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Nuovi elementi sulle violenze di Colonia nella cronaca di Andrea Tarquini. L'opinione della storica tedesca Ute Frevert. intervistata da Antonella Guerrera.

La Repubblica , 11 gennaio 2016 (m.p.r.)



“LA NOSTRA SOCIETÀ STA REAGENDO ANCHE GRAZIE AL FEMMINISMO”
di Antonello Guerrera

Nonostante le violenze, il femminismo in Germania è vivo. Ha permeato la nostra società a tutti i livelli. Le donne non sono discriminate nel nostro Paese. Altrimenti non ci sarebbe mai stato uno scandalo del genere». Ute Frevert è una delle più celebri storiche tedesche, insegna al Max-Planck-Institut di Berlino e ha a lungo studiato il femminismo in Germania e nel mondo. Risponde indirettamente alle accuse di un’altra intellettuale tedesca, Nina George, che ieri su Repubblica ha tacciato il suo Paese di sessismo e quotidiana violenza nei confronti delle donne, considerate solo come potenziali “madri”. Per Frevert, invece, i fatti avvenuti a Colonia e in altre città a Capodanno non sono il sintomo di una discriminazione subdola e strisciante nella società tedesca. E Frevert difende anche la polizia, accusata da più testimoni di aver sottovalutato, o peggio ignorato, le denunce delle donne abusate.
Perché, professoressa Frevert?
«Perché la polizia è stata semplicemente colta di sorpresa quella notte. Non era stato calcolato il potenziale pericolo. E non è rimasta inerme di fronte alle molestie e alle violenze sessuali. Non ci credo. Perché la società tedesca è cambiata moltissimo da tre-quattro decenni a questa parte. Anche grazie al femminismo».
Eppure da più parti si parla di discriminazioni sessuali mai soffocate in Germania. Solo qualche tempo fa c’è stata la clamorosa protesta “Aufschrei” (“grido di scandalo”) contro il “sessismo imperante”. Crede davvero che il femminismo sia così influente nel suo Paese?
«Il femminismo in Germania è imponente, perché col tempo è riuscito ad “emigrare” nella politica e nella società. Tutte le nostre istituzioni, dalla scuola pubblica alle chiese, fino all’esercito, incarnano una grande sensibilità nel combattere la discriminazione femminile. Anche per questo l’indignazione per i fatti di Colonia è stata così massiccia».
Ora però le tedesche hanno paura.
«Hanno paura come prima, niente di più. Gli attacchi a sfondo sessuale ci sono sempre stati in Germania, anche nelle migliori famiglie tedesche».
Ma quello che è successo a Colonia è un crimine «totalmente inedito», non trova?
«Inedito? Lei forse non è mai stato al Carnevale proprio di Colonia. Che da questo punto di vista è un pessimo esempio: non può immaginare quante persone in strada, in massa, sono sempre lì a toccare culi e tette alle donne».
Però, in questo caso, si è parlato di una violenza di genere legato all’Islam, che secondo alcuni e in certe circostanze discrimina le donne. Lei è d’accordo?
«Non voglio generalizzare, perché la religione musulmana è un insieme eterogeneo di pratiche e tradizioni. E le violenze di Colonia hanno gettato un’ombra ingenerosa su migranti e profughi, che ora vengono travolti dalla Sippenhaft (una sorta di “colpa collettiva per associazione”, come capitava anche durante il nazismo, ndr) scatenata da quel branco di ubriachi e frustrati di Capodanno. Ma certo ci sono grosse difficoltà comunicative e di comprensione in questo senso. Molti uomini che arrivano in Europa da Paesi plasmati dall’Islam non riescono ancora a interpretare il comportamento delle donne europee. Il nostro livello di emancipazione li travolge. E così interpretano male alcuni nostri simboli, come le minigonne o i capelli al vento, intendendoli come un invito al sesso. L’unica cosa possibile è una strategia doppia: repressione massiccia di questi comportamenti, ma anche una maggiore formazione interculturale».
Lei pensa che cultura islamica e totale parità tra i sessi siano due concetti compatibili?
«Certamente sì. Non a caso, anche tra le musulmane ci sono molte femministe che ogni giorno combattono stereotipi e disciminazioni nei propri Paesi. In Europa in passato c’è stata un’ardua resistenza contro i movimenti di emancipazione femminile. Persino la nostra società deve farne ancora molta di strada per arrivare a una vera parità».

“MOLESTARE LA DONNA BIANCA”, L'ORDINE AL BRANCO DIFFUSO ONLINE
di Andrea Tarquini

Colonia. «Molesta e aggredisci la donna bianca, usala come vuoi»: l’ordine era arrivato online. Così è stato organizzato il blitz di violenza sessuale contro le “infedeli” diffuso nell’Europa intera. «A Capodanno attuate il Taharrush gamea ovunque in Europa, assaltate le loro donne, fate vedere chi siamo». I grandi media tedeschi raccontano, governo federale e Bka (lo Fbi tedesco) non smentiscono e di fatto confermano l’ipotesi orribile. Taharrush gamea, fosca definizione, fu l’altro volto, quello oscuro, delle primavere arabe: significa molestare e aggredire le donne in strada, mostrare il predominio dei maschi. La notizia esaspera lo shock in Germania e in Europa, mentre si diffondono dati allarmanti: «Nel 2016 si prevedono arrivi di migranti stimati tra gli otto e i dieci milioni».
E-mail e sms, messaggi criptati o in chiaro, trasmessi ovunque in arabo e inglese, tedesco e italiano e altre lingue ai residenti d’origine araba nel Vecchio continente: a questo, fanno capire gli inquirenti, alludeva la giovane speranza della socialdemocrazia, il ministro della Giustizia Heiko Maas, parlando di «azione organizzata e cordinata».

Interpellati da Repubblica, i responsabili del ministero dell’Interno e del Bka non smentiscono: «Indaghiamo su tutte le piste, senza escludere nulla, tantomeno il fatto che l’appello alle aggressioni sessuali di massa sia stato una trappola diffusa online dall’ultradestra xenofoba o neonazista contro i migranti. Ma quest’ultima ipotesi, cioè che i neonazi siano in grado di mobilitare islamici o islamisti in Europa per suscitare odio contro i migranti, ci appare improbabile».
Colonia nel frattempo è tornata paradossalmente a uno stato di tranquillità, tra plotoni di cortei di maschere che si preparano all’imminente carnevale come se nulla fosse successo. Niente più polizia a presidiare il centro invaso sabato dal corteo di Pegida, poi sciolto dagli agenti e dalla contro-manifestazione anti-razzista. Ma dietro le quinte è allarme rosso. «Se il guardasigilli dice quel che dice, avrà le sue ragioni, sente ogni giorno i suoi compagni di partito dell’Spd a Colonia e i governi di tutta Europa», nota un’alta fonte del ministero della Giustizia. La mappa del piano d’assalti contro le donne fa paura: ben 12 le città europee, di cui sette tedesche, erano nel piano d’azione.
«È una nuova dimensione del crimine», dice allarmato in diretta tv il ministro dell’Interno Thomas de Maizière, fedelissimo di Angela Merkel. «È chiaro che tutto è stato preordinato e organizzato», incalza il suo collega socialdemocratico Heiko Maas. Orrore sull’orrore: l’Europa abituata da decenni a vivere l’atmosfera felice di pari diritti delle donne e di spazio multietnico senza frontiere si scopre come riserva di caccia dei nuovi gruppi dell’odio.
«Niente conferme, ma soprattutto niente smentite, il problema è grave», ci ripetono fonti dei ministeri di Giustizia e dell’Interno, oltre che dello Fbi tedesco (Bka). Taharrush gamea, la nuova sfida islamista all’Europa dopo la strage di Parigi. Ma chi sono i colpevoli? «Attenzione a non accusare in corsa i migranti appena arrivati», avvertono fonti dell’intelligence di Berlino. La mappa della nuova armata del terrore contro le donne, è più complessa. «La maggior parte degli indagati e dei sospetti», confessano gli agenti «non sono migranti dell’ultima ora: da Colonia a Stoccarda, da Helsinki a Zurigo, gli assalti erano troppo precisi. Mostrano conoscenza da guerriglia urbana delle città in cui sono avvenuti». Aggiunge un alto ufficiale della polizia di Colonia: «Sono gruppi, clan, bande di nordafricani, non persone richiedenti asilo. Vivono da noi una volta entrati nello spazio di Schengen, hanno permessi provvisori. Sono i nuovi euronomadi, vivono viaggiando tra Germania e Olanda, tra Italia Austria e Scandinavia, si tengono in contatto online tra loro ogni volta che serve, e ascoltano ogni messaggio. Sanno coinvolgere qualcuno dei molti nuovi migranti, ma solo per fare numero».
Euronomadi, spesso adolescenti, dicono i dossier segreti dell’intelligence tedesco: anche nordafricani tra i 15 e i 17 anni. «Noi che adesso dobbiamo difendere i pochi tra loro identificati e indagati ci troviamo di fronte a una realtà nuova, finora sconosciuta», confessa Ingo Lindemann, difensore d’ufficio di alcuni arabi arrestati. Da Colonia a Zurigo, da Helsinki a Vienna, nei dossier delle polizie emergono identikit spaventosamente analoghi. Adolescenti, giovani, 35enni, tante storie personali diverse, tutti uniti dallo stesso istinto d’obbedienza a quegli appelli online alla mobilitazione «contro la donna bianca».
«Dobbiamo indagare a fondo, non chiedeteci diagnosi precoci», insistono gli 007 tedeschi e fonti vicinissime al ministero dell’Interno. Ma aggiungono: «Se il ministro della Giustizia ha parlato di piano coordinato, va preso sul serio». Con queste paure la Colonia del carnevale imminente, la Germania di Angela Merkel in crisi e l’Europa intera si preparano all’indomani.
Intervista di Silvia Truzzi ad Alessandro Pace, presidente del Comitato per il No: «È una riforma sbagliata e votata dal Parlamento dei nominati».

Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2015 (m.p.r.)

Se chiedi ad Alessandro Pace perché è contrario alla riforma Boschi ti risponde così: «Le ragioni sono molte. Intanto perché privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce l’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del governo; prevede almeno sei tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-timedelle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci». Tutte queste ragioni saranno illustrate domani al primo incontro del Comitato per il No, i cui lavori saranno introdotti proprio dal presidente Alessandro Pace.

Da dove cominciamo?
«Dall’inizio, da quello che io credo essere il vizio d’origine della riforma. La Corte costituzionale, nel dichiarare l’incostituzionalità del Porcellum consentì espressamente alle Camere di continuare a operare, ma non in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie al “principio fondamentale della continuità dello Stato”. La Corte aggiunse a tal riguardo che, al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione sia a prevedere, all’articolo 61, che, a seguito delle elezioni, sussiste la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti finché non siano riunite le nuove Camere; sia a prescrivere, all’articolo 77, che, per la conversione in legge di decreti legge adottati dal governo “le Camere anche se sciolte sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”».
La sentenza della Consulta è di due anni fa...
«È vero, ma i due limiti temporali del principio della continuità dello Stato, richiamati dagli articoli 61 e 77, sono assai brevi (meno di tre mesi!). E quindi, ammesso che il Parlamento non potesse essere sciolto nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento avrebbe portato alle stelle lo spread, è però evidente l’azzardo istituzionale, da parte del premier Matteo Renzi e dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum avesse fotografato un Parlamento di “nominati”, insicuri di essere rieletti, e quindi ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti».
Renzi si è impegnato a dimettersi se il referendum bocciasse la riforma.
«Evidentemente nel lanciare questa sfida alle opposizioni e agli elettori, Renzi ha inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è del governo e non del Parlamento. Come invece dovrebbe essere e avrebbe dovuto essere. Il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, che si pone a ben più alto livello della politica quotidiana, un livello nel quale anche le opposizioni dovrebbero avere un adeguata voce in capitolo».
Il governo voleva andare in fretta. I senatori Mario Mauro e Corradino Mineo furono rimossi dalla commissione Affari costituzionali del Senato per aver invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Carta.
Fu dapprima loro assicurato che, per i lavori in aula, diversamente da quelli in commissione, l’art. 67 Cost. sarebbe stato rispettato. Il che era ed è contraddittorio perché se sussiste la tutela della libertà di coscienza del parlamentare su dati argomenti, la tutela non viene meno a seconda del luogo o del contesto nel quale essa viene eccepita. Successivamente, venne altresì eccepito, dall’allora vice capogruppo del Pd in Senato, che la libertà di coscienza non poteva essere invocata perché “tra i principi fondamentali della Costituzione non rientrano certo le modalità di elezione del Senato”, evidentemente confondendo lo stravolgimento in atto del ruolo e delle funzioni del Senato con una semplice modifica del sistema elettorale».
Altre violazioni?
Quella commessa l’ultimo giorno dei lavori del Senato, il 2 ottobre, nel quale si trattava di votare l’art. 2 del disegno di legge che modificava l’art. 57 della Costituzione. La maggioranza, pur di non confermare l’elettività diretta del Senato, che consegue dall’art. 1 della Costituzione, che garantisce al popolo l’esercizio della sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ha partorito un monstrum inconcepibile nel testo di una Costituzione. Ha approvato, nello stesso articolo, due commi tra loro antitetici: uno che prevede che i senatori saranno eletti dai Consigli regionali, l’altro che tale elezione dovrà avvenire “in conformità alle scelte degli elettori”. Dunque o l’elezione da parte dei Consigli regionali sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso finirebbe per violare l’art. 1 sopra riportato, che garantisce appunto l’elettività diretta degli organi titolari della potestà legislativa, come tra l’altro sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014.
«Colloquio di Giuseppe Lo Bianco con il procuratore di Agrigento Renato Di Natale: “Abbiamo dovuto aprire 25 mila procedimenti senza senso”».

Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2015 (m.p.r.)

Palermo. «Non so come andrà a finire visto che sembra che il governo ci abbia ripensato, ma quel reato si poteva abolire un anno prima, quando è arrivata la delega dal Parlamento: sarebbe stato più facile approvarlo senza l’emergenza terrorismo e ne avrebbe guadagnato l’efficienza di tante procure in prima linea nel fronteggiare l’immigrazione e il traffico di esseri umani». Nel suo ufficio al Palazzo di Giustizia di Agrigento, il procuratore Renato Di Natale indica i fascicoli aperti nel solo 2015 per perseguire un reato «che non è stato un deterrente al fenomeno, ha ostacolato le indagini e ha intasato inutilmente gli uffici impegnando cancellieri e segretari in migliaia di singoli processi».
Gli indagati ad Agrigento sono 25 mila, tanti quanti gli uomini e le donne sbarcati dal 2014, senza contare i fascicoli aperti per perseguire tutti quelli che hanno fornito una falsa identità: «Lo scopriamo quando li arrestano, magari in Veneto o Lombardia - dice Di Natale - ma il fascicolo va aperto ad Agrigento perchè qui è stato commesso il reato». “Reato inutile e dannoso”, anche per l’Anm. Ma nella città del ministro Alfano che non vuole abrogare il reato c’è la procura di frontiera che sorveglia l’ingresso in Europa dalla sponda sud del Mediterraneo: gli immigrati sbarcati a Lampedusa, a Linosa, a Porto Empedocle, nonché la maggior parte di quelli raccolti in mare aperto dalle forze dell’ordine, finisce qui, ad affollare il registro degli indagati tra i più nutriti del Paese.
Con questa norma, infatti, «per ognuno di essi si deve aprire un fascicolo - prosegue il procuratore - iscrivere il nome, spesso falso, nel registro degli indagati, e salvo i casi di rifugiati, arrivare ad una condanna per 5.000 euro, che chi arriva senza neanche le scarpe, con tutto il rispetto, non può pagare: non credo sia questo il modo di risanare il buco nel bilancio della Giustizia». E visto che gli sbarchi «sono quasi raddoppiati» rispetto al 2014 «la norma - prosegue il procuratore - non ha avuto un effetto deterrente, anzi, ha ostacolato le indagini perchè la diffidenza di chi ha patito un viaggio in mare in condizioni difficili è aumentata di fronte ad un interrogatorio alla presenza di un difensore, nel quale era chiamato ad identificare gli scafisti, un riconoscimento che il più delle volte può essere immediato, sul molo dello sbarco. E ricordiamo che chi viene sentito come indagato ha la facoltà di mentire, chi invece è testimone ha l’obbligo di dire la verità».
Se si abroga, dice Di Natale, «nel mio ufficio si libereranno energie da impiegare in altre direzioni». In questi anni le procure hanno applicato valutazioni diverse, ritenendo, ad esempio, che la condotta dell’immigrato fosse punibile tout court, perchè evidenziata dalla sua volontà di mettersi in viaggio verso l’Italia, o, al contrario, non fosse perseguibile, perchè terminata al momento dei soccorsi, per mezzo dei quali ha raggiunto il territorio italiano: altre ancora hanno ritenuto di non perseguire i migranti, rilevando lo “stato di necessità” che li ha spinti a mettersi in viaggio verso l’Europa.
Sui fatti di Colonia le analisi di Natalia Aspesi e Giuliana Sgrena; le considerazioni della scrittrice tedesca Nina George intervistata da Antonello Guerrera e dello scrittore algerino Kamel Daoud.

La Repubblica il manifesto, 10 gennaio 2016 (m.p.r.)

La Repubblica
TUTTI I BRANCHI DEI MASCHI

di Natalia Aspesi

Quella notte le donne venivano aggredite, spogliate, picchiate, derubate. Venivano derise da un muro di maschi stranieri organizzati, e intanto ai maschi poliziotti tutto sembrava un gioco festoso da non interrompere, e i maschi cittadini che presumibilmente accompagnavano le donne o comunque attraversavano la piazza come loro preferivano guardare dall’altra parte, evitando di intervenire a difendere le vittime assalite da maschi migranti e apparentemente non armati, quindi pericolosi ma non troppo.

Quella notte, a Colonia, ma anche altrove, le donne si sono ritrovate completamente sole, tra maschi violenti, maschi indifferenti, maschi spaventati. Di nuovo dentro la loro storia secolare di isolamento, impotenza, sopraffazione, abbandono, pericolo, che ogni tanto sembra finita e invece non lo è mai: probabilmente ancora una volta usate per consentire a un branco di maschi di disprezzarle e rimetterle al loro posto di sottomissione e irrilevanza, e a un altro branco di maschi di ergersi, dopo i fatti e solo a parole, a indispensabili protettori, a eroici paladini della loro libertà, che per secoli hanno ostacolato e ostacolano tuttora; e a un altro branco ancora a servirsene come pedine di una sporca politica.
Ma da quando le donne, e si parla solo di quelle occidentali, e in particolare le italiane, sono libere davvero, non solo per le tante nuove leggi degli ultimi settant’anni? Ci sono frammenti di realtà che rinascono dalla memoria individuale o scopri in un film: e per esempio negli Anni ’50 il ricordo che se il parto metteva a rischio la vita della madre o del bambino, era il marito che doveva scegliere chi poteva vivere, ed era sempre il bambino. Oppure, nel recente grande film tedesco Il labirinto del silenzio, un giornale radio della fine degli Anni ’50 informa che da quel momento le donne, se sposate, potranno lavorare solo col consenso del marito. Piccoli omicidi, minuscoli ostacoli, dentro un mondo di esclusione e impotenza delle donne, di supremazia e potere degli uomini.
Certo le donne fanno i ministri e i capi di Stato, spesso benissimo ma è sempre non sulla loro capacità politica ma sul loro corpo di donna che gli avversari l’attaccano: culona, non la scoperei mai, lesbicaccia, cesso eccetera. Gli attacchi sul web contro i pensieri delle donne, metti povere loro che non gli piaccia Zalone e lo mettano su Facebook: le minacce di morte sono il meno, e i più violenti verbalmente, se le avessero davanti, forse strapperebbero loro gli slip come a Colonia.
Anche le donne occidentali non sono quiete da nessuna parte, in piazza le assaltano gli immigrati ma spesso il branco è del paese, e anche in casa devono stare attente, gli stessi loro uomini che non le avrebbero difese a Colonia possono sempre spaccar loro la testa.

Il manifesto
INCIVILTÀ DI GENERE
di Giuliana Sgrena

Se fosse stato un attacco preordinato - ma non c’è nessuna prova per sostenerlo - sarebbe stato perfetto. Mentre tutta l’Europa si prepara militarmente e psicologicamente ad affrontare attentati terroristici la maggiore destabilizzazione arriva nella notte di capodanno in piazza. In diverse piazze della Germania - Colonia, Amburgo, Stoccarda - ma anche Zurigo ed Helsinki.

Una massa incontrollabile di maschi - di origini arabe o musulmane, forse anche richiedenti asilo, ma ci sono anche occidentali, ubriachi, armati di bottiglie, anche qualche molotov, coltelli e forza bruta - aggrediscono le donne, tutte quelle che si trovano di fronte, sulla strada, le picchiano, feriscono, stuprano, perfino derubano, la polizia non può, non sa, non ha i mezzi per intervenire. Tanto che ad Amburgo sono i buttafuori dei locali notturni a salvare le donne aprendo le porte dei locali che proteggono.

È un attacco molto diverso da quello che è avvenuto a Parigi - al quale è stato da alcuni media paragonato - non sono locali di musica, ristoranti o la sede di un giornale satirico - i simboli della laicità francese - ad essere colpiti, ma la piazza come luogo di incontro di tutti e le donne, che simbolizzano il nemico - il diavolo verrebbe da dire - per i sostenitori di una cultura misogina e patriarcale.

Non solo tra i musulmani, la barbarie è ovunque. Aggredire, violentare le donne vuol dire colpire un genere nella sua più profonda identità e intimità, vuol dire usare strumenti che sono purtroppo diventati usuali nelle guerre e non solo moderne.

Un attacco di questo tipo non spinge a uscire per dimostrare di essere ancora presenti - anche se c’è chi lo fa - nonostante le bombe e i kamikaze, si può rischiare una pallottola ma andare incontro a uno stupro è diverso.

Eppure ieri le donne sono scese di nuovo coraggiosamente in piazza contro le violenze subite e contro la destra anti-islam e i neonazisti, pronte ad accusare «i nemici, uguali dappertutto, del sessismo e del fascismo». Nonostante la gente resti attonita e, colpita psicologicamente, cancella la partecipazione al famoso carnevale di Colonia.

Se fosse stato un atto terroristico sarebbe riuscito perfettamente. Ma anche se fosse stato organizzato dalle bande naziste e xenofobe, del resto i terroristi - anche quelli dell’Isis - non hanno forse la stessa ideologia fascista? La destra tedesca vedrebbe in questi atti confermata la sua previsione: verranno i barbari e stupreranno le nostre donne. E anche se non è così, la destra più estrema ne sta già approfittando. Ma anche tutta quella che vuole il respingimento dei migranti e Angela Merkel pagherà sicuramente - in termini elettorali - la sua politica di accoglienza, anche se finora era riuscita a contenere le opposizioni. La sua reazione a questi fatti è stata infatti molto dura.

Le reazioni sono state ritardate dai rapporti edulcorati della polizia che ha peccato oltre che per il mancato intervento anche per l’eccesso di politically correct: i temi della migrazione, dei profughi, dell’islam e la violenza sono tabù in Germania.

È chiaro che se tra le bande che hanno attaccato le donne ci fossero stati anche profughi o richiedenti asilo saranno loro a pagare il prezzo più alto o comunque lo saranno soprattutto i prossimi profughi che cercheranno di approdare sul territorio europeo. Lo vediamo anche in Italia dove la legge per l’abolizione del reato di clandestinità - che doveva passare tra breve in parlamento - sarà con ogni probabilità rinviata, con il beneplacito di tutti, a non si sa quando.

Ancora una volta possiamo dire che le donne sono state le vittime di questo criminale assalto ma saranno i maschi sostenitori dello scontro di civiltà ad approfittarne.



La Repubblica

“FATTI GRAVI E CRIMINALI,
MA LA GERMANIA È UN PAESE SESSISTA”

intervista a Nina George di Antonello Guerrera
«Quello che è successo a Colonia la notte di San Silvestro è una vergogna. Ma sono comportamenti frequenti in Germania. I tedeschi, che oggi si scandalizzano per gli atroci fatti di Capodanno, fanno finta di non vedere. Nel mio Paese le donne sono sempre state discriminate. E lo sono ancora. È arrivato il momento di dirlo». È glaciale il j’accuse di Nina George, 42enne scrittrice tedesca, pluripremiata autrice del bestseller mondiale Una piccola libreria a Parigi (Sperling & Kupfer). Lei si dice « ancora scossa dopo Colonia». Ma «non ha paura».

Perché ce l’ha così con il suo Paese?
«Perché ora questa vicenda viene strumentalizzata dai razzisti, come abbiamo visto ieri con la manifestazione di Pegida. Ma sono cose che sono sempre successe. È sconvolgente l’omertà dei tedeschi. Perché le nostre donne non dicono niente quando sono i connazionali ubriachi a molestarle durante l’Oktoberfest (la celebre sagra della birra a Monaco, ndr) o lo stesso Carnevale a Colonia? Che vergogna».

Però una violenza collettiva del genere, forse coordinata, non si era mai vista.
«Sono criminali che non hanno niente a che fare con l’-Islam e che vanno puniti con estrema severità, non c’è dubbio. Ma sono cose che, in silenzio, sono sempre successe in Germania. Perché, nonostante i bei proclami, qui le donne non vengono mai difese. Abbiamo visto come le loro denunce agli agenti siano rimaste inascoltate quella notte a Colonia. Oppure come gli uomini presenti non le abbiano difese. In Germania manca il coraggio. E le donne raramente denunciano le violenze, perché sanno che non vengono ascoltate. Questo è un Paese che discrimina le donne».

Come fa a dirlo, scusi? Perfino il cancelliere è una donna.
«Ma la concezione della donna in Germania è molto particolare. Fa male dirlo, ma è così. La donna da noi viene vista principalmente come una potenziale mutti, una “mamma”, e questo influisce molto sulla vita quotidiana, sui salari, sul rispetto. Basta vedere la percentuale di artiste o scrittrici famose. Sono pochissime. Due anni fa c’è stata una clamorosa protesta delle donne, la Aufschrei (una sorta di “grido scandalizzato”, ndr) che denunciò pubblicamente il clamoroso sessismo nel nostro Paese. Ma tutti l’hanno già rimossa. E nulla è cambiato».

Niente? Nemmeno dopo il decennio di Angela Merkel?
«Anche se oggi mi ha un po’ deluso associando spudoratamente i fatti di Colonia all’immigrazione, lei è un vero esempio di donna, lontano da ogni stereotipo di “ragazza copertina”. Certo, oggi i tempi sono migliori rispetto a quando c’erano Kohl o Schröder. Ma il problema rimane. Del resto, la Germania non ha mai avuto un vero femminismo. È ora di plasmarne uno per il XXI secolo. Non sarà facile. Ma ora il problema vero è un altro».

Quale?
«Il razzismo che pervade sempre di più la nostra società. Si faccia un giro sui social network in Germania: è inquietante la valanga di bufale xenofobe che ogni giorno circuiscono sempre più persone. Online c’è una propaganda invisibile che sta inquinando le radici dello Stato democratico tedesco. Una mia amica era alla stazione di Colonia la sera di San Silvestro e poco dopo su Facebook ha scritto un post in difesa dei migranti. Ha ricevuto minacce di morte. E qualcuno le ha detto: “Meritavi di essere stuprata”».

La Repubblica
IL CORPO DELLE DONNE E IL DESIDERIO DI LIBERTÀ
DI QUEGLI UOMINI SRADICATI DALLA LORO TERRA

di Kamel Daoud.
Cos’è accaduto a Colonia? Leggendo i resoconti si fa fatica a comprenderlo con chiarezza. Forse però sappiamo cosa passava nella testa degli aggressori e come di sicuro come la pensano gli occidentali.
Il “fatto” in se” è espressione fedele dell’immagine che gli occidentali hanno dell’Altro, il rifugiato/immigrato: spiritualismo esasperato, terrore, riaffiorare della paura di antiche invasioni e base del binomio barbaro/civilizzato. Gli immigrati che accogliamo se la prendono con le “nostre” donne, aggredendole e stuprandole. Una nozione che la destra e l’estrema destra non tralasciano mai di esporre quando si pronunciano contro l’accoglienza ai rifugiati.

I colpevoli sono immigrati arrivati da tempo o rifugiati recenti? Appartengono a organizzazioni criminali o sono semplici teppisti? Per delirare con coerenza non si aspetterà che queste domande abbiano risposta. Il “fatto” ha già riaperto il dibattito sull’opportunità di rispondere alle miserie del mondo “accogliendo o asserragliandosi”. Spiritualismo esasperato? Già. In Occidente l’accoglienza pecca di un eccesso di ingenuità. Del rifugiato vediamo lo stato ma non la cultura. È la vittima sulla quale gli occidentali proiettanopregiudizi, senso del dovere o di colpa. Si scorge in lui il sopravvissuto, dimenticando che è anche vittima di una trappola culturale che deforma il suo rapporto con Dio e con la donna.

In Occidente il rifugiato o l’immigrato potrà salvare il suo corpo ma non patteggerà altrettanto facilmente con la propria cultura, e di ciò ce ne dimentichiamo con sdegno. La cultura è ciò che gli resta di fronte a sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi il rapporto con la donna - fondamentale per la modernità dell’Occidente - rimarrà incomprensibile a lungo, e ne negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di conservare la “propria cultura”. Ma tutto ciò può cambiare solo molto lentamente. Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi burocratici e si esplicano attraverso la carità.

Il rifugiato è dunque un “selvaggio”? No. È semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. Occorre dare asilo al corpo e convincere l’animo a cambiare. L’Altro proviene da quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell’anima.
Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei.

Qualche anno fa, a proposito dell’immagine della donna nel mondo detto arabo si scrisse: «La donna è la posta in gioco, senza volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei stessa di vivere». È questa libertà che il rifugiato, l’immigrato, desidera ma non accetta. L’Occidente è visto attraverso il corpo della donna: la libertà della donna è vista attraverso la categoria religiosa di ciò che è lecito o della “virtù”.

Il corpo della donna non è visto come luogo stesso di libertà, in Occidente un valore fondamentale, ma di degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o a una nefandezza da “velare”. La libertà di cui la donna gode in Occidente non è vista come il motivo della sua supremazia ma come un capriccio del suo culto della libertà. Di fronte ai fatti di Colonia l’Occidente (quello in buona fede) reagisce perché è stata toccata “l’essenza” stessa della sua modernità - laddove l’aggressore non ha visto altro che un divertimento, l’eccesso di una notte di festa e bevute.

Colonia è dunque il luogo dei fantasmi. Quelli elaborati dall’estrema destra che evoca le invasioni barbariche e quelli degli aggressori, che vogliono che il corpo sia nudo perché è “pubblico” e non appartiene a nessuno. Non si è aspettato di sapere chi fossero i responsabili, perché nei giochi di immagini, riflessi e luoghi comuni, tale dato non conta poi molto. E non si vuole ancora capire che dare asilo non significa semplicemente distribuire “carte” ma richiede di accettare un contratto sociale con la modernità.

Nel mondo di “Allah”, il sesso rappresenta la miseria più grande. Al punto da dare vita a un porno-islamismo a cui i predicatori ricorrono per reclutare i propri “fedeli”, evocando un paradiso che più che a una ricompensa per credenti somiglia a un bordello, tra vergini destinate ai kamikaze, caccia ai corpi nei luoghi pubblici, puritanesimo delle dittature, veli e burka. L’islamismo è un attentato contro il desiderio. E talvolta questo desiderio esplode in Occidente, dove la libertà appare così insolente. Perché “da noi” non esiste via d’uscita se non dopo la morte e il giudizio universale. Ritardo che fa dell’uomo uno zombie, o un kamikaze che sogna di confondere la morte con l’orgasmo, o un frustrato che spera di raggiungere l’Europa per sfuggire alla trappola sociale della propria debolezza.

Ritornando alla domanda iniziale: Colonia ci insegna che dobbiamo chiudere le porte o chiudere gli occhi? Nessuna delle due opzioni: chiudere le porte ci obbligherebbe un giorno a sparare dalle finestre, un crimine contro l’umanità. Ma anche quello di chiudere gli occhi sulla lunga opera di accoglienza e di aiuto, e su ciò che questa comporta in termini di lavoro su se stessi e sugli altri, sarebbe un atteggiamento di spiritualismo esasperato, in grado di uccidere.

I rifugiati e gli immigrati non possono essere ridotti a una minoranza delinquenziale. Ciò ci pone di fronte al problema dei “valori” da condividere, imporre, difendere e far capire. Ciò pone il problema del dopo-accoglienza: una responsabilità di cui dobbiamo farci carico.
Traduzione di Marzia Porta

Le strategie del presidente per convincere il suo paese della necessità di limitare la diffusione delle armi. Contro di lui le lobby e l'opinione pubblica. Il discorso del Presidente Obama, la cronaca di Giulia D'Agricolo Vallan, le dichiarazioni della moglie di una vittima. La Repubblica, il manifesto Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2016 (m.p.r.)
La Repubblica

PERCHÈ VOGLIO TOGLIERE LE PISTOLE ALL'AMERICA

di Barack Obama

L’epidemia di violenza con armi da fuoco nel nostro Paese rappresenta una crisi. I morti e i feriti per arma da fuoco costituiscono uno dei maggiori pericoli per la salute e la sicurezza del popolo americano. Ogni anno, oltre trentamila americani perdono la vita per colpa delle armi. Suicidi. Violenze domestiche. Sparatorie fra bande criminali. Incidenti. Centinaia di migliaia di americani hanno perso fratelli e sorelle o seppellito i loro figli. Siamo l’unica nazione avanzata sulla terra che assiste con una simile frequenza a una violenza di massa di questo genere. Una crisi nazionale come questa esige una risposta nazionale.

Ridurre la violenza con armi da fuoco sarà difficile. È evidente che con questo congresso non sarà possibile giungere a nessuna riforma di buon senso che limiti la diffusione delle armi. Non sarà possibile durante il mio mandato. Tuttavia, ci sono delle misure che possiamo intraprendere da subito per salvare vite umane. E tutti noi - a ogni livello di governo, nel settore privato e in quanto cittadini - dobbiamo fare la nostra parte. Abbiamo tutti una responsabilità. Martedì ho annunciato le nuove misure che intraprenderò, nei limiti della mia autorità legale, per proteggere il popolo americano e impedire che criminali e individui pericolosi possano dotarsi di armi da fuoco.

Fra queste misure figurano: fare in modo che tutti quelli che sono coinvolti nella vendita di armi da fuoco conducano verifiche sui precedenti dell’acquirente; potenziare l’accesso alle terapie contro le malattie mentali; migliorare la tecnologia per la sicurezza delle armi da fuoco. Queste misure non potranno impedire tutti gli atti violenti e non potranno salvare tutte le vite umane, ma se anche una sola vita venisse salvata grazie a esse, vorrà dire che ne valeva la pena. Continuerò a fare tutte le azioni possibili come presidente, ma oltre a questo farò tutte le azioni possibili come cittadino. Non farò campagna, non voterò e non sosterrò nessun candidato, neanche del mio partito, che non sostenga riforme di buon senso per limitare le armi. E se il 90 per cento di americani che sostengono queste riforme di buon senso faranno come me, riusciremo a eleggere i rappresentanti che ci meritiamo.

Tutti noi abbiamo un ruolo da giocare, anche chi possiede un’arma da fuoco. È necessario che la stragrande maggioranza di persone responsabili che possiedono un’arma, che piangono con noi dopo ogni strage dovuta alle armi, che sostengono misure di buon senso per la sicurezza delle armi da fuoco e che ritengono che le loro posizioni non siano adeguatamente rappresentate, si schierino con noi e pretendano che i politici ascoltino la voce delle persone che dovrebbero rappresentare.
Anche l’industria delle armi deve fare la sua parte. A cominciare dai produttori.
In America pretendiamo che i prodotti di consumo rispettino requisiti stringenti per garantire la sicurezza delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Le automobili devono rispettare standard di sicurezza e di emissioni rigorosi. I prodotti alimentari devono essere puliti e sicuri. Non possiamo sperare di spezzare il circolo vizioso della violenza con armi da fuoco finché non imporremo all’industria delle armi di adottare semplici misure per rendere più sicuri anche i suoi prodotti. Se un bambino non può aprire un tubetto di aspirina, dobbiamo fare in modo che non possa nemmeno premere il grilletto di una pistola.
Eppure, oggi, l’industria delle armi non rende conto a nessuno. Grazie a decenni di sforzi della lobby delle armi, il Congresso ha impedito ai nostri esperti in sicurezza dei prodotti di consumo di imporre che le armi da fuoco siano dotate dei più elementari dispositivi di sicurezza. Hanno reso più complicato, per gli esperti di salute pubblica del governo, condurre ricerche sulla violenza con armi da fuoco. Hanno garantito ai produttori di armi un’immunità di fatto dalle cause legali, che consente loro di vendere prodotti letali senza affrontare quasi mai nessuna conseguenza. Se si stesse parlando di sedili difettosi delle automobili, noi, come genitori, non lo accetteremmo. Perché dovremmo tollerarlo per prodotti - le armi da fuoco - che uccidono ogni anno così tanti bambini?
I produttori, che stanno vedendo crescere enormemente i loro profitti, dovrebbero investire nella ricerca per rendere le armi da fuoco più intelligenti e sicure, sviluppando per esempio sistemi di micropunzonatura per le munizioni, che possono aiutare a ricollegare i proiettili trovati sulle scene del delitto ad armi specifiche. E come tutte le industrie, i produttori di armi hanno il dovere, nei confronti dei loro clienti, di essere cittadini migliori vendendo le armi solo a soggetti responsabili.
È qualcosa che riguarda tutti noi. Non ci si chiede di dar prova dell’eroismo del quindicenne del Tennessee Zaevion Dobson, che prima di Natale è stato ucciso facendo scudo ai suoi amici. Non ci si chiede di mostrare la tolleranza dei tantissimi familiari delle vittime che si sono dedicati a mettere fine a questa violenza senza senso. Ma dobbiamo trovare il coraggio e la volontà di mobilitarci, organizzarci e fare quello che un Paese forte e sensibile fa di fronte a una crisi come questa.
Dobbiamo tutti pretendere leader abbastanza coraggiosi da combattere le menzogne della lobby delle armi. Dobbiamo tutti schierarci in difesa dei nostri concittadini. Dobbiamo tutti pretendere che i governatori, i sindaci e i nostri rappresentanti al Congresso facciano la loro parte. Cambiare non sarà facile. Non succederà dall’oggi al domani. Ma anche il diritto di voto per le donne non è stato conquistato dall’oggi al domani. La liberazione degli afroamericani non è avvenuta dall’oggi al domani. La conquista dei diritti per lesbiche, omosessuali, bisessuali e transessuali in America ha richiesto decenni di sforzi.
Questi momenti rappresentano la democrazia americana, e il popolo americano, nella loro veste migliore. Per fronteggiare questa crisi ci sarà bisogno della stessa incrollabile determinazione, per molti anni, a tutti i livelli. Se riusciremo ad affrontare questo momento con la stessa audacia, potremo rendere realtà il cambiamento che cerchiamo. E lasceremo ai nostri figli un Paese più forte e più sicuro.

Traduzione di Fabio Galimberti

Il manifesto

OBAMA PORTA LA BATTAGLIA PER IL CONTROLLO DELLE ARMI IN TV
di Giulia D’Agnolo Vallan

New York. Lo aveva fatto per la riforma sanitaria e per l’ordine esecutivo che avrebbe firmato legalizzando temporaneamente milioni di migranti: quando il Congresso gli volta la schiena, Obama scavalca il press corp della Casa bianca e porta le sue iniziative on the road, direttamente all’America. Dopo l’annuncio di martedì a Washington, è la volta della sua battaglia con le armi.
Prima tappa (in coincidenza con l’uscita sul New York Times di un un Op Ed, un editoriale presidenziale), la George Mason University in Virginia, dove Obama ha presenziato un town hall televisivo, trasmesso live da CNN e condotto da Anderson Cooper. Il pubblico in sala era scelto tra i rappresentanti di entrambe «le fazioni». Ma la National Rifle Association, invitata da CNN, ha rifiutato di esserci («non riteniamo necessario partecipare a un’iniziativa promozionale della Casa bianca» dice il loro comunicato). È andata però un’eroina della lobby delle armi, Taya Kayle (vedova dell’American sniper Chris Kayle), la prima domanda.
All’appassionata difesa del diritto alla pistola per difendere la famiglia, espressa dalla signora, Obama ha risposto con un aneddoto: «Io vengo da Chicago, dove le morti per armi da fuoco stanno facendo stragi di minorenni. La prima volta che sono stato in Iowa, per una campagna presidenziale, a un certo punto Michelle si è girata e mi ha detto: “Sai cosa? Se vivessi qui, in una fattoria isolata, lontano dallo sceriffo, e con il rischio che un malintenzionato si presenti alla porta, forse un’arma la vorrei anch’io..”. Le diverse realtà del nostro paese rendono questo un problema molto complesso».
Seduto informalmente su uno sgabello alto, il pubblico disposto a trecentosessanta gradi intorno a lui, il presidente ha mantenuto lo stesso tono, fermo ma colloquiale, rassicurante, per tutta la serata, tornando spesso sui temi elencati nell’annuncio dell’altro giorno: il bisogno di chiudere i loopholes (le zone grigie dell’attuale legislazione che permettono il commercio quasi incondizionato di armi via internet e presso i gun show, le fiere di settore), di studiare tecnologie per rendere le pistole più sicure, di investire nella cura delle malattie mentali…Tra i suoi interlocutori, un famoso sceriffo, una donna stuprata che vuole armarsi, un teen-ager di Chicago che ha perso il fratello e, insieme al marito astronauta, Gabrielle Gifford, la deputata dell’Arizona crivellata di proiettili un paio di anni fa.
Reiterando la promessa fatta nell’editoriale uscito oggi sul New York Times, Obama ha annunciato che non darà il suo sostegno ai candidati («anche quelli democratici») che si oppongono a delle «misure ragionevoli di gun control». L’enfasi che il presidente ha messo, sia ieri che alla Casa bianca, sul contesto elettorale non è gratuita. Considerata per anni una crociata politicamente dannosa, quella per il controllo delle armi conta oggi dalla sua alcuni sponsor molto importanti, tra cui Michael Bloomberg. È proprio dall’ex sindaco di New York - e dal suo gruppo Everytown for Gun Safety - che viene un’altra pedina di questa strategia della comunicazione che (come il town hall del presidente) sta cercando di raggiungere gli americani in modo diverso.
Con l’aiuto di Spike Lee (un fan storico della pallacanestro, il cui ultimo film, Chi-raq, tratta proprio l’effetto devastante della violenza d’arma da fuoco a Chicago), i capitali di Bloomberg sono infatti serviti a produrre una serie di spot (diretti da Lee) in cui alcune star della Nastional Basketball Association (tra cui Carmelo Anthony, Stephen Curry dei Golden State Warriors, Chris Paul dei Los Angeles Clippers) parlano dell’effetto delle violenza da arma da fuoco sulle loro vite. Nel primo degli spot, andato in onda il giorno di Natale, non vengono nemmeno pronunciate le parole «gun control». E i portavoce della NBA hanno dichiarato che la campagna pubblicitaria «non promuove nessuna legge o cambio di politica», ma va intesa come un public service announcement «per portare attenzione sul problema della sicurezza personale nelle nostre comunità». Certo, il messaggio dello spot, tra le righe, è molto chiaro, e l’entrata nel dibattito della NBA e dei suoi giocatori un passo di grandissima importanza, in quello che sembra sta delineandosi come il primo sforzo congiunto, a livello nazionale, di costruire un’alternativa sofisticata alla micidiale macchina promozionale della NRA.

Il Fatto Quotidiano
LA VEDOVA DI AMERICAN SNIPER BACCHETTA OBAMA: "SULLE ARMI SOLO FALSE SPERANZE"
Il marito era un soldato diprofessione, ormai conosciutodal pubblico per il film American Sniper,nel quale Clint Eastwood raccontala vita di Chris Kyle, il cecchino dei NavySeal. Gli iracheni lo chiamarono il “diavolodi Ramadi”, lui uscì vivo dalla guerraper poi essere ucciso nel 2013 da unex commilitone disturbato, in un poligonodi tiro, negli Stati Uniti.
La moglie di Kyle è entratanel dibattito sulle armie le leggi restrittive voluteda Obama, ma per criticarela linea del presidente:«Voglio sperare di continuaread avere il diritto diproteggere me stessa» hadetto Taya intervenuta al dibattito conObama, mandato in onda dalla Cnn.La signora Kyle ha rivendicato di fronteal presidente il diritto di possedere armi.«I controlli - ha affermato - non servirannoa proteggerci». Secondo la vedovaKyle, le misure proposte da Obamanon sono in grado di impedire lestragi di massa, perché «le persone chedecidono di uccidere infrangonole leggi e nonhanno lo stesso codice dicondotta morale dei cittadinionesti». Insomma, haconcluso la donna, dinanzialle misure della CasaBianca «si prova un falsosenso di speranza».
Mentre l'apparato istituzionale comandato da Renzi si appresta a legiferare per distruggere gli ultimi residui di democrazia si avvia l'iniziativa per ila difesa della Costituzione. L'impresa è difficile, e richiede l'impegno di tutti.

Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2016

Lunedì sarà il battesimo: nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati si terrà il primo incontro dei Comitati del No alla riforma Boschi: «Proveremo a sensibilizzare i cittadini», spiega Lorenza Carlassare, uno dei relatori dell’incontro. «Speravo – in un eccesso di ottimismo – che ci fosse un ripensamento in Parlamento su alcuni aspetti della riforma costituzionale. Ci preoccupiamo di chiedere il referendum in base all’idea che questa riforma venga approvata così com’è, con tutti i difetti che ha. Addirittura una modifica che saggiamente la Camera aveva eliminato (l’attribuzione al Senato del potere di eleggere da solo due dei cinque giudici costituzionali che ora vengono eletti dal Parlamento in seduta comune) è stata ripristinata dal Senato, e ormai l’approvazione della Camera sembra sicura. Evidentemente non c’è spazio per una riflessione critica. Non resta che mobilitare le persone in vista del futuro referendum, che il presidente del Consiglio va annunziando come un’iniziativa sua: lui sottoporrà la riforma al popolo perché la approvi; lui, in caso contrario, si dimetterà. Si arriva al punto di personalizzare persino il referendum costituzionale. Ma non è questo il senso del referendum costituzionale che non è previsto per ‘acclamare’, ma per opporsi a una riforma sgradita».

L'equivoco non è nuovo: nel 2001 votammo per confermare la riforma del Titolo V della Costituzione. Governo di centrosinistra.

«Si vede che è un’idea del Pd! Ma è sbagliata. E non si tratta di una sfumatura. Il referendum serve a rafforzare la rigidità della Costituzione impedendo alla maggioranza di cambiarla da sola. O la riforma è approvata da entrambe le Camere con la maggioranza dei due terzi – vale a dire con il concorso delle minoranze – oppure la legge, pubblicata per conoscenza, è sottoposta a referendum qualora entro tre mesi “ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o 500 mila elettori o cinque Consigli regionali”. Se nessuno chiede il referendum, trascorsi i tre mesi la legge costituzionale viene promulgata, pubblicata ed entra in vigore; interessato a chiedere il referendum dovrebbe essere chi è contrario ai contenuti della riforma, per impedirne l’entrata in vigore. L’art. 138 non si presta a equivoci. Il referendum quindi è una possibilità, quando la riforma non ha coinvolto le minoranze, per consentire a chi non è d’accordo di provare a farla fallire; può essere anche una minoranza esigua non essendo previsto un quorum di partecipazione».

Che significato hanno le dichiarazioni con cui il premier ha legato il suo destino politico all'esito del referendum?

«Insisto: il referendum costituzionale non è uno strumento nelle mani del Presidente del Consiglio a fini di prestigio personale. In molti hanno messo in luce l’intenzione di trasformare la consultazione in un plebiscito pro o contro Renzi: ma qui è in ballo la sorte della Costituzione, non la sua. Invece , pens ando che – 5Stelle e Sinistra Italiana a parte – non troverà oppositori sul suo cammino e il referendum sarà un trionfo, intende servirsene per rafforzare il suo potere personale, da esercitare senza controlli e contrappesi, senza che nessuno lo contraddica».

Risponderete con un'informazione basata sui contenuti della riforma: come pensate di farli passare? C’è il precedente del 2006 in cui i cittadini bocciarono la riforma Berlusconi: ma era Berlusconi, appunto.

«Questo è il vero problema. Mentre nel 2006 il progetto di modifica della forma di governo era chiara perché Berlusconi aveva parlato esplicitamente di premierato, ora apparentemente la forma di governo non viene modificata; ma nella sostanza – grazie al combinato disposto di Italicum e riforma Boschi l’effetto è proprio di trasformare la forma di governo e persino la forma di Stato, vale a dire la democrazia costituzionale».

Il leitmotiv è stato “abolire il bicameralismo perfetto”.
«Su questo erano d’accordo tutti. Bastava fare una riforma circoscritta, non c’era bisogno di sfigurare la Costituzione. Fra l’altro, una delle ragioni della riforma del bicameralismo perfetto era la semplificazione delle procedure: semplificazione che non c'è stata, semmai si è complicato e confuso il procedimento legislativo. Per alcune leggi il Senato interviene, per altre no . Per alcune il Senato vota, ma poi la Camera con maggioranze diverse deve tornare sul testo del Senato. Tutto irrazionale. Il vero dato è che la composizione del nuovo Senato – della quale abbiamo già detto molto nei mesi scorsi – lo rende agevolmente controllabile. Le riforme vanno tutte nella stessa direzione: pensi alla Rai! »

Cioè “chi vince piglia tutto”?

«La legge elettorale che entra in vigore nel 2016 è una via traversa per giungere di fatto all’elezione diretta del premier. Quando si arriva al ballottaggio (per il quale non c’è quorum, e dunque le due liste più votate partecipano a prescindere dal seguito elettorale che hanno ricevuto), l’elettorato deve necessariamente schierarsi a favore di uno dei contendenti e chi vince si prende tutto. È una forma d’investitura popolare per chi guida il governo; un discorso non nuovo che precede Renzi di molti anni: le elezioni come strumento non tanto per eleggere il Parlamento, ma per scegliere e investire un governo e il suo Capo.E senza che a una simile trasformazione si accompagnino i contrappesi indispensabili in una democrazia costituzionale».

Ciò che colpisce più della determinazione reazionaria di Angelino Alfano sono i velami d'ipocrisia nei quali Matteo Renzi cerca di dissimulare il suo disprezzo per i principi più elementari del diritto e dell'umanità. La Repubblica, 9 gennaio 2016

Il reato di immigrazione clandestina non si tocca, almeno per il momento. È Matteo Renzi a stabilire la linea, dopo alcune tensioni con Angelino Alfano, e a mandare temporaneamente in soffitta l’ipotesi di un decreto legislativo. Ed è proprio il ministro dell’Interno, contrario a mettere mano alla legge, a farsi portavoce della brusca frenata. «Evitiamo di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi negativi per la percezione di sicurezza – è l’invito del responsabile del Viminale - in un momento particolarissimo per l’Italia e l’Europa». Parole che non soddisfano comunque la Lega, pronta a promuovere eventualmente anche un referendum per difendere il reato voluto dal governo Berlusconi.
Secondo il premier, il nodo è soprattutto di comunicazione. Perché se è vero che «la logica vorrebbe la scelta della depenalizzazione», e altrettanto vero che «nella componente sicurezza l’elemento psicologico è molto importante». Da qui la scelta di congelare ogni decisione e rimandare alla prossima settimana, «sulla base di una valutazione di opportunità politica e senza toni barricaderi».
Proprio i toni scelti dal Carroccio, a dire il vero, esacerbati dalle notizie che arrivano da Colonia.E infatti gli slogan padani richiamano le aggressioni di fine anno: «Ma si accorgono di cosa sta succedendo nel mondo? - si sgola Matteo Salvini - Questi sono matti! La Lega farà le barricate, in Parlamento e poi nelle piazze con un referendum, contro questa vergogna». Il leghista evoca «espulsioni a valanga» e mette in dubbio quanto promesso dal ministro: «Scommetto un caffè che il prode Alfano calerà le braghe entro una settimana».

Eppure, il titolare dell’Interno ripete che il rinvio appare l’unica soluzione possibile: «Questa vicenda non è materia di un singolo partito. Si sono levate voci molto autorevoli che affermano ragioni tecnicamente valide a sostegno di una abrogazione - ammette - ma motivi di opportunità fin troppo evidenti mi inducono a ribadire che è meglio non attuare la delega». Agli antipodi della Lega si schiera invece Sinistra Italiana. «Il reato di immigrazione clandestina - sostiene il capogruppo alla Camera Arturo Scotto - è sbagliato e inefficace. Va abolito».
«Lo scrittore dialoga a distanza con Bouvard e Pécuchet. “La guerra senza limiti al terrorismo comporta la realtà permanente del terrore e la sua commercializzazione in quanto mercanzia imprescindibile. La prospera industria degli armamenti, impone come premessa indispensabile le guerre”».

La Repubblica, 8 gennaio 2016 (m.p.r.)

Diceva Borges, il miglior lettore moderno delle Mille e una notte: «Non c’è atto che non sia la coronazione di una serie infinita di cause e l’origine di una serie infinita di effetti», ed è una riflessione che abbraccia sia il mondo letterario che quello reale.

Per fare un esempio recente, senza l’immolazione con il fuoco del 17 dicembre 2011 nella località tunisina di Sidi Bouzid del giovane informatico disoccupato Mohamed Buazizi, la cui bancarella di verdure era stata brutalmente rovesciata dalla polizia perché non aveva la licenza di vendita, il movimento di indignazione popolare che spazzò via la satrapia di Ben Ali non sarebbe nato e non si sarebbe esteso alla Libia di Gheddafi e all’Egitto di Mubarak - tutti gli avvenimenti che vanno sotto il nome di Primavera Araba - facendo da detonatore del caos in cui attualmente si trova immerso tutto il Medio Oriente, con le sue ripercussioni violente in Europa: massacri quotidiani di civili in Iraq e in Siria, comparsa del sedicente Califfato islamico, fuga di milioni di civili, sbarchi massicci di profughi in Italia e in Grecia, attacchi della coalizione contro i jihadisti, sanguinosi attentati di questi ultimi contro quelli che loro chiamano apostati e crociati…
Che cosa sarebbe successo, mi domando, se la mattina del 17 dicembre Mohamed Buazizi non fosse andato al mercato, o se la poliziotta fosse rimasta di guardia al commissariato? Le cose non si sarebbero concatenate come hanno fatto, o lo avrebbero fatto in forme e con tempi diversi. La combinazione del caso e la fatalità che guidano la vita e il destino degli esseri umani confermano quotidianamente l’analisi di Borges del genio narrativo di Sheherazade.
La guerra senza limiti contro il terrorismo comporta la realtà permanente del terrore e la sua commercializzazione in quanto mercanzia imprescindibile. La prospera industria degli armamenti, che crea centinaia di migliaia di posti di lavoro in tutto il mondo, impone come premessa indispensabile l’esistenza di guerre come quelle che oggi stanno prosciugando la Siria e l’Iraq, la Libia e il Sudan, il Mali e l’Afghanistan, la Nigeria e lo Yemen.
Le tensioni regionali rappresentano anche un mercato eccellente per quanto riguarda i Paesi arabi alleati dell’Occidente, Paesi massimamente rispettosi, come sappiamo, dei valori democratici e dei diritti umani, come l’Arabia Saudita e gli emirati petroliferi del Golfo. Le armi arrivano nelle mani dei gruppi jihadisti solo grazie ai contratti sostanziosi firmati con quelli e alla loro fornitura clandestina a intermediari doppiogiochisti come quelli che si scontrano in nome di un credo religioso o nazionale: sunniti contro sciiti, curdi contro turchi, sostenitori e vittime del tiranno al-Assad. Di nuovo Borges: labirinto senza uscita della guerra al terrorismo e circolo vizioso di attacchi e risposte in cui Obama, Putin e Hollande si trovano intrappolati.
Quando la successione di eventi drammatici oltrepassa i limiti della comprensione, l’autore del presente articolo si rifugia nella lettura di Bouvard e Pécuchet: immagina gli eroi (molto poco eroici, peraltro) di Flaubert impelagati in elucubrazioni frutto della lettura di un’abbondante bibliografia sul tema terrorismo e islam. Discutono dell’opportunità di visitare i quartieri a rischio delle banlieue per stabilire un contatto con i giovani sedotti dal discorso jihadista, studiare i loro manuali di educazione islamica, indagare sulle ragioni della loro disaffezione nei confronti dei valori laici e repubblicani della Francia.
Bouvard suggerisce di intervistare un imam radicale per raccogliere le sue opinioni sullo scontro di civiltà profetizzato da Huntington. Pécuchet preferisce uno studio esaustivo della storia del Medio Oriente dalla caduta del califfato ottomano, e delle frontiere artificiali dei nuovi Stati create dagli accordi Sykes-Picot. La trasformazione del credo religioso in ideologia bellicosa è il cuore del problema, dice Bouvard. Che cosa passa per la mente di quelli che si immolano con una cintura esplosiva, si domanda Pécuchet. La dozzina di libri che sono stati scritti sull’argomento non ce lo chiarisce. Forse uno psichiatra potrebbe offrirci qualche indizio (Bouvard).
Che differenze ci sono fra i giovani della seconda generazione di immigrati e i convertiti all’islam? (Pécuchet) I conflitti in famiglia, l’abbandono scolastico, lo spaccio di droga… (Bouvard). In maggioranza si tratta di ragazzi apparentemente integrati, che dall’oggi al domani sposano le tesi integraliste (Pécuchet). Come far fronte alla valanga di rifugiati che si dirigono verso l’Unione Europea come all’epoca delle invasioni dei mongoli e dei tartari? E se stessimo assistendo alla decadenza dell’Occidente, al tramonto delle nazioni bianche? (Bouvard) I valori di fraternità e tolleranza delle nostre società sono compatibili con le barriere di filo spinato erette in Ungheria, Croazia, Slovenia e Austria?
Come distinguere, in quella moltitudine di rifugiati, i cristiani autentici da quelli di origine musulmana? (Pécuchet) Potremmo offrire loro, quando arrivano, un panino al prosciutto (Bouvard). Ho appena letto sul mio dizionario che in caso di grande minaccia o pericolo possono ricorrere alla
taqiyya, la dissimulazione della fede, e mangiarsi il panino (Pécuchet). Che fare, allora, in caso di nuovi attentati? Quali sono i Paesi più sicuri? (Bouvard).
I due personaggi flaubertiani si scambiano congetture. Quanto più lontani dall’Eurabia e dai suoi infiltrati, meglio è. La Norvegia li attira, ma la presenza di immigrati magrebini e turchi li riempie di dubbi. L’Islanda è più sicura, ma la severità del clima li scoraggia. Si mettono a consultare le offerte di destinazioni turistiche in paradisi remoti e tranquilli; con un sussulto scoprono che fra questi paradisi c’è anche Sharm el-Sheikh. Prostrati, evocano le isole del Pacifico, dove gli abitanti professano il cristianesimo: soltanto lì potranno sentirsi in salvo. Anche se forse, chissà…
Traduzione di Fabio Galimberti

Le molte facce e le divrse verità nascoste dietro le minacce della Corea del Nord negli articoli di Massimo Fini e Manilo Dinucci. Il Fatto Quotidiano il manifesto, 8 gennaio 2016 (m.p.r.)



Il Fatto Quotidiano
LE MINACCE REALI
E LA BURLETTA DI KIM JONG-UN

di Massimo Fini

«Kim Jong-un non è inserito nella lista dei ‘leader imprevedibili’. In questa lista c’è invece, oltre al leader ucraino Poroshenko e al re dell’Arabia Saudita, Vladimir Putin»

Il test sulla Bomba H, una sorta di potenziamento dell’Atomica diciamo così normale, effettuato dalla Corea del Nord, ha suscitato, come hanno enfatizzato ieri tutti i media, una condanna unanime di Ban Ki-moon, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la consueta minaccia di ulteriori sanzioni economiche per “violazione del diritto internazionale”. Con tutta probabilità questo test è solo una burletta propagandistica come sembrano pensare anche gli Stati Uniti che hanno sollevato forti dubbi sulla sua validità.

Ma facciamo il caso che non sia una burletta. La Corea del Nord, con Israele, India, Pakistan, non ha firmato il ‘Trattato di non proliferazione nucleare’ (TNP). Di che “violazione del diritto internazionale” si sarebbe quindi resa responsabile? Se uno non firma un trattato non lo può nemmeno violare. In realtà i veri proliferatori del nucleare atomico sono gli Stati Uniti che hanno sì ridotto le loro testate (averne 10.000 invece che 15.000 non cambia niente visto che basta un centinaio di questi ordigni per distruggere l’intero pianeta) ma hanno fornito la tecnologia necessaria a circa 35 paesi fra cui Francia, Gran Bretagna, Canada, Israele, India, Australia, Algeria, Corea del Sud e persino all’arcinemico Iran (business ‘non olet’).
In genere i firmatari del TNP lo hanno rispettato non facendo nuove Bombe se già le avevano o non costruendole ex novo, per loro precisa volontà o perché impossibilitati a innescare un processo tecnologicamente così sofisticato (fra i paesi a cui gli Usa hanno fornito la tecnologia c’è la Repubblica del Congo, figuriamoci).
L’Iran è uno di quei paesi che non solo ha firmato il Trattato di non proliferazione ma lo ha anche rispettato accettando le ispezioni dell’Aiea che non hanno mai rilevato nelle centrali nucleari che Teheran ha costruito a usi civili e medici un arricchimento dell’u ranio superiore al 20 per cento (per arrivare alla Bomba l’arricchimento deve essere del 90 per cento) eppure per trent’anni ha subìto pesantissime sanzioni economiche dalla cosiddetta ‘Comunità internazionale’, cioè dagli Stati Uniti, e ne è uscito solo di recente perché i pasdaran iraniani servono all’Occidente, così come i peshmerga curdi, per combattere l’Isis senza rischiare la propria pelle. Dice: ma Kim Jong-un è un dittatore, “pazzo e imprevedibile”.
A parte il fatto che l’Atomica, come è noto, ha solo un valore di deterrenza e nessuno per quanto ‘imprevedibile’ sarebbe così pazzo da gettarla perché il suo paese e lui-meme sarebbe immediatamente spazzato via da una tempesta nucleare (e anche i dittatori, anzi soprattutto loro, ci tengono alla propria pelle) secondo Ian Bremmer, presidente del centro studi Eurasia Group, Kim Jong-un non è inserito nella lista dei ‘leader imprevedibili’. In questa lista c’è invece, oltre al leader ucraino Poroshenko e al re dell’Arabia Saudita, Vladimir Putin. Ma quando un mese fa l’autocrate russo invece di far test nucleari (non ne ha bisogno, anche lui di Bombe ne ha circa 10.000) minacciò, sia pur in modo ambiguo, di usare l’Atomica in Medio Oriente contro l’Isis, la cosa passò quasi sotto silenzio. Invece per la burletta di Kim Jong-un si è scatenato il finimondo.

Il manifesto
LE MINACCE REALI E
LA BURLETTA DI KIM JONG-UN

di Manilo Dinucci
«Gli Usa hanno fornito alla Corea del Nord le più importanti tecnologie per la produzione di armi nucleari»


Dopo l’annuncio di Pyongyang di aver effettuato il test sotterraneo di una bomba nucleare all’idrogeno, il presidente Obama, pur mettendo in dubbio che si tratti veramente di una bomba all’idrogeno, chiede «una risposta internazionale forte e unitaria al comportamento incosciente della Corea del Nord». Dimentica però che sono stati proprio gli Usa a fornire alla Corea del Nord le più importanti tecnologie per la produzione di armi nucleari. Lo documentammo sul manifesto 13 anni fa (5 febbraio 2003).

La storia inizia quando - dopo essere stato segretario alla difesa nell’amministrazione Ford negli anni Settanta e, negli anni Ottanta, consigliere del presidente Reagan per i sistemi strategici nucleari - Donald Rumsfeld entra a far parte nel 1996 del consiglio di amministrazione della Abb (Asea Brown Boveri), gruppo leader nelle tecnologie per la produzione energetica. Rumsfeld esercita subito la sua influenza per far avere alla Abb l’autorizzazione di Washington a fornire tecnologie nucleari alla Corea del Nord, nonostante essa abbia già un programma nucleare militare. Neppure tre mesi dopo, il 16 maggio 1996, il Dipartimento statunitense dell’energia annuncia di aver «autorizzato la Abb Combustion Engineering Nuclear Systems, una consociata interamente controllata dalla ABB, a fornire una vasta gamma di tecnologie, attrezzature e servizi per la progettazione, costruzione, gestione operativa e mantenimento di due reattori nella Corea del Nord».
Il Dipartimento statunitense dell’energia - responsabile non solo del nucleare civile, ma anche della produzione di armi nucleari - sa che tali reattori possono essere usati anche a scopi militari, e che le conoscenze e tecnologie fornite possono anch’esse essere utilizzate per un programma nucleare militare. La Abb può così stipulare nel 2000 con la Corea del Nord due grossi contratti per la «fornitura di componenti nucleari». In quel momento Rumsfeld è ancora nel consiglio di amministrazione della Abb, da cui si dimette nel gennaio 2001, quando assume l’incarico di segretario alla difesa nell’amministrazione Bush. Nel 2003, la Corea del Nord annuncia il suo ritiro dal Trattato di non-proliferazione (Tnp), a cui aveva aderito nel 1985.
I «colloqui a sei» (Usa, Russia, Cina, Giappone, Nord Corea, Sud Corea) per il suo rientro nel Tnp, subito iniziati, si interrompono nel 2006 quando la Corea del Nord effettua il primo dei suoi quattro test nucleari. Successivamente riprendono, ma si interrompono di nuovo nel 2009. La responsabilità è anche ma non solo di Pyongyang. Poiché il Trattato di non-proliferazione continua ad essere violato anzitutto dagli Stati uniti, primi firmatari, a Pyongyang sono arrivati alla cruda conclusione che è meglio avere le armi nucleari che non averle. Il Tnp obbliga gli Stati dotati di armi nucleari a non trasferirle ad altri (Art.1), e gli Stati non in possesso di armi nucleari a non riceverle (Art. 2). Obbliga allo stesso tempo tutti gli Stati firmatari, a partire da quelli con armi nucleari, ad adottare «effettive misure per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare» fino a «un Trattato che stabilisca il disarmo generale e completo» (Art. 6). Obbliga inoltre tutti gli Stati firmatari a «rinunciare, nelle loro relazioni internazionali, all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato» (preambolo).
L’esempio di come si debba operare per il disarmo nucleare, lo danno soprattutto gli Stati uniti. Essi hanno varato un piano, del costo di 1000 miliardi di dollari, per potenziare le forze nucleari con altri 12 sottomarini da attacco, armato ciascuno di 200 testate nucleari, e 100 nuovi bombardieri strategici, ciascuno armato di oltre 20 testate nucleari. Contemporaneamente, violando il Tnp, stanno per schierare in cinque paesi Nato - quattro europei più la Turchia, che violano anch’essi il Tnp - circa 200 nuove bombe nucleari B61-12, di cui circa 70 in Italia con una potenza equivalente a quella di 300 bombe di Hiroshima.
Le forze nucleari Usa/Nato, comprese quelle francesi e britanniche, dispongono di circa 8000 testate nucleari, di cui 2370 pronte al lancio, a fronte di altrettante russe, tra cui 1600 pronte al lancio. Aggiungendo quelle cinesi, pachistane, indiane, israeliane e nordcoreane, il numero totale delle testate nucleari viene stimato in 16300, di cui 4350 pronte al lancio. E la corsa agli armamenti nucleari prosegue soprattutto con la continua modernizzazione degli arsenali.
Come si debba «rinunciare all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato», lo dimostrano sempre gli Stati uniti e la Nato. Con la prima guerra contro l’Iraq nel 1991, la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011, la Siria dal 2013. E nel 2014 con il colpo di stato in Ucraina, funzionale alla nuova guerra fredda e al rilancio della corsa agli armamenti nucleari. Per questo la lancetta dell’«Orologio dell’apocalisse», il segnatempo simbolico che sul «Bulletin of the Atomic Scientists» indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, è stata spostata da 5 a mezzanotte nel 2012 a 3 a mezzanotte nel 2015. Ciò a causa non tanto del «comportamento incosciente» di Pyongyang, quanto del «comportamento cosciente» di Washington.

L’intervista di Vanna Vannuccini all'analista conservatore Seyed Mohammad Marandi: «L’Arabia Saudita si trova potenzialmente davanti a una tempesta perfetta, anche se negli Stati Uniti e in Europa ha ancora influenza soprattutto perché compra incredibili quantità di armi».

La Repubblica, 8 gennaio 2016 (m.p.r.)

Teheran. Per Seyed Mohammad Marandi, presidente della Facoltà di Studi globali dell’università di Teheran e apprezzato analista conservatore, la crisi tra Iran e Arabia Saudita non avrà conseguenze sull’Iran. «E’ una nota a piè di pagina. Da sempre l’Arabia Saudita percepisce la Repubblica Islamica come una minaccia ed è stata questa una delle ragioni che l’hanno spinta a rafforzare il wahabismo e propagarlo nel mondo. Il wahabismo è per Riad un asset strategico, anche se ora, con la nascita dell’Is, minaccia di ritorcerglisi contro. Certo, mai i regnanti sauditi avevano agito in modo così aggressivo e impulsivo. Questa aggressività è segno di debolezza».

Non le pare di sottovalutare l’importanza dell’Arabia Saudita per gli Stati Uniti e per l’Occidente? I giornali occidentali si sono preoccupati più dell’assalto all’ambasciata a Teheran che delle decapitazioni, perché ancora una volta gli iraniani violavano le convenzioni internazionali..
«L’Arabia Saudita si trova potenzialmente davanti a una tempesta perfetta, anche se negli Stati Uniti e in Europa ha ancora influenza soprattutto perché compra incredibili quantità di armi. I regnanti sauditi sono nervosi. Il prezzo del petrolio continua a scendere, grazie prima di tutto alla loro politica, e ora si trovano di fronte a un buco di bilancio di quasi 100 miliardi di dollari. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che potrebbero trovarsi con le casse vuote tra due tre anni, ma le stime di banchieri italiani che ho incontrato di recente sono ancora più catastrofiche: 15-18 mesi. La popolazione saudita è cresciuta pensando che il benessere viene dal suolo, in nessun altro Paese al mondo ci sono proporzionalmente tanti lavoratori stranieri che fanno il lavoro al posto dei locali. Il governo ha dovuto ordinare alle società straniere di assumerne una quota, le società straniere ne farebbero volentieri a meno perché li considerano incompetenti. La coalizione antiterrorismo messa su frettolosamente non è che un’alleanza di carta con un indirizzo a Riad. Il governo saudita dice di combattere l’Is e Al Qaeda ma in realtà in Siria e in Yemen sta dalla parte dei loro alleati».
Per trovare una soluzione alla guerra in Siria una collaborazione tra Iran e Siria appare indispensabile. Che cosa succederà ora secondo lei?
«L’Iran non accetterà le condizioni poste dai sauditi. Perfino i documenti del 2012 appena declassificati dall’intelligence americana sulla Libia confermano che l’Iran aveva ragione: i sauditi sostenevano già allora gli estremisti, non si trattava di teorie iraniane a beneficio di Assad».
Sui social media si accusa l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad di avere le mani in pasta nell’assalto all’ambasciata saudita: è così?
«Non Ahmadinejad stesso, ma probabilmente suoi simpatizzanti che hanno agito spontaneamente».

«La risposta al Family day organizzata per il 23 gennaio dalle famiglie gay, in difesa della stepchild adoption Renzi affida a Boschi e Orlando la mediazione nella maggioranza, ma esclude emendamenti del governo».

La Repubblica, 8 gennaio 2016

Non una, ma tante piazze per l’uguaglianza delle famiglie ». Con questo slogan la galassia delle associazioni gay, con “Famiglie arcobaleno” in testa, sta preparando una mobilitazione in tutt’Italia il 23 gennaio per la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner, considerata il minimo sindacale in fatto di diritti degli omosessuali. Ancora tutto provvisorio. «Un cantiere, a cui stiamo lavorando da tempo, non antagonista alla manifestazione cattolica », sostiene Marilena Grassadonia, presidente dell’Associazione delle famiglie gay. ma di fatto alla piazza cattolica del Family day i laici risponderanno con le “contropiazze” arcobaleno. E con un presidio davanti al Senato, il giorno dell’inizio del dibattito in Parlamento .

Dall’aula parlamentare di Palazzo Madama, dove il 26 approda la legge sulle unioni civili, la battaglia si sposta nel paese. Renzi mette in conto di sondare il terreno politico alla ricerca di una mediazione sulla stepchild adoption che eviti lo scontro. Saranno due ministri, il Guardasigilli Andrea Orlando, e Maria Elena Boschi a tentare di ricucire una maggioranza lacerata. Nelle intenzioni del premier soprattutto il Pd dovrebbe essere compatto, evitando agguati sulle unioni civili nei voti segreti.

È escluso però che il governo presenti direttamente una proposta di mediazione. «Non ci sarà mai», assicurano dal fronte dem. Luigi Zanda, il capogruppo del Pd a Palazzo Madama, è tuttavia certo che «soluzioni migliorative » saranno studiate. L’affido rafforzato, ad esempio? «Non intendo inseguire mozziconi di soluzioni, perché ho troppo a cuore che la legge passi, quindi vedremo», risponde. Monica Cirinnà, la senatrice dem prima firmataria della legge, è invece certa che il testo sia di fatto blindato e non ci sarà un arretramento rispetto alla questione dell’adozione.

I contatti, che pure ci sono, tra senatori dem e i vescovi, non metteranno in discussione l’impianto della legge sulle unioni civili, dice Sergio Lo Giudice, ex presidente Arcigay, un figlio con il suo compagno, per il quale il disegno di legge rappresenta solo un passo. Lui sarà in piazza. Come Franco Grillini, presidente di Gaynet, che da parlamentare presentò il primo disegno di legge sui Pacs. Ricorda, Grillini, quando nel 2005, il Vaticano chiese i nastri registrati della discussione in commissione parlamentare sulla sua proposta di legge. «Ora il Vaticano se ne tiene fuori, sa del resto che rispetto al matrimonio egualitario, quella delle unioni civili è una legge moderata ». Ad Angelino Alfano, il ministro dell’Interno che agita lo spauracchio del referendum abrogativo se la legge passasse, replica: «Sfida accettata, sarebbe una gigantesca pubblicità alle ragioni dei gay». Il tam tam della mobilitazione laica del 23 è lanciato da Arcigay, Arcilesbica, Famiglie arcobaleno, Agedo, Associazione Radicale Certi diritti, Mit, altre associazioni si stanno aggiungendo.

A gettare benzina sul fuoco è stato ieri anche un post di Mario Adinoldi, ultrà cattolico, che indica i “7 atti da compiere per fermare il ddl Cirinnà”, tra i quali: una presa di posizione netta dalla Chiesa, emendamenti sollecitati da mail bombing con cui sommergere i senatori.

Forse già oggi il Pd potrebbe convocare una riunione tra capigruppo e ministri per ragionare su un compromesso. Molti alfaniani si dicono a questo punto disponibili a ragionare di “affido rafforzato”, aperture vengono anche dal capogruppo Renato Schifani. Però le divisioni sono trasversali e lacerano i partiti. Nel Pd una direzione il 18 gennaio dovrebbe rinfrescare la linea, ma intanto è polemica tra il cattolico Franco Monaco e il sottosegretario Ivan Scalfarotto. Il socialista Nencini ricorda che il concetto di famiglia si è allargato: «Unica preoccupazione sia il bene del bambino».

l manifesto, 8 gennaio 2016l
Sono un nodo difficile da districare, le violenze dell’ultimo dell’anno avvenute nella piazza tra la cattedrale e la stazione di Colonia. Un nodo, perché sono molti gli elementi che si impigliano gli uni negli altri. Prima di tutto i fatti. Di certo ci sono le denunce delle donne colpite, la loro angoscia, le lacrime, i racconti. Poi ci sono le anomalie. Ci sono voluti giorni perché vicende così clamorose diventassero pubbliche; la polizia, in epoca di terrorismo, ha lasciato così sguarnita una zona nota per la sua pericolosità.

E si moltiplicano le domande su chi siano in realtà gli assalitori, identificati per il loro aspetto straniero e la pelle scura; se si tratta di bande organizzate, e quali fossero le loro mire. Se i furti, le donne, oppure entrambi. Gli arresti per ora sono sei, la polizia non ha ancora proposto una ricostruzione esauriente. Ma si può partire anche dalle interpretazioni, dalla politica, dalle tesi che ai fatti si sovrappongono e ne rendono difficile la comprensione.

Una minaccia per le donne europee, attraverso di loro una forma della guerra dichiarata a tutti, questa è l’interpretazione prevalente, con toni più o meno accesi. In Italia si distingue come sempre Il Giornale: «Vogliono colpire le nostre donne», mentre compare l’immancabile accusa: «Perché le femministe italiane non parlano?».

Che la vicenda si intrecci con il milione di richiedenti asilo che quest’anno sono entrati in Germania è evidente. Come è evidente l’uso strumentale nella battaglia contro la cancelliera Merkel, sotto accusa da quando nel settembre scorso di fronte alla pressione sui confini dei profughi siriani disse: «Abbiamo la forza di fare quanto è necessario», e non pose limiti ai richiedenti asilo. Una scelta che rischia di penalizzarla nelle prossime elezioni.

Ma non si può ricondurre tutto a una questione di geopolitica, minimizzare fatti «disgustosi», come li ha definiti la stessa Angela Merkel. Ecco, io partirei proprio da questa definizione. In effetti le molestie sono disgustose. Uomini soli, ubriachi e, come dire, eccitati, che nella folla palpeggiano, toccano, irridono, oltre che rubare, fanno paura. Ma sono un fatto mai visto, non è mai successo?

Credo che il dovere della polizia sia di accertare se sia vera l’esistenza di un piano speciale, di un progetto organizzato di bande di giovani nordafricani, che in ogni caso poco hanno a che fare con i profughi appena arrivati. Accertarlo è necessario, sarebbe un fatto grave, sul quale per ora va sospeso il giudizio, di cui vanno analizzate bene le motivazioni, le finalità. E in attesa di dati certi non si può dire altro se non che è vero, le culture dei paesi di origine sono maschiliste, le donne che si muovono liberamente per strada, per di più di notte, sono perlomeno una stranezza fastidiosa se non una preda.

Ma non c’è stata una sottovalutazione, proprio di questo problema? E forse, ma mancano informazioni, non si è prestato subito ascolto alle denunce delle donne che hanno subito gli assalti?

Spazi illuminati, controllo discreto ma evidente delle zone dove ci sono gli assembramenti vistosi di giovani maschi, ascolto delle denunce di donne che si sentono insicure in alcune zone. La sicurezza delle donne, la libertà di muoversi senza paura è fatta di un insieme di misure, che sempre più le amministrazioni sono orientate a introdurre. Molto di più può fare il cambiamento di mentalità, la cultura, l’abitudine a vedere le donne muoversi liberamente, a non dare retta e a non avere paura degli uomini.

Anni fa, ai tempi del femminismo di piazza e di massa, su un autobus romano un uomo anziano disse a uno più giovane, che vistosamente stava molestando una ragazza: «Ma lassa perde, nun hai capito che nun hanno bisogno de noi, ormai». Non è per sdrammatizzare che racconto questo piccolo episodio, che mi sembra tuttora indicativo di come i cambiamenti entrano nella mente della gente per le vie più svariate. È che penso che si tratti un passaggio necessario, per chi arriva in un paese dove le donne godono di una libertà inaudita rispetto alle proprie abitudini. Un problema che va considerato in tutti i progetti di accoglienza, da trattare con la dovuta attenzione.

Ma l’arrivo dei profughi, dei migranti in Europa è proprio una minaccia epocale per le donne? Diversa dalla vita difficile che ciascuna si trova a condurre di solito, nelle strade e soprattutto nelle case, se si considerano le statistiche sulle donne maltrattate? Non comprendo come sia possibile pensare di separare le famiglie, far entrare le donne e i bambini, lasciare fuori gli uomini. Una cosa è ben nota, in qualunque contesto. Che sono gli uomini soli, separati dalle loro donne, dalle loro famiglie, a creare i maggiori problemi di ordine pubblico.

Certo, se entrano nei nostri paesi gruppi che perseguono lo stupro etnico, come è successo ai tempi della guerra in Bosnia, sarebbe un fatto di una gravità assoluta. Eppure, almeno alle notizie attuali, il paragone mi sembra del tutto spropositato. Un effetto dell’incontrollabile e pervasiva macchina della paura.

«Ha senso preoccuparsi per la concatenazione con la quale i dati sono inanellati: inazione, lavori atipici o emigrazione. Questo induce a pensare che si emigra non semplicemente per trovare un lavoro qualsiasi - del quale probabilmente si può sperare, almeno a tre anni dalla laurea, anche in Italia. Si emigra perché non si vuole accettare un lavoro qualsiasi».

La Repubblica, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)

Scriveva Gramsci il primo gennaio di cento anni fa di odiare i capodanni «a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione»; che fanno perdere «il senso della continuità della vita », facendo credere che tra anno e anno incominci una nuova storia con “propositi” di cambiamento e correzione di vecchi errori. Ma poi, ogni nuovo anno si rivela essere sempre un vecchio anno. Questa rappresentazione si adatta bene a chi, nonostante si sforzi di non cadere nel gufismo, si imbatte nei dati Eurostat da poco resi noti, e si accorge di una realtà effettuale che non consola e, soprattutto, non consente evasioni.

I dati confermano la invariabilmente sconfortante condizione (non)lavorativa giovanile. Il trend negativo persiste e riguarda soprattutto coloro che hanno già concluso gli studi universitari (dai 25 ai 34 anni), per i quali l’inattività continua ad essere alta e, anzi, ad aumentare: il livello cresce costantemente da dieci anni, passando dal 21,9% nel 2004 al 27% nel 2014 e al 27,6% nel 2015. Alla fine della formazione universitaria, dunque, i giovani non trovano lavoro per un lungo periodo di tempo (uno su tre lo trova dopo tre anni) neppure, a quanto pare, se adottano l’espediente suggerito dal Ministro Poletti e si accontentano di voti bassi o mediocri. La condizione per le giovani donne è perfino peggiore: lo è in tutti i paesi europei in generale, dove i tassi dell’occupazione maschile sono stati sempre costantemente superiori a quelli dell’occupazione femminile, ma lo è soprattutto in tre paesi, Malta, l’Italia e la Grecia che registrano la più alta percentuale di disoccupazione giovanile di genere.
Per i giovani al di sotto dei trent’anni si prospettano tre scenari possibili: inattività forzata, lavori atipici o emigrazione. Raramente un lavoro ben retribuito; generalmente un lavoro mal pagato; lavoro per gli uomini più che per le donne; e infine prospettive di carriera insoddisfacenti: ci sono tutti gli ingredienti per una vita infelice.
Come dare torto a chi lascia? A chi decide di impiegare al meglio gli anni più creativi e pieni di futuro fuori del proprio Paese? Chi se ne va, non ha gettato la spugna e non è un disfattista. Se poi è l’Europa la meta dell’andare, è ragionevole pensare che più che di emigrazione si debba parlare di trasferimento di residenza. È del resto un fatto che l’Europa a partire dal Trattato di Roma è nata sul principio della libertà di movimento per ragioni di lavoro. E nel corso degli ultimi decenni, la mobilità dei giovani verso gli atenei stranieri è stata stimolata anche per facilitare il processo di integrazione europea. Sugli effetti virtuosi dei programmi Erasmus c’è pieno consenso. Se tutto questo è vero, ha senso preoccuparsi di questi dati?
Ha senso preoccuparsi per la concatenazione con la quale i dati sono inanellati: inazione, lavori atipici o emigrazione. Questo induce a pensare che si emigra non semplicemente per trovare un lavoro qualsiasi - del quale probabilmente si può sperare, almeno a tre anni dalla laurea, anche in Italia. Si emigra perché non si vuole accettare un lavoro qualsiasi. Si esce per trovare un lavoro che sia soddisfacente poiché, evidentemente, né l’inazione né il lavoro per un pugno di soldi è sufficiente a far sentire soddisfatti. È questa narrativa suggerita dai dati Eurostat che non può non preoccupare e rattristare. Essa fotografa non solo un Paese che ha molte porte chiuse ma anche che apre porte che non lasciano presagire un futuro (e un presente) soddisfacente. Se i giovani se ne vanno, quindi, è perché non si accontentano del lavoro atipico e vogliono provare se stessi al meglio, un’opzione che le esistenti porte aperte non lasciano molto probabilmente intravedere.
È questa ricerca non soddisfatta della buona condizione lavorativa che deve far impensierire. Perché denuncia una realtà ingessata e a quanto pare resistente al mutamento. Perché propone una lettura che va nella direzione opposta a quella del lavoro pur che sia, anche a costo di voti bassi. Perché esige una prospettiva di vita, e non una qualche occupazione. È questa lettura dei dati Eurostat che deve fare riflettere perché mette in luce una realtà insoddisfacente dal punto di vista psicologico ed esistenziale, prima ancora che economica. Non è solo per la mancanza di lavoro che i giovani emigrano, ma anche perché le condizioni lavorative prospettate sono probabilmente poco attraenti, poco elastiche all’inventiva personale, poco disposte a ben vedere l’intrapredenza individuale e molto preoccupate a preservare un modus operandi inossidabile, equilibri consolidati spesso conformisti e gerarchici. Sono anche queste le ragioni che inducono i giovani ad andarsene. A non accettare l’inazione o il lavoro atipico o un’occupazione qualsiasi.
«Da Taranto a Brindisi, dalla Sardegna a Brescia: il Milleproroghe fa slittare ancora l’obbligo di stare nei limiti di emissione. Dovevano entrare in vigore nel 2008».

Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
Il cosiddetto “codice dell’ambiente” in giuridichese sarebbe il decreto legislativo 152 del 2006. E, com’è intuitivo, è entrato in vigore dieci anni fa. Uno dei suoi articoli - recependo una direttiva europea - pone dei limiti alle emissioni dei cosiddetti “grandi impianti di combustione”, in sostanza centrali di produzione dell’energia con una capacità superiore ai 50 megawatt. Non sono, a detta degli esperti, limiti da talebani dell’ambientalismo: basti dire che sono stati scritti a Bruxelles, dove le lobby contano qualcosa. Eppure, nonostante le soglie tengano nel dovuto conto il profitto delle imprese, dieci anni non sono bastati a farle entrare davvero in vigore: nell’ultimo decreto Milleproroghe, infatti, c’è l’ultima di una lunga serie di rinvii per i “grandi impianti” costruiti prima del 2006, cioè quasi tutti.

Detto in parole povere, potranno continuare a non rispettare i limiti ancora per tutto quest’anno. Il meccanismo è tortuoso, ma non difficilissimo da capire. Il “codice dell’ambiente” concedeva già alle grandi centrali un paio d’anni per mettersi in regola: dal 2008 tutti entro i limiti, per carità. Intanto individuava una serie di deroghe, che andavano concertate con “l’Autorità competente”, che poi sarebbe l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) del ministero guidato da Gian Luca Galletti.
E qui arriva il Milleproroghe 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 dicembre: ovviamente si riallaccia al “permesso di inquinare” precedente, che scadeva a fine 2015, e lo estende al 31 dicembre di quest’anno. Per chi? Per tutti “i grandi impianti di combustione per i quali sono state regolarmente presentate, alla data del 31 dicembre 2015, istanze di deroga” in attesa della “definitiva pronuncia dell’Autorità competente”. A questo punto va notata la finezza dell’operazione: in attesa che Ispra decida sui livelli di emissioni di queste grandi centrali - vuoi per ritardi suoi, vuoi per incompletezza della documentazione allegata, vuoi per il destino cinico e baro - la proroga è concessa a chi ne abbia fatto richiesta entro il 31 dicembre, cioè un giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto e addirittura otto giorni dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri (avvenuta il 23 dicembre).
Pare difficile, insomma, che qualcuno ne sia rimasto fuori. Certo, spegnere le centrali non è una bella cosa, ma quei limiti sono scritti nero su bianco dal 2006: tempo per mettersi in regola ce n’era. Se poi si mettono in fila un po’ di nomi di quelli che potrebbero ottenere la “licenza di avvelenare l’aria” oltre il consentito, la faccenda si fa allarmante: c’è un bel pezzo dei grandi inquinatori d’Italia. Nella lista, per dire, ci sono le centrali a carbone. La sola Enel – a stare al sito di Assocarboni – ne ha otto sparse per l’Italia: da Genova al Sulcis, da Marghera all’Umbria, da Torrevaldaliga Nord (lì vicino c’è pure un impianto Tirreno Power a olio e gas naturale) alla “Federico II” di Brindisi sud, che un rapporto Legambiente considerò la centrale più inquinante d’Italia per emissioni di Co2 e che un recente studio di tre ricercatori del Cnr (pubblicato sul l’International Journal of Environmental Research and Public Health) indica come responsabile di 44 morti evitabili l’anno.
Va ricordato almeno che pochi chilometri più a nord, sempre nel territorio di Brindisi, c’è anche la centrale di Edipower, società controllata dalla multiutility dei comuni di Milano e Brescia, A2A, che ha due impianti che usano (anche) carbone a Brescia e Monfalcone. E ancora. A carbone andava anche la famigerata centrale di Vado Ligure, proprietà di Tirreno Power (cioè i francesi di Gdf Suez, Sorgenia di De Benedetti e altri), finita al centro di un’inchiesta per disastro ambientale e il cui destino industriale non è ancora chiaro. E, comunque, non di solo carbone vivono i “grandi impianti di combustione ”: vecchi inceneritori; le centrali del polo petrolchimico siracusano (Augusta, Priolo, Melilli); la Sarlux della famiglia Moratti a Sarroch, nel sud della Sardegna, che brucia scarti della lavorazione del petrolio (e per farlo ha usufruito per anni degli incentivi per le “energie rinnovabili”).
La lista potrebbe continuare, ovviamente, ma ci limiteremo a citare un solo caso. Nella lista dei “grandi impianti di combustione” di cui Ispra monitora le emissioni c’è infatti anche la centrale termoelettrica dell’Ilva di Taranto, riacquistata qualche anno fa da Edison, che l’aveva comprata negli anni Novanta, all’epoca delle privatizzazioni. L’impianto serve l’acciaieria Ilva, ovviamente, e rivende al Gse (Gestore dei servizi energetici) l’eccedenza. Non se ne parla tanto per dire: Greenpeace, in un report del 2012, rivelò che su 19,7 milioni di tonnellate annue di anidride carbonica emesse dall’acciaieria, 7,5 milioni di tonnellate erano responsabilità delle due centrali termoelettriche interne. Tutto prorogato, tranne il diritto (costituzionale) alla salute.
Una proposta per uscire dalla crisi nella direzione giusta. Il 9-10 gennaio, a Bologna, Decidiamo insieme i principi da assumere, i problemi, da affrontare le azioni da compiere, i metodi da adottare per costruire una nuova sinistra.

Il manifesto, 7 gennaio 2016

Dopo il ventennio berlusconiano e tre governi nominati, un parlamento eletto con una legge illegittima vara riforme che stravolgono l’ordinamento dello Stato, colpiscono i diritti dei lavoratori, la scuola, la gestione del territorio, i beni comuni, i diritti dei cittadini sanciti dalla Costituzione a partire dal ripudio della guerra. Si stanno chiudendo le finestre della democrazia sia formale che sostanziale, non c’è più tempo per tergiversare. L’autoritarismo non è più strisciante, ma è ormai conclamato.

Mentre la politica si avvita praticando, in varie versioni, il cosiddetto «pensiero unico» neoliberista, che coincide con la privatizzazione di tutto l’esistente, un mondo operoso e attento ignorato dall’informazione e dalle istituzioni, se non apertamente combattuto, lavora da tempo sottotraccia per cercare di cambiare le proprie vite e il Paese.

Che fare?

La gravità della situazione in cui la politica, in tutte le sue versioni, risulta incapace di una visione rivolta all’interesse collettivo anziché a quello delle solite lobby con cui è irrimediabilmente compromessa, ci induce a cercare insieme risposte creative ed originali, in grado di avviare, attraverso un dialogo concreto con quelle parti della società in cui ciascuno di noi è immerso, un percorso virtuoso e onesto per ricostituire condizioni di vita accettabili per tutti. E’ un proposito molto ambizioso, ma realistico: milioni di persone in Italia, in Europa e nel mondo stanno operando con lo stesso intento e il nostro non sarà che un contributo a un disegno comune.

Il 9 e 10 gennaio a Bologna (Centro Costa, Via Azzo Gardino, 44) ci porremo assieme questa domanda, convinti che oggi nessuno possa avere da solo tutte le risposte necessarie; ma che insieme, sperimentando nuove pratiche e nuove prospettive e dando valore all’intelligenza di tutti, si possa aprire un cammino nuovo. Abbiamo bisogno dell’apporto, della competenza e dell’esperienza di tutti e di ognuno. Pensiamo che le risposte più innovative possano nascere solo dal confronto e dalla interconnessione tra le persone che già danno vita a iniziative sociali, di lotta e di proposta attive su tutto il nostro territorio.

Vogliamo affrontare con voi molte questioni che giudichiamo prioritarie per il nostro Paese: le riforme costituzionali, la legge elettorale detta Italicum e la questione più generale della democrazia oggi; la conversione ecologica dell’economia e la transizione energetica verso un mondo senza più combustibili fossili e minacce per il clima di tutto il pianeta, tema fortemente connesso con la creazione di tanti nuovi posti di lavoro per tutti; il diritto al lavoro, ma anche a un reddito di dignità per tutti coloro che sono senza lavoro; la questione dei migranti e dei rifugiati; il tema della pace e degli equilibri economici e politici in Europa, nel Mediterraneo e nel mondo; la pessima riforma che il governo, e solo lui, ha chiamato della «buona scuola»; il tema dell’organizzazione della sanità e quello più generale della salute di tutti, soprattutto in termini di prevenzione; il tema delle grandi opere che devastano l’ambiente e la vita di intere comunità; quello delle privatizzazioni e dell’esproprio dei beni comuni; il tema dei diritti di tutti e, tra questi, soprattutto di quelli delle donne che subiscono stupri, femminicidi, discriminazioni di ogni genere e che sono sottoposte a mille forme di sfruttamento, anche grazie a un governo che risparmia e taglia ovunque, riducendo lo stato sociale e scaricando le conseguenze di tutto questo sul lavoro di cura non pagato delle donne.

E’ un tema per noi di primaria importanza perché pensiamo che il riscatto della condizione delle donne, e soprattutto di quelle immigrate che vivono qui tra noi come di quelle dei paesi da cui provengono, è la via più efficace per neutralizzare e sconfiggere la violenza feroce che si manifesta in molte delle guerre in corso e in molti dei recenti episodi di terrorismo, la cui posta in gioco principale è il mantenimento o la riconquista di un dominio incontrastato degli uomini sulle donne che continuano a considerare una «cosa loro».

Sono tutti temi fortemente interconnessi tra loro che richiedono una risposta complessiva e sui quali potremmo lavorare insieme.

Tra questi, quello che a noi sembra ricomprendere un po’ tutti gli altri, perché mette in gioco tutti gli aspetti dell’ambiente in cui viviamo e vivranno in nostri figli e i nostri nipoti, l’opportunità di un lavoro giusto e sensato per tutte e tutti, la partecipazione di tutte e tutti, su un piede di parità, alle decisioni relative a ogni aspetto della nostra esistenza, a partire dal che cosa produrre, come e quanto, e che cosa consumare o utilizzare senza più squilibri tra chi ha troppo e chi niente, è il tema attualissimo, dopo il vertice di Parigi COP 21, della conversione ecologica.

Abbiamo comunque delle scadenze immediate a cui far fronte, che si intrecciano strettamente con i temi di carattere più generale: innanzitutto il prossimo referendum per il no alle riforme costituzionali e la proposizione di nuovi referendum contro la legge elettorale detta Italicum, contro la «Cattiva Scuola» e probabilmente contro il Jobs Act. Ma anche attraverso una nuova stagione di proposte di legge di iniziativa popolare con le quali animare l’asfittico e mistificato dibattito nel paese coinvolgendo finalmente i cittadini.

Il passo avanti su cui vorremmo confrontarci tra tutti è rappresentato a nostro avviso dalla possibilità, tutta da costruire se ci sarà la volontà di farlo, di fare rete e sostenerci reciprocamente mettendo a frutto ogni nostra competenza a beneficio degli altri, affinché i nostri sforzi non rischino di essere vanificati andando «tutti alla spicciolata».

Per questo anche il metodo della discussione che vi proponiamo, il world café, è aperto a ogni possibile contributo ed esito. Cominciamo sperimentando tra noi forme di discussione aperte e orizzontali, lavorando in profondità, con lentezza e con dolcezza, come esortava a fare Alex Langer; costruiamo un collettivo dell’autorappresentanza dandoci i tempi che saranno necessari per costruire uno «spazio» di tutti che ridia voce ai bisogni reali, che sappia guardare all’Europa con l’obiettivo di riprendere il cammino profilato a Ventotene e sistematicamente boicottato dai poteri economico-finanziari e da una dirigenza europea appiattita su questi.

Non basta convergere sugli obiettivi, dovremmo darci dei nuovi metodi, promuovendo una profonda trasformazione culturale a partire da noi stessi, che ci faccia transitare tutti da osservatori spesso impotenti di processi decisionali verticistici o anacronistiche forme di assemblea che creano maggioranze e minoranze sempre molto marginali, a promotori di forme decisionali partecipative e orizzontali, capaci di creare un confronto aperto e fecondo, relazioni di fiducia e di rispetto reciproco, decisioni condivise e realmente utili a provare a dare risposta ai bisogni del mondo sociale non più prorogabili.

È il momento di assumerci tutti una responsabilità nuova. Vogliamo provarci insieme?

Germania. S’infiamma il caso delle molestie sessuali di massa. Il ministro degli Interni accusa la polizia, i media se la prendono con la sindaca Reker, Csu e destra con gli stranieri. E in rete parte l’appello: "Andiamo a difendere le nostre donne"». Il manifesto, 7 gennaio 2016

Il capodanno di Colonia sembra annunciare una catastrofe politica e sociale in tutta la Germania. Cosa sia veramente accaduto è molto poco chiaro. Certo è solo che un elevatissimo numero di donne sono state aggredite, molestate, derubate da folti gruppi di giovani uomini, cui molte testimonianze attribuiscono tratti nordafricani o mediorientali. Certo è anche che le notizie su quanto accaduto sono giunte solo alcuni giorni dopo l’orribile notte di San Silvestro. E, come spesso accade in un quadro indistinto, fioriscono speculazioni e manipolazioni.

Tutti accusano tutti: il ministro degli interni de Maziere accusa la polizia di Colonia, il ministro degli interni del Nordreno-Westfalia la difende, il sindaco di Colonia Henriette Reker, nota per le sue posizioni favorevoli all’accoglienza dei rifugiati, viene accusata da alcuni media di essersi limitata a risibili consigli «antimolestie», la Csu riprende la parola d’ordine dell’estrema destra sulla «stampa bugiarda», sospettata di coprire il ruolo decisivo dell’immigrazione islamica nella diffusione di aggressività nei confronti delle donne. Le quali, stando almeno alle testimonianze selezionate, risultano tutte di impeccabile stirpe germanica. Circostanza improbabile in una popolazione mista come quella di Colonia, ma che diversamente avrebbe complicato il comodo schema del bianco e del nero.

Intanto, col passare dei giorni, nuove denunce piovono sulla polizia, da Amburgo, Duesseldorf, Bielefeld, Francoforte. Immancabilmente gli aggressori parlano un cattivo tedesco con forte accento arabo. Non mancano nemmeno voci, del tutto infondate, secondo cui tra i “fermati” figurerebbero alcuni migranti richiedenti asilo. In realtà allo stato attuale non risultano fermi o arresti.

Intanto sulla rete circolano inviti a recarsi a Colonia «per difendere le nostre donne». «Nostre«, appunto, proprietà del maschio germanico, chiamate a incarnare non la loro libertà, ma i «valori» tedeschi. È da mesi che i media conservatori insistono sul fatto che la prevalenza di giovani maschi di religione islamica tra i rifugiati avrebbe comportato una minaccia per la sicurezza delle donne. Personaggi e forze politiche da sempre attaccati ai tradizionali ruoli dettati dal patriarcato si scoprivano improvvisamente convinti paladini della libertà femminile.

E i fatti di Colonia rappresentano il perfetto coronamento di questa campagna. In un clima in cui la violenza contro gli stranieri cresce in maniera esponenziale gli appelli a «vendicare» le vittime della notte di San Silvestro rischiano di trovare non poco ascolto.

Ma queste minacciose conseguenze non ci esimono dal capire cosa sia veramente accaduto tra la stazione e il duomo della città renana.

Fonti governative e di polizia insistono nel ritenere le aggressioni un disegno organizzativo, se non addirittura una «nuova forma di criminalità organizzata» (questo sostiene il ministro della Giustizia). Sembra che nell’area della stazione di Colonia operassero indisturbate bande di scippatori di origini algerine da tempo residenti in Germania. Può darsi che per San Silvestro queste ed altre bande provenienti da diverse città si fossero concentrate per sfruttare l’occasione della folla in festa. Se è vero che gli aggressori agivano per gruppi di 20 o 40 persone non si può escludere, se non altro, almeno un ampio passaparola.

Ma non è affatto chiaro a quanti gruppi possano essere imputate le aggressioni. Né in quale misura possa esservi stata emulazione alimentata dall’alcol e dalla confusione. Di certo in questa oscurità si moltiplicano ipotesi e supposizioni, circolano veleni e si annidano nuove violenze.

cire dalla crisi della sinistra novecentesca e aprire la strada alla costruzione di un'altra società. «Partiamo da quanti sono già scesi in campo e ci giocano ogni giorno».

Il manifesto, 6 gennaio 2016


Aldo Carra ha lanciato un appello affinché i «giovani e, soprattutto, le tante giovani donne impegnate nelle associazioni, nei movimenti, nell’attività politica di base, che hanno competenze e passioni da vendere trovino il coraggio di scendere in campo», inteso come il terreno dell’azione politica nelle istituzioni attraverso la rappresentanza elettorale. In Grecia il movimento anti austerity è stato decisivo per far nascere Syriza, come lo sono stati gli indignados in Spagna. Senza questa spinta dal basso i vari tentativi di «ricomposizione» della sinistra politica appaiono manovre a tavolino di un «ceto politico» attento solo a frenare il proprio declino. In Italia, in mancanza di movimenti travolgenti, di leader capaci di bucare lo schermo e, per contro, in presenza del M5S che copre benissimo l’incazzatura «anticasta» e di un partito del premier che copre benissimo l’interclassismo nazional-popolare, cosa si può fare? Carra propone di incominciare a lavorare dalle fondamenta e in modo partecipato, aperto, inclusivo. L’obiettivo è di incominciare ad abbozzare una «carta dei valori» di «una nuova sinistra». E di farlo prestando attenzione al metodo; adottando un modello wikipedia, cioè, in creative commons, senza diritti di autore (leggi: primogeniture, supremazie dogmatiche, recinti) e con la disponibilità di mettere in comune di tutti tutto ciò che si ha a disposizione: idee, esperienze, risorse.

Carra propone di partire gettando due plinti dei primi due pilastri: il lavoro, cioè cercare di capire «che fine hanno fatto oggi le classi sociali», e, secondo, quale «modello di democrazia» può dare oggi una risposta alla crisi della democrazia rappresentativa.

Stupendo! Sono convintissimo che la crisi della sinistra (cioè, di un’idea di società capace di esaltare sia le libertà individuali sia l’equità sociale), ben prima di essere elettorale, derivi da cedimenti culturali, da una perdita di visione e, di conseguenza, di un progetto di società convincente, attrattivo, tanto da far scattare la molla dell’impegno in quei giovani e in quelle giovani a cui si rivolge Carra che non credono più in questo modo di fare politica.

E ne hanno scelto un altro — ai loro occhi — più bello, più soddisfacente, più concreto e più utile: quello praticato dai movimenti, dall’associazionismo che realizza relazioni interpersonali e sociali più umane, più attente agli altri e più responsabili verso l’ambiente.

Loro sono già «scesi in campo» e ci giocano tutti i giorni.

E’ la sinistra politica italiana che è uscita da tempo da quel campo.

«Tra paura ed egoismi nazionali torna l’Europa delle frontiere. Dietro la “riduzione” di Schengen c’è il rischio di un continente di nuovo diviso. Così i Paesi “virtuosi” del Nord provano a relegare ai margini Italia e Grecia, in un Mediterraneo in fiamme». La Repubblica, 5 gennaio 2015

Era un simbolo, il ponte di Oresund. Un simbolo europeo. Cinquanta campate sopra il Baltico costate più di quattro miliardi, in parte anche di fondi Ue. Otto chilometri per collegare Svezia e Danimarca, saldare Copenhagen e Malmoe come fossero un’unica città. Era il sogno di unire ciò che la natura ha diviso, e di farlo in nome di una buona volontà umana superiore a qualsiasi sfida. Il miraggio è durato quindici anni. Ha retto tempeste e mareggiate. Ma non ha retto allo tsunami dell’immigrazione che sta sommergendo l’Europa e ridicolizzando il suo progetto di fratellanza.

Adesso Oresund, intasato dalle code alla improvvisata frontiera imposta dopo mezzo secolo tra Svezia e Danimarca, è diventato il simbolo delle paure e degli egoismi nazionali che riemergono come fantasmi dal nostro passato. Più del filo spinato piantato da Orban sulle frontiere ungheresi. Più delle migliaia di auto che nei giorni scorsi hanno aspettato ore al confine italo-francese. Più dei cani poliziotto che pattugliano i confini sloveni.

Stretta nella doppia morsa dell’immigrazione e del terrorismo, l’Europa deve fare i conti con l’istinto primordiale di cancellare se stessa e rifugiarsi dietro l’illusorio baluardo degli Stati-nazione. Il progetto che aveva preso il volo con la fine della grande paura della Guerra fredda, con il crollo del muro e il ritiro dell’Armata rossa, ora deve fare i conti con nuove minacce e nuove paure. Deve misurarsi con l’esercito, pacifico, disperato ma inarrestabile, dei profughi. E con quello, più piccolo ma ben più minaccioso, dei fanatici della Jihad. E la prima vittima di questa doppia offensiva è la libertà di circolazione. Che poi, a guardar bene, è la libertà di sentirci veramente europei.

La Svezia, sommersa da 160 mila profughi in un anno, proporzionalmente poco meno di quelli arrivati in Turchia in cinque anni, ha deciso di chiudere le frontiere con la Danimarca.

E la Danimarca, di riflesso, ha impiegato meno di tre ore per chiudere le sue frontiere con la Germania. Il colosso tedesco, che di rifugiati ne ha accolti un milione, per ora resiste. Ma avverte: «Schengen è in pericolo». E chiede a gran voce (e a ragione) «una soluzione europea». Già, ma quale?

Di fronte allo spettacolo del ponte di Oresund diventato frontiera sarebbe facile ironizzare sul fatto che questa volta, apparentemente, l’anello debole della solidarietà comunitaria si colloca tra i ricchi e progrediti Paesi del Nord Europa e non nel «ventre molle» del Continente, tradizionalmente rappresentato dal suo fianco Sud. Purtroppo non è così. E la chiusura del ponte tra Svezia e Danimarca rischia di essere l’innesco di una reazione a catena che ha per bersaglio ultimo l’Italia e gli altri Paesi di primo impatto dell’immigrazione.

Ci ha pensato subito il premier conservatore danese, Lars Løkke Rasmussen, a chiarire i termini della questione, così come vengono interpretati al Nord: «E’ evidente che l’Ue non è capace di proteggere le sue frontiere esterne, e così anche altri saranno presto obbligati a ripristinare i controlli di confine». Insomma, visto dal Baltico, il problema dell’Europa è ancora una volta la Grecia (e in parte l’Italia). È Atene che non riesce a frenare il flusso dei migranti in arrivo attraverso l’Egeo. È Atene che non appare in grado di identificare e fermare quanti arrivano sul suo territorio rimandando indietro coloro, e sono forse la maggioranza, che non hanno titoli per chiedere l’asilo politico. Il contagio, in fin dei conti, che si tratti di flussi migratori o di crisi finanziaria, viene sempre dal Sud.

Come ai tempi della crisi dei debiti sovrani, l’Europa si divide lungo una faglia che separa “virtuosi” e “peccatori”, con i primi ben decisi a far prevalere il rispetto delle regole sugli obblighi di solidarietà. La moneta unica va bene, ma i debiti restano nazionali e ciascuno deve ripianare il proprio. Le frontiere uniche vanno bene, ma gli immigrati illegali restano “nazionali” e ciascuno deve identificare e rimpatriare i propri.

E qui sta il vero, formidabile pericolo politico che minaccia i Paesi più esposti al flusso migratorio, come la Grecia o l’Italia. La libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea non è solo una conquista di altissimo valore simbolico. È anche, e soprattutto, uno straordinario fattore di sviluppo economico. Come dimostrano le lamentele degli imprenditori svedesi e danesi, l’Europa oggi non è in grado di reggere i costi indiretti che il ristabilimento delle frontiere nazionali comporterebbe e che sarebbero probabilmente superiori ai costi indotti dallo tsunami migratorio.

Per cui, se si afferma il principio che la colpa della situazione è dei Paesi di primo arrivo, alla fine il rischio è che Schengen si ricostituisca tagliandoli fuori.

Questa idea di una Schengen «ridotta », che esclude dalle proprie frontiere i Paesi deboli, come l’Italia e gli stati balcanici, è già stata apertamente ventilata dal governo olandese, che da gennaio ha assunto la presidenza di turno della Ue. Solo la Germania, per ora, ha impedito che la proposta venisse seriamente presa in considerazione. Ma se la reazione a catena dei controlli alle frontiere dovesse continuare nei prossimi mesi, come è probabile che accada, sarà difficile evitare che una riduzione «d’emergenza » dello spazio Schengen si imponga nei fatti. Garantendo la libera circolazione tra i Paesi virtuosi del Nord. E relegando l’Italia e la Grecia ai margini dell’Europa, verso un Meditteraneo in fiamme che minaccia più che mai di inghiottirci.

Furbizie e provincialismi, tentazione di scorciatoie facili,timore d'abbandonare comode cucce, miopie culturali sono gli ostacoli che impediscono il formarsi d'una forza alternativa convincente. Ilmanifesto, 5 gennaio, con postilla

Lo scrittore polacco Ryszard Kapuscinski è riuscito a trasformare il genere giornalistico del reportage in alta letteratura, cioè in una scrittura capace di «vedere di più» nelle pieghe degli svolgimenti quotidiani. Ha potuto farlo perché viaggiava con Erodoto. Riusciva a «varcare le frontiere del tempo», sono le sue parole, proprio perché intratteneva un dialogo continuo con uno dei padri della storiografia occidentale.

Chi non si pone il problema di varcare queste frontiere, chi pensa che «la storia altro non sia che la cronaca» è un «provinciale del tempo», limitato come un «provinciale dello spazio». Il «provincialismo temporale», dice ancora Kapuscinski, è un luogo particolarmente frequentato dai «politici furbi», perché non necessita di pensieri lunghi. Un luogo ostile ai «politici intelligenti», che hanno la necessità di «pensare» oltre il tempo della «cronaca» (della tattica) la realtà che vogliono cambiare.

La costruzione di quella che è stata chiamata «casa comune» della sinistra è, appunto, questione che solo con i «pensieri lunghi» può essere affrontata.

Non esiste «a sinistra», infatti, alcuna ampia prateria aperta a nostre immaginarie scorrerie. Ci sono soltanto sentieri impervi ed in gran parte inesplorati che non promettono, in tempi brevi, alcun particolare successo di rapidi avanzamenti.

Condizione necessaria perché il faticoso e stretto sentiero possa aprirsi a spazi più ampi è che non ne vengano abbandonate le coordinate profonde una volta che si è iniziato a percorrerlo.

Il nostro cammino comune è cominciato con l’esperienza dell’«Altra Europa per Tsipras». Ho già citato, allora, una delle coordinate enunciata da Marco Revelli al momento di tirare le fila di quell’esperienza. Credo sia di particolare attualità. Revelli, dunque, riflettendo in particolare sul ruolo della «task force di Rosa (Rinaldi, nda)» essenziale per la raccolta delle firme in Val d’Aosta, e in genere sui contributi di tutte le «identità» coinvolte nell’operazione, concludeva: «… dovremmo proporci, d’ora in avanti, di non smarrirne neppure uno, per settarismo, supponenza, trascuratezza». Per «provincialismo temporale», potremmo aggiungere, con Kapuscinski, per «furbizia».

È ovvio che la «furbizia» non è necessariamente un difetto in politica. Togliatti in un’occasione ha definito il Pci puer robustus et malitiosus. La manovra tattica, il comportamento malitiosus era, però, funzionale al suo essere robustus, sul piano della teoria, sul piano della cultura politica, sul piano dei numeri.

Un momento, dunque, della grande politica. Aspetti di cui il processo di costruzione del «nuovo soggetto» è del tutto privo.

In tale processo l’unità di quello che c’è («non … smarrirne nemmeno uno…») è precondizione essenziale di un obbiettivo che sia davvero «nuovo» e non «novello», spuma di superficie, senza corpo, senza struttura che possa sorreggere un reale processo di maturazione. Ed invece si è perso subito, in piena coscienza e con «furbizia», il contesto che aveva reso possibile la «task force di Rosa».

Il «provincialismo temporale» spinge a massimizzare nell’immediato una rendita di posizione. Di qui la tentazione di utilizzare la forza e la visibilità di un gruppo parlamentare, frutto drogato di un meccanismo elettorale scomparso, per indirizzare il processo in corso verso gli esiti desiderati. Su tali basi, però, gli esiti non potranno essere che «minoritari», con buona pace di coloro che hanno usato e continuano ad usare il termine come arma contundente.

Senza un’ulteriore e profonda riflessione, infatti, andremo verso nuove divisioni e conflitti e resteremo ancora per tempi imprevedibili nell’attuale stato di irrilevanza. A meno che non si pensi che la via d’uscita dal «minoritarismo» sia l’approdo confortevole a un centrosinistra «buono» come lo era quello di Bersani, prima che il corpo «estraneo» del renzismo non ne mutasse i geni.

D’altra parte il fatto che questa tesi, tra il detto e il non detto, continui ad essere presente nelle pieghe della discussione sul «nuovo soggetto politico», è indice certo della miseria analitica con cui dobbiamo fare i conti. Indice certo di «provincialismo temporale», di scomparsa dei tempi lunghi e delle ragioni sistemiche della regressione.

C’è poi un’altra forma di «provincialismo temporale», quella da cui derivano le sconsolate perorazioni a tirare una riga definitiva su tutto ciò che esiste di organizzato a sinistra per ripartire da zero, dal «basso», da «nuove generazioni».

Il tempo attuale, il tempo della politica è, in realtà, momento in cui convergono temporalità diverse, intrecciate inestricabilmente. Non c’è nessun tempo lineare sul quale possano separarsi nettamente le rotture dalle continuità, comprese quelle generazionali.

Di tabulae rasae, di big-bang, di ripartenze, è piena la vicenda che ci ha condotti all’odierna irrilevanza. È tempo che ognuno faccia i conti davvero con le proprie responsabilità. Voglio credere (sperare) che anche dalla parte dei «furbi» possano svilupparsi (ri)pensamenti «intelligenti».

postilla

Il mondo è cambiato e troppo pochi se neaccorsero mentre cambiava, e non furono ascoltati. Moltissimi non l’hannocapito nemmeno adesso – o non hanno compreso il senso del cambiamento. Ieri losfruttamento si esercitava soprattutto nelle fabbriche e nei campi, oggi in tuttele dimensioni del territorio e della vita. Ieri generava la resistenza e larivolta solo nelle forme di lotta del proletariato urbano e rurale. È in quelcontesto che si è costruita la vecchia sinistra, si sono inventati e praticatigli strumenti della sua lotta sociale e politica.

Gli sfruttati di oggi comprendono che quellasinistra non serve più, nè servono i mutevoli aggregati dei suoi residui. Non trovano un’altra proposta capace di incanalare la lororabbia, e questa trova sulla sua strada solo Grillo nel migliore dei casi, Salvininei peggiore: oppure cedono acquiscenti al richiamo del padrone. È da qui chebisogna partire, guardando lontano, perché vicino ci sono solo i gusci sterilidi un passato spesso glorioso ma oggi inutile, e anzi controproducente.

Libertaegiustizia.it, 30 dicembre 2015

Va bene così: se è il governo che stravolge la Costituzione è giusto che sia il presidente del Consiglio a fare la campagna per il referendum e a dichiarare la fine di una delle due Camere, perché gli italiani vogliono un’Italia “più semplice”.

Ed è anche giusto che se dovesse fallire in questa sua storica impresa (nel senso che mai nessuno prima di lui aveva osato tanto) tolga il disturbo e vada ad insegnare in qualche università dal momento che dice di sentirsi portato per l’insegnamento.

La conferenza stampa di fine anno di Matteo Renzi è servita soprattutto a lui per rivendicare meriti, obiettivi raggiunti, un paese di bengodi. E per annunciare anche che il 2016 sarà l’anno dei valori. Come se i valori fossero in qualche modo legati a una dimensione temporale. Quest’anno niente valori, ma l’anno prossimo aspettatevi sorprese.

Cerco di cogliere l’essenza dello sproloquio di Renzi, partendo dal disprezzo sostanziale contenuto nelle parole riservate alla libertà di stampa e dei giornalisti. Che a quel punto avrebbero anche potuto alzarsi e andarsene. Cosi’ avremmo fatto nella prima Repubblica…

Nessuno tocchi gli editori, nessuno tocchi la Rai perché mai come oggi ci sono tanti giornalisti nel consiglio di amministrazione.

Dunque, nell’anno dei valori, cioè nel 2016, avremo la campagna elettorale in tante città e subito dopo, nei mesi estivi, la grande discussione sulle tasse, che ovviamente saranno abbassate (o almeno ci sarà la promessa di abbassarle). Freschi di tale promessa eccoci arrivare all’autunno, cioè ad ottobre e al referendum costituzionale. Per la prima volta il capo di un governo sarà alla testa di una campagna di questo genere e gufo sia chi ricordasse distinzioni che erano ritenute fondamentali tra chi disegnò l’Italia dopo la dittatura: nessuna influenza del governo sulla discussione costituzionale. Addirittura l’esito sarà fatale per Renzi: se ne andrà se fallirà. Resterà ancora a Palazzo Chigi se vincerà.

La posta in gioco è questa Italia “più semplice”. Che vuol dire, non solo una Camera eletta con l’Italicum (cioè con i parlamentari che vuole lui), ma anche un Paese che si avvia alla perdita di tutti i diritti conquistati negli anni successivi alla Liberazione, nel mondo del lavoro, in quello della scuola, nel mondo dell’informazione, nella politica. Un Paese senza controlli e contrappesi. Un solo grande partito della nazione, un pensiero unico, il potere che diventa giorno dopo giorno più invasivo e unico anch’esso.

2016, l’anno dei valori: come c’è stato l’anno dell’Expo, o del Giubileo. Qualcosa che comincia e finisce e i valori cosa siano e per chi siano lo decide sempre lui. Il premier che l’Italia ha tanto atteso, l’uomo di destra (estrema, vedi Verdini e Berlusconi) che piace alla ex sinistra.

Se non ci fosse in ballo la Costituzione, se non fossimo decisi a difenderla comunque e anche a vincere il referendum ci sarebbe davvero da levare le tende. In cerca di un Paese dove i valori siano per tutti gli anni e per sempre.

I diritti civili, come quelli sociali, appartengono alla sfera delle inalienabili garanzie che spettano alla persona e devono essere garantite dallo Stato: non possono per ciò essere subordinate ai patteggiamenti della

politique politicienne. La Repubblica, 4 gennaio 2015

I tempi dei diritti sono sempre difficili. Lo conferma la lunga e travagliata vicenda delle unioni civili, la cui conclusione è annunciata dal Presidente del Consiglio per il 2016. Le ragioni delle difficoltà sono molte. I diritti incidono sull’ordine costituito. E i poteri, e per ciò si cerca di neutralizzare questa loro intima capacità di cambiamento contrapponendo loro doveri sempre più aggressivi, imponendo limiti costrittivi, subordinandoli a convenienze politiche talora meschine e così pianificando scambi tra sacrificio di diritti sociali e mance di diritti civili.

Si è inclini a dimenticare che i diritti sono indivisibili e che le vere stagioni dei diritti sono quelle in cui diritti individuali e diritti sociali procedono insieme. È il modello, non dimentichiamolo, della nostra Costituzione. È quello che è accaduto negli anni ’70, quando il congiungersi del “disgelo costituzionale” e della capacità della politica di cogliere senza timidezze le dinamiche sociali cambiò davvero l’Italia, senza reazioni di rigetto determinate dal fatto che le richieste di diritti hanno sempre la loro origine nello sguardo lungimirante e nella cultura delle minoranze escluse.

Di tutte quelle difficoltà sembra intrisa la maniera in cui si sta affrontando, al Senato, la questione delle unioni civili. Presentata come l’avvio di una nuova stagione di diritti civili, rischia di impigliarsi in compromessi al ribasso, che lasceranno una scia di polemiche e di risentimenti.

Dopo che la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le unioni tra persone dello stesso sesso sono una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, nella discussione parlamentare è spuntata una lettura restrittiva, e illegittima, di quella norma, definendo le unioni come “formazioni sociali specifiche”. Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per la mancanza di una adeguata disciplina delle unioni civili, che non può essere limitata ai soli aspetti patrimoniali, ecco riemergere le pretese di centrare la nuova disciplina proprio sugli aspetti patrimoniali. Si abusa di riferimenti alla “stepchild adoption”, all’adozione dei figli del partner, che dovrebbe essere esclusa o sostituita dall’acrobatica invenzione di un affido “rafforzato”. Viene così resuscitata la discriminazione contro i figli “nati fuori del matrimonio”, eliminata nel 1975 e che ora ritorna evocando impropriamente lo spettro dell’”utero in affitto” e invocando ipocritamente un interesse dei minori che diverrebbero, invece, vittime di un sopruso.

Una legge che dovrebbe produrre eguaglianza rischia di trasformarsi in una disciplina che formalizza, e dunque rende ancor più evidente, una permanente discriminazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Comunque un passo avanti, si dice. Ma con chiusure che porteranno a nuove censure, interne e internazionale, mostrando una volta di più una sorta di allergia italiana a procedere correttamente sulla via del riconoscimento dei diritti delle persone.

La tentazione del compromesso al ribasso, in queste materie, non è nuova. Il Pci cercò di disinnescare le polemiche intorno alla legge sul divorzio proponendo il cosiddetto “divorzio polacco”, limitato ai soli matrimoni civili. Misero espediente, che venne rapidamente liquidato da una politica nel suo insieme capace di scelte nette e da una società reattiva che, nel 1974, votò no nel referendum abrogativo di quella legge. Politica che mostrò altrettanta lungimiranza quando nel 1978, in una materia difficile come l’aborto, venne approvata una buona legge, anch’essa confermata dal voto popolare. I richiami alla deprecata Prima Repubblica non sono graditi, ma proprio per i diritti vengono ancora insegnamenti che dovrebbero essere meditati.

Oggi la politica sembra mancare di coraggio, trasformando in faticosa e costosa concessione quello che non è neppure il riconoscimento di un nuovo diritto, ma la rimozione di un ostacolo che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto di cui tutti gli altri già godono. E questa esclusione è fondata sul loro “orientamento sessuale”, dunque su una causa di discriminazione ritenuta illegittima dall’articolo 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico d’ogni altro trattato europeo. Un problema di eguaglianza dunque, tanto più evidente dopo che l’articolo 9 della stessa Carta ha eliminato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio che per ogni altra forma di costituzione di una famiglia.

L’assenza di questa consapevolezza mostra un limite culturale che continua ad affliggere la discussione parlamentare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, non si è limitata a condannare l’Italia per il ritardo nel dare una adeguata disciplina alle coppie di persone dello stesso sesso. Ha ricordato pure che il nostro paese è ormai parte di un sistema giuridico allargato, di cui deve rispettare principi e regole, sì che la stessa libera scelta del Parlamento, la discrezionalità del legislatore risultano limitate. Si sottolinea che ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) riconosce nella loro pienezza quelle unioni. E questo non è un semplice dato statistico, ma una indicazione che rende più stringente il “dovere positivo” dell’Italia di intervenire senza inammissibili restrizioni, perché siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone.

Il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità e di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso sesso al matrimonio egualitario, di cui oggi non si vuol nemmeno discutere. Ma un ostacolo in questa direzione non può essere trovato nella sentenza del 2010 della Corte costituzionale, di cui oggi è necessaria una rilettura proprio nel contesto europeo che mette al centro l’eguaglianza e sottolinea come le dinamiche sociali, peraltro richiamate dalla stessa Corte, vanno nella direzione di un riconoscimento crescente del matrimonio egualitario, impedendo di riferirsi ad una tradizione “cristallizzata” intorno al matrimonio eterosessuale, ormai contraddetta dalle dinamiche sociali e dalle innovazioni legislative che escludono la possibilità di invocare una natura immutabile del matrimonio. Non è sostenibile, allora, che una legge ordinaria non possa introdurre nell’ordinamento italiano l’accesso paritario al matrimonio, proiettando nel futuro una discriminazione ormai indifendibile anche sul piano strettamente giuridico.

Davanti al Senato è una grande questione di eguaglianza, principio fondamentale che oggi troppo spesso non viene onorato. L’annunciata nuova stagione dei diritti sarà valutata anche da questo primo passo, che tuttavia, anche se andrà nelle giusta direzione, non potrà far dimenticare il permanente sacrificio di diritti sociali. Anzi, proprio l’enfasi posta sul tema dei diritti civili impone una riflessione sulla politica dei diritti dell’attuale governo, tutta fondata su misure settoriali, bonus di varia natura, che mostrano l’accettazione della logica del “fai da te”, dell’individualizzazione degli interventi. La società scompare e con essa una vera politica dei diritti. Molti economisti hanno mostrato che i dieci miliardi destinati agli 80 euro avrebbero potuto essere meglio utilizzati per una politica di investimenti, strutturalmente produttivi di occupazione, e per un primo passo verso il riconoscimento di un reddito di dignità. Chiara Saraceno non si stanca di ricordarci che gli interventi a pioggia non ci danno né una politica della famiglia, né una efficace politica contro la povertà.

Se davvero vogliamo tornare a parlare di diritti, ricordiamoci che sono indivisibili. E, visto che il presidente del Consiglio riscopre un’Europa non riducibile all’economia, vorrà ricordarsi che proprio di questo parla la sua Carta dei diritti fondamentali?

«Il manifesto, 3 gennaio 2016

La messa a morte del leader sciita al-Nimr è una bomba contro il processo in atto in Medio Oriente e le coalizioni ufficialmente in campo contro lo Stato islamico.

Ma devastante come se non peggio dell’abbattimento in Siria dell’aereo russo da parte della Turchia. L’esecuzione, avvenuta con altre 46 persone, deflagra però non solo nel lontano Medio Oriente, ma in Occidente e qui in Italia. Occidente ed Italia fin qui silenziosi sul massacro in corso nello Yemen da parte dei bombardamenti aerei sauditi, taciturno sulle pene capitali emesse dallo stato più boia al mondo in percentuale rispetto al numero degli abitanti, strabico di fronte ad una dittatura feroce che opprime opposizioni e diritti umani. Eppure l’ultimo leader occidentale arrivato a omaggiare il regime medioevale dei Saud è stato proprio un mese e mezzo fa il «nostro» Matteo Renzi.

Si capisce per il «made in Italy», per la metropolitana che le imprese italiane stanno costruendo e, manco a dirlo, per i più sostanziosi traffici in armi di Finmeccanica in tutti i Paesi del Golfo. La petromonarchia dei Saud manda un messaggio di sangue al mondo, alla coalizione anti-Isis di nuovo conio (la stessa che da apprendista stregone ha attivato le forze jihadiste in tutta l’area, dalla Libia, all’Iraq alla Siria) e insieme al mondo sciita nemico giurato.

Vale a dire all’Iran, all’organizzazione libanese Hezbollah, al governo di Baghdad che combattono armi alla mano sul campo le forze del Califfato. A noi manda a dire che non sarebbe vero che Riyhad aiuta il terrorismo jihadista anzi lo condanna a morte: ma come dimenticare che proprio il regime dei Saud lo ha organizzato per anni in chiave di destabilizzazione dell’intera area. Ma al-Nimr, decapitato ieri, è responsabile solo di avere guidato, sull’onda delle tanto care quanto dimenticate Primavere arabe del 2011, la protesta democratica della minoranza sciita in Arabia saudita, repressa come quella in Barhein con violenza dall’esercito saudita, armato e addestrato dall’Occidente.

Che accadrà ora sul fronte della guerra all’Isis in Siria e in Iraq? L’Ue, alle prese con la crisi dei migranti, e gli Usa hanno da tempo deciso di assegnare un ruolo risolutore della crisi a Turchia e Arabia saudita, i baluardi militari ed economici dei nostri interessi. Pur sapendo che sono gli stessi Paesi che con il nostro aiuto hanno attivato la distruzione della Siria per fare a Damasco quello che è riuscito a Tripoli. Questi due Paesi sono ormai considerati decisivi per la riuscita del conflitto.

Ma con la provocazione dell’esecuzione del leader sciita al-Nimr appare sempre più chiaro – come scriveva ieri Gian Paolo Calchi Novati — il fatto che, anche di fronte ad una sconfitta parziale di Daesh — visti i mille nuovi rigagnoli del l’integralismo jihadista internazionale sempre più forte, denuncia lo stesso Pentagono, in aree come l’Afghanistan che dovrebbero essere bonificate dopo quattordici anni di intervento della Nato — che non c’è alcuna «vittoria» all’orizzonte. La guerra nell’area è destinata ad allargarsi. E stavolta non più solo per procura.

Il governo italiano, impegnato sia a sostenere Israele cancellando la questione palestinese, sia sul fronte delle guerre appaltate dagli Usa in Afghanistan, a Mosul in Iraq e prossimamente in Libia, esprimerà due righe di «alto» sdegno. Non romperà certo i rapporti diplomatici con Riyadh come sarebbe giusto se è la pace che si vuole conquistare.

E tutto continuerà come e peggio di prima.

Una propoata e un appello utili per tentar di uscire dall'intricato groniglio determinato dalla caparbietà di voler affrontare problemi nuovi con strumenti vecchi.

Il manifesto, 2 gennaio 2016

Una rabbia impotente e amara sta soppiantando entusiasmo e speranze suscitati da Sinistra Italiana. La rabbia è tanto più forte quanto più intense erano state le speranze e rischia di produrre un “tutti contro tutti”. Può darsi che ciascuno abbia la sua parte di ragione perché è vero che, in assenza di movimenti nella società, il processo, anche se atteso e auspicato da molti elettori di sinistra, è partito dall’alto e a tavolino. Ma si poteva e si può partire diversamente?

Vediamo di fissare alcuni punti per trovare la risposta. La narrazione renziana, come ha scritto Michele Prospero, volge alla fine.

I risultati economici, in termini di Pil ed occupazione, sono ben magri; Banca Europea e Confindustria cominciano a prenderne coscienza e lo stesso Padoan non esclude la stagnazione secolare per giustificare la mancata crescita. Se questo è lo scenario, dopo tanto attivismo e tanti soldi indirizzati poco allo sviluppo e molto a raccogliere voti — che comunque non schiodano il Pd dal 30% — a Renzi serve spostare l’attenzione degli italiani dai problemi interni a un nuovo e più ampio terreno di confronto.

La svolta di questi giorni contro l’Europa austera e germanocentrica si inscrive in questo quadro e individua un terreno fertile per cavalcare sentimenti e ragioni di un elettorato più ampio, che, non a caso, è il terreno a lui più congeniale per rilanciare la costruzione del partito della nazione.

I risultati spagnoli, possiamo esserne certi, saranno utilizzati per riconfermare la sua idea di governabilità e rilanciare Italicum e partito della nazione come la versione italiana della grande coalizione.

La confluenza dei verdiniani vecchi e nuovi verso la nuova grande casa madre si accelererà di conseguenza. Anche a una parte di elettorato Pd, il partito della nazione potrebbe a questo punto apparire meglio di una grande coalizione. A questo punto converrebbe al governo che le prossime elezioni potessero svolgersi subito dopo il referendum di autunno per non dare il tempo al centro destra di riorganizzarsi.

Veniamo, così, alla sinistra. In questo scenario se essa dovesse affrontare le elezioni con le forze oggi in campo e con l’Italicum, rischierebbe di essere spazzata via. Avviare al più presto un processo di ricomposizione, quindi, non è un capriccio dei vertici, ma una necessità storica.

Certo se si potesse fermare l’orologio sarebbe meglio discutere prima di una carta dei valori da porre a base del processo ed anche aspettare le prossime elezioni locali per smaltire le divergenze che esse creeranno. Come sarebbe meglio impegnarsi nella campagna per il referendum e in quella per il nuovo statuto dei lavoratori della Cgil per consentire, così, processi di aggregazione sul campo. Ma il tempo non si può fermare e non è nemmeno sicuro che rinviare ancora una volta le scelte annunciate non determinerebbe un’ulteriore sfiducia o addirittura un ulteriore spostamento di elettori di sinistra verso il M5s o verso l’astensione o verso l’accettazione obtorto collo del renzismo come necessità.

Per questo insieme di valutazioni penso che il processo appena avviato debba essere portato avanti e che le divergenze che esistono dovrebbero essere affrontate insieme per cementare nel cammino la nuova unità. Penso, cioè, che possiamo e dobbiamo risolvere i problemi aperti insieme e cammin facendo, durante e non prima.

Si può fare senza pregiudicare il processo? Qui è la vera scommessa per tutti. Se ci sono divergenze che impediscono oggi di dare vita a una nuova organizzazione unitaria, questo non deve impedire a chi è disponibile ad andare avanti di farlo. E non deve significare vivere come una tragedia il fatto che qualcuno si tiri fuori o voglia percorrere un’altra strada. L’importante è che i diversi percorsi non siano totalmente separati, alternativi o contrapposti. Anzi, al contrario, si potrebbero configurare percorsi organizzativi diversi e percorsi di ricerca, elaborazione e azione comuni.

Due iniziative comuni possibili.
Sicuramente siamo in ritardo nell’analisi dei cambiamenti intervenuti nel lavoro e nel rapporto dei giovani col lavoro. Non penso si tratti solo di fare una bella analisi statistica della composizione e delle classi sociali oggi (anche se dopo i tanti anni passati da quella di Sylos Labini non guasterebbe) ma di chiederci che fine hanno fatto oggi le classi sociali sì. Sì perché oggi sempre più spesso e addirittura dentro uno stesso individuo convivono, alternandosi e intrecciandosi, lavoro dipendente e lavoro autonomo, precario e stabile, lavoro per campare e attività creative per realizzarsi, fasi di benessere e fasi di povertà, benessere economico e disagio esistenziale. Si tratta di fattori soggetti a una dinamica velocissima e continua che riguarda sia la collocazione oggettiva che quella soggettiva di una persona. Come rappresentare questo mondo dobbiamo affrontarlo insieme ai soggetti che vivono questa mutazione e le sua contraddizioni e dobbiamo farlo al più presto. Con una crisi dalla quale non si vede uscita, la contrapposizione giovani anziani, garantiti e non rischia di diventare drammatica e di spingere i giovani a considerare gli altri più come privilegiati che come alleati.
Viviamo una crisi profonda del modello di democrazia partecipata e della funzione dei partiti come tramite tra cittadini e istituzioni. Negli ultimi anni l’unica risposta che siano riusciti a dare alle esigenze di partecipazione è stata l’utilizzo delle primarie. Ma le primarie, importate da un sistema bipolare e per la scelta di persone dentro un partito, le abbiano cucinate in salsa italiana, anzi in tante salse regionali e comunali nelle quali esse non sono più né la scelta dei candidati all’interno di una coalizione con un programma condiviso, né la scelta tra opzioni politiche diverse. Una nuova sinistra deve oggi porsi il problema di come costruire con la partecipazione popolare il suo programma, la sua carta dei valori. Si possono rilanciare le primarie su punti programmatici per far risalire dal basso il processo di costruzione della nuova sinistra? Si potrebbe integrare un processo vivo fatto con le persone in carne ed ossa con un processo parallelo da sviluppare sulla rete per ricostruire insieme il nuovo vocabolario della sinistra, ritrovando le parole chiave e costruendo, con una processo partecipato, la loro declinazione? Possiamo produrre una sorta di Wikisinistra? Ecco penso che se decidessimo di marciare insieme con chi ci sta, e di fare insieme anche con tutti gli altri questo cammino di ricerca sul campo potremmo uscire dall’impasse ed evitare l’ennesima falsa partenza.

Naturalmente tutto questo rischia di restare confinato al ceto politico fino a quando i giovani e, soprattutto, le tante giovani donne impegnate nelle associazioni, nei movimenti, nell’attività politica di base, che hanno competenze e passioni da vendere, non troveranno il coraggio di scendere in campo.

Non è una speranza. E’ un appello.

«I conflitti di oggi, i lasciti di ieri. L’Isis adesso si può battere. Ma il «nuovo ordine mondiale» e le gerarchie politiche fissate dopo l’89 vacillano. Conflitti vecchi e nuovi consegnano un’instabilità che non passa».

Il manifesto, 2 dicembre 2016 (m.p.r.)

Il Califfato potrebbe rivelarsi un episodio transeunte. Più arduo è stabilire se con la sua eventuale sconfitta sul campo verranno meno le cause profonde che l’hanno prodotto. Poiché l’analisi corrente nella politica e nella comunicazione occidentale è viziata da una dicotomia fra Bene e Male, a cominciare dalla definizione riduttiva del Nemico come Terrorismo, gli esiti di questa vicenda così dolorosa per tutti potrebbero non essere veramente risolutivi nel senso della coesistenza se non della pace.

L’obiettivo della guerra intentata dalla coalizione fin troppo estesa e variegata che fa capo agli Stati Uniti contro l’auto-proclamato Califfato nel 2014 e rilanciata con più accanimento nel 2015, anche con l’ingresso nella tenzone della Russia, è la cancellazione dalla carta geopolitica del quasi-stato che controlla ampi spazi di Iraq e Siria e la rimozione degli avamposti costituiti in suo nome in Libia (per tacere dello Yemen o del più lontano Afghanistan).

In Iraq e Siria l’Isis svolge funzioni di governo, amministra un territorio con un popolo valutato in 5 milioni di persone, gestisce un’economia con la rendita garantita da petrolio, imposte e introiti di reperti archeologici e sequestri.

Ci sono i sintomi concreti, sul terreno, di una perdita progressiva di posizioni. Lo sbarco a Sirte potrebbe essere un ripiegamento da quello che è stato e rimane l’epicentro del potere di Daesh e non un ampliamento della sua sfera di «sovranità». Gli attentati in Europa potrebbero essere a loro volta una dimostrazione di debolezza (a Mosul e Raqqa) più che di forza. Non è nemmeno sicuro che le cellule che agiscono qua e là nel mondo organizzando attentati (questi sì a tutti gli effetti configurabili come terrorismo, rispetto alla guerra asimmetrica che si combatte in Medio Oriente e Nord Africa), con richiami più o meno certificabili alla centrale (in questo Isis svolgerebbe una funzione paragonabile a quella di al-Qaida, che non si è mai curata di creare uno stato ma al più di disporre di una base), siano realmente una propaggine del Califfato, rispettino i suoi ordini e giovino alla sua causa.

C’è da considerare, infine, le opinioni pubbliche dei paesi arabi e le minoranze arabe trapiantate in Europa, soprattutto quelle che provano più disagio in termini di economia e psicologia individuale o di gruppo. Alcuni analisti le considerano il «terzo cerchio» della strategia e dell’essenza stessa di Isis per il reclutamento di combattenti e ancora di più per la nube di consenso che si leva da loro incidendo sulla politica, e non solo sulla guerra, a livello mondiale.

Gli avvenimenti che ruotano attorno al Califfato non sono propriamente una novità imprevista. È dalla fine della guerra fredda che gli Stati Uniti, sconfitto e ridimensionato il rivale storico, hanno dislocato da Est a Sud il loro apparato di sicurezza.

Il primo episodio del dopo-bipolarismo fu la guerra contro l’Iraq per «liberare» il Kuwait. L’origine immediata della guerra fu una grossolana violazione delle regole internazionali da parte di Saddam ma la guerra fu sfruttata per fini che oltrepassarono ampiamente il caso specifico. Fra l’altro, fu verificata dal vivo la possibilità per gli Stati Uniti di mantenere l’egemonia anche in quello che George Bush senior definì subito «nuovo ordine mondiale».

Doveva essere chiaro a tutti che - clash of civilizations o «fine della storia» – il responso della competizione Est-Ovest aveva fissato le gerarchie. L’Occidente avrebbe avuto la prima e ultima parola nel governo del mondo secondo il sistema che la scienza politica definisce «unipolarismo imperfetto»: ne dovevano prendere atto la Russia e la stessa Europa, alleato obbligato di Washington, che sarebbe stata infatti chiamata ripetutamente a condividere gli atti di imperio di Clinton, Bush junior e Obama.

La guerra fredda terminò senza che si fosse verificato un evento militare di grosse proporzioni in Europa, la terra in cui i due blocchi confinavano e si confrontavano. Le crisi e i conflitti avevano avuto tutti luogo fuori dell’Europa, in Asia e in Africa, in quel mondo in via di sviluppo che usciva dal colonialismo e quindi dall’orbita dell’Occidente e del capitalismo e che era in cerca di un modello di stato, sviluppo e alleati. Sempre nel discorso in cui enunciò la nascita del «Nuovo ordine mondiale», Bush non aveva nascosto che l’area strategica sarebbe stata ormai un Sud per proprio conto in piena transizione e verosimilmente instabile.

La Corea, il Vietnam, l’Algeria, il Congo, l’Angola, la Palestina e per concludere, a parti rovesciate per quanto riguarda la potenza interventista, l’Afghanistan sono venuti prima dell’islamismo radicale. Un filo di cui ignoriamo il colore unisce le guerre in Periferia di prima e dopo lo spartiacque del 1989. Proprio l’Afghanistan chiuse la trama della guerra fredda (allora si parlava di ideologie) e aprì quella della sfida jihadista (adesso si parla di identità e di religione, comparse già con la rivoluzione in Iran).

Il conflitto che stiamo vivendo non è cominciato nel 2011. Le Primavere arabe potrebbero essere state l’ultimo fallimento del tentativo dei paesi arabi di uscire dall’autoritarismo per vie democratiche. Alla ribalta urgono più che mai i problemi lasciati irrisolti dai passaggi storici del «secolo breve»: la decolonizzazione e la scomparsa dell’Urss nella realtà europea e della «rivoluzione» variamente ispirata all’Ottobre come strumento di liberazione di popoli e classi.

L’integrazione del Sud, entrato nel mercato e acculturato sommariamente per effetto del colonialismo, è ancora un’incompiuta. Le élites e le masse, in modo diverso e fra molte difficoltà (la prova più recente è l’Egitto di Morsi e al-Sisi), lottano, spesso in modo improprio, per emergere, soddisfare le esigenze primarie, conquistare il potere e – alla svolta del Millennio – affermare confusamente una continuità con un passato anch’esso mal definito.

La contestazione nel mondo ha cambiato segno: non giova a nessuno sottovalutare un fenomeno che va molto oltre il fondamentalismo e il terrorismo islamico. Giudicata nella lunga durata, l’intenzione affermata e riaffermata dal governo italiano di «ritornare» in Libia potrebbe essere un passo falso di grosse proporzioni, quale che sia il primo impatto con dirigenti di cui non si conoscono bene le ascendenze e i programmi.

L’argomento ricorrente è che l’Italia ha una grande esperienza di Libia. Si dimentica che il nostro curriculum contempla personaggi del calibro di Badoglio e Graziani? Anche prescindendo dall’horror, si gira intorno a un privilegio che sembrava superato. Se invece la primogenitura dell’Italia si spiega con l’attività dell’Eni, per i cui interessi Renzi ha mostrato una particolare attenzione nei viaggi in Africa, si cade nei soliti cascami petroliferi che, da Mossadeq in poi, hanno fatto la storia delle interferenze occidentali nel Medio Oriente.

Il capo del governo designato in base all’accordo di concordia nazionale fra Tobruk e Tripoli è stato ricevuto a Roma e ha sollecitato il nostro governo a rimettere in moto il trattato che sistemò il contenzioso fra Libia e Italia. L’accordo del 2008 fu l’ultimo atto di grande politica compiuto da Muammar Gheddafi: è come se l’impegno persino ossessivo a riscattare la Libia da una conquista e occupazione sofferte come una menomazione insopportabile abbia segnato, prima ancora dello scoppio della guerra civile, la fine del «tempo» di Gheddafi. Quella richiesta, venuta da chi dovrebbe rappresentare una classe dirigente dichiaratamente post-coloniale, è a suo modo una prova che il colonialismo conserva una sua rilevanza.

Su grande scala, scontando le differenze che caratterizzano un’area vasta e composita come il mondo arabo-islamico, il nodo principale è l’insieme di prevaricazioni e frustrazioni del rapporto Nord-Sud. Fra i protagonisti della guerra per distruggere il Califfato ci sono stati arabi e islamici, sunniti o sciiti, con istituzioni e governi di dubbia legittimità e di incerta durata.

Il futuro di Iraq e Siria non è messo in discussione solo dall’Isis. I membri della coalizione anti-Daesh hanno obiettivi propri, incompatibili fra loro. Il pericolo è che nelle capitali che contano ci si prepari a procedere alla ricomposizione degli stati e delle comunità senza stato seguendo le logiche con cui le potenze esterne, dall’alto, decisero giusto un secolo fa la sorte delle terre arabe appartenute all’Impero Ottomano.

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