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I famosi strumenti portatori di morte per i quali ci sveniamo e rinunciamo al welfare non funzionano, e provocano danni anche da fermi. Il Fatto Quotidiano online, blog "Economia & Lobby", 2 febbraio 2016

Il rapporto non ha presentato sorprese; tutti i problemi citati sono ben noti al JPO [Joint Program Office], alle forze armate statunitensi, ai partner internazionali e all’industria. Una vera fortuna. Un sospiro di sollievo è d’uopo. Per un secondo, un secondo solo, avevamo sospettato che ci potessero essere problemi nuovi per l’F-35, il nostro beniamino volante. La speranza per i nostri figli e nipoti non solo di poter vivere in un mondo migliore e più sicuro ma soprattutto di poter avere lavoro e benessere grazie alle gigantesche ricadute per la nostra industria più moderna. Perché per gli F-35 noi facciamo qualche gru (tenetevi: ne sono state ordinate ben 12) e un po’ di tende prodotte in uno stabilimento che dà lavoro a ben 30 (“trenta”, in lettere se non avete capito bene) persone. E al Corriere della Sera non viene da ridere quando titola Gli F35 «decollano» da Caserta
 (al posto di Whirlpool-Indesit), dove alla Whirpool lavoravano 800 persone. L’economia di guerra, come vedete, fa bene al Paese.

Scampato pericolo, dunque? Temo di no perché chi ci tranquillizza è nientemeno che il tenente generale Chris Bogdan, il responsabile statunitense del programma F-35. Bogdan fa il suo mestiere che è di rassicurare la marchesa di turno che tutto va naturalmente bene, molto bene. E il rapporto di cui parla è quello del suo antagonista storico, Michael Gilmore, capo dell’organismo di valutazione operativa del Pentagono (DOT&E, director of operational test and evaluation). È l’ennesima volta che Bogdan confuta le conclusioni di Gilmore e lo fa sempre con un solo argomentare alquanto claudicante: è tutto vero, ma lo sapevamo e comunque il futuro è radioso. Come quello che promette Kim Jong-un al suo popolo. La cifra, mutatis mutandis, è la stessa.

Il rapporto a cui si riferisce la smentita-non smentita dell’ottimista Bogdan non è ancora stato pubblicato ma i contenuti sono già stati anticipati da Bill Sweetman di Aviation Week, autorevolissima pubblicazione specializzata. Se il capo del programma F-35 ha sentito il bisogno di intervenire prima che il rapporto sia reso pubblico evidentemente le anticipazioni sono vere (e questo lo ammette lo stesso Bogdan) ma sono anche potenzialmente dirompenti. Ergo, urge metterci il cappello per anticipare le inevitabili polemiche.

Cosa dice Gilmore? Principalmente che il software Block 3F per l’F-35 non potrà essere essere completato entro la data prevista del 31 luglio 2017 senza che siano stati risolti alcuni problemi critici che ne limitano fortemente le funzionalità. E che nonostante i Marines abbiano dichiarato operativo l’F-35B (la versione che dovrebbe equipaggiare anche la Marina Militare italiana), l’aereo non “è capace di condurre operazioni autonome di combattimento contro una qualsiasi seria minaccia”. In aggiunta, svela il rapporto di Gilmore, ben 11 su 12 test sull’armamento di bordo con il software Block 2B (la versione attualmente utilizzata dagli F-35) hanno “richiesto l’intervento della squadra di test per superare limitazioni del sistema e garantire il successo degli esperimenti”. Pare la barzelletta del meccanico che dopo aver rimontato un motore si accorge che ci sono dei pezzi in più e li mette da parte. Niente male per un aereo che dovrebbe essere già operativo.

Sweetman ricorda come non sia la prima volta che Gilmore ha lanciato l’allarme sui ritardi di sviluppo del software di bordo, un mostro di oltre 24 milioni di righe di codice. L’ultimo rapporto di Gilmore dice anche che, per rispettare le scadenze, la versione 2B del software di missione è stata consegnata con centinaia di problemi irrisolti e senza aver completato molti dei test previsti. Sostiene ancora Gilmore: “Il Block 3F è difettoso e si prevede che la situazione vada peggiorando”.

Ma perché questa versione del software è importante? Con il Block 3F la fase di sviluppo (Sdd System Development and Demonstration) dell’F-35 dovrebbe essere terminata e l’aereo consegnato ai clienti nella sua configurazione finale, anche se la cosiddetta Full Operational Capability (Foc) richiederà ancora almeno un paio d’anni di lavoro. Il fatto è che lo sviluppo di una versione operativa iniziale del software avrebbe dovuto già essersi concluso nel 2011, cinque anni fa. Badate bene, non è solo un problema banalmente di entrata in servizio. Tutti gli aerei sinora consegnati e quelli ordinati, tra i quali gli otto italiani, dovranno infatti essere tutti riportati in fabbrica per essere aggiornati. Con spese a carico del cliente, cioè noi, e non come uno si aspetterebbe della Lockheed Martin. Altri milioni e milioni di dollari buttati letteralmente nel cesso. Tra l’altro, il peggioramento del rapporto di cambio tra il dollaro e l’euro (oggi sono praticamente alla pari) fa lievitare i costi di acquisizione da parte nostra di un 12-15%. E quando parliamo di aerei che costano 150 milioni di dollari e più l’uno non diciamo propriamente bruscolini.

Naturalmente i problemi non si fermano qui (ci avreste scommesso?). Dice il rapporto Gilmore che la temperatura all’interno della stiva degli armamenti supera i limiti di progetto quando fuori ci sono più di 32 gradi (cioè per i due terzi dell’anno alla base di foggia dove andranno gli F-35 italiani). Lo stesso succede quando vola al di sotto dei 25mila piedi (7600 metri) se le porte della stiva sono chiuse per oltre dieci minuti. Ma di che stiamo parlando? Di un aereo fatto con il Meccano? Inoltre, se la stiva sta chiusa per più di dieci minuti le temperature sbaccellano. Ve lo immaginate un F-35 con una bella atomica nella stiva? Ma davvero? Se dipendesse dal medesimo Kim Jong-un di cui sopra, probabilmente i progettisti sarebbero già stati smembrati dalle tigri siberiane. Per fortuna siamo in un pezzo di mondo più civile dove probabilmente le tigri resteranno affamate e i responsabili americani, italiani eccetera saranno invece pasciuti e verranno promossi e/o assunti dalla Lockheed assieme alla loro numerosa progenie. Iam nova progenies caelo demittitur alto, il che purtroppo non ci garantisce anche che ab integro saeclorum nascitur ordo. Anzi. Per cui, in attesa del nuovo ordine dei tempi, ci dobbiamo sorbire ancora le bugie della Pinotti che ci dirà che tutto procede secondo i tempi previsti.

Tra l’altro, se si aprono le porte della stiva per raffreddarla, la tanto decantata stealthness (invisibilità) dell’F-35 va a farsi benedire (o friggere, se siete laici). Per cui non si capisce perché allo stabilimento di Cameri, dove si montano gli aerei italiani, la sezione dove vengono applicano le vernici dell’invisibilità sia off-limits per gli italiani. E pensare che fu Pier Lambicchi a inventare l’arcivernice. Saperlo, avremmo potuto brevettarla.

In tutto questo, mentre Gilmore accusa e Bogdan smentisce senza poter smentire, dalle sorde stanze di via XX Settembre a Roma la ministra Pinotti tace. Tace. E tace ancora. Una brillante strategia comunicativa. Ma sapete, la guerra è alle porte e il nemico ci ascolta. Dunque tacere necesse est. D’altronde, per restare con Longanesi, tutti abbiamo molta fiducia nella nostra incapacità.

bilanciamoci.info, Newsletter n.459 - 2 febbraio 2016 (m.p.r.)

Siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, “a guida italiana” questa volta. Sembra ormai assodato che le forze speciali SAS sono già in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati britannici. L’operazione complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati statunitensi ed europei per bloccare i cinquemila soldati dell’Isis. Il tutto verrà sdoganato come “un’operazione di peacekeeping e umanitaria”. L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombardieri AMX pronti a intervenire.

Il nostro paese - così sostiene il governo Renzi - attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità nazionale, presieduto da Fayez el Serray. E altrettanto chiaro che sia il ministro degli Esteri, Gentiloni, come la ministra della Difesa, Pinotti, premono invece per un rapido intervento. Sarebbe però ora che il popolo italiano-tramite il Parlamento, si interrogasse, prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia. Infatti, se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi che, durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila libici. A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi per “esportare la democrazia”, ma in realtà per mettere le mani sull’oro ‘nero’ di quel paese. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro, facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile, di tutti contro tutti, dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamentalisti islamici. Con questo passato, abbiamo, noi italiani, ancora il coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare?

Il New York Times del 26 gennaio scorso afferma che gli Usa da parte loro, sono pronti ad intervenire. Per cui possiamo ben presto aspettarci una guerra. Questo potrebbe anche spiegare perché in questo periodo gli Usa stiano dando all’Italia armi che avevano dato solo all’Inghilterra. L’Italia sta infatti ricevendo dagli Stati uniti missili e bombe per armare i droni Predator MQ- 9 Reaper, armi che ci costano centinaia di milioni di dollari.

Non dimentichiamo che la base militare di Sigonella (Catania) è oggi la capitale mondiale dei droni usati oggi anche per spiare la Libia. L’Italia non solo riceve armi, ma a sua volta ne esporta tante soprattutto all’Arabia Saudita e al Qatar, che armano i gruppi fondamentalisti islamici come l’Isis. I viaggi di Renzi lo scorso anno in quei due paesi hanno propiziato la vendita di armi. Questo in barba alla legge 185 che proibisce al governo italiano di vendere armi a paesi in guerra e che non rispettano i diritti umani (come l’Arabia Saudita, leggi Fermate quelle bombe).

«Il manifesto, 2 febbraio 2016

«Gli Stati uniti con la Nato hanno destabilizzato e saccheggiato il sud del mondo, ma l’Europa è la madre matrigna degli Usa ed è responsabile del colonialismo da oltre 500 anni». Così dice al manifesto l’intellettuale statunitense André Vltchek, e non fa sconti a nessuno. Reporter di guerra e collaboratore di Noam Chomsky, con il quale ha scritto il volume sul Terrorismo occidentale, Vltchek è stato invitato dal Movimento 5Stelle al convegno “Se non fosse Nato”, dove lo abbiamo incontrato. Durante il suo intervento, ha raccontato la sua esperienza nei campi profughi del Libano: «Un piccolo paese al collasso che, nonostante non abbia aggredito nessuno – ha detto – ha accolto oltre un milione di persone, almeno quante ne ha respinte l’Europa dopo averne provocato la fuga con le sue politiche». Quella dei profughi è una situazione simile «a quella di una donna stuprata a cui hanno svaligiato la casa e ucciso il marito e che, per salvare i figli, è costretta a mendicare aiuto ai suoi stessi stupratori».

Con noi, Vltchek ha ripreso i temi del suo intervento, accusando l’Occidente che, dopo aver distrutto il Medioriente si «è seduto nel suo bunker dorato a consumare il bottino, cieco al dolore che ha provocato». Un dolore «su cui prosperano anche i cittadini delle nazioni ricche, gli agricoltori Usa o francesi protetti dalle misure dei loro stati, e persino chi può permettersi con la disoccupazione di farsi la vacanza in un paese povero del sud». In Medioriente – dice ancora — le politiche di guerra «hanno avuto come obiettivo quello di distruggere la possibilità del socialismo, calpestando regimi laici e pervertendo un islam per sua natura comunitario in una religione irriconoscibile e importata, che serve a sconvolgere il mondo. In Afghanistan, i moujahedin sono stati creati per liberarsi dell’Unione sovietica». Che fare? «Schierarsi. E usare tutti i registri comunicativi e tutte le forme artistiche per obbligare i cittadini dei paesi responsabili ad aprire gli occhi e a spezzare le catene neocoloniali rinunciando ai propri privilegi».

La speranza? «Arriva dalle nuove relazioni economiche avanzate dai Brics, che stanno relativizzando la potenza del dollaro con la formazione di un Fondo monetario alternativo. Arriva dal Vietnam o dalla potenza della Cina che – per Vltchek — è ancora un paese socialista, che persegue un suo modello e ora un nuovo corso, utilizzando il capitalismo ma senza cedere, come ha dichiarato il presidente Xi, sulle conquiste fondamentali e sul controllo da parte dello stato». Arriva, soprattutto «dall’America latina socialista e bolivariana, i cui popoli hanno capito la lezione e perciò renderanno senza effetto la firma degli accordi economici realizzati dagli Usa all’interno del Tpp. Per le borghesie occidentali e per le sinistre addormentate nei loro privilegi, l’America latina è un pericoloso esempio di internazionalismo basato su una solidarietà globale ugualitaria».

Perché i diritti umani non sono più al centro dell’attenzione, ed è venuta a determinare un’innegabile caduta di sensibilità e solidarietà umana? L'autore risponde: la regione è nella paura. Potrebbero esserci anche altre risposte.

La Repubblica, 31 gennaio 2016, con postilla

È un fatto. I diritti umani non sono più al centro dell’attenzione internazionale, e soprattutto la loro tutela non è più sentita come una priorità. Né da parte dei responsabili politici né da parte dei cittadini. Non è sempre stato così. Pensiamo agli anni Settanta del secolo scorso, quando le sorti dei dissidenti sovietici o dei cileni vittime della repressione di Pinochet ispiravano forti prese di posizione morali capaci di determinare anche risposte politiche.

Vale la pena cercare di comprendere le ragioni di questo profondo cambiamento, e il perché si è venuta a determinare un’innegabile caduta di sensibilità e solidarietà umana. Una risposta pseudo-realista, ma in realtà parziale e superficiale, tende ad attribuire la causa principale di questa caduta alla fine della Guerra Fredda, nel cui contesto la difesa dei diritti umani era, per l’Occidente, uno dei terreni su cui condurre - e alla fine vincere - la grande sfida con il sistema comunista. Finita la sfida, calato l’interesse.
È vero che la lotta per i diritti umani era anche condotta con finalità strumentali, ma nello stesso tempo nel momento in cui la usava strumentalmente nel quadro di un’offensiva ideologica contro l’avversario, l’Occidente non poteva poi sottrarsi alla necessità di rispondere sullo stesso terreno in relazione alle proprie azioni, dal Cile al Vietnam. In altri termini, il risultato, quale che fosse l’intenzione di chi sollevava il tema, era positivo per la causa dei diritti umani ovunque nel mondo.
La fine del comunismo ha dimostrato che la violazione dei diritti umani costituisce una ragione di debolezza di sistemi politici che non possono indefinitamente sostituire la repressione al consenso. Questo avrebbe dovuto confermare i diritti umani al centro del discorso politico. Se non è avvenuto, è dovuto a una serie di fattori. Primo fra tutti, la sostituzione, nel campo dei diritti umani, del confronto Est-Ovest con quello Nord-Sud. Paradossalmente, la polemica con l’Unione Sovietica non verteva sui principi, ma sul loro concreto rispetto, dato che i sovietici (persino nella Costituzione staliniana del 1936) non mancavano di rendere omaggio sul piano teorico agli stessi principi su cui si basavano i sistemi occidentali nel momento stesso in cui li violavano in modo massiccio.
Scomparsa l’Urss, la polemica sui diritti umani si spostò dal terreno delle prassi concrete a quello dei principi, con una forte offensiva dei Paesi asiatici, decisi a contestare un universalismo che a loro avviso non era che l’imposizione di valori occidentali. Vi fu, nell’ultimo periodo del XX secolo, un forte dibattito sui “valori asiatici” e sullo “scontro di civiltà” - un discorso che introduceva dubbi e contestazioni in un terreno che fino ad allora non era stato esplicitamente contestato da chi pure lo contraddiceva sul piano dell’uso del potere in chiave repressiva.
All’inizio del XXI secolo la sfida di maggiore radicalità e virulenza è diventata quella dell’islamismo, le cui espressioni politiche, anche le più moderate, contestano la possibilità di un discorso sui diritti umani (pensiamo a temi come la condizione della donna, l’omosessualità o il diritto ad abbandonare la religione islamica) che possa prescindere dai dettami della Sharia.
Ma come mai la gravità della sfida non produce oggi, come sarebbe logico, una riconferma di valori che sembravano un tempo costitutivi non solo dei nostri sistemi politici ma anche del nostro profilo etico?
Una risposta la fornisce, nell’introduzione al Rapporto 2016, Kenneth Roth, il Direttore esecutivo di Human Rights Watch - l’organizzazione non governativa che, in parallelo ad Amnesty, porta avanti la causa dei diritti umani a livello globale. Roth non ha dubbi, e non dovremmo averne neanche noi. La spiegazione di questa caduta di disponibilità e sensibilità nei confronti della causa dei diritti umani ha un nome preciso: la paura. Paura per la nostra sicurezza, sia socio-economica che fisica. In un certo senso siamo passati dal terreno delle ideologie a quello, primario ed ottuso, della biopolitica. L’insicurezza, e la paura che essa genera - soprattutto per il terrorismo che colpisce anche nelle nostre città - producono un egoismo sordo ai richiami dell’etica e alla considerazione della dignità e dei diritti dell’Altro.
Se era facile essere solidali con i dissidenti rinchiusi nel Gulag siberiano, oggi le vittime delle violazioni dei diritti umani sbarcano sulle nostre coste, si accampano nelle nostre strade. È obiettivamente una situazione difficile, sia dal punto di vista organizzativo ed economico che da quello sociale, e persino da quello politico, visto che gli “imprenditori della paura” stanno raccogliendo praticamente in tutti i Paesi europei consensi sulla base della xenofobia e del razzismo.
Siamo messi collettivamente alla prova, e una risposta dovrà arrivare di certo da una rinnovata presa di coscienza sul piano dell’etica, ma anche su quello del realismo e della razionalità.
Se non riusciremo infatti ad affrontare questo colossale problema senza tradire quella centralità dei diritti umani che ci ha fin qui definiti come europei, ne risulterà una perdita di identità molto maggiore di quella che la paura ci dice che deriverebbe dall’inserimento dei migranti nella nostra società. Questo è vero anche per la sicurezza, che vediamo oggi minacciata dal terrorismo islamista e dall’instabilità dell’intera regione medio-orientale, dove uno dopo l’altro gli Stati si avvicinano alla disgregazione come conseguenza di spinte settarie e tribali. È vero che alla radice di questo processo, caratterizzato da una parossistica conflittualità endemica, esiste una serie di cause, dalle carenze di sviluppo socio-economico alla crescita dei movimenti jihadisti di ispirazione wahabita, ma quello che è indiscutibile è che alla base sia della minaccia terroristica sia dell’esodo di intere popolazioni troviamo sempre un potere esercitato con la violenza nel totale dispregio dei diritti umani e generatore quindi di frustrazione, risentimento, divisioni, violenze - un potere nei cui confronti siamo stati troppo spesso, e spesso continuiamo ad essere, conniventi per opportunismo o vigliaccheria.
Torniamo quindi a mettere fra le nostre priorità la difesa dei diritti umani. Ce lo suggeriscono sia i nostri principi che i nostri interessi, a partire da quello essenziale della sicurezza. Le minacce presenti vanno confrontate con tutti i mezzi necessari, compreso quello militare, ma senza affrontarne le tutt’altro che misteriose radici politiche continueremo indefinitamente a dover fare i conti con nuove e probabilmente sempre più gravi sfide.

postilla
Forse la ragione della violenza che si abbatte sulle muraglie della Fortezza Europa, e che genera la paura, è una conseguenza della violenza e della paura che alcuni secoli di colonialismo hanno suscitato fuori da quelle muraglie. Forse è ormai perduta, per l'Europa, la possibilità di uscire da un destino catastrofico cominciando col comprendere che nessuna pretesa di "universalismo" ha senso ma che la civiltà della razza umana è caratterizzata dalla pluralità delle culture, e quindi le azioni dovrebbero essere ispirate dalla comprensione e dal rispetto reciproci. Ma la potenza degli interessi economici è più forte della ragione, ed e cosi miope da essere quasi cieca.

L'adunata di coloro che pensano che la loro verità, essendo l'unica legittima, debba conformare la vita di tutti gli altri. Chiamalo, se vuoi, fanatismo. Articoli di N. Rangeri, Kocci e A Santagata.

Il manifesto, 31 gennaio 2031


L’ITALIA DELPASSATO

di Norma Rangeri

L’altra faccia delle cento piazze arcobaleno di una settimana fa, piene di «si» e di speranza per i diritti delle nuove famiglie. Perché i nuovi/vecchi crociati che hanno riempito il Circo Massimo di Roma rappresentano il «no» alla libertà degli altri. E in nome di una — presunta — «verità che non ci lascia mai!» come ha gridato dal palco uno degli organizzatori del raduno. Del resto le bandiere dell’Aquila nera con un cuore rosso crociato di «Alleanza cattolica», o il grande striscione «Padre, madre, figlio, popolo, nazione» sono il simbolo di un’area culturale integralista, dei «principi non negoziabili», pronta allo scontro frontale contro le legge sulle unioni civili. E contro i diritti altrui.

Nel family day organizzato dalle associazioni più conservatrici si è ritrovata l’Italia che appartiene al passato, mobilitata dalle diocesi, dai vescovi, dal centrodestra di Giovanardi e di Alfano, venuta nella Capitale per ascoltare la nutrita carrellata di oratori prodighi di parole funeree («i figli della provetta non sapranno su quale tomba piangere i loro genitori»), di scenari apocalittici («non vogliamo la strage degli innocenti»), vestiti da scudieri in difesa della famiglia «naturale», come se fossero gli unici guardiani del bene dei bambini. Perché, come scrive anche Stefano Rodotà nel suo ultimo libro, questa piazza negava a tante donne e uomini il diritto di amare liberamente.

Nonostante i colori, i palloncini, le canzoncine, il Circo Massimo ha trasmesso al Paese un messaggio cupo, perché con lo sguardo rivolto al mondo di ieri, chiuso e timoroso del confronto, come dettava il vademecum distribuito ai presenti che consigliava di non parlare con i giornalisti (succedeva così anche nei movimenti di sinistra, ma non a caso oltre quaranta anni fa).

Perché a parlare doveva essere solo il palco di Massimo Gandolfini, il medico bresciano, presidente del Comitato organizzatore «Difendiamo i nostri figli».

Abbiamo sentito più volte ripetere «questa piazza non è contro nessuno». Ma era pura retorica. Perché erano più significativi il video con i neonati strappati alle madri e le frasi come «le femministe dovrebbero vomitare per l’utero in affitto». E poi bastava ascoltare il tenore che apriva il comizio con «Mamma» di Beniamino Gigli, per fare quel salto agli anni Cinquanta del secolo scorso, un tempo lontano nel quale i cattolici del «no» vorrebbero riportare l’Italia, bloccando la legge — la moderata legge — sulle unioni civili.

Perché lo scontro che, purtroppo, ancora distingue il nostro dagli altri più avanzati paesi europei è sempre lo stesso: tra chi pensa che un credo religioso obblighi tutti a sottomettersi ai suoi precetti, e chi invece vuole un laica difesa dei diritti di tutti, senza discriminare le minoranze, per una libertà che conosce un solo confine: la libertà dell’altro. Perché chi divorzia non obbliga nessuno a divorziare, chi sceglie l’aborto non tocca la scelta di maternità, chi ricorre alla fecondazione assistita non ostacola la coppia fertile, chi vuole creare una famiglia gay non si impone né, soprattutto, vuole distruggere la famiglia eterosessuale.

La bandiera dei diritti civili non è mai stata innalzata dalla destra e non a caso i sondaggi, per quello che valgono, dicono che l’adesione al Family day è crescente mano mano che ci si sposta a destra nello schieramento politico. E alle forze conservatrici e reazionarie apparteneva la maggioranza dei politici presenti al Circo Massimo, nutrita pattuglia che domani rientrerà in Parlamento per tentare di affossare la legge, avendo già ottenuto di rinviare il voto a martedì prossimo, proprio con l’obiettivo di far pesare la piazza e di dare un avvertimento al presidente del consiglio («Renzi ci ricorderemo»).

Ma se il Family day del 2007 (quello con Renzi) giubilò i Dico, oggi i nuovi/vecchi crociati hanno uno schieramento parlamentare più difficile da condizionare ed egemonizzare. Anche perché in piazza c’era un grande assente: papa Francesco. L’unico papa nominato, Giovanni Paolo II, potrà aiutarli solo dall’aldilà.

LA CHIESA DEI SENZA BERGOGLIO

di Luca Kocci
L'anima della piazza. Dai neocatecumenali a Militia Christi, ma mancavano le grandi associazioni. Grande presenza del «Cammino» di Kiko Arguelo. Che però non è stato invitato, per evitare incidenti. Striscione di Cl, vessilli di Alleanza cattolica e Manif pour tous. Acli, Agesci e Azione cattolica si sono smarcate
Gli organizzatori del Family day avevano promesso che quella del Circo Massimo non sarebbe stata una piazza «contro», ma una piazza «per», per gridare «la bellezza della famiglia». Eppure la parola che più forte e chiara è risuonata — scandita dalla folla con coretti da stadio — è stata «No!». No al disegno di legge Cirinnà. No alle unioni civili. No alla stepchild adoption. No all’utero in affitto, che nemmeno è previsto dalla legge in discussione.
Del resto il portavoce del Comitato «Difendiamo i nostri figli» — promotore del Family day -, Massimo Gandolfini, in mattinata ricevuto al Viminale da Alfano, lo ha detto chiaramente durante il suo intervento: «Il ddl Cirinnà è inaccettabile dalla prima all’ultima parola, non è possibile modificarlo, va totalmente respinto». Un esempio di «maquillage» che, secondo Gandolfini, va smascherato? «L’“affido rafforzato” non è altro che un tentativo di far passare in maniera surrettizia una vera e propria adozione, mascherandola da affido».

Quello rivolto ai parlamentari, in particolare i parlamentari cattolici, più che un appello pare un avvertimento: «Ci ricorderemo di voi — ammonisce Galdolfini -. Controlleremo l’iter del ddl e vedremo chi avrà raccolto il messaggio di questa piazza è chi invece lo avrà messo sotto le scarpe. Al momento delle elezioni ci ricorderemo di chi è schierato dalla parte della famiglia e chi no». Il Circo Massimo è pieno, ma molto meno di quanto ci si sarebbe aspettato. Gandolfini spara due milioni di persone, in realtà sono 200mila o poco più. Non poche, ma nemmeno così tante da far dire a Sacconi, via twitter, «la più grande manifestazione del dopoguerra per difendere costituzione formale e materiale».

A riempirlo sono soprattutto i neocatecumenali — chiamati direttamente dal cardinale Bagnasco, come ha spiegato il fondatore del Cammino neocatecumenale, Kiko Arguello -, gruppi di famiglie numerose organizzatissimi con teli, chitarre, tamburelli e i cartelloni o gli striscioni delle varie comunità che arrivano da Brescia (città di Gandolfini, neocatecumenale anche lui), Roma, Sora, Modugno, Campi salentino e molte altre città. Invocano Kiko, il loro capo carismatico, ma Kiko non parlerà dal palco. «Non sta bene, non è potuto venire», spiega Gandolfini. In realtà lo stesso Gandolfini tre giorni prima del Family day aveva scritto a Kiko — rivela il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister sul suo blog — chiedendogli di non intervenire per non dare una connotazione «confessionale» alla manifestazione. Più probabilmente gli organizzatori temevano un bis del Family day del 20 giugno 2015 quando Kiko parlò e, in preda all’estasi predicatoria, arrivò a dire che alcuni comportamenti delle donne possono alimentare i femminicidi.

Dal palco si canta «Mamma», poi interviene Mario Adinolfi, direttore del quotidiano La Croce: «Il ddl Cirinnà vuole appendere il cartellino del prezzo sul ventre delle madri. Renzi ci ricorderemo, fai le scelte giuste!». La piazza si scalda. Sventolano i vessilli degli integralisti di Alleanza cattolica e gli striscioni di Militia Christi, ma anche le bandiere dei comitati locali di “Difendiamo i nostri figli”, Movimento per la vita, Manif pour tous, Pro Vita, si vedono le magliette del combattivo settimanale Tempi (vicino a Cl) e un grande striscione di Comunione e Liberazione, anche se il movimento non ha ufficialmente aderito alla manifestazione.
Dal palco interviene Gianfranco Amato (Giuristi per la vita), autore di un vademecum per i manifestanti su come evitare le domande dei giornalisti: «Il ddl Cirinnà è un pasticcio giuridico a cui ci opporremo senza se e senza ma, non si può mercificare il corpo di una donna per soddisfare il desiderio di due uomini». Toni Brandi (Pro Vita) evoca scenari apocalittici di migliaia di bambini, prodotti dagli uteri in affitto, «che non sapranno su quale tomba potranno piangere la madre che non conoscono».

La piazza è decisamente cattolica, «qui c’è tutto il popolo di Dio», grida Gandolfini. Ma in realtà si tratta solo di una parte di mondo cattolico: le grandi associazioni laicali (Azione cattolica, Agesci e Acli), pur con qualche equilibrismo, si sono dissociate dal Family day; le Comunità cristiane di base e Noi Siamo Chiesa hanno posizioni diametralmente opposte. Ma gli oratori dal palco non se ne accorgono: per loro tutti i cattolici sono qui. Le citazioni sono indicative: Giovanni Paolo II batte papa Francesco 5 a 1, Bergoglio viene richiamato — accolto da applausi tiepidi — solo per la frase di qualche giorno fa al Tribunale della Rota («Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione»).

Le parole conclusive di Gandolfini sono un tuffo nel passato dell’intransigentismo ottocentesco: «L’apostasia delle proprie radici giudaico-cristiane è la causa di tanti mali della società di oggi». E sulle note di Nessun dorma di Puccini, «Vincerò!», la manifestazione finisce e il Circo Massimo si svuota.
LA CHIUSURA IDENTITARIA
DI UNA GALASSIA
CHE SI SENTE SEMPRE PIÙ MINORANZA
di Alessandro Santagata
Il Family day. Come avviene da tempo negli Stati Uniti e come è accaduto di recente in Francia, le società occidentali sono attraversate oggi da movimenti che si radicalizzano nella presa di consapevolezza di un cambiamento che non possono impedire

Gli osservatori attenti alle trasformazioni delle società occidentali hanno individuato due tendenze fondamentali che possono aiutarci a comprendere la giornata del Family Day. Da una parte, il ritorno delle religioni nella sfera pubblica come sfida alla globalizzazione spersonalizzante (nella versione avanzata da Habermas, come interrogativo posto dal multiculturalismo alla laicità effettiva delle nostre democrazie), dall’altra parte, il riemergere della religione come fattore di chiusura identitaria, uno strumento forte di una lunga tradizione di politicizzazione della fede.

Si tratta di due tendenze carsiche, talvolta convergenti nel discorso dei politici e degli attori religiosi, ma che si scontrano oggi con la realtà di società che vivono un processo di secolarizzazione crescente.
L’ultimo rapporto di Eurispes fotografa un Paese in cui la pratica religiosa è attestata al 25%, la tutela giuridica delle coppie di fatto è auspicata dal 67,6% della popolazione e il matrimonio tra omosessuali è accettato dal 47,8%. Questi dati non erano poi molto diversi dieci anni fa, al tempo del primo Family Day del 2007, lo erano invece il contesto politico (l’Italia nelle mani di Silvio Berlusconi) e quello ecclesiale, caratterizzato dalla linea politica «presenzialista» del card. Ruini, a sua volta forte del sostegno del «papa polacco» e poi del suo successore tedesco.

Si spiega quindi alla luce di questi cambiamenti la decisione dei vescovi di fornire un chiaro appoggio alla manifestazione del Circo Massimo senza però impegnare direttamente la Chiesa, come nei desideri di papa Francesco e di una parte dello stesso episcopato.

Per quanto riguarda i movimenti in difesa della «famiglia tradizionale», le parole d’ordine del Family Day non sono state meno intransigenti di quelle del passato, ma è nitida la percezione di essere di fronte a una galassia che si sente sempre più minoranza, un segmento della società che ha perso la sponda del governo e perfino la sintonia con il pontefice romano.

Ne è venuta fuori una manifestazione tanto pacifica e festosa nelle forme, quanto dura nei contenuti di fondo in un mélange di integrismo vecchia maniera (contro l’edonismo) e di psichiatrizzazione della società, accusata di aver perduto il senso del limite. Medicina e religione, del resto, sono andate a lungo a braccetto nella storia delle retoriche contro le «devianze» sociali e sessuali.

Senza entrare nel merito delle contraddizioni, è interessante osservare anche la permanenza dello schema della catena dei mali, secondo il quale l’introduzione dei nuovi diritti, come la stepchild adoption, porterà inevitabilmente alla pratica dell’utero in affitto e quindi allo sfruttamento delle donne più povere da parte di una presunta élite omosessuale. Dal Family Day arriva dunque un segnale forte e preoccupante che deve essere letto nel contesto del nostro tempo e non solo di quello italiano: nell’orizzonte del mondo cattolico in trasformazione, ma più in generale nella sfera delle forme assunte dal ritorno del religioso nella sfera pubblica.

Come avviene da tempo negli Stati Uniti e come è accaduto di recente in Francia in occasione dell’approvazione del mariage pour tous, le società occidentali sono attraversate oggi da movimenti, spesso “dal basso”, che si radicalizzano nella presa di consapevolezza di un cambiamento che non possono impedire e che sono espressione di un’istanza che trova consensi in maniera interclassista e di cui beneficiano quelle forze politiche, come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, che si fanno promotrici di un certo linguaggio antimoderno, identitario e intransigente.

Si tratta di tendenze profonde, alle quali occorre rispondere sul piano discorsivo senza sottovalutare i rischi di questa politica della paura, tendenze che ci devono portare a interrogarci sul modo in cui adeguare la laicità alle nuove frontiere del diritto senza perdere la sfida culturale che deve accompagnare il cambiamento.

Giorno dopo giorno la barbarie dei popoli della Fortezza Europa prepara la notte in cui le moltitudini represse nella loro miseria non lascerà vivo uno di noi, Articoli di Del Re e Tarquini. La Repubblica, 31 gennaio 2016




LA STRAGE DEI BAMBINI
NAUFRAGIO NELL’EGEO
ALLARME DELL’UNICEF
di Pietro Del Re

«Genocidio dell’infanzia”. Europol: 10 mila minori arrivati e scomparsi. “Germania, 400 mila espulsioni»

ROMA. Dopo la strage di ieri, il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini, è tornato a chiedere corridoi umanitari sicuri: «Davanti al genocidio in mare di bambini l’Italia si sta colpevolmente assuefacendo. La Ue batta un colpo, è una questione che riguarda tutti. Affondano come su Titanic di carta».
Dalla Germania è arrivata la notizia pubblicata da Die Welt secondo cui - stando a un documento interno della Cdu - Berlino si preparerebbe a espellere 400 mila richiedenti asilo nel 2016.
Un ennesimo naufragio nel braccio di mare tra Grecia e Turchia ha provocato un’altra strage di migranti. I morti di quest’ultima tragedia dell’Egeo sarebbero almeno 39, di cui almeno 5 bambini. Ma secondo le autorità di Ankara il bilancio potrebbe aggravarsi ulteriormente, perché in serata non era ancora stato recuperato il relitto del barcone di 17 metri, affondato poco dopo esser salpato dalle coste di Canakkale, diretto verso l’isola di Lesbo. L’imbarcazione s’è infranta andando a sbattere contro gli scogli e si teme che diverse persone siano rimaste intrappolate nella stiva. La guardia costiera ha potuto soccorrere 75 persone e sta cercando di ripescare una donna con il suo bimbo di tre mesi, trascinati dalla corrente verso il largo.
Secondo la stampa turca sul barcone viaggiavano migranti provenienti da Siria, Afghanistan e Birmania. Un portavoce della polizia ha invece dichiarato che un cittadino turco è stato arrestato con l’accusa di aver organizzato la traversata verso la Grecia. Tre giorni fa, in un altro naufragio avevano perso la vita 10 bambini.

Tutte vittime che vanno ad aggiungersi alle tremila persone che nel 2015 hanno perso la vita tentando di raggiungere le isole di Kos e Lesbos partendo dalle coste turche. In questa strage senza fine nel solo mese di gennaio sono annegati nell’Egeo oltre 50 bambini. Più di 80mila sono i migranti salvati in mare dalla guardia costiera dei due Paesi. Ma l’emergenza non finisce con il viaggio: Europol lancia l’allarme dei bimbi scomparsi. «Ne stiamo cercando più di 10mila, 5mila solo in Italia: sono migranti minorenni non accompagnati». Molti potrebbero essersi ricongiunti con le famiglie, ma su tanti si stende l’ombra dei trafficanti.

Sempre ieri, le due motovedette della Guardia costiera italiana impegnate in quel tratto di mare hanno soccorso 3 gommoni salvando 31 migranti e hanno recuperati 15 persone abbandonate all’addiaccio su una scogliera. Tra loro c’erano quattro donne e cinque bambini di meno di quattro anni.


GLI SKINHEAD IN PIAZZA
CACCIA AI RAGAZZINI
“BASTA STRANIERI IN SVEZIA”

di Aldo Tarquini
STOCCOLMA. l minuto di silenzio per Alexandra Nezher, la 22enne svedese pugnalata a morte da un 15enne somalo, scatta alle 13,30 in punto a Norrmalmstorg splendida piazza del centro di Stoccolma. Tacciono tutti sull’attenti, molti giovani testa rasata e giubbotti neri con le due lettere ‘HH’, Heil Hitler, operai anziani, qualche famiglia giovane e signore in cappotto di cammello. Erano un migliaio, non tanti, ma qui fa impressione. Poche ore prima, nella notte, un centinaio di loro, squadre di giovani incappucciati, si sono scatenati nel pogrom a Sergelstorget, la spianata col Palazzo della Cultura voluto da Olof Palme sopra il grande incrocio della metro. Pestaggi, grida e slogan, città terrorizzata. «Puniamo i ragazzini maschi di strada marocchini, le nostre donne non si toccano ». Botte coi tirapugni anche alla polizia, ma qui gli agenti rispondono duro: quattro arresti, e la Saepo (lo MI5 svedese) indaga sulla galassia nera.
Weekend di tensione nella Londra del Nord. «Alexandra, ti dedichiamo un minuto di silenzio, tu di origini libanesi ma integrata e svedese come noi sei la nostra eroina, al tuo assassino e ai suoi amici non daremo pace», dice un’oratrice degli Sveriges Demokraterna, i populisti numero uno in alcuni sondaggi. Il vento gonfia striscioni e cartelli: «Merkel, Loefven (il premier socialista svedese, ndr), Juncker, traditori dei popoli europei», «Basta con gli assassini». Poi il comizio riprende, richieste dure: «Non siamo razzisti se chiediamo di buttar fuori quei criminali islamici, i razzisti furono e sono Hitler, Breivik e oggi i terroristi dell’Is». Sul lato nordovest della piazza pochi giovani di sinistra gridano slogan antifascisti. «Mi piacerebbe dare una lezione a quei comunisti, come l’altra notte coi marocchini”, mi dice un ragazzo biondo.

Gli agenti in tenuta antisommossa fanno cordone, mani pronte a impugnare manganelli, taser o pistole, coi furgoni Mercedes giallieblu creano un muro tra le due parti della piazza. Una signora dell’ufficio stampa della polizia informa noi giornalisti: «Il pogrom notturno l’hanno organizzato online, come un flashmob, l’ordine era “aggredire bambini rifugiati”».

«Tranquillo, organizziamo ronde civiche, siamo in contatto con gli amici, i tedeschi di Pegida e le forze sane da voi», mi dice Olof, corpulento e sorridente riservista dell’esercito. Alto, testa rasata come i suoi amici, uno di loro torna da un negozio vicino, busta di plastica piena di lattine di birra. «Siamo decisi, noi europei sani, cristiani e bianchi dobbiamo fare in fretta. Blitzkrieg, e insieme come si coordinano loro aggredendo le nostre donne a Capodanno da Colonia a Helsinki, da Goeteborg a Zurigo. Glie la faremo vedere, siamo tutti ben addestrati per il servizio militare obbligatorio».

No al razzismo, gridano i pochi controdimostranti che la polizia protegge col muro di furgoni e agenti pronti al peggio. «Bisogna dar lezioni e salvare l’Europa bianca, come quando a scuola pestammo in classe un marocchino cleptomane, rubava a tutti. Il preside ci accusò di razzismo, ecco dove ci portano i socialisti». Kalle, magro e rasato accanto a noi, annuisce: «Guarda i comunisti che ci contestano, meriterebbero una lezione, non capiscono che anche le loro donne rischiano per gli stupratori musulmani». Ore 14,40, il flashmob si scioglie cantando “ Du gamla, du fria”, il dolce inno nazionale, con le loro voci suona duro e ostile.

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

Di ritorno da Parigi,dove sta provando asventare la costruzionedi un mega McDonald's,Carlin Petrini rispondeal telefono e cominciacosì: «Vuole parlare delle riformecostituzionali? Io nonsono un tecnico, ma pensoche sia giusto dire quel che sipensa. Per senso civico. Hochiamato Gustavo Zagrebelskye gli ho detto che avrei sostenutole ragioni del Comitatoper il No. Mi sembra importante,nel momento in cuisi vogliono apportare modifichecosì significative al sistemademocratico, ascoltarecoloro che hanno dedicato unavita a studiare la Costituzione.E sento un fronte unitoe numeroso di professori chenon sono soltanto scettici, malanciano allarmi preoccupanti».

Perché è contrario?
Partiamo dal metodo. Il presidentedel Consiglio ha impostatola campagna sul referendum- sin da ora - come unplebiscito sulla persona. Ehno, non funziona così: la gentevaluterà l'operato dell'esecutivoalle elezioni politiche. Qui in discussione ci sono lenorme che regolano le istituzioni,dentro le quali il popoloè rappresentato. Qui non sidecide se l'azione politica delgoverno è buona o cattiva, sidecide del funzionamentodella democrazia, a prescindereda questo o quel governo.Aggiungo che Renzi stacommettendo un errore: nonsono per niente sicuro che icittadini si faranno “prendereper la giacchetta”, “o conme o contro di me”. Potrebbeavere un'amara sorpresa.

I costituzionalisti hannomesso in relazione la leggeelettorale per la Camera conla riforma del Senato.
Lo sbilanciamento verso ilgoverno sarà forte. E questonon va bene: se si creano regoleche lasciano ampi spazidi manovra senza controlli,bisogna pensare che questimargini larghi in futuro potrebberoessere utilizzati dapersone poco attente. O meglio:molto attenta al propriopotere, ma non al bene comune.Alla fine - tra Italicum eriforma Boschi - il risultatosarà un premierato forte conpochissimi contrappesi econtrolli tra poteri: il contrariodi quel che era nelle intenzionidei padri costituenti. Lanostra Carta è stata spessodefinita la più bella del mondo.

Eccome: Benigni ci ha fattouna trasmissione per la Rai.Però ha detto che voterà sì alreferendum.
Come cambia idea velocemente la gente! Posso dirlesolo che se devo esprimermisulla Costituzione ascoltoprima e con più attenzioneRodotà e Zagrebelsky del mioamico Benigni.

Antonio Padellaro sul ha lanciato l'idea di uno spotper invitare i cittadini a votareno: sarà difficile per chisi oppone contrastare lanarrazione renziana.
Tutto vero, ricordiamoci peròche nel 2006 la riforma costituzionaledi Berlusconi èstata bocciata dal popolo propriocon il referendum. Mancanootto mesi alla consultazione:la gente ha tempo d'informarsie di maturare opinionidiverse. Non darei nullaper scontato.

Una delle obiezioni mosse aicostituzionalisti è di essereconservatori perché non voglionomai cambiare nulladella Costituzione.
Non mi risulta che sia vero.Tanti di loro hanno ripetutoche questa è stata un'occasionepersa, proprio perché pensanoche ci siano meccanismida modificare: è un'affermazioneche condivido. Per esempionon è vero che sonocontrari a questo nuovo Senatoperché vogliono mantenereil bicameralismo perfetto.Poi non mi è piaciuto il modosbrigativo con cui è stataportata avanti la discussionein Parlamento sulla riforma.La Costituzione è una cosadelicata, va maneggiata concura. Non con fretta.

Il manifesto, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Assessore alle privatizzazioni. Di Forza Italia». Un assessore alle privatizzazioni? Del partito di Berlusconi? Sembra una cosa singolare. Se si aggiungesse «... diventa viceministro all’Economia del governo del Pd» saremmo quasi sicuri che si tratta o di un articolo satirico alla Stefano Benni o di un personaggio inventato stile Antonio Albanese (ci ricordiamo il «ministro della Paura»?). Invece è vero. Tutto vero. Anzi quasi peggio: Luigi Casero, viceministro del dicastero dell’Economia e delle Finanze di Renzi, è stato responsabile economico di Forza Italia ed è rimasto al ministero ininterrottamente dal 2008 come sottosegretario all’Economia con Berlusconi...

Analizzare i nomi della compagine governativa può sembrare roba da poco, da notisti politici, rispetto a quella dei processi economici. Ma il quadro diventa abbastanza chiaro. Il fatto è che, in tema di privatizzazioni, cercare aderenze interessi a esse favorevoli è caccia facile in quel ministero. Più che fatti singoli sembra che le connivenze coinvolgano tutti e molto apertamente.
Il sottosegretario Paolo Baretta (al Ministero dal 2013)? Nei tardi ’90 era in Cisl e ha seguito «i processi di privatizzazione di Telecom e di riorganizzazione di Poste italiane» (sito del Ministero). L’appena nominato viceministro Enrico Zanetti (già sottosegretario)? Socio di Eutekne Spa, società di consulenza tributaria che organizzava convegni come «Dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali risorse utili per la crescita».
Pare proprio sia tornata l’epoca delle grandi privatizzazioni. «Grandi» nel senso che vengono date in pasto al mercato aziende di statura nazionale e controllate dal ministero dell’Economia. Si tratta di enti che già funzionano come imprese, in regime privatistico, ma controllate dallo Stato. Nel 2015 è stato il turno di quote Enel e Poste Italiane, di cui Padoan rivendica il successo. Pare imminente la collocazione sul mercato del 40% di Ferrovie e del 49% di Enav, settore di assistenza al volo aereo. E si parla anche di StMicroelectronics, Fondo Italiano di Investimento e Sace. La motivazione addotta è semplice: fare cassa per abbattere il debito pubblico.
La Commissione europea, nelle Raccomandazioni all’Italia del 2015, prescriveva di «attuare in modo rapido e accurato il programma di privatizzazioni e ricorrere alle entrate straordinarie per compiere ulteriori progressi al fine di assicurare un percorso adeguato di riduzione del rapporto debito pubblico/Pil». Lo dice a chiare lettere sia il Def che il ministro in audizione: «Tra il 2016 e il 2018 si prevede che l’insieme del programma di privatizzazioni potrà comportare per l’erario entrate pari allo 0,5 per cento del Pil all’anno». Non si capisce bene la base di tali previsioni dato che lo stesso ministro-economista, a domanda diretta risponde: «Mi è stato anche chiesto dall’onorevole Bordo quanto si pensa di incassare. La mia risposta è che non lo so».
Nonostante la retorica dell’azionariato popolare - l’utopia di far diventare i lavoratori piccoli proprietari di grandi conglomerati industriali - il processo delle grandi privatizzazioni è strettamente legato al mercato finanziario. «Le operazioni di privatizzazione che hanno smantellato il sistema delle partecipazioni statali si proponevano specificamente fra gli obiettivi quello di contribuire a una crescita del mercato azionario che va oltre i meri aspetti dimensionali». Lo raccontava Draghi nel 2008. Nonostante le bufere sulla ribalta della politica, i cambi di governi e maggioranze, questi processi vanno avanti, quasi nel silenzio.

«Un decreto che accelera le privatizzazioni e forzail controllo politico delle aziende. Come contrastare la politicadel governo con la battaglia dei referendum». Il manifesto, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)


Annunciato in pompa magna, comeil decreto che farà scendere lesocietà partecipate da Enti pubblicida 8000 a 1000, è dunque stato approvatodal consiglio dei ministri il provvedimentopresentato dalla ministra Madia,che dovrebbe riordinare tutto il variegatomondo delle società dei servizi posseduteo partecipate dal pubblico.Appare già evidente che la finalità primadel provvedimento in questione nonsta solo nella "semplificazione"annunciata oin un'accelerazione delleprivatizzazioni, ostacolandola forma gestionaledelle aziendepubbliche, ma, ancorpiù, nell'idea di costruireun forte controllo politicosulle società partecipate.

D'ora in avanti, le societàpartecipate dalpubblico saranno governateda un numeromolto ristretto di amministratori,se non daun amministratore unico,e viene istituita un'Unità di controllo sullesocietà partecipatepresso il ministero delTesoro con il compitodi dare attuazione aldecreto, comprendendoanche la possibilitàdi effettuare ispezionipresso gli uffici delle societàstesse.Ci si muove in continuitàcon un'impostazioneper cui la gestionepubblica rispondedirettamente al potereesecutivo e si prova adabbattere le autonomiedegli altri poteri edelle altre articolazionistatuali: ciò che si tentadi realizzare, solo per fare qualche esempio,nel ridimensionare il ruolo del Parlamento,con l'abolizione delle Province,nel rendere la Rai subordinata alle sceltedel governo e persino con le ultime propostee nomine "eccellenti", da Carrai aCalenda.

E’ da almeno un anno e mezzo che vienerilanciata in modo molto forte unanuova strategia di privatizzazione e finanziarizzazionedei servizi pubblici, apartire da quelli locali. Su un impianto legislativomesso a punto con lo SbloccaItaliae con la legge di stabilità approvataalla fine del 2014, si prevede che le risorseincassate dagli Enti locali, in caso divendita di quote societarie di aziendepartecipate dagli stessi, possono essereutilizzate al di fuori dai vincoli del patto distabilità. E, in sintonia con quel quadro legislativo,promuovendo processi di acquisizionee fusione da parte delle grandiaziende multiservizio quotate in Borsa,sempre più privatizzate, Iren, A2A, Hera eAcea, nei confronti delle aziende di dimensionimedio-piccole, con l'intentoche, nel medio periodo, esse arrivino a gestirela gran parte dei servizi pubblici locali,in una logica orientata dalla quotazionein Borsa e dalla distribuzione dei dividendiai soci.

Quello che si sta delineando è, dunque,un "nuovo" intreccio tra economia e politica,per cui alla prima si consegnano lescelte di fondo del modello economico esociale e alla seconda, una volta ristabilitoun meccanismo di comando e controllosull'intervento pubblico, un ruolo, deltutto subalterno, di accompagnamento-condizionamentodella prima.

Il movimento per l'acqua ha contrastatoe continua a contrastare questo disegno;lo facciamo nei territori, con la mobilitazionein contrasto alle nuove privatizzazionicentrate sulle grandi aziendemultiservizio e per affermare la ripubblicizzazionedel servizio idrico, assieme alleazioni di tutela della risorsa acqua, anch'essasempre più insidiata dai fenomeniindotti dall'aggressione al territorio edal cambiamento climatico. Lo facciamoa livello nazionale, rilanciando la nostraproposta di legge di iniziativa popolareper la ripubblicizzazione del servizioidrico, che dovrebbe riprendere la discussionein Parlamento. E ora siamo intenzionatia farlo nella direzione di promuoveresia una proposta di legge di modificacostituzionale per affermare il dirittoall'acqua e, più in generale, tutti i dirittifondamentali, togliendoli dal giogo deivincoli di bilancio, sia una nuova iniziativareferendaria, che vuole abrogare proprioquel provvedimento che incentivagli Enti locali a dismettere le quote di proprietàpubblica delle aziende che gestisconoi servizi pubblici locali, cioè a privatizzarle.

La nostra iniziativa referendaria, peraltro,vuole esplicitamente costruire unaconnessione con gli altri movimenti esoggetti che stanno, a loro volta, ragionandosu quesiti referendariche aggredisconoquestioni di fondosu cui sono intervenutele scelte neoliberistee regressive del governoRenzi in quest'ultimoanno e mezzo. Ilmovimento per la scuolapubblica sta predisponendoun'iniziativareferendaria per abrogarele parti più inaccettabilidella controriformadella scuola; ilmovimento contro letrivellazioni petrolifereha deciso di percorrereuna strada analoga perchiedere il pronunciamentopopolare controtutte le trivellazioni,in mare così come interraferma, oltre gli sviluppidella vicenda referendariapromossa dadiverse Regioni; diversisoggetti sindacali, apartire dalla Cgil, sonoimpegnati in una discussioneper valutarel'opportunità di presentareuna proposta referendariasui temi del lavoroe contro il Jobsact.

Si stanno profilandole condizioni perché,nella prossima primavera,si possa sviluppare una vera e propriastagione di referendum sociali - e bisogneràlavorare alacremente e con intelligenzaper la sua effettiva realizzazione.Una stagione che coordinata ad unitaria.Fatta salva l'autonomia di movimenti,soggetti sociali, soggettività politicheche potranno eventualmente sostenerla,il punto di fondo e di forza delle iniziativereferendarie è mettere al centro i temidel modello sociale e della democrazia:l’uno piegato ad una logica per cui il mercatoè l'unico regolatore, l’altra svilita ecompressa per renderla funzionale aquell'obiettivo.Senza sovrapporre referendum socialie referendum costituzionale, è però evidenteche, se si vuol evitare di stare sulterreno plebiscitario che non casualmenteRenzi propugna per affrontare il referendumcostituzionale, né farsi schiacciareda una discussione tecnicista sulruolo del Senato, occorre, come suggeritoda Gaetano Azzariti qualche giorno fasu questo giornale, far emergere il nessotra l'idea del suo restringimento e l'abbattimentodi diritti sociali fondamentali.Ma di questo avremo modo di tornarea parlare.

«Per tradurre in pratica tale disegno, penso che occorra auto-organizzarsi in un’associazione informale e indipendente, aperta al continuo scambio di idee e contributo di studiosi di diversi ambiti scientifico-disciplinari, nonché di varia formazione».

Il manifesto, 29 gennaio 2016 (m.p.r.)

L’articolo di Piero Bevilacqua sulla parcellizzazione dei saperi (il manifesto, 28 gennaio) offre un’analisi e una proposta su cui lavorare. Sul processo che ha portato il neoliberismo a diventare «la forma di razionalità assunta dal capitalismo nel nostro tempo» e sulle conseguenze che ciò comporta è forse è utile qualche considerazione. Il punto partenza, a mio avviso, è da ricercare nella crisi del capitalismo dei consumi, giunta al punto limite già nei primi anni ’70. Il segno più evidente fu la diminuzione dei tassi di profitto che si registrò in tutti i settori, negli Usa, in Europa e in Giappone.

Quella crisi richiedeva profonde innovazioni nei modi di produzione, nell’organizzazione del lavoro e nei sistemi di vita. Invece, i gruppi economici e politici dominanti preferirono una risposta decisamente conservatrice. Un aumento dei margini di profitto fu cercato attraverso un ancor più intenso sfruttamento e mercificazione del lavoro e delle risorse naturali. E non c’è dubbio che tutto ciò ha favorito la piena affermazione del paradigma neoliberista fino a farne la cifra dominante della scena economica, sociale e politica nei paesi del capitalismo storico per più di un trentennio, estendendo la sua influenza in quelli di nuovo sviluppo, condizionando gravemente quelli più poveri e troneggiando nelle maggiori istituzioni economiche e politiche internazionali.
Il neoliberismo trionfante (sia quello aperto e proclamato dai governi conservatori, come il suo camuffamento nella cosiddetta "terza via") ha garantito il prevalere pressoché incontrastato della razionalità contingente, utilitaria e strumentale propria del capitalismo. Un capitalismo che negli ultimi 35 anni ha potuto muoversi senza freni e controlli proclamando la superiorità del mercato auto-regolato, la necessità di un deciso arretramento dello Stato rispetto ad esso, finendo col determinare una sostanziale rinuncia della politica a svolgere le sue essenziali funzioni di guida e di scelta in vista di obiettivi d’interesse generale.
A quella logica irresponsabile, proprio perché schiacciata sul contingente e guidata da interessi parziali, oggi è quanto mai urgente contrapporre una nuova razionalità e consapevolezza storica capace di progettare un futuro migliore del presente, costruito sulla base dei bisogni autentici e delle aspirazioni profonde della grande maggioranza delle popolazioni, nel Nord come nel Sud del mondo.
Un altro punto, a mio avviso, molto significativo dell’analisi stimola un’attenta riflessione sull’alienazione estrema ormai raggiunta nel rapporto dell’uomo con la natura. Stiamo assistendo ad una crisi sempre più generalizzata che, non solo sacrifica i bisogni elementari ad altri bisogni, artificiali e gratuiti, determinando una vera e propria mutilazione dell’uomo, ma addirittura insidia i beni naturali che dovrebbero soddisfarli. Si tratta di forme di rapina che colpiscono bisogni primari nel modo più irreparabile, attraverso la rarefazione dei beni più vitali per l’intera specie, come l’aria respirabile, l’acqua potabile, la vegetazione, il suolo coltivabile. S’impone, perciò, una radicale conversione - teorica e pratica insieme - capace di operare quella riconnessione dell’uomo alla natura che è richiesta dagli stessi sviluppi della scienza e che riguarda direttamente il nostro possibile futuro.

Per muovere in tale direzione, è necessario ricomporre il rapporto d’intima appartenenza dell’uomo alla natura, contro ogni astratta e alienante idea di estraneità e dominio dell’uno rispetto all’altra. Questo mi sembra il presupposto epistemologico per «tentare i sentieri di una possibile cooperazione tra i saperi, in grado di fondere scienze della natura e umanesimo quale base di un nuovo progetto di società» come auspica Piero Bevilacqua. Il proposito, quindi, di rendere possibile, su questa base, una rinascita e convergenza del pensiero critico aggregando energie in «una comunità cooperante di pensiero e ricerca» è, a mio avviso, necessario e possibile.

Per tradurre in pratica tale disegno, penso che occorra auto-organizzarsi in un’associazione informale e indipendente, aperta al continuo scambio di idee e contributo di studiosi di diversi ambiti scientifico-disciplinari, nonché di varia formazione. Lo strumento più idoneo potrebbe essere la creazione di un sito web dotato di un archivio in cui raccogliere materiale utile già prodotto e nel quale sia possibile inserire nuovi articoli, saggi, sintesi e segnalazioni di libri che si ritengano significativi per gli scopi indicati. Scopi che saranno inevitabilmente discussi, ridefiniti, arricchiti, com’è auspicabile che avvenga negli sviluppi di una battaglia delle idee viva ed aperta.

E’ probabile che si renda necessaria la costituzione di un gruppo di coordinamento composto da volenterosi che s’impegnino a tenere le fila dell’associazione. Penso ad un gruppo non numeroso e costituito sia da studiosi di maggiore esperienza che da ricercatori più giovani, in modo da valersi di attitudini e modi di operare in parte diversi e, al tempo stesso, felicemente complementari. Si tratta di un’impresa certamente impegnativa, ma irrinunciabile. Il neoliberismo si è dimostrato incapace dell’indispensabile e vitale opera di trasformazione che consente la riorganizzazione continua dei rapporti sociali e il rinnovamento della loro espressione politica. Senza di che, il sistema è avviato alla dispersione e al caos, ovvero alla fine entropica. Se esistono, come esistono, saperi ed energie capaci di contrastare questo disfacimento e di costruire nuove coordinate di senso per le scelte individuali e collettive, allora l’officina per l’egemonia è una buona occasione.

«Per “salvaguardare la libertà e la sicurezza”, sottolinea Stoltenberg, la Nato ha preso nel 2015 tutta una serie di «misure di rassicurazione, sostenute da circa 300 esercitazioni militari». Dal rapporto si capisce che questo è solo l’inizio di un colossale rilancio militare della Nato».

Il manifesto, 29 gennaio 2016 (m.p.r.)

Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg avrebbe dovuto presentare ieri il suo rapporto annuale nella nuova sede di Bruxelles. Non è però ancora ultimata, perché le spese di costruzione sono lievitate dai previsti 460 milioni nel 2010 a 1,3 miliardi di euro, cifra destinata ad aumentare ancora.

Questa opera atlantico-faraonica, che si prevede di inaugurare nel 2016, è composta da otto ali, convergenti in una struttura principale, le quali «rappresentano il consenso e le aspirazioni di pace degli alleati uniti sotto un tetto in vetro, simbolo della trasparenza della Nato».
«Aspirazioni di pace e trasparenza» che, assicura Stoltenberg, continuano a caratterizzare la Nato, la cui più grande responsabilità è «salvaguardare la libertà e la sicurezza» non solo dei paesi dell’Alleanza, ma anche dei suoi partner.

Il 2015, purtroppo, ha dimostrato che «l’insicurezza all’esterno mina la nostra sicurezza all’interno». Ciò a causa dei «brutali attacchi terroristi alle nostre città», della «crisi dei rifugiati», delle «reiterate azioni della Russia in Ucraina» e della sua «espansione militare in Siria e nel Mediterraneo orientale». Si capovolge in tal modo la realtà, nascondendo che la causa fondamentale di tutto questo è la serie di guerre condotte nel quadro della strategia Usa/Nato: Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria dal 2013, accompagnate dalla formazione dell’Isis e altri gruppi terroristi funzionali alla strategia Usa/Nato, dall’uso di forze neonaziste per il colpo di stato in Ucraina funzionale alla nuova guerra fredda contro la Russia.

Per «salvaguardare la libertà e la sicurezza», sottolinea Stoltenberg, la Nato ha preso nel 2015 tutta una serie di «misure di rassicurazione, sostenute da circa 300 esercitazioni militari». Dal rapporto si capisce che questo è solo l’inizio di un colossale rilancio militare della Nato. Dopo l’attivazione di «piccoli quartieri generali» in Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Ungheria e Slovacchia, viene deciso di «preposizionare materiale militare nell’Est europeo, così da poter rapidamente rafforzare, se necessario, gli alleati orientali». Viene deciso allo stesso tempo di potenziare la «Forza di risposta», aumentata a 40mila uomini, in particolare della «Forza di punta ad altissima prontezza operativa» che, come ha dimostrato l’esercitazione Trident Juncture 2015, può essere proiettata in 48 ore «ovunque in qualsiasi momento». Allo stesso tempo si annunciano ulteriori misure per «rafforzare la difesa collettiva» verso Sud. La Nato è dunque pronta ad altre guerre in Medioriente e Nordafrica, a partire dalla Libia.

Il quadro presentato da Stoltenberg riporta in primo piano la questione politica di fondo.
L’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che «la politica dell’Unione rispetta gli obblighi di alcuni Stati membri, i quali ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico». Poiché sono membri della Alleanza atlantica 22 dei 28 paesi della Unione europea, è evidente il predominio della Nato. Inoltre, il protocollo n. 10 sulla cooperazione istituita dall’art. 42 sottolinea che la Nato «resta il fondamento della difesa collettiva» della Ue, e che «un ruolo più forte dell’Unione in materia di sicurezza e di difesa contribuirà alla vitalità di un’Alleanza atlantica rinnovata». Rinnovata sì, ma rigidamente ancorata alla vecchia gerarchia: il Comandante supremo alleato in Europa è sempre nominato dal presidente degli Stati uniti e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave. Gerarchia accettata dalle oligarchie politiche ed economiche europee che, pur in concorrenza con quelle statunitensi e anche l’una con l’altra, convergono (pur a differenti livelli) quando si tratta di difendere l’«ordine mondiale» dominato dall’Occidente.

In veste di portavoce di Washington, dopo aver annunciato l’azzeramento dei tagli ai bilanci della difesa, Stoltenberg preme sugli alleati europei perché destinino alla spesa militare almeno il 2% del pil.

Obiettivo raggiunto finora, oltre che dagli Usa, da Grecia, Polonia, Gran Bretagna e Danimarca. L’Italia viene inserita tra gli ultimi, con una spesa ufficiale per la «difesa» inferiore all’1% del pil, corrispondente pur sempre a circa 46 milioni di euro al giorno. Ma c’è il trucco. Spese militari per diversi miliardi, comprese quelle per le «missioni» all’estero, sono iscritte in altre voci del bilancio. E tutte escono sempre dalle nostre tasche.

Europei brava gente. «C’è da temere per il nostro futuro, se siamo quelli che sembriamo essere oggi».

La Repubblica, 29 gennaio 2016 (m.p.r.)

Stretti nella morsa della crisi migratoria e della minaccia terroristica - spesso assurdamente presentate come due facce della stessa medaglia - c’è da temere non tanto per il futuro dell’Unione Europea: che fosse un guscio vuoto, senz’anima né orgoglio, era già evidente prima di questa doppia sfida. In questione è ora il carattere delle nostre democrazie. Nessuna esclusa. Più precisamente: che ne è dei valori di libertà e di tolleranza ricamati nelle nostre costituzioni e fieramente esibiti al mondo come paradigma di civiltà?

È la cronaca che ci impone questa dolorosa interrogazione. Ieri il governo di Stoccolma ha annunciato che rispedirà in patria - una patria ridotta a cumulo di macerie - ottantamila richiedenti asilo. Eppure la Svezia è una delle più solide democrazie continentali, che ha sempre generosamente accolto migranti d’ogni colore. E dove fino allo scorso anno il centrodestra affrontava in campagna elettorale la questione migratoria con lo slogan “Aprite i vostri cuori!”. Oggi non salterebbe in mente nemmeno alla sinistra.
La pulsione xenofoba, particolarmente diffusa tra Mar Baltico e Mar Nero - la fascia continentale più sfidata da imponenti flussi migratori - investe persino le due maggiori democrazie continentali: Francia e Germania.
A Parigi, un governo di sinistra, nel finora malriuscito tentativo di sottrarre consensi al Fronte Nazionale, si spinge a rivedere la Costituzione in senso securitario sull’onda emotiva delle stragi del 13 novembre. Le dimissioni del ministro della Giustizia Christiane Taubira - contro la proposta revoca della nazionalità ai cittadini con doppio passaporto, nati in Francia e colpevoli di terrorismo - sono un’eccezione che non modificherà la regola.
A Berlino, dopo i fatti di Colonia i sondaggi danno Alternativa per la Germania ben oltre il 10 per cento: nel prossimo Bundestag avremo per la prima volta dopo la fine della Seconda guerra mondiale una forte destra ipernazionalista e antieuropea. Con cui la signora Merkel, sotto tiro nel suo stesso partito per l’iniziale apertura ai migranti, dovrà fare necessariamente i conti. In tutta Europa vige ormai la prassi dello scaricamigrante, secondo una rigorosa direttrice Nord-Sud. Chi sta più a Settentrione cerca di bloccare il migrante - per quattro quinti profughi in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan e altre zone di guerra - per rispedirlo al vicino meridionale.
Un quarto di secolo dopo l’abbattimento del Muro di Berlino risorgono barriere fisiche e informali, dal filo spinato ai cordoni di polizia ed esercito. Schengen è di fatto sospesa in una mezza dozzina di Paesi. L’Unione Europea rischia di trasformarsi in arcipelago di ghetti. Incomunicanti e ostili. In alcune cancellerie europee si dibatte su come trasformare la Grecia in gigantesco campo profughi, cacciandola dal sistema Schengen visto che non siamo (ancora) riusciti ad espellerla dall’eurozona. Qualcuno propone di affondare le barche dei migranti.
Dovunque latita una strategia di medio periodo e si preferisce trattare questo dramma quasi fosse un’emergenza, non per quello che è: parte decisiva della nostra vita di qui al futuro prevedibile.
Nessun leader politico pare disposto a considerare un’alternativa razionale all’attuale deriva securitaria. Per esempio selezionare nei Paesi di frontiera con l’Unione Europea, a cominciare dalla Turchia, chi ha diritto ad essere accolto come rifugiato in casa nostra e chi invece non può aspirarvi. Ricevendo civilmente i primi e remunerando adeguatamente i paesi esterni all’Ue che dovranno continuare a ospitare diversi milioni di donne, bambini e uomini. I quali non hanno più casa loro e difficilmente ne avranno un’altra.
Nelle prossime settimane il clima è destinato a peggiorare. Sta infatti per scattare, salvo ripensamenti improbabili, la nuova spedizione militare franco-britannica-americana, con qualche partecipazione italiana, in quel che resta della Libia. Obiettivo: sradicarvi lo Stato Islamico. Il quale non aspetta di meglio per ostentarsi campione della resistenza libica contro i crociati occidentali. E per scatenare le sue cellule europee contro gli “invasori”. Gettando nuova benzina sul fuoco delle xenofobie nostrane, in un circuito perverso di azioni e reazioni irrazionali.
La storia dimostra che l’angoscia collettiva è un mostro difficilmente addomesticabile. Ma rinunciare a combatterlo, per chi si professa democratico e liberale, equivale al suicidio politico. Quello cui si sta dedicando con ammirevole acribia buona parte della sinistra europea.

l Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2016


STATUE NASCOSTE, SI NASCONDE ANCHE IL GOVERNO RENZI

Inchino a RouhaniNessuno si prende la colpaFranceschini: “Né ioné il premier sapevamo”.Tronca chiede contoalla Sovrintendenza di Roma
Che cosa è successonel corridoio deiMusei Capitolini inCampidoglio al passaggiodel presidente iranianoHassan Rohani? Chi hadeciso di nascondere le opered’arte, quelle statue patrimoniodella cultura italiana edell’umanità, dietro degliimbarazzanti involucri? Chiha occultato non solo le statuema anche alcune porcellanee dipinti del Cinquecento?Il ministro dei Beni culturaliDario Franceschini affermadi non aver preso partealla decisione e che, allo stessomodo, neppure il premiersapesse.

1. Di chi è la responsabilitàper quanto accaduto ai MuseiCapitolini? Forse di RomaCapitale?
«Sulla vicenda delle statuedei Musei Capitolini - chiariscela Sovrintendenza aiBeni culturali di Roma Capitale- coperte in occasionedella visita del presidente iranianoRohani dovete chiederea Palazzo Chigi. La misuranon è stata decisa da noi,è stata un’organizzazione diPalazzo Chigi non nostra».Comunque sia il commissariostraordinario FrancescoPaolo Tronca ha chiesto alsovrintendente Claudio ParisiPresicce una relazionescritta su quanto accaduto.L’evento è stato ospitato inCampidoglio ma organizzatoda Palazzo Chigi, resta daaccertare chi fosse a conoscenzadi questa decisione echi no.

2. Quali spiegazioni ha fornitoil governo fin qui?
Il primo a prendere posizione,ieri mattina, a scacciare lecritiche e a iniziare lo scaricabarile è il ministro dei Beniculturali Dario Franceschini:«Non era informato né ilpresidente del Consiglio né ilsottoscritto di quella sceltadi coprire le statue».

3. Che cosa ha detto Renzi ariguardo?Nulla.
Il premier MatteoRenzi, dal canto suo, sollecitatodai giornalisti nel pomeriggiodopo il discorso in Senatorisponde così: «Oggiparlo di banche», e poi ancora:«Bersani? Verdini? Poi tisbagli e dici che copri loro...».

4. È davvero possibile chenessuno avesse informatoRenzi o qualcuno a lui vicino?
Solo nel pomeriggio di ieri,intorno alle 15, Palazzo Chigidetta queste note alle agenzie:«Il segretario generale diPalazzo Chigi Paolo Aquilantiha avviato una indagineinterna per poter accertare leresponsabilità e fornire, conla massima sollecitudine,tutti i chiarimenti necessarirelativi alla organizzazionepresso i Musei Capitolinidella visita in Italia del Presidenteiraniano Rohani. Losi apprende da fonti di PalazzoChigi».

5. Dove potrà arrivare l’indagineinterna di PalazzoChigi?
L’ufficio a forte rischio èquello del Cerimoniale. Lastruttura è guidata dal 2013da Ilva Sapora, finito più voltenel mirino, l’ultima pochesettimana fa per il caso deidoni alla delegazione italiananel viaggio in Arabia Saudita.L’indagine di Aquilantidovrà proprio “accertare leresponsabilità”. Sino ad allora,le ipotesi non mancano.

6. Chi era presente durantei sopralluoghi?
Nei giorni antecedenti allavisita di Rouhani, come daprotocollo, sono stati diversii sopralluoghi del cerimonialee della sicurezza di palazzoChigi in Campidoglio inteam con i rappresentanti delgoverno iraniano.

7. Quindi la decisione è statapresa su richiesta delladelegazione iraniana?
No, almeno a quanto dichiaratodallo stesso Rohani ieri:«È una questione giornalistica.Non ci sono stati contattia questo proposito. Posso diresolo che gli italiani sonomolto ospitali, cercano di faredi tutto per mettere a proprioagio gli ospiti, e li ringrazioper questo». Palazzo Chigisostiene che la decisione dicoprire le statue sarebbe statapresa senza un via libera alivello politico. Altra ipotesi,di cui molto si è parlato traieri e oggi è quella di un “eccessodi zelo”di qualche funzionariointerno che avrebbepreso una decisione di sua iniziativa.Ma, ancora per usarele parole di Franceschini,«ci sarebbero stati facilmentealtri modi per non andarecontro alla sensibilità diun ospite straniero così importante».

8. Qualcuno pagherà?
In attesa degli esito dell’indagine,non mancava chi ingiornata in Parlamento parlavadi avvicendamenti e unariorganizzazione nell’ufficiodel Cerimoniale del governo.


BENI TURALI

di Marco Travaglio
Ma dai, su, chi potrebbe mai sospettare che Renzi fosse informato dell’impacchettamento delle statue ignude dei Musei capitolini per coprirne le pudenda ed evitare che sua eminenza Hassan Rouhani s’imbarazzasse o si arrapasse. È evidente, come scrivono a una voce sola Repubblica e il Corriere, che il premier non sapeva. Anzi, ci è rimasto proprio male per «l’eccesso di zelo». Lui che decide tutto, controlla tutto, rastrella tutto (anche i Rolex d’oro) e, se avesse una puntina di tette, farebbe pure la ministra delle Riforme, era all’oscuro di tutto.
La conferma è arrivata ieri da una fonte al di sopra di ogni sospetto: il ministro dei Beni Culturali (con rispetto parlando) Dario Franceschini, il quale giura che “né il presidente del Consiglio né il sottoscritto eravamo informati della scelta incomprensibile di coprire le statue”. E c’è da credergli: siccome anche la Sovrintendenza invita a “rivolgersi a Palazzo Chigi”, devono aver fatto tutto quei diavoli del Cerimoniale della Presidenza del Consiglio, capitanati dalla dottoressa Ilva Sapora, già custode discreta di un altro segreto: l’arraffa-arraffa dei Rolex gentilmente offerti dal sovrano saudita a Renzi & C. e prontamente scomparsi dalla circolazione. Dunque le cose l’altro giorno devono essere andate così. La security del presidente iraniano, nel sopralluogo ai corridoi del Campidoglio che l’illustre ospite avrebbe dovuto attraversare al fianco di Renzi fino alla sala dell’Esedra per la conferenza stampa senza domande, ha notato le sculture senza veli collezionate da quegli sporcaccioni dei Papi e ne ha preteso l’immediato oscuramento (senza peraltro obiettare nulla su tutte quelle corde stese a mo’ di transenna, possibili allusioni alle forche più che mai in funzione nell’illuminato Iran).
Il Cerimoniale ha subito provveduto, ovviamente senza consultare il capo: l’aveva già fatto nell’ottobre scorso a Firenze durante la visita del principe ereditario degli Emirati, ricevuto a Palazzo Vecchio dal premier ed ex sindaco Renzi, coprendo con un paravento gigliato un calco di gesso con un nudo di Jeff Koons (fra l’altro, ex marito di Cicciolina). Solo che stavolta un paravento non bastava. Subito scartate le prime tre ipotesi all’ordine del giorno. 1)Bombardare o far saltare con la dinamite le pornostatue come han fatto i talebani con quelle di Buddha e l’Isis con i capolavori dell’arte assiro-babilonese.

2) Riesumare i vecchi cari mutandoni usati nella Controriforma da Santa Romana Chiesa per celare gli organi genitali istoriati nella Cappella (sempre con rispetto parlando) Sistina e nei Musei Vaticani. Ma oggi insorgerebbe anche Sua Santità, che non pare turbato da quei nudi d’arte, per giunta opera di noti gay tipo Michelangelo, Leonardo e forse Caravaggio. 3) Mascherare peni e tette marmoree appendendovi un certo numero di Rolex d’oro made in Ryad. Ma i preziosi orologi erano tutti al polso della delegazione italiana e pareva brutto chiederli indietro. Così si è optato per un’idea altamente innovativa e anche esteticamente gradevole, a riprova del fatto che la nuova Italia renziana “cambia verso” anche nella censura: costruire una decina di scatoloni a parallelepipedo di compensato, dipingerli di bianco e usarli come scafandro per le statue più impudiche.

All’epoca del nudo di Koons tutti scrissero che la censura l’aveva ordinata Renzi, allora tutt’altro che amareggiato visto che l’“eccesso di zelo” era suo. Stavolta invece, siccome ci ride dietro mezzo mondo (quello non islamico), dice indignato che non sapeva. Strano, perché i corridoi del Campidoglio impreziositi da quei cassoni bianchi di compensato li ha percorsi anche lui, accanto a Rouhani. Chissà cos’avrà pensato nel vederli: “Carino questo allestimento di arte contemporanea, mi ricorda quello con Sordi e la buzzicona sulla sedia alla Biennale di Venezia”. Oppure: “Parliamo sottovoce, la Venere Esquilina, Eros e Dioniso stanno ancora riposando nelle loro casette di legno”. O ancora: “Chissà perché le nostre belle statuine han preso l’ascensore”. O magari: “Che gentili, gli iraniani: guarda quanti pacchi dono mi han portato, ora mi sbrigo con i giornalisti poi me li scarto con calma”. Invece, amara sorpresa: censura, ecco che cos’era.
Disappunto, scandalo, orrore. Perché sia chiaro: noi siamo tutti Charlie, noi siamo in prima fila nella guerra di civiltà, noi difendiamo l’identità occidentale, noi non ci pieghiamo al fanatismo, noi non cambiamo stile di vita, noi non abbiamo paura di una Venere desnuda. E che diamine. Qualcuno pagherà (gli altri). Però sarebbe un peccato gettar via quei cassoni. Possono sempre tornare utili, specie ora che Verdini e la sua fairy band entrano ufficialmente al governo: si potrebbero usare per coprirli mentre votano la fiducia, se no poi Mattarella sospetta che sia cambiata la maggioranza e, casomai ritrovasse l’uso della parola, magari chiede spiegazioni. Ma potrebbero rendersi preziosi anche per i ministri che sabato sfileranno al Family Day contro il loro governo. Fossero già stati disponibili un paio d’anni fa, papà Boschi avrebbe potuto scafandrarsi per bene ed evitare di farsi beccare a braccetto con Flavio Carboni. Meglio conservarli al ministero dei Beni Culturali, sempre parlando con pardon. Anzi, per non urtare la sensibilità degli arabi moderati, è allo studio un’altra Grande Riforma. Via l’ambiguo prefisso Cul: chiamiamolo ministero dei Beni Turali e non se ne parli più.


“AVREBBERO FATTO MEGLIO A RICEVERLO TRA FERRARI E PIATTI DI SPAGHETTI”
intervista di Emiliano Liuzzi a Philippe Daverio

«Èil simbolo del pressappochismoall'italiana. Probabilmentenella fretta della rottamazionerenziana hannomandato via anche quelli cheun minimo conoscono le regole:hanno sostituito il maggiordomocon un maniscalco». Aparlare Philippe Daverio, storicodell’arte, docente universitario,cavaliere dell’ordinedella Legion d’onore in Franciae medaglia d’oro ai benemeriti dellaCultura e dell’arte in Italia. Ovviamentesi riferisce alla visita di Rouhani aRoma e alle statue oscurate.

Come può essere venuta in mente unacosa del genere?
Non ho idea. mancano davverole basi della corretta diplomaziae ospitalità. Hanno fattouna sciocchezza, ma ripeto,sono la metafora di quest’Italia.Non dovevano ricevereRouhani in un museo. Dovevanoospitarlo in un garage inmezzo alle Ferrari e con unpiatto spaghetti. Quello avrebbeapprezzato moltissimo,si sarebbe fatto riprenderedalle sue tv sorridente e nonci sarebbe stata nessuna polemica.Le basi, mancano anche quelle.Con un ulteriore avvertimento per laprossima visita.

Quale avvertimento?
Il vino. No, il vino non si può. Dell'ottimaacqua minerale, ma quelli chehanno sostituito il maggiordomo sappianoche a tavola con Rouhani nondeve esserci il vino.

Siamo irrimediabilmente cafoni?
Lo siamo più di prima. Gheddafi,nell’ultima visita, lo misero in una tenda.Viveva in una tenda, gli allestironouna tenda, non un museo.

Eppure siamo il Paese della “GrandeExpo”...
Lasciamo perdere, hanno fatto anchepeggio: i visitatori, quelli di altre religionie culture, accolti all’aeroportodalle statue coi salami appesi ai genitali.Manco sono usciti per arrivare incentro, hanno preso il primo aereo esono rientrati a casa. Se proprio vogliamo,a Roma, hanno fatto quasi unpasso avanti.

«Mai che cresca una sana psicosi e un tonico odio contro le guerre. Così il finto fucilino di plastica genera allarme e paura, mentre regna un silenzio "disarmato copre le guerre» cui l'Italia partecipa, direttamente oppure con i carichi di armamenti che partono dalle sue operose fabbriche di morte».

Ilmanifesto, 28 gennaio 2016

«Col fucile finto tra i binari. Un’ora di paura»: suonavano come rimprovero i titoli dei giornaloni e giornalini in questi giorni, rivolto al malcapitato padre ciociaro presunto «terrorista». Giacché alla stazione Termini, cuore pulsante della capitale d’Italia, se ci si deve proprio andare bisogna portarsi almeno un fucile vero. Se non altro per giustificare l’apparato di presidi armati che ha militarizzato la scena delle nostre città. Apparato che, di fronte alla minaccia cresciuta d’intensità in Italia per fortuna solo per la brutta bestia della psicosi collettiva dopo gli attentati di Parigi, si è subito pericolosamente schierato in armi.

E contro cittadini inermi che prendevano un treno o tornavano da un viaggio. Pancia a terra, mani in alto, perquisizioni, armi da guerra sfoderate dai militari. Subito in campo per l’avvistamento in un monitor di un uomo armato di fucile e per una voce su «spari». Senonché alla fine l’arma si è rivelata finta. Resta vero il terrore vissuto da chi si è trovato le armi spianate davanti.

E restano altrettanti interrogativi. Se l’arma fosse stata vera e poteva tranquillamente esserlo, a che serve quel dispositivo di guerra in atto con sentinelle armate fino ai denti e ovunque che ci troviamo davanti ogni giorno? Siamo sicuri che alpini e marò con armi automatiche in mano nei metrò e nelle stazioni ferroviarie siano davvero un presidio preventivo o non piuttosto una occasione in più di pericolo? Visto il semplice fatto che ogni volta che passiamo loro davanti siamo frapposti, cioè stiamo in mezzo, al bersaglio di una vera o presunta sparatoria contro veri o presunti terroristi: vale a dire che siamo da subito morti predestinati. Dobbiamo abituarci allo stato di guerra, a quell’emergenza che vede i profughi come nemici e che ormai non convince più nemmeno la ministra della giustizia francese Christiane Taubira che per questo ha deciso di lasciare la compagine governativa di Hollande.

Ora, naturalmente, bisogna trovare il colpevole per quei minuti di scene di guerra nel cuore di Roma. È il «terrorista ciociaro», dato «in fuga» ad Anagni che, inconsapevole, rischia ora di essere accusato di procurato allarme. Eppure la sua unica colpa è quella di avere perseverato nella pessima abitudine di regalare armi giocattolo al «figlio maschio» (articoli del resto in vendita in tutti i negozi d’Italia).

Tant’è. La brutta bestia della psicosi collettiva accredita attentati, pericoli e paura ad ogni angolo. Grazie anche ai media mainstream che, dimenticando il ruolo delle nostre guerre in Iraq, Libia e Siria che hanno prodotto il terrorismo che oggi ci torna in casa, alimentano ogni giorno questo clima scaldando i motori delle nuove guerre che si annunciano in calendario, a partire dal re-intervento in Libia. Una crisi ossessiva, tardo-coloniale, per la quale l’Italia ha auspicato un governo «unitario» solo per fare la guerra, per augurarsi poi che non ci sia per farla subito alle dipendenze degli Usa che, anche loro, già ri-scaldano i motori cancellando i disastri che lì hanno provocato.

Mai che cresca una sana psicosi e un tonico odio contro le guerre. Così il finto fucilino di plastica genera allarme e paura, mentre regna un silenzio «disarmante» sui dati internazionali del Sipri che dicono che l’Italia spende 80 milioni di euro al giorno per le spese militari vere; o per le vagonate di armi altrettanto reali che ogni giorno inviamo dai nostri aeroporti – come in questi giorni da Cagliari – all’alleata Arabia saudita che ha inventato lo Stato islamico.

Che il falso sia una forma che interpreta e svela il vero?

Il manifesto, 28 gennaio 2016

La mappa di studiosi italiani di varie discipline, che qui viene cartografata, nasce un po’ per gioco, un po’ per curiosità ricognitiva dell’arcipelago dei saperi dispersi del nostro paese.

Si tratta di una geografia tracciata alla buona, fondata su conoscenze personali, su rapide ricognizioni bibliografiche oltre che su qualche amichevole suggerimento. Dunque inevitabilmente lacunosa. Essa comprende per lo più docenti universitari di tutte le fasce, anche ricercatori precari, poche figure intellettuali autonome, alcuni docenti scolastici che possiedono un loro rilievo intellettuale e svolgono un ruolo importante di organizzatori culturali nel proprio territorio.

Un elenco, necessariamente incompleto (mancano artisti, editori, giornalisti, uomini di cinema e di teatro, personalità di spicco fuori dall’accademia) che vuole costituire solo l’occasione per l’avvio di una riflessione di carattere generale. Ci auguriamo che venga infoltito da chi non abbiamo incluso per ovvio riserbo o per dimenticanza.

Che cosa unisce queste figure tra loro così diverse per specifico peso intellettuale, per impegno militante e appartenenti a così diversi campi del sapere?

Un comune denominatore molto ampio, in grado di tenere insieme anche posizioni politiche distanti: la critica alla cultura neoliberistica, alle sue strategie e alle sue pratiche.

La messa in evidenza di tante intelligenze convergenti in un fronte culturale differenziato, ma comune, mostra una potenzialità egemonica resa inattiva dalla loro frantumazione. In assenza di un grande collettore politico generale, esse si disperdono individualmente nei singoli campi specialistici, senza riuscire a elaborare il progetto di controffensiva teorico-politica che la fase storica richiederebbe.

Appartiene ormai al senso comune il fallimento delle politiche neoliberistiche che hanno imperversato negli ultimi 30 anni. Ma vi appartiene ormai anche la constatazione della loro vitale persistenza pratica: benché la sostanza egemonica si sia dissolta, lasciando il posto al puro scheletro del dominio.

In verità, appare ormai evidente che il neoliberismo non è più tanto un corpo di dottrine, non sono soltanto i dettami di Ayeck o di Friedman, economisti defunti che dirigono ancora le menti dei loro colleghi viventi.

Il neoliberismo è la forma di razionalità assunta dal capitalismo nel nostro tempo, è il capitalismo all’opera. Ma il suo fallimento storico, oltre che in tutto ciò che appare evidente – la crisi economica, le disuguaglianze crescenti, l’instabilità dei sistemi politici, lo svuotamento della democrazia, le guerre come mezzo di regolazione dei rapporti internazionali, i gravi squilibri ambientali –andrebbe considerato anche in un aspetto poco osservato, eppure di grande significato.

Le società capitalistiche contemporanee, al cui interno è sorta una così straordinaria varietà di saperi, di conoscenze, di orizzonti intellettuali – come quelli che figurano nella nostra parzialissima mappa — sono sempre più dominate, com’è noto, da un pensiero unico.

Tanta ricchezza dell’umana ricerca e intelligenza finisce per confluire, trova il suo fine ultimo, come in un paradossale imbuto, nel basso orizzonte di una razionalità prossima a una forma di ossessione. Di fronte alla inedita varietà delle forme e delle direzioni di lettura e rappresentazione del mondo, che i vari gruppi intellettuali oggi sono in grado di offrire, la razionalità capitalistica riduce e immiserisce la complessità, tende a imbrigliare la realtà sociale nelle maglie di pochi imperativi di dominio: supremazia dei mercati, competizione, efficienza d’impresa, capacità di prestazione, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato. E ormai sappiamo che non si tratta di regolamentazioni esterne al libero fluire della società, che consentono poi la piena espressione delle libertà individuali. Questo lo immaginavano illusoriamente i soci di Monte Pelerin.

Al contrario, esse plasmano e innervano l’intero universo delle relazioni umane, forgiano le soggettività, entrano nelle coscienze e le piegano al loro dominio unidimensionale. E infatti appare evidente come gli individui “resi liberi” dalla razionalità capitalistica non solo annaspano in una società agonistica e desertificata, ma sono compulsivamente spinti nel tunnel di un unico scopo replicativo: produrre e consumare sempre di più.

Le necessità elementari dell' homo sapiens, quelle che sono state la base della sua sopravvivenza, produrre e consumare, per l’appunto, sono diventati gli obblighi ossessivi degli individui nelle società capitalistiche mature.

A partire da tale constatazione si dovrebbe comprendere quale rilievo politico di portata strategica viene ad assumere il dialogo tra le discipline e i saperi per ricomporre una razionalità generale contrapposta alla desertificazione nichilistica presente.

Dialogo reso drammaticamente urgente da una constatazione a cui non ci si può sottrarre. La maggiore minaccia globale che si erge davanti a noi, il riscaldamento climatico, è stata resa possibile anche dalla direzione che hanno preso le scienze contemporanee, impegnate, ciascuna nel proprio ambito, a indagare e manipolare la natura smembrata in campi separati (della chimica, della botanica, della fisica, della genetica, ecc) a fini di dominio economico. Nessuna di esse ha guardato alla natura come a un tutto connesso, un sistema di equilibri da pensare nella sua totalità. Non per nulla l’Onu ha istituito l’Ipcc, consesso mondiale di saperi multidisciplinari per lo studio del clima, a fini di previsione e di riparazione del danno compiuto.

Dunque, per venire ai possibili scopi operativi, costituirebbe un passo importante mettere insieme, anche solo con una organizzazione in rete, un’associazione i cui membri, pur da posizioni politiche differenti, si sentissero impegnati a dialogare sul piano teorico e culturale.

L’obiettivo da perseguire è una critica multidisciplinare della razionalità neoliberista, tentare i sentieri di una possibile cooperazione tra i saperi, in grado di fondere scienze della natura e umanesimo quale base di un nuovo progetto di società.

Una Lega Italiana Contro il Liberismo, anche nella sua forma virtuale, otterrebbe già il risultato di rendere visibile ciò che oggi è disperso, di attrarre e aggregare energie, rendere possibile una comunità cooperante di pensiero e di ricerca. Non è un surrogato del nuovo soggetto politico. E’ altra cosa.

Siamo convinti che la sconfitta delle sinistra in Occidente ha origini in un tracollo culturale e dunque di egemonia, nell’incapacità dei partiti operai e popolari di fornire soluzioni ai problemi del capitalismo nel secondo ‘900. Mentre i successi dello stato sociale hanno narcotizzato per decenni il pensiero critico e l’antagonismo delle élites intellettuali.

Non siamo peraltro così ingenuamente illuministi da credere che un simile esperimento possa esaurirsi in un ambito esclusivamente culturale. I mutamenti del pensiero, le sue creazioni, sono figli del conflitto. Marx non sarebbe stato Marx senza Hegel e Ricardo, ma soprattutto senza il 1848: l’anno delle rivolte operaie e popolari in tutta Europa. E tuttavia non sono certo i conflitti che mancano al nostro tempo, destinati a ingigantirsi e inasprirsi per effetto delle disuguaglianze crescenti.

Ciò che manca, in una società che tende a dissolvere nel mercato istituzioni e forze organizzate, a privare gli individui del collettivo sociale, a sbriciolare perfino le forze oppositive in frazionismi settari, è la capacità di aggregare, di creare presidi unitari, istituzioni sottratte alla razionalità che divide gli uomini e li domina.

Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline

Economisti

Nicola Acocella, Piergiovanni Alleva, Alberto Bagnai, Andrea Baranes, Leonardo Becchetti, Nicolò Bellanca, Fabrizio Barca, Giacomo Becattini, Giampiero Betti, Mauro Bonaiuti, Emanuele Brancaccio, Mauro Callegati, Guglielmo Carchedi, Roberto Cellini, Domenico Cersosimo, Roberto Ciccone ‚Pierluigi Ciocca, Valeria Cirillo, Vincenzo Comito, Marcello De Cecco, Amedeo Di Maio, Marta Fana, Lia Fubini, Andrea Fumagalli,Giorgio Gattei, Adriano Giannola, Sergio Cararo, Nadia Garbellini, Francesco Garibaldo, Enrico Grazzini, Maurizio Franzini, Wladimiro Giacché, Paolo Leon, Giorgio Lunghini, Riccardo Bellofiore, Riccardo Realfonzo„ Thomas Fazi, Mario Pianta, Ugo Marani, Loretta Napoleoni„ Antonella Stirati, Laura Pennacchi, Michele Raitano, Alessandro Roncaglia, Giorgio Ruffolo, Stefano Sylos Labini, Luciano Vasapollo, Daniela Venanzi, Giovanna Vertova Gianfranco Viesti, Carmen Vita, Stefano Zamagni, Alberto Zazzaro.

Filosofi

Ferdinando Abri, Giorgio Agamben, Daniele Balicco, Mauro Bertani, Remo Bodei, Roberto Bondi, Romeo Bufalo, Alberto Burgio, Rosa M. Calcaterra, Giuseppe Cantarano, Massimo Cappitti, Roberto Ciccarelli, Felice Cimatti, Elena Gagliasso, Cristina Corradi, Giuseppe Cacciatore, Fortunato Maria Cacciatore, Giuseppe Cantillo, Gregorio de Paola, Delfo Cecchi, Fabio Ciaramelli, Pio Colonnello, Francesco Coniglione, Girolamo Cotroneo, Lucio Cortella,Vincenzo Costa, Roberto Esposito, Paolo Godani, Paolo Flores D’Arcais, Diego Fusaro, Guido Liguori, Fabrizio Lomonico, Nicolao Merker, Stefano Petrucciani, Massimo Cacciari, Daniela Falcioni, Roberto Finelli, Pino Ferraris, Eugenia Lamedica, Sefio Landucci, Laura Marchetti, Gianfranco Marelli, Giacomo Marramao, Maurizio Matteucci, Marco Maurizi, Toni Negri, Nuccio Ordine, Domenico Losurdo, Ottavio Marzocca, Giuseppe Cognetti, Nario Pezzella, Pier Paolo Poggi, Giuseppe Prestipino, Fabio Raimondi, Massimo Recalcati, Nicola Siciliani de Cumis, Fulvio Tessitore, Massimiliano Tomba, Franco Toscani, Mario Tronti, Nadia Urbinati, Emilio Sergio, Francesco Trincia, Amando Vitale, Giovanbattista Vaccaro, Luigi Vavalà, Gianni Vattimo, Maurizio Viroli.

Giuristi

Francesco Adornato, Gaetano Azzariti, Dario Bevilacqua, Giuseppe , Valerio Calzolaio, Angelo Antonio Cervati, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Gianpaolo Fontana, Paolo Grossi, Luciano Guerzoni, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei, Paolo Maddalena, Massimo Morisi, Lorenza Carlassare, Luciano Patruno, Stefano Rodotà, Massimo Villone, Carlo Desideri, Elisa Olivito, Alessandro Pace, Francesco Pallante, Lorenza Paoloni, Livio Pepino Livio Pepino, Pietro Ugo Rescigno, Umberto Romagnoli, Roberto Scarpinato, Raffaele Teti, Giuseppe Vecchio, Gustavo Zagrebelsky, Danilo Zolo.

Sociologi, politologi, antropologi

Aris Accornero, Giuseppe Allegri, Gennaro Avallone, Arnaldo Bagnasco, Marzio Barbagli, Amendola, Sergio Bologna, Paola Borgna, Matilde Callari Galli,Franco Cassano, Andrea Cerroni, Stafano Cristante, Ilvo Diamanti, Alessandra Dino , Carlo Donolo, Pietro Clemente, Carlo Galli, Alberto Giasanti, Rita di Leo„ Piero Ignazi, Paolo Jedlowsky, Emanuele Ferragina, Benedetto Meloni, Alfio Mastropaolo, Enrico Pugliese, , Alessandro Lupo, Franco Ferrarotti, Maria Immacolata Maciotti, Pierluca Marzo, Sandro Mezzadra, Fabio Mostaccio, Bernardino Palumbo, Luigi Pellizzari, Tonino Perna, Raffaele Rauty , Marco Revelli, Onofrio Romano, Angelo Salento, Chiara Saraceno , Rocco Sciarrone, Renate Siebert, Alberto Sobrero ‚Vito Teti, Maria Turchetto, Daniele Ungaro.

Architetti, Geografi, Urbanisti

Ilaria Agostini, Paolo Baldeschi, Mauro Baioni, Angela Barbanente, Paolo Berdini, Paola Bonora, Roberto Budini Gattai, Giovanni Caudo, Angelo Cirasino, Maria Cristina Gibelli, Vezio de Lucia, Giorgia Boca, Ilaria Bonirubini, Fabrizio Bottini, Sergio Brenna, Arnaldo Cecchini, Carlo Cellamare, Pierluigi Cervellati, Giancarlo Consonni, Flavia Cristaldi, Lidia De Candia, Giuseppe De Matteis, Anna Donati, Franco Farinelli, Rita Gisotti, Claudio Greppi, Maria Pia Guermandi, Domenico Gattuso, Francesco Indovina, Teresa Isenburg, Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Alberto Magnaghi, Lodo Meneghetti, Francesca Leder, Ezio Manzini, Barnardo Rossi Doria, Alessandro Bianchi, Anna Marson, Edoardo Milesi, Giancarlo Paba, Pancho Pardi, Adriano Paolella, Rita Paris, Marco Picone, Ezio Righi, Chiara Rizzica, Michelangelo Savino, Massimo Quaini. Maria Pia Robbe, Gianni Scudo, Maria Cecilia Scopetta, Maria Adele Teti, Daniele Vannetiello, Maria Rosa Vittadini, Alberto Ziparo.

Letterati (scrittori, storici della letteratura e della cultura)

Fulvio Abate, Alberto Abruzzese, Roberto Antonelli, Franco Arminio, Alberto Asor Rosa, Gian Luigi Beccaria, Pierluigi Bellocchio, Andrea Camilleri, Remo Cesarani, Leonardo Colombati, Giulio Ferroni, Sivia De Laude, Tullio De Mauro, Nicola Gardini, Goffredo Fofi, Giorgio Inglese, Nicola La Gioia, Romano Luperini, Maurizio Maggiani, Raffale Manica, Franco Marcoaldi, Claudia Micocci, Ugo Olivieri, Mario Porro , Valeria Parrella, Raffaele Perrelli, Elisabetta Mondello, Raul Mordenti, Giovanni Ragone, Omerita Ranalli, Vito Santoro, Raffaele Simone, Walter Siti , Monica Storini, Lucia Strappini, Enrico Terrinoni, Enrico Testa, Giorgio Todde, Emanuele Trevi, Sandro Veronesi, Pasquale Voza, Marina Zambron.

Scienziati (agronomi, biologi, fisici, giornalisti scientifici, ecc)

Giuseppe Barbera, Silvia Bencivelli, Carlo Bernardini,Gianluca Bocchi, Marcello Buiatti, Gianluca Brunori, Franco Dessì, Emanuela Guidoboni , Mario Ginapietro, Pietro Greco,Tommaso Lamantia, Matteo Lener, Ginevra Virginia Lombardi, Giuseppe Longo,Ugo Mazza, Claudio Melagoli, Luca Mercalli, Carlo Modenesi, Giorgio Nebbia, Piergiorgio Odifreddi, Giorgio Parisi, Telmo Pievani, Franco Piperno, Andrea Segrè, Claudia Sorlini, Stafano Bocchi, Gianni Tamino, Stefano Ruffo, Francesco Santopolo, Ivan Verga, Paolo Vineis.

Storici
Cristina Accornero, Franco Acqueci, Salvo Adorno, Aldo Agosti, Manfredi Alberti , Luigi Ambrosi, Giuseppe Aragno, Alberto M.Banti, Francesco Barbagallo, Francesco Barone, Cesare Bermani, Annunziata Berrino, Carmen Betti, Piero Bevilacqua, Giuliana Biagioli, Roberta Biasillo, Gian Mario Bravo, Luciano Canfora, Carlo Felice Casula, Franco Cazzola,Innocenzo Cervelli, Francesca Chiarotto, Livio Ciappetta, Salvatore Cingari, Marco Clementi, Michele Colucci, Danilo Corradi, Paola Corti, Ennio Corvaglia, Leandra D’Antone, Angelo D’Orsi, Marco di Maggio, Paolo Favilli, Fabio Fabbri, Paolo Frascani, Giuliano Garavini, Umberto Gentiloni, Paul Ginsborg, Chiara Giorgi, Carlo Ginzburg, Antonio Gibelli, Oscar Greco, Gabriella Gribaudi, Alexander Höbel, Valentina Iacoponi, Salvatore Lupo, Giovanni De Luna, Saverio Luzzi, Luciano Marrocu, Luigi Masella, Ignazio Masulli, Gino Masullo, Giancarlo Monina, Tomaso Montanari, Michele Nani, Leonardo Paggi, Guido Panico, Guido Panvini, Luisa Passerini, Rossano Pazzagli, Marta Petrusewicz, Franco Pitocco, Daniela Poli, Alessandro Portelli, Adriano Prosperi, Franco Rizzi, Saverio Russo, Biagio Salvemini, Daniela Saresella, Giuseppe Sergi, Simonetta Soldani, Gregorio Sorgonà, Salvatore Settis, Gabriele Turi, Roberto Valle, Donato Verrastro, Giuliano Volpe.

Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2016 (m.p.r.)

Nel 1966 una prestigiosa casaeditrice italiana pubblicò unlibro di racconti fantastici,alcuni dei quali veramentespassosi, intitolato Storie naturali.Autore ne era DamianoMalabaila, del tutto sconosciutoalle patrie lettere.Leggendolo, non furono pochii lettori che ebbero delleperplessità: troppo esperta esorvegliata la scrittura, assolutamenteperfetto il dosaggiotra gli elementi costitutividi ogni racconto per essereopera di un autore esordiente.E poi: come aveva fatto unautore alle prime armi a esserepubblicato da una casaeditrice nota per la severitàdelle sue scelte? Dopo pocotempo, si ebbe la risposta.Damiano Malabaila non esisteva,era uno pseudonimodietro il quale si nascondeva,con somma sorpresa di melettore, niente di meno chePrimo Levi, l’autore dell’immortaleSe questo è un uomo.

Mi sono più volte chiesto sequesta sorpresa non fossecondivisa dallo stesso Levi,quando aveva scopertoin sé una venacosì divertentecome quellache segnagran partedelle Storienaturali,motivo peril quale forseaveva decisodi firmarlecomeMalabaila. Aogni modo,la sezioneProsa radiofonicadellaRai, per laquale io lavoravocome regista,decise di fareadattare a radiodrammauno diquesti racconti, Ilversificatore, e di farlo realizzarenegli studi di Torino.Ma quando, un mese dopo,i responsabili della Prosa ascoltaronoil radiodrammaprima di mandarlo in onda rimaseroallibiti, perché laqualità dell’interpretazionee della regia era di così scarsolivello che la trasmissione avrebbepotuto addiritturaconfigurarsi come una sortadi offesa all’autore Levi. Deciseroipso facto di farne unaseconda edizione completamentediversa affidandone ame la regia. Avevamo pocotempo perché l’opera era giàstata annunciata in cartellone.

Partii subito per Torino ela prima cosa che feci fu dichiedere per telefono un appuntamentoa Primo Levi,che non conoscevo. Quandolui seppe il motivo della miarichiesta si mostrò perplesso.«Ma Il versificatore non eragià stato «Sì, mavede, siccome non è venutotanto bene, allora…» . Tagliòcorto: «Posso invitarla domania pranzo al Cambio?» michiese. Il Cambio era il piùnoto e storico ristorante diTorino. «Volentieri!» risposi.Il versificatore era la storia diuna macchina capace di fareversi a comando e secondo alcuneprecise indicazioni, senonchéquesta macchina nelracconto di Levi spesso e volentierisi prendeva delle, diciamocosì, licenze poetiche,che finivano per generareequivoci e confusione.La mia idea era quelladi far parlare la macchinanon con la vocemeccanica e priva diqualsiasi intonazioneche sembra esserepropria dei robotparlanti, ma di farlerecitare i versi conun’intonazione enfaticapropria delcattivo poeta che legge unasua opera. Fermo restandoche avrei in qualche modotrattato la voce dell’attore,per suggerire che si trattavadi una macchina e non di unessere umano, col soccorsodell’Istituto di fonologia diMilano.

Mi presentai al Cambio conun certo batticuore: conosceredi persona Levi e parlarecon lui mi metteva in agitazione.Ma la dolcezza dei suoimodi, la cortesia, l’interesse,l’attenzione che da subitoprestò alle mie parole mi miseroperfettamente a mio agio.Scoprimmo, ma non ce lodicemmo, di esserci reciprocamentesimpatici, perciòquel pranzo in qualche modovenne da Levi prolungato:dopo aver preso il caffè midisse che aveva ancora tempoa disposizione e che avrebbeancora voluto parlare con medella mia Sicilia. Poi uscimmodal ristorante. Proprio attaccataal Cambio si ergeva lamaestosa facciata del TeatroCarignano: «Ha mai lavoratonel nostro teatro?» mi chieseLevi. «Non ne ho mai avutol’opportunità». «Ma non l’hamai visto neanche da spettatore?».«Neanche».Notò che l’ingresso principaledel teatro era spalancato.Mi guardò e mi disse:«Vuole visitarlo? Sono amicodel «Volentieri»risposi.

Entrammo. Un signoremolto elegante stavaparlando con una donna; alvedere Levi gli andò incontrocon la mano tesa, si salutaronocon calore. Levi gli spiegòil motivo della nostra presenza.Il direttore si mise a disposizione,fece accendere tuttele luci di sala: effettivamentesi trattava di un piccologioiello che dava un’idea digrandiosità. Chiesi di salirein palcoscenico, lui mi accompagnò,mi guidò a vederela cabina delle luci, mi mostrò,sia pure a distanza, l’organizzazione della soffitta ein quel momento venne chiamatoda un inserviente perchéera arrivata una telefonatadall’estero che il direttoreattendeva. Questi allora ci salutò,ci disse che potevamo,terminata la visita, usciredalla porta posteriore, la cosiddettaentrata degli artisti,e ci lasciò soli.

Rimasi ancora cinque minutia guardare quello splendoree poi dissi a Levi che potevamoandarcene. Nel retropalcoindividuammo laporta che conduceva all’uscita: si apriva su un corridoioche terminava proprio conl’entrata degli artisti. Vidiche vicino all’ingresso c’eralo sgabuzzino del portiere, ilquale se ne stava intento aleggere un giornale. Al sentirciavvicinare, il portiere alzògli occhi, il suo sguardo siilluminò, si alzò, aprì la portadel gabbiotto a vetri e mi corseincontro, la mano protesaaddirittura gridando: «DottorCamilleri! Che bella sorpresa!È venuto qui da noi perun’altra regia?». Mentre laterra letteralmente si aprivasotto ai miei piedi e io vi sprofondavodentro madido disudore, bofonchiai qualcosaal portiere e mi precipitaiverso l’uscita seguito da Levi.

In strada cademmo in unsilenzio imbarazzante. Io,che ero sconvolto, riuscii inqualche modo a controllarmi,e dissi a Levi: «Le devo unaspiegazione». «Non mi devenulla – fece lui gentilissimo-, ma se vuole parlarmene…».Allora gli raccontai comesolo sei anni prima io avessimesso in scena, proprioal Teatro Carignano, un’edizione speciale dell’atto unicodi Giovanni Verga Cavalleriarusticana, ma vuoi per l’infelice scelta degli attori, vuoiper un malaccorto errore diinterpretazione mia, quellospettacolo mi era parso ilpeggiore di tutti quelli da mefino a quel momento realizzatie l’avevo cancellato totalmentedalla mia memoria, sinoa scordarmi di aver lavoratoin quel teatro. «Ho fattouna vera e propria rimozione»dissi. Levi, che mi avevaascoltato in silenzio, guardandoun po’ imbarazzato lapunta delle sue scarpe, sollevòla testa e mi fissò dritto negliocchi. «Sapesse quante neho dovute fare io…» sussurrò.E riprendemmo a camminareancora in silenzio.

"Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi".

Il manifesto, 27 gennaio 2016 (m.p.r.)

Non sono poche, né poco autorevoli, le voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di saturazione, di ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno per non pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti autorevoli sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a Hitler dai palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le distanze dal negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono l’Italia per i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano essere il razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo strumentale.

Il problema, come sempre, non è tanto se ricordare o no, ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col distinguere la memoria in senso lato di conoscenza storica del passato, dalla memoria in senso proprio di consapevolezza critica delle esperienze sociali e personali vissute. La giornata della memoria acquisterebbe una dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati, aprisse anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della memoria stessa.

Altrimenti, la necessarissima conoscenza storica e sentita commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche delle foibe e del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di una società in cui politici e media possono dire una settimana il contrario di quello che avevano detto la settimana prima senza che nessuno se lo ricordi e glielo ricordi.

Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo.

Proprio perché la Shoah è un crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una memoria etnocentrica.

E invece, fra le tante memorie che giustamente vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la memoria del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei suoi crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a “intervenire” (dopo il 1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che giungono (quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che cosa ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione, della resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige sacrari alla memoria di un massacratore di libici e di etiopi come Rodolfo Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata della memoria?

Con tanti problemi e domande, però vorrei aggiungere un esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che porta il suo nome, si è svolta un’emozionante “notte di Primo Levi”. E’ stata emozionante per il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma Limentani – testimoni diretti degli eventi – hanno fatto capire a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le tragedie di allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che ci sono vicine; farli vivere a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie; per come tutto è stato reso più profondo e coinvolgente dalla musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli spettacoli e letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di un senso di comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone cose portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza diffusa che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa è un modo serio di ricordare.

Ma è stato bellissimo soprattutto perché gli studenti e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari più o meno coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto l’evento con il lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti.

Questo è un modo non solo di prendere coscienza del passato, ma di costruire memoria per il futuro: perché imparando da narratori come Edith, Sami, Giacometta i ragazzi di oggi si rendono conto che la memoria futura del nostro tempo dipende dalla loro partecipazione attiva in esso: se non ricordiamo, non saremo ricordati. Per una volta, insomma, si è vista in azione la vera e autentica “buona scuola”.

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«Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti» .

La Repubblica, 26 gennaio 2016 con postilla non eurocentrica

Vivendo come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia dell’umanità la curva dell’esistenza - com’è stata chiamata sempre . in una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire: e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa.

Non è un autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più fine.
Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo naturale percorso, che è ciò che la rende appunto “vita” con un suo inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase illusoriamente fissata per sempre. Al suo posto viviamo un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere, la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si disimpara è la preparazione alla vecchiaia, il modo di accoglierla dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione. Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi.
Ma il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta.
Senza adulti. È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle generazioni, legandolo alla degenerazione e alla rigenerazione in quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che temeva i giovani “impetuosi” e “feroci” come li chiama Machiavelli assegnando però loro il compito di afferrare la “fortuna”.
Oggi poi questa riserva di credito dei “saggi” è messa a dura prova dalla nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché utile.
Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità, figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori.
Zagrebelsky porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a 111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza che si autodistrugge. Anche oggi la generazione dominante si comporta come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che «la Terra appartiene alla generazione vivente» intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro.
È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso. D’altra parte - Zagrebelsky ricorda Canetti - quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla.
L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto.
Zagrebelsky sa che in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: «Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età».

Senza adulti, Gustavo Zagrebelsky (Einaudi pagg. XIII -106 euro 12)

postilla

Quando si rievoca il mito dell'isola di Pasqua come previsione del nostro futuro non è al

mondo intero che ci si riferisce, ma alla "fortezza Europa" C'è tutta l'altra parte del mondo che preme alle porte della fortezza ma che si cerca di rigettare verso il nulla. Rifiuti. Non sappiamo se quest'osservazione ci sia nel libro di Zagrebelsky, a noi sembra rievante

Nell' Italia neoliberista il sistema è sempre lo stesso. Quando i banchieri o gli altri gestori/approfittatori del sistema capitalista sbagliano i conti, le loro perdite le paga lo Stato, cioè noi cittadini: o con l'aumento delle tasse o con la riduzione del welfare. Il manifesto, 27 gennaio 2016

In vista del Consiglio dei Ministri del 28 gennaio che si troverà sul tavolo il delicato Dossier banche, il Ministro dell’economia Pier Carlo Padoan si è recato a Bruxelles, dove non gli è parso vero di fare sfoggio di infondato ottimismo definendo, di fronte alla Commissione Lavoro dell’Europarlamento, la situazione italiana come “in ripresa” e persino connotata da “un’occupazione di migliore qualità”.
Non abbiamo ancora i dettagli, ma nel successivo confronto con la commissaria europea alla concorrenza, Margrethe Vestager, sarà risultato difficile a Padoan mascherare le difficoltà in cui si dibatte il paese, specificatamente per quanto riguarda il suo settore bancario, da sempre presentato come tra i più solidi. Ma un arretramento di dieci punti di Pil e la perdita del 25% di produzione industriale, quali si sono verificati nella nostra economia nella Grande Crisi, non potevano non avere effetti deleteri sullo stato di salute dei crediti delle banche.

Infatti dal 2008 i crediti deteriorati (o non performing loans, NPL) accumulati dal sistema bancario italiano ammontano 350 miliardi di euro. Sono catalogati in quattro categorie, delle quali la più consistente e preoccupante è costituita dai bad loans, che ammontano a circa 200 miliardi, ovvero i prestiti per i quali il debitore è già fallito. Sono le sofferenze vere e proprie. Poi ci sono gli “incagli” (ovvero prestiti che la banca reputa di improbabile restituzione); gli “scaduti” (da più di 90 giorni); i “ristrutturati” (quelli su cui la banca è già intervenuta per facilitare il debitore sui tempi e sui tassi di restituzione).

L’idea su cui si muove il governo italiano e su cui ruota il dibattito è la costituzione di una o più bad bank, cioè un nuovo veicolo societario che gestisca i crediti deteriorati, correndo tutti i rischi del caso, ma anche godendo degli eventuali rendimenti ovviamente più alti data l’improbabilità del recupero. E’ un sistema che ha preso le mosse nei primi anni Novanta. In Europa fu la Svezia a sperimentare una delle prime bad bank. La sua comparsa in Italia avviene a cavallo del secolo quando il Sanpaolo dopo l’acquisizione – salvataggio del Banco di Napoli si servì di una Società per il recupero dei crediti in sofferenza.
Il problema è naturalmente stabilire quali siano i prezzi di mercato dei crediti deteriorati. Ma ve ne è uno che lo sovrasta. Cosa dovrebbe succedere infatti se i pacchetti di crediti acquistati dalla bad bank determinassero in realtà un rendimento inferiore al prezzo con cui sono stati pagati? Visto che nessuno ci vuole perdere, e meno che mai nel mondo bancario, dovrebbe a questo punto scattare una sorta di rete di salvataggio. E questa verrebbe naturalmente garantita dallo Stato. Anche le più raffinate e sofisticate soluzioni avanzate da economisti e gruppi di studiosi, come quelli della Luiss, finiscono inevitabilmente per poggiare sull’intervento dello stato, quale salvatore in ultima istanza. Ciò che viene teoricamente e praticamente negato dai fautori del neoliberismo, ovvero la Banca centrale come prestatore in ultima istanza per impedire la speculazione sui titoli del debito pubblico, oppure lo Stato occupatore in ultima istanza per favorire l’incremento dell’occupazione, viene perfettamente previsto e attuato per sgravare le banche dei crediti deteriorati
Qui si innesta lo scontro con l’Europa che è il vero e concreto sottostante ai recenti bisticci fra Renzi e le massime autorità della Ue. Infatti se l’assicurazione pubblica ha un costo molto basso potrebbe essere considerata un aiuto di Stato – che la Ue aborrisce - e le banche potrebbero sgravarsi dei crediti deteriorati gonfiandone il prezzo. Se quel costo invece fosse più alto potrebbe risultare inappetibile e quindi inservibile ai fini dello sgravamento dei crediti inesigibili dal bilancio delle banche.
Nelle intenzioni del governo, almeno finora, la garanzia dovrebbe essere fornita da una controllata della Cassa depositi e prestiti, le cui potenziali funzioni di agente per il rilancio dell’economia produttiva verrebbero invece curvate al servizio del salvataggio di un sistema bancario nel quale si sono aperte oramai troppe falle per poterlo continuare a definire solido e sano.
Ma i crediti malati non si sono certamente materializzati tutti d’un colpo. Come abbiamo visto sono giunti a quell’impressionante volume come conseguenza della crisi e delle politiche di austerity che l’hanno ingigantita e prolungata. Intanto i governi che si sono succeduti hanno fatto finta di non vedere. Come hanno osservato diversi analisti finanziari, il governo italiano, che ora pesta i piedi e rotea i pugni, ha la responsabilità di essersi mosso troppo tardi per intervenire sulle sofferenze bancarie, perdendo l’opportunità di farlo – come ad esempio è successo nel caso spagnolo – quando questo ancora non andava direttamente a sbattere contro i divieti della Ue. La campana d’allarme rappresentata dall’entrata in vigore del bail in (ovvero dell’obbligo degli azionisti, dei possessori di obbligazioni e dei depositanti sopra i 100mila euro di partecipare al salvataggio degli istituti di credito in difficoltà) ha colto il governo Renzi in un sonno troppo profondo.
Gli eredi delle tante stagioni del colonialismo, che hanno condotto alla miseria e alla disperazione e fomentato le guerre e hanno dimenticato il tempo dei genocidi nazisti, ne proseguono una ancora più devastante.

Il manifesto, 26 gennaio 2016

Anche i simboli hanno il loro peso. Nato trent’anni fa a bordo di un barca, il trattato di Schengen rischia oggi di essere affondato dai barconi carichi di migranti. Quello che si potrebbe leggere come l’inizio della fine, è stato annunciato ufficialmente ieri ad Amsterdam al termine del vertice informale tra i ministri degli Interni dei 28, quando si è saputo della richiesta avanzata dagli stati europei alla Commissione Ue di avviare le procedure per consentire di estendere fino a due anni (anziché sei mesi) i controlli alle frontiere. Si tratta di una possibilità prevista dall’articolo 26 del Trattato e applicabile solo in casi eccezionali, come la comprovata incapacità di uno stato nel controllare le proprie frontiere.

Finora sono cinque i Paesi che hanno sospeso il trattato sulla libera circolazione. Oltre a Germania e Austria, anche Francia, Danimarca e Svezia. A premere di più per la proroga sono Berlino e Vienna, per le quali i controlli alle frontiere scadranno a maggio e insistono per rinnovarli. Ma non solo loro. A chiedere frontiere più blindate sarebbero infatti molte capitali, tanto che ieri la ministra austriaca degli Interni Johana Mickl-Leitner, tra i più risoluti nel chiedere misure per arginare gli arrivi di migranti, ha avvertito i partner europei: «Il Trattato sta per saltare. Ciascuno è consapevole che l’esistenza dello spazio Schengen è in bilico e che deve succedere qualcosa velocemente».
Ovviamente non sono certo i profughi che fuggono dalla guerra i responsabili di questa situazione, e Bruxelles dovrebbe guardare piuttosto alla sua incapacità di far rispettare gli impegni presi già da mesi, come quello sui ricollocamenti, agli stati membri. Cosa che però non accade. Il risultato è che gli interessi nazionali prevalgono su tutto spingendo ogni stato a decidere in autonomia. Così c’è chi alza muri, chi rafforza i controlli alle frontiere e chi come l’Austria fissa un tetto alla sua disponibilità ad accogliere i migranti (127.500 fino al 2019).
A spaventare non è solo il milione di profughi arrivato l’anno scorso, ma quelli che potrebbero affacciarsi alle porte dell’Europa non appena le condizioni del tempo lo permetteranno. «Più di 30mila persone sono arrivate via mare finora nel 2016, vale a dire in sole tre settimane», ha detto un allarmato Dimitri Avramopoulos, il commissario Ue all’immigrazione di solito attento a non creare allarmi.
Sul banco degli imputati è finita così soprattutto la Grecia, ancora una volta accusata da molti paesi di non fare sforzi a sufficienza per fermare i migranti e per la quale è perfino ventilata l’ipotesi di una sua possibile esclusione da Schengen. Un atto di accusa portato soprattutto dalla Germania e che ha provocato l’immediata reazione del ministro alle politiche migratorie di Atene Yoannis Mouzalas. «Basta con queste gioco di accuse ingiusto», ha detto durante il vertice. Elencando poi una serie di inadempienze dell’Unione europea, promesse di mezzi e aiuti mai realizzati. «Di tutte le cose che abbiamo chiesto - ha proseguito il ministro - abbiamo ottenuto solo una parte, sia in termini di uomini che di mezzi per gestire l’emergenza».
Il rischio che la situazione possa degenerare a questo punto non è più solo teorico. Bruxelles accelera per la costituzione di una guardia di frontiera terrestre e marittima in grado di intervenire alle frontiere in aiuto di quei paesi in difficoltà nel fronteggiare il flusso di migranti, ma deve spingere anche sui ricollocamenti, facendo fronte alle resistenze di chi, come i paesi dell’est, non ne vogliono neanche sentire parlare. La Slovenia ha addirittura proposto di aiutare la Macedonia a rafforzare i suoi confini, un’idea che guarda caso sarebbe piaciuta a Ungheria, Croazia, repubblica ceca, Polonia, Slovacchia e Austria e che non dispiacerebbe neanche a Bruxelles, anche se ancora non si è pronunciata ufficialmente. Ma che ovviamente allarma non poco la Grecia che in questo modo vedrebbe centinaia di migliaia di migranti bloccati all’interno dei propri confini.

Tra quanti ancora sostengono strenuamente Schengen c’è l’Italia, preoccupata da un’eventuale fine di Schengen. «Abbiamo poche settimane per evitare che si dissolva tra gli egoismo nazionali», ha detto ieri al termine del vertice di Amsterdam il ministro degli Interni Angelino Alfano. Al Viminale si sta pensando anche all’apertura di un hot spot ai confini con la Slovenia: «Dobbiamo tenerci pronti ad un’ipotesi di flusso dalla frontiera nord est a seguito della rotta balcanica», ha spiegato Alfano.

«Il manifesto, 26 gennaio 2016, con postilla

Ragionare sulla Shoah e il progetto di distruzione industriale di massa in occasione del 27 gennaio è come cercare di contare i cerchi nell’acqua quando vi si getta un sasso: onde grandi e piccole che si rincorrono, si espandono, per poi sparire, fagocitate dalla vita che ricomincia a occuparsi delle solite cose. Concetti che cercano di trovare una loro sistemazione ma per i quali non basta un giorno, o una settimana, di ricordo. Anche l’impresa, apparentemente insensata, di contare cerchi nell’acqua ha bisogno di riflessione.

Un cerchio, un’onda: se si digita su Google la dicitura «giorno della memoria 2016» si ottengono in questo periodo più di novecentomila risultati. L’evidenza — come qualsiasi lettore di giornali o frequentatore di televisioni e radio sa bene — è che il «giorno della memoria» è entrato nel calendario civile del nostro paese. È stato già scritto che la scelta del 27 gennaio, data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz — dove migliaia di cittadini italiani ebrei vennero assassinati — ha diluito la specificità dell’apporto italiano alla persecuzione.

Processi assolutori

Giovanni De Luna nel bel libro La Repubblica del dolore scrive: «Proprio perché più europea e meno italiana la scelta di quella data contribuì a disinnescare molte tensioni, attenuandone la portata emotiva ma anche ridimensionandone il significato simbolico». Se, infatti, «la memoria pubblica è un «patto» in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato», il 27 gennaio, proprio perché non impegnativo, ha consentito alla classe dirigente della Seconda Repubblica di evitare il confronto con il 25 aprile, data fondante dell’Italia repubblicana. Ed è funzionale a questa esigenza lenitiva e assolutoria che nel discorso pubblico sia divenuto sempre più forte il ricorso alle emozioni a scapito della conoscenza storica.

Cerchi che si allargano: inizia, timidamente, ad affacciarsi la consapevolezza che il conflitto tra «storia» e «memoria» possa essere superato in direzione di una inevitabile integrazione di entrambe, ma il calendario degli eventi in programma anche quest’anno non sembra prenderne nota e il ricorso all’emozione ancora prevale.

Sassi, cerchi, onde: per la collettività ebraica italiana l’imponente coinvolgimento istituzionale nelle celebrazioni del «giorno della memoria» è divenuto una grande occasione di riconoscimento e reintegrazione in quel «patto della memoria» da cui furono esclusi per decenni. L’Italia resta il paese dove il processo di abrogazione della legislazione antiebraica fascista del 1938 iniziò nel 1943 e si concluse alla fine degli anni ottanta, anni in cui il ricordo della specificità della persecuzione antiebraica stentava a farsi largo nella memoria pubblica. Anni in cui la Shoah rimane ancora un fatto sostanzialmente privato degli ebrei italiani e la misura della condivisione è data al massimo dal coinvolgimento delle amministrazioni cittadine negli anniversari che ricordano le vicende locali. Lo sterminio degli ebrei e il ruolo avuto dal fascismo infatti non furono tra gli eventi su cui è stato costruito l’albero genealogico della nazione. Ma poiché «i fondamenti di quel ’patto’ cambiano a seconda delle varie ’fasi’ che scandiscono i processi storici di una nazione — scrive ancora De Luna — ogni volta cambiano i suoi contraenti e il suo contenuto».

Holocaust Menorah di Aaron Morgan

Così dal 2001, primo anno di celebrazione «del giorno della memoria», le cose sono cambiate. Adesso di Shoah — che in ebraico significa distruzione — si parla molto, forse troppo, spesso male.

Certo è che le celebrazioni vengono vissute dalla collettività ebraica italiana come occasione di riconoscimento in un contesto istituzionale che l’ha accolta e «digerita» solo nella discutibile accezione di «vittima». Oggi però l’imperativo «mai più» che contrassegna l’impegno in buona fede dei tanti che si mobilitano nel ricordare lo sterminio di milioni di vite viene reso impotente e diviene inefficace se il patto che costituisce lo spazio pubblico espelle il processo storico che ha prodotto il loro essere «vittime». D’altro canto è proprio rendere le sole emozioni protagoniste del racconto pubblico che azzera le responsabilità. La condivisione di valori si restringe così a un omaggio che spesso ignora le specificità della collettività che si è chiamati a ricordare. E nulla aggiunge il 27 gennaio alla conoscenza di chi siano stati realmente e storicamente gli ebrei negli anni della dittatura fascista e di chi siano oggi.

Ancora un cerchio, e un’onda. La posizione della collettività ebraica italiana è che il suo apporto alle celebrazioni del 27 gennaio sia di sostegno alle iniziative pubbliche: non sono loro ad avere bisogno di «ricordarsi di ricordare». Eppure l’istituzione del giorno della memoria avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nel riconoscimento non solo del loro ruolo di cittadini storicamente partecipi di una memoria pubblica condivisa ma nel trasformare il lutto privato di una minoranza in un ’lutto nazionale’. Ma a questa incertezze aggiunge forse un contributo specifico proprio l’approccio al lutto della cultura ebraica tradizionale.

Altro cerchio, altra onda. Nella tradizione ebraica, il ricordo dei lutti collettivi tende a condensarsi intorno a poche date di celebrazione ma, per quel che attiene alla memoria specifica della Shoah, la pratica ebraica non si è ancora sedimentata in un’occasione unica e riconosciuta: per alcuni è il digiuno del 10 del mese di Tevet, che cade solitamente a dicembre, e ricorda l’inizio dell’assedio di Gerusalemme nel quinto secolo prima di Cristo. Per altri, soprattutto in Israele, è il primaverile Yom ha Shoah – il giorno della Shoah. In molte famiglie è invece uso recitare il rituale della Rimembranza che si celebra al termine della cena pasquale in ricordo dell’insurrezione del ghetto di Varsavia nel 1943 che iniziò proprio il giorno di Pesach, la pasqua ebraica. L’incidenza delle tre date dipende dai paesi e dalle differenti abitudini delle tante comunità ebraiche.

Ma il cerchio si allarga e le onde si moltiplicano. È curiosamente diversa l’attenzione posta nell’ebraismo alla tempistica del lutto individuale: la normativa ebraica in questo caso è estremamente attenta al conteggio dei giorni che scandiscono la settimana, il mese e poi l’anniversario del decesso. Ma gli ebrei, quelli in carne e ossa, quelli «vivi», ancora oggi ricordano la morte nei campi dello sterminio nazista come fatto reale e concreto della perdita di una persona cara di cui spesso sono restate, e resteranno per sempre, ignote il luogo e data dell’uccisione. Per gli ebrei «vivi» si tratta di un singolo essere che è stato padre o madre, nonno o nonna, zio o zia. Esseri umani concreti di cui rimangano nella vita delle famiglie oggetti e racconti, fotografie e aneddoti. A volte, ricette di cucina. Per gli ebrei vivi è un lutto individuale, familiare oltre che collettivo.

Diari intimi e luoghi pubblici

Cerchi, e domande, che si allargano: come tenere insieme il lutto individuale con quello di una collettività di minoranza e inserirlo in una memoria nazionale? Come tessere continuità, restituire dignità e farsi carico della responsabilità di 6806 deportati dall’Italia di cui 5969 sono stati uccisi e solo 837 sono tornati? Come far incontrare il lutto degli ebrei italiani con quello degli italiani «altri»?

Una risposta piccola ma illuminate viene da un’iniziativa giunta quest’ anno alla sua quinta edizione, si chiama Memorie di famiglia — i giovani tramandano le storie dei loro nonni organizzata presso il centro ebraico di Roma Pitigliani. Lì, il 27 gennaio – data di legge, parlamento e istituzioni — nello stesso momento in cui le scuole, la televisione e i giornali parlano della Shoah, giovani dai dodici ai venti anni leggono le storie delle proprie famiglie. Documenti tratti da diari privati, ricostruzioni successive, racconti, si alternano letti da un nipote o un pronipote. Giovani e bambini che prendono la parola e raccontano la propria storia. Altri ragazzi cantano e recano conforto e sollievo alla massa dei ricordi che i nonni in sala si sentono raccontare dai propri nipoti. Ricordi di internati militari, ebrei in fuga, uccisi o salvati trovano posto nella catena della generazioni che, come cerchi nell’acqua, si susseguono.

Giorgio Caviglia e Maria Bove scrivono in L’eco del silenzio, il trauma della Shoah consegnato alle generazioni future, edito in questi giorni da Giuntina: «Riflettere sulla trasmissione del trauma significa comprendere la portata di determinati eventi, comprenderne l’estensione, cercare di contare i cerchi nell’acqua che si propagano al lancio del sasso sulla superficie del mare, cercando di distinguere quello che dipende da quel sasso da quello che è il frutto del movimento di un mare che può essere più o meno agitato». Cerchi nell’acqua che tentano risposte.<


27 gennaio, 25 aprile. Ma queste due date non ci ricordano anche qualcosa che accade ai nostri giorni? Il genocidio di tanti popoli unificati dall'esodo del XXI secolo e dal destino che li attende? Ricordava l'attivista dell'Arci Raffaella Boini, in un messaggio che ci è giunto oggi: «L’Unione Europea impone alla Grecia di fermare l’arrivo dei profughi dalla Turchia, affogando donne e bambini. Oggi il Parlamento danese approva il sequestro di soldi, gioielli e beni personali ai rifugiati. Di questa Europa, alla vigilia della Giornata della Memoria, Hitler sarebbe veramente contento
».

«

La Repubblica, 26 gennaio 2016

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LA DECISIONE di recarsi a Ventotene a rendere omaggio ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, padri fondatori del federalismo europeo, sgombra il campo da ogni incertezza sul profilo europeista del capo del governo. Renzi ha sempre sottolineato, anche con enfasi, come il nostro futuro sia legato ad una maggiore e migliore integrazione europea. E invece il processo di integrazione sovranazionale sta facendo paurosi passi all’indietro. L’autorevolezza delle istituzioni comunitarie — Bce esclusa, per fortuna (soprattutto nostra) — è al punto più basso e, corrispettivamente, dominano gli interessi e gli egoismi nazionali.

In realtà, gli interessi nazionali sono sempre stati difesi nella vita dell’Unione Europea. Basti ricordare le prese di posizione della Francia gollista sull’agricoltura o il rebate (lo sconto) preteso da Margaret Thatcher. Ma oggi non si litiga su alcuni provvedimenti che possano favorire qualcuno. Si tratta di evitare che certe decisioni provochino danni devastanti in tutta l’Ue. Quindi, insistere come fa Renzi su una gestione comunitaria della migrazione biblica a cui stiamo assistendo senza alzare nuovi muri — posizione che l’Italia ha sostenuto nella riunione dei 28 ministri degli Interni ieri — o su una politica economica non più appiattita sul rigore ma indirizzata alla crescita, come richiesto dagli economisti di tutto il mondo, è sacrosanto. Solo che nella questione del rigore siamo in difficoltà, per tempi e modi. Il “momento” è passato. Lasciando solo il governo greco a sbagliare tutto, l’anno scorso, è stata persa l’occasione propizia per impostare una strategia diversa.

Oggi non c’è più la spinta dell’urgenza e della drammaticità. Per uno 0,2 percento in più o in meno nel rapporto deficit/Pil non si smuovono dogmi economici consolidati. Si fa piccolo cabotaggio. Per questo non ha senso, come sostengono anche autorevoli analisti internazionali — per tutti si veda il graffiante intervento di Wolfgang Munchau sulla “assenza di adulti” nell’entourage del presidente del Consiglio —, andare all’assalto della Commissione e della Germania con dichiarazioni gladiatorie.

Attaccare tutti dichiarando che l’Italia è un grande Paese, che merita rispetto, porta solo all’isolamento. Di posture crispine, per non dire di peggio, l’Italia ha già fatto amare esperienze. Non vorremmo che il riferimento ideale a Giorgio La Pira, a cui spesso si richiama Renzi, venisse preso alla lettera dal premier, vista l’impoliticità di quell’uomo generoso che si immaginava mediatore tra America e Vietnam al tempo del conflitto indocinese.

Il velleitarismo e il provincialismo sono due vizi storici della nostra politica estera. Se a questi aggiungiamo il pressapochismo e il disinteresse verso le questioni europee, visto che i nostri politici arrivavano spesso ai meeting senza adeguata preparazione, e persino inconsapevoli degli interessi nazionali (per non dire dei parlamentari europei, assenteisti e pronti a dimettersi alla prima occasione), allora confermiamo la fama di europeisti a parole, ma pasticcioni e inconcludenti nella discussione dei dossier più caldi. Finché comunque eravamo in linea con il vecchio motore franco-tedesco, bastava il sostegno verbale all’Europa ad evitare problemi. Ma se ora si vuole battere il pugno sul tavolo bisogna avere le carte in regola, a incominciare dall’osservanza delle norme dell’Ue, che invece infrangiamo più di ogni altro Paese.

Per essere presi sul serio è necessario essere seri. Per questo, alle belle parole su una Europa dei valori e ai bei gesti, come la visita a Ventotene, vanno fatte seguire proposte concrete, ben articolate, e anche di respiro. Il governo dovrebbe avere il coraggio di fare un salto di qualità: di proporre una revisione dell’architettura istituzionale e delle funzioni dell’Unione per renderla più vicina ai cittadini, con un Parlamento in grado di controllare e indirizzare le politiche e una Commissione non più succube del Consiglio. All’Unione, come ripete Renzi, va data una scossa. Giusto. E allora, invece di parole, il governo butti sul tavolo europeo un disegno articolato di riforme. È così che si conquista quell’autorevolezza che consente poi di giocare un ruolo attivo all’interno dell’Ue. E anche di difendere gli interessi nazionali.

L'implicito fascismo renziano «si palesa nel disprezzo delle regole e delle forme della democrazia, nelle spocchiose alzate di sopraccigli verso chi esprime dubbi, nelle sussiegose finzioni di rispetto verso gli altri poteri che nascondono arroganza e disprezzo, nelle arroganti risposte a chi dissente, nello sbrigativo impiego di manganelli verso chi protesta». Il manifesto, 26 gennaio 2016

«Non arretro!», «L’Italia va avanti…», «Non andremo più col cappello in mano», «Ci vorrebbero deboli e invece siamo tornati forti». E via seguitando in un repertorio di detti (troppi) e fatti (pochi), attribuibili al nostro presidente del Consiglio, che richiamano altri “capi”, in particolare uno, di parecchi decenni or sono. Se scrivo il suo nome, mi attiro insulti. A stupire non è Matteo Renzi, la cautela con cui le sue esternazioni da bullo verso l’Unione europea, vengono commentate, o peggio il silenzio imbarazzato in cui risuonano.

Possibile che non si colga negli accenti, nei toni, nei modi, oltre che negli argomenti, usate dal bullo di Rignano sull’Arno un sentore di fascismo? O forse è che davvero, come si insinua in un libro appena uscito (di Tommaso Cerno, A noi!, Rizzoli), in fondo noi italiani siamo avvezzi a quei toni, a quel lessico, a quei modi? In fondo non abbiamo mai fatto i conti con il fascismo, ed esso riemerge, non solo e non tanto nelle Case Pound et similia, ma proprio per queste vie. Si palesa nel disprezzo delle regole e delle forme della democrazia, nelle spocchiose alzate di sopraccigli verso chi esprime dubbi, nelle sussiegose finzioni di rispetto verso gli altri poteri che nascondono arroganza e disprezzo, nelle arroganti risposte a chi dissente, nello sbrigativo impiego di manganelli verso chi protesta. E, soprattutto, il fascismo affiora in prese di posizione all’insegna di un nazionalismo ridicolo, nella prosopopea dell’Italia “Grande Paese”, nel ritornello del “primato degli italiani”, nella retorica del “ve la facciamo vedere noi”, nel mostrare muscoli (che non si hanno) e nell’agitare pugni (che in vero son quelli di un bamboccio).

E più si fa la faccia feroce più si suscita commiserazione, anziché rispetto, fastidio anziché attenzione, insofferenza invece che apprezzamento. Con questo non dico che Matteo Renzi sia un fascista, ma dico che nei suoi comportamenti, nel suo stile, nelle sue parole richiama direttamente una stagione che in qualche modo persiste, e che, riveduto e lustrato, oggi proprio lui possa essere visto come il legittimo titolare di un nuovo regime in costruzione, autoritario, populista e plebiscitario.

Il referendum che sta invocando e proclamando da giorni, è il primo plebiscito della storia italiana, che assomiglia precisamente a quello del marzo 1929: siete con il duce o siete contro? La differenza è che allora alla porta del seggio c’erano i militi fascisti, e che l’elettore si trovava davanti due schede, una col Sì e una col No, in bella mostra.

Anche chi abbia a cuore, da un punto di vista liberaldemocratico, la dignità del Paese, non dovrebbe sottovalutare quello che sta accadendo. Come sempre, ci facciamo ridere dietro: emblematica l’ormai famosa conferenza stampa con il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, trasmessa alla televisione francese con i salaci commenti del giornalista in studio, con il nostro premier che sbadiglia, giochicchia col cellulare, manda messaggini, guarda in alto, quando parla Schultz, mentre, al contrario, questi è attentissimo e interloquisce opportunamente quando la parola è al collega italiano. Un video diventato giustamente virale. Ma non è solo questo. Non è solo l’eterna rappresentazione della commedia italiana. La parodia della politica stile Alberto Sordi, o, considerato l’epoca e i personaggi, nello stile di una modesta imitazione del grande Sordi.

Dicevo, non è solo questo, tuttavia. È proprio ricorrendo a tal genere di comportamenti, che si innescano processi che non si sono in grado di controllare, e di cui, soprattutto, non si è possono prevedere gli esiti. Se si vuole perseguire la rottura dell’Unione, o la fuoruscita dall’euro – obiettivi pesanti, discutibili, rischiosi, ma indubbiamente leciti -, non è certo questa la via maestra. Né sono scelte che possano essere demandate al governo e neppure al solo Parlamento.

Sono scelte che concernono tutta la popolazione ed essa nella sua interezza dovrebbe essere posta in grado di dire la sua. In ogni caso, la strada su cui si è incamminato il premier, con il suo partito piegato ai suoi voleri, invece è irrituale, come si dice in linguaggio diplomatico, tortuosa, piena di inganni e di disonestà. Ed è una via che non è consentita, in particolare, ad una nazione che nel Parlamento di Bruxelles-Strasburgo, non ha fatto proprio una gran figura, con i nostri deputati di solito personaggi trombati nel Parlamento nazionale, o tratti dai grandi vivai della radiotelevisione, da Iva Zanicchi a Gerry Scotti, notoriamente assenteisti, o vistosamente disinteressati al ruolo che hanno conquistato.

Ma non siamo ancora al punto cruciale, che invece mi pare un altro, e si tratta di una domanda: come mai Renzi “sfida l’Europa” (così alcuni titoli roboanti sui giornali), con tanta disinvoltura? Magari per ottenere consenso popolare in patria. Esattamente come il suo lontano, ma non dimenticato e sin qui innominato predecessore. Alzare il tiro, inventarsi dei nemici, per giustificare i mancati risultati, per rinsaldare il proprio potere, per annullare ogni dissenso. Nemici interni (i “gufi”, quelli che remano contro, gli “sfascisti”…), o esterni: la Germania, o l’Unione tutta.

“Molti nemici, molto onore”? Il consenso, uno statista lo cerca e lo ottiene, per vie democratiche (mi tocca ricordare che stiamo aspettando che il sig. Matteo Renzi venga legittimato da una votazione ai sensi di legge, non dai gazebo del suo partito), sulla base dei risultati ottenuti, concreti, verificabili; il leader autoritario-populista lo cerca per altra via, che è precisamente quella perseguita con tanta sfrontatezza da Matteo Renzi.

«Roma non è nuova a questi scenari», scriveva Antonio Gramsci nel 1924, e li definiva «polverosi». «Ha visto», continuava «Romolo, ha visto Cesare Augusto, e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo». E, possiamo rivelarlo, si riferiva a chi allora sedeva nelle stanze del potere, tal Benito Mussolini.

Il summit europero raccontato da Andrea Tarquini e i ragionamenti di Ilvo Diamanti sul concetto di "confine": «sarebbe sbagliato trattare i “confini” semplicemente come un problema. Le frontiere e i confini: sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. ».

La Repubblica, 25 gennaio 2016 (m.p.r.)

LA NOSTRA IDENTITÀ IN QUEL TRATTATO.
NON PUÒ BASTARE LA MONETA UNICA
di Ilvo Diamanti
Un giorno dopo l’altro, l’Europa appare sempre più divisa. D’altronde, è difficile affidare il progetto unitario a una moneta. Tanto più in tempi di crisi economica e finanziaria. Perché se l’Europa si riduce a un euro, allora si svaluta. E l’anti-europeismo si allarga. Tuttavia, la questione europea diventa critica quando vengono messi in discussione i confini. Meglio: quando vengono ripristinati i controlli sui confini. Non per caso, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, a Davos, ha espresso il timore che l’emergenza prodotta dai flussi di migranti possa compromettere il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati dell’Unione. Perché in quel caso verrebbe - implicitamente - rimesso in discussione il progetto di costruzione europea. Lo stesso timore è stato ribadito dal premier Matteo Renzi. D’altronde, l’euro, come i mercati, non ha confini. Può circolare comunque e dovunque. Le persone no. E i limiti imposti ai migranti si riproducono e rimbalzano anche sui residenti. Perché le frontiere sottolineano la sovranità degli Stati nazionali rispetto a quella europea. In definitiva: riflettono - e accentuano - la debolezza dell’Europa. Come progetto e come soggetto.

Tuttavia, sarebbe sbagliato trattare i “confini” semplicemente come un problema. Da superare e, possibilmente, eliminare. Per dare forza alla sovranità e all’identità europea. Le frontiere e i confini: servono. Sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. Come la geografia, le mappe. Servono a orientarci, a rappresentare il mondo intorno a noi. I cambiamenti dei confini - e della geografia - riflettono, a loro volta, i cambiamenti nella distribuzione e nell’organizzazione del potere, su base territoriale. Il nostro dis-orientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com’era definito il confine (in continua evoluzione) dell’Impero romano. (E come recita il titolo di una nota rivista di geopolitica: liMes, appunto).
Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il muro di Berlino, a Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più. A Est: dallo sfaldamento dell’Unione Sovietica è riemersa la Russia. Che, tuttavia, non costituisce più, come prima, “l’altro” polo del Mondo. Ma “un” polo, per quanto importante. Mentre, nel caso del Mediterraneo, non si tratta più di un muro. Non ci separa (e non ci difende) più dall’Africa, né dal Medio- Oriente. È, invece, un confine stretto. Mentre il mondo è divenuto sempre più largo. E sempre più vicino. Incombe su di noi. La globalizzazione, per riprendere una nota definizione di Antony Giddens, è stretching spazio-temporale. Allungamento dei processi e delle relazioni nello spazio e nel tempo. E, dunque, perdita dei confini. Perché tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, anche molto lontano da noi, può avere riflessi immediati qui. Adesso.
Anche perché tutto avviene e scorre sotto i nostri occhi. Riprodotto e amplificato dai media. In diretta. E tutto rimbalza sulla rete. A cui tutti possono accedere. In tempo reale. Per questo, i confini non ci possono difendere. Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di confini. Di frontiere. Perché, come ha sostenuto Régis Debray, in un testo alcuni anni fa (dal titolo significativo Eloge des frontières, Gallimard 2010, pubblicato in Italia da ADD, 2012): «…una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l’epidemia dei muri». (D’altronde, neppure i muri possono frenare i movimenti di persone, quando si tratta di esodi spinti dal terrore e dalla fame). Né, tanto meno, possono - né vogliono - fermare i flussi economici e monetari. Per questo, tanto più per questo, abbiamo bisogno di frontiere. Per dare ordine alla nostra visione del mondo. Per sentirci sicuri. Per avere la sensazione che esistano autorità in grado di governare la società. Capaci di esercitare la sovranità nel territorio in cui viviamo.
Perché, in fondo, è questo il fondamento - e il significato - dello Stato. Senza confini e senza frontiere, noi rischiamo di perderci. Di divenire, noi stessi, eterni migranti. Alla ricerca di una terra. Non “promessa”. Una terra e basta. Noi abbiamo bisogno di mappe per orientarci. Il trattato di Schengen è importante. Perché supera e apre i confini “interni” all’Europa. Ma, al tempo stesso, marca i confini “esterni”. Dentro i quali è possibile la libera circolazione. In base ai quali è possibile negoziare con gli “altri”. Così, de-finisce (cioè, delimita) l’Europa. Lo spazio entro il quale non abbiamo bisogno di passaporti da esibire alle frontiere. Perché non ci sono controlli alle frontiere. Anzi, non ci sono frontiere. Lo spazio dove, cioè, possiamo dirci - e sentirci - europei. Non uno Stato nazionale, ma una Confederazione di Stati nazionali. Che condivide alcuni interessi ma, anzitutto, un sentimento comune.
Per questo, come hanno osservato, polemicamente, Lagarde e Renzi, le limitazioni imposte alle frontiere di alcuni Stati europei rischiano di provocare il fallimento del Trattato di Schengen. E, insieme, del progetto europeo. Perché l’Europa, questa Europa, è senza confini. L’Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di indicare un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all’Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l’incapacità di costruire l’Europa. Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com’è possibile costruire un’identità europea? Sentirsi e dirsi europei? La globalizzazione è allungamento dei processi e delle relazioni, nello spazio e nel tempo.

SCHENGEN LA BATTAGLIA DEI CONFINI
Di Andrea Tarquini

Oggi il summit europeo sui profughi. In Germania la politica dell’accoglienza della Merkel è sempre più in difficoltà. E gli stop alla libera circolazione mettono a rischio l’Unione

Berlino. Oggi ad Amsterdam il vertice straordinario dei ministri dell’Interno dell’Unione europea sui migranti è atteso come una scadenza decisiva non soltanto per la libera circolazione tra i paesi dell’area Schengen, ma per l’avvenire stesso dell’Unione e della moneta unica. Come ha ammonito la presidente del Fondo monetario, Christine Lagarde, lo stesso futuro dell’euro è in forse se Schengen verrà di fatto sospeso o revocato. E nelle ultime ore, alcuni paesi-chiave (Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia) hanno chiesto la proroga fino al 2017 dei controlli provvisori al confine. Posizione cui l’Italia e altri paesi si oppongono duramente: «Nessun passo indietro, sarebbe un affossamento delle libertà conquistate in decenni d’integrazione, e l’Europa corre un rischio mortale», ha detto il titolare del Viminale Angelino Alfano.

A Calais intanto nuovi scontri con i profughi al confine hanno indotto i camionisti britannici a invocare l’intervento dell’esercito. A sorpresa a Londra il premier Cameron ha promesso di accogliere 3.000 bimbi siriani e 20mila profughi da campi vicini al paese arabo. Ma a Berlino sale la sfida dei falchi ad Angela Merkel e all’Europa meridionale. Julia Kloeckner, vicepresidente Cdu e finora fedelissima della leader, l’ha attaccata duramente. Ha proposto di ridurre gli ingressi e creare ai confini centri di raccolta dove i richiedenti asilo vengano distinti dai profughi economici, subito espulsi. L’idea è creare hot spot in Germania. Attacco implicito a Italia e Grecia accusate di non istituirli. L’offensiva di Kloeckner arriva dopo un crollo della CduCsu nei sondaggi, dal 39 al 32%, con gli xenofobi di Alternative fur Deutschland che sarebbero terzo partito.

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