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"Governi in ordine sparso, caos su Schengen in attesa della riunione dei ministri degli Interni che oggi ad Amsterdam cercheranno di mettere ordine alla crisi migranti. Italia, Germania, Olanda, Belgio, Portogallo e Bulgaria sono contro la sospensione del trattato Linea dura da Ungheria, Polonia e Slovacchia". La Repubblica, 25 gennaio 2016

In questi giorni tra le capitali sono girate ipotesi minacciose, come quella di espellere la Grecia da Schengen - smentita ieri dalla Commissione europea e dal ministro tedesco Steinmeier - o di chiudere tutte le frontiere interne all’Europa per due anni.

Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, dopo l’apertura ai profughi della Merkel ha proposto la redistribuzione tra i 28 di 160mila richiedenti asilo e ha preso forma la politica Ue sui migranti: hotspot alle frontiere esterne (Italia e Grecia) per registrare chi arriva. Riallocamento di coloro che hanno diritto all’asilo. Rimpatrio tramite Frontex di chi non ha titoli per rimanere. Creazione di una guardia di frontiera (di terra e mare) per aiutare i paesi che non riescono a sorvegliare i confini dell’Unione, anche contro la loro volontà (ipotesi che non piace ad esempio a Malta). 3 miliardi alla Turchia per bloccare le partenze e gestire i rifugiati sul suo territorio.

Ma qualcosa è andato storto. L’Ungheria alza il muro, i paesi dell’Est frenano e quelli dell’Europa centrale vengono invasi da 900mila migranti che dalla Turchia sbarcano in Grecia per imboccare la rotta balcanica. Anche i più generosi, come Germania, Svezia e Austria insieme a Danimarca, Francia e Croazia, ripristinano i controlli sospendendo Schengen. Il piano Juncker non funziona, vengono riallocate solo 331 persone. La Grecia è un colabrodo. La Turchia in attesa dei soldi Ue non ferma i barconi. Diventa un tutti contro tutti.

ISTITUZIONI UE
Juncker ha proposto soluzioni coraggiose, ma diversi governi gli rimproverano di non essere riuscito a farle applicare. Il presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, si è schierato con l’Est perdendo credibilità.

ITALIA
Renzi ha incassato una vittoria politica quando l’Europa si è fatta carico della crisi e appoggia Juncker su Dublino e Schengen. Ma oggi è in rotta con Berlino per aver ritardato l’apertura degli hotspot, chiedendo che prima funzionassero i ricollocamenti, e lasciando partire verso Nord i migranti. Quindi la sfida alla Merkel: bloccare i soldi alla Turchia in attesa di flessibilità sui conti.

GERMANIA
Dopo aver aperto le porte, la Merkel è assediata dalla destra del suo partito e dai bavaresi della Csu. La sua leadership vacilla. Sostiene gli sforzi di Juncker. Ma intanto ha dovuto chiudere le frontiere. È contraria all’espulsione della Grecia da Schengen e vuole evitare la chiusura delle frontiere per 2 anni cara ai falchi.

FRANCIA
Hollande dopo gli attentati di Parigi è assediato da Marine Le Pen e resta freddo sulle riallocazioni.

GRAN BRETAGNA
Cameron nella corsa verso il referendum sulla Brexit si chiude: il suo Paese non è dentro Schengen e ha ostacolato ogni decisione dei partner europei.

BENELUX
Belgio, Olanda e Lussemburgo appoggiano Juncker. Favorevoli anche svedesi (con i tedeschi i più generosi nell’accoglienza) e finlandesi. Con loro Portogallo, Bulgaria, Romania e Malta.

GRECIA
Atene non controlla le frontiere, Tsipras è favorevole a qualsiasi forma di europeizzazione della crisi ma intanto torna sul banco degli imputati. Frontex aiuta i greci a controllare il confine verso la Mecedonia. Se venisse sigillata fuori da Schengen, per Atene sarebbe crisi umanitaria.

AUSTRIA
Dopo avere aiutato i migranti, anche Vienna ha chiuso le frontiere. Ha messo la quota a 37mila rifugiati nel 2016 e sostiene l’espulsione della Grecia da Schengen. Vienna resta però favorevole a una soluzione Ue della crisi.

VISEGRAD E BALTICI
Oltre all’Ungheria di Orban, anche la Polonia di Beata Szydlo e Jaroslaw Kaczynski è contraria a qualsiasi forma di solidarietà. Con loro lo slovacco Robert Fico. Tra i baltici contro qualsiasi accordo sui migranti la lituana Grybauskaite. Finora hanno boicottato ogni intesa europea.

GLI SCENARI
Oggi ad Amsterdam la riunione dei ministri degli Interni: si cerca una tregua e il tentativo sarà di costruire un tavolo permanente governi-Commissione per coordinare le prossime mosse ed evitare nuove chiusure unilaterali delle frontiere, decidendo tutti insieme eventuali valichi da bloccare in caso di crisi. Sarebbe un primo passo verso il summit del 18 febbraio tra i leader dove Juncker dovrebbe presentare le modifiche di Dublino inizialmente previste per marzo: rendere automatiche (e si spera efficaci) le regole ora emergenziali su hotspot, redistribuzione e rimpatri. È questa la chiave per evitare lo sgretolamento di Schengen, abolire la regola per cui ogni paese deve accogliere i rifugiati che entrano nella Ue tramite le sue frontiere e rendere comunitaria la politica migratoria. Il tempo scade a maggio, quando non sarà più possibile rinnovare la chiusura delle frontiere e se allora non ci sarà una soluzione la crisi ognuno andrà per la sua strada e la situazione diventerà ingestibile con il rischio di implosione della stessa Unione.

BRACCIALETTO ROSSO
Non solo case segnalate con la porta rossa, per gli immigrati che trovano ospitalità in alcune città della Gran Bretagna. Il quotidianoGuardian ha scoperto che i rifugiati accolti vengono anche obbligati a indossare dei braccialetti di plastica rossa, con l’obiettivo di renderli identificabili [come i nazisti: Stella di Davide per gli ebrei n.d.r.]

Verità nascoste, si chiama la rubrica settimanale della giornalista Sarantis Thanopulos. Il modo di considerare le donne e i migranti è un utile strumento per comprendere la gravità del virus chiamato odio per il diverso. Il manifesto, 23 gennaio 2016

Riss, nuovo direttore di Charlie Hebdo, settimanale satirico solito sostare nella provocazione, a volte con successo altre no, rischiando l’offesa pura, ha disegnato una vignetta che ha creato un’ondata internazionale di indignazione. La vignetta mostra, in un angolo, il corpo inanimato del piccolo Alyan: il bambino siriano annegato lo scorso Settembre vicino alle coste turche. In alto campeggia la domanda: «Cosa sarebbe diventato il piccolo Alyan se fosse cresciuto?». La vignetta, raffigurante Alyan uomo adulto con la faccia di maiale che rincorre una donna, reca in basso la risposta: «Palpeggiatore di natiche in Germania».

La vignetta per alcuni è un’istigazione all’odio razziale, altri la giudicano irrispettosa, cinica, disgustosa. Quando morì Alyan, Riss disegnò Cristo che camminava sulle acque mentre il bambino annegava. La didascalia: «La prova che l’Europa è cristiana: i cristiani camminano sulle acque, i bambini musulmani affondano». Sarebbe bastato questo precedente per far capire che la satira spietata, senza sconti per nessuno, di Riss, abbia come suo obiettivo il razzismo. Non tanto il razzismo spudorato, esplicito degli sciacalli che vagano in branchi per le strade d’Europa, quanto, piuttosto, quello inconsapevole, ammantato di ipocrisia, di noi tutti.

Il primo, istintivo, bersaglio, è la falsa credenza che i bambini siano innocenti, privi di desideri erotici violenti e di emozioni aggressive. In realtà ciò che li differenzia davvero dagli adulti, è la loro minore capacità di recare danno e il fatto che non sono ancora corrotti dal calcolo, ragion per cui si aprono alla vita con maggiore curiosità, generosità e gusto del rischio.

La santificazione dei bambini migranti morti è insidiosa: sposta nella pietà nei loro confronti i sentimenti di compassione dovuti ai migranti adulti, che, non godendo del privilegio dell’innocenza, possono essere oggetto di reazioni di rigetto globale, che fa di ogni erba un fascio, alla prima occasione disponibile.

Il bersaglio più specifico di Riss, è proprio la separazione tra il bambino buono e l’adulto cattivo. Dietro questa separazione si nasconde il fantasma collettivo della madre virginale amata da un bambino angelico, mai destinato a diventare uomo, se non per sacrificare sulla croce (rappresentazione del corpo materno) il proprio compimento virile. Nel supposto «sfregio alla donna bianca», compiuto da un gruppo di musulmani arrabbiati e ubriachi a Colonia, fa la sua apparizione l’attacco, misto di desiderio e odio, a una madre lontana, inaccessibile.

Nelle reazioni di sdegno dei tanti occidentali, che pensano di agire in difesa delle donne, è presente lo stesso tipo di attacco alla madre oggetto sacro che scoraggia il suo investimento erotico, ma proiettato sul saraceno invasore, stupratore di donne e uccisore di bambini. Bella convenienza avere a portata di mano un «uomo nero» pronto all’uso.

Chi compie atti di violenza contro le donne deve essere sanzionato secondo legge, come autore di un delitto grave e intollerabile.

Questa è la condizione necessaria di ogni processo di incontro e di assimilazione/integrazione reciproca tra culture diverse, perché senza il rispetto della libertà (prima del tutto erotica) della donna, un incontro profondo è impossibile. È, quindi, un bene per tutti la saggezza delle donne che diffidano di chi è più lesto a proteggerle dallo «straniero» che dagli «incidenti domestici».

Difendono il loro diritto di disporre pienamente del loro corpo, non permettono che si trasformi nella bambola di porcellana dell’uomo: oggetto da ammirare e, incidentalmente, rompere.

I ladri di Monaco, Europa. «Molti osservatori preconizzano che, con la crisi di Schengen, inizia la probabile agonia della Ue. Ma la fine o il declino di questo continente incombe da anni, da quando si è dichiarato incapace di dare una speranza di vita a chi, oltretutto, potrebbe aiutarlo a crescere». Il manifesto, 23 gennaio 2016

Infine, forse, entrano in Austria, da dove sono spediti in Germania, cioè in Baviera. E quale è la prima mossa dei bavaresi, costretti a farli entrare da Angela Merkel? Sequestrare beni e contanti superiori a 750 Euro, «per finanziare la loro accoglienza».

Prima di maledire il governo bavarese, è utile qualche considerazione microeconomica, anzi di economia domestica. Per un viaggio del genere, una famiglia tipo, in cui lavora solo il capofamiglia, di quanto denaro avrà potuto disporre, in dollari?

Tenendo conto che il reddito pro capite in Siria non arriva a 2000 dollari (nel 2007, prima della guerra), meno di un ventesimo di quello tedesco o austriaco, è difficile immaginare più di un migliaio o due, cucito nelle fodere, ma solo se stiamo parlando di professionisti o commercianti. Il resto, se ce l’avevano, se ne sarà andato, sicuramente, a ungere miliziani e doganieri, non solo in Turchia, e a comprarsi da mangiare. E poi, ci saranno anche qualche gioiello di famiglia, un orologio, un cellulare e magari un tablet.
Sequestrare a questa gente i valori oltre 750 Euro è una cosa schifosa. La Danimarca ha fatto scuola. Ma non è solo schifosa, è insensata. Se si sfogliano i quotidiani economici europei si troveranno spesso, ma solo nelle pagine interne, analisi sulla necessità dei migranti per un continente che non cresce e la cui popolazione invecchia. In altri termini, il welfare europeo – o meglio i conti pubblici europei – hanno bisogno di gente che sostenga la domanda e paghi le tasse.

È il punto di vista dell’economia di mercato, fatto proprio da Merkel, a cui interessano fino a un certo punto le giaculatorie identitarie. Nulla di filantropico, per carità. Si parla della stessa tecnopolitica transnazionale che non ha voluto far fallire la Grecia, ma solo per comprarle a poco prezzo gli asset, insomma per succhiarle un po’ di sangue.

Torniamo alla famiglia siriana. Perché imporre il balzello d’ingresso, se poi, trovato un lavoro, anche misero, il capofamiglia e la moglie (lui facendo il lavapiatti, anche se in Siria magari era un dentista, e lei riparando giacche) cominceranno a finanziare il welfare bavarese? La risposta è in un concetto del sociologo algerino Sayad, «la doppia pena del migrante».

Loro non sono come noi e, se vogliono vivere tra noi, devono pagare pegno. Non solo stranieri, ma anche tenuti sotto il tallone. E di che pegno si tratta? I danesi, che hanno introdotto il sequestro d’ingresso, lo hanno detto chiaramente. Sappiamo che è una misura priva di qualsiasi significato economico, ma così li scoraggiamo. Tra l’altro, la Danimarca partecipa attivamente ai bombardamenti della Siria – cioè prima dice di bombardare l’Isis per sconfiggere il fondamentalismo e poi impone i balzelli a chi scappa dall’Isis. Un miracolo di logica.

D’altronde, nella vicenda dei profughi non c’è alcuna logica, tanto meno europea. Ogni stato, in base alla sua specifica xenofobia o paura del populismo, erige i suoi muri, chiude le sue frontiere, impone i suoi balzelli. Non esiste uno straccio di politica comune delle migrazioni, né di autorità capace di realizzarla, come mostra la vicenda dei ricollocamentii dei migranti approdati in Italia e Grecia. Una politica unitaria non esiste, perché l’Europa è solo un’espressione finanziaria, per citare un famigerato motto di Metternich sull’Italia.

Così, innalzare le barriere interne, come stanno facendo stati xenofobi o paranoici, significa compromettere quel po’ di libertà, di cosmopolitismo infra-europeo facilitato dalla libera circolazione delle merci.

Molti osservatori preconizzano che, con la crisi di Schengen, inizia la probabile agonia della Ue. Ma la fine o il declino di questo continente incombe da anni, da quando si è dichiarato incapace di dare una speranza di vita a chi, oltretutto, potrebbe aiutarlo a crescere.

Una riflessione critica a proposito di un libro che per eccesso di laicismo rischia di perdere la memoria di Voltaire. Conclude Zagrebelsky: «L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione; si tratta di promuoverla nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica». La Repubblica, 23 gennaio 2015

Molte cose è il libro di Paolo Flores d’Arcais La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale (Raffaello Cortina Editore): un allarme per il pericolo che l’Islam fondamentalista rappresenta per gli ideali politici dell’Occidente, una denuncia delle debolezze e delle ipocrisie dei nostri governi, una teoria delle condizioni irrinunciabili della democrazia. Il “precipitato” di tutti i discorsi anzidetti è nella parola laicità, intesa nel senso più rigoroso, senza gli aggettivi oggi di moda (sana, positiva, vera: aggettivi che non l’arricchiscono, ma l’avvelenano). Le considerazioni che seguono non sono, propriamente, una recensione. Sono piuttosto un tentativo d’inquadrare i problemi e di sollecitare riflessioni su questioni cruciali per il nostro avvenire.

La laicità è il presupposto della democrazia, in quanto s’intenda la religione come eteronomia, cioè soggezione alla trascendenza. La democrazia, al contrario, è autonomia, cioè libertà nell’immanenza. Si potrebbe dire così: chi si appella alla religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un ordine sacro oggettivo necessario che a noi spetta rispettare e, eventualmente, restaurare se è stato violato; chi si appella alla democrazia ritiene, invece, che la casa terrena non abbia un ordine, ma siamo noi a doverglielo dare, attraverso discussioni, controversie, voti ed elezioni. Chi vuole risolvere i problemi della convivenza in base a premesse sacrali apre le porte a quella maledizione dell’umanità che sono le guerre di religione. Ora, se guardiamo alla storia, dobbiamo riconoscere che è nello Stato nazionale che la democrazia ha trovato l’humus necessario. Questo è un punto importante per comprendere le difficoltà odierne della democrazia. Lo Stato nazionale ha generato mostri totalitari, quando è degenerato in nazionalismo. Ma la nazione ha realizzato la “sfera pubblica” comune, nella quale i cittadini possano confrontarsi dialogicamente, e “discorsivamente” partecipare alla creazione d’una volontà comune su temi di rilevanza generale. La democrazia non è incompatibile con il pluralismo delle opinioni, ma il “multiculturalismo” è altra cosa, è rottura dell’unità del quadro entro il quale si deve svolgere la vita comune.

Il libro di Flores è una scossa necessaria e salubre contro la cecità, la viltà e l’inanità di fronte ai pericoli del fanatismo religioso usato come sostanza incendiaria, versata sulle controversie economiche e politiche che dividono il mondo e le società e le trasformano in crociate. Un breve excursus storico. La Francia del Cinque-Seicento fu il terreno d’una orribile guerra civile in cui ragioni politiche si mescolavano col fanatismo religioso: l’obbedienza cattolica contro la riforma protestante. La “notte di San Bartolomeo” (23-24 agosto 1572) in cui migliaia di Ugonotti furono trucidati dal partito cattolico sotto l’egida di Caterina de’ Medici è un esempio di come si possono regolare i conti tra fedeli di religione diversa e azzerare le diversità imponendo una sola legittimità. Contro tanta barbarie, si fece strada un diverso modo di pensare che potrebbe essere sintetizzato in un detto del Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital: «Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme », ciascuno con la sua fede. Quella massima trovò attuazione con l’editto di Nantes di Enrico IV (1598) che, sia pure provvisoriamente e con molte limitazioni, riconobbe la libertà di coscienza e di culto: tolleranza a condizione che cattolici e protestanti stessero ciascuno al proprio posto e il potere assoluto del Re non fosse messo in discussione.

Questa forma di coesistenza per parti separate poteva valere in quel tempo, quando di democrazia non si parlava. In democrazia, deve esistere un unico foro politico generale dove tutti sono chiamati a partecipare. Non basta che ci sia un potere che garantisca la non aggressione. Occorre che i “fedeli” delle diverse chiese si rispettino e si riconoscano reciprocamente come portatori di buone ragioni valide in generale. La legittimità democratica nasce da lì, dal riconoscimento d’essere parti d’un foro comune. Il foro comune si chiama “nazione”.

La nazione è stata celebrata come la casa accogliente, protettiva, il luogo del cuore, la Heimat del romanticismo tedesco. La storia delle Nazioni e della “nazionalizzazione delle masse” (titolo d’un celebre libro di George Mosse del 1974) è stata però lunga e tortuosa e, soprattutto, fatta di cose molto diverse: movimenti di emancipazione da servaggi e discriminazioni e conquista di diritti (per esempio, il voto e la protezione sociale per la classe lavoratrice, in origine esclusa dalla nazione, secondo la concezione borghese) o, al contrario, di discriminazione e persecuzione. L’unità è una bella cosa se è il prodotto dell’azione che mira a distruggere barriere e a creare fratellanza. Ma può essere — ed è stata — cosa violenta, se è imposta con obblighi e divieti (come l’uniformità di lingua, di religione e di insegnamento). Può essere terribile, se viene brandita come arma contro coloro che i governi dichiarano “non integrabili”, i diversi per natura: gli stranieri, i senza cittadinanza, i nemici della Patria, i potenziali traditori (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, gli slavi, i latini, secondo il concetto nazionale razzista del nazismo).

Raccogliamo questi spunti di riflessione e facciamoli reagire con i problemi del multiculturalismo. Il “modello San Bartolomeo”, cioè la violenza e i pogrom usati per sbarazzarsi dei migranti è proponibile solo per gli xenofobi razzisti di casa nostra. Tuttavia, neppure la separazione “modello Nantes” è accettabile: i muri, le enclave e i quartieri monoetnici, le classi scolastiche separate o le scuole coraniche sostitutive di quelle pubbliche. Sono cose che hanno il nome apartheid e sono inconcepibili in democrazia.

La parola-chiave dei nostri giorni è integrazione e, nel libro di Flores, l’integrazione implica la laicità nella sua accezione più rigorosa. Si prenda la questione dei simboli: come dovrebbe essere vietata l’esibizione di quelli islamici (il velo delle donne), così dovrebbe essere per quelli cristiani (il crocifisso nei luoghi pubblici). Ma, qui c’è il rischio d’una aporia, un’aperta contraddizione. La laicità è funzionale all’autonomia, ma la si può imporre in regime di eteronomia. Si può essere laici perché qualcuno ce lo comanda? La contraddizione non è da poco. La laicità imposta significa soffocare i propri tratti identitari e, da questo soffocamento, si possono sprigionare reazioni di rigetto. L’esperienza insegna: invece di promuovere convivenza, si rischia di alimentare i conflitti.

L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione. Prima o poi, non saremo più gli stessi. Di questo possiamo essere certi. Si tratta di sapere se ci si arriveremo in mezzo a conflitti o, invece, con la disponibilità delle culture a entrare in rapporto. Ferma restando l’intransigenza verso ogni forma di violenza tra e nei gruppi sociali, e fermo l’aiuto che deve essere dato a coloro che liberamente desiderano sottrarsi alle imposizioni delle loro comunità, si tratta di promuovere l’interazione, nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica. Convinzione o illusione? Non lo sappiamo, ma sappiamo che questa è l’unica via conforme alle nostre convinzioni democratiche.

«Strategia unica degli avvocati dello stato nei tribunali dei ricorsi. Boomerang di palazzo Chigi: Premio troppo alto? "Protegge dai cambi di casacca". Gaffe di Renzi sulla fiducia: sulle riforme non si può».

Il manifesto, 23 gennaio 2016

Il governo (palazzo Chigi e il ministero dell’interno) difende la legge elettorale con una strategia unica in tutti i tribunali dove l’Italicum è stato portato in giudizio — con l’accusa di violazione del diritto di voto dei cittadini, ma con l’obiettivo dichiarato di far arrivare la legge alla Consulta e ottenerne la bocciatura come fu per il Porcellum. Presentati in quasi tutti i tribunali dei capoluoghi regionali, i ricorsi saranno esaminati per la gran parte prima del prossimo 1 luglio, il giorno in cui scadrà la «clausola di salvaguardia» e l’Italicum entrerà pienamente in vigore. I primi ricorsi saranno discussi a inizio febbraio (Genova il giorno 1, Potenza il 2, Trieste il 3 e Messina il 5) e in preparazione di quelle udienze l’avvocatura dello stato sta presentando, in ogni tribunale, le sue risposte alle argomentazioni dei cittadini ricorrenti. Sono identiche e documentano per la prima volta le ragioni di difesa dell’Italicum da parte del governo, al di là dello slogan renziano «è una legge che presto ci copierà tutta Europa» (cosa che, trascorsi nove mesi da quanto è stata approvata, non risulta stia accadendo).

Abbiamo letto le memorie presentate dalle avvocature distrettuali di stato per conto di palazzo Chigi e Viminale a Genova, Trieste e Milano. Nel capoluogo lombardo pende un ricorso diverso (per risarcimento del danno, avvocati Bozzi e Tani), che ha tempi di esame più lunghi ma che è in uno stadio più avanzato rispetto agli atri: al termine dell’udienza di giovedì scorso il giudice si è riservato di decidere. Nello schema di ricorso messo a punto (dall’avvocato Felice Besostri) per il «Coordinamento per la democrazia costituzionale» sono individuate una quindicina di cause di incostituzionalità dell’Italicum. Il governo risponde a tutte, a cominciare da quella che è considerata tra le più evidenti dai ricorrenti: il fatto che la legge elettorale sia stata approvata — alla camera — con il ricorso alla fiducia. Il che sembrerebbe escluso dalla Costituzione che all’articolo 72 prevede che «la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale». Una previsione che ha peraltro confermato appena tre giorni fa proprio il presidente del Consiglio, che intervenendo al senato sulla revisione costituzionale ha detto: «Il punto vero però è che le riforme costituzionali non fanno mettere le fiducia, ma hanno restituito fiducia agli italiani». Su quel «non fanno mettere la fiducia» speculerà il coordinamento, visto che il riferimento costituzionale è unico sia per le leggi di revisione che per la legge elettorale. Nuove memorie saranno presentate ai giudici dei 19 tribunali individuati per i ricorsi. Intanto l’avvocatura ha risposto sostenendo che la questione di fiducia non ha fatto venir meno la votazione dell’Italicum «articolo per articolo» dunque deve intendersi perfettamente regolare. Peccato però che una volta chiesta la fiducia la discussione sul testo si interrompe e si passa a votare a favore o contro il governo (avviene sempre ed è avvenuto anche per la legge elettorale). C’è un precedente del 1980 nel quale la giunta della camera (presidente Iotti) stabilì che il voto sulla questione di fiducia «dà vita a un iter autonomo e speciale» ma la presidente Boldrini nell’ammetterlo sull’Italicum non ha voluto seguirlo. Al senato, poi, è successo anche di peggio, dal momento che a dicembre la commissione decise di portare il testo in aula senza relatore (Renzi aveva fretta), senza dunque concludere la «normale» fase referente. Curioso poi che tra le ragioni dell’avvocatura venga citato l’ostruzionismo del senatore Calderoli e dei suoi milioni di emendamenti. Non ammettere la possibilità della fiducia, scrivono gli avvocati del governo, «comporterebbe con ogni probabilità il blocco dei lavori». Ma quel precedente riguarda la riforma costituzionale, quando la questione di fiducia non fu posta e l’ostruzionismo superato con altre tecniche (il cosiddetto «canguro»).

In alte parti delle memorie dell’avvocatura di stato si sostiene la necessità dell’alto premio di maggioranza previsto dall’Italicum per proteggere la maggioranza «dai frequentissimi cambi di partito o di gruppo parlamentare»; argomento interessante provenendo da un governo che esattamente grazie a questi cambi è riuscito ad approvare le sue riforme. Infine, alla tesi dei ricorrenti che un ballottaggio tra liste per la formazione dell’organo legislativo come quello introdotto dall’Italicum, «non è previsto in nessun ordinamento democratico conosciuto», il governo replica che non è così. Perché c’è in Valle d’Aosta, e in Toscana.

«Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un "mercante di luce" che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è».

La Repubblica, 23 gennaio 2016

PERCHÉ la Germania ha tanto successo nel mondo? Perché sa fare i conti con il proprio passato, anzi assorbe la storia come ingrediente essenziale del futuro. La diagnosi è di Neil MacGregor, il brillante direttore del British Museum ora passato alla testa del nuovo Humboldt Forum di Berlino, nel suo ultimo libro (Germany. Memories of a Nation, Knopf). In un Paese come l’Italia, che coltiva la smemoratezza, la distrazione e la superficialità come altrettante virtù, può sembrare una provocazione. Ma proviamo a guardarci intorno. «L’America è famosa per essere a-storica », ha dichiarato Obama, aggiungendo «dimenticare è uno dei nostri punti di forza». Lo conferma il discorso d’insediamento di Bush II, che invitava gli americani a dimenticare il Vietnam, perché «una grande nazione non può permettersi memorie che fomentano discordia». Ma è meglio promuovere l’amnesia di marca americana o la memoria storica “alla tedesca”? La scuola italiana, riducendo di riforma in riforma lo spazio della storia (e della storia dell’arte) propende per l’arte della dimenticanza, forse più per sciatteria che per progetto.

Sul ruolo della storia nella vita di una nazione è tutta da leggere la conversazione di Obama con la grande scrittrice Marilynne Robinson (premio Pulitzer 2005), pubblicata dalla New York Review of Books. Dialogando con il Presidente, Robinson si chiede se l’America possa ancora dirsi una democrazia, intesa come «la conseguenza logica e inevitabile di un umanesimo religioso al più alto livello, da applicarsi all’immagine umana in quanto tale e al rispetto che le si deve». È qui che Obama parla di “amnesia americana”, contrapponendola alla memoria lunga di civiltà dove antichi eventi, come il contrasto fra sciiti e sunniti, provocano ancora feroci contrasti. «Noi americani dimentichiamo quel che è successo due settimane fa — continua Obama, incalzato da Robertson — Ma sono convinto che per incoraggiare la creatività è essenziale insegnare la storia ai nostri ragazzi», tanto più che «tenere in vita una democrazia comporta sangue, sudore e lacrime», e non una visione falsamente pacificata.

E la memoria del passato (anche recente) mostra che la competizione senza contenuti annienta la democrazia. «Se potessi cancellare una parola dal vocabolario americano, sarebbe “competizione”» (Robinson), anche se «storicamente, l’America ha voluto “competere” creando un sistema scolastico migliore di altri, accrescendo gli investimenti in ricerca, credendo profondamente nella scienza e nei fatti, accogliendo talenti da tutto il mondo, promuovendo sistemi di sicurezza sociale » (Obama).

Quel che la scuola americana fa ora è l’opposto, risponde Robinson: «Stiamo dicendo alla gente che non troveranno lavoro a meno che non acquisiscano anonime competenze tecnologiche, e con questo linguaggio coercitivo stiamo dicendo alla gente che le loro vite sono fragili, alla mercé di una generica paura che impedisce ogni senso di sicurezza », e dunque ogni creatività.

La retorica della competitività spinge a diminuire la protezione dei lavoratori, a devastare l’ambiente, a delocalizzare la produzione, a inseguire la logica della crisi, augurandosi che colpisca altri Paesi: ma è davvero questa, si chiede Robinson, la missione americana, avere la meglio sulla Cina o sull’Europa? Per uscire da questa logica miope, è necessaria la memoria e la conoscenza storica. Prendere coscienza della storia vuol dire (come in Germania) scegliere di ricordare quel che si è tentati di dimenticare. Accettare le proprie responsabilità rispetto al passato vuol dire allenarsi a costruire il futuro con piena responsabilità (fattore essenziale della democrazia).

Questa conversazione fra un Presidente e un’intellettuale che promuove la storia in nome della democrazia, della creatività e della felicità dei cittadini è (temo) impensabile in un’Italia dove segmentate “competenze” la vincono sulla conoscenza, dove gli slogan (“buona scuola”) sfrattano lo spirito critico, dove scuola e università puntano sempre meno a educare cittadini e sempre più a formare un’anonima forza-lavoro. È in questo quadro, in cui andiamo scopiazzando un’America che ha già avviato una qualche autocritica, che si va diffondendo come una peste il pregiudizio che gli studi umanistici vadano cestinati come inutili; e che intanto i migliori laureati delle nostre università (umanisti e no), dopo una formazione a nostre spese, emigrano a decine di migliaia.

Ma qual è la funzione degli intellettuali (di chi si ferma a pensare) in un mondo dominato dalla faciloneria e dall’amnesia? Proprio per questo, abbiamo sempre più bisogno di quei «mercanti di luce, che da ogni nazione ricavano il meglio, i libri, le idee, gli esperimenti, le memorie, i modelli di comportamento, e li trasportano in patria» (Francis Bacon). Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un «mercante di luce » che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è. Vale in America, vale in Europa. Varrà in Italia?

La Repubblica, 23 gennaio 2016


Contrariamente a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere.
Francesco ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione », perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo ») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione».

Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto.

In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente». Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.

Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia.

È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700.

A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo. Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica?

Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno. Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»?

Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana.

La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo.

Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso.
Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.

uffington post online, 22 gennaio 2016

Mario Draghi ha parlato e come d’incanto le borse si sono risollevate. Non è un miracolo, è esattamente quello che ci si aspettava. Anche perché non era poi così difficile prevedere quello che il potentissimo governatore della Banca centrale europea avrebbe detto. Il novello re Mida infatti ha confermato che per ora non si prevedono muove misure, si mantengono quelle che già ci sono, ma che a marzo la Bce è pronta ad ampliare “senza limiti” l’acquisto di titoli, pur restando ovviamente nei termini definiti dal proprio statuto.

Tutto bene? Tutti felici? Non proprio. Intanto perché lo stesso annuncio di Draghi mette in luce che le cose fin qui non sono andate benissimo. Infatti l’obiettivo di accrescere l’inflazione, di avvicinarla al fatidico 2%, è stato largamente mancato. Lo stesso Presidente della Bce ha riconosciuto che le aspettative per una inflazione crescente nel corso dell’anno appena cominciato si sono indebolite, tenendo conto dei dati verificati a dicembre.

La deflazione continua e non conosce ancora terapie valide a combatterla. Draghi stesso ha più volte detto che la politica monetaria da sola non basta. Ma non si intravedono a livello europeo politiche economiche e fiscali in grado di aggredire la crisi profonda nella quale siamo precipitati. Che il neoliberismo e le politiche di austerity abbiano fallito sono ormai in molti a riconoscerlo, ma al di là delle chiacchiere sulla flessibilità rispetto ai vincoli troppo rigidi, non c’è alcuna inversione di tendenza sostanziale. Tantomeno nel nostro paese, malgrado i recenti litigi fra Renzi e i big della Ue.
Intanto la crisi economica e finanziaria globale non recede. Il volume complessivo del debito è aumentato rispetto al 2008. McKinsey stima che già nel 2014 ammontasse a 57mila miliardi di dollari in più rispetto all’inizio della crisi. Rispetto ad allora è cambiata la composizione del debito. Il peso maggiore non grava sulle spalle delle famiglie americane, quanto sulle imprese cinesi o di altri paesi emergenti o emersi, ma già carichi di guai. Fitch stima che in Cina il debito complessivo – in questo caso prevalentemente privato – è arrivato al 196% del Pil a fine settembre 2015. E’ in buona parte in valuta estera e solo un terzo è assicurato contro il rischio cambio. Insomma una nuova bolla si sta gonfiando e potrebbe scoppiare da un momento all’altro.
D’altro canto le mosse della Federal reserve di innalzamento, seppure prudente e moderato, dei tassi, ha favorito lo spostamento capitali dai paesi di nuovo sviluppo verso gli Usa. A ciò si deve aggiungere che la guerra dei prezzi del petrolio, e i suoi risvolti finanziari, colpisce i paesi produttori che avevano in questo la loro principale risorsa, più che la produzione e l’esportazione di shale oil americano.
Diversi economisti tuttavia sostengono che non ci sarebbe da preoccuparsi troppo, perché il “sistema” ha imparato a difendersi dopo la scoppola della crisi dilatatasi a seguito del fallimento della Lehman Brothers. Le banche centrali non praticano più politiche restrittive e il meccanismo delle cartolarizzazioni – che diffuse urbi et orbi i subprime americani – è oggi un poco più sotto controllo.

Ma questo ottimismo si infrange almeno contro due duri elementi di realtà. Il primo concerne il fatto che nessuno ha messo mano al cosiddetto sistema bancario ombra, denunciato nei suoi ultimi libri dal compianto Luciano Gallino. Nessuno controlla quell’intreccio di fondi, di società, di investitori, di manovratori finanziari che, in quasi totale assenza di regolamentazione, hanno erogato credito in modi vari a singoli o imprese particolarmente dei paesi emergenti. Secondo una recente ricerca del Financial Stability Board il volume del denaro movimentato sarebbe pari a 137mila miliardi di dollari, dei quali 36mila in particolare potrebbero essere una mina vagante per la stabilità finanziaria.

Il secondo elemento è che le politiche di stimolo monetario, soprattutto se prolungate nel tempo, hanno come effetto collaterale quello di incrementare il mercato azionistico e di aumentare le già gigantesche diseguaglianze di reddito e quindi sociali. Lo ha affermato anche Joseph Stiglitz, confortato da molteplici studi di diversi centri internazionali, in una sua apparizione al Festival dell’economia di Trento: "In una economia moderna non si fa la distinzione tra debitori e creditori, ma tra chi risparmia e chi ha un patrimonio per nascita. Una politica come il Quantitative Easing può aumentare la disuguaglianza se si abbassano i tassi di interesse, le azioni si impennano i ricchi stanno ancora meglio ma i risparmiatori non hanno più fonti di reddito".
Infine bisogna pure tenere conto che il Quantitative Easing non può durare in eterno. Che anzi fin d’ora bisognerebbe preoccuparsi delle conseguenze sull’economia di una sua interruzione, quindi della necessitò di progettare atterraggi morbidi. Ma non mi pare che se ne occupi alcuno. Tutti intenti a brindare alle spumeggianti dichiarazioni di Mario Draghi. Effetto Titanic.
« ».

La Repubblica

LA PROPOSTA di legge (testo Cirinnà) che dovrebbe regolare lo stato civile delle coppie omosessuali e che comincerà il suo iter parlamentare in Senato il 28 gennaio (quasi in contemporanea con il Family day), mette a nudo la natura bipolare del Partito democratico, sintesi visiva della tensione che divide il Paese tra una cultura liberale e una cultura liberale ma nella misura in cui i diritti individuali non contrastino con i valori cattolici. Il Pd porta nei suoi geni il seme della discordia che divide demo-cattolici e demo-liberali sui temi legati alla procreazione e alla sessualità. Il teso scambio tra Michela Marzano e Emma Fattorini, lunedì scorso su Repubblica Tv, non sembrava una discussione fra esponenti dello stesso partito.

L’Italia è, tra i Paesi europei, quello meno disposto a riconoscere al matrimonio civile un’identità autonoma rispetto al matrimonio religioso, che per i cattolici è un sacramento che fonda e sotiene la famiglia. La questione che divide è lo statuto delle unioni omosessuali, ovvero la disciplina del matrimonio, la sua indiscussa identità eterosessuale.

All’interno di questo contenzioso si colloca la discussione sulle adozioni con una pesante distinzione tra “figli” e “figliastri” in relazione ai tipi di genitori. La visione diffusa è che i costituenti per primi avessero in mente una nozione di matrimonio che prevedeva che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. Il contesto storico del Paese e la matrice etico- religiosa di molti dei costituenti che contribuirono alla scrittura degli articoli 29, 30 e 31 sembrerebbero confermare questa visione (anche se in nessuno di quegli articoli si menzionano i sessi diversi). È legittimo chiedersi se la Costituzione vada interpretata cercando di entrare nella testa dei costituenti e restando ancorati al loro contesto culturale o se non ci si debba affidare ai criteri di coerenza interna al testo e di attenzione al nostro contesto, alla vita nostra qui e ora.

Si potrebbe sostenere che ora come allora l’Italia è un Paese cattolico e, in questo senso, l’intenzione dei costituenti è facilmente comprensibile anche da noi. È poi vero che in un Paese monoreligioso, e con debole pluralismo confessionale, l’interpretazione del diritto si tinge fatalmente della sensibilità della cultura della maggioranza (come avvenne nel caso del crocefisso nelle scuole pubbliche).

Tuttavia, si puó essere cattolici in modi diversi. La lettura della libertà individuale non è omogenea nemmeno tra i cattolici. Il movimento cattolico ha infatti conosciuto importanti stagioni liberali e di dissenso, per esempio nel corso di battaglie per altri diritti civili come il divorzio e l’interruzione di gravidanza.

I diritti sono scudi protettivi per chi si trova in minoranza (in questo caso, chi non è eterosessuale) mettendo in conto che ciascuno di noi — anche chi condivide la cultura etica della maggioranza cattolica — potrebbe trovarsi nella condizione di doversi appellare ad essi. I diritti ci garantiscono nelle nostre future scelte, qualora esse si scontrino con quelle che la maggioranza giudica buone. Perché lasciare la definizione di che cosa sia il matrimonio alla parte più numerosa e soprattutto a quella parte di essa che pensa che il futuro replicherà sempre e per tutti il passato?

La divisione interna al Pd mostra un’ulteriore discrepanza. Mostra come la società e la giurisprudenza camminino a una velocità doppia rispetto alla politica: le persone fanno scelte di vita secondo la loro personale saggezza, il loro desiderio, i loro sentimenti, se necessario andando a celebrare un matrimonio gay all’estero; i giudici, interpellati da coloro che subiscono discriminazione perché omosessuali, devono seguire il dettato della Carta.

La vita e il diritto si sostengono a vicenda e tendono a procedere quasi alla stessa andatura. La politica, invece, resta indietro, litigiosa e incapace di rappresentare la società e di ascoltare la voce dei diritti. E resterebbe ancora latitante se la Corte di Strasburgo, nel luglio scorso, non avesse condanno l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulla tutela della vita familiare, anche omosessuale.

Il testo Cirinnà non è radicale e segue il tracciato indicato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 che sgancia la questione sulla legittimità costituzionale del matrimonio tra persone dello stesso sesso dall’articolo 29 per riferirlo all’articolo 2: una linea di condotta ad un tempo moderata (prospettando unioni civili non matrimonio) e rispettosa dell’eguaglianza. L’articolo 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Cioè anche in unioni omosessuali.

Il manifesto, 21 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Andiamo a vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a maggioranza assoluta - 180 favorevoli - la sua riduzione a dopolavoro per consiglieri regionali.

Un pomeriggio, quello di martedì, e una mattinata, quella di ieri, sono trascorsi in monologhi senatoriali, quasi tutti critici verso un testo ormai immodificabile. Poi è arrivato Renzi, nel momento in cui il senatore e filosofo Mario Tronti citava Weber, e Pareto, e Mosca e la «crisi di autorità che è più acuta della crisi di rappresentanza» - lo sta facendo per motivare il suo voto a favore. Renzi lo ha applaudito. E un attimo dopo lo ha citato nella sua replica, è stato l’unico che ha citato. Forse l’unico che ha sentito.
Poi il presidente del Consiglio in 35 minuti - chiusi da «viva l’Italia» - ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro, anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle "sue" elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.
Siamo già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però, come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a vedere con chi sta il popolo». Con lui intanto stanno 180 senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per appartenenza».
Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali, perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.
Solo in un punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il governo - la fiducia monocamerale, le leggi a data certa - e la maggioranza - la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del Csm, del presidente della Repubblica - che Renzi ha aggiunto: «Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più. E molto di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco).
Per quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo ha capito meglio di tutti è Renzi.

In barba all'articolo 11 della Costituzione l'Italia del governo Renzi continua a bruciare soldi per le spese di guerra. Atomiche, e di proprietà degli altri. Il Fatto Quotidiano online, blog di Toni De Marchi, 20 gennaio 2016

Il 12 novembre 2014 il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3, magazzini corazzati che custodiscono gli ordigni. Lo si legge in un documento della Corte dei Conti, datato 18 novembre 2015, sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014
Non solo in Italia ci sono armi nucleari, ma il Ministero della Difesa investirà molti milioni di euro per ammodernare i depositi corazzati che le custodiscono nella base aerea di Ghedi, in provincia di Brescia. La notizia è ufficiale, tanto ufficiale che il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 in data 12 novembre 2014 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3 (sta per Weapon Storage and Security System). Le informazioni su questo contratto, classificato “riservatissimo”, sono riportate nel documento della Corte dei conti sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014, la “Deliberazione 18 novembre 2015, n. 11/2015/G”. Il contratto riguarda la “progettazione definitiva completa di sondaggi geognostici e rilievo plano-altimetrico in relazione agli interventi di “realizzazione di sistema Wass” e “Upgrade WS3 security system” a Ghedi (Brescia)”.

Come è evidente dal titolo del capitolo dedicato all’argomento, il documento si riferisce ai soli oneri di progettazione che ammontano a “207.256,36 euro, oltre al contributo Inarcassa del 4 per cento pari a 8.290,25 euro, per un totale di 215.546,61 euro” come puntigliosamente annota il documento della magistratura contabile. Il che fa pensare, come suggerisce in una interrogazione la deputata pentastellata Tatiana Basilio, “che il costo delle opere in questione ammonti a molti milioni di euro, presumibilmente a carico del bilancio della Difesa italiano”.

La cosa è clamorosa perché da sessanta anni, governo dopo governo, è stata negata persino l’esistenza delle bombe atomiche in Italia. E invece non solo le abbiamo, ma i documenti ufficiali certificano che spendiamo soldi per tenerle nelle nostre basi aeree. Sia chiaro: era il famoso segreto di Pulcinella, ma la litania dei dinieghi ufficiali è sempre stata unanime e monocorde. Sono le famose armi a doppia chiave, cioè le bombe sono americane ma gli aerei che le porteranno sugli obiettivi nemici sono italiani. In questo caso i Tornado del 6° Stormo “Alfredo Fusco” di Ghedi. Dove tra qualche tempo arriveranno anche le nuovissime bombe nucleari B61-12 e forse proprio per questo si fanno i lavori.

Che il Weapon Storage and Security System WS3 sia un sistema di stoccaggio e protezione delle armi nucleari ce lo spiega senza giri di parole la Aviano Air Base Instruction 21-204 del 24 ottobre 2006 (Aviano è l’altra base italiana dove si trovano i WS3, ma questi sono usati dagli statunitensi). Un WS3 si trova all’interno di ciascuno dei ricoveri corazzati che ospitano gli aerei destinati all’attacco nucleare. Si tratta di un deposito sotterraneo che può contenere fino a quattro bombe nucleari. In caso di impiego, gli ordigni emergono dal ricovero blindato sotterraneo (vault) e sono agganciate ai piloni alari degli aerei. I Tornado, nel caso italiano, e fra qualche anno gli F-35.

Ma quanto ci costerà questo ammodernamento che non esiste? Certo, se uno spende oltre duecentomila euro solo per fare un po’ di disegni, per realizzare concretamente i lavori spenderà diversi milioni. E non pochi. A capire di cosa e di quanto stiamo parlando ci aiuta il governo della Turchia, incidentalmente nostro alleato, massacratore di curdi e ambiguo amico di Isis/Daesh. I turchi, a Incirlik, una base a circa cento chilometri dalle linee di combattimento siriane, ospitano anche loro alcuni depositi WS3 del tutto analoghi a quelli di Ghedi. Nel 2013 Ankara ha avviato un ammodernamento del sistema. La commessa, affidata alla società Aselsan, ha un valore di 79,8 milioni di lire turche (28,6 milioni di euro al cambio dell’epoca).

Considerando che, secondo il rapporto U.S. Nuclear Weapons in Europe di Hans M. Kristensen, Incirlik dovrebbe ospitare 25 sistemi WS3 e Ghedi undici e facendo le opportune proporzioni, stiamo parlando di una spesa per l’Italia che potrebbe aggirarsi sui 15 milioni di euro. Bruscolini, se consideriamo che questi depositi nucleari non esistono.
Il sito dell’impresa turca Kuanta, che materialmente sta eseguendo i lavori a Incirlik, ci dettaglia anche con notevole precisione in che cosa consistano. Possiamo dunque facilmente ritenere che le opere da realizzare a Ghedi siano dello stesso tenore, visto che si tratta di installazioni NATO standard praticamente identiche nelle due basi, al di là delle dimensioni. Magari qualcuno potrebbe far vedere i disegni dei turchi alla Pinotti, così la prossima volta che va in Parlamento per dire “la tipologia e la qualità delle informazioni rilasciabili sugli armamenti nucleari è quindi una decisione politica collettiva ed unanime degli alleati, cui nessun Paese può sottrarsi, pena la violazione del patto di alleanza liberamente sottoscritto e del vincolo di riservatezza che da esso ne discende” (dichiarazioni del 17 dicembre 2014 rispondendo a un’interrogazione del deputato Rizzetto), le si potranno fare delle domande su Incirlik poiché Ghedi non esiste.
Comunque, per aiutare la memoria selettiva della ministra, le potremmo consigliare la lettura alla sera di un curioso libriccino intitolato Air Force Instruction 21-200. Lettura forse un po’ impervia, ma istruttiva, dalla quale si può apprendere a pagina 16 cosa fanno i MUNSS (Munitions Support Squadron), di cui ne esistono solo quattro al mondo, uno dei quali si trova, guarda caso, a Ghedi. Dice il noioso manualetto che il MUNSS è “responsible for receipt, storage, maintenance, and control of United States (US) nuclear weapons in support of the North Atlantic Treaty Organization (NATO) and its strike mission”. Dove la parola “nuclear” non ha bisogno di traduzione. Evidentemente la Pinotti penserà che si tratti di materiale COSMIC/ATOMAL/TOP SECRET e invece basta cercare su Internet. Questi yankee non hanno alcun rispetto per i poveri ministri italiani che da cinquant’anni fanno la parte di quelli che non sanno.

«». Determinanti i voti di Verdini e dei suoi camerati. Il manifesto
«Andiamo a vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a maggioranza assoluta — 180 favorevoli — la sua riduzione a dopolavoro per consiglieri regionali.

Un pomeriggio, quello di martedì, e una mattinata, quella di ieri, sono trascorsi in monologhi senatoriali, quasi tutti critici verso un testo ormai immodificabile. Poi è arrivato Renzi, nel momento in cui il senatore e filosofo Mario Tronti citava Weber. E Pareto, e Mosca e la «crisi di autorità che è più acuta della crisi di rappresentanza» — lo sta facendo per motivare il suo voto a favore. Renzi lo ha applaudito. E un attimo dopo lo ha citato nella sua replica, è stato l’unico che ha citato. Forse l’unico che ha sentito.

Poi il presidente del Consiglio in 35 minuti — chiusi da «viva l’Italia» — ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro, anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle “sue” elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.

Siamo già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però, come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a vedere con chi sta il popolo».

Con lui intanto stanno 180 senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per appartenenza».

Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali, perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.

Solo in un punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il governo — la fiducia monocamerale, le leggi a data certa — e la maggioranza — la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del Csm, del presidente della Repubblica — che Renzi ha aggiunto: «Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più.

E molto di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco). Per quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo ha capito meglio di tutti è Renzi.

Il premier tramite Carrai vuole il controllo del flusso delle intercettazioni e avere una più forte capacità di ricatto sui suoi vassalli e sudditi, senza dimenticare che parliamo di un affare da 150 milioni di euro Articolo di D'Esposito e intervista di Calapà a Gotor.

Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2016



AMICI MIEI: BOSCHI IN AULA PER DIFENDERE CARRAI - 007
di Fabrizio D'Esposito

La domanda che scuote,in senso trasversale,ampi settori della politicae delle istituzioni,è questa: “Perché Renzi siespone con la nomina di Carraiai Servizi proprio in questafase, quando per il suo governosi aprono le prime seriecrepe, tra Europa ed Etruria?”. Ufficialmente, oggi aMontecitorio, a risponderealla domanda dovrebbe esserela ministra Maria Elena Boschi,titolare delle Riforme edei Rapporti con il Parlamento.Accadrà durante il pomeriggiodedicato al question time,grazie a un’interrogazione di Sinistra italiana. In unprimo momento, avrebbe dovutorispondere Angelino Alfanoma il ministro dell’Interno non ha voluto mettere lafaccia su un caso così smaccatodell’arroganza renziana.Fonti di Ncd aggiungono chetra i due, Renzi e Alfano, negliultimi giorni i rapporti sarebberoparecchio freddi.

Con laBoschi in aula, ci sarà la sublimazionedel familismo renzianoe dei vari conflitti d’interessi del fatidico giglio magicotoscano. Boschi, il papàPier Luigi, Banca Etruria el’ombra della P3, tra FlavioCarboni e Denis Verdini. PoiMarco Carrai, le sue società dicybersicurezza e il nuovo incaricoa Palazzo Chigi, da superconsiglieredei Servizi.Tutto in pochi metri, tutto traamici.

Al riparo da taccuini e microfoni,un parlamentare espertodi 007 la mette invecegiù così: «Dietro lo scudo dellacybersicurezza, il premier tramite Carrai vuole il controllodel flusso delle intercettazioni,senza dimenticareche parliamo di un affare da150 milioni di euro. Come insegnanole vicende berlusconiane,i ‘laboratori’dei Servizisono decisive in alcuni frangenti”.Ed è per questo, dunque,che a quasi due anni dalsuo insediamento, solo adessoil premier affronta di petto laquestione, aggirando così anchel’eterna guerra a PalazzoChigi tra due potenti sottosegretari:Marco Minniti, l’ex lothar dalemiano che ha la delegadella presidenza del Consiglioper i Servizi, e Luca Lotti,il quarto prezioso ingranaggiodel giglio magico. Non èmistero per nessuno che Lottiavrebbe voluto la delega diMinniti. Sinora non c’è riuscito(l’unica strada sarebbemandare via Minniti con unapromozione a ministro, sulmodello Delrio) e anche perquesto la nomina di Carrai diventadecisiva.

Per la serie:non si può più perdere tempo.Gli scandali incalzano e Palazzo Chigi vorrebbe tapparealcune falle. Prima delle tribolazionidi Banca Etruria, raccontanonel Pd, c’è stato peresempio lo spavento enormeper l’intercettazione tra il premiere il generale Adinolfi, agliatti dell’inchiesta napoletanasulla Cpl Concordia e rivelatala scorsa estate dal Fatto.

Probabilmente, in questeanalisi, c’è un eccesso di dietrologiama quando il faccendiereLuigi Bisignani mandapizzini travestiti da articolisul Tempo contro la nomina diCarrai e il giorno dopo il suoamico Denis Verdini, che è anchel’alleato più disinvolto diRenzi, gli fa da sponda alloral’inquietudine si allarga a dismisura.Ed è proprio l’assetra Bisignani (P2 e P4) e Verdini(P3) a richiamare alla memoriala lezione lasciata in ereditàdall’ultimo governoBerlusconi. B. vinse le elezioninel 2008 e un anno dopo,con il discorso del 25 aprile aOnna, in Abruzzo, era all’apice della sua popolarità. Poi, larepentina caduta, con l’escalation degli scandali a lucerosse. E nelle zone d’ombra diquel logoramento s’inserirono le manovre della “Ditta” diGianni Letta e Bisignani perun governo di centrodestra aguida diversa. Erano i giorniin cui i dalemiani, tanto per fareun nome, facevano il contodei dossier in mano alle dueprincipali filiere. Da un lato laGuardia di finanza, dall’altroServizi e carabinieri. Ci fu anchechi, come Fabrizio Cicchitto,accusò apertamente iServizi guidati dallo stessoLetta e tentò di frenare la campagnasuicida del Giornalecontro Fini e la casa di Montecarlo,suicida per la maggioranza,ovviamente. I nomi diquella stagione (Verdini fu ilgrande signore delle compravenditeper tamponare la scissionefiniana) ricorrono anchein questa fase. Una stagioneche si sa come finì: con ilgoverno Monti impostodall’Europa e da Napolitano.

“NO AL COMPAGNO DI BANCO DI MATTEO AI SERVIZI”
Intervista di Giampiero Calapà a Miguel Gotor

Il premier Matteo Renzi nonha nessuno di cui fidarsi al difuori della sua cerchia tanto damettere il compagno di bancoai Servizi”. Miguel Gotor, deputatobersaniano del Pd, vaallo «Marco Carrai aiServizi non si può fare».

Senatore Gotor, siamo a Carraipossibile capo di una nuovastruttura dell’intelligencecucita su misura per lui. Èaccettabile?
No. È un segno di debolezzaperché rivela indirettamenteche il premier non si ha nessunodi cui fidarsi per quellaposizione al di fuori della suarestrittissima cerchia. C’è ancheil tema di un potenzialeconflitto di interessi del dottorCarrai, che ha interessi economiciproprio nel campodella cybernetica e che si dovrebbeoccupare di cybersicurezza.

Vi opporrete a questa nomina?Come “Ditta”, come minoranzadel Pd?
Certo. Stiamo parlando di unanomina fatta circolare anticipatamenteper saggiare lereazioni dell’opinione pubblica.Mi pare che l’opinionepubblica stia reagendo confermezza, la stessa fermezzadi quella parte del Pd per cui èuna scelta inopportuna.I Servizi, oltretutto, non sarannomolto contenti, no?Non conosco quegli ambienti,ma ci sono professionisti, carriere...un compagno di bancodel premier, un suo amico chegli prestava casa, non può guidareun settore dei Servizi cosìimportante. Pare una sfiduciaall’apparato esistente, cosache sarebbe molto grave eimmeritata.

Ma pare che il “compagno dibanco”, come lo chiama lei,alla fine sarà nominato...
Le istituzioni richiedono equilibrio,rispetto delle professionalitàinterne e prudenza.Ripeto che le nomine si ufficializzano,non si fanno trapelareper vedere l’effetto chefa. Ora a Palazzo Chigi lo hannovisto: per noi Carrai ai Servizinon si può fare.

Caso Banca Etruria, il ministroBoschi si dovrebbe dimettere?
Non credo perché le responsabilitàpenali sono personali.Di cultura sono un garantistae perciò in passato mi sono espressocontro le dimissionidella Cancellieri e anche controquelle di Lupi. Certo, il fattoche lei oggi non possa direlo stesso la indebolisce politicamentee, davanti a una vicendadrammatica che riguardacirca centomila correntisti,mi sentirei di consigliarlemaggiore umiltà. Allaluce delle nuove dichiarazionidi un personaggio comeFlavio Carboni serve più chiarezzaperché non è normaleessersi fatti consigliare sullaBanca Etruria da un soggettocondannato con Gelli per ilcrac del Banco Ambrosiano. IlPd è il partito di Nino Andreatta(che con quegli ambientiebbe uno scontro violentissimo,ndr), non bisognerebbemai dimenticarlo...

Nel frattempo Denis Verdiniè sempre più organico e parladi alleanza strutturata anchealle prossime elezioni...il partito della nazione èsempre più realtà?
Se ci sarà il partito della nazionenon ci sarà più il Pd. L’azionedi Verdini ha svelato ilvero nucleo del Patto del Nazareno:oggi, alla vigilia delleriforme istituzionali in cui isuoi voti saranno determinanti,può addirittura sbeffeggiarcidicendo che si “affilia” al Pd, ben sapendo chequel termine si usa per le loggeo per le cosche.

E Carbonipuò dichiarare che il governoRenzi sta in piedi grazie a Verdinie ai suoi amici... Stanno avanticoi lavori, ma i nostri elettorise ne accorgono.

Pare che Verdini abbiasmentito. . .
Verdini è troppo arguto pernon sapere quel che dicevaAndreotti: una smentita è unanotizia data due volte.
Almeno sulle unioni civilistate col premier...
Il ddl Cirinnà rappresenta ilminimo sindacale.

La revisione costituzionale è invecchiata prima di nascere. È rivolta al passato, sigilla il presente e non dice nulla al futuro del Paese. Le decisioni più importanti sono rinviate o nascoste. È rinviata la diminuzione del numero delle Regioni. È nascosta la cancellazione del Senato. È negata la riduzione del numero dei deputati.

Diventa più conflittuale il rapporto tra Stato e Regioni, poiché entrambi i livelli sono dotati di competenze definite esclusive, che non possono trovare alcuna mediazione dopo la cancellazione della legislazione concorrente. Il superamento delle piccole Regioni, invece, avrebbe creato macroregioni più adatte a cooperare con la politica nazionale e a muoversi nello spazio europeo. Il governo ha promesso di realizzarle con una prossima revisione costituzionale, ammettendo clamorosamente che oggi si approva una legge non risolutiva.

Il nuovo procedimento legislativo è farraginoso. Aumentano i conflitti di competenza e si producono nuovi contenziosi presso la Consulta. Palazzo Madama diventa un dopolavoro per amministratori locali, un’assemblea senza prestigio che cercherà di riguadagnare i poteri perduti ricorrendo allo scambio consociativo con il governo. Se doveva cadere così in basso era più dignitoso abolire il Senato. In una sola Camera sarebbe stato ineludibile definire i contrappesi del sistema maggioritario: votazioni qualificate sui diritti fondamentali, poteri di iniziativa delle minoranze, controllo dell’attività governativa. Il monocameralismo ben temperato è preferibile a un bicameralismo pasticciato.

La maldestra propaganda sui costi della politica si è arenata in Transatlantico. Si conserva l’anomalia di una Camera di 630 membri che non ha pari in nessun Parlamento europeo. Un’assemblea tanto grande quanto debole, i cui membri devono tutto alla nomina dei capipartito oppure all’aumento dei seggi connesso con l’elezione del premier. Si doveva ridurre il numero dei deputati e selezionarli nei collegi uninominali, senza ricorrere ai signori delle preferenze e ai nominati dell’Italicum. Si sarebbe rafforzata l’autorevolezza della Camera nei confronti dell’esecutivo. La democrazia americana, pur guidando un impero, non ha mai rinunciato all’equilibrio di poteri tra Governo e Parlamento.

Perché tante occasioni perse? La mancanza di una vera riforma ha prodotto un testo lunghissimo, di scadente fattura normativa, di sgradevole gergo burocratico. Basta leggere, ad esempio, le ulteriori competenze del Senato definite – cito testualmente l'articolo 10 - nelle “leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”. Si, è scritto proprio così. Sembra un decreto “mille proroghe” e invece è un brano costituzionale, è uno scarabocchio che offende il linguaggio semplice e intenso dei costituenti. Da come parli capisco che cosa vuoi, suggerisce il buon senso popolare. La forma sciatta rivela il basso profilo politico.

Il vizio d'origine consiste nel cambiare la Costituzione per stabilizzare un governo altrimenti privo del mandato elettorale. Bisognava modificare subito il Porcellum per restituire la parola agli elettori. Invece, l'esigenza politica contingente prevale su ogni garanzia istituzionale, fino al paradosso di riscrivere la seconda parte della Carta in un Parlamento eletto in forma illegittima. In Italia non si governa per migliorare lo Stato, si cambia lo Stato per rafforzare il governo. Al contrario, le Costituzioni disciplinano la politica e conquistano la lunga durata.

Su questo principio sono fallite le riforme dell’ultimo ventennio. Approvate sempre da una parte contro l’altra, per puntellare i governi che avevano perso la fiducia degli elettori, come fece Berlusconi nel 2005 e, ahimè, anche la mia parte con il Titolo V. Si ripetono tutti gli errori già commessi da destra e da sinistra, mettendoci anzi più entusiasmo, fino a chiedere un plebiscito personale. Il Presidente Renzi è il grande conservatore della Seconda Repubblica. Si erige un monumento alle ideologie del ventennio, proprio mentre tramontano in tutta Europa.

Tutto era cominciato negli anni novanta con le speranze di una sorta di modello Westminster all’italiana. Oggi il bipolarismo è in affanno anche in quell’antico palazzo inglese, non esiste più in Spagna, è travolto in Francia dal lepenesimo, è sterilizzato dalle larghe intese in Germania. L’Italicum e la legge Boschi si accaniscono a tenerlo in vita artificialmente, ricorrendo al premierato assoluto senza contrappesi: una minoranza del 20% degli aventi diritto al voto conquista il banco e impone la propria volontà alla maggioranza del paese. Tutto ciò aumenta l’astensionismo e riduce il consenso verso la competizione bipolare. Ovunque la vecchia dialettica tra i partiti è travolta dalla nuova frattura tra élite e popolo. I paesi europei sono diventati ingovernabili per eccesso di governabilità

Si è dimenticata una semplice verità: per guidare le società frammentate di oggi occorre un consenso più ampio di ieri; le classi politiche debbono imparare a convincere i popoli invece di ridurre la rappresentanza; i premi di maggioranza alla lunga non riescono a surrogare gli elettori che non votano.

Si è ridotta la politica a mera amministrazione di sistema. Da qui è scaturito il primato degli esecutivi sui Parlamenti. Ma nell’orizzonte europeo tornano i grandi dilemmi della pace e della guerra, dei limiti e dei nessi tra religione e politica, dell’accoglienza e del rifiuto dei migranti, della libertà individuale e dell’etica pubblica, della potenza tecnologica e dell’intangibilità della vita, dello sviluppo economico e della durata della Terra.
Non sono problemi risolvibili dagli esecutivi, sono conflitti contemporanei che hanno bisogno di nuovi riconoscimenti culturali e politici. E saranno possibili solo in un'inedita democrazia parlamentare, come non l'abbiamo ancora conosciuta. Quella del secolo passato seppe neutralizzare i conflitti Stato-Chiesa, città-campagna e capitale-lavoro. Sono ancora da immaginare i Parlamenti capaci di ricomporre le fratture della civiltà europea nel nuovo secolo. È la sfida politica dei tempi nuovi.

Il mondo che abbiamo davanti è molto diverso da quello degli anni novanta. Le riforme istituzionali della seconda Repubblica sono ormai vecchi arnesi. La riforma costituzionale per il futuro italiano non è stata ancora scritta.

La Repubblica, 20 gennaio 2016

Nelle settimane passate è apparso in Italia un testo di Papa Bergoglio, che a me sembra di grande importanza. Si tratta dell’intervento da lui pronunciato a un Congresso internazionale di teologia (da lui stesso voluto e preparato), svoltosi a San Miguel in Argentina dal 2 al 6 settembre 1985, sul tema “Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo”.

L’intervento, nella forma pubblicata da Civiltà cattolica, porta il titolo “Fede in Cristo e Umanesimo”. Ritengo però che il suo vero tema sia più esemplarmente testimoniato da quello del convegno.

Andrò per accenni, limitandomi a segnalare quello che, dal mio punto di vista, spicca per novità e intelligenza del discorso. In effetti, trovo, per cominciare dagli inizi, che ipotizzare questa doppia missione – che è anche un doppio movimento di andata e ritorno per ognuno dei due elementi che lo compongono, e cioè: “evangelizzazione della cultura” e “inculturazione del Vangelo”– significa offrire una visione nuova dei rapporti tra la “fede cristiana” e “il mondo”.

Bergoglio, infatti, non dice: “questa” o “quella cultura”. Dice: “cultura”. A chiarimento della tesi scrive: «Stiamo rivendicando all’incontro tra fede e cultura, nel suo duplice aspetto di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del Vangelo, “un momento sapienziale”, essenzialmente mediatore, che è garanzia sia dell’origine (movimento di creazione) sia della sua pienezza e fine (movimento di rivelazione)». «Un momento sapienziale, essenzialmente mediatore…»: se la traduzione dallo spagnolo in italiano non ha deformato qualche senso, questo vuol dire che tra “fede” e “cultura” si può stabilire un confronto, i cui momenti di reciprocità sono destinati a influenzare sia l’una sia l’altra parte, producendo, attraverso la “mediazione”, un accrescimento di sapere e di conoscenza per tutti.

Bergoglio chiama in causa una parola-concetto tipicamente laica o quanto meno mondana: “mediatore”, mediazione. Tale impressione però si accentua, in misura significativa, nella lettura di un brano seguente, che qui riporto per intero, perché lo trovo denso di parole-concetti sorprendenti: «La base di questo sforzo è sapere che nel compito di evangelizzare le culture e di inculturare il Vangelo è necessaria una santità che non teme il conflitto ed è capace di costanza e pazienza. Innanzi tutto, la santità implica che non si abbia paura del conflitto: implica parresia, come dice San Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo. E questo coraggio ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o di un altro, può condurci al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”».

In questo caso, la parola-concetto centrale è: “conflitto”. Si deve ammettere che siamo di fronte a una acquisizione inedita nel campo della cultura cristiano-cattolica. Il termine infatti ricorre nel pensiero e nelle problematiche del pensiero dialettico e sociologico europeo e americano degli ultimi due secoli: da Hegel a Marx, e poi Simmel, von Wiese, Dahrendorf… Nessun equivalente, almeno della stessa portata, nel pensiero cristiano-cattolico dello stesso periodo, e si capisce perché: la predicazione evangelica sembrerebbe escludere una virata di tale natura.

Ma la sorpresa è destinata persino ad aumentare se si procede nell’analisi del ragionamento. «Affrontare il conflitto », scrive Bergoglio, «per superarlo », ma «senza eluderlo»; si misura con «un enorme nemico: la paura». Paura di che? Paura dei possibili estremismi, che dal conflitto possono scaturire. Ma tale paura, se incontrollata, è destinata a condurre «al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”, che vanifica qualsiasi messaggio». L’“estremismo di centro”! In un paese come l’Italia, spesso arrivato a catastrofiche conclusioni proprio a causa di un sistematico e prevaricante “estremismo di centro”, tale messaggio dovrebbe risultare più comprensibile che altrove. Anche il riferimento alla parresia s’inserisce in questo contesto: solo chi parla alto e libero può vincere la paura.

Quali considerazioni si possono fare su posizioni, di questa natura? Su Bergoglio sono stati scritti molti articoli (bellissimi quelli di Eugenio Scalfari). Pochi, però, si sono soffermati sulla scaturigine storica delle sue prese di posizione, che è inequivocabilmente gesuitica. I gesuiti, nel corso della loro lunga storia, ne hanno combinate di tutti i colori, nella difesa perinde ac cadaver della Chiesa di Roma. E però… Molti anni or sono ho studiato a lungo la cultura gesuitica del Seicento in Italia. Mi risultò chiaro allora che carattere perspicuo della cultura gesuitica, nei momenti migliori, è sempre stato il tentativo «di operare la saldatura fra cultura laica e cultura ecclesiastica, fra tradizione e rinnovamento… »; e questo su base mondiale.

Se le cose stanno così, la domanda (provvisoriamente) finale di questa ricostruzione è: quale rapporto esiste fra la centralità della parola-concetto “conflitto” e la centralità della parola-concetto “misericordia”, alla quale Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo?

La risposta più semplice è: nessuno. “Misericordia” è parola evangelica, pochissimo usata in ambito laico, come pochissimo “conflitto” in ambito ecclesiale. Sono passati trent’anni dalla prima formulazione, padre Jorge Mario Bergoglio, divenuto Papa Francesco, ha ripensato radicalmente le sue posizioni, rientrando nell’ambito più tradizionale della cultura ecclesiastica.

Come tutte le soluzioni troppo semplici, anche questa però si presta a un’obiezione di fondo. Una noticina al testo pubblicato da Civiltà cattolica informa infatti che il testo è stato ripresentato «in forma rivista dal Santo Padre ». Questo ci rende lecito pensare che nel pensiero di Papa Francesco “conflitto” e “misericordia” possano stare insieme. Cioè: il prodotto di una cultura laica può stare insieme con il prodotto tipico di una cultura evangelico- cristiana.

Non può esserci “misericordia” se non c’è stato “conflitto”; il “conflitto” è buono, anzi, addirittura indispensabile, se è necessario per superare la paura, e superare la paura è necessario per arrivare alla “misericordia”. Sarebbe troppo pretendere che Bergoglio, divenuto Pontefice, dopo averci additato come il conflitto sia necessario per attivare la misericordia, ci additi come la misericordia sia necessaria per attivare il conflitto, motivo quest’ultimo inesauribile – e positivo, quando c’è – delle azioni umane. Però la connessione possibile – il prima e il dopo, insomma, che però è anche o può essere anche, un dopo e un prima – almeno a noi laici e non credenti, risulta – credo – ben chiara.

L'Unione europea, dominata ideologia e della prassi del neoliberismo, somma nelle sue azioni tutte le efferatezze possibili, a cominciare dal trattamento dei profughi, e fa svanire il sogno di un'Eropa unita perché civile.

Il manifesto, 20 gennaio 2016

L’Europa è arrivata oramai a un bivio e sta imboccando, ogni giorno di più, la strada sbagliata, quella che porta al suo disfacimento.

È quanto suggeriscono le recenti notizie riguardanti la sospensione di Schengen da parte di un numero crescente di Paesi. Dopo Scandinavia, Danimarca e Germania, anche l’Austria e la Slovenia hanno espresso la volontà di chiudere le frontiere interne, ripristinando i controlli e quindi impedendo la libera circolazione, che è uno dei pilastri dell’Unione Europea.

Se guardiamo alla dinamica dei flussi di profughi negli ultimi due anni e a quel che succede in Medio Oriente e in Africa, non c’è ragione per pensare che l’arrivo di persone in cerca di protezione possa diminuire. La sospensione di Schengen potrebbe quindi essere talmente lunga da diventare pressoché definitiva, e non straordinaria come prevede il Trattato Europeo.

L’intenzione dichiarata dai governi di Germania e Austria di «filtrare» i profughi, consentendo il passaggio solo a quelli intenzionati a fermarsi nei loro Paesi e respingendo chi vuole arrivare più a nord, ad esempio in Svezia, è contraria alla legislazione europea e al regolamento Dublino, che dimostra sempre di più la sua inadeguatezza. Infatti, il regolamento Dublino obbliga lo stato di primo approdo a farsi carico di esaminare la domanda d’asilo del richiedente e della relativa accoglienza. Se un richiedente arriva alla frontiera con uno qualsiasi dei Paesi dell’Ue è questo che deve farsene carico, oppure, se dimostra con prove solide che la responsabilità spetti a un altro membro dell’UE, rimandarlo a quest’ultimo. Non è chiaro quindi verso quale Paese e secondo quali regole Austria e Germania respingerebbero i profughi intenzionati a proseguire il loro viaggio in Europa.

La logica della selezione alle frontiere tra chi l’Europa considera «profughi» meritevoli di protezione e chi è considerato «migrante economico» da respingere risponde all’approccio hotspot promosso dalle istituzioni europee. Cosi come avviene negli hotspot di Grecia ed Italia, anche alle frontiere austriache e slovene si decide il destino delle persone senza rispettare la procedura prevista dalle direttive.

La scelta di selezionare i profughi, combinata alla sospensione di Schengen, produrranno molte difficoltà anche ai cittadini e alle cittadine europee, e molte controversie tra Paesi, oltre che tante ingiustizie nei confronti dei richiedenti asilo.

Ma non sarà certo l’egoismo di Austria e Slovenia o il razzismo di Stato a fermare chi vuole mettersi in salvo insieme alla propria famiglia. I motivi delle fughe si moltiplicano. Le stragi terroristiche si moltiplicano in tante parti del mondo, così come è successo nel cuore del nostro continente.

Gli stessi governi europei, mentre discutono di come fermare Daesh e il terrorismo, impegnano uomini, mezzi e ingenti risorse per impedire che le persone in fuga possano arrivare in Europa a chiedere protezione.

La conseguenza è che alle stragi di civili provocate dal terrorismo e dalla ‘guerra’ al terrorismo, si aggiungono quelle causate dalle politiche di gestione delle frontiere: quasi 60 morti solo nei primi giorni di gennaio.

Come se non bastasse, i governi adesso puntano anche a lucrare su chi fugge dalle guerre. La Svizzera e la Danimarca sembrano intenzionate a chiedere ai rifugiati di pagare per essere accolti. Dopo i trafficanti, arrivano i governi a taglieggiare i rifugiati!

Un’ulteriore lesione dei diritti umani, che getta benzina sul fuoco del razzismo dilagante e che contribuisce alla demolizione dei valori fondanti dell’Unione Europea.

Doverosa iniziativa dei deputati della Sinistra italiana per far sì che la legislazione italiana non sia una delle peggiori d'Europa in materia. Il manifesto, 20 gennaio 2016
Una Commissione parlamentare d’inchiesta con «gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria» per indagare sui casi di abusi e maltrattamenti nei confronti di persone sottoposte a privazione o limitazione della libertà personale. A promuoverla e a chiederne l’istituzione è Sinistra italiana che ieri ha presentato l’iniziativa a Montecitorio alla presenza di Ilaria Cucchi e del suo avvocato Fabio Anselmo, legale storico anche delle famiglie Aldrovandi, Uva e Assarag.

«Qualunque persona che finisca sotto la tutela dello Stato deve essere considerata “sacra”; ogni abuso o maltrattamento nei confronti di un uomo in carcere dovrebbe essere, quindi, vissuto come il più alto degli scandali. Eppure il fenomeno non è affatto episodico», premettono nella proposta i deputati di Si. I primi firmatari, Celeste Costantino e Nicola Fratoianni, il coordinatore nazionale di Sel, hanno anche presentato al ministro di Giustizia Andrea Orlando un’interrogazione a risposta scritta sul caso del detenuto Rachid Assarag che ha registrato le conversazioni con alcuni agenti penitenziari che ammettevano l’uso della violenza in carcere.

Al Guardasigilli, Costantino e Fratoianni hanno chiesto di «avviare un’ispezione accurata per appurare i fatti e assumere i provvedimenti conseguenti», visto che nei documenti prodotti da Assarag (non ritenuti validi dal pm che ha chiesto l’archiviazione del caso) si evince, secondo i deputati di Sel, che «spesso uomini della polizia penitenziaria di diverse carceri italiane in cui Assarag è stato detenuto, esprimono pareri sulle modalità di rieducazione dei detenuti che non rispondono per nulla alla Costituzione e alle leggi». Fra le frasi riportate «c’è quella di un agente penitenziario che avrebbe detto che con i detenuti “ci vogliono il bastone e la carota” e che “così si ottengono risultati ottimi”».

Un caso — come peraltro molti altri compreso quello di Franco Mastrogiovanni, morto durante un Tso — sul quale potrebbe indagare la commissione d’inchiesta parlamentare proposta da Si, che si comporrebbe di venti deputati nominati dal presidente della Camera e avrebbe la durata di due anni. Una commissione alla quale, soprattutto, «non si può opporre il segreto di Stato, né quello d’ufficio, professionale o bancario» e «rappresenterebbe il primo passo per chiarire i limiti dell’esercizio della forza e dei pubblici poteri rispetto a esigenze investigative o di polizia», dal momento che, sostiene Si, «nonostante ci siano norme internazionali che lo sollecitino da tempo, il legislatore non ha peraltro ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale: una lacuna gravissima».

Oltretutto in un Paese in cui, come ricorda Ilaria Cucchi, «è inquietante sapere che per sei anni qualcuno ha taciuto, coperto, depistato», per nascondere la verità sulla morte di suo fratello Stefano.

Le ragioni perché, in una questione delicata e intimamente legata a inalienabili diritti della persona, il Parlamento italiano riacquisti dignità e non decida in base a valutazioni di convenienza politica.

La Repubblica, 20 gennaio 2016

LA discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose. Di fronte a noi è una grande questione di eguaglianza, di rispetto delle persone e dei loro diritti fondamentali, che non merita d’essere sbrigativamente declassata, perché altre urgenze premono. I diritti, dovremmo ormai averlo appreso, sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso, perché riguardano libertà e dignità di ognuno.

Bisogna liberarsi dai continui depistaggi. La maternità surrogata, vietata fin dal 2004, viene evocata per opporsi all’adozione dei figli del partner, penalizzando proprio quei bambini che si dice di voler tutelare e tornando così a quella penalizzazione dei figli nati fuori dal matrimonio eliminata dalla civile riforma del diritto di famiglia del 1975. E si dovrebbe ricordare che la Costituzione parla della famiglia come società “naturale” non per evitare qualsiasi accostamento alle unioni tra persone dello stesso sesso. Ma per impedire interferenze da parte dello Stato in «una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita », come disse Aldo Moro all’Assemblea costituente. Altrimenti ricompare la stigmatizzazione dell’omosessualità, degli atti “contro natura”.

L’impegno significativo del presidente del Consiglio per arrivare ad una disciplina delle unioni civili rispettosa di quello che la Corte costituzionale ha definito come un diritto fondamentale a vivere liberamente la condizione di coppia si è via via impigliato nel prevalere delle preoccupazioni legate alla tenuta della maggioranza. Il riconoscimento effettivo di diritti fondamentali viene così subordinato ad una esigenza propriamente politica che sta svuotando la portata della nuova legge. E non si può dire che si cerchi di procedere con la cautela necessaria, data la delicatezza dell’argomento, perché la cautela si è trasformata nel progressivo abbandono di una linea rigorosa, nel gioco delle concessioni verbali che tuttavia inquinano il senso della legge in punti significativi. È indispensabile riprendere una strada coerente con il fatto che si sta discutendo di dignità e identità delle persone, dunque di una materia dove non tutto è negoziabile. Il legislatore sta oscillando tra concessioni improprie e irrigidimenti ingiustificati. Una assai discutibile e discussa sentenza del 2010 della Corte costituzionale viene eretta a baluardo inespugnabile, che non consentirebbe neppure di adempiere a quel dovere positivo di riconoscimento pieno dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso imposto all’Italia da una sentenza di condanna del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per sfuggire a questa responsabilità, più si va avanti più si delinea una situazione in cui il legislatore sta costruendo una sua gradita impotenza. Non posso intervenire perché avrei bisogno di una legge costituzionale. Non posso intervenire perché devo ancora considerare il codice civile come un riferimento ineludibile. Non posso muovermi nel nuovo contesto costruito dai principi e dalle regole europee. Non posso intervenire perché l’opportunità politica variamente mascherata me lo preclude.

Nessuno di questi argomenti regge. Nel 2013 la Corte di Cassazione ha detto esplicitamente che le scelte in questa materia sono affidate al legislatore ordinario. Ricostruire il principio di riferimento nel fatto che il codice civile parla ancora di diversità di sesso nel matrimonio è un errore di grammatica giuridica perché si dimentica che la Costituzione si pone in una posizione gerarchicamente superiore al codice civile e bisogna interpretare la Costituzione partendo dal principio di eguaglianza. Proprio la forza di questo principio ha determinato un radicale cambiamento del sistema istituzionale europeo. La Carta dei diritti fondamentali ha cancellato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per ogni altra forma di costituzione della famiglia, e ha ribadito con forza che non sono ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Se si guarda più a fondo nel nostro sistema, neppure l’accesso al matrimonio egualitario sarebbe precluso al legislatore ordinario.
In questo nuovo mondo, che pure le appartiene e nel quale ha liberamente deciso di stare, l’Italia è recalcitrante ad entrare. E così conferma un ritardo culturale, che in altri tempi aveva vittoriosamente sconfitto, anche in occasioni difficili come quelle dell’approvazione delle leggi sul divorzio e dell’aborto, senza restare prigioniera delle preoccupazioni della Chiesa, che oggi tornano in maniera inquietante e inattesa.
Di nuovo lo sguardo si fa ristretto, la riflessione culturale si rattrappisce e non si riesce a dare il giusto rilievo al fatto, sottolineato con forza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ormai la maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa riconosce le unioni civili e che aumentano continuamente gli Stati dov’è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso — Francia, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica. Strada che questi Paesi non percorrono con avventatezza, ma riflettendo con serietà, e che dovrebbero essere un riferimento per sfuggire alla superficialità con la quale troppo spesso in Italia si affrontano questioni serie come quelle riguardanti le adozioni coparentali ( stepchild adoption). Tema, questo, che trascura del tutto le dinamiche degli affetti, la genitorialità come costruzione sociale e che, a giudicare da alcuni improvvidi emendamenti al disegno di legge in discussione al Senato, rischia di lasciare bambine e bambini in un avvilente limbo, che di nuovo nega dignità ed eguaglianza.

Ancora e sempre l’eguaglianza, che la Corte costituzionale non ha adeguatamente considerato in quella sentenza del 2010, la cui interpretazione dovrebbe essere seriamente riconsiderata a partire dal nuovo contesto istituzionale europeo. Perché no? Ricordiamo che, con una violazione clamorosa del principio di eguaglianza, nel 1961 la Corte costituzionale dichiarò legittima la discriminazione tra moglie e marito in materia di adulterio. La Corte sui ravvide nel 1968, mostrando che l’eguaglianza e la vita non possono essere consegnate alla fissità di una decisione.

Un legislatore, che sta costruendo la sua impotenza, dovrebbe piuttosto riflettere sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel 2015, ha ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ferma restando la legittima manifestazione di ogni opinione, i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle «vicissitudini della politica».

«Si demolisce un pilastro della Repubblica italiana, da governi di ogni tinta e con la complicità di un parlamento che, in stragrande maggioranza, acconsente o resta inerte. L’Italia, sempre sotto comando Usa direttamente, passa di guerra in guerra». Il manifesto, 19 gennaio 2016 (m.p.r.)

Un importante anniversario va ricordato nel quadro del 25° della prima guerra del Golfo: essa è la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando il principio, affermato dall’Articolo 11 della Costituzione, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Nel settembre 1990, su decisione del sesto governo Andreotti, l’Italia invia nella base di Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti una componente aerea di cacciabombardieri Tornado. Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1991, 8 Tornado italiani decollano per bombardare obiettivi iracheni stabiliti dal comando Usa, in quella che l’Aeronautica ricorda ufficialmente come «la prima missione di guerra compiuta dall’Aeronautica italiana, 46 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale». A questa missione (durante la quale un Tornado viene abbattuto e i due piloti fatti prigionieri) seguono altre missioni di bombardamento sempre sotto comando Usa, per complessive 226 sortite, tutte «coronate da pieno successo». Si aggiungono 244 missioni italiane di velivoli da trasporto e 384 di velivoli da ricognizione, «operanti in Turchia nel quadro della Ace Mobile Force Nato» (a conferma che la Nato, pur senza intervenire ufficialmente, partecipa in realtà alla guerra con sue forze e basi).
Questa «prima missione di guerra» è decisiva per il varo del «nuovo modello di difesa» subito dopo la guerra del Golfo, sulla scia del riorientamento strategico Usa/Nato. Nell’ottobre 1991 il Ministero della difesa pubblica il rapporto «Modello di Difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90». Il documento riconfigura la collocazione dell’Italia, definendola «elemento centrale dell’area geostrategica che si estende unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico». Stabilisce quindi che «gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli interessi che «incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo».
Il «nuovo modello di difesa» passa quindi da un governo all’altro, senza che il parlamento lo discuta mai in quanto tale. Nel 1993 - mentre l’Italia partecipa all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi - lo Stato maggiore della difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli «interessi vitali». Nel 1995, durante il governo Dini, afferma che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere a misura dello status del paese nel contesto internazionale». Nel 1996, durante il governo Prodi, si ribadisce che «la politica della difesa è strumento della politica estera». Nel 2005, durante il governo Berlusconi, si precisa che le forze armate devono «salvaguardare gli interessi del paese nelle aree di interesse strategico», le quali comprendono, oltre alle aree Nato e Ue, i Balcani, l’Europa orientale, il Caucaso, l’Africa settentrionale, il Corno d’Africa, il Medio Oriente e il Golfo Persico.
Attraverso questi e successivi passaggi, si demolisce un pilastro fondamentale della Repubblica italiana, per mano dei governi di ogni tinta e con la complicità di un parlamento che, in stragrande maggioranza, acconsente o resta inerte. Mentre l’Italia, sempre sotto comando Usa direttamente o nel quadro Nato, passa di guerra in guerra.

ULTIME 48 ORE PER IL SENATO
di Andrea Fabozzi

Altro che «pausa di riflessione». Scaduti (giovedì scorso) i tre mesi di intervallo previsti dall’articolo 138 della Costituzione che regola le procedure di revisione della Carta, la riforma firmata Renzi-Boschi arriva immodificabile al senato. La maggioranza ha imposto ritmi serrati in commissione — ieri tre sedute, l’ultima notturna, stamattina una quarta — in modo da esaurire gli oltre sessanta interventi programmati e portare il disegno di legge oggi pomeriggio in discussione generale in aula e domani già al voto finale.

Sarà un prendere o lasciare, nessuno spazio per modifiche: anche questo è previsto dall’articolo 138, ma nel senso che il dubbio sopravvenuto durante la «riflessione» dovrebbe spingere i parlamentari a bocciare la modifica costituzionale. Tanto più in questo caso, trattandosi della riscrittura di oltre un terzo della Carta. Invece no, anche i senatori della minoranza Pd (una ventina) che mantengono le critiche sull’incrocio tra la riforma e la nuova legge elettorale e che per questo dichiarano di tenersi aperta la scelta sul referendum confermativo, voteranno sì. La legge raccoglierà la maggioranza assoluta dei senatori (fissata a quota 161) ma non la maggioranza qualificata dei due terzi: da qui il referendum che si terrà in ottobre. Per non rischiare nulla, Renzi ha spostato di 24 ore l’assegnazione delle poltrone di sottogoverno e la guida di due commissioni al senato: Ncd ha ambizioni su entrambi i fronti. «Evidentemente c’è un problema di numeri — ha detto la senatrice De Petris capogruppo di Sel — nessuno avrebbe avuto pensieri maligni se si fosse proceduto, come previsto, prima con il rinnovo dei presidenti di commissione e dopo con le riforme». L’ultimo atto di questa seconda lettura al senato è previsto per domani dalle 17, il Movimento 5 Stelle leggerà in aula i messaggi dei cittadini.

Intanto un particolare interessante sulla genesi della nuova legge elettorale è stato raccontato alla presentazione del libro del deputato verdiniano Massimo Parisi sui retroscena del «patto del Nazareno». Le basi dell’Italicum sarebbero state gettate in un incontro tra Verdini e il professore Roberto D’Alimonte il 12 gennaio 2014 a Firenze, in casa del politologo. Renzi, da un mese segretario del Pd, aveva allora sul piatto tre modelli diversi di legge elettorale e il Pd non aveva scelto il suo. Al governo c’era Enrico Letta. Già il giorno successivo a quell’incontro, 13 gennaio, Renzi fu ricevuto al Quirinale da Napolitano «per parlare di legge elettorale». Un mese dopo Letta fu invitato ad accomodarsi.

CONSERVATORI AL POTERE
IL REFERENDUM È PER IL CAMBIAMENTO
di Gaetano Azzariti

La strategia dei fautori della riforma è chiara, enunciata senza mezzi termini dal presidente del Consiglio: «da una parte ci saremo noi, il partito del cambiamento, dall’altra loro, i difensori della casta, e gli italiani non avranno dubbi». Spetta agli oppositori decidere se accettare questo terreno di scontro avversando il nuovo che avanza in nome di nobili principi calpestati, esponendosi però così all’accusa di conservatorismo; oppure valutare se vi siano le forze e la voglia di cambiare registro, giocando la partita referendaria non in difesa, ma all’attacco. In primo luogo denunciando l’incapacità della riforma costituzionale ad affrontare la grave situazione di crisi dello Stato costituzionale. Modifiche costituzionali che risultano inadeguate poiché si pongono in forte continuità con quelle logiche regressive del passato — per dirla in sintesi, rafforzamento dell’esecutivo e svalutazione della rappresentanza — che ci hanno portato in questa situazione di crisi, dalla quale è necessario fuoriuscire.
È una lotta dunque tra «noi, il partito del cambiamento e loro i difensori della casta», per riprendere le espressioni tranchantes del Presidente del Consiglio, ovvero, più correttamente, una battaglia contro i conservatori al potere.

Per far passare nell’opinione pubblica questo messaggio di verità, nonostante l’evidente sproporzione di forze, credo sia necessario non farsi attrarre dalla politica dell’illusionismo emotivo (fatta di slogan e rissa mediatica), per provare a riflettere con serietà sui punti di caduta del nostro ordinamento costituzionale, concentrando la nostra attenzione sulle fragilità della democrazia contemporanea che sono all’origine della crisi politica, sociale e morale del paese.

Due le questioni da porre al centro del dibattito. Da un lato, il tema della crisi del ruolo del parlamento, privato della sua essenza e del suo valore; dall’altro, il problema della rappresentanza politica, svuotata dalla distanza sempre più preoccupante tra governati e governanti.

La domanda da porre allora è la seguente: la riforma costituzionale riesce ad invertire la rotta, a dare nuovo impulso alle due questioni indicate sulle quali si regge la democrazia pluralista, oppure continua a farci restare nel pantano?

Iniziamo dal parlamento. Si è modificato il bicameralismo perfetto. Bene. Ma veramente si pensa — o si vuol far credere — che i mali del parlamentarismo si possono affrontare passando dal bicameralismo perfetto ad un bicameralismo confuso com’è quello che è stato immaginato? Ci si può veramente illudere che la crisi del regime parlamentare si possa affrontare intervenendo solo sulla redistribuzione delle funzioni e sulla composizione delle due camere, non considerando per nulla le ragioni strutturali che sono alla base dello svuotamento del potere parlamentare?

Bisogna essere più radicali. È la forma di governo parlamentare che deve essere ripensata, oggi in sofferenza a causa dello squilibrio nei rapporti tra governo e parlamento, sbilanciamento a favore del primo e a scapito del secondo. Il saggio revisore, il vero innovatore, anziché favorire l’involuzione rafforzando i poteri dell’esecutivo e comprimendo ulteriormente quelli del legislativo, dovrebbe fare esattamente l’inverso.

Bisognerebbe limitare e regolare lo strapotere del governo in parlamento, intervenendo sul profluvio ingiustificato di richieste di fiducia, sulla decretazione d’urgenza, sui maxiemendamenti, che umiliano l’autonomia del parlamento e dei parlamentari; si dovrebbero riscrivere i regolamenti, per regolare il dibattito parlamentare ed evitare i tempi contingentati che impediscono il confronto; sarebbe necessario assegnare alle opposizioni uno statuto ben definito e di garanzia, ostacolando così le pratiche ostruzionistiche a volte impropriamente utilizzate; appare urgente intervenire sull’organizzazione dei lavori per ridefinire il rapporto tra commissioni e aula, ricollocando al centro le commissioni — vero luogo di approfondimento e libera discussione — rispetto all’aula che ormai non rappresenta altro che un teatro della divisione, raffigurazione vuota e solo spettacolare del nostro organo parlamentare e dei nostri — spesso scalmanati — rappresentanti.

Certo si dovrebbe intervenire anche sulla struttura bicamerale. Ma — nella prospettiva del rilancio del parlamentarismo — bisognerebbe essere ben più radicali e coerenti. Tentare di riunificare la sovranità della rappresentanza popolare: un unica camera eletta con un sistema proporzionale. Chi se la sente di proporre una riforma rivoluzionaria come questa? Eppure in passato era proprio questa la frontiera più avanzata della sinistra. Poi la sinistra è evaporata e le frontiere sono state aperte, scomparse dalla topografia politica.

Rispetto alla gravità della crisi del parlamento come ha operato il nostro revisore costituzionale? Per dirla in sintesi: non ha scelto nessun modello e ha approfittato della confusione per acquisire un po’ di potere in più a favore di chi attualmente — ma solo pro tempore — lo detiene, favorendo il processo regressivo in atto.

Che non abbia scelto nessun modello appare chiaro se si guarda a come ha differenziato il bicameralismo. Nulla ha toccato con riferimento alla camera dei deputati, lasciando tutti i vizi che attualmente la attraversano; rendendo invece il cenato un Ufo, un oggetto non identificabile per struttura, funzioni, composizione. Poteva scommettere sul rilancio del regionalismo italiano e invece ha svuotato le competenze e i poteri degli enti territoriali.

Si è proposto l’obiettivo di semplificare il procedimento di formazione delle leggi ritenuto, non a torto, troppo farraginoso nel sistema attuale di bicameralismo perfetto, ed è riuscito nel capolavoro di passare da uno a dieci distinti iter, aprendo la strada al moltiplicarsi dei ricorsi alla Corte costituzionale, rendendo ancor più complesso far leggi in Italia. Ha adottato, infine, un non-criterio di composizione dell’organo. Come altro può definirsi, infatti, il compromesso (si fa per dire) definito all’art. 57 che prima introduce il principio dell’elezione indiretta dei senatori da parte dei consigli regionali, per poi smentire se stesso, assegnando la scelta, con formula in realtà anodina, agli elettori, rinviando poi tutto ad una futura legge bicamerale.

Ma, al di là delle critiche puntuali, delle improprietà tecniche, quel che mi preme sottolineare è il dato di fondo: questa riforma non è adeguata alla reale problematicità della crisi in atto, non ridarà dignità al parlamento, né è il frutto di una buona politica costituzionale.

Essa rappresenta, in continuità con il passato, un ulteriore passo verso la sclerosi del sistema parlamentare. C’è bisogno di altro in Italia. C’è bisogno di qualcuno che ridia speranza al futuro del parlamentarismo, rilanciando le sue ragioni, ponendosi al passo con i tempi, non abbandonandosi invece ad un triste declino d’addio.

Non basta. Non avremo un sistema parlamentare funzionante in Italia se non saremmo in grado di affrontare con spirito veramente innovativo anche la collegata questione della rappresentanza politica.Come si può infatti pensare di porre al centro un parlamento se questo dovesse continuare ad essere composto solo da anime morte? Rappresentanti i cui legami con la realtà del rappresentato appaiono sempre più compromessi.

Una democrazia rappresentativa sconvolta da un sistema elettorale, che — in forte continuità con il passato — rende sempre più sfumato il rapporto tra chi vota e chi è eletto. Ma deve essere anche detto che la crisi della rappresentanza non è solo determinata da una brutta legge elettorale. Se si vuole prospettare un reale cambiamento si deve alzare lo sguardo per denunciare la progressiva autoreferenzialità della politica, il coma profondo in cui sono caduti i corpi intermedi, il sonno delle formazioni sociali, dei partiti in specie, la progressiva verticalizzazione di tutti i poteri, l’inaridirsi e il burocratizzarsi dei canali della partecipazione, la chiusura degli spazi politici. È del fallimento della democrazia maggioritaria che dovremmo parlare.

Allargo troppo il discorso, ma a forza di semplificare siamo arrivati alla politica dei tweet, alla Repubblica delle slide, alla richiesta di plebisciti di carattere fiduciario e personale su questioni che coinvolgono la qualità della nostra democrazia. Dovremmo tornare a porci i problemi di governo delle democrazia pluraliste nella loro reale complessità. Per fuoriuscire dal lungo regresso e tornare a parlare al futuro. Il referendum costituzionale ne sarà l’occasione?.
Dalla distruzione dell'Irak alla guerra in Libia, nella quale vogliono gettare anche l'Italia. Ricordiamo gli errori del passato e le loro tragiche conseguenza per non illuderci più che la guerra sia una soluzione.

Comune.info online 19 gennaio 2015

Il 17 gennaio 1991 una coalizione di 35 paesi guidata dagli Stati Uniti attaccò militarmente l’Iraq con l’operazione “Desert Storm”. È bene rinfrescarci la memoria su quello che accadde venticinque anni fa perché ne seguirono a cascata eventi disastrosi per l’Iraq e il Medio Oriente, di cui tutti paghiamo lo scotto poiché viviamo in una casa comune, il Mediterraneo.
Oggi, mentre il presidente del consiglio promette di inviare 450 militari a presidiare un cantiere italiano sulla diga di Mosul, il governo italiano garantisce al Kurdistan iracheno nuovi addestratori e consulenti militari, e il nuovo vicepresidente dell’Eni Lapo Pistelli (già viceministro degli esteri) stringe patti con il ministro del Petrolio iracheno, non abbiamo altro da offrire all’Iraq che armi e soldati in cambio di commesse economiche e petrolio? Venticinque anni fa contro questa logica nasceva “Un ponte per Baghdad”, e la storia di quegli anni ce la ricordiamo.

Tutte le nazioni accettarono nel 1991 di stare agli ordini di un unico comando militare, diretto dal capo di stato maggiore delle forze armate statunitensi Colin Powell, che molti anni dopo avrebbe mentito spudoratamente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per lanciare una nuova guerra contro l’Iraq. I combattimenti si esaurirono nel giro di un mese e mezzo, causando probabilmente 200.000 vittime irachene di cui la metà civili, 5.000 vittime kuwaitiane e 250 tra i soldati della coalizione.

Risultato: Kuwait liberato dalle truppe irachene ma Saddam sempre al comando,capace nei mesi successivi di schiacciare la rivolta sciita e kurda causando altre 200.000 vittime e 2 milioni di sfollati, nonché il prosciugamento delle paludi mesopotamiche del Sud Iraq, ora in lista per divenire patrimonio dell’umanità in un estremo tentativo di salvare la culla della civiltà umana.

Pochi ricordano che quella guerra causò poche vittime tra i militari della coalizione perché migliaia di soldati iracheni scelsero la diserzione e molti si rivoltarono contro Saddam. Purtroppo l’opzione democratica per l’Iraq non interessava affatto agli Stati Uniti e così l’insurrezione sciita, con forte partecipazione degli strati popolari e di forza laiche di sinistra, fu tradita se non ostacolata dalla coalizione internazionale.

Seguirono tredici anni di embargo contro l’Iraq, e altre 2 milioni di vittime, di cui la metà bambini. Il seguito lo ricordiamo con più facilità: la guerra del 2003, che direttamente e indirettamente ha causato un milione di vittime irachene, la caduta di Saddam, il nuovo governo confessionale sciita che ha messo in atto la sua vendetta, la popolazione sunnita che si è vista negare i propri diritti e pian piano per la disperazione ha aperto la porta a Daesh (IS), e ad oggi un terzo del paese in mano ai tagliagola fondamentalisti. In venticinque anni di guerra e sanzioni questo è il deserto che le coalizioni internazionali di volenterosi hanno fatto in Iraq, paese che nel 1990 aveva il più alto indice di sviluppo umano della regione mediorientale, dopo Israele.

Grande era la confusione in Italia quando il governo si apprestava ad appoggiare le manovre preparatorie della Prima Guerra del Golfo, tanto che il Pci di Achille Ochetto si astenne sulla mozione del governo, scatenando l’ira di Pietro Ingrao che invece si dissociò dalla logica militare. Forte fu il movimento contro la guerra tra associazioni, cattolici pacifisti e partiti di sinistra, con splendidi gesti di disobbedienza come quello del Movimento Nonviolento, che già in quegli anni portò attivisti sui binari di Verona, Trento e Rovereto per fermare i treni carichi di armi che viaggiavano verso il Medio Oriente. Nel processo che ne seguì furono tutti assolti per aver ritenuto di agire secondo giustizia e necessità.

Anche oggi spirito di giustizia e necessità ci impone di lavorare su più fronti, mentre l’Italia già prepara l’intervento militare in Libia, dove la comunità internazionale si appresta a fare gli stessi errori commessi in Iraq: costruire e puntellare un governo di stile occidentale, facendo tabula rasa del passato in termini politici e militari, smantellando istituzioni e sistema amministrativo senza che vi sia un’alternativa funzionale e democratica a disposizione, e senza la capacità né la volontà di far fronte alla disgregazione sociale che ne seguirà. Dobbiamo allora gridare alla politica che la logica militare non paga per “stabilizzare” le altre sponde del Mediterraneo né per fermare il terrorismo, che un paese come l’Iraq con quasi cinque milioni di sfollati interni ha innanzitutto bisogno di aiuti umanitari, che ai profughi che fuggono dalla guerra dobbiamo tendere la mano già nei paesi di provenienza e transito.

Questa volta lo possiamo fare con movimenti sociali, Ong e sindacati iracheni, che nel 1991 non potevano esistere come tali. L’ultima Desert Storm l’abbiamo vista con loro a Baghdad, a ottobre 2015, durante il Forum sociale iracheno. Una tempesta di sabbia ha distrutto nella notte tutti gli stand del forum che gli attivisti avevano organizzato sulle rive del Tigri per condividere strategie per la promozione della pace e della coesistenza. In poche ore decine di ragazzi hanno rimesso tutto in piedi, e il forum ha coinvolto in tre giorni 2.500 persone e 120 organizzazioni. Sfidano le minacce della politica e dei gruppi armati, e nel 2016 andranno nelle aree liberate da Daesh per stringere patti di amicizia con i giovani locali. Ci aspettano, senza armi né scorta, per lavorare assieme contro la logica del terrore e della guerra.

Il manifesto, 19 gennaio 2016

Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan «siamo il 99%» probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99% sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1% più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi giorni.

Sempre secondo il rapporto An economy for the 1%, non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel 2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500 miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.

Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava la metà. È un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il proprio salario aumentare di meno di 3 dollari l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli Usa lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello di un amministratore delegato del 997%.

In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio recente l’Ocse ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di oltre 8 punti di Pil in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare la crescita del Pil. È il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.

L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo di più.

È l’attuale modello italiano ed europeo, riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).

Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la Nasa scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come mostrano le cronache di questi giorni.

A chi deve esportare una Ue che nel suo insieme ha già oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.

I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1% — anzi, di quel zero virgola — che continua a guardare dall’alto, sempre più dall’alto, oltre il 99% dell’umanità.

–> Firma la petizione di Oxfam contro i paradisi fiscali

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». E nessuno scende in piazza. La Repubblica, 17 gennaio 2016

L’annuncio del possibile approdo a Palazzo Chigi come responsabile della sicurezza cibernetica di Marco Carrai, imprenditore fiorentino legato da fraterna amicizia al Presidente del Consiglio (che è stato suo testimone di nozze e lo ha avuto come capo segreteria da Presidente della Provincia di Firenze), mette in chiaro e avvia l’infernale partita che, da almeno due mesi, ha messo in fibrillazione gli apparati della nostra sicurezza nazionale. Ne svela la posta. Il Grande Gioco che, di qui all’estate, consegnerà una nuova centralità alla nostra sicurezza cibernetica (business del millennio dalla cornice legislativa ancora appena abbozzata) agganciandola più di quanto non sia stata sin qui alla Presidenza del Consiglio e che, contestualmente, vedrà almeno sei nomine chiave al vertice di Intelligence, Polizia, Finanza, Forze Armate.

Al più tardi tra maggio e giugno, Palazzo Chigi dovrà infatti indicare il nuovo Capo della Polizia (Alessandro Pansa raggiungerà l’età pensionabile), il nuovo Comandante generale della Guardia di Finanza (Saverio Capolupo compirà 65 anni in maggio), il nuovo direttore dell’Aisi, il nostro Servizio interno (il suo direttore, il generale dei carabinieri Arturo Esposito ha già superato l’età della pensione), i nuovi capi di stato maggiore di Aeronautica e Marina militare. E ancora: sempre alla vigilia dell’estate, scadrà il mandato quadriennale del direttore del Dis (l’organo di coordinamento delle nostre due agenzie di Intelligence) Giampiero Massolo, per il quale non esiste un problema di “scadenza” anagrafica, ma sulla cui permanenza o meno dovrà pronunciarsi in ogni caso la Presidenza del Consiglio.


A ben vedere, la nomina di Carrai è vicenda tutt’altro che chiusa. Se è infatti pacifico che, all’indomani delle stragi di Parigi, Renzi si sia convinto dell’urgenza di costituire una struttura con competenze di cybersicurezza che abbia un suo budget (150 i milioni stanziati nella legge di stabilità) e non si sovrapponga o doppi quelle di intelligence, ma che dialoghi, controlli e coordini il lavoro delle pubbliche amministrazioni e quello dei gestori delle Reti telematiche, resta da sciogliere un nodo decisivo. Se il futuro ruolo di responsabile della cybersicurezza presso palazzo Chigi sia un incarico tecnico o politico. E quali caveat siano necessari affinché una nomina di questo peso non diventi un pasticcio. Peggio, un “affare tra amici”.

Al momento, Palazzo Chigi ragiona su un incarico biennale che comporterà la rinuncia di Carrai a qualunque carica societaria che lo possa potenzialmente mettere in una condizione di conflitto di interesse. Non fosse altro perché Carrai è oggi anche imprenditore nel mondo della sicurezza cibernetica (con solidi rapporti con Stati Uniti e Israele). Mentre è tutt’ora in discussione se la nuova struttura sarà incardinata nell’ufficio del consigliere militare della Presidenza del Consiglio, ovvero in quella del Dis o del sottosegretario con delega alla sicurezza nazionale Marco Minniti.

Vedremo quale sarà la soluzione. Ma è un fatto che l’accelerazione metta a rumore un pezzo delle burocrazie della sicurezza. Gli “sconfitti” della stagione berlusconiana, che vedono nell’accelerazione di Palazzo Chigi la rinuncia a un appeasement con quel network di generali, uomini dei Servizi, alti ufficiali delle Forze armate che avevano scommesso che nella partita della “rottamazione” sarebbero rimasti fuori gli apparati in nome di un interesse bipartisan.

Affidato a un editoriale pubblicato ieri dal quotidiano il Tempo, “l’avviso ai naviganti” di Palazzo Chigi è arrivato infatti immediatamente e porta la firma di Luigi Bisignani, il fulcro nella stagione berlusconiana di quel sistema di relazioni tra apparati e interessi (l’Eni di Scaroni e la Finmeccanica di Guarguaglini) che hanno per anni disegnato non solo l’agenda di Palazzo Chigi, ma carriere e assetti della pubblica amministrazione. Travolto dalla stagione giudiziaria della P4, dalla fine politica di Berlusconi, Bisignani dipinge Renzi come il comandante del Titanic ostinatamente diretto verso gli iceberg che lo affonderanno. Lo invita ad ascoltare “il tintinnio di massoneria” che lo circonda, le inchieste delle Procure che si approssimano. Soprattutto, gli consiglia di “non giocare” con le nomine degli apparati, indicandole come la sua possibile tomba politica.

Una dichiarazione di guerra? E per conto di quale mondo? «Ma no – ride lui sornione al telefono – sono solo un osservatore, un vecchio democristiano che non ha dimenticato quella massima andreottiana per cui l’esperienza è la somma delle fregature che hai avuto nella vita. Ecco, Renzi dovrebbe ascoltare chi ha più esperienza di lui e ha visto come sono finiti Craxi e Berlusconi. Non può rompere con gli apparati, con la diplomazia, il Consiglio di Stato. Perché così andrà a sbattere. Dia retta, il Presidente. È ancora in tempo per cambiare idea e metodo. Non si chiuda nel triangolo magico. Non quello massone, per carità. Quello di Lotti, la Boschi e, ora, Carrai . Il presidente del Consiglio però non sembra curarsene troppo e assicurano che tirerà dritto.

iferimenti
Una interessante inchiesta sui nomi della rete ddel potere renziano, di cui Carrai è un pesso da novanta, fu pubblicato da l'Espresso nel 2014. L
a trovate anche qui.

Una notizia agghiacciante. Diventa infinita la capacità di ricatto di Re Matteo I. Neanche ai tempi di Mussolini il potere occulto veniva privatizzato e affidato a un amico personale del Duce.

Il Fatto quotidiano, 16 gennaio 2016

C’è un uomo felice in questi giorni. Il suo nome è Carrai. Marco Carrai. Anzi, per la precisione agente Marco Carrai. Il suo amico e mentore Matteo Renzi lo ha incoronato zar italiano della cyber security e la nomina diventerà ufficiale nei prossimi giorni, quando la Presidenza del Consiglio avrà sfornato il decreto che farà nascere l’Agenzia per la sicurezza informatica e la inserirà al vertice del nostro sistema dei servizi segreti. Un parto che però non sarà facilissimo, tra gelosie, guerricciole di potere e conflitti d’interessi (dell’imprenditore Carrai).

Una nomina del genere, il premier ce l’aveva in mente da parecchio. Del resto è almeno dai tempi di Niccolò Pollari e Gianni De Gennaro che Palazzo Chigi si trastulla periodicamente con l’idea di nominare un super sceriffo della lotta contro hacker e phishing, una specie di Nicholas Negroponte “alla pizzaiola”. Il corpaccione dei Servizi, specie l’Aise (il Servizio esterno, ex Sismi), si è però sempre opposto per non perdere competenze conquistate negli anni e così si è arrivati al 2016 con una riforma a metà.

Carrai però fa parte del Giglio magico ed è un esperto di sicurezza informatica. Nell’entourage del premier giurano che “gli ha fatto una testa così” sulla guerra al cyber crime e chi segue il settore ricorda bene che nei mesi scorsi lo stesso Carrai, che ha alcune società nel ramo, ha spinto in ogni modo per ottenere un contratto con Telecom Italia. In questo aiutato e consigliato anche da Franco Bernabè, socio e amico di vecchia data, oltre che ex presidente della stessa Telecom.

Dopo mesi di pressing, Renzi si è dunque convinto della necessità di una nuova struttura ad hoc incardinata presso la Presidenza del Consiglio e nei giorni scorsi ha dato la lieta novella all’amico imprenditore, ai sottosegretari Luca Lotti e Marco Minniti (che ha la delega sui servizi di sicurezza) e all’immancabile Maria Elena Boschi. Il problema è che Carrai ha preteso la qualifica, per sé e per i suoi uomini, di agente segreto. Insomma, la famosa “licenza di uccidere”. Non che abbia in programma omicidi, ma il suo ragionamento è stato il seguente: “Se devo fare la guerra al crimine informatico, non basta essere una polizia, ma devo avere le prerogative e il raggio di azione dei servizi di spionaggio. Anzi, di controspionaggio”. Il discorso fila abbastanza dritto, ma pone un problema: il raccordo operativo con i Servizi (Aise, Aisi e Dis, Dipartimento per le informazioni e la sicurezza della Presidenza del Consiglio).

Lo schema su cui sta lavorando Renzi prevede dunque che l’agente Carrai e i suoi uomini siano incardinati funzionalmente sotto il Dis, diretto dall’ambasciatore Giampiero Massolo, in modo da avere la copertura operativa necessaria, ma poi dipendano direttamente da Minniti. Come la prenderà Massolo, per il quale pare peraltro che sia già pronta una poltrona da consigliere di Stato, è tutto da vedere. Della faccenda, in ogni caso, si sta occupando lo stesso Minniti. E non sarà una passeggiata neppure con l’Aise di Alberto Manenti.

Carrai, come detto,ha tutte le carte in regola per una simile nomina, al di là del fatto che la sua scelta da parte di Renzi rappresenta l’apoteosi del Giglio Magico (ci manca solo Davide Serra alla Consob). L’imprenditore fiorentino è tra i soci fondatori di “Cys4”, una società tutta dedicata alla sicurezza informatica, e in tale veste non ha esitato a fare un po’ il lobbista della categoria, facendo arrivare alle orecchie dell’amico premier la “notizia” che per le aziende italiane il cyber crime sarebbe una piaga da oltre 9 miliardi di euro di danni l’anno.

Di “Cys4” Carrai è il presidente, mentre l’amministratore delegato è Leonardo Bellodi, ex manager delle relazioni esterne di Eni. E tra i partner tecnologici della società vi sono alcuni esperti informatici israeliani. Carrai del resto è di casa a Tel Aviv, ha fatto da “piazzista” del gas israeliano presso Eni, vanta ottime relazioni con il governo di Netanyahu e il suo sbarco al vertice dei servizi italiani è certamente una buona notizia per Israele. Con la nomina a “Zar della lotta al cybercrime”, Carrai dovrà in ogni caso sterilizzare in qualche modo le proprie attività imprenditoriali nel settore. Le quote azionarie passeranno probabilmente al fratello oppure si darà vita al solito blind trust all’italiana, in cui nessuno formalmente si occupa di nulla, ma tutti ci vedono benissimo (specie al momento di incassare i dividendi).

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