. Il manifesto la Repubblica, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
L’incontro è avvenuto in un clima di grande emozione. Il patriarca Kirill, in visita ufficiale a Cuba, aveva passato la mattinata in cerimonie ufficiali e in un «incontro di cortesia» col presidente Raúl Castro.
Ma l’attenzione generale era polarizzata lontano dal centro dell’Avana, verso l’aeroporto José Martí, dove duecento giornalisti erano in attesa dell’aereo papale. Che è giunto alle due del pomeriggio locali. Ad attenderlo,per il saluto ufficiale, il presidente Raúl e il vertice ecclesiale cubano guidato dal cadinale Jaime Ortega. Caloroso il saluto tra il papa e il più giovane dei Castro, finalmente sotto un solo caraibico dopo settimane di tempo plumbeo. La cerimonia di benvenuto per il suo secondo viaggio a Cuba è stata però semplice, ridotta al minimo.
Poi il presidente cubano ha accompagnato il pontefice verso la sala dell’aeroporto dove lo attendeva il patriarca di tutta la Russia. I due massimi esponenti della cristianità hanno avuto un colloquio di un paio di ore. Seduti uno di fronte all’altro, prima sotto i riflettori delle tv di tutto il mondo e i flash dei reporter per le immagini destinate a rimanere nei libri di storia; poi isolati e protesi ad affrontare i temi che possano permettere alle due chiese, la cattolica occidentale e l’ortodossa orientale, di stabilire «un ponte» verso un futuro.
Nella notte di giovedì era stata messa a punto una dichiarazione congiunta che esprime punti di vista comuni sui problemi della lotta al terrorismo, sulla necessità di bloccare la persecuzione nei confronti dei cristiani che, in Medio oriente e in Africa del Nord, sono bersaglio di attacchi da parte di estremisti musulmani, militanti dello Stato islamico in primis.
La dichiarazione affronta anche temi etici e sociali, come la difesa della vita del matrimonio e un appello alla pace. Non veniva escluso che i due leader religiosi potessero modificare in qualche punto la dichiarazione, spingendo in avanti il terreno di discussione, in modo da dimostrare che l’incontro è stato veramente un «nuovo inizio»
In ogni modo, da entrambe le parti si è è sottolineato che sia l’incontro, sia la dichiarazione rappresentano «uno storico apporto alla causa ecumenica, al dialogo interreligioso in generale e alla pace nel mondo» e una grande e storica opportunità «perché centinaia di milioni di fedeli nel mondo lavorino assieme in favore di una convivenza civile e per la pace».
In seguito, il papa proseguirà per la sua importante visita in Messico, mentre Kirill resterà fino a domenica a Cuba e poi proseguirà nella sua prima missione in America latina, in Brasile, Cile e Paraguay.
Cuba ha espresso chiaramente l’orgoglio per essere stata scelta come sede dello storico evento. Si tratta per il vertice politico cubano di qualcosa di ben più importante che rappresentare «un terreno neutro», in ballo è il riconoscimento della «vocazione di pace e di dialogo» dell’isola, che già da anni ospita le trattative di pace tra governo colombiano e la guerriglia delle Farc e da più di un anno è protagonista di trattative per normalizzare i rapporti con gli Stati uniti. Il presidente Raùl Castro, è previsto partecipare nella foto che vedrà riuniti i due massimi leader della cristianità.
Immagine che gli conferisce lo status di politico internazionale, credibile e capace di mediazioni efficaci in difficili situazione di crisi.
La Repubblica
STORICO ABBRACCIO ALL'AVANA TRA FRANCESCO E IL PATRIARCA
L’Avana. Finalmente. «Somos hermanos ». L’avvio è in italiano, poi in spagnolo. L’interprete russo, paziente e divertito, traduce tutto. Siamo fratelli, dice Francesco a Kyril. E un triplice bacio sulle guance, alla russa, completato da un abbraccio, suggella a Cuba, trasformata in isola del negoziato, il primo incontro nella Storia fra un Pontefice di Roma e il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Dopo mille anni, cattolici e ortodossi, parti separate della grande famiglia cristiana, si riconoscono e si parlano direttamente attraverso i loro leader. È la prima volta dopo lo scisma del 1054, e la nascita nel 1589 del Patriarcato di Mosca in rotta con Costantinopoli. Oggi, dal suo ridotto nella sede di Istanbul, al Fanar, il Patriarca Bartolomeo benedice l’incontro via Twitter.
Muri sempre più vicini, ragione e umanità sempre piùlontane «L’annuncio di Vienna nel giorno del vertice fra Renzi e il premier austriaco».
La Repubblica, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)
Roma. Una barriera per bloccare gli ingressi incontrollati. Una carreggiata della strada su cui far sfilare i rifugiati. Una serie di container per ospitare i gendarmi, incaricati di controllare i documenti di chi passa. L’Austria sceglie la linea dura e annuncia la “chiusura” del Brennero: la frontiera con l’Italia.
La Repubblica,
LE CRISI possono diventare occasioni importanti di rinnovamento e di ridefinizione di vecchi equilibri di potere, soprattutto in quelle congiunture storiche nelle quali l’ordine esistente si alimenta della rovinosa continuazione della situazione di stallo. Questa è stata per molti versi la dinamica che ha visto nascere l’ideale europeo moderno. Essa si è sprigionata dall’interno dell’Europa dei totalitarismi e dei nazionalismi; anzi, dalle prigioni e dai luoghi di confino dove quei regimi liberticidi avevano voluto mettere a tacere gli avversari politici. L’ideale di una unione politica continentale fu maturato nella clandestinità, intuizione di pochi visionari convinti che solo gettando il cuore oltre l’ostacolo si potesse sconfiggere lo status quo e dar vita all’Europa del dopo, democratica e pacifica. È importante ricordare oggi che fu all’interno di una cornice anti-nazionalistica che prese corpo il Manifesto di Ventotene, uno dei prodotti più significativi dell’ideale liberal socialista.
Nelle interviste di Eugenio Scalfari a Laura Boldrini e di Stefano Folli a Giorgio Napolitiano, ospitate su Repubblica, non si può non sentire la forza di quell’ideale, e soprattutto la consapevolezza che ci troviamo, di nuovo, in una situazione di stallo critico, di equilibrio catastrofico che può avere esiti regressivi. Perché, come allora, anche oggi i pericoli al progetto di unione vengono dal nazionalismo, populista e non. Ben inteso, da quando la crisi economica si è abbattuta sul nostro continente e le politiche europee hanno messo a dura prova le politiche economiche e fiscali nazionali, le rimostranze degli Stati membri non sono state sempre ingiustificate. Le resistenze della Grecia, che lo scorso anno si trovò pressoché sola a contestare Bruxelles e la Troika, hanno aperto tuttavia un fronte nel quale altri paesi oggi sembrano volersi identificare. Le polemiche sulle politiche monetarie e le regole bancarie, sulla mancanza di una politica comune sull’immigrazione e il rischio di sospendere provvisoriamente Schengen: tutte queste questioni aperte, e le dinamiche politiche che possono innescare, ci inducono a temere per il futuro del progetto europeo.
Chi può rompere questo stallo, questo equilibrio potenzialmente catastrofico? Sostiene Napolitano, con ottime ragioni, che solo chi sa vedere oltre le strette politiche nazionali, chi non si lascia incagliare nelle questioni locali, può vincere la battaglia europea e, quindi, anche quella nazionale. Non vi è modo per reagire a chi vuole rialzare muri e chiudere le frontiere se non portando il cuore oltre l’ostacolo, progettando una soluzione che non sia nè un ritorno al passato, con gli stati padroni (nani) in casa loro, ma nemmeno la persistenza dello status quo, magari per strappare con trattative nazionali un piccolo “parecchio”. L’Europa degli accordi intergovernativi che si è stabilizzata in questi anni di crisi rischia di aprire entrambi questi scenari, alimentando una voglia di secessione. Per contenere sul nascere questi esiti occorrerebbero grandi leader, visionari che sappiano convicere i loro cittadini e quelli europei che il vero utile nazionale si persegue con politiche anti-nazionaliste. Che si deve volere l’Europa per voler il bene delle proprie società nazionali.
L’Europa deve farsi politica, dunque; superare il livello intermedio dell’attuale costituzionalismo funzionale, indiretto e burocratico, per marcare il corso verso un costituzionalismo compiutamente politico, dove obiezioni e proposte possano godere di legittimità democratica. E che sia il presidente della Bce, Mario Draghi, a farsi propugnatore di questo salto oltre l’ostacolo, a suggerire una unione politica “più perfetta” come direbbero gli americani, a prospettare la necessità di una politica bancaria e fiscale europea, strada verso un governo continentale legittimo, rende pienamente il senso della situazione grave nella quale si trova il progetto di Ventotene. Non leader politici, ma un leader “tecnico”, responsabile di un potere neutro, sente l’urgenza di avviare un’innovazione istituzionale forte. L’Europa con un bilancio comune, con politiche fiscali comuni e cogenti, condizioni essenziali per una vera unione monetaria e bancaria: l’Europa come progetto federale.
Nell’Europa autoritaria e dei totalitarismi, nacque una visione politica e morale che aveva un respiro sovrannazionale. Il Manifesto di Ventotene rispecchiava quella visione assai fedelmente quando sosteneva che “il principio di libertà” é fondamento della società umana e la critica di “tutti quegli aspetti della società che non hanno rispettato quel principio”. In conseguenza di ciò dichiarava il nazionalismo degli Stati come il vero responsabile della Prima guerra mondiale e dell’imperialismo nazionalista che ne era seguito. Il Manifesto sosteneva inoltre che senza il superamento della sovranità assoluta degli Stati la diseguaglianza economica e il nazionalismo avrebbero continuato ad essere un rischio per la pace, anche qualora gli stati europei fossero divenuti democratici. Fino a quando non fosse stata superata la prospettiva nazionalistica, non ci sarebbe stato futuro sicuro né per la pace né per la libertà. Traducendo il paradigma di Kant in un programma politico, i visionari di Ventotene lanciavano il loro doppio progetto: una trasformazione democratica e costituzionale interna agli stati (che è avvenuta), e la creazione di una federazione europea (che stenta ancora a nascere).
postilla
Ha ragione Urbinati quando sostiene che - come ieri col Manifesto di Ventotene - anche oggi si può uscire dalla crisi e, «gettando il cuore oltre l’ostacolo si può sconfiggere lo status quo e dar vita a un'Europa democratica e pacifica. Ma l'ostacolo oltre il quale si deve oggi gettare il cuore non è più la tirannide nazifascista. È quella che la nuova forma del capitalismo, il cui ventre è sempre fecondo, ha inventato: è quel sistema di potere nato dal cervello dei Chicago Boys, sperimentato nel Cile di Pinochet, nell'UK di Margaret Tatcher e negli USA di Donald Reagan, di cui l'Unione europea, è l'espressione. La forma è cambiata, la sostanza poco. Del resto, se anche per l'effetto del sogno di Ventotene era «avvenuta trasformazione democratica e costituzionale interna agli stati europei, negli ultimi trentenni i governi di Craxi, Berlusconi e Renzi ci hanno riportato considerevolmente indietro, come Urbinati ci ha aiutato a comprendere.
Mentre sul confine tra Siria e Turchia si ammassano giorno e notte migliaia di civili siriani in fuga da Aleppo - martellata dai bombardamenti aerei russi e dai mortai dell’esercito lealista di Bashar Al Assad -, ovvero vecchi, donne e bambini terrorizzati di finire nelle mani dei soldati del regime, le terrificanti foto scattate negli anni all’interno delle prigioni dal siriano Caesar, ex fotografo della polizia militare del sanguinario presidente Assad, non potranno essere viste dagli italiani perché sia il Senato sia la Camera le ritengono troppo crude.
Il Sole 24 Ore
IL MONDO RIUNITO AL CAPEZZALE SIRIANO
di Alberto Negri
Prima di ogni giudizio politico e di qualunque cronaca diplomatica sul complicato tentativo di un cessate il fuoco viene il dramma di una tragedia mediterranea senza confronti: sulla mappa del Medio Oriente un'intera nazione sta scomparendo. La guerra di Siria ha raggiunto dimensioni epocali, il maggiore disastro umanitario sulle sponde del Mediterraneo dai tempi della seconda guerra mondiale: in cinque anni secondo il Syrian centre for policy reserach (Scpr) i morti sarebbero 470mila contro i 250mila indicati dall’Onu, un dato che non sarebbe stato aggiornato nell’ultimo anno e mezzo. Gli sfollati sono il 45% della popolazione: 6,6 milioni sono quelli interni, oltre 4 coloro che hanno lasciato il Paese.
Nulla è definitivo nell’affollata guerra siriana, come non lo è attorno a un tavolo di giocatori incalliti. Dove, a tratti, i prepotenti, i virtuosi del bluff, hanno la meglio, nell’attesa che si concluda la partita. Quella in corso nella valle del Tigri e dell’Eufrate non è certo finita. La Russia di Putin è tuttavia al momento in grande vantaggio. È una svolta nel conflitto. Scesa in campo non ultima, ma soltanto di recente con un grande dispiegamento di forze, essa umilia in questa fase la coalizione guidata dalla super potenza americana, esitante e quindi nella scomoda posizione di chi subisce. E rischia un fallimento politico, militare e morale.
Una decisione formale non è mai arrivata, ma il premier Matteo Renzi non si rassegna facilmente all’idea di abbandonare il suo progetto di coinvolgere l’amico Marco Carrai a Palazzo Chigi per la sicurezza cibernetica. “Il governo è libero di avvalersi di consulenze”, ha detto il ministro Maria Elena Boschi in Parlamento due settimane fa.
«Quel che può capitare a giovani giornalisti o ricercatori in contesti drammatici, è un risvolto di situazioni inaccettabili per chi ci vive, che in qualche misura ci rimbalzano addosso. Accettare violazioni di diritti non porta mai niente di buono».
Il manifesto, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)
Avrei potuto fare la fine di Giulio Regeni quando mi arrestarono in Cile dopo il colpo di stato, tanti anni fa? Per un po’ di giorni l’Ambasciata non mi trovava né aveva conferma dell’arresto. Qualche europeo e qualche nordamericano vennero uccisi. Alcuni corpi non vennero mai trovati. Nel mio caso la notizia uscì quasi subito in Italia e ci furono sia le pressioni movimentiste di Lotta Continua («ridateci il nostro compagno», «collabora col nostro quotidiano») che quelle istituzionali diplomatiche richieste dalla mia famiglia.
Ci fu anche il rischio di uno scontro tra le due pressioni, perché Lotta Continua, accanto alle invocazioni per la mia liberazione, aprì una sottoscrizione per comprare Armi alla Resistenza, mentre la tesi difensiva mia e dell’ambasciata era che io ero solo un turista! Finì bene, non venni neanche torturato: per le pressioni diplomatiche e politiche ma forse anche perché nessuno ce l’aveva con me, non volevano far vittime europee. E un po’ anche per caso, perché il caso conta non solo nelle guerre ma anche nelle ondate di terrore repressivo. Le macchine del terrore non sono del tutto precise e logiche, servono appunto a terrorizzare. Mi scuso per questo attimo di autobiografismo, mi rendo conto che la vicenda di Giulio è diversa, non solo perché è finita in modo atroce ma perché molto probabilmente è anche cominciata in modo diverso.
Io ero stato arrestato da militari in divisa e portato allo Stadio (campo di concentramento), lui è stato sequestrato da non si sa bene chi. Tanto che c’è anche chi pensa (pochi, ma ci sono) che sia stato scambiato per una spia anti-islamista, non fatto fuori dal regime. Tornando a quella che sembra invece l’ipotesi più probabile, quella di un omicidio in qualche modo di stato, c’è da chiedersi se lo potevamo evitare. C’è chi sostiene che l’opinione pubblica e di conseguenza i giornali e di conseguenza il governo han fatto poche e tardive pressioni sul regime egiziano.Un’ipotesi inquietante.
Sento il bisogno di interrogare chi conosce questi meccanismi meglio di me.
Ed ecco la risposta di Roberto Toscano, l’allora giovane diplomatico a Santiago del Cile che si occupò del mio arresto, poi ambasciatore in vari paesi. «Sembra strano sostenerlo ma anche nel campo della repressione e delle dittature ci possono essere gradi diversi non solo per quanto riguarda l’orrore, ma anche in relazione alla possibilità di fare qualcosa. Voglio dire che, per quanto il golpe cileno fosse brutale, come diplomatico avevo la possibilità di muovermi sapendo dove andare e cosa chiedere per affrontare un caso come il tuo.
Quando sono andato al Ministero degli esteri cileno per denunciare la tua scomparsa mi hanno accompagnato in un ufficio dove una gentile impiegata ha sfogliato in mia presenza dei tabulati IBM: «Hutter…Hutter..ecco! è detenuto allo Stadio Nazionale». La storia successiva la sai anche tu: la visita, il pacchetto con le mutande di ricambio, il rilascio dopo qualche giorno. Certo, c’era il fatto che non ce l’avevano particolarmente con te. Sapevano che eri un sovversivo, naturalmente, ma non particolarmente pericoloso. Ma c’era anche, dietro questo modo di operare, il monopolio militare della repressione, senza spazio per gli squadroni della morte free-lance.
E c’era anche una preoccupazione per il mondo esterno, e per i rapporti con l’Italia. Trasportiamo tutto questo all’Egitto di oggi, e cominceremo a renderci conto del caso Giulio e delle sue difficoltà per chi vuole agire. Uno stato meno strutturato; il probabile ricorso a squadre di delinquenti — collaboratori; la fiducia (e forse questo è l’elemento più drammatico) che comunque sia l’Egitto è troppo importante per la sicurezza e l’economia per essere trattato con la durezza che altrimenti meriterebbe. Mi sembra che l’ambasciata si sia mossa tempestivamente.
(E chi ti parla, come sai, non è mai stato un diplomatico integrista-corporativo: quando c’è da criticare non mi tiro indietro). Il problema è più di fondo, è l’ indulgenza che siamo disposti a dimostrare per ragioni di “realismo” nei confronti di regimi che violano brutalmente e sistematicamente i diritti umani. Temo che se non fosse capitata questa tragedia, cioè il massacro di un italiano, l’insensibilità nei confronti di quello che accade in Egitto sarebbe da noi generalizzata. Ecco un altro elemento di differenza dal Cile: la sensibilità di un’Italia dove esisteva ancora la politica, e soprattutto la sinistra!».
Ecco. La tortura non è mai giustificabile. In nome della lotta al terrorismo, insomma per paura del terrorismo islamico, troppo spesso si abbassa la guardia sui diritti fondamentali. E si sottovaluta, noi, la necessità e possibilità di incidere almeno sui paesi del Mediterraneo. Vorrei che l’attenzione alla tragica fine di Giulio segni una inversione di tendenza. Non vorrei invece che un inconscio voyeurismo dell’orrore porti a sottovalutare altre violenze di stato solo perché non arrivano a quei livelli.
Sto seguendo alcuni giovani tunisini vittime di pesante bullismo omofobico nel carcere di Kairouan. Intervenire per i diritti umani in Tunisia è molto meno difficile che in Egitto, ma può esser utile per dare un buon esempio in tutto il mondo arabo. La tragedia di Giulio — e le ripercussioni che ha avuto anche al Cairo- deve spingerci ad alzare le pretese, non a rassegnarci. Mi immagino di proporre un articolo sulla denuncia dei gay contro le violenze nelle carceri tunisine e un caporedattore (immaginario) che mi risponda: «Non è interessante, cosa vuoi che sia dopo il caso di Giulio?» No, non è così. Al giovane Jihed di Tunisi, ancora frastornato dalle botte in carcere, e che nei prossimi giorni affronterà (a piede libero, adesso) l’appello per «atti omosessuali» vorrei invece dire che dopo quel che è successo a Giulio l’Italia e l’Europa sono più sensibili ed esigenti anche per lui, al suo fianco.
Le associazioni ambientaliste e i comitati No Triv lo stavano chiedendo da settimane: indire un election day per unire il referendum contro le trivellazioni per la ricerca di petrolio in mare e il primo turno delle elezioni amministrative, che coinvolgerà 1342 comuni. Greenpeace aveva anche raccolto 68mila firme a sostegno della giornata elettorale, eppure il governo non ha ascoltato la richiesta e durante il consiglio dei ministri di mercoledì sera ha deciso la data: il referendum si farà il 17 aprile.
Ma quanto costa agli italiani non far coincidere i due eventi? Secondo le stime dei comitati lo spreco è di circa 360 milioni di euro. Altri, come Sinistra Italiana e M5S, parlano di 300 milioni. Basti pensare che per le elezioni politiche del 2013, furono destinati 220 milioni di euro di rimborsi ai comuni e 73 milioni di euro per le esigenze di ordine pubblico. «Ne costasse anche 100 di milioni - dice al FattoAndrea Boraschi, responsabile della campagna Clima ed Energia di Greenpeace - si tratterebbe comunque di una spesa in più per le tasche degli Italiani».
È scoraggiante che occorra la tortura e la morte di un giovane intellettuale del Primo mondo per far comprendere ai suoi colleghi di quanto sangue grondino gli scettri dei tiranni al potere grazie al sostegno dei "nostri" governi. Intervista di Francesca Caferri a Olivier Roy.
La Repubblica, 12 febbraio 2016
Olivier Roy, docente dello European University Institute di Fiesole, è uno dei massimi esperti mondiali di Islam. E fra i primi firmatari dell’appello sottoscritto da oltre 4500 accademici di tutto il mondo e indirizzato al presidente egiziano Al Sisi per chiedere giustizia per Giulio Regeni e per tutte le vittime di sparizioni forzate in Egitto.
Professor Roy, perché ha firmato l’appello?
«Perché questa morte mi è sembrata subito sospetta e il comportamento delle autorità egiziane molto ambiguo. Hanno dato spiegazioni diverse e confuse quando è stato chiaro sin dall’inizio che Giulio Regeni era stato sequestrato dalla polizia o da qualche forza governativa. Il suo non è il primo caso di ricercatore finito nelle mani della polizia in Egitto: finora gli stranieri erano stati interrogati, maltrattati e poi espulsi ma nessuno si era fatto male. Era un modo per mettere pressione su di noi. I colleghi egiziani avevano avuto una sorte peggiore: parecchi erano finiti in prigione ed erano stati torturati. Ora però c’è un morto, non possiamo più restare in silenzio».
Crede che questo appello possa davvero servire?
«Il governo egiziano non può ignorarlo: è la prima volta che c’è una mobilitazione simile nel mondo accademico. Non parliamo solo di quello che è accaduto adesso ma della pressione fortissima che si è sviluppata negli ultimi anni contro gli accademici. È venuto il momento di reagire. Credo che la lettera possa servire perché questo governo vuole apparire agli occhi del mondo come un fattore di stabilizzazione nella regione e una barriera contro il radicalismo islamico. Ma così la sua strategia non funziona».
Perché?
«Perché le politiche che portano avanti non fanno che accrescere l’instabilità e la radicalizzazione, come vediamo bene anche nel Sinai».
Che si aspetta dall’Egitto?
«Chiediamo al governo di dire la verità: avrebbe dovuto immediatamente aprire un’inchiesta su quello che è successo invece di spargere pettegolezzi sulle presunte frequentazioni omosessuali di Regeni».
Che conseguenze avrà questa vicenda nel mondo accademico?
«Molte persone sono spaventate. Molte istituzioni diranno ai loro professori e ai loro studenti di non andare in Egitto: e in questo modo il governo avrà ottenuto quello che voleva, che è azzittire la ricerca. Noi non vogliamo che questo accada».
Che contributo portano persone come Giulio Regeni alla ricerca accademica?
«Un contributo fondamentale. Sono quelle che si immergono nella realtà che li circonda. Sono piene di passione e di voglia di fare. Portano conoscenze fondamentali su cui poi noi professori ci basiamo. Ci fidiamo di loro perché vanno a fondo: io e molti miei colleghi non abbiamo più il tempo e il modo di andare al Cairo e passare un mese nelle periferie per capire cosa pensa la gente. Giulio Regeni e quelli come lui avevano questa possibilità. Il lavoro vero è il loro, non il nostro. Senza persone così non ci sarebbe ricerca vera, ma solo paludati convegni ».
L'intervento del presidente dei vescovi italiani conduce a distorcere l'uso di una forma di votazione (il voto segreto) che era finalizzato a garantire la libertà delle coscienze, oggi è lo strumento della loro coartazione.
Il Fatto quotidiano, 12 febbraio 2016
Il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ha superato la linea sottile che separa il diritto della Chiesa di esprimere valutazioni, esortazioni e moniti in assoluta libertà, specie su questioni etiche, dalla vera e propria ingerenza in questioni che riguardano solo il Parlamento. Un conto è dare voce al sentimento morale cattolico contro le unioni omosessuali, in particolare contro le adozioni; e persino sollecitare le resistenze di una parte consistente dell’opinione pubblica avversa alla nuova legislazione. In una società liberale questo è concesso, anzi è dovuto agli esponenti delle confessioni religiose. Ed è bene che sia così.
Passano i giorni, si rinvia l’inizio delle votazioni, ma non si vede un possibile punto d’incontro. Anzi, la tensione tende a crescere in Senato e certi fragili accordi dei giorni scorsi sono già saltati oppure non trovano concreta applicazione. Come lo scambio fra Pd e Lega: da un lato, la rinuncia di quest’ultima a mettere in votazione una massa esorbitante di emendamenti; dall’altro, una linea più aperta e meno intransigente del Pd su altri emendamenti sostanziali che non potranno essere cassati con espedienti di tecnica parlamentare.
In altri termini, la matassa non si sbroglia e la prospettiva di una legge Cirinnà amputata di alcuni aspetti non secondari — le adozioni, appunto — oggi sembra plausibile, anche se non ancora probabile. È chiaro che le parole del presidente della Cei hanno l’effetto di esasperare gli animi. Il ricorso al voto segreto è una prassi legittima in Parlamento, sebbene limitata a circostanze ben definite. Un tempo serviva a proteggere il deputato o il senatore da rivalse e vendette del potere costituito, oggi che rischi non ce ne sono diventa spesso solo un alibi e una scomoda scappatoia. Lanciare il sasso e ritirare la mano, secondo un’immagine ben nota.
La storia repubblicana insegna che l’evoluzione del costume e il rapporto fra cattolico e laici trae vantaggio da un confronto ragionevole, privo di estremismi di qualsiasi tipo. Non è detto quindi che l’iniziativa della Cei, quella sottile linea rossa che è stata scavalcata dal presidente dei vescovi, sia destinata a produrre risultati utili per il punto di vista della Chiesa. Il senso religioso e morale di un paese non si esalta e non si cancella a seconda di come il Parlamento vota una legge della Repubblica.
Ancor meno se questo o quell’emendamento viene approvato grazie allo scrutinio segreto che scava nelle inquietudini dei parlamentari. Se il voto deve essere di coscienza, esso merita di manifestarsi senza infingimenti. Altrimenti si tratterebbe di una coscienza molto debole.E quando la posta in gioco è etica, il primo a rifiutare una coscienza debole e irresoluta dovrebbe essere il cardinale Bagnasco.
Il manifesto, 12 febbraio 2016
Milano è stata la peggiore di tutte anche perché pesa particolarmente la situazione disastrata del settore bancario, in un quadro europeo che comunque lo vede mal messo da tempo. L’indice paneuropeo FTSEuro first 300 a fine mattinata perdeva il 3,5%, rimangiandosi abbondantemente i rialzi del giorno prima. Dall’inizio di febbraio l’indice ha lasciato per le terre quasi l’11%. Ci avviamo con rapido passo verso una perdita mensile quale non si era vista dal 2008. In Italia il settore bancario, di cui tutti vantavano la straordinaria solidità, dal Presidente del Consiglio al Governatore di Bankitalia, è in sprofondo rosso. Mps è arretrata del 10,5%, Unicredit del 8,9%, Mediobanca del 9,96%.
Intanto il differenziale di rendimento, lo spread, fra Btp italiano e il Bund tedesco (quest’ultimo ormai con rendimenti negativi) viaggia sui 155 punti. Più o meno a metà strada fra il luglio 2011, quando era sopra i 200 punti, e il febbraio dello scorso anno quando varcava al ribasso la soglia dei 100 punti per la prima volta dopo cinque anni di crisi. Si torna indietro quindi e di parecchio. I timori di una nuova fase acuta recessiva sono tutt’altro che infondati. Anche perché il cane della crisi si morde la coda.
Alla base del tonfo di ieri vi sono varie cause, diverse e contemporanee. Alcune più contingenti, altre più strutturali. Solo che si sommano tra loro provocando effetti shock. Certamente ha pesato la decisione della Fed di rinunciare per il momento al rialzo, seppure modestissimo dei tassi. Il che indica – ed è questo che conta – che la Yellen ha percepito dagli ultimi dati che l’economia americana non è più in fase di sicura ripresa come sembrava fino a poco tempo fa e che l’occupazione, indicatore chiave per la Fed a differenza che per la Bce, segna il passo. Lo sanno bene coloro che sono corsi a votare nelle primarie democratiche per Bernie Sanders.
Tutto diventa così più incerto a livello globale. Il petrolio continua la sua corsa al ribasso. Ne soffrono i paesi produttori e al contempo dimostra che nei paesi importatori – vedi la Cina – l’economia non riprende quota. Siamo giunti a 27 dollari al barile e per converso l’oro – la “barbara reliquia” come la definì Keynes – rispolvera i fasti di bene rifugio, riportando l’oncia a quota 1.214 dollari. L’ottovolante delle Borse non può tuttavia essere spiegato solo con la fragilità psicologica degli investitori. Piuttosto con le contraddizioni intrinseche del mercato finanziario globale, che sono concatenate tra loro e quindi si alimentano a vicenda. Le Borse sono “vittime” di vendite forzate di titoli azionari. Ovvero non spinte da puri disegni speculativi - anche quelli intendiamoci - ma quasi obbligate dal concatenarsi di situazioni sfavorevoli. Chi ha preso denaro in prestito ponendo azioni in garanzia, ora che il mercato azionistico vacilla si trova costretto a reintegrare quelle garanzie. Lo fa con altro denaro o con altre azioni. Se non ne ha, le banche vendono le azioni in loro possesso. Visto il calo del prezzo del petrolio, molti fondi sovrani alimentati da petrodollari sono spinti a liquidare titoli in loro possesso. Si parla di 300 miliardi di dollari in pochi mesi. I fondi pensione e le assicurazioni a loro volta per erogare i tassi minimi che garantivano (tra l’1% e il 1,5%) si sono riempiti di Bund. Ma se il rendimento dei Bund trentennali è al di sotto, devono comprare le opportune “protezioni” sul mercato finanziario. Ad esempio futures sui Bund che ne deprimono ulteriormente i rendimenti.
Dal canto loro le banche, in primis quelle italiane, si sono riempite di denaro a basso costo elargito dalla Bce. Ma non l’hanno prestato, anche per aumentare il patrimonio e in vista dall’entrata in funzione del bail in. Che peraltro sarebbe stato molto meglio procrastinare, visto anche che non vi è alcuna garanzia europea sui depositi bancari per l’opposizione tedesca. L’aumento dello spread ora le penalizza. Infatti con quel denaro hanno ricomprato titoli di stato sul mercato e ne sono piene. Se questi sono considerati più rischiosi, la banca viene percepita come più insicura e più costoso diventa il suo finanziamento. Quindi stringono la cinghia. I mutui tornano a tassi più elevati; i prestiti a famiglie e imprese diminuiscono o si bloccano del tutto. La domanda di consumi e di investimenti si deprime ulteriormente. L’economia italiana sprofonda. E non è questione di decimali.
Se si vuole restar fedeli «a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della critica" il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del "disvelamento"» occorre tornare a parlare del capitalismo.
Il manifesto, 12 febbraio 2016
Nell’articolo di Piero Bevilacqua (il manifesto, 28 gennaio) il centro del problema riguarda le possibilità di convergenza di un ampio ventaglio di saperi in un comune denominatore di critica alla «cultura neoliberista, alla sue strategie, alle sue pratiche». «Un comune denominatore molto ampio – dice ancora Bevilacqua – in grado di tenere anche posizioni politiche distanti».
Discutere di tali questioni a partire dai nomi contenuti nella «parziale» mappa degli studiosi di varie discipline che l’autore ha collocato in appendice del suo testo è fuorviante perché il panorama degli studiosi «critici» è più ampio, più articolato e, d’altra parte, l’autore stesso parla di una lista «tracciata alla buona». È possibile che tale «comune denominatore» possa tenere insieme posizioni politiche anche distanti, ma dal punto di vista analitico le cose sono più complicate.
Coloro che si riconoscono interni a quella grande tradizione intellettuale che ha fatto della «critica» il momento centrale della pratica di pensiero che si pone, in primis, l’obbiettivo del «disvelamento», quindi pressoché tutti coloro a cui Bevilacqua si rivolge, sanno perfettamente che termini come «neoliberismo» ed anche «liberismo» altro non sono che componenti di una narrazione ideologica di «superficie».
Una narrazione che copre i meccanismi strutturali del mutamento, anzi della molteplicità dei mutamenti, della loro corposa incidenza nella vita materiale, intellettuale, spirituale (perché no?) di tutti noi, sotto la coltre di categorie disincarnate dai fatti. Categorie disincarnate rispetto ad una realtà economico sociale, che non ha alcun rapporto con quella narrata dai vincitori di questa fase di accumulazione.
La narrazione ci descrive un campo di battaglia dove le roccaforti delle nostalgie novecentesche (intromissione della politica nella sfera economica, ostacoli alla libera competizione e dunque alla formazione di un mercato mondiale di liberi e di uguali) stanno definitivamente cedendo al soffio vivificante di un neoliberalismo in espansione. Persino nella stagione classica del laissez fair, grosso modo fino al 1870, i processi di accumulazione utilizzavano a piene mani tanto dimensione statuale che formazioni oligopolitistiche ed anche monopolistiche. Oggi poi, in piena retorica neoliberista, tali aspetti sono addirittura i punti di forza del processo in atto.
Ecco che, allora, il pensiero può avere dignità «critica» se si confronta con i caratteri consustanziali alle ragioni, alle logiche, alla direzione dei mutamenti in atto, se si confronta con l’analisi delle odierne forme capitalismo.
«Capitalismo»: un termine che, soprattutto coloro che avrebbero dovuto essere gli eredi della storia del movimento operaio fanno fatica ad usare, anzi non usano proprio. Già più di vent’anni fa lo storico Raffaele Romanelli sottolineava il fatto che l’uso del termine «mercato» e l’uso del termine «capitalismo» comportava un diverso apporto teorico. E Luciano Gallino, nel suo ultimo libro, ha definito questo slittamento lessicale, «una frode linguistica».
Al concetto «capitalismo» si addicono analisi strutturali. Il che implica anche una particolare misura del tempo storico, compresa la cosiddetta transizione del tempo che stiamo vivendo. Implica la necessità di pensare il tempo lungo della modernità capitalista scandito dalle fasi delle sue diverse forme di accumulazione. Questo significa che le differenze, a volte anche profonde, tra le differenti fasi, tra le diverse forme capitalismo, devono venir ricondotte al un livello temporale ancora più profondo e più lungo. Perché oggi il mercato globale necessita di un paradigma interpretativo in grado di combinare la pluralità dei tempi e dei modi di manifestarsi nella dimensione unificante della modernità. La «modernità liquida», seconda la nota definizione di Bauman, è l’aspetto fondante di un post capitalismo, è la porta d’ingresso definiva nella postmodernità, o è del tutto interna ad una forma capitalismo?
Se optiamo per la prima risposta cambiano radicalmente i termini del nostro rapporto con la dimensione conoscitiva di questo nostro presente, dei processi storici che alla «modernità liquida» hanno portato, ed anche, è impossibile evitarlo, con le possibilità di trasformazione in senso democratico del «momento attuale». Se però, come credo, i meccanismi di questo «momento attuale» non sono affatto estranei alle ragioni profonde dei mutamenti della forme capitalismo, e che, nell’attuale fase di accumulazione, sono impliciti (in molti casi espliciti) aspetti fondamentali di forme precedenti dispiegati in maniera esponenziale, ecco che i termini del rapporto rottura-continuità non possono esaurirsi esclusivamente nel momento della negazione.
Dobbiamo interrogarci sulle caratteristiche del rapporto capitalismo-modernità in questa nostra transizione/non transizione. In particolare del rapporto del capitalismo con quella che, per la nostra tradizione, è la promessa fondamentale della modernità: la democrazia, cioè la tensione inesaustiva verso l’uguaglianza storicamente possibile.
Allora è all’interno di questo panorama analitico che è possibile ricreare quei sistemi di rilevanza in grado di contrastare i moltissimi aspetti di irrilevanza che sono stati (e sono) l’altra faccia del processo di frammentazione dei saperi.
Noi siamo le vergini dai candidi manti/sfondate didietro ma sane davan ti/Nell’arte sovrana di fare i pompini battiamo le troie di tutti i casini”. Le ‘vergini dai candidi manti’sono in questo caso i governi, i politici, i politologi, i geopolitici, gli intellettuali, i giornali, gli opinionisti, i commentatori, i giornalisti del mondo cosiddetto democratico che si accorgono solo oggi, colpiti da improvvisa folgorazione, chi è il generale Abd al-Fattah al-Sisi e solo perché in Egitto è stato torturato e ucciso un giovane occidentale, sorte toccata ad almeno 1.500 oppositori, quasi tutti Fratelli musulmani, nei 3 anni di regime del rais del Cairo.
Bibliografia ragionata sulle proteste sociali, determinanti per i rapporti tra stato, capitale e lavoro in Medio Oriente e Nord Africa. Il manifesto, 11 febbraio 2016 (m.p.r.)
Molti analisti e accademici hanno sottovalutato l’anima sociale delle rivolte che hanno attraversato il Medio Oriente tra il 2011 e il 2015. Eppure altri studiosi, come Giulio Regeni, hanno sottolineato quanto le proteste fossero radicate nella trasformazione dei rapporti tra stato, capitale e lavoro che hanno avuto luogo nei 35 anni precedenti al 2011 a livello locale e globale. Per esempio, Joel Beinin nel suo Workers and thieves. I movimenti dei lavoratori e le rivolte popolari in Tunisia ed Egitto (Stanford, p. 176, 2015) è lo studioso del Medio Oriente che più ha puntato sul monitoraggio delle proteste dei lavoratori. Secondo il docente dell’Università di Stanford, i sindacati egiziani hanno pagato la minore organizzazione rispetto all’Unione generale del Lavoro (Ugtt) in Tunisia.
«Scopriamo che cos’è il regime di Al Sisi solo in seguito a questo massacro, avendone ignorato tutti gli altri finora e avendo finora consentito al governo italiano di trattarlo senza contestazione alcuna come un alleato necessario e prezioso».
Internazionale.it, 10 febbraio 2016 (m.p.r.)
Ossa rotte, forse una trentina. Unghie strappate, ai piedi e alle mani. Bruciature di sigarette sparse sulla pelle. Orecchie mozzate. Un colpo finale alla noce del collo. Quanti giorni e quanto sadismo ci vogliono per ridurre così il corpo e l’anima di un essere umano? Nove, secondo alcune ricostruzioni, cinque secondo altre. È il tempo che Giulio Regeni ha impiegato per morire. Quanti giorni e quanto cinismo ci vogliono perché il caso Regeni sia soppiantato dal cattivo andamento delle borse e dalle primarie di Milano nelle aperture dei giornali e dei telegiornali? Ne bastano quattro. È il tempo che Giulio Regeni sta impiegando per morire una seconda volta, come una fra le tante casualties della guerra globale in corso archiviate senza nemmeno la consolazione di una verità plausibile.
Poche ore sono bastate invece a noi per farci un’idea di quella verità, e per realizzare altresì che non coinciderà mai con la versione ufficiale dei fatti, quella che risulterà dalla somma algebrica e real-politicamente accettabile tra la volontà di sapere del governo italiano e la volontà di mentire di quello egiziano. Giulio Regeni è stato torturato, seviziato e ucciso dagli apparati di un regime efferato: poco importa se dalla polizia, dai servizi o da forze speciali. I depistaggi tentati di giorno in giorno da quel regime e dai suoi apparati - si è trattato di un incidente; si è trattato di un crimine di terzi ignoti; cercate tra gli amici con cui andava per feste di compleanno - non fanno che confermarne l’efferatezza. E gli eventuali cedimenti del governo italiano di fronte alla ragion di stato, ovvero alle ragioni economiche che fanno di Al Sisi un interlocutore da trattare coi guanti gialli, non farebbero che renderlo complice, va detto senza mezzi termini, di quella efferatezza.
Adesso non bastano tutte le lacrime che abbiamo per piangere su quel corpo straziato. E del resto esso ci domanda di non velarli di pianto ma di tenerli bene aperti, con tutta la rabbia e l’odio che i genitori di Giulio allontanano da sé, ma noi abbiamo invece il dovere morale di non spegnere, su almeno tre abissi che questa orribile vicenda spalanca.
Primo, l’abisso dell’ignoranza. Siamo nel pieno di una guerra globale di cui non conosciamo nemmeno le pedine a noi più prossime. Scopriamo che cos’è il regime di Al Sisi solo in seguito a questo massacro, avendone ignorato tutti gli altri finora e avendo finora consentito al governo italiano di trattarlo senza contestazione alcuna come un alleato necessario e prezioso. Nella più completa insipienza della complessità dello scenario mediorientale, ci accontentiamo della logica secondo la quale “il nemico del mio nemico è mio amico”, una logica che in quella come in altre parti del mondo non ha mai prodotto nulla di buono, senza neanche chiederci se i nostri presunti amici siano, al fondo, assai simili ai nostri nemici. Ci si può fidare del terrorismo di stato di Al Sisi per combattere lo stato terrorista dell’Is? Si può continuare a pensare che le dittature possano fare da argine al fondamentalismo? Se in Italia esistesse un’opposizione, sarebbero buone domande da porre con una certa fermezza al governo.
Secondo, e correlato, abisso: il cinismo dell’informazione, che dell’ignoranza di cui sopra è largamente responsabile. Ma non solo di quella. Mi chiedevo prima quanto tempo ci ha messo il caso Regeni a “scendere” dalle aperture ai tagli bassi di prima pagina. Ma vale anche la domanda contraria, quanto tempo ci abbia messo a “salire” dalla notizia di dieci righe all’apertura: nove, lunghissimi giorni, i giorni della “sparizione” di Giulio. Nove giorni senza quella pressione dell’opinione pubblica che forse, com’è stato giustamente scritto, avrebbe potuto contribuire non poco a salvargli la vita. Senza dire di quelli che sui giornali insinuano che “il ragazzo se l’è cercata”, o di quelli preoccupati, perfino in questa circostanza, di preservare il governo dagli “antitaliani” che osano avanzare una critica o una domanda. È pensabile almeno una mossa di riscatto? Un segno di lutto, un’insistenza sul fatto, fino a quando la verità, evidente anche ai ciechi, non sarà anche ufficialmente assodata e riconosciuta, con tutte le conseguenze politiche ed economiche del caso?
Terzo abisso, il precipizio dell’umano. La disumanizzazione, si sa, è il costo di qualunque guerra, il prezzo della violenza illimitata che ogni guerra scatena. Ma questo non ci esime dall’analizzare le modalità specifiche in cui si produce in questa guerra, che sempre più assume i caratteri di una guerra civile globale. Dove tutte le vittime sono vittime civili casuali, e lo status di casualties si estende fino a diventare regolarità. E dunque non è affatto un caso che a rimetterci la vita siano giovani studiosi e attivisti come Giulio Regeni o, fatte le dovute differenze, Valeria Solesin. Ha ragione chi in queste ore giudica insopportabile la retorica dei “giovani italiani all’estero” da cui è avvolta la loro morte. Non solo perché sono precisamente i giovani lavoratori della conoscenza a cui l’Italia del precariato intellettuale perenne non dà alcuna prospettiva di lavoro e di vita. Ma anche perché sono giovani globali, che lavorano sulle e nelle contraddizioni del mondo globale e perciò stesso sono i più esposti alle loro esplosioni. Sono, in altri termini, gli anticorpi dell’ignoranza e del cinismo in cui nella provincia italiana restiamo pigramente avvolti, e immeritatamente autoassolti dalle tragedie di un presente che ci assedia senza svegliarci. Dobbiamo loro qualcosa di più di un lutto momentaneo: quantomeno, che questo lutto resti aperto fino a un sia pur parziale, sia pur vano risarcimento.
I tratti salienti del disegno legge Cirinnà in discussione in questi giorni. Il manifesto, 11 febbraio 2016 (m.p.r.)
Si chiama «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze» il disegno di legge Cirinnà (Atto del Senato n. 2081). In discussione è la versione del provvedimento, il Cirinnà bis, con le modifiche approvate negli ultimi mesi.
lternative per il Socialismo n. 39, febbraio-marzo 2016
Intervenendo alla Direzione del suo Partito, Matteo Renzi è andato giù di sciabola nei confronti della titubante “sinistra” interna. Permettendosi anche il lusso di prendere in giro il suo predecessore. “Una sconfitta al referendum (quello cosiddetto confermativo sulle modifiche costituzionali) non si può affrontare dicendo ‘ho non vinto’ – il riferimento evidente a tutti è alla ‘non vittoria’ di Pierluigi Bersani nelle elezioni politiche del 2013 -. Una sconfitta al referendum segnerebbe fatalmente la mia esperienza. Il mio non è un tentativo di plebiscito ma etica della responsabilità”. Il premier si affida quindi a suggestioni weberiane pur di ribaltare l’accusa scontata di vocazioni plebiscitarie. La performance oratoria non solo non liquida i sospetti più ovvii, ma non elimina la sostanza della critica che gli viene o gli dovrebbe essere rivolta. Quella di schiacciare la questione delle modifiche alla Costituzione sulla contingenza politica, quale effettivamente è la sopravvivenza o meno del suo governo.
Scrivere una Costituzione esige di elevarsi
sopra le vicende politiche del momento
Al contrario le esternazioni di Renzi confermano la pochezza della classe politica da lui incarnata. Ai Costituenti d’antan non sarebbe mai venuto in mente di pensare, progettare e scrivere una Costituzione avendo a cuore principalmente la sorte di questo o quel governo. Anzi il loro spirito era quello di guardare ben al di là, sapendo che le regole che stavano costruendo avrebbero dovuto reggere a diverse temperie politiche; avrebbero dovuto proprio garantire che rivolgimenti nel quadro politico potessero avvenire entro un quadro di stabilità e di sopravvivenza dell’ordinamento costituzionale. Tanto erano gelosi del fatto che la Costituzione italiana dovesse garantire il massimo della espressione e della rappresentanza politica che i costituenti limitarono il divieto di ricostituzione al solo partito fascista e non a quello monarchico, pur esplicitando che la forma repubblicana non avrebbe mai potuto essere messa in discussione nemmeno da un procedimento di revisione costituzionale. Lo stesso Piero Calamandrei si espresse in favore della legittimità dell’esistenza di un partito monarchico (Piero Calamandrei, Scritti e discorsi politici, II, Firenze 1966)
Il testo entrato in vigore il 1° gennaio del 1948 è vissuto per diversi decenni in equilibrio fra le esigenze opposte di fissità e di mutamento. Un equilibrio che fino a un certo punto è stato garantito dalle procedure di revisione costituzionale previste nell’articolo 138 Cost. (il cui testo è riportato nell’Appendice al presente articolo). Come osservò il Mortati l’esistenza in una Costituzione di organi o procedure speciali per potere procedere alla sua mutazione sono “mezzi essi stessi di conservazione” (Mortati, Raccolta di scritti, II, Milano, 1972) capaci di fare fronte contemporaneamente al “timore o l’impazienza dei partiti dei conservatori e degli innovatori” per usare le parole di Zagrebelsky (Zagrebelsky, Portinaro, Luther, Il futuro della Costituzione, Torino, 1996). Non a caso quando, a partire dagli anni Ottanta, si cominciò a parlare di una “grande riforma” della Costituzione che la adeguasse al “paese reale”, ovvero codificasse le trasformazione intervenute nella società economica, civile e politica dalla vincente offensiva neoliberista, venne posto anche il tema di un superamento o di una deroga all’articolo 138. Di tale natura sono le leggi costituzionali che nel 1993 e nel 1997 diedero vita a due successive Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali (prima la cd De Mita-Iotti, poi quella D’Alema).
Il fallimento di queste ultime riportò in auge l’articolo 138, pur non venendo a mancare tentativi di proporre una modificazione anche di quest’ultimo. Ma, come oggi ben si vede, non spense le ansie di una modificazione sostanzialmente integrale della seconda parte della Costituzione. Le modificazioni della legge elettorale intercorse nel frattempo hanno infatti offerto ai manipolatori della Costituzione un parlamento sempre più affidabile per i loro fini. Ad opporsi a questi ultimi rimane perciò il solo Referendum, che andrebbe chiamato oppositivo, e non confermativo, anche perché venne espressamente pensato fin dalla sua istituzione come uno strumento delle minoranze contro la prevaricazione delle maggioranze in materia costituzionale, con il ricorso diretto alla volontà popolare.
Il tentativo di accorpare il referendum costituzionale
con le amministrative
Davvero altri tempi e ben altre temperie culturali. Oggi tale è l’identificazione della propria sorte con l’esito del referendum costituzionale che Renzi sta ponderando l’idea - che infatti circola tra i giuristi legati a Palazzo Chigi - di unificare addirittura la data di celebrazione del referendum con quella delle elezioni amministrative previste per la fine della primavera. Nella illusione che questo faciliti l’afflusso alle urne e gli permetta di vincere in un referendum che, come è noto, non prevede il quorum. Probabilmente, se questo tentativo verrà portato avanti, ci toccherà sentire la solita litania sul risparmio per l’erario statale che ne deriverebbe. Ma mai tale argomento sarebbe più infelice e rivelatore del carattere puramente strumentale e contingente che il governo attribuisce al pronunciamento referendario. Altra cosa sarebbe, questa sì possibile, anzi auspicabile perché le materie non sono incongruenti, se venisse accorpato al voto amministrativo quello sul quesito sopravvissuto contro le trivellazioni petrolifere in mare, promosso da diversi consigli regionali. Tenere ben distinti i momenti stessi del pronunciamento popolare, in modo che non si dia il minimo adito alla confusione o anche alla semplice sovrapposizione fra preferenza politica e scelta costituzionale dovrebbe essere l’archetipo su cui fondare una democrazia.
Il comitato per il No alla revisione costituzionale si muoverà in ogni caso nella direzione di impedire materialmente una simile scellerata decisione, depositando, un minuto dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della nuova legge di revisione costituzionale la richiesta di raccogliere 500mila firme tra i cittadini utili per la convocazione del referendum sulle modifiche costituzionali, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Quest’ultimo infatti prevede che tale referendum, qualora la legge di revisione sia stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere con una maggioranza inferiore di due terzi dei suoi componenti - circostanza certa in questa occasione - possa essere promosso da un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. L’una cosa non esclude l’altra, poiché il diritto dei cittadini di farsi in prima persona promotori di tale referendum, pur essendo medesimo il contenuto, non può essere in alcun modo conculcato, né sostituito da rappresentanti eletti nel parlamento nazionale o nei consigli regionali. D’altro canto vi è un importante precedente che va in questo senso. Quello costituito dal secondo referendum che si tenne sulla modifica del titolo V della Costituzione nell’ottobre del 2001. Poiché l’approvazione della legge di revisione non può avvenire prima della metà di aprile e poiché la raccolta delle firme dei cittadini ha tre mesi di tempo per essere espletata, questo accorpamento ventilato in ambiti governativi con le amministrative che al più tardi possono tenersi a giugno, non potrò avere luogo a meno di non creare un violento conflitto con la stessa Corte Costituzionale.
Le preoccupazioni del Pd
sull’esito del pronunciamento popolare
Tuttavia il solo fatto che se ne parli è indice di una evidente preoccupazione da parte del partito renziano. Non esistendo il quorum viene meno il ricorso alla astensione. L’arma di utilizzare la passività, la disinformazione o l’indolenza popolari è del tutto inutilizzabile. Il No combatte contro un unico avversario, il SI, non contro due. E’ un duello non un “triello”, come nel finale di uno dei più famosi western di Sergio Leone. Va anche aggiunto che l’ultimo referendum su materie costituzionali – il premierato voluto da Berlusconi – vide una vittoria netta dei contrari, ma soprattutto un’affluenza alle urne che superò la maggioranza degli aventi diritto, quindi l’asticella del quorum pur non essendo questo necessario. Era la fine di giugno del 2006. Certamente tutt’altra situazione politica e un diverso stato di salute della democrazia del paese, nel frattempo ulteriormente deterioratisi. Ma è pur vero che c’è un ostacolo difficile da sormontare per chiunque voglia manipolare la Costituzione a proprio piacimento, e questo è rappresentato dai cittadini italiani. Ed anche da istituzioni locali, come indica la mozione prevalsa nel consiglio comunale di Pisa contro le modifiche costituzionali, approvata anche grazie ad una significativa spaccatura determinatasi tra i consiglieri del Pd.
Quindi è necessario, per coerenza di principi, ma anche per ricerca di efficacia, guardarsi bene dal cadere nel tranello delle contrapposizioni Renzi Sì - Renzi No; continuità del governo – fine traumatica della legislatura; stabilità – caos. Su questo, come già si vede, la propaganda renziana si spenderà ampiamente e c’è da credere che non si fermerà sulla soglia del video televisivo ma effettivamente cercherà di varcare la casa di ogni elettore. Da qui la scelta dell’entourage renziano di avvalersi della collaborazione di un guru delle campagne elettorali anglosassoni, ove la personalizzazione è d’obbligo, quale Jim Messina, che fu a capo della campagna elettorale di Obama nel 2012. Quella che portò alla rielezione del presidente americano. Un curriculum lungo, il suo. Con consulenze ad alcuni degli attuali leader mondiali. Dall'attuale inquilino della Casa Bianca, appunto, al premier britannico David Cameron.
La posta in gioco
per il progetto politico di Renzi
D’altro canto la posta in gioco per Renzi è enorme. Pur lasciando a lui le velleità plebiscitarie, è certamente vero che l’affossamento delle deformazioni costituzionali segnerebbe una brusca battuta d’arresto di un progetto politico-istituzionale che non nasce con Renzi, ma che certamente il leader di Rignano ha incarnato con tutto se stesso. In primo luogo va tenuto presente che l’Italicum, ovvero la modificazione della legge elettorale, entrerà in vigore pienamente non prima del primo luglio di quest’anno e si applicherà solo alla Camera dei Deputati, proprio perché per quella data si prevede che il Senato venga modificato in un organo non elettivo, oltre che essere depotenziato. Se quindi l’effetto del referendum fosse quello di richiamare in vita il Senato come è nella sua versione attuale – e non potrebbe essere diversamente, visto che il referendum può solo dire NO alla legge e non modificare in modo diverso o opposto la normativa costituzionale precedente – l’Italicum in quanto tale non sarebbe applicabile. E’ vero che, vista la disinvoltura istituzionale e costituzionale dell’attuale governo e della maggioranza che lo compone e lo sorregge, non sarebbe impossibile sanare il vuoto con qualche modifica alla nuova normativa elettorale. Ma questo ne violerebbe la conclamata intangibilità, con il rischio di aprire la porta ad altre modifiche a Renzi non gradite.
Ma soprattutto la eventuale sconfitta nel referendum, con la vittoria del NO, oltre a tutti gli effetti collaterali o indiretti che provocherebbe sul terreno politico, spezzerebbe quella tenaglia costituita dal binomio nuova legge elettorale-deformazione della Costituzione su cui si poggia l’ambizioso disegno renziano. Segnerebbe una battuta d’arresto nella costruzione di un regime oligarchico, sostanzialmente a-democratico, basato sul principio delle nomine e della cooptazione nel sistema di potere e sulla mortificazione del principio della rappresentanza politica e conseguentemente della democrazia nelle sue forme basilari e sostanziali. Tale disegno è l’implementazione in salsa italica di un progetto certamente non nuovo che ha contrassegnato la vita politica e istituzionale dei paesi a capitalismo sviluppato perlomeno a partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. E’ la ormai lunga storia della separazione fra capitalismo e democrazia, o, per usare altri termini di origine luhmanniana, della riduzione neoautoritaria della complessità della domanda sociale. Una storia che ha subito una evidente accelerazione nel corso di questa grande crisi, cui le classi dirigenti hanno risposto non solo con politiche economiche deflattive ma anche con una violenta e sistematica torsione istituzionale.
J.P. Morgan entra a gamba tesa
sulle Costituzioni democratiche
Una delle più recenti esternazioni in questo senso può essere trovata in un documento elaborato dalla J.P. Morgan e reso noto nel giugno del 2013, pochi mesi dopo le ultime elezioni politiche italiane e non molto prima che il disegno di legge Renzi-Boschi cominciasse il suo cammino (quest’ultimo venne presentato l’8 aprile 2014 e la sua prima approvazione avvenne al Senato l’8 agosto dello stesso anno). Quel documento in 16 pagine è abbastanza noto. E’ tuttavia opportuno riportarne per intero il passaggio chiave, ove si esplicita l’attacco alle Costituzioni e al costituzionalismo democratici da parte di una delle maggiori e più autorevoli espressioni del capitalismo finanziario: "I sistemi politici della periferia meridionale (dell’Europa) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.
Il Parlamento che ha votato le nuove norme costituzionali
è illegittimo
Ai sostenitori del NO conviene dunque stare al merito e alla sostanza della questione, guardandosi da ogni semplificazione politicista della contesa che porterebbe solo acqua al mulino altrui. Il merito della controriforma o della “deforma” costituzionale - come ormai viene chiamata con un neologismo che farà strada - non è affatto solido né nelle sue premesse, né nei suoi contenuti e neppure nella sua forma. Né tantomeno così complesso da non potere essere destrutturato e spiegato a chiunque. C’è una convinzione che va rimossa, anche perché del tutto paradossale. Per quanto si riconosca che non possa più esistere, se mai c’è stato in questa forma, un rapporto docente – discente fra intellettuali e popolo, fra avanguardia e masse per usare volutamente un linguaggio oramai divenuto persino arcaico, permane ugualmente il convincimento che certe questioni non possano essere portate a livello popolare perché non verrebbero comprese. Da qui la tentazione a una semplificazione che in realtà diventa una menomazione, se non addirittura una deformazione, dei problemi, ove l’approccio demagogico la fa da padrone.
Innanzitutto non va abbandonato un terreno di denuncia su cui si è stati fin qui troppo teneri. Siamo di fronte ad un parlamento illegittimo, definito nella sostanza tale da quando la Corte Costituzionale ha cassato per vizio di incostituzionalità la legge – il famigerato Porcellum – con cui sono stati eletti i parlamentari. Si potrà discutere all’infinito se quella sentenza avesse in sé e per sé i presupposti per esigere lo scioglimento delle camere e l’indizione di nuove elezioni sulla base della legge elettorale preesistente. Come è noto esistono pareri diversi tra i giuristi e i costituzionalisti su questo problema, al di là del giudizio politico che si voglia dare sulla scelta operata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano cui sarebbe spettata la decisione di sciogliere le camere e indire nuove elezioni.
Non possiamo qui entrare nel merito di quella discussione. Né, a ben vedere, ci è indispensabile per contestare alla radice quanto è stato fatto da questo Parlamento. In effetti, con la sentenza 1/2014, la Consulta rilevava “nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.” Il testo della sentenza richiamava quindi l’ultrattività delle Camere, le quali, anche in caso di già avvenuto scioglimento, possono vedere prorogati i loro poteri fintanto che non siano riunite le nuove Camere (art. 61 Cost.) o possono essere riconvocate per la conversione in legge di decreti legge in scadenza assunti dal governo (art. 77, secondo comma, Cost.). Ma proprio l’esplicitazione di queste esemplificazioni induce a ritenere che l’attuale Parlamento, pur sopravvivendo alle conseguenze della sentenza della Corte, avrebbe dovuto al massimo attenersi a leggi ordinarie o dovute, spingendosi forse anche a quelle di bilancio – già di per sé delicatissime, in particolare modo dopo la stretta determinata dalla nuova governance europea – ma non certo arrogarsi il ruolo di novellatore della Costituzione. Gli mancava e gli manca qualsiasi autorevolezza istituzionale, politica e direi anche culturale per svolgere tale compito. E naturalmente lo si vede dal prodotto che è scaturito dal disegno di legge governativo – la sua origine non parlamentare non è un dettaglio trascurabile - e dalle modifiche parlamentari intervenute e con il governo stesso concordate.
Il più grande tentativo di manomissione
della Costituzione italiana
Anche dal punto di vista quantitativo la legge Renzi-Boschi, che consta di 41 articoli, rappresenta il più corposo e ambizioso progetto di revisione costituzionale mai avvenuto. L’intera seconda parte della Costituzione, riguardante l’ordinamento della Repubblica, ne risulta sconvolta. Dall’articolo 55 fino al 135 tutti gli articoli del testo vigente vengono modificati, in tutto o in parte, lasciandone intatti solo pochissimi. Questo non significa affatto che non risulti intaccata anche la prima parte della Costituzione, riguardante come è noto i diritti e i doveri dei cittadini, non tanto per qualche intervento formale ove il termine ‘Camere’ viene condotto al singolare, quanto per la ben più importante ragione -già più volte messa in luce ma che conviene qui ribadire - che quei diritti e quei doveri vengono garantiti e implementati attraverso il funzionamento degli organi dello Stato e che quindi la modificazione e stravolgimento di questi ultimi non può non avere conseguenze dirette in senso restrittivo o distorsivo sui primi.
Come dice lo stesso titolo della legge costituzionale, il cuore della “deforma” è costituito dalla fine del bicameralismo perfetto o paritario che dir si voglia, dalla riduzione del numero dei parlamentari, dalla semplificazione che ne deriverebbe dell’iter legislativo, con l’effetto sbandierato di un risparmio consistente per le casse dello Stato. Si aggiunge la più che annunciata cancellazione del Cnel e un ennesimo intervento sul titolo V concernente regioni, provincie e comuni, su cui vi era già stata una modica solo quindici anni fa.
Ma non siamo affatto di fronte alla fine del bicameralismo perfetto, quanto alla macchinosa costruzione di una sorta di bicameralismo confuso, nel quale il Senato sopravvive, seppure a scartamento ridotto e soprattutto come organo non elettivo. Chi, come il sottoscritto, ha sempre sostenuto, fin dai tempi della ormai lontana Commissione Aldo Bozzi degli anni Ottanta, la tesi del monocameralismo, congiunto però – particolare decisivo – ad una legge elettorale di tipo proporzionale, con al massimo una modesta soglia di sbarramento, non può che constatare che quello spirito riformatore è qui completamente tradito e rovesciato.
Il nuovo Senato
Il Senato non è più un organo eletto direttamente dai cittadini in quanto tale, ma i suoi 100 membri sono composti da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori nominati dal capo dello Stato restanti in carica per sette anni. Il fatto che i senatori possano essere individuati tramite un listino o scelti tra i più votati nelle elezioni regionali – quindi non in quelle politiche -, non cambia la sostanza della questione. Come è ovvio questa scelta comporta un impoverimento di fatto nella qualità del funzionamento sia del Senato che degli organi territoriali. Come si pensa infatti che chi ha già una carica di tutto rilievo, come quella di senatore o di consigliere regionale, possa esplicarne in modo soddisfacente addirittura due, resta un mistero dei più fitti. Il che dimostra lo spirito sostanzialmente centralista che anima l’intera “deforma”. Confermato del resto dalla ulteriore modifica del Titolo V della Costituzione, ove si prevede il rovesciamento del sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle regioni. Sarà infatti il primo a delimitare la sua competenza esclusiva sulle varie materie. Anche chi, un po’ ingenuamente, pensava ad un Senato delle Regioni – funzione che avrebbe potuto svolgere perfettamente la Conferenza Stato-Regioni opportunamente rafforzata nei poteri e nelle funzioni – non può trovare alcuna risposta positiva in questo nuovo quadro.
Il Senato non avrà più il potere di dare o togliere la fiducia al governo, essendo questa funzione di pertinenza esclusiva della Camera dei Deputati. Tuttavia non è vero che esso perde completamente i suoi poteri in materia legislativa. Attraverso un meccanismo farraginoso il Senato avrà ancora la possibilità, anche se non l’obbligo, di esprimersi su richiesta di un terzo dei suoi componenti sulle leggi che esulano dalle proprie competenze in senso stretto. Anche quelle di natura costituzionale. Il Senato, ad esempio potrà votare anche sulla legge di Bilancio, pur restando l’ultima parola alla Camera. Per ciò che concerne le leggi che riguardano le Regioni e gli Enti locali il Senato avrà poteri maggiori. In questo caso per respingere le sue modifiche la Camera dovrà esprimersi con la maggioranza assoluta dei suoi componenti. Pertanto non è vero che non via alcun rimbalzo di leggi fra Camera e Senato – il famoso ping pong -. Il Senato svolgerà un ruolo nei rapporti con l’Europa e in materia comunitaria; sarà chiamato a controllare le politiche pubbliche e il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Inoltre potrà eleggere due giudici della Corte Costituzionale.
L’inganno della semplificazione dell’iter legislativo
La semplificazione dell’iter legislativo appare quindi uno specchietto delle allodole cui non corrisponde la realtà. Persino la forma della scrittura delle nuove norme costituzionali ne rivelano la maggiore complessificazione fino alla sostanziale non leggibilità. Si rafforza la tendenza di sconfinare nel campo che sarebbe proprio dei semplici regolamenti parlamentari, costituzionalizzando alcune norme che potrebbero perfettamente restare di competenza di questi ultimi. Basta confrontare il vecchio testo dell’articolo 70 della Costituzione sulla funzione legislativa delle Camere con il nuovo testo, la cui lunghezza ci costringe a confinare in un’apposita appendice al presente articolo.
L’iter che viene effettivamente semplificato e rafforzato è quello dei provvedimenti di emanazione governativa, confermando, se ce ne fosse bisogno, la già robusta tendenza di prevaricazione dell’organo esecutivo su quello legislativo. Ad esempio il Governo nel nuovo testo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare una corsia preferenziale per quei provvedimenti legislativi individuati come essenziali per l’attuazione del programma di governo - quindi quasi tutti – portando a compimento l’esame e l’approvazione nel giro di settanta giorni. Contemporaneamente – e non senza logica in un simile quadro – il numero delle firme dei cittadini necessarie per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare viene elevata da cinquantamila a centocinquantamila, mentre nel caso del referendum l’abbassamento del quorum, alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni politiche, viene concesso solo se la sua richiesta è supportata da ottocentomila firme, in luogo delle solite cinquecentomila per le quali il quorum resta come era. Insomma l’apertura alla partecipazione diretta dei cittadini all’esercizio legislativo viene ancora più ostacolata.
Il referendum abrogativo dell’Italicum
Come abbiamo già detto il disegno neoautoritario non si fonda su una gamba sola, cioè quella della “deforma” costituzionale, ma anche, e ancora più, sul cambiamento della legge elettorale, già approvato e che entrerà pienamente in vigore nel luglio di quest’anno. Di conseguenza anche se il referendum oppositivo vincesse e anche se questo ponesse seri problemi alla continuazione del disegno autoritario di per sé non sarebbe sufficiente a spezzarlo. Perché comunque rimarrebbe in piedi la possibilità con una minoranza di suffragi, anche poco consistente, di conquistare la maggioranza dei seggi e di governare del tutto a-democraticamente. Si pensi – e di questi tempi non si tratta di un esempio del tutto astratto o ipotetico – alla dichiarazione dello stato di guerra da parte delle Camere (Art. 78 Cost.). Nella nuova legge tale fatale responsabilità viene attribuita alla sola Camera dei deputati, seppure con l’esplicitazione della richiesta della maggioranza assoluta. Ma nel nuovo quadro la Camera sarebbe prevalentemente composta da nominati. Quindi il potere reale di dichiarare guerra si trasferirebbe di fatto al Governo, dipenderebbe dalla volontà del partito che pur essendo minoranza in virtù del generosissimo premio ottiene la maggioranza dei seggi e viene investito della responsabilità di governare.
Per queste ragioni è decisivo che nella prossima primavera si raggiungano le firme necessarie sui quesiti già depositati da un Comitato che ha eletto presidente onorario Stefano Rodotà, che intendono abrogare le parti vitali dell’Italicum. Con la già richiamata sentenza 1/2014 la Corte aveva giudicato incostituzionali alcuni aspetti del famigerato Porcellum in quanto lesivi dei diritti dei cittadini. In particolare la Corte aveva cancellato l’istituto delle liste bloccate, reintroducendo il diritto di scelta dei candidati da parte degli elettori e aveva abolito il cosiddetto premio di maggioranza concesso alla minoranza politica più forte senza soglia alcuna. L’Italicum, anziché conformarsi a queste prescrizioni, conferma peggiorandoli gli stessi vizi di incostituzionalità del Porcellum. Nello specifico l’attuale legge riproduce sostanzialmente l’istituto e l’effetto delle liste bloccate in quanto, pur essendo bloccati “solo” i capilista, la divisione delle circoscrizioni elettorali in cento collegi plurinominali, comporta che la maggioranza dei deputati sarà composta da chi verrà indicato come capolista.
Ma soprattutto l’Italicum provoca una alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, poiché la soglia del 40% per l’accesso al premio di maggioranza viene aggirata attraverso il ballottaggio che consente alla minoranza vincente, qualunque sia la sua reale dimensione, di moltiplicare i seggi in Parlamento rispetto ai voti effettivamente conseguiti. Questa clamorosa distorsione viene ulteriormente aggravata, rispetto allo stesso Porcellum, dal fatto che il premio viene dato alla lista e non più alla coalizione. Argomento sul quale Renzi ha voluto tenere duro e pour cause, data la funzione di partito pigliatutto, tendenzialmente unico, che egli ha attribuito al Partito democratico. Conseguentemente i quesiti depositati sui quali si chiederà il voto dei cittadini, necessariamente nel 2017, vertono sulla abrogazione dei capilista bloccati e delle pluricandidature, nonché del premio di maggioranza e del ballottaggio.
La vittoria del SI in questo referendum porterebbe alla cancellazione dell’Italicum senza però ritornare al vecchio Porcellum, bensì alle prescrizioni implicite nella sentenza della Corte Costituzionale che muovono nella direzione di un ritorno a un sistema elettorale di tipo sostanzialmente proporzionale. In sostanza riaprirebbe il sistema politico italiano. E, in questo senso, potrebbe favorire, se ne esistessero le condizioni soggettive, anche la costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra.
I referendum sui temi sociali
Sarebbe però un peccato di inguaribile illuminismo pensare che la normativa elettorale sia in cima ai pensieri di una popolazione alle prese con le gravi conseguenze di una lunga crisi economica aggravata dalle politiche neoliberiste di austerità. Questo tema, come quello costituzionale, ha bisogno perciò di una leva, affinché acquisisca quelle dimensioni di massa in grado rendere possibile nella prossima primavera (i mesi sono necessariamente quelli di aprile, maggio e giugno) la raccolta di almeno 500mila firme per potere votare nel 2017, passati i filtri della Cassazione e della Consulta, in base alle leggi referendarie vigenti. Questa leva non può essere data che dalla possibilità di unire altri referendum di carattere sociale in un’unica campagna referendaria, capace di tenere insieme argomenti riguardanti la democrazia e le libertà, come il lavoro, la scuola e l’ambiente. I tre temi di carattere civile e sociale su cui maggiormente si sono esercitate le politiche neoliberiste del governo.
La responsabilità di individuare i quesiti necessari su questi ultimi tre argomenti spetta naturalmente ai soggetti sociali attivi in questi campi. Non conosciamo ad horas i quesiti scelti dai movimenti sulla scuola e da quelli ambientalisti e di difesa del territorio. Ma è palpabile una ripresa di elaborazione e mobilitazione sui referendum sia da parte di chi ha animato il movimento più importante che si è sviluppato lo scorso anno, quello contro le nuove leggi renziane sulla scuola; sia da parte del movimento per l’acqua – che non ha mai cessato di battersi contro i tentativi di aggirare in vario modo gli esiti del referendum vincente per l’acqua pubblica – e di altri movimenti che si muovono contro il famoso decreto “sbloccaItalia” del governo Renzi e che non si possono certamente accontentare del solo referendum No-triv, che si terrà nell’anno in corso e che va pienamente sostenuto, la cui limitatezza e parzialità sono però evidenti, anche perché è sopravvissuto uno solo dei sei quesiti inizialmente avanzati dai consigli regionali.
La novità più rilevante è rappresentata però dall’impegno diretto assunto dalla Cgil. Non senza resistenze e contrasti al proprio interno, la decisione del più grande sindacato italiano è stata quella di procedere ad una consultazione tra i propri iscritti che si concluderà a metà marzo sulla opportunità di presentare come proposta di legge di iniziativa popolare una complessa (si tratta di ben 97 articoli) “Carta dei diritti universali del lavoro”, che vorrebbe innovare integralmente lo Statuto dei diritti dei lavoratori, adeguandolo alle nuove realtà lavorative. Gli obiettivi dichiarati del testo sono quelli di ricostruire il diritto ad avere diritti nel lavoro realmente universali ed estesi a tutti che pertanto si fondino su principi di rango costituzionale; disciplinare regole su Democrazia e Rappresentanza, estendendo a tutti gli accordi interconfederali sottoscritti in questi anni; attuare l'articolo 39 della Costituzione, dando alla Contrattazione collettiva regole che ne determinino l'efficacia generale ripristinando il giusto rapporto tra legislazione e contrattazione; aumentare le forme di partecipazione, consultazione e voto certificato dei lavoratori al fine di garantire sempre di più che le tutele seguano i cambiamenti organizzativi delle imprese affidando alla contrattazione a tutti i livelli la funzione regolatrice tra diritti dei lavoratori ed esigenze tecnico organizzative delle imprese; riscrivere la disciplina delle tipologie contrattuali rimettendo al centro il contratto di lavoro a tempo indeterminato e stabile, superando la precarietà attraverso la ridefinizione dei diritti collegati a quelle tipologie di lavoro riconducendole alla loro funzione di rispondere ad esigenze meramente temporanee dell'impresa o di autonoma scelta del lavoratore.
Contemporaneamente la Cgil chiede di pronunciarsi sulla eventualità di promuovere quesiti referendari su aspetti che concernono in particolare le norme attuative del Job Act. Per come è presentata l’intera questione la Cgil intende quindi considerare il terreno della proposta di legge di iniziativa popolare come quello principale. Non c’è dubbio che solo in quel modo, e non attraverso referendum che possono essere solamente abrogativi, si può esprimere quella esigenza di rimettere mano alla ricostruzione di una normativa di tutela universale del lavoro. Ma allo stesso tempo appare illusorio sperare che una simile complessa legge possa passare in un Parlamento quale quello attuale. Del resto le proposte di legge di iniziativa popolare sono sempre rimaste lettera morta anche in periodi migliori.
Questo potrebbe e dovrebbe spingere la Cgil stessa ad impegnarsi in tutte le forme possibili per il successo sia del referendum oppositivo contro la “deforma” costituzionale che di quello abrogativo dell’Italicum. Ma soprattutto dovrebbe indurla a considerare i referendum sul lavoro non come un semplice accompagnamento della proposta di legge sul nuovo Statuto (nel merito della quale non è qui possibile entrare), ma il terreno fondamentale su cui ricostruire la credibilità e la rappresentanza stessa del sindacato. Per questo è decisivo che i quesiti che verranno scelti sappiano affrontare in pieno il problema della lotta alla precarietà.
In conclusione, la stagione referendaria che si sta aprendo – che peraltro si incrocerà con le elezioni amministrative in otto importanti città - appare nel suo complesso come il terreno dello scontro contro le politiche del governo, tanto sul versante della democrazia, quanto delle politiche sociali. Una sconfitta rappresenterebbe un consolidamento decisivo delle politiche neoliberiste in campo economico e di quelle neoutoritarie in campo istituzionale. Allontanerebbe ancora di più il nostro paese da quelli in cui sono in corso difficilissimi corpo a corpo con le politiche di austerity. Determinerebbe un sistema politico istituzionale ancora più chiuso e impermeabile alle istanze popolari. Una pietra sepolcrale sul “caso italiano”. Porrebbe lo stesso tema della costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra e di una rifondazione del sindacato in termini diversi e ancora più arretrati di quanto già non lo siano, anche per evidenti carenze soggettive, nella situazione attuale.
Appendice:
Articolo 138 Cost.
Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.
Articolo 70 Cost (testo attualmente vigente)
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.
Art. 10. (Procedimento legislativo) della legge costituzionale Renzi - Boschi
L’articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati».
connessioniprecarie.org, 2 luglio 2017 (c.m.c.)
L’intervista è stata realizzata mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).
La scorsa settimana hai promosso a Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.
Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.
In che modo la campagna elettorale, e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.
I migranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.
Contro questa condizione, i migranti – non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali, fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.
Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e oppressione che assume molte forme.
Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.
Forse però ci sono delle differenze tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.
Il problema riguarda però la capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo costruire queste connessioni.
La marcia del 21 gennaio e lo sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite, diventa un limite.
Sono completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di vita o di morte.
Capisco il punto ma mi piacerebbe insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.
Lo sarebbe senz’altro. Ma non bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare, partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.
Sono d’accordo che non si possa prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.
Questo è stato un punto ampiamente dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non è certo esaurita.
Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni possa dare loro continuità?
Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.
La Repubblica, 10 febbraio 2016
DIPLOMAZIA della misericordia. Un filo rosso unisce le aperture di Francesco alla Cina all’incontro con il patriarca Kyril, l’ennesimo appello perché si continui a negoziare in Siria alla celebrazione a Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, che concluderà la sua visita in Messico. Questo papa ha un robusto pensiero geopolitico, come ha intuito fin dall’inizio Lucio Caracciolo. Ora, però, c’è una novità. Francesco non fa solo — per così dire — incontri storici o gesti memorabili: a cominciare dal discorso al corpo diplomatico, non perde occasione per esporre anche il suo pensiero sui rapporti internazionali. È una sorta di nuova “dottrina diplomatica” quella che propone al mondo intero e, in particolare, all’Occidente.
In un lungo articolo su “La diplomazia di Francesco” pubblicato su La Civiltà cattolica, il suo direttore, Antonio Spadaro, ha chiarito le radici religiose e teologiche di questo pensiero, che ruota in gran parte intorno al termine frontiere. «Non muri ma ponti», non si stanca di ripetere con parole che rischiano di apparire retoriche mentre i muri resistono o tornano in tante parti del mondo. Nei discorsi di Francesco, però, l’idea del ponte trova nuova credibilità. Questo papa sembra infatti aver capito il vero peso della parola frontiere — che i ponti devono attraversare — nel mondo globalizzato. Diversamente da quanto abbiamo creduto davanti al primo irrompere della globalizzazione, frontiere e confini continuano a resistere, mentre mantengono un peso rilevante anche i territori che essi definiscono. Non è la stessa cosa, infatti, essere nati da una parte o dall’altra del filo spinato che separa il Messico dagli Stati Uniti. Oggi, però, le frontiere non servono solo per trattenere i sudditi sotto il potere del re ma anche per evitare l’ingresso di nuovi cittadini, sono costruite sempre meno per tenere dentro e sempre più per chiudere fuori. In questo senso i grandi flussi migratori costituiscono oggi una chiave illuminante per capire la direzione della storia. Paradossalmente, però, a blindare le frontiere concorre spesso anche chi forte non è ma ha paura della propria debolezza, convinto in questo modo di difendere la propria identità come avviene, in modi diversi, in Europa orientale e occidentale. Sono l’etnicismo e il nazionalismo le ideologie dei perdenti nel XXI secolo.
Ai leader occidentali, Francesco ricorda gli errori compiuti cercando di estendere con la guerra le proprie frontiere — in chiave coloniale o per “esportare la democrazia” — e mostra loro come si può rispettare frontiere degli altri, attraversandole non per dominare ma per aiutare, non per escludere ma per includere. La logica della guerra fredda tanto radicata in Occidente — ieri contro i comunisti, oggi contro la Russia, l’Islam o la Cina — non è adatta al mondo multipolare. Non è chiaro come evolverà il rapporto tra cattolici e ortodossi dopo l’incontro di Cuba, ma se Kyril si è affrettato ad incontrare Francesco è perché nel prossimo luglio è previsto a Creta il primo Concilio pan-ortodosso e il papa costituisce oggi una sponda sicura per tutte le principali Chiese ortodosse. Il futuro del Medio Oriente è oscuro, ma intanto respingere la logica di chi vuole accogliere in Europa solo i cristiani significa costruire un ponte verso i musulmani. Non sappiamo come si svilupperanno i rapporti tra Santa Sede e Cina, ma le recenti parole del papa “suonano bene” nelle orecchie di milioni di cinesi, come ha scritto il quotidiano ufficioso di Pechino “Global times”.
Francesco può contare su collaboratori di grande spessore, come il cardinale Parolin. Ma anche tra i cattolici non mancano avversari della sua geopolitica: sono tra quanti vorrebbero difendere le proprie frontiere con tutti i mezzi. I maggiori oppositori della mano tesa alla Cina stanno ad Hong Kong, una città che si sente parte dell’Occidente — anche se si parla cantonese — e che vede ogni giorno aumentare il controllo di Pechino. Tra i più contrari all’incontro con Kyril, dietro cui vedono l’ombra di Putin, sono i cattolici dell’Ucraina e dei paesi dell’Europa orientale, gli stessi che denunciano l’“invasione musulmana” dell’Europa. L’ episcopato statunitense è complessivamente freddo verso questo papa che viene dal Sud del mondo. Tali opposizioni ad un papa estraneo a ideologie identitarie o a logiche etnico-religiose mostrano che, anche all’interno della grande internazionale costituita dalla Chiesa cattolica — così l’ha definita Andrea Riccardi — molti sono rimasti ai tempi in cui potere e territorio coincidevano, senza aver capito che la generosità dell’apertura coincide con l’arma dell’influenza, una delle più efficaci nel mondo contemporaneo. Finito questo pontificato, tramonteranno anche questa iniziativa e questo pensiero? Cambiamenti sono sempre possibili, ma i processi avviati sembrano davvero profondi.
«La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati».
La Repubblica, 10 febbraio 2016 (m.p.r.)
La strada fin troppo lunga verso un primo significativo riconoscimento delle unioni civili continua a incontrare ostacoli visibilmente pretestuosi anche quando si fa appello a grandi principi. È accaduto con la critica all’utero in affitto, con l’invocazione dei diritti dei minori e, infine, con il richiamo della libertà di coscienza. Ma la prova politica che comincia oggi in Parlamento deve liberarsi da strumentali richiami che vogliono impedire ancora una volta un risultato di civiltà della cui importanza e urgenza i cittadini sono ormai ben consapevoli.
«Berlino. Presentato alla Volksbühne il movimento Democracy in Europe Movement 2025(DiEM). Lo stile post-ideologico dell’economista greco: il suo appello rivolto ai radicali, democratici, verdi, alla sinistra».
Il manifesto, 10 febbraio 2016
L’attenzione mediatica per l’avventura di Yanis Varoufakis a Berlino non è certo mancata. Sala strapiena, giornalisti in coda, domande a raffica: così la conferenza stampa che ha aperto il meeting organizzato alla Volksbühne di Berlino per la presentazione del manifesto di DiEM 2025 («Democracy in Europe Movement 2025»). È un testo che ha l’ambizione di aggregare intorno a un programma pluriennale di democratizzazione dell’Unione Europea movimenti sociali, forze politiche, circoli intellettuali, associazioni, lavoratori della conoscenza, e artisti attivi sulla scena continentale.
Le risposte di Varoufakis sono state di estrema chiarezza ed efficacia soprattutto su un punto che figurava tra i più delicati: ovvero il rapporto tra la sua iniziativa e le posizioni che in diversi Paesi europei di fronte alla gestione neoliberale della crisi puntano a un recupero della sovranità e della moneta nazionale. Si tratta di posizioni condivise anche da diverse forze della sinistra, tradizionale e non. Per fare i nomi più noti che sostengono simili punti di vista si possono ricordare Oskar Lafontaine in Germania e Jean-Luc Mélenchon in Francia. La posizione dell’ex ministro delle finanze greco su questo punto è stata di inequivocabile rifiuto. Al centro della sua iniziativa c’è l’obiettivo di una ripoliticizzazione dello spazio e delle istituzioni europee, come antidoto alle tendenze alla frammentazione, alla chiusura e alla competizione. In poche parole come antidoto alla deriva verso una riedizione “post-moderna” degli scenari degli anni Trenta, un rischio su cui ha spesso insistito. Del discorso nazionale non possono che avvantaggiarsi le destre più o meno estreme, come del resto gli orientamenti elettorali in Europa ci stanno ripetutamente dimostrando.
La giornata di presentazione di DiEM alla Volksbühne si è articolata in lunghe conversazioni tematiche, secondo il modello di una jam session a cui hanno partecipato attivisti e intellettuali, operatori dei media, sindacalisti ed esponenti di innovative esperienze municipali, a partire da quella di Barcellona. Nessuno in rappresentanza di organizzazioni o gruppi, ma tutti provenienti da una pluralità di esperienze collettive. La discussione ha preso le mosse da una «mappatura cognitiva» della crisi europea, per poi concentrarsi su un’analisi più specifica della situazione economica e su quello che potrà essere nei prossimi mesi il ruolo di DiEM. La giornata si è conclusa con l’effettivo lancio del manifesto, in una sala affollata da centinaia di persone, con schermi allestiti all’esterno per coloro che non hanno trovato posto. Ne parleremo domani.
Durante la conferenza stampa, così come durante «talk real» (il talk show organizzato da Europan Alternatives, a cui ha partecipato lunedì sera), Varoufakis ha adottato uno stile marcatamente «post-ideologico», quasi da liberal di oltre Oceano. Non ha certo taciuto la sua militanza nella sinistra, ma si è rivolto a «tutti i democratici, liberali, verdi o radicali che siano». Poiché la questione al centro della governance europea, ha insistito Varoufakis, è un plateale svuotamento della democrazia, con la totale esclusione dei cittadini – del demos – dai processi decisionali. In quest’ottica l’esperienza dell’anno 2015 in Europa è stata illuminante, tanto per lo scontro tra il governo greco e la troika dei creditori quanto per la cosiddetta «crisi dei migranti» e i suoi riflessi sui rapporti tra i Paesi membri dell’Unione: l’acuirsi della frattura tra Est e Ovest, che si aggiunge a quella tra Nord e Sud, le crepe sempre più vistose all’interno dello spazio di Schengen. Quanto ai movimenti di profughi e migranti verso l’Europa, Varoufakis ha espresso ancora una volta posizioni molto chiare: di fronte a chi fugge dalla guerra e dalla povertà «non si possono fare calcoli costi-benefici» e l’Europa non può sottrarsi al dovere di fare i conti con la propria storia. Una storia che attraverso il colonialismo ha cambiato irreversibilmente gli equilibri mondiali.
L’ambizione che caratterizza il progetto di DiEM non è affatto modesta. Non si tratta infatti di un semplice appello alla difesa delle forme e delle procedure democratiche. Al contrario, è il contenuto sociale del processo quello che sostanzia politicamente la democrazia europea di cui qui si parla. A questo scopo la sinistra, così come la conosciamo e a maggior ragione dopo le numerose sconfitte subite in questi anni, non ha forza sufficiente. Ciò di cui c’è bisogno è una radicale innovazione politica, capace di costruire materialmente una democrazia che non esiste su scala continentale e appare radicalmente svuotata di legittimità e contenuti su scala nazionale.
Da questo punto di vista, Varoufakis ha sottolineato la rilevanza essenziale – all’interno di un processo che si qualifica come «costituente» – dell’azione autonoma dei movimenti e delle lotte sociali. Non a caso, il suo soggiorno a Berlino è cominciato domenica, con un intervento all’assemblea di Blockupy, la coalizione che ha organizzato l’assedio dell’Eurotower a Francoforte lo scorso 18 marzo.
Un movimento per la democrazia in Europa continua ad avere numerosi ostacoli sulla sua strada sebbene se ne colga appieno l’urgenza. Ed è inevitabile che questo stato embrionale del movimento si rispecchi nel carattere ancora generico e indefinito della stessa rivendicazione di democrazia su scala europea. Di questo risente naturalmente allo stato attuale anche il progetto DiEM. E tuttavia la ricchezza della discussione che si è aperta a Berlino, l’eterogeneità dei partecipanti e dei linguaggi, la tensione e perfino l’entusiasmo che l’hanno caratterizzata indicano chiaramente l’apertura di una possibilità politica realmente nuova. Saranno i prossimi mesi a dirci quanto efficace.
«La cultura nasce nel momento in cui gli esseri umani, storicizzando la famiglia e quindi togliendola alla sua naturalità, creano il tabù dell’incesto. Sarà il primo atto di consapevolezza formativa, che darà inizio allo scambio fra tribù, e quindi a una concezione allargata, progettuale della famiglia. La quale, è un prodotto storico e come tale si trasforma».
Corriere della Sera, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)
Molti invocano la famiglia naturale, quasi fosse l’ultimo salvagente in un mare in tempesta. Ma siamo sicuri che la salvezza si trovi in quella che ci ostiniamo a chiamare la famiglia naturale? Ma che cos’è la famiglia naturale? Coloro che la invocano sostengono che è fatta di un uomo e di una donna che, accoppiandosi, danno vita a un bambino, il quale, crescendo avrà bisogno di una madre che gli insegnerà i sentimenti e di un padre che, con severità, gli indicherà la via del dovere sociale e spirituale. Ma cosa c’è di naturale in questa idea antiquata di famiglia? Certamente una divisione dei compiti a cui non si vuole rinunciare. Ma l’apertura agli studi e alle professioni ha modificato i ruoli: le competenze non sono più così rigidamente distinguibili.
Il manifesto
Il Cairo. Le autorità egiziane iniziano ad insabbiare l’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. I media locali fabbricano la pista omosessuale dopo le rivelazioni sulle atroci condizioni del cadavere
Al Cairo l’atroce arresto, tortura e morte di Giulio Regeni è già insabbiato. Il ministro dell’Interno, Magdi Abdel Ghaffar, ha negato che esista una pista che confermi le responsabilità della polizia. Eppure tutte le notizie che trapelano dall’autopsia italiana, dalle unghie dei piedi e delle mani strappate, alle falangi fratturate una ad una e l’orecchio mozzato fanno pensare ai metodi inconfessabili della famigerata Sicurezza di Stato egiziana (Amn el-Dawla), temuta da tutti gli egiziani e che da oggi è diventato l’incubo anche degli stranieri. Il colpo di grazia sarebbe stato inferto con l’improvvisa rotazione della testa oltre il punto di resistenza mentre la morte sarebbe sopraggiunta dopo ore di agonia.
Dagli ambienti di avvocati e difensori dei diritti umani in Egitto emerge che Giulio si trovava nel momento sbagliato e nel posto sbagliato quel terribile 25 gennaio, quinto anniversario dalle proteste, quando è scomparso. Probabilmente non lontano da piazza Tahrir e in una riunione a porte chiuse o all’aperto insieme ad almeno quaranta persone. È possibile che in quel momento sia stato fermato insieme agli altri e che in quanto straniero abbia destato sospetti. A quel punto è partito in Egitto il passaggio da un posto all’altro di detenzione fino al luogo degli interrogatori e delle torture. Gli ambienti dei sindacati indipendenti, frequentati da Giulio per motivi di ricerca, sono da tempo infiltrati dai servizi segreti militari e civili.
Questo tentativo di impossessarsi del dissenso da parte dei militari è successo in tante circostanze e modi diversi negli ultimi cinque anni. Un esempio lampante è il movimento Tamarrod (ribelli) che è stato forgiato dai militari per costringere l’ex presidente, Mohammed Morsi, alle dimissioni e che ha giustificato agli occhi dell’opinione pubblica il golpe militare del 2013. Le cellule del gruppo, nato come una raccolta firme, erano costituite proprio da giovani pagati dai militari. Da allora ogni forma di dissenso è stata impedita. Soprattutto all’interno delle fabbriche e tra i sindacati indipendenti. Prima di tutto i sindacati filo-governativi hanno visto spegnersi la loro spinta per i diritti dei lavoratori e in seguito le infiltrazioni di Intelligence hanno riguardato anche gli altri gruppi registrati o informali che sono sotto la lente di ingrandimento del regime.
È possibile che Giulio sia stato tradito da uno dei suoi contatti e che fosse attenzionato. Questo ha prolungato l’arresto trasformandolo in tortura e morte lenta che sarebbe sopravvenuta giorni dopo l’arresto. Perché non è stato lanciato subito l’allarme sulla scomparsa di Giulio? In un’intervista al manifesto l’attivista, Mona Seif, ha spiegato che è una prassi consueta aspettare prima di dare notizia pubblica della scomparsa di un congiunto.
Questa attesa tuttavia potrebbe essergli stata fatale. Nel momento in cui il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, si è attivato, cioè il 31 gennaio, per chiedere spiegazioni al suo omologo egiziano, poco dopo il cadavere di Giulio è stato fatto ritrovare in un fosso in condizioni atroci. Qui si è aperta la ridda di voci e depistaggi. Dall’incidente stradale all’atto di criminalità comune sono le spiegazioni che prima di ogni altre sono state date in pasto ai media per spiegare la morte di Giulio.
L’ultimo tentativo delle autorità egiziane è quello di avvalorare la tesi dell’omicidio a sfondo omosessuale. Secondo questa ricostruzione fasulla il corpo di Giulio sarebbe stato trovato nelle terribili condizioni di cui sopra per il giro di persone che frequentava. Addirittura i due arrestati poche ore dopo l’omicidio sarebbero proprio due persone omosessuali, in seguito rilasciate. Giulio Regeni potrebbe aver ricevuto l’attenzione dei Servizi anche per la sua affiliazione con l’Università americana del Cairo (Auc). Sono tanti i ricercatori europei che fanno riferimento all’istituzione accademica Usa in Egitto.
Tanto è vero che dopo la diffusione della notizia della morte di Giulio Regeni, dall’Auc è arrivata la richiesta a tutti i ricercatori, studenti e dottorandi che avrebbero dovuto recarsi in Egitto di fare marcia indietro e di non andare nel paese per ragioni di sicurezza.
Che oltre al ritrovamento del cadavere al-Sisi non voglia andare lo conferma il fatto che fin qui il team investigativo italiano non ha avuto vita facile in Egitto. Il pm che guida l’inchiesta, Sergio Colaiocco, ha dovuto inviare una rogatoria internazionale per poter aver accesso ai dati emersi dalla prima autopsia. Gli inquirenti italiani al Cairo hanno potuto solo visionare i tabulati telefonici e stabilire che la scomparsa di Giulio è avvenuta mezz’ora dopo aver lasciato casa, poco rispetto alle attese.
La Repubblica
L’EGITTO: “LA POLIZIA NON È COINVOLTA”
Il Cairo.«No. Le posso confermare ancora una volta che Giulio Regeni la notte del 25 gennaio non stato né arrestato né fermato dalla polizia egiziana». Trasuda sdegno il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar per la domanda di Repubblica sulla morte del giovane ricercatore italiano. La sua polizia, dice Ghaffar che comanda circa un milione di agenti divisi in vari dipartimenti, si batte contro il terrorismo e respinge «le ipotesi fantasiose dei giornalisti contro gli apparati di sicurezza. E non accettiamo neanche che si facciano allusioni ». Nessuno, come sostiene il ministro Ghaffar, vuole giungere a conclusione affrettate ma la percezione che sia muro contro muro con l’Italia è lampante.
Il manifesto
L’ATTIVISTA DEI DIRITTI UMANI EGIZIANO:
«VOGLIONO IMPAURIRE GLI STRANIERI»
intervista di Giuseppe Acconcia a Malek Adly
Abbiamo discusso con l’avvocato per la difesa dei diritti umani, Malek Adly. L’attivista del Centro per lo Sviluppo economico e sociale (Ecesr) dell’ex candidato comunista alle presidenziali, Khaled Ali, con sede al Cairo, ha dovuto per lunghi periodi lasciare il paese per il suo impegno politico. Malek si occupa di casi molto delicati che riguardano le retate che colpiscono attivisti islamisti e di sinistra, recentemente si è occupato anche di arresti di massa in ambienti omosessuali al Cairo e non solo.
Quale crede sia la pista più credibile per la morte di Giulio Regeni?
Dalla sparizione forzata alla sfortuna fino a qualche comunicazione o relazione di amicizia non piaciuta al regime: tutto è possibile in questa fase. Alcuni cittadini americani sono stati arrestati solo perché sedevano in un caffé. Ormai questa è l’attitudine che esiste in Egitto.
Perché accreditano la pista dell’omicidio a sfondo sessuale?
Perché vogliono che la vittime abbia una cattiva reputazione. Per questo dicono che fosse gay. In questo modo nessuno umanizzerà Giulio Regeni, nessuno vorrà sostenere lui o la sua famiglia. Allora tutti diranno che era bugiardo, gay perché gli egiziani non sono familiari con i diritti degli omosessuali. Pochi penseranno che anche se lo fosse stato questo non avrebbe giustificato di certo un omicidio.
C’è poi la pista dei sindacati indipendenti che lui seguiva da vicino per la sua ricerca dottorale per l’Università di Cambridge?
Tutto è possibile. È possibile che fosse in comunicazione con attivisti politici o difensori dei diritti umani in Egitto. E questo di sicuro non fa piacere al regime militare egiziano. Potrebbe essere un segnale per tutti gli stranieri. Chi è in Egitto e ha comunicazioni con chi si occupa di questioni politiche può essere torturato o ucciso.
È possibile che i gruppi che frequentava Giulio fossero infiltrati dai Servizi di Intelligence militare o civile?
Certo, è plausibile. Non lo sapremo mai in maniera puntuale. Non sapremo mai i nomi e i cognomi di chi ha tradito Giulio. E forse neppure di chi ha ordinato di ucciderlo materialmente. Né sapremo mai quale apparato lo ha fermato. Forse la Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla) o la Sicurezza Centrale. Viviamo in Egitto in una situazione folle. Le agenzie di sicurezza commettono crimini contro egiziani e contro stranieri. È successo contro una vittima di nazionalità francese poche settimane fa. È stato ucciso brutalmente in cella nella stazione di polizia di Qasr el-Nil nel centro del Cairo. La stessa cosa è successa in altre circostanze all’insegnate canadese, Andrew Pochter, ucciso a sangue freddo ad Alessandria d’Egitto nel 2013.
In qualche modo sta accreditando la tesi che la polizia volesse colpire uno straniero?
Sì, questo è un messaggio chiaro a tutti gli stranieri che vogliono venire in Egitto per motivi di ricerca o di inchiesta. Il messaggio è: dovete rivedere la vostra decisione perché il paese non è sicuro. Questo spingerà molti accademici e giornalisti ad evitare di venire qui a lavorare con la stessa serenità che hanno sempre avuto.
Crede che nel mirino dell’esercito egiziano ci siano in particolare le ong e gli attivisti di sinistra dopo la lunga stagione di repressione degli islamisti?
L’esercito può trovare un accordo con gli islamisti moderati ma non con la sinistra che è contro la dittatura militare e ha altre idee in materia di politiche socio-economiche. E poi il nostro scopo non è arrivare al potere. Solo per questo siamo dei nemici giurati del regime di al-Sisi.
Pensa che Abdel Fattah al-Sisi abbia intenzione in questo contesto di frenare le azioni sommarie della polizia egiziana?
Il presidente egiziano purtroppo è paranoico. Non lo farà mai.
Il manifesto
IL BLOGGER EGIZIANO ABBAS:
«NON É UN COMPLOTTO CONTRO IL REGIME»
intervista di Giuseppe Acconcia a Wael Abbas
Abbiamo raggiunto al telefono al Cairo il blogger egiziano, Wael Abbas. Ci ha raccontato i momenti salienti delle rivolte del 2011. Gli abbiamo chiesto di ricostruire per il manifesto, le circostanze dell’arresto, detenzione e tortura di Giulio Regeni.
Cosa è successo al ricercatore italiano?
Sembra che sia stato arrestato, interrogato e ucciso. Lo hanno fatto sparire, torturato e fatto ritrovare morto. Questo trattamento è tra i metodi che solo la polizia egiziana può aver perpetrato.
Può essere che Giulio sia stato arrestato in quanto straniero?
Il 25 gennaio scorso la polizia era dappertutto. L’Egitto è diventato un paese xenofobo. I media sono xenofobi. Tutti i sostenitori delle sinistre sono spie. Tutti gli stranieri sono spie che vogliono preparare un’invasione materiale o immaginaria del paese. Per il grande dispiegamento di forze di quel giorno, è impossibile si sia trattato di un atto di piccola criminalità. Se lo avessero rapito, non sarebbe potuto avvenire quel giorno. E poi abitava al centro del Cairo: una zona sicura.
Perché hanno atteso così tanto per rendere nota la notizia?
Le persone che vivevano con lui avrebbero dovuto rendere pubblica la sua scomparsa la notte stessa. Secondo la legge egiziana se qualcuno sparisce, bisogna denunciare la scomparsa dopo 24 ore. La polizia poi è ovvio che dica che non è stato arrestato e che nessuno sa dove sia il cadavere. E la polizia non dà nessun aiuto per il ritrovamento dello scomparso. Se una persona poi è accusata di un reato politico automaticamente perde la sua umanità. Il ministro degli Interni ha detto ci sono 90 milioni di persone in Egitto non è un problema che centinaia spariscano, questo ha detto un pubblico ufficiale.
È possibile che Giulio sia stato fermato per il tema della sua ricerca accademica?
In Egitto odiano studiosi e giornalisti che si occupano di questo. Impediscono loro di entrare o li deportano. Ma è la prima volta che uno straniero viene ucciso in modo così atroce. Spero che non si ripeta. Questo succedeva nelle dittature militare argentina e cilena.
Perché è stata avanzata la pista sugli ambienti omosex?
Le condizioni del cadavere non rendevano credibile le piste dell’incidente stradale e della rapina. A quel punto era necessaria un’altra pista. Stanno dicendo che Giulio aveva partner omosessuali e per questo lo hanno ucciso. Hanno poi arrestato due omosessuali accusandoli di averlo ucciso.
E poi Giulio potrebbe essere stato fermato anche solo perché straniero?
Queste piste sono credibili. Che la sicurezza abbia nel mirino gli stranieri è chiaro. Lo confermano i casi dei turisti messicani e l’insabbiamento delle indagini sull’aereo russo Metrojet. Ci sono state sentenze di condanna di stranieri. È stato arrestato di recente al Cairo il figlio di un ministro americano. Il governo Usa ha dovuto pagare miliardi per farlo uscire di prigione, come ha confermato Hillary Clinton.
Crede sia in atto uno scontro tra polizia e militari. In altre parole sia in atto un complotto?
È evidente che al-Sisi non sia al corrente di ogni arresto. Dieci mila persone sono state arrestate ultimamente. Sa che arrestano e uccidono egiziani e stranieri. Chiunque lo abbia fatto quindi ha agito nei suoi interessi e non contro.
È in corso una repressione capillare della sinistra?
Socialisti e comunisti sono un problema. Al-Sisi adotta un progetto neo-liberista. Vuole privatizzare l’elettricità e l’acqua. Non gli importa dei salari dei lavoratori. Ha una visione di destra. Per questo la sinistra è ora il nemico.
Eppure al-Sisi ormai ha ottenuto tutto dalla presidenza al parlamento, perché non rilassa le sue politiche repressive?
I dittatori non si rilassano mai. Vanno avanti fino all’autodistruzione. Si sente minacciato ed è in pericolo ogni momento. La gente intorno a lui lo fa sentire così perché proteggendolo continuano a guadagnarci. E non vogliono in nessun modo che le cose cambino.