il più esteso consenso delle forze politiche alla scelta dei giudici. Ne derivò, mediante una convenzione rispettata per più di 40 anni, l’effettiva presenza nella Corte delle diverse culture, professionalità, sensibilità giuridiche e giuspolitiche. Diverse, non compatte.

La devastazione costituzionale che Renzi sta compiendo ha incrinato questa convenzione. Alla pluralità delle culture e delle sensibilità, al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, Renzi vuole sostituire l’approvazione del suo ordito istituzionale, la sicurezza che i tre eletti sostengano la legittimazione… dell’illegittimità. Mira quindi a ridurre anche la Corte costituzionale ad organo esecutivo per la legittimazione delle decisioni del «capo del governo». Il che equivale alla confessione di un delitto da parte del colpevole. I cui effetti, per ora, sono stati bloccati in 28 sedute di Camera e Senato. Come a dimostrare che, anche se di «nominati», un Parlamento può opporsi all’arbitrio, come quello di una ulteriore manomissione della Costituzione, proprio grazie al nome che porta. Per esserne degno.

La Repubblica, 15 dicembre 2015

Il presidente Xi Jinping ama gli animali. Nel suo ultimo viaggio in Africa, accompagnato dalla moglie Peng Liyuan, in una settimana ha visitato due zoo e fatto tre safari. Tra Zimbabwe e Sud Africa si è fatto fotografare mentre accarezza giraffe ed elefanti, o mentre segue un branco di leonesse a caccia.

L’ossessione della propaganda del partito-Stato per «l’amore di Papà Xi verso l’Africa», rivela al mondo una realtà ben più matura di un’infantile passione per le bestie esotiche: dopo un corteggiamento durato decenni, la Cina sta completando la conquista economica e politica dell’Africa. Europa e Usa sono impegnate a respingere le ondate migratorie e a combattere contro il contagio del terrorismo islamista nella fascia mediterranea del continente, scontando le colpe storiche di colonialismo e schiavismo.

La Cina invece, non appesantita nemmeno da tradizioni religiose missionarie, avanza silenziosamente a suon di prestiti e contratti miliardari, rispettando la regola diplomatica numero uno di Pechino: la «non ingerenza negli affari interni». Significa che il Dragone paga, costruisce, acquista e commercia senza porre problemi politici o chiedere il rispetto dei valori universali, condivisi dalle grandi democrazie. Risultato: solo 9 Paesi africani economicamente minori, Gambia, Guinea- Bissau, Burkina Faso, Lesotho, Swaziland, Repubblica Centrafricana, Somalia e Somaliland, non possono vantare oggi investimenti cinesi. Per tutti gli altri la Cina è ormai il primo partner commerciale, il primo banchiere, il primo finanziatore di infrastrutture, ma soprattutto il primo sponsor nelle istituzioni internazionali.

Lo scorso anno Pechino ha riservato allo sviluppo africano 222 miliardi di dollari. A inizio dicembre a Johannesburg Xi Jinping ha presieduto il secondo Forum in 15 anni della Cooperazione Cina-Africa, annunciando progetti sostenuti da altri 60 miliardi. Erano assenti solo i leader di Sao Tomè, Burkina Faso e Swaziland, auto-esclusi dal riconoscimento diplomatico di Taiwan.

Il «safari africano» di Pechino, pronto a colmare il vuoto lasciato dalla fine della Guerra Fredda tra Washington e Mosca, presenta oggi un bilancio impressionante: oltre 2.500 progetti avviati e finanziati in 51 nazioni, per un valore superiore a 94 miliardi di dollari. Senza l’appoggio cinese la metà dei bilanci pubblici dei Paesi africani rischierebbe il fallimento, con conseguenze prevedibili per la stabilità interna.

L’ultima missione di Xi Jinping, a inizio dicembre, ha impresso però al grande patto sino- africano un cruciale salto di qualità: dall’intesa economica all’alleanza strategica, politica e militare. All’assemblea generale dell’Onu, in settembre, il presidente cinese aveva annunciato l’invio di un «contingente di pace » di 8mila soldati e lo stanziamento di un miliardo di dollari per sostenere la prima missione internazionale di Pechino, inaugurata tre anni fa contro la pirateria al largo del Corno d’Africa.

Nei giorni scorsi il ministero degli Esteri ha confermato invece che la Cina costruirà la sua prima base navale in Africa, a Gibuti. Si tratta della prima base militare cinese all’estero, dell’esordio ufficiale della Cina tra le super- potenze belliche globali. La scelta è chiara: Gibuti ospita già basi di Usa, Francia e Giappone, la stabilità politica dal 1990 lo ha trasformato nell’avamposto straniero contro il terrorismo islamista in Somalia e nel presidio internazionale a difesa delle rotte commerciali tra Oriente e Mediterraneo, attraverso Suez.

Gibuti in Africa vanta però anche un’esperienza unica in approvvigionamento e forniture logistiche per eserciti e sistemi di difesa: costruire una base navale sullo stretto di Bab el-Mandeb, tra Mar Rosso e Oceano Indiano, consentirà a Pechino di blindare i suoi scambi commerciali con l’Africa, diventandone anche il primo alleato militare. Washington, Tokyo e Parigi fino all’ultimo hanno tentato di far naufragare l’avanzata cinese, per mantenere almeno la leadership della pace nel Golfo di Aden, affacciato sulle aree più sensibili del Medio Oriente. Il fatto che la stessa Unione Africana si sia infine schierata a favore della base cinese a Gibuti conferma quanto in profondità si sia ormai spinta l’influenza di Pechino nel continente. Una relazione a prova di crisi. Reduce da Parigi, dove aveva incontrato Barack Obama, Xi Jinping è infatti atterrato ad Harare nel momento peggiore del rapporto Cina-Africa. La frenata della crescita cinese quest’anno ha posto fine al boom delle materie prime, affossando ferro, uranio, rame, legname, petrolio, ma pure quelle necessarie per l’hi-tech.

L’export africano è crollato e i «metodi cinesi» nella conduzione delle imprese e nel rispetto dei lavoratori locali ha scatenato più di una rivolta sindacale, sollevando per la prima volta l’accusa di «neo-colonialismo» anche nei confronti di Pechino. Con Zuma e Mugabe, Xi Jinping ha così messo a punto 10 nuovi progetti di cooperazione, presentati poi al trionfale Forum con gli altri presidenti del continente: dalla prima ferrovia ad alta velocità, tra Dar es Salam in Tanzania e Lobite in Angola, allo sviluppo dei porti di Abidjan in Costa d’Avorio e Maputo in Mozambico; dall’oleodotto tra Gibuti e Ogaden in Etiopia a quello tra Juba in Sud Sudan e Mombasa in Kenya; dagli investimenti agricoli a quelli minerari, dalla costruzione di centrali atomiche e a carbone, dalla finanza al turismo, dall’hi-techall’industria farmaceutica.

Xi Jinping questa volta non ha però estratto solo il libretto degli assegni: agli alleati delle nazioni in via di sviluppo ha proposto un accordo che punta alla «costruzione di un nuovo sistema mondiale multipolare, sostenibile e giusto», alternativo a quello dominato dagli Usa e sostenuto dalla Ue. In cambio l’erede di Mao Zedong non ha offerto tassi agevolati sui prestiti, ma ha chiesto l’appoggio politico alla Cina nelle istituzioni mondiali, dall’Onu all’Fmi, dalla Wto alle federazioni che gestiscono il globalizzato business dello sport. Lo scambio con l’Africa non è dunque più materie prime-infrastrutture, ma l’esportazione cinese di un modello organizzativo, sociale, economico e militare alternativo a quello dell’Occidente.

Xi Jinping ha detto che la Cina continuerà ad avere bisogno di materie prime e di cibo, ma che la sua priorità oggi sono «nuovi mercati, alleanze strategiche e nuovi centri di produzione energetica ». Proprio Pechino, superando l’India, ha strappato a Parigi i finanziamenti per rendere sostenibile l’eco-compatibilità africana: e proprio Xi Jinping, esibendo la «negoziazione alla pari», ha ottenuto dai capi di Stato dell’Africa la promessa che appena lo yuan sarà pienamente convertibile, la casse del continente si svuoteranno di dollari e di euro per adottare il renminbi come valuta di riserva, se non addirittura come valuta di Stato. Le 5 colonne del nuovo «partenariato strategico globale» Cina-Africa sono «fiducia politica, cooperazione economica, influenza culturale reciproca, sicurezza e coordinamento internazionale».

L’immagine del nuovo imperatore cinese Xi Jinping che abbraccia un rinoceronte, circondato da pastori zulu che ballano, può far sorridere. I leader di Europa e Usa, nelle stesse ore, stavano però fronteggiando gli attacchi terroristi a Parigi e in California. Il Quotidiano del Popolo ha sintetizzato la coincidenza con l’editoriale: “La Cina lavora, l’Occidente combatte”. L’Africa “cinese” non è più lo specchio, forse irreversibile, del fallimento occidentale: sancisce che il secolo di Pechino, per tutti, è già cominciato.

Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Il fronte repubblicano ha fatto scudo al Front National ieri sera al ballottaggio delle elezioni regionali in Francia. Marine Le Pen è uscita sconfitta dalle urne su tutta la linea: dopo essere arrivata in testa al primo turno in sei regioni, dopo aver sfiorato lei stessa la presidenza della macroregione del Nord, la leader dell’ultradestra resta a mani vuote e non ha vinto da nessuna parte. A fare la differenza è stato il tanto atteso risveglio cittadino.

È la paura dell’ultradestra a vincere nelle urne come era stato nel 2002, quando i francesi si erano uniti per barrare la strada dell’Eliseo al patriarca del FN, Jean-Marie Le Pen. I Repubblicani di Sarkozy prendono il controllo delle macroregioni del Nord-Pas de Calais, dove Xavier Bertrand ha battuto Marine Le Pen con il 57,70% dei voti contro 42,30%, e della Provenza-Costa Azzurra, dove Christian Estrosi ha vinto contro la nipotina Le Pen, Marion, 53,50% contro 46,50%. Il voto dei socialisti, che si erano ritirati e avevano invitato a votare Sarkozy, è stato determinante.
I Repubblicani hanno trionfato anche nell’est, in Alsazia-Lorena, battendo la stella nascente del FN, Florian Philppot, nonostante l’ammunitamento del socialista “ribelle”Jean-Pierre Masseret, che disobbedendo agli ordini dei vertici aveva mantenuto la sua lista, facendo probabilmente la scelta giusta. Il PS, che usciva perdente dal primo turno, ha resistito e conservato cinque regioni. Porta a casa una vittoria strategica, ma perde la regione-capitale dell’Ile-de-France, dove il testa a testa tra Valerie Pecresse e Claude Bartolone è stato serrato.
Dopo queste elezioni, niente sarà più come prima. Il FN continua a tessere la sua rete sul territorio. In molti consigli regionali, dove i socialisti si sono ritirati, sarà la sola opposizione. Ha dimostrato di poter mobilitare nuovi elettori e potrà continua a navigare sui temi della crisi migratoria e del sicurezza. Lo ha detto Manuel Valls che il «pericolo dell’estrema destra non è scongiurato». Dopo l’assordante silenzio del primo turno, il premier ha preso subito la parola e ha richiamato tutti alle proprie responsabilità: «Stasera non ci sono trionfalismi - ha detto - Smettiamola con i giochetti politici. I responsabili politici di ogni fazione devono imparare a costruire insieme».
Da parte sua Nicolas Sarkozy, che si giocava tutto ieri sera, anche l’investitura all’Eliseo, resta ancora in corsa: «L’unità nel partito - ha detto - e il rifiuto di ogni compromesso con l’estrema destra ha permesso questo risultato. Questi principi devono restare nostri anche in futuro». Per i Républicains la campagna presidenziale è già iniziata. Dal feudo di Hénin-Beaumont, Marine Le Pen, accolta da un pubblico esultante, ha ringraziato i più di 6 milioni di “patrioti” che hanno votato per lei. Non sono mai stati così tanti: «Siamo entrati nel bipartitismo –ha detto –La scissione ormai non è più tra destra e sinistra, ma tra mondialisti e patrioti». E ha attaccato i socialisti, primo fra tutti proprio Valls, che l’hanno “calunniata”, ha detto, “diffamata”, lungo tutta la campagna.
«Al partito alla maniera moderna la perdita degli iscritti non dispiace, anzi! Gli iscritti non gli interessano più. Il partito classico puntava ad avere nello stesso tempo molti iscritti e molti elettori. Al partito di oggi stanno a cuore quasi solo gli elettori». Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Qualche anno fa, in occasione di un congresso dei socialisti francesi, Michel Rocard, uno dei grandi vecchi del partito, commentò con tono amaro: «I partecipanti a questo congresso sono di tre tipi: quelli che hanno una carica politica, quelli che aspirano ad averla e quelli che, già che erano da queste parti, sono venuti a guardarsi attorno». La stessa cosa si può dire dell’incontro della Leopolda a Firenze, anche se questo non è un congresso. Ci sono tutte le categorie di persone indicate da Rocard, e nel clima euforico che caratterizza il meeting è difficile accorgersi di un grande assente: mancano gli iscritti e il popolo della base.

L’incontro di Firenze costituisce infatti l’icona di un fenomeno politico che si rende sempre più visibile: i partiti senza iscritti. Il fenomeno è segnalato in diversi paesi d’Europa, soprattutto nell’ala sinistra degli schieramenti. In Gran Bretagna, in Norvegia e in Francia, dal 1980 i partiti hanno perso più della metà degli iscritti. Il Partito democratico non fa eccezione: dai più di 500.000 iscritti del 2013 è sceso ai 350.000 del 2014. Quest’anno siamo sotto i centomila e qualcuno parla finanche di 60.000. Questi sono dati conosciuti.
Meno noto è il suo rovescio: al partito alla maniera moderna la perdita degli iscritti non dispiace, anzi! Gli iscritti non gli interessano più. Il partito classico puntava ad avere nello stesso tempo molti iscritti e molti elettori. Al partito di oggi stanno a cuore quasi solo gli elettori: ciò che vogliono sono i voti, non gli iscritti. Per questo non c’è bisogno di tenere aperte le sedi periferiche: ai tempi di Bersani i circoli Pd erano circa 7000, oggi sono circa 6400 e il piano di riorganizzazione del partito prevede che diventino 4500 entro l’anno prossimo.
Alcuni partiti non hanno praticamente struttura territoriale, non tengono congressi e non si confrontano mai. La dissociazione tra partito e iscritti è sempre più netta. Il partito tende a rendersi invisibile. Ciò si vede chiaramente negli incontri tipo Leopolda: gli emblemi di partito sono scomparsi, non ci sono più inni di appartenenza, il format non è quello del congresso ma oscilla tra lo show (scenografie, annunciatori, ribalte, luci teatrali, casting accuratissimo, star mediatiche e campioni di ogni genere), il corso motivazionale per venditori (c’è perfino la parata delle testate nemiche), la recita parrocchiale, in ogni caso con sovrano sprezzo del senso del kitsch. Le citazioni in grande sui pannelli non sono tratte dai classici del pensiero socialista (e neanche cristiano-sociale) ma da quello scrittore per anime semplici che è Antoine de Saint-Exupéry…
Come si spiega questo fenomeno? Secondo una possibile interpretazione, ai partiti gli iscritti non interessano più perché, in fondo, i molti iscritti sono più un peso che una risorsa. Sono una fonte inesauribile di richieste, proposte e proteste verso il vertice. Interpellano la dirigenza, si candidano alla cariche interne, ne chiedono la rotazione, costringono a dare risposte, pongono problemi scomodi. Insomma, producono un sovraccarico per la dirigenza del partito, che non è più libera di fare quel che vuole. In pratica, il modello di partito come organizzazione che forma le sue idee dal basso verso l’alto non funziona più. È finita l’epoca in cui il dibattito territoriale contribuiva a fissare l’agenda. Adesso l’agenda è fissata dall’alto e portata a condivisione con procedure più adatte al marketing che all’elaborazione politica.
La liquefazione del corpo dei fedelissimi ha diversi significati. Vista dal lato dei cittadini indica che si sono stancati di non contare nulla o quasi e che del ceto politico non si fidano più. Insomma, indifferenza e apatia. Visto invece dal lato dei partiti è indizio di una metamorfosi. Via via sgravati dell’impegnativa massa di iscritti, i partiti stanno cambiando pelle e mission. Una volta erano (almeno in parte) scuole di alfabetizzazione politica, di sensibilizzazione e di dibattito. Oggi sono sempre più «agenzie di marketing politico» ( cito Alfio Mastropaolo), il cui compito primario è quello di reclutare i candidati a livello centrale e periferico, creare e consolidare i gruppi di comando, massimizzare il consenso e soprattutto piazzare persone amiche sulle centinaia di poltrone di tutti i livelli su cui è la politica a decidere.
In pratica, torna a primeggiare la funzione di “patronato delle nomine” che un secolo fa esatto Max Weber indicava come vocazione preminente dei partiti. Per questi motivi non hanno più bisogno né di iscritti né di sedi. Quel che gli occorre sono efficienti e spregiudicati apparati di campagna: portavoce, ricognitori, ufficiali di collegamento, addetti al fund raising, consulenti, sbrigafaccende, tecnocrati e media peopleamici o finanche embedded… Chissà che la riflessione di Rocard, che sembrava una mesta pietra tombale sulla forma-partito classica, non possa esser letta come la partecipazione di nascita del partito nuovo.

«Poco importa che le due Le Pen non siano state elette. Il dato sconvolgente è che in alcune regioni più del 40 per cento degli elettori ha votato Front National per la seconda volta. Saremo costretti a tener conto delle esigenze e dei desiderata del Front».

La Repubblica, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Adesso cambia tutto. E poco importa che le due Le Pen non siano state elette. Il dato sconvolgente è che in alcune regioni più del 40 per cento degli elettori ha votato Front National per la seconda volta, il che significa che moltissimi francesi si riconoscono nell’estrema destra. Quindi, dato che siamo in democrazia, tutto ciò che verrà fatto d’ora in poi, sul piano politico ed economico, ma anche su laicità e rapporti tra le diverse comunità, sarà pensato anche in funzione di questa parte dell’elettorato. Saremo costretti a tener conto delle esigenze e dei desiderata del Front.

Come siamo giunti a questa disgrazia? Forse per semplice distrazione. O per il solito narcisismo francese, che ci ha impedito di guardare quanto accade al di là delle nostre frontiere, dove queste forme di fascismo xenofobo già esistono da anni. Negli Stati Uniti c’è Trump, in Ungheria quelli che la pensano come Le Pen sono al potere da tempo. In Germania, invece, 70 anni dopo la fine del nazismo, prospera in molti länder un partito della destra estrema. In Svizzera, le leggi contro l’immigrazione sono state registrate nella Costituzione e alla testa di alcuni cantoni vi sono politici di estrema destra.
È come se l’opinione pubblica si fosse fatta più arida, come se il liberalismo, la solidarietà e le nobili aspirazioni per costruire un mondo migliore che hanno nutrito diverse generazioni non funzionassero più. Il problema di questa destra, sia essa tedesca o francese, è che costruisce il suo messaggio politico contro qualcosa o contro qualcuno. Negli anni Trenta, il nemico era l’ebreo. Si sosteneva che tutto andava male perché i giudei, che erano 14 milioni, mangiavano il pane degli europei. Oggi, invece, i nemici sono i musulmani, accusati di non essersi assimilati agli europei, di non essersi integrati nella nostra società, di non essere diventati abbastanza italiani, francesi, tedeschi o ungheresi.
In Germania l’Islam è diventata seconda religione, gli immigrati turchi che continuano a costruirvi nuove moschee. Se una volta c’erano tensioni tra protestanti e cattolici, oggi ci sono quelle tra cristiani e musulmani. A questi problemi, si è aggiunto quello che sovrasta gli altri: l’infima minoranza dei musulmani che vorrebbe imporre le sue regole con la violenza e commette atrocità come gli attacchi del 13 novembre, scatenando la nuova paura dell’Islam. Ma l’accusa che il Front National ha rivolto per anni ai musulmani francesi è di rubare il lavoro ai francesi riconosciuti tali da secoli di storia. Anzi a quei francesi “giudeo-cristiani”, poiché dopo la Seconda guerra mondiale anche gli ebrei sono rientrati nel novero dei cittadini di prim’ordine.
Oggi si chiedono tutti cosa fare per impedire che nel 2017 Marine Le Pen diventi presidente. Al momento né Hollande né Sarkozy, hanno una risposta. Anche perché la sconfitta della leader del Front l’ha comunque resa più forte di prima, e perché data la stagnazione economica continuerà comunque a guadagnare voti. La soluzione è nelle mani dei musulmani: basterebbe, per esempio, che 100mila di loro scendessero nelle strade per manifestare contro l’Is.

“Mi pare ovvio che non sia un appuntamento del Pd”. Ha ragione Graziano Delrio, la Leopolda è un format, e tale resta anche quando i protagonisti sono i ministri Franceschini Poletti Madia, Giannini Pinotti Gentiloni, De Vincenti Boschi e Padoan, più lo stesso Delrio e naturalmente il padrone di casa. La squadra del governo. Gli incazzosi, ruspanti e un po’ naif figuranti delle prime edizioni sono in second’ordine, e fanno da contorno ad un appuntamento dove gli alberi di natale decorati con i memorabilia 2010–14 non riescono a nascondere una realtà fatta di metal detector, scorte e servizi d’ordine occhiuti e onnipresenti. Con discrezione, comunque.
Fuori, tenuti a distanza dalle forze dell’ordine in assetto antisommossa, lontani alla vista dei leopoldati che entrano ed escono, ci sono quelli che qualcosa non torna. “Scuola, jobs act e privatizzazioni, queste riforme sono da cialtroni”, c’è scritto su uno striscione portato da un migliaio fra studenti dei collettivi, lavoratori Cobas di un’Ataf privatizzata ma scricchiolante, comitati contro l’aeroporto intercontinentale e il maxi inceneritore di Case Passerini, Movimento per la casa, Rifondazione, e un pezzo di Sel che da queste parti ha assaggiato il renzismo appena munto. Dai Ds dell’epoca.

Dentro, a conferma, sale sul palco Franco Bassanini. Cinque volte parlamentare, due volte ministro, ex presidente della Cassa depositi e prestiti, il 75enne Bassanini sancisce il principio che la rottamazione è stata una magnifica idea per scalare il potere. Degli altri. “Renzi è l’incarnazione di un’Italia che ha recuperato nuova credibilità e autorevolezza – vola alto l’oratore — un volto e un’immagine nuova perché il governo ha fatto le riforme, prima fra tutte il jobs act. E nell’ultimo anno dei sette alla guida della Cassa ho firmato accordi di investimenti stranieri per 6 miliardi. Una cifra che non arriva neppure a metà se si sommano i sei anni precedenti”. Di crisi nera, ma questo per Bassanini è un dettaglio.

A seguire ecco le contorsioni di Giuliano Poletti. Intervistato da una delegazione “selezionata” di under 40, il ministro del lavoro azzarda parecchio: “Questo paese deve tornare a innamorarsi delle sue imprese. Continuo a sentirmi dire che puntiamo troppo sulle imprese. E su chi cavolo dobbiamo puntare se non sulle imprese? Non è che se una cosa aiuta l’impresa fa del male ai lavoratori”. Intanto le imprese vere, da Ansaldo Breda alle Acciaierie di Piombino, da Telecom Italia alla Fiat e tanto altro ancora, sono volate oltre le Alpi.

Ma niente paura: “Da gennaio partirà il programma ‘self employment’ – annuncia felice il ministro Poletti — da 5mila a 50mila euro senza interessi per 7 anni, ma non a fondo perduto, a chi si vuole mettere in proprio”. E per gli under 40 c’è “Garanzia giovani”: “Un programma importantissimo, il primo nella storia d’Italia che dice ad un ragazzo che ha finito gli studi ‘se vuoi, vieni qui. Ragiona con noi, ti diamo una mano’. 900mila giovani italiani si sono registrati, e ne abbiamo 550mila che sono già stati chiamati per un colloquio”. Un colloquio.

Arriva la notizia che il nuovo think tank renziano, affidato a Giuliano da Empoli sul binario Milano-Bruxelles, si chiamerà “Volta”. “Ma tutti aspettano Maria Elena Boschi, difesa a spada tratta dalle basse insinuazioni sui problemi bancari di famiglia, da parte di quei giornalacci messi all’indice — le televisioni no — da una platea aizzata a tavolino. Ed eccola: “Ben tornata a casa…” la annunciano dal palco. Lei si intenerisce: “Vi voglio bene, è stata una grande fortuna essere cresciuta con voi”. Poi, con lo stesso incedere leggiadro, affonda il coltello: “Con l’italicum non c’è alcun pericolo per la nostra democrazia. E’ una legge che funziona bene perché dà la certezza del vincitore. Dà un premio di maggioranza certo e limitato, anche se sono sempre i cittadini a scegliere quale è la lista che vince. Se questo non succede al primo turno, c’è il ballottaggio”. Abbracci&baci: “Grazie a tutti voi, stiamo cambiando l’Italia. A domani, viva la Leopolda”. Dal suo punto di vista, non fa una grinza.

IIl Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015

“Mettiamo in fila i fatti”, dice Gustavo Zagrebelsky alla prima sollecitazione sulla Consulta zoppa. E sia. Ci sono tre posti vuoti. La Corte corre il rischio di paralisi. Siamo giunti a dodici. Se scende sotto gli undici, per legge non può deliberare. Il rischio del blocco, per la prima volta nella storia repubblicana, è tutt’altro che teorico, data la fragilità di persone avanti con l’età. “Il primo posto si è reso libero a giugno dell’anno scorso, il secondo a gennaio e il terzo a luglio di quest’anno. Si è fatto finta di voler provvedere con finte convocazioni delle Camere riunite e una trentina di votazioni a vuoto. Non si avvertiva, evidentemente, nessuna urgenza. Ora, nelle ultime settimane, al prolungato surplace è subentrata la volata: bisogna fare in fretta, il Parlamento deve essere convocato a oltranza; perfino le feste natalizie devono passare in secondo piano; bisogna chiuderli tutti dentro, lesinare il cibo, scoperchiare il tetto fino a quando non ne escono con i tre giudici bell’e fatti”.

Come si spiega la “volata”?


Semplice. Siamo nell’imminenza di alcune decisioni su materie alle quali il presidente del Consiglio, il governo e la sua maggioranza sono particolarmente – diciamo così – sensibili: i diritti dei lavoratori, i diritti degli elettori, l’autonomia scolastica, le cause d’ineleggibilità, per esempio.

Jobs act, Italicum, “buona scuola”, “legge Severino”?


Sì, ma preferirei meno provincialismo, meno slogan, e parlare in italiano.

L’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento dipende da valutazioni politiche, necessariamente partitiche?


Non solo è inevitabile, che sia così; non solo è ciò che dice la Costituzione, ma è anche un bene. La Corte è un collegio in cui si mescolano culture ed esperienze diverse, in vista di deliberazioni complesse, così come complessa è la struttura della Costituzione. C’è posto anche per giuristi, come si dice, “di area”. Infatti, abbiamo avuto eccellenti giudici costituzionali di provenienza parlamentare. Cito soltanto, tra i più noti, Leopoldo Elia, Mauro Ferri e Valerio Onida. La provenienza dal voto parlamentare non esclude affatto l’autonomia di giudizio che, d’ogni giudice e, massimamente, dei giudici costituzionali, è il primo requisito. E nemmeno pregiudica quell’altra esigenza di buon funzionamento di un organo come la Corte, che è l’attitudine deliberativa, l’arte del dialogo in vista di decisioni il più possibile inclusive delle buone ragioni in campo. Mai, tuttavia, è accaduto – e qui sta la differenza – che si sia stati eletti in prossimità di specifiche decisioni, con un implicito o esplicito mandato per prefigurare maggioranze di giudici favorevoli ai mandanti e così alterare il funzionamento d’un organo che deve essere indipendente.

Ritiene che i nomi fatti non siano adatti al compito?


Innanzitutto, uno dei tre, Augusto Barbera, è indubitabilmente un affermato costituzionalista, giustamente circondato da generale considerazione. Gli altri, per quanto conosco, mi paiono piuttosto buone promesse, boccioli che possono sbocciare. Ma non è questo il punto. Del resto, spetta al Parlamento formulare questo genere di giudizi e, tra i parlamentari, c’è certo chi ha le conoscenze adeguate e dovrebbe far sentire la propria voce, finora silente, per orientare le opinioni degli altri, digiuni di giurisprudenza.

Se non è questo, allora che cos’è?
È che quelle degne persone sono incappate in un gioco costituzionalmente inammissibile, quello che dicevo prima: il mandante che cerca i suoi mandatari, anche nei campi, come quelli della giustizia, in cui non dovrebbero esserci né mandanti né mandatari. Siamo di fronte a un degrado istituzionale senza precedenti, a un’invasività degli interessi politici che viola la separazione costituzionale delle funzioni, che prefigura sinistramente le mani sulle istituzioni di garanzia, le quali mani non incontrerebbero resistenze una volta portato a termine il ridisegno istituzionale che il governo sta perseguendo. Ma la legge stabilisce che i giudici costituzionali non possono svolgere attività inerenti ad associazioni e partiti politici: non dovrebbe valere la stessa cosa, al contrario?

Quelle che lei chiama “degne persone” dovrebbero mettersi da parte, per non partecipare al gioco?


Non dico questo. La carica di giudici costituzionale è, per buone ragioni, molto desiderata e non possiamo far finta di ignorare le umane ambizioni, tanto più quando esse sono ampiamente giustificate dai meriti culturali acquisiti. Sarebbe ipocrisia il contrario. Inoltre, non possiamo affatto escludere che, una volta eletti, costoro si svincolino effettivamente da ogni mandato. L’ethos della carica, qualche volta, prevale perfino sui caratteri personali. Negli Stati Uniti, dove i giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente, si parla di “debito d’irriconoscenza” che i neo-nominati dovrebbero onorare per affermare fin dall’inizio e una volta per tutte la cessazione d’ogni rapporto con colui a cui devono la nomina.

A chi spetta smettere di giocare con le istituzioni?


Al Parlamento, ai gruppi parlamentari, ai singoli che godano di qualche credibilità in faccende costituzionali, spetta sbrogliare la matassa, facendo proposte fuori da ogni diktat dell’esecutivo. In Parlamento devono trovarsi gli accordi sufficienti a raggiungere l’ampia maggioranza richiesta e necessari a sconfiggere la logica del mandante. A quanto risulta, nulla di ciò è accaduto, con la conseguenza delle numerose fumate nere che si sono finora susseguite.

Qualcuno ha invocato un intervento del presidente della Repubblica, ricordando un precedente in cui si è minacciato lo scioglimento delle Camere.


La minaccia mi pare fuori della realtà. Oltretutto, potrebbe portare a soluzioni purché siano, in stato di necessità. Non è il Parlamento che deve essere minacciato, ma è il governo che deve essere richiamato a stare al suo posto e sono i parlamentari a dover essere esortati al libero esercizio delle loro funzioni. Per questo, occorrerebbero puntualizzazioni presidenziali precise, al di là delle vuote e insignificanti espressioni rivolte al Parlamento, del tipo “occorre uno scatto di reni”, che non vogliono dire niente.

Errori di ieri e di oggi nei rapporti tra Unione europea (e Italia), Libia e il dramma dell'esodo Cercano un nuovo Gheddafi, che tolga le castagne dal fuoco.

Il manifesto, 13 dicembre 2015

Mentre si apre oggi a Roma la conferenza internazionale sulla Libia e mentre l’inviato di Ban Ki-moon Martin Kobler annuncia che i due parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk, hanno raggiunto un accordo per un governo unitario che il 16 dicembre sarà sottoscritto in Marocco.

Come giudica l’ultimo annuncio di un accordo definitivo tra Tripoli e Tobruk per la costituzione di un governo unitario?
Kobler dichiara che siamo in ritardo, che «il tempo è scaduto». Come a dire che il precedente inviato dell’Onu Bernardino Léon ha a dir poco perso tempo, finendo poi al ben pagato servizio degli Emirati arabi che erano una parte del contendere per il loro sostegno agli integralisti. Del resto un accordo sul governo unitario è stato purtroppo annunciato più di sei volte e più di sei volte smentito dai fatti. La novità è che indubbiamente la pressione interna è più forte, lo Stato islamico infatti sembra essere arrivato non solo a Derna e Sirte ma a 70 km da Tripoli, nella stupenda Sabrata. Dobbiamo impedire che ripetano a Sabrata gli scempi fatti in Siria e Iraq, sarebbe un’offesa per la bellezza di quegli scavi e per tutta l’umanità.

Dall’annuncio fatto e da tutti quelli falliti, sembra che le fazioni che si contendono il controllo della Libia siano solo due…
È questo che mi lascia sgomento. Perché se anche si trovasse un accordo tra due parti ancora duramente nemiche, gli islamisti radicali di Tripoli e i «riconosciuti internazionalmente» filo-occidentali di Tobruk, ci sono in Libia decine e decine di altre fazioni tutt’altro che marginali che hanno scoperto il valore politico del petrolio. E che non smobilitano. Ecco perché ricondurre tutta la questione a sole due parti è quantomeno riduttivo. Senza dimenticare le profonde divisioni e i condizionamenti delle due «firmatarie» dell’intesa del 16 in Marocco. Per esempio, a Tobruk il generale Khalifa Haftar, ex militare di Gheddafi poi passato alle direttive della Cia, non nasconde le sue mire egemoniche sul processo in corso, muovendosi con alle spalle il regime militare egiziano di Al Sisi, come una scheggia impazzita a partire dall contesa città di Bengasi; dall’altra gli islamisti al governo a Tripoli sono fortemente condizionati da un’ala ancora più radicale, quella delle milizie di Misurata che hanno quantità ingenti di armi e miliziani super-addestrati; sono loro non dimentichiamolo che hanno ucciso Gheddafi. Oggi la Libia è un paese con una complessità di interessi da difendere che non smobilitano. Accordo o non accordo.

Non credi che nella fase attuale, dopo gli attentati di Parigi, ci sia un elemento in più di contraddizione? Parlo del nuovo protagonismo francese che ha cominciato a perlustrare e a bombardare obiettivi Isis a Derna e addirittura a Tobruk?
Sì, torna il protagonismo della Francia, stavolta motivato dalla tragedia subìta a Parigi. Tuttavia è un ritorno, perché fu proprio il protagonismo di Sarkozy a portarsi dietro tutta la Nato, compresa l’Italia e lo stesso Obama in prima battuta recalcitrante. La Francia non vuole perdere i suoi privilegi e in Libia punta sempre a sostituire la Total all’Eni. Ma dimentica che furono i suoi Mirage a stanare Gheddafi a Sirte, lì dove oggi c’è lo Stato islamico.

Perché tutti dimenticano le responsabilità occidentali nel disastro libico?
Una dimenticanza quantomeno colpevole. Così, se la dichiarazione di cautela «non vogliamo una Libia-bis» di Matteo Renzi è certo apprezzabile, lo è di meno quando riduce la responsabilità dell’Italia e dei governi occidentali alla «mancata ricostruzione». L’interesse italiano, europeo e americano per la Libia era ed è per il petrolio e per la crisi dei migranti. Oggi a questi due argomenti si aggiungono le milizie dell’Isis che qui abbiamo contribuito a far nascere. Raccontano che ora il califfo Al Baghdadi starebbe arrivando da Raqqa in Siria a Sirte, e non si dice che comunque passerebbe da corridoi «amici» in Turchia. Ma quel che non si ricorda è che lo jihadismo radicale è rinato in Libia con la distruzione dello stato di Gheddafi, qui sono nati i santuari di armi e milizie che si sono irradiati in Tunisia, a sud nell’Africa dell’interno e a nord-est in Siria e in Iraq. Delle nostre responsabilità si tace. Come dell’11 settembre 2012 a Bengasi, quando gli stessi jihadisti prima coordinati dall’intelligence Usa guidata in Libia da Chris Stevens, sfuggiti al controllo americano, hanno ucciso in un agguato l’ex coordinatore Cia Chris Stevens nel frattempo diventato ambasciatore degli Stati uniti in Libia. E’ una storia che rischia di compromettere la candidatura di Hillary Clinton che preferiamo tacere. Come regna il silenzio sull’agire di Europa e Usa nella destabilizzazione della Siria dall’autunno 2011 al 2014 «perché Assad se ne deve andare». Solo che in Siria non sono riusciti a fare quello che hanno fatto in Libia.

Nei giorni scorsi Ong umanitarie hanno ricordato della salute di Seif Al Islam il figlio di Gheddafi, detenuto a Zintan. E plenipotenziari di Tobruk sarebbero andati ad incontrarlo. C’è un ruolo in questa fase per Seif Al Islam?
Provocatoriamente si potrebbe dire che adesso tutti sono alla ricerca di «un Gheddafi». Come spiega l’oscuro episodio del sequestro e rilascio immediato di un altro figlio di Gheddafi, Hannibal, prelevato in Libano nella Bekaa da milizie sciite per via della sparizione in Libia nel 1978 dell’imam sciita Musa Sadr. Il fatto è che all’Italia e all’Occidente serve un interlocutore libico. Il governo unitario in Libia ci serve strumentalmente per fermare il flusso dei disperati in fuga da guerre e miseria, per dichiarare la «guerra agli scafisti» (dagli effetti collaterali annunciati) e per allontanare l’Isis.
È fondamentale un interlocutore — come facevamo con Gheddafi — che fermi anche in campi di concentramento i profughi. E che magari combatta, come faceva il Colonnello libico, l’integralismo islamico armato. Cercano un altro Gheddafi, ma ora un interlocutore importante non c’è. Così torna interessante la figura del figlio Seif Al Islam, anche per la sua conoscenza degli integralisti islamici, uccisi e incarcerati dal padre e da Seif in gran parte liberati con amnistia per un tentativo di pacificazione interna. Non è esatto dire che Seif sia detenuto: formalmente agli arresti domiciliari dopo la cattura e l’uccisione del fratello e del raìs, di fatto è libero e protetto dalle milizie di Zintan. Che fanno riferimento al parlamento di Tripoli ma lo condizionano, contro l’alleata Misurata, in chiave anti-jihad. Credo che ora non sia possibile un accordo in Libia senza un coinvolgimento di Seif Al Islam.

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