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«L’Ue non esiste più se non come entità burocratica. Lo spettacolo di questi due giorni di Consiglio europeo - il vertice dei capi di Stato e di governo - lo ha sancito con plastica evidenza: non è stata altro che un’assemblea di Stati nazione e pure litigiosi».

Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2016 (m.p.r.)

Che alla fine l’accordotra i leader dell’Ue eDavid Cameron - altermine di una trattativainfinita di cui non si conosconoi dettagli - serva davveroa trattenere Londra; che sifaccia finta o meno di avere unastrategia comune su migrantie profughi; che mentresi introducono discriminazionitra i cittadini europei si ostentinoo meno sorrisi a favoredi telecamera. Che questoavvenga o no una cosa è certa:l’Ue non esiste più se non comeentità burocratica. Lospettacolo di questi due giornidi Consiglio europeo - il verticedei capi di Stato e di governo- lo ha sancito con plasticaevidenza: non è stata altroche un’assemblea di Statinazione e pure litigiosi. Eccoun breve racconto per punti.

Brexit
Trattative infinite aBruxelles per dare qualchecartuccia a Cameron da giocarsisul fronte del Sì al referendumsulla permanenza diLondra nell’Ue (gli euroscetticisono avanti di 2 puntinell’ultimo sondaggio e tra lorosi schiera anche il ministrodella Giustizia di Cameron).L’accordo doveva essere sancitoieri mattina, ma l’annuncio è arrivato solo alle 10 di sera:«Il teatro è finito», ha twittatola presidente lituana DaliaGrybauskaite. Almeno alla fine- dopo il rinvio di colazione,pranzo e merenda - i leader europeisi sono sfamati nella cenacomune. Mentre andiamo instampa, non si conoscono iparticolari dell’accordo. I retroscenadell’ultim’ora sostengonoche Londra non avràun potere di veto sulle sceltedell’Eurozona (di cui non faparte), ma ha ottenuto il “frenodi emergenza”: una discriminazioneper i lavoratori europeiche si trasferiscono in GranBretagna, i quali - in sostanza -avranno assegni familiari piùleggeri rispetto ai colleghi enon avranno diritto alle casepopolari. E questo, pare, per 7anni: Bruxelles aveva proposto4 anni, Londra ha replicatochiedendone 13, l’accordo - dicono- è arrivato nel mezzo.

Austria
Come promesso, sen’è fregata del divieto di Bruxelles(“misure illegali”) e delleposizioni degli altri leadereuropei e ieri ha chiuso le frontiere(autorizzate 80 richiestedi asilo al giorno e 3.200 transitiverso altri Paesi): «L’annoscorso abbiamo preso 90 milapersone, quest’anno abbiamodeciso di accogliere 37.500 richiedentiasilo. Se in proporzionealla popolazione ognipaese facesse come noi - hadetto il cancelliere Werner Faymann- potremmo distribuire2 milioni di rifugiati». L’Italia,ovviamente, non gradisce:«Creare barriere al Brennero- dice il ministro Alfano -è una pura illusione: non si puòrisolvere il problema dei migrantiin un solo Paese».

L’Ungheria e gli altri
Il governodi Orban si è schieratocon Vienna e ha annunciatoche domani chiuderà i varchiferroviari con la Croazia. IPaesi della rotta dei Balcani(Slovenia, Croazia, Serbia eMacedonia) faranno altrettanto:hanno, peraltro, già firmatoun accordo con l’Austria.Esiste pure un piano B promossoda Polonia, RepubblicaCeca, Slovacchia e Ungheria:una barriera in Macedonia senon si riuscirà a sigillare lafrontiera turca (la CommissioneUe chiede a Erdogan di faredi più, ma Ankara non vuole rinunciarea un lucrativo poteredi ricatto sull’Europa).

Germania
Il ministrodell’Interno tedesco Thomasde Maizière, ieri al Bundestag,ha minacciato Austria, Ungheria,etc: «È inaccettabileche alcuni Paesi tentino di trasferirei problemi comuni unilateralmentesulle spalle deitedeschi. Questo, alla lunga,non sarebbe senza conseguenze».Affronteremo la questionedei migranti, ha spiegatopoi, negli accordi di Schengen«finché sarà possibile».

Grecia
Alexis Tsipras, a cui èstato ordinato di sigillare le suefrontiere entro marzo, ieri hatentato di uscire dall’angolo:ha minacciato di non votarel’accordo sulla Brexit se non sirisolve la questione migranti.Hollande e Merkel lo hannotranquillizzato: c’è tempo finoa marzo e Bruxelles “farà la suaparte” (cioè, darà dei soldi).

Italia
Matteo Renzi chiedein sostanza che venga rispettatol’accordo sui “ricollocamenti” di una parte dei profughiche arrivano in Italia(40mila in due anni) e Grecia(66mila) sottoscritto mesi fa.Ad oggi, dicono i numeri dellaCommissione, sono state ricollocate288 persone dall’Italia e 295 dalla Grecia. Il principaleostacolo sono i Paesidell’Est, che rifiutano i ricollocamenti:Renzi ha propostodi penalizzarli economicamentesui trasferimenti comunitari;Ungheria e Polonial’hanno definito “un ricatto”.

I migranti
Il conflitto siriano- dice l’Onu - ha creato 13milioni di profughi, la maggiorparte dei quali è nei paesi confinanti:nel 2015 un milione dipersone ha tentato, comunque,di raggiungere l’Europa,venti volte più che nel 2014.Anche quest’anno gli arrividovrebbero essere un milione.Tra le poche decisioni delConsiglio: i flussi vanno contenutianche coi respingimentialle frontiere esterne.

«Profughi. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana?»

Il manifesto, 20 febbraio 2016

«Io non l’ho voluto!», grida dio — nel grande dramma Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus – davanti al mondo intero che si autodistrugge in guerra.

«Noi non l’abbiamo voluto!», grideranno i capi di governo a Bruxelles, Berlino, Londra, Parigi, Roma e nelle altri capitali europee, quando fatalmente l’Unione europea andrà alla fine in pezzi. Ma a quel punto, chi avrà voluto e che cosa davvero avrà determinato questo esito?

Prima di abbozzare una risposta, converrà ricordare ai Salvini, ai Farage, ai Grillo e a tutti gli altri agitatori della domenica che sono stati settanta i milioni di morti della seconda guerra mondiale e i più di venti della prima ad aver spinto nella direzione di un’unificazione europea – e questo dopo tre secoli di conflitti incessanti in cui tutti si battevano contro tutti.

L’Europa non ha nulla da insegnare in tema di pace, solidarietà e diritti, perché è stata sino a settant’anni fa il continente più mortifero della storia. E oggi ricomincia a contorcersi in conflitti, chiusure, minacce e ripicche come se avesse dimenticato tutto.

Intendiamoci. Magari un accordo dell’ultimo minuto con Cameron si troverà. Ma i nodi continueranno a venire al pettine, perché le ragioni della crisi sono sistemiche, e non dipendono solo dall’avventatezza del premier inglese, che è lanciato nel risiko del Brexit per ragioni di esclusiva politica interna. La ragione fondamentale è che la Ue manca di qualsiasi progetto politico-sociale comune, e che tutti i suoi membri sono vincolati a logiche locali, ai piccoli dividendi politici nazionali, in una fase di stagnazione e incertezza economica che radicalizza ogni scelta. In questo senso Cameron, indubbiamente uno statista mediocre, non è più responsabile di Merkel, Hollande e tutti gli altri, compreso il nostro gioviale primo ministro.

Consideriamo la questione dei profughi. Se la Ue avesse uno straccio di politica estera comune, e soprattutto non dipendente dalle pulsioni neo-imperiali di Cameron o di Hollande o da quelle anti-russe degli Usa, si sarebbe posta da anni la questione dei profughi e non improvvisamente, nell’agosto 2015, come ha fatto Merkel. Non si affiderebbe in tutto e per tutto a Erdogan perché tenga lontano dall’Europa i profughi, concedendogli, oltre a 3 miliardi di euro, mano libera contro i curdi e in Siria. E soprattutto avrebbe affrontato la questione umana e sociale dei profughi, dalla Siria e da altri paesi in guerra, in modo solidale, distribuendo equamente gli oneri dell’accoglienza ai vari paesi e lavorando a un’integrazione sociale degli stranieri che, nel lungo periodo, avrebbe sicuramente giovato alla sua economia.

E invece no. Debole con i forti e fortissima con i deboli, concede a Cameron un referendum che a suo tempo ha rifiutato alla Grecia. Abbozza una ricollocazione dei profughi che fallisce clamorosamente. E ora deve digerire la chiusura delle frontiere in Austria, Ungheria e altri stati balcanici, ciò che si ripercuoterà a catena in tutto il continente. Invece di creare un piano di sicurezza sociale per tutti i membri si appresta a concedere all’iperliberista Cameron una riduzione dei benefici per i migranti Ue in Inghilterra. Nel frattempo, ricominciano gli sbarchi in Sicilia, con altri annegati, e la buona stagione è alle porte. Intanto, la situazione in Siria e Libia è sempre più esplosiva.

A quasi settant’anni dai primi trattati europei, questa è la realtà del vecchio continente. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana in Europa?

». La Repubblica, 20 febbraio 2016

Cervelli in fuga, rientri dei cervelli, successi dei ricercatori italiani all’estero. Su questo fronte si scontrano due opposte retoriche, le geremiadi sull’Italia matrigna che costringe all’emigrazione i migliori e l’esultanza sul talento italiano che trionfa nel mondo. C’è del vero in entrambe, ma una più quieta analisi rivela altri elementi.

Il tasso di emigrazione (a prescindere dal grado di istruzione) è raddoppiato negli ultimi cinque anni, e intanto l’attrattività dell’Italia è drammaticamente calata. Nel 2014 il saldo migratorio con l’estero nell’età più produttiva registra una perdita di 45.000 residenti, dei quali 12.000 laureati, che hanno trovato impiego in Europa, ma anche in America e in Brasile. Dati preoccupanti, che accrescono l’età media di un Paese già tra i più vecchi del mondo (157,7 ultra-65 per 100 minori di 15 anni). Ma l’emigrazione di chi fa ricerca ha risvolti economici e produttivi, non solo demografici. Prima di tutto, perché dalla ricerca (anche da quella “pura”, le cui applicazioni vengono dopo anni) nasce l’innovazione, che a sua volta genera produttività e occupazione. E poi perché gli anni di formazione, dalle elementari ai dottorati, hanno per il Paese un costo pro capite altissimo, ed è dissennato e antieconomico “regalare” ad altri un ricercatore di prima qualità dopo averlo allevato a caro prezzo.

C’è qui un equivoco da dissipare: da sempre chi fa ricerca si muove da un Paese all’altro, anzi l’esistenza di clerici vagantes è un requisito della libertà intellettuale. Niente di male se un biologo o un archeologo italiano va a lavorare in Svizzera o in Canada. A meno che questo flusso non sia unidirezionale, cioè in netta perdita. È quel che accade in Italia, dove il saldo negativo è intorno a 10 a 1 (uno straniero che fa ricerca in Italia per ogni 10 italiani all’estero). Ma il trend comincia già negli anni universitari, dove l’Italia è sempre meno attrattiva per gli studenti di altri Paesi: nel 2014 quasi 50.000 italiani sono andati a studiare all’estero, solo 16.000 stranieri sono venuti in Italia (contro i 68.000 che sono andati in Germania o i 46.000 della Francia). Secondo l’Ocse, che ha diffuso questi dati, lo squilibrio è dovuto ai bassi salari e alla difficoltà di trovar lavoro in Italia, dove «nel 2014 solo il 65% dei laureati fra 25 e 34 anni hanno trovato impiego, ed è questo il livello più basso d’Europa (media 82 %)».

Un indice significativo è offerto dai finanziamenti Erc (European Research Council) per i giovani (entro 12 anni dal dottorato): fino a 2 milioni per ogni progetto, che il vincitore può spendere dove crede, scegliendo una host institution in uno dei Paesi Ue. Colpisce, guardando le statistiche 2015 (oltre un miliardo di euro di fondi distribuiti), il contrasto fra due dati: da un lato, l’Italia è al secondo posto dopo la Germania, con 61 progetti vincenti. Dall’altro lato, il numero degli italiani che portano in altro Paese la propria “dote” è il più alto d’Europa: 31 su 61, il 50%. Niente di male se un italiano preferisce un laboratorio inglese; ma nel Regno Unito, se i vincitori sono 54 (meno degli italiani), a scegliervi la host institution sono ben 115, con un saldo nettamente positivo (+ 61).

Lo stesso vale per Germania, Francia, Olanda, e così via: l’Italia è il fanalino di coda (è stata scelta da due soli stranieri, un portoghese e una romena), con forte saldo negativo (- 30). Perché? La verità è che ricercatori di alto livello e studenti alle prime armi tendono a diffidare dell’Italia per le stesse ragioni, carenza delle strutture e incertezza delle prospettive; per non dire degli stipendi universitari, congelati da anni e non competitivi.

Davanti a questi dati, chi vuole o l’insulto o l’applauso è in difficoltà. Bisogna esser contenti di quanto siamo bravi, o scontenti perché spendiamo la nostra intelligenza altrove? Ma la maggiore urgenza è fare un passo indietro, e domandarci: se i nostri studiosi hanno tanto successo nel mondo, non sarà prima di tutto perché la nostra vituperata scuola, a partire dal liceo classico di cui improvvisati censori reclamano la morte, è molto ma molto migliore di quel che amiamo credere, e abitua al pensiero creativo assai più di altri sistemi educativi? E perché allora sottometterla al ripetuto elettroshock di riforme ricche di codicilli ma prive di indirizzo culturale? Seconda domanda: i ricercatori italiani tanto ricercati a Harvard, a Berlino, a Oxford, a Parigi sono stati formati nelle università italiane, che da Tremonti in qua vengono considerate (e a volte sono) la sentina di ogni vizio. Ma non avranno anche qualche virtù, se producono fior di studiosi ricercati dappertutto?

La scuola, l’università, la ricerca sono prove di futuro. A giudicare dai risultati le nostre istituzioni, nonostante la disgregazione di questi anni, hanno sfornato ottimi studiosi. Sapranno farlo ancora dopo il dissanguamento di risorse umane e di finanziamenti? Come ha notato l’Ocse, «l’Italia spende nell’educazione terziaria lo 0,9% del Pil, al penultimo posto fra i Paesi Ocse, con un livello simile a Brasile e Indonesia, mentre Paesi come il Canada, il Cile, la Danimarca, la Corea, la Finlandia e gli Stati Uniti spendono nel settore oltre il 2% del Pil». Micidiali nubi si addensano sul futuro: i Prin (“progetti di ricerca di interesse nazionale”) sono stati finanziati nell’ultimo bando (dicembre 2015) con la ridicola cifra di 91 milioni per tutta Italia, per tutte le discipline (in Germania la sola Exzellenzinitiative comporta fondi di ricerca per tre miliardi in cinque anni).

Perdura il quasi-blocco delle assunzioni, che condanna a una perpetua anticamera migliaia di docenti abilitati a cattedre di prima e seconda fascia. La scuola pubblica viene definanziata in favore della scuola privata, e riforma dopo riforma perde la natura di teatro della conoscenza e della creatività e si fa addestramento a frammentarie “competenze” di obbedienti esecutori. Perciò a ogni affermazione di ricercatori italiani all’estero dovremmo pensare: oggi campiamo di rendita, consolandoci coi successi di chi è stato formato da una scuola e da un’università che, intanto, stiamo distruggendo. Ma domani? I giovani migliori (se abbienti) dovranno formarsi all’estero, perché la nostra scuola si immiserisce in microriforme senz’anima e le nostre università mancano di docenti, laboratori, biblioteche? Gli italiani che emigravano cent’anni fa erano padri, e mandavano le rimesse in patria per il futuro dei figli. I nuovi emigranti sono per lo più figli: quel che stiamo perdendo non sono solo le loro rimesse, ma la ricchezza che essi stessi rappresentano.

Cosmopolitica. Davanti a duemila persone via al nuovo partito, il nome definitivo al congresso. Ci sarà un comitato promotore largo. "Ultima chiamata, riconquistiamo la fiducia dei nostri"». Il manifesto, 20 febbraio 2016

Grandi palloni rossi e sottili frecce gialle tipo patatine fritte, elementi stranianti nel razionalissimo Palazzo dei Congressi di Roma. Oltre 2mila presenze registrate, un palco che s’infila nella platea in un tentativo di accorciare le distanze fra chi parla e chi ascolta, come dire fra la sinistra e il suo popolo, perché l’obiettivo è «riconquistare la fiducia dei nostri», spiega Peppe De Cristofaro. È partita ieri pomeriggio la tre giorni di Cosmopolitica, ’cosmo’ anche perché è la ricerca di mettere ordine al ’caos’, spiega il professore Carlo Galli. È il primo giorno di «un’assemblea libera, che non può essere congressuale» (ancora De Cristofaro). Oggi si apriranno i 24 tavoli stile Leopolda e le quattro assemblee tematiche sulle quattro campagne del nuovo soggetto: democrazia, scuola, ambiente, lavoro e welfare. Poi un’intera sessione sulla democrazia digitale e su ’Commo’, la «casa online» di Si. Domenica sarà la giornata clou.

Ma il vero congresso invece arriverà a dicembre, così il vero simbolo, il vero nome, le vere regole. Fin lì è tutto provvisorio: il nome Sinistra italiana, che è quello del gruppo parlamentare nato alla camera dalla fusione fra Sel e cinque ex Pd. È noto il dissenso dei ragazzi del movimento Act sul nome, forse addirittura sulla parola «sinistra» per essere stata consumata da molti usurpatori, ma se ne riparlerà. Paolo Cento proporrà «Sinistra verde». Ma per ora giovani scapigliati e vecchie glorie sembrano d’accordo che bisogna tenere la creatura al riparo delle polemiche. Anche sulle perplessità sull’idea di «partito», altro termine su cui le anime più movimentiste sbuffano. Il risultato è la proposta di De Cristoaro: «Una formula ibrida, un partito oltre il classico partito», in grado — nelle intenzioni — di chiudere «il tempo degli accrocchi e di tutto quello che ha segnato la sconfitta della sinistra».

Ci sarà un comitato «ampio, imponente e aperto», e uno esecutivo più ristretto su cui si percepisce una certa effervescenza. Le questioni organizzative non scaldano i cuori (ma il confronto sì, mentre il manifesto va in stampa si svolge la prima delle due plenarie su questo delicato aspetto), ma sono importanti per capire se il nuovo soggetto avrà le gambe per affrontare la lunga traversata di una sinistra che diventa autonoma e indipendente.

La sfilata degli interventi, coordinati da Betta Piccolotti, affronta le battaglie qualificanti future. Immigrazione, democrazia, referendum sulle trivelle e quello sulla riforma costituzionale, la platea paziente ascolta. Si commuove per l’omaggio a Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto, e Valeria Solesin, la ricercatrice morta al Bataclan di Parigi.

I temi sono tanti, si passano il testimone, a volte con qualche contraddizione. Voluta, non casuale: sono le contraddizioni della sinistra, intesa almeno fin qui nel suo significato più estensivo. Basta ascoltare Franco Martini, Cgil, l’autocritica di un sindacato che si è attestato «sulla difesa di quello che eravamo, di quello che ci stavano portando via», e subito dopo la ricercatrice Marta Fana che contesta alla Cgil proprio gli accordi per i quali i salari sono andati giù.

Il cimento del percorso costituente è rimettere insieme non tanto i pezzi della sinistra ma un suo punto di vista. C’era Sel, ma non è bastata, il fallimento della coalizione Italia Bene comune lo dimostra. C’erano i movimenti e adesso non ci sono più, o almeno ci sono poco. Il rischio di chiudersi in una ridotta: per alcuni è considerato un pretesto per la conservazione dell’esistente, per altri è forte. In un’intervista video Laura Boldrini lo dice: «Il cambiamento non si fa in un angolo, il cambiamento non si fa ballando da soli».

Lo sa bene Stefano Fassina, qui presente, che cerca di mettere insieme tutta la sinistra romana per le amministrative. Dal versante opposto del residuo centrosinistra, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia oggi ci sarà, ma non ha ancora deciso se parlare: a occhio questa la platea non voterebbe Sala, il candidato renziano che ha vinto le primarie. Sergio Cofferati lo dice: «Sala è la negazione della stagione dei sindaci arancioni». L’ex segretario Cgil però non vuole rubare la scena: «Oggi c’è la necessità e l’impegno a far emergere le forze dei giovani». Farà il padre nobile, magari un padre ancora molto attivo. Così anche Nichi Vendola, il cui intervento registrato è atteso per domenica.

Per dissenso invece non ci sono anche altri protagonisti: Civati, per esempio. Rifondazione e l’Altra Europa sono ospiti ma per ora stanno fuori da Si. «Spero che arrivino, nessuno è proprietario del processo costituente», dice l’ex dem Alfredo D’Attorre. Ma è il problema dei problemi. E non è questione (solo) di qualche parlamentare o qualche sigla, riguarda il popolo di una sinistra oggi senza popolo. «Il punto è che questo processo non ci chiuda in sé, che sappia dialogare con quello che c’è fuori. Che con i movimenti non costruisca un rapporto di cooptazione, che non abbia la pretesa di rappresentare tutto», è l’invito del professore Sandro Mezzadra.

Mentre l'UK ottiene di ridurre benefici sociali ai suoi immigrati, gli Stati dell'Est (Ungheria e Polonia in testa) continuano nella loro pretesa criminale di respingere i migranti in mare o negli inferni dai quali fuggono. Ma l'Unione europea non sa decidere, e continua a destinare le risorse proprio a quei paesi. Articoli di A. Bonanni e A. D'Argenio La Repubblica, 20 febbraio 2016

BREXIT, C’È L’ACCORDO
TRA LONDRA E LA UE
di Andrea Bonanni

Compromesso sui tagli al welfare: saranno ridotti solo per sette anni. Sancita la doppia velocità sull’integrazione Confermata l’uniformità delle condizioni per le banche. Cameron: “Ho dato al Regno Unito uno status speciale”
Alla fine si è trovato l’accordo. La Gran Bretagna ottiene una dichiarazione congiunta dei leader europei che riconoscono il suo «statuto speciale», come dice trionfalmente David Cameron, e il diritto a tenersi fuori da ogni ulteriore integrazione. È la formalizzazione di una condizione da separati in casa che dovrebbe consentire di evitare il divorzio vero del Regno Unito dall’ Ue, divorzio su cui i cittadini britannici saranno chiamati a pronunciarsi con un referendum. L’intesa faticosamente cucita in due giorni di vertice «è un buon compromesso », assicurano sia Metteo Renzi sia Angela Merkel. La dichiarazione congiunta dei capi di governo, che avrà valore di accordo internazionale e sarà depositata alle Nazioni Unite, ma non richiederà ratifiche da parte dei Parlamenti nazionali, verte principalmente su tre punti.

Primo: tagli ai social benefits per i cittadini europei che andranno a lavorare nel Regno Unito. Questi dovranno aspettare quattro anni prima di accedere pienamente alle facilitazioni del welfare state britannico. L’eccezione al principio della parità dei diritti sociali concessa a Londra in via temporanea durerà per cinque anni con due possibili rinnovi di un anno (Cameron chiedeva in tutto 13 anni). Chi arriverà in Gran Bretagna per cercare lavoro, se dopo sei mesi non lo avrà trovato potrà essere rimpatriato. Inoltre i figli dei lavoratori stranieri che non risiedono nel Regno Unito potranno beneficiare di assegni familiari ridotti e adeguati al reddito medio del Paese dove vivono.

Secondo: integrazione differenziata. Viene riconosciuto esplicitamente che la Gran Bretagna non è vincolata al principio di una «Unione sempre più integrata», che è scritto nei Trattati. Non dovrà entrare nella moneta unica o nello spazio Schengen. Conserverà il diritto a gestire in piena autonomia la propria sicurezza interna. Viene esentata anche da ogni ulteriore integrazione in materia di giustizia.

Terzo: tutela della zona “non euro”. Si riconosce che la Ue è una Unione con diversi sitemi monetari. Viene dichiarato esplicitamente che i Paesi fuori dalla zona euro non hanno diritto di veto sulle decisioni prese dall’Eurozona, anche se possono impugnarle davanti al Consiglio europeo. Sulla questione delle banche si riconosce che, al di fuori dell’Eurozona, la vigilanza bancaria resta affidata agli organismi di supervisione nazionali. La Gran Bretagna dovrà però accettare le regole europee fissate dall’Eba sul funzionamento dei mercati finanziari. Le eventuali differenze nell’applicazione di queste regole, dipendenti dalle scelte delle autorità nazionali di vigilanza, non dovranno alterare l’uniformità del mercato finanziario europeo. Le banche, le assicurazioni e le società finanziarie della City non potranno dunque avere vantaggi competitivi rispetto alle concorrenti continentali. Ma potranno operare in euro pur restando sottoposte alla normativa britannica e senza dover dipendere dalla Bce.

Al termine del vertice, Cameron si è presentato trionfante davanti ai giornalisti. Ha sostenuto di aver ottenuto tutti i suoi principali obiettivi e che si batterà «anima e corpo» per la permanenza nella Ue «perchè questo è nell’interesse del Regno Unito». «Non faremo mai parte dell’euro, nè di un super stato europeo: non amo Bruxelles, amo la Gran Bretagna », ha affermato con i toni di chi già si impegna nella campagna referendaria.

Il sollievo per la conclusione positiva del negoziato nasce anche dalle difficoltà che i leader hano dovuto superare. La giornata di ieri è passata in un lungo, estenuante stallo, con l‘Europa in ostaggio di due veti incrociati. Da una parte i britannici, che restavano ostinatamente fermi alle loro richieste iniziali, senza negoziare veramente con i loro partner europei. Dall’altra la Grecia di Alexis Tsipras che, incrociando la crisi inglese con quella dei rifugiati, minacciava di mettere il veto su qualsiasi conclusione se non avesse avuto rassicurazioni formali che la Ue non avrebbe aiutato a chiudere la sua frontiera con la Macedonia, da cui passano i migranti diretti verso il Nord Europa.

Il premier britannico doveva dimostrare di aver negoziato duramente per convincere la propria opinione pubblica che le concessioni ottenute sono il massimo possibile. Ma allo stesso tempo non poteva permettersi di uscire dal vertice senza una decisione che desse in qualche modo soddisfazione alle sue richieste. Non potendo sbandierare una “vittoria” a Bruxelles, il premier sarebbe infatti stato costretto ad allinearsi all’ala del suo partito che è già schierata per un Brexit. Ma questa sarebbe stata verosimilmente anche la fine della sua carriera politica.

Drammatizzare il più possibile, dunque, ma senza rompere: è stato questo il difficile gioco di equilibrismo della delegazione inglese per tutta la durata del vertice. In attesa che i britannici abbandonassero l’ostruzionismo e si mettessero seriamente a negoziare, molti leader europei sono rientrati in albergo per schiacciare un pisolino. La cancelliera Merkel ne ha perfino approfittato per lasciare il palazzo del Consiglio e andare nella vicina Place Jourdan per assaggiare un cartoccio di patatine fritte al celebre chiosco della Maison Antoine. Hollande si è preso il tempo per concedere un’intervista- fiume alla radio francese recitando la parte del negoziatore inflessibile.

Alle nove di sera, finalmente, Cameron ha dato il via libera all’ultima bozza di compromesso, che i leader hanno dovuto leggere di gran fretta. Anche Tsipras ha ricevuto le rassicurazioni che chiedeva. Il gioco dei veti incrociati è caduto. La parola, ora, passa agli elettori britannici.
AUSTRIA E UNGHERIASFIDANO BRUXELLES
SU PROFUGHI E QUOTE IL VERTICE È UN FLOP
di Alberto D'Argenio

Bruxelles. Mentre nelle acque di fronte ad Agrigento si consuma una nuova tragedia, sui migranti in Europa si continua a litigare. Di fronte all’emergenza sempre più pressante e al rischio della polverizzazione di Schengen, i leader europei hanno passato due giorni e due notti a Bruxelles per discutere di Brexit. Di rifugiati solo una discussione nella notte tra giovedì e venerdì, inconcludente e segnata dai litigi. Si aspetta marzo, si spera di convincere la Turchia a bloccare le partenze verso la Grecia (Ankara ha già ricevuto tre miliardi per la gestione dei profughi siriani) e si attende tra poche settimane che la Commissione presenti il piano per modificare in modo permanente ed efficace le regole europee per ripartire tra i Ventotto i migranti e salvare Schengen. Ma ancora una volta spetterà ai governi accettare il sistema e stando al clima respirato a Bruxelles la svolta non sembra vicina. Non per niente Juncker rinvia la proposta da dicembre. Ma ora non può più aspettare visto che senza una soluzione a maggio Schengen rischia di saltare.

Ieri l’Austria ha sfidato Bruxelles attuando la decisione di accettare solo 80 richiedenti asilo al giorno. Un piano che la Commissione l’altro ieri aveva definito illegale. Il Cancelliere Faymann nel chiuso del summit europeo ha spiegato ai colleghi di avere fatto il possibile (ha accolto circa 120mila profughi) e di non avere alternative al tetto agli ingressi: «Se tutti accettassero i nostri stessi numeri potremmo distribuire due milioni di rifugiati». L’austriaco si è ritrovato isolato al tavolo, ma molti leader della Vecchia Europa pur temendo ripercussioni per Schengen e danni economici dalla chiusura del Brennero hanno in parte compreso le sue ragioni, dettate dall’egoismo dei paesi dell’Est che costruiscono muri e rifiutano di ospitare i migranti arrivati negli altri paesi.

L’altra notte Renzi ha minacciato i governi dell’ex blocco sovietico di tagliare loro i fondi europei se non cambieranno linea. Minaccia in passato spesa anche dalla Merkel. Ma ieri il governo ungherese ha tirato dritto: «Quello di Renzi è un ricatto politico», le parole del portavoce di Orban. «Renzi non può ricattare nessuno», ha aggiunto il ministro polacco Konrad Szymanski. Con loro in Italia si schiera Salvini, mentre la presidente della Camera Laura Boldrini appoggia il premier: «Non si sta in una famiglia solo quando fa comodo». L’Ungheria poi ha annunciato una nuova mossa unilaterale: domani chiuderà le tre frontiere ferroviarie con la Croazia. La Slovenia lunedì conferirà più poteri all’esercito nel controllo dei confini. Ma il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, ha diffidato i partner da ulteriori misure dannose per la Germania: «Alla lunga ci sarebbero conseguenze». La Merkel intanto ha ottenuto un vertice tra i Ventotto e la Turchia ai primi di marzo.

In attesa che la Grecia controlli a pieno le sue frontiere e che arrivi il piano Juncker, la Cancelliera ritiene che la collaborazione di Ankara nel bloccare le partenze dalle sue coste sia cruciale. Tsipras ha invece bloccato l’accordo per evitare il Brexit se non avrà garanzie che la Grecia non sarà sigillata fuori da Schengen. Hollande, criticato perché non sostiene la ripartizione dei migranti, ha detto che la Francia farà la sua parte quando le frontiere esterne torneranno sotto controllo. In fondo anche il presidente francese vuole «salvare Schengen».


QUELLA TORTA DA 300 MILIARDI
CHE HA SPACCATO L’EUROPA
Sono i fondi erogati in sei anni che l’Unione gira soprattutto ai Paesi dell’Est da sempre in prima linea contro l’accoglienza

Più di trecento miliardi spalmati su sei anni. È questa la torta dei fondi europei che Matteo Renzi - rilanciando una minaccia già brandita da Berlino vuole togliere ai paesi dell’Europa orientale che si rifiutano di accogliere i richiedenti asilo. Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. E ancora, i baltici, altrettanto contrari all’idea di una gestione comune dei migranti, di una ripartizione tra i Ventotto di chi fugge in Europa per trovare riparo da guerra e terrorismo. Sono loro che hanno portato Schengen sull’orlo del collasso bloccando da mesi qualsiasi decisione comunitaria. Che hanno costretto paesi come Austria, Germania e Svezia, inizialmente accoglienti con tutti i profughi, a chiudere le porte e a ripristinare i controlli alle frontiere precipitando l’Unione in uno stallo figlio di un pericoloso tutti contro tutti. E poco importa che anche Francia e Spagna siano scettiche verso le riallocazioni: se il problema fosse stato risolto subito avrebbero accettato il sistema.

UNANIMITÀ
La minaccia ad Orban&Co sui fondi piace a molte capitali della Vecchia Europa, ma non è facile da portare alle estreme conseguenze. Il bilancio pluriennale dell’Unione viene infatti approvato all’unanimità su proposta della Commissione ed è difficile immaginare che i leader dell’ex blocco sovietico decidano spontaneamente di tagliarsi i soldi nel 2019, quando l’Ue inizierà a negoziare le prospettive finanziarie 2021-2027. Più verosimile pensare un blitz immediato, visto che i governi ogni anno all’interno del bilancio pluriennale (quello attuale copre il periodo 2014-2020) decidono le spese per i 12 mesi successivi. In questo caso a maggioranza qualificata. Ma appare comunque improbabile che i leader dell’Est non riescano a mettere insieme una minoranza di blocco in grado di fermare la rappresaglia congelando il bilancio. Dunque quella sui fondi può essere considerata una minaccia più politica che reale, anche se nasconde una grande verità su quanto le capitali dell’Est siano europeiste nell’incassare gli ingenti aiuti di Bruxelles e quanto si rivelino egoiste nel non accettare la ripartizione dei migranti ora stipati in pochi paesi.

CONTRIBUTORI
Il bilancio 2014-2020 dell’Unione conta 970 miliardi. Circa 300 tornano ai governi sotto forma di aiuti. Si tratta dei fondi strutturali, di coesione (riservati alle nazioni dell’ultimo allargamento), dei sussidi all’agricoltura, al sociale e di altre decine di programmi europei. Il più grande contributore netto al bilancio comunitario è la Germania, che ad esempio nel 2014 ha avuto un saldo passivo verso l’Unione di 15,5 miliardi. Seguono Francia, che tra dare e avere ha perso 7,1 miliardi, Gran Bretagna (4,9), Olanda (4,7) e Italia (4,4), che nell’ultimo negoziato condotto da Monti nel 2013 ha migliorato di due miliardi il saldo.

BENEFICIARI
Tra i paesi dell’Europa pre-allargamento chi è beneficiario netto dei fondi Ue sono Grecia e Portogallo e per cifre irrisorie Irlanda, Malta e Cipro. La parte del leone nel prendere la fanno però i paesi dell’Est. Come la Polonia, nazione governata dalla destra populista di Kaczynski e Szydlo, contraria all’accoglienza. Peccato che nel 2014 Varsavia abbia registrato un saldo attivo di 13,7 miliardi nel rapporto tra dare e avere con Bruxelles. Il tipico esempio di nazione accusata di accettare la solidarietà a senso unico. Una cifra pari al 3,47% del Prodotto interno lordo con la quale Varsavia sta ammodernando economia e infrastrutture. Tra l’altro nel periodo 2014-2020 può ricevere 228 milioni Ue per i migranti. Altro campione di incassi è l’Ungheria del liberticida Viktor Orban: 5,6 miliardi di attivo nel 2014, pari addirittura al 5,64% del Pil nazionale. E tra l’altro gli ungheresi hanno a disposizione 93 milioni europei per gestire i profughi. Prende bene anche la Repubblica Ceca: 3 miliardi all’anno pari al 2% del Pil. Vengono poi Bulgaria (1,8 miliardi, 4,4% del Pil), Lituania (1,5 miliardi, 4,3% del Pil) e Lettonia (799 milioni, il 3,35% del Pil). Anche gli altri paesi dell’Est, con cifre inferiori, sostengono le loro economie grazie ai fondi europei. Gli stessi paesi che da mesi voltano le spalle alle nazioni che non riescono da sole a gestire i profughi in arrivo dalla Siria. E che ora sono allo stremo.

Il manifesto, 18 febbraio 2016 (m.p.r.)

Si chiamerebbe Salih Neccar e sarebbe un membro delle Ypg ("Unità di protezione popolare' curda). Così, con poche parole, le autorità turche si sono regalate la giustificazione per la strategia anti-kurda nella regione: ieri mattina la Turchia diceva di aver identificato il responsabile materiale della strage di mercoledì sera. Già a poche ore dall’attentato di Ankara l’esercito dava la risposta più scontata: è stato il Pkk. Ieri mattina le accuse si sono arricchite di nuovi dettagli: in coordinamento con il Partito dei Lavoratori Kurdi hanno operato membri delle Ypg siriane, le unità di difesa popolari del Pyd di Rojava. In casa turca uno più uno fa sempre due, ma le regole dell’equazione le dettano le priorità di Stato. Un’architettura che si confà alla perfezione con le ultime mosse turche: il presidente Erdogan, regista di un sistema autoritario che supera i confini nazionali, si fa inquirente, giudice e boia.

Nonostante manchino rivendicazioni dell’attacco e nonostante le Ypg siriane abbiano subito smentito un proprio coinvolgimento condannando gli attacchi ai civili, Ankara ha già deciso. Non mancano osservatori che muovono dubbi sulla veridicità dell’attentato, rievocando episodi simili e puntando i riflettori sulla strategia della tensione imposta dal partito di governo Akp. Di prove non ce ne sono né in un senso né nell’altro. Ma le conseguenze potrebbe rivelarsi tragiche, soprattutto se gli Stati uniti - finora alleati delle Ypg - decideranno di avallare la teoria turca. Le danze si sono aperte ieri mattina: il premier Davutoglu si è detto certo dell’identità dell’attentatore, Salih Neccar, nato ad Amuda in Siria 24 anni fa e membro delle Ypg. «Un collegamento diretto tra l’attentato e le Ypg è stato individuato», ha detto il primo ministro.
Secondo quanto riportato dal presidente Erdogan, 14 persone sono state arrestate perché sospettate di aver preso parte all’attacco. Un attacco studiato e ben pianificato, difficilmente realizzabile da un solo uomo. Per questo Ankara si gioca la carta del Pkk, che - tuona Erdogan - ha fornito supporto logistico. A facilitare il lavoro è l’esplosione che ieri ha investito un convoglio militare turco a Diyarbakir, nel distretto di Sur, martoriato dalla campagna militare di Ankara e sotto coprifuoco ininterrotto da oltre due mesi. Sei soldati sono rimasti uccisi da un ordigno rudimentale. Anche in questo caso manca la firma: nessuna rivendicazione, ma tutti guardano al Pkk che negli ultimi mesi ha ripreso la lotta armata contro l’esercito turco. «È fuori discussione mostrare tolleranza verso un’organizzazione che ha come target il nostro popolo nella nostra capitale», le parole di Davutoglu.
La tolleranza zero è una linea guida che il Pkk conosce bene: subito dopo l’esplosione dell’autobomba ad Ankara, i caccia turchi hanno bombardato pesantemente il nord dell’Iraq, uccidendo almeno 70 combattenti. Nuova ondata di raid anche nel nord della Siria. Da lì, da Rojava, a parlare è Saleh Muslim, co-segretario del Pyd, che ha negato qualsiasi responsabilità, aggiungendo che il Partito dell’Unione Democratica non considera la Turchia un nemico. Ma a poco serve: la macchina turca è già in moto e lavora sul piano internazionale, quello che più interessa ad un paese alla caccia di legittimazione per la campagna in corso in Siria. «Quanto successo condurrà i nostri amici nella comunità internazionale a capire quanto stretta sia la connessione tra il Pyd e il Pkk», ha ribadito Erdogan riferendosi alla Casa bianca. Davutoglu ha aggiunto che condividerà con i paesi alleati le prove del coinvolgimento turco, in particolare con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu.
La preda è succosa e non si limita ai kurdi di Rojava: Ankara punta a Damasco. Ieri Davutoglu non ha mancato di accusare il governo siriano di aver partorito l’attacco, definendo le Ypg «uno strumento in mano al regime». E una volta arrivati a Damasco, Mosca è più vicina: «Mando un avvertimento alla Russia - ha detto il premier Davutoglu - Se gli attacchi terroristici continueranno, ne sarà responsabile come le Ypg». La strategia turca è lapalissiana e le accuse ai kurdi sono un pezzo del puzzle: cuore della battaglia resta il nord della Siria e il corridoio di territori che da Azaz arriva ad Aleppo. L’altro pezzo del puzzle è il passaggio al valico di Bab al-Salama, ieri, di almeno 500 miliziani delle opposizioni, sia moderate che islamiste, dal territorio turco alla provincia di Aleppo. Sono diretti ad Azaz, ormai vicina alla caduta in mano kurda. Non sarebbero che un primo contingente: pronti a partire ce ne sarebbero in tutto 2mila, armati con artiglieria pesante e scortati di notte dalle forze turche, dice alla Reuters Abu Issa, comandante di uno dei gruppi anti-Assad. I rifugiati non passano, i miliziani sì.

Corriere della Sera e il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)

Corriere della Sera
IL MONITO ALLE DEMOCRAZIE
CHE COSTRUISCONO I MURI

di Massimo Franco

Si sarebbe tentati di dire che il Papa ha scomunicato Trump. Non è così, naturalmente. Semmai, è stato il miliardario statunitense, uno dei candidati repubblicani alla Casa Bianca, a usare parole rozzamente provocatorie nei confronti di Bergoglio.

Dargli dell’agente del governo messicano perché difende i migranti significa non capire né voler capire il ruolo che il Pontefice si assegna. E farlo poche ore dopo che il Papa aveva visitato il muro di separazione tra Usa e Messico a Ciudad Juárez, città-simbolo di sfruttamento e femminicidi, ma anche di economie e di umanità che si incontrano, non poteva non avere effetto.

Ieri, nel volo di ritorno in Italia, Francesco ha replicato dicendo che Trump «non è cristiano» perché vuole costruire barriere e non ponti. Parole ruvide, in linea con la tempra argentina del pontefice. La campagna presidenziale negli Usa non c’entra nulla, però. Anche se il candidato ha già cominciato a sfruttare l’attacco a proprio favore. Sa che tra i conservatori Usa circola l’accusa di criptocomunismo verso un Papa latinoamericano che, in realtà, nella sua Argentina era accusato dai teologi della liberazione di essere antimarxista. E gli si attribuisce una vena «antiyankee», che qualcuno avrà intravisto nella storica riconciliazione tra Vaticano e Patriarcato ortodosso a Cuba.
Eppure, Francesco non ha abbracciato i vecchi regimi castristi del Sud America. Semmai, ha preso atto della loro capitolazione e della loro subalternità alla «pax bergogliana» che si diffonde in tutto il loro continente australe. Il suo giudizio sferzante è rivolto incidentalmente a Trump. In realtà, suona come monito all’Occidente americano e europeo nel loro complesso. La volontà del Papa è di ribadire la pericolosità di una cultura dei muri che denuncia la debolezza, non la forza delle grandi democrazie. Magari fa prendere qualche voto in più, ma sulle macerie della solidarietà. E distrugge le radici di una società sempre più bisognosa di meticciato.
L’insofferenza verso un atteggiamento così inclusivo non si registra soltanto nel candidato repubblicano. Trump è il capofila di un populismo in ascesa: una filiera culturale che ha epigoni in molti Paesi dell’Europa orientale, soprattutto; ma anche in Francia, Italia, Danimarca, Scandinavia. Ed esprime un risentimento e un odio verso lo «straniero» che nascono dalla paura e dall’insicurezza economica; che piegano o almeno ipotecano in senso xenofobo le priorità dei governi; e seminano veleni nelle stesse Chiese, alimentando la deriva verso un «cristianesimo etnico» che usa la religione per discriminare i migranti.
Senza analizzare questo sfondo, le parole papali sono condannate al fraintendimento, a sospetti di ingerenza abbastanza surreali. Rischia di far rumore anche il suo accenno poco bellicoso alle polemiche sulle unioni civili. Francesco ieri si è limitato a sostenere che «il Papa non si immischia nella politica italiana». Ha riferito di avere detto ai vescovi: «Arrangiatevi voi». Sul tema delle unioni omosessuali non ha glissato e nemmeno infierito: «Io penso quello che la Chiesa ha sempre detto». Le sue risposte confermano un atteggiamento che può dispiacere, eppure denota una forte coerenza. Bergoglio ha cambiato il punto d’osservazione della Chiesa cattolica, non la sua dottrina.
Ponendo l’accento su alcuni temi invece che su altri, spiazza in primo luogo l’episcopato e l’opinione pubblica occidentali: in particolare in un’Italia abituata per decenni a papi interventisti anche nelle vicende politiche. Oggi, almeno da parte del pontefice, questo non c’è più. L’attenzione si concentra su questioni sociali filtrate con lenti «sudiste» e sensibili alle ragioni degli esclusi. L’impressione è che per Francesco l’Occidente sia quasi da rieducare: una ricca terra di missione. E Trump diventa la metafora di un cristianesimo egoista e razzista che per il Papa rappresenta un ossimoro inaccettabile.

Corriere della Sera
IL PAPA: TRUMP NON È CRISTIANO

di Gian Guido Vecchi

Dal volo papale. Sono passate poche ore da quando Francesco, a Ciudad Juárez, ha salutato e benedetto i migranti oltre il Rio Grande e la rete metallica che divide Messico e Stati Uniti. Si torna a Roma, il Papa raggiunge in fondo all’aereo i giornalisti che lo hanno seguito fino al confine e per un’ora risponde a tutte le domande, anche le più scomode, come quando elogia il coraggio di Ratzinger nella lotta alla pedofilia con parole che fanno capire le resistenze che subì in Curia. Anzitutto, però, c’è il tema che ha segnato il viaggio.

Santità, a Ciudad Juárez ha parlato di immigrazione. Uno dei candidati alla Casa Bianca, Donald Trump, ha detto che lei è un uomo politico e forse una pedina del governo messicano. Dice di voler costruire 2.500 chilometri di muro e deportare 11 milioni di immigrati illegali. Cosa ne pensa di queste accuse? E un cattolico americano può votarlo?
«Grazie a Dio, ha detto che sono politico: Aristotele ha definito la persona umana come “animale politico”, almeno sono una persona umana! Pedina? Mah, forse, non so, lo lascio al giudizio della gente. E poi una persona che pensa soltanto a fare muri e non ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo. Quanto a votare o non votare, non m’immischio. Dico solo: quest’uomo non è cristiano, se dice così. Bisogna vedere se ha detto così, perciò do il beneficio del dubbio».
In Italia si discute di unioni civili. Qual è il suo pensiero, in particolare sulle adozioni?
«Prima di tutto, non so come stanno le cose nel Parlamento italiano. Il Papa non si immischia nella politica italiana. Nella prima riunione coi vescovi italiani, a maggio del 2013, una delle cose che ho detto è stata: col governo italiano arrangiatevi voi, perché il Papa è per tutti e non può mettersi nella politica interna di un Paese. Questo non è il ruolo del Papa. L’Italia non è il primo Paese che fa questo, sono tanti. Io penso ciò che la Chiesa ha sempre detto».
Un documento dell’Ex Sant’Uffizio del 2003 dice che i parlamentari cattolici non devono votare queste leggi. Ha ancora valore?
«Io non ricordo bene quel documento, ma un parlamentare cattolico deve votare secondo la propria coscienza ben formata. Direi solo questo, credo sia sufficiente. E dico “ben formata”, perché non è la coscienza del “quello che mi pare”. Quando a Buenos Aires è stato votato il matrimonio delle persone dello stesso sesso, e c’era il pareggio di voti, un parlamentare disse: “Preferisco dare il voto alla Kirchner e non a Bergoglio!”. Questa non è coscienza ben formata. Sulle persone dello stesso sesso, ripeto ciò che ho detto al ritorno da Rio de Janeiro e che è nel Catechismo della Chiesa Cattolica».
Il carteggio fra Giovanni Paolo II e la filosofa Anna Tymieniecka: un Papa può avere una relazione così intima con una donna?
«Di questo rapporto di amicizia si sapeva, i libri di lei sono conosciuti, lui era un uomo inquieto… A un uomo che non riesce ad avere un buon rapporto di amicizia con una donna, manca qualcosa. Un rapporto amoroso con una donna che non sia tua moglie è peccato. Un’amicizia con una donna non è peccato. Il Papa è un uomo, e ha bisogno anche del pensiero delle donne. Anche il Papa ha un cuore che può avere una amicizia sana e santa con una donna. Ci sono santi amici, come Francesco e Chiara… Ma le donne non sono ben considerate, non abbiamo capito il bene che una donna può fare alla vita di un prete e della Chiesa, nel senso di consiglio, aiuto, sana amicizia».
Per il virus Zika, alcune autorità hanno proposto alle donne di abortire o evitare la gravidanza. Per la Chiesa in questi casi c’è un male minore?
«L’aborto non è un male minore, è un crimine. È far fuori, come fa la mafia. Un male assoluto. Riguardo al “male minore”, evitare la gravidanza è un caso. Il grande Paolo VI, in una situazione difficile in Africa, ha permesso alle suore di usare contraccettivi per i casi di violenza. L’aborto non è un problema teologico ma umano, medico, un male in se stesso, si uccide contro il giuramento di Ippocrate. Invece evitare la gravidanza non è un male assoluto e in certi casi, come quello del beato Paolo VI, era chiaro. Io esorterei i medici a trovare vaccini, cure».
Sembra che l’unità europea vada in pezzi, la crisi, i rifugiati…
«Non so chi la approvi o no, ma ho sentito una parola che mi è piaciuta: la “rifondazione” dell’Europa. E ho pensato ai grandi padri. Oggi dov’è uno Schumann? Un Adenauer? I grandi che nel dopoguerra hanno fondato l’Ue? Mi piace questa idea della rifondazione, magari si potesse fare. Perché l’Europa ha una forza, una cultura, una storia che non si può sprecare».
In Messico il caso di padre Maciel (fondatore pedofilo dei Legionari di Cristo) ha lasciato eredità pesanti. Le vittime della pedofilia non si sentono protette, si cambia di parrocchia i sacerdoti coinvolti. Che ne pensa?
«Un vescovo che per questo cambia di parrocchia un prete è un incosciente e la cosa migliore che possa fare è dimettersi, presentare la rinuncia. Nel caso Maciel, bisogna rendere omaggio a chi si è opposto a tutto questo, il cardinale Joseph Ratzinger - un applauso per lui! - che ha raccolto la documentazione sul caso e come cardinale prefetto (dell’ex Sant’Uffizio, ndr ) ha fatto le indagini, ed è andato avanti ma non ha potuto andare oltre nell’esecuzione. Però dieci giorni prima della morte di San Giovanni Paolo II, durante la Via Crucis, Ratzinger disse che bisognava pulire la sporcizia della Chiesa. E lo stesso nella messa Pro eligendo Pontifice: non è uno sciocco, sapeva di essere un candidato, ma non gli importò di mascherare la sua posizione. È stato l’uomo coraggioso che ha aiutato tanti ad aprire la porta. Rendo grazie a Dio perché questa pentola è stata scoperchiata, bisogna continuare. Gli abusi sono una mostruosità, perché un sacerdote è consacrato per portare un bimbo a Dio e invece se lo mangia in un sacrificio diabolico, lo distrugge».

Come può la Chiesa perdonare più facilmente un assassino di chi divorzia e si risposa?

«Mi piace la domanda! Nel documento post-sinodale, che uscirà forse prima di Pasqua, si riprende ciò che il Sinodo ha detto sulle famiglie ferite. La parola chiave che riprenderò è “integrare” nella vita delle Chiesa le famiglie ferite».
Potranno fare la comunione?
«Questa è l’ultima cosa. È un lavoro di integrazione, tutte le porte sono aperte, ma non si può dire “d’ora in poi possono fare la comunione”. Sarebbe una ferita anche ai coniugi, perché non fa compiere loro quella strada di integrazione. Se c’è qualcosa di più, il Signore lo dirà loro, ma è un cammino, una strada».
Il Patriarca Kirill l’ha invitata a Mosca?
«Ciò che abbiamo detto in pubblico è quello che si può dire del colloquio privato. Ma posso dirle che io ne sono uscito felice, e anche lui».
Incontrerà il «papa sunnita» di Al Azhar?
«Io voglio e so che a lui piacerebbe, stiamo cercando il modo. Quella è la strada, ce la faremo».
Quali viaggi sogna?
«La Cina. Mi piacerebbe tanto andare là!».

Ha pregato a lungo davanti alla Madonna di Guadalupe, che cosa le ha chiesto?

«Ho pregato per la pace, per tante cose... La poverina ha finito con una testa così! Ho chiesto perdono, che la Chiesa cresca sana, ho pregato per il popolo messicano... Ma poi, le cose che un figlio dice alla mamma sono segrete».

Il Sole 24 Ore
«UNIONI CIVILI? NON MI IMMISCHIO. SE TRUMP ALZA MURI NON è CRISTIANO»
di Carlo Marroni

Sul volo Ciudad Juarez.Roma. Il volo da Ciudad Juarez a Roma chiude il viaggio in Messico. Ma Francesco, nella conferenza stampa che tiene al termine di ogni missione, apre altri “fronti”, come il giudizio sulle posizioni espresse dal magnate Usa e candidato repubblicano Donald Trump («fare muri non è cristiano»). E, sulle vicende italiane, chiarisce qual è la sua posizione sulle unioni civili: «Non mi immischio, si voti secondo coscienza».

Parla più di un’ora il Pontefice al termine di una settimana tra Cuba e Messico destinata a lasciare una traccia profonda.Cosa pensa delle regolamentazione delle unioni civili e del capitolo più controverso delle adozioni? «Prima di tutto io non so come stanno le cose nel Parlamento italiano, il Papa non s’immischia nella politica italiana. - dice Bergoglio - Nella prima riunione che ho avuto con i vescovi nel maggio 2013 ho detto loro: con il Governo italiano arrangiatevi voi. Il Papa non si mette nella politica concreta di un Paese. L’Italia non è il primo paese che fa questa esperienza. Quanto al mio pensiero, io penso quello che la Chiesa sempre ha detto su questo tema». E la Chiesa ha sempre detto che il matrimonio è tra un uomo e una donna, anche se da tempo si è aperto un dibattitto sul riconoscimento progressivo dei diritti per altre forme di unione.

Ma la questione è complessa, e già nel 2003 un documento della Congregazione per la dottrina della Fede disse che di fronte a scelte come questa i parlamentari cattolici devono votare contro. «Non ricordo bene quel documento – risponde il Papa - ma un parlamentare cattolico deve votare secondo la propria coscienza ben formata, questo direi, soltanto questo, è sufficiente, e parlo di coscienza ben formata, cioè non quello che mi sembra o che mi pare». Papa Francesco ricorda una storia argentina quando fu votato il matrimonio fra persone dello stesso sesso: «I voti erano pari allora un parlamentare ha consigliato all'altro: “Tu ci vedi chiaro?”. “No”. “Neanch'io, pero così perdiamo. Se non andiamo a votare non si raggiunge il quorum, ma se raggiungiamo il quorum diamo i voto a Kirchner (l’ex presidenta della Repubblica, ndr). Preferisco darlo a Kirchner e non a Bergoglio, e andiamo!”. Questa non è una coscienza ben formata».
Poi il capitolo Trump, che in un’intervista ha detto che il Papa è un politico, peggio, una «pedina» del governo messicano per le politiche migratorie, e ha aggiunto di voler costruire un muro di 2.500 chilometri e voler deportare 11 milioni di illegali. Un cattolico americano - è stato chiesto – può votarlo? «Grazie a Dio ha detto che io sono politico, perché Aristotele definisce la persona umana come “animale politico”, e questo significa che almeno io sono una persona umana. Io una pedina? Mah, lo lascio al vostro giudizio e al giudizio della gente. Una persona che pensa solo a fare muri e non ponti, non è cristiana. Questo non è nel Vangelo. Votarlo o non votarlo? Non mi immischio, soltanto dico che quest'uomo non è cristiano, se ha parlato così».
Le parole del Papa, trasmesse poco dopo l’atterraggio, sono arrivate subito a Trump, che ha replicato: «Per un leader religioso mettere in dubbio la fede di una persona è vergognoso. Io sono orgoglioso di essere cristiano e come presidente non permetterò alla cristianità di essere continuamente attaccata e indebolita, proprio come sta avvenendo adesso, con l'attuale presidente» americano. E ancora: «Stanno usando il Papa come una pedina, e dovrebbero vergognarsi di farlo. Tutti sanno che l’obiettivo ultimo dell’Isis è attaccare il Vaticano. E il Papa dovrebbe pregare che Donald Trump diventi presidente, perché così questo non accadrà».
Ma la conferenza stampa di ieri ha nei fatti aperto altri “varchi”, quantomeno di riflessione. Come sull’aborto: alla domanda se per evitare gli effetti del virus Zika si possa ricorrere ad aborto o contraccezione per le donne in gravidanza, il Papa ha detto che l’aborto è un «crimine, è fare quello che fa la mafia» ma «evitare la gravidanza non è un male assoluto in certi casi». Ricorda come Paolo VI in una situazione difficile in Africa, ha permesso alle suore di usare gli anticoncezionali per i casi di violenza. «Non si deve confondere il male di evitare la gravidanza con l'aborto».
Molti altri gli argomenti toccati, dalla Cina («Sogno di andarci») al rapporto con gli ortodossi, dal Messico alle lettere di Giovanni Paolo II a una sua amica filosofa («un'amicizia non è peccato»). E poi torna sulla piaga della pedofilia nella Chiesa e al caso di Macial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo che commise abusi. «Innanzitutto, un vescovo che cambia di parrocchia un prete che ha commesso abusi sui minori è un incosciente, è meglio che rinunci. Chiaro!» dice con forza e aggiunge: «Nel caso Maciel bisogna fare un omaggio a colui che si è opposto a tutto questo, il cardinale Ratzinger, un uomo che ha presentato tutta la documentazione sul caso Maciel e come Prefetto ha fatto l’indagine, ha raccolto tutta la documentazione e poi non ha potuto andare oltre nella sua messa in pratica».

«Dall’affare tabacchi a Mani Pulite, Storie (e guai) di chi si oppose a scandali e ruberie».

Corriere della sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)

Giù le mani da Giovanna Ceribelli. Troppe volte, nel passato più recente e più remoto, chi ha denunciato uno scandalo come la commercialista di Caprino Bergamasco che ha fatto scoppiare l’ultimo bubbone della Sanità lombarda è stato abbandonato a se stesso, isolato, punito. Come fosse colpevole di non essersi fatto gli affari suoi.

Successe un secolo e mezzo fa a Cristiano Lobbia, il patriota garibaldino e deputato che per primo denunciò al Parlamento di Firenze la vergognosa cessione per quindici anni a faccendieri raccolti intorno al Credito Mobiliare, in cambio di un’anticipazione di cassa di 180 milioni (meno della metà di quelli offerti senza accordi-capestro da finanzieri parigini e londinesi) della Regia Tabacchi, il monopolio che rappresentava allora secondo il banchiere Rothschild «l’unica entrata sicura dello Stato». Fu fatto a pezzi, il Lobbia. Tentarono di ammazzarlo, gli scatenarono addosso un processo infame per procurato allarme dal quale troppo tardi sarebbe uscito vittorioso, allestirono una macchina del fango per demolire la sua immensa popolarità, tennero per mesi chiuso il Parlamento teorizzando che a camere chiuse non c’era l’immunità... Quando gli restituirono l’onore, dopo anni di strani suicidi e morti improvvise, era ormai un uomo finito. Destinato a morire, a 50 anni, di crepacuore.
E da allora purtroppo non è cambiato molto. Lasciando pure perdere Giacomo Matteotti, che secondo diversi storici potrebbe essere stato ucciso anche per avere scritto un articolo pubblicato dopo la sua morte da English Life sulla «condotta della Banca Commerciale» e sui rapporti del governo fascista con la Sinclair Oil Company, molti degli scandali più recenti hanno avuto epiloghi sconfortanti.
Ricordate come deflagrò Tangentopoli nel 1992? Un giovane imprenditore lombardo, Luca Magni, alla guida di un’impresa di pulizie, si ribellò alle pretese di Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio che per una commessa voleva una tangente, e aiutò i carabinieri a incastrare l’estorsore. Da lì, venne giù tutto: l’arresto dell’esponente socialista, l’inchiesta sul sistema di finanziamenti ai partiti, il crollo di Bettino Craxi e gran parte dei partiti della Prima Repubblica…
Fu additato come un eroe, Luca Magni. Vent’anni dopo avrebbe confidato a ilgiorno.it : «Rifarei tutto. Ma cercherei di tutelarmi di più. Ho denunciato il sistema delle tangenti che strozzava la mia azienda ma non potevo prevedere che in poco tempo avrei perso tutti gli appalti. Dopo la denuncia, gli enti pubblici non mi hanno più invitato alle gare. Nel ‘92 l’azienda fatturava un miliardo di lire, nel ‘94 solo 200 milioni». Un quinto. «Non ho messo in conto le ritorsioni economiche e lavorative che avrei incontrato. L’azienda, così, è fallita». Ha ricominciato da zero con un’altra impresina e un dogma: mai più enti pubblici.
E ricordate lo scandalo della Sanità lombarda del ‘99? Citiamo la cronaca di Paolo Biondani sul Corriere di allora: «Più di 300 medici milanesi imputati di corruzione. E un big della sanità privata, Giuseppe Poggi Longostrevi, accusato di aver gestito, con una “banda” di familiari e dipendenti, una truffa da 60 miliardi ai danni delle casse pubbliche, ossia di tutti i contribuenti». L’inchiesta era partita da un vigile urbano, Massimo Mola, che aveva rifiutato una tangente di 300 milioni «offertagli da Poggi nel tentativo di insabbiare un abuso edilizio». Quando andò a cercare quel piccolo grande uomo Francesco Battistini lo trovò relegato nel suo ufficetto, dove mai aveva ricevuto un encomio che non fosse una pacca sulle spalle dagli amici. Quanto all’altro protagonista della denuncia che aveva fatto crollare il sistema marcio, il manager sanitario Giuseppe Santagati, avrebbe raccontato una decina di anni dopo al Venerdì: «Fui cacciato. Sostituito al vertice della mia ex azienda (ironia della sorte o scelta calcolata?) da un mio omonimo: Santagati Giuseppe, stesso nome e stesso cognome». Lui tornò a fare l’avvocato.
Maria Grazia Blefari, messa a dirigere la Stazione unica appaltante della Provincia di Reggio Calabria, area ad altissimo rischio, appena scoprì nel 2012 che la busta di uno dei concorrenti a un appalto era stata trovata sul divano e non nella cassaforte dove doveva stare, raccolse tutto il coraggio che aveva e si fiondò alla Finanza. Venne fuori che buona parte degli appalti era pilotata da dipendenti infedeli che aprivano le buste, controllavano le offerte e informavano la tal ditta che vinceva sempre. Finirono in manette una ventina di addetti, imprenditori, intermediari. I magistrati stessi, in un’ordinanza, resero omaggio alla signora: «L’inchiesta trae origine dall’ammirevole tenacia con la quale un funzionario fedele, la dr.ssa Blefari…». Applausi e complimenti. Pochi mesi dopo la dirigente veniva rimossa. Grazie, vada pure.
Torniamo in Padania? Ecco il caso di Andrea Franzoso, il funzionario delle Ferrovie Nord Milano che denunciò l’allora presidente Norberto Achille, spinto a dimettersi per la scoperta delle incredibili spese pazze fatte con la carta di credito aziendale. Che fine ha fatto? Risponde un’interrogazione parlamentare del M5S e un ricorso al Tribunale del lavoro. Dove si legge che l’uomo, reo di aver fatto il proprio dovere, è «costretto a trascorrere la giornata lavorativa nella più completa inattività e con progressivo isolamento: i colleghi di lavoro erano restii a recarsi nel suo ufficio per timore di essergli associati e subire ritorsioni».
E potremmo andare avanti per ore. Raccontando storie su storie. Una più amara dell’altra, come quella del sindacalista salernitano Giuseppe Cicalese, che per difendere i colleghi perbene denunciò l’anno scorso alcuni assenteisti dell’ospedale assolutamente indifendibili. Lo Stato di lui si è dimenticato, ma non i prepotenti del cartellino. Che sono arrivati addirittura a minacciarlo di morte. Prova provata, se mai ce ne fosse ancora bisogno, della necessità urgentissima di una legge che tuteli fino in fondo chi fa il proprio dovere denunciando andazzi intollerabili. Le chiacchiere e i battimani di un giorno hanno proprio stufato .

Il manifesto e Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il manifesto
CASSON: «RENZI DEVE PRETENDERE RISPETTO DA AL-SISI»

Il senatore Pd Felice Casson, ha partecipato ieri, come segretario del Copasir, all’audizione del direttore dell’Aise Alberto Manenti che si trovava il 3 febbraio al Cairo per un’altra missione, nel giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Ma sui contenuti della riunione di ieri tenuta a Palazzo San Macuto «rispetto l’obbligo alla riservatezza», premette Casson.

Da magistrato, che idea si è fatta delle indagini condotte in Egitto sull’omicidio Regeni?
Sono state fatte molto male. Ho l’impressione netta che non si voglia arrivare alla verità. Ci sono ritardi chiarissimi e non c’è collaborazione con gli organi di polizia giudiziaria italiani che sono andati al Cairo. Per esempio, i controlli sulle telecamere disseminate nel quartiere dove Regeni viveva sono stati fatti molto in ritardo: i negozi e gli uffici infatti dopo alcuni giorni cancellano le immagini registrate, e in due settimane i servizi sono in grado di fare qualsiasi cosa sulle registrazioni in modo da non fare avere elementi di prova che invece sono fondamentali. Il fatto che i tabulati telefonici ancora non arrivino è una chiara prova di non mancanza di volontà. Così come è caduta nel vuoto la richiesta di interventi per verificare tramite i cellulari chi fosse presente sul posto. Insomma, a distanza di settimane non c’è stata alcuna risposta concreta nel rispetto delle linee di azione investigative e dei protocolli che di solito si rispettano in queste situazioni.

A cosa è dovuto, secondo lei?
Bisogna calarsi in quell’ambiente: l’Egitto è certamente un regime, e con uno Stato aduso a sistemi di tortura contro gli oppositori politici di qualsiasi genere. Ne abbiamo avuto anche una prova diretta nel caso di Abu Omar quando venne sequestrato a Milano da agenti dei servizi segreti italiani e dalla Cia e venne portato in Egitto dove fu sottoposto a tortura. In più, all’interno di quello Stato ci sono guerre intestine feroci tra apparati e tra fazioni.

Il suo collega Giacomo Stucchi, il presidente del Copasir, denuncia diplomaticamente la «mancanza di dialogo tra le loro forze in campo» che sono «coordinate in modo diverso da come avviene da noi». Ma secondo lei, ritardi e depistaggi sono frutto di un ordine impartito dall’alto o sono dovuti alla condizione di uno Stato senza controllo?
Le due cose non sono in contraddizione. La mancanza di dialogo è dovuta alla guerra intestina egiziana. A mio parere è soprattutto un problema interno, con risvolti ovviamente internazionali. Ma credo spetti allo Stato egiziano pretendere chiarezza, nel suo stesso interesse. Perché credo che sarebbe un problema per qualunque nazione sapere che ci sono pezzi di Stato - che si chiamino squadroni, forze speciali, intelligence, polizia o altro - che fanno quello che vogliono.

E le sembra che la pressione italiana sia sufficiente per convincere le autorità egiziane a collaborare di più?
A livello di indagini, quello che l’Italia doveva fare è stato fatto: gli esperti sono stati inviati sul posto rapidamente, ma essendo un territorio straniero non hanno mano libera o carta bianca. Ogni loro azione dipende rigidamente dalla volontà degli egiziani. Ma dal punto di vista politico si può fare di più: il nostro vertice statale deve pretendere in maniera più forte la verità. Perché qui si tratta di diritti fondamentali di una persona, ma anche di dignità di uno Stato. Non possiamo subire situazioni come quelle che si sono verificate in altri casi: penso alla vicenda dei marò, che è molto diversa ma che per certi versi è sintomatica di un’incapacità di gestire i rapporti internazionali.

In questo caso però ci sono in ballo gli interessi economici del capitalismo italiano.
Sì certo, grandi interessi, ma c’è una sproporzione molto forte tra le due cose. Credo che non ci siano al momento elementi per collegare questi forti interessi alla vicenda Regeni, che potrebbe essere anche più limitata.

Legami diretti con l’omicidio no, ce lo auguriamo almeno. Ma non si può non ricordare che il presidente del consiglio e segretario del suo partito ha detto che «l’Eni è un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi segreti».

Una frase imprudente. Ed è vero che ha detto anche che l’Egitto attuale è un esempio di democrazia. E io non sono assolutamente d’accordo. Capisco che Renzi, che gestisce i rapporti diretti ad altissimo livello, non possa dire tutto quello che pensa, però ci troviamo di fronte ad uno Stato che è ancora un regime e non possiamo farci mettere i piedi in testa. Credo che in questo modo ci stiano prendendo in giro. Non è assolutamente accettabile.

Quali armi abbiamo per poterli convincere, se non quelle economiche?

Penso che il rapporto diretto tra vertici funziona meglio dei canali indiretti diplomatici, che hanno un loro peso ma certamente inferiore. È una questione che va affrontata al più alto livello, facendo rimanere impregiudicati i rapporti economici e di lavoro tra i due Stati. Pensiamo anche ai tanti egiziani che vivono qui da noi. Non si possono agitare ritorsioni o minacce di qualsiasi genere: a livello di autorità statali è possibile pretendere il rispetto della propria dignità e della propria sovranità che in questo caso è stata violata.

Quindi sta nella capacità di Renzi di farsi valere con Al-Sisi. Ma il premier dovrebbe convincersi che il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico, e che qualunque sia il fine la repressione violenta che viola i diritti umani non può essere tollerata.
Questa è una questione molto complicata, perché l’Egitto certamente costituisce un fulcro e uno snodo all’interno del mondo arabo. E certamente non era pensabile che si potessero sviluppare al suo interno movimenti come quelli delle primavere arabe. È un punto di equilibrio tra mondo arabo e occidentale, come per altri versi lo è anche la Siria. Rendere instabili Stati di questo tipo può costare moltissimo. Ma non si può pensare che sia un singolo Stato a mantenere equilibri o a fare da baluardo al terrorismo jihadista: è una questione che va risolta a livello di comunità internazionale, tutta insieme. In particolare poi, i metodi repressivi egiziani che violano i diritti umani non sono utilizzati contro il terrorismo islamico ma nei confronti degli oppositori al regime, nei confronti della sinistra, dei sindacati o dei Fratelli musulmani. Al di là delle ideologie, è il metodo antidemocratico e violento che assolutamente non può essere accettato, né dall’Italia né dagli altri Paesi democratici, e non solo per l’Egitto.

Anche in Italia è prevista l’impunità per la tortura di Stato.

Infatti bisognerebbe far approvare il disegno di legge che introduce la tortura nel codice penale e che viene continuamente rimandato in commissione da tre o quattro legislature.

Corriere della Sera
L’INCHIESTA REGENI
DALL'EGITTO CAOS E SMENTITE.
I DUBBI DEGLI INVESTIGATORI ITALIANI
di Virginia Piccolilli

I media: il killer è dei Fratelli musulmani. La Procura del Cairo: non ci sono prove

«La Procura egiziana si sta avvicinando all’identificazione del killer». L’annuncio arriva nel pomeriggio sul portale egiziano filogovernativo Youm7: «Giulio Regeni sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano».

Dopo aver indicato come possibile causa di morte del 28enne friulano l’incidente stradale, poi il festino gay finito male, poi la rapina e poi il semplice atto criminale, i media egiziani suonano così la grancassa di un ultimo cambio di pista. Ipotizzato sin dall’inizio perché punta proprio dritto contro i più aspri nemici del governo di Al Sisi. Ma la stessa Procura di Giza, in serata, ieri, ha smentito le indiscrezioni: «Al momento ci stiamo concentrando sull’analisi dei suoi spostamenti e delle sue frequentazioni, questo perché non sappiamo ancora dove sia andato dopo essere uscito di casa il 25 gennaio scorso». Sarà stato davvero un abbaglio del quotidiano?
Aspettano di capirlo gli ambienti investigativi e diplomatici italiani. Il ministro Paolo Gentiloni ha detto che non accetteremo una «verità di comodo». Una svolta non dimostrata potrebbe avere delle conseguenze sul piano dei rapporti tra il governo egiziano e il nostro. Giacché, come ha già dichiarato il premier Matteo Renzi «l’amicizia è possibile solo nella verità». Invece in quindici giorni di indagini sul posto la nostra squadra investigativa ha ricevuto solo promesse di collaborazione dagli omologhi egiziani. Nessun elemento. Nè le immagini delle telecamere a circuito chiuso, che il Ros e lo Sco vorrebbe visionare anche se vuote. Nè i tabulati telefonici. Nè i risultati dell’autopsia egiziana.
La «svolta», annunciata citava proprio quelle prove. «La Procura di Giza sud, guidata dal presidente Ahmed Naji - si legge sul portale -, sta portando avanti gli sforzi per svelare i misteri e le circostanze» della morte del ventottenne italiano, e parla di «importanti indizi raccolti dopo aver ricevuto il rapporto medico e un resoconto dalle chiamate in entrata e uscita». E aggiungeva che il team di indagine italiano «era in stretto contatto con l’ufficio del procuratore generale» egiziano, con l’obiettivo di «aggiornarsi sugli ultimi sviluppi dell’indagine» e per «metterli a confronto» con i risultati ottenuti da loro. In realtà nemmeno ieri era giunto alcunché dalla squadra investigativa egiziana capeggiata da un poliziotto, Khaled Shalaby, condannato per aver torturato a morte, durante un interrogatorio, un arrestato.
Intanto il caso si fa più spinoso anche in Italia. Di fronte al Copasir, il Comitato parlamentare per i servizi di sicurezza, il direttore dell’Aise, Alberto Manenti, secondo indiscrezioni, avrebbe detto di «non escludere» che i report di Giulio Regeni - sulla situazione sempre più tesa nel sindacato degli ambulanti critici con il regime - «possano essere stati utilizzate da servizi stranieri». Anche se ciò sarebbe avvenuto senza una sua consapevolezza. Perché, come ha riferito il presidente Copasir, Stucchi, «il direttore dell’Aise ha confermato che Regeni non aveva alcuna collaborazione di nessun tipo con le nostre agenzie di intelligence». Manenti avrebbe anche detto che poco prima dell’omicidio di Regeni, ricercatori britannici e americani erano stati rimpatriati e al loro arrivo avevano riferito di violenze subite.
Manenti ha parlato di «coincidenza» per la sua presenza al Cairo il giorno del ritrovamento. E ha ricostruito «ora per ora» cosa ha fatto la nostra intelligence in quei giorni di buio, fino al 3 febbraio, quando il corpo è stato ritrovato. «Gli egiziani - ha concluso Stucchi - hanno commesso errori incredibili».

Un'occasione da non perdere per tentare di costituire una forza politica nettamente "di parte" che dia voce e speranza alle vittime della fase attuale del sistema capitalistico. Una cronaca del primo giorno dell'assemblea nazionale e il documento d'apertura. Il manifesto, 19 febbraio 2016

NUOVO SOGGETTO COSMOPOLITICO
di D.P.


Sinistra. Al Palazzo dei Congressi la tre giorni romana, quasi-nascita del partito. Da oggi un fitto programma di tavoli, dibattiti, laboratori e colpi di scena. Ci saranno anche Zedda e Pisapia

Un ricordo di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo, dei cui assassini ancora non si sa nulla. Un video sull’esaltante campagna elettorale di Bernie Sanders. Il promo di un film sulle trivelle (il regista è Emanuele Bonaccorsi) per ricordare che il primo appuntamento con il destino, per la nuova creatura politica che nasce, è quello del referendum del 17 aprile.

Partono oggi pomeriggio alle quattro — al Palazzo dei Congressi di Roma — le tre giornate di Cosmopolitica, la quasi-nascita del nuovo soggetto della sinistra. Il vero parto avverrà a dicembre, almeno secondo la proposta di molti del gruppo di organizzatori, quando dovrebbe tenersi il congresso fondativo; dopo il referendum sulla riforma costituzionale, che sarà uno spartiacque per il futuro del paese.

Il programma è fitto di dibattiti, laboratori, tavoli ma anche piccoli eventi e colpi di scena, in qualche misura. Il modello è quello della kermesse ’sellina’ Human Factor, e non è diversissimo dalla Leopolda renziana. Ma gli organizzatori smentiscono con fastidio: i dibattiti dei tavoli finiranno condensati in una sintesi che poi andrà a implementare il programma politico. Si vedrà.

Nei laboratori o nel palco della plenaria arriveranno figure storiche della sinistra italiana, come Luciana Castellina, ma anche storie più recenti, e più impreviste, come quella di Giovanna Martelli, consigliera per le pari opportunità del governo Renzi che qualche settimana fa ha lasciato il gruppo del Pd in polemica. C’è chi dice che potrebbe annunciare il suo avvicinamento a Sinistra italiana.

Ci saranno i sindaci Leoluca Orlando e Luigi De Magistris, ma anche Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, che è vero che sono di Sel, ma la loro presenza non era per niente scontata: si tratta pur sempre della nascita di un soggetto ostile alle alleanze con il Pd in piena campagna elettorale nelle proprie rispettive città.

Fra gli scettici, ma con motivazioni opposte, anche Marco Revelli dell’Altra Europa e Paolo Ferrero del Prc, ma anche loro ci saranno. Come i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, un messaggio di Maurizio Landini, i presidenti di Legambiente, Arci, Arcigay.

Nichi Vendola non ci sarà, sarà presente con un video che sarà proiettato domenica. E c’è da scommettere che sarà un momento delicato per l’assemblea, quello del fondatore di Sel non presente al suo evento di trasformazione in nuovo partito.

Ma l’elenco è impossibile, il programma completo si trova su Cosmopolitica.org. Il calcio d’avvio è affidato a Betta Piccolotti, responsabile comunicazione di Sel, poi a Andrea Ranieri, il braccio destro di Sergio Cofferati che riassumerà il documento politico su cui nasce l’ipotesi del nuovo soggetto, e ancora il sociologo Carlo Galli, ex deputato Pd e ora entrato nel gruppo di Sinistra italiana e poi la filosofa Laura Bazzicalupo.

Più o meno a questo punto dovrebbe andare in onda il video di Laura Boldrini, la presidente della camera proveniente dalle file di Sel ma che guarda con qualche apprensione il percorso della ’nuova cosa’. Per la quale, spiega, è certa che ci sia «uno spazio politico». Altri due ’scettici’ della possibile radicalizzazione a sinistra saranno presenti di persona: domani Giuliano Pisapia, alle prese con grosse turbolenze nella sua ex lista, domenica Massimo Zedda.

Più tardi, già oggi, la prima assemblea plenaria sul percorso costituente, per dare un minimo di organizzazione e un comitato provvisorio nel periodo transitorio di qui al congresso (questa sessione sarà tenuta da Peppe De Cristofaro, senatore e responsabile organizzazione di Sel).

L’assemblea si riconvocherà domani alla stessa ora. Qui si parlerà della forma partito, qui si deciderà il nome della nuova cosa, almeno quello provvisorio. «Sinistra italiana» per ora è il più quotato da Sel ed ex Pd, ma anche il più criticato dai movimenti.

Domani sarà giorno dei ventiquattro tavoli tematici (dai diritti civili al disarmo, dalla sanità al futuro del terzo settore, dalle banche all’antimafia fino al Sud e all’accesso ai saperi, dal Jobs Act all’austerità alla criminalizzazione delle migrazioni), e della discussione sulla democrazia digitale anche per cominciare a prendere le misure con Commo, la piattaforma digitale del nuovo soggetto politico, che rischia di essere una presenza sovraccarica di senso — forse anche di aspettative — sin dall’inizio del nuovo percorso.

Nel pomeriggio quattro assemblee sulle altrettante aree tematiche che sostanzieranno le quattro prime campagne del nuovo soggetto, insomma il primo abbozzo di programma. «Democrazia, partecipazione, riforme costituzionali», «Saperi, scuola, istruzione, conoscenza», «Ambiente, clima, conversione ecologica dell’economia», «Lavoro, welfare, politiche economiche».

CONQUISTARE I DELUSI
IL PARTITO NODO DELLA RETE
di Cosmopolitica
Il documento di apertura del congresso della sinistra a Roma. Un nuovo spazio, politico e alternativo, per rispondere a chi ha perso la fiducia ma non rinuncia
Viviamo in un tempo in cui comandano i mercati, e se dentro i mercati comanda il grande capitale finanziario, la democrazia si restringe. Nei tempi, così come nei contenuti, “i mercati non aspettano” perché le scelte sono determinate non dai bisogni e dai desideri dei cittadini ma dalla disponibilità del grande capitale ad investire in un determinato territorio. E come è noto i capitali preferiscono collocarsi dove minori sono i salari e i diritti.

La competizione politica in questi anni ha avuto come posta il dimostrarsi più efficiente e più pronta a modellare il proprio paese secondo i dettami del pensiero unico neoliberista. Ma è così che la politica perde la sua ragion d’essere e la sua credibilità.

Se la politica agisce sulla base di stati di necessità determinati altrove, le persone ritengono sempre più inutile votare e partecipare alla vita dei partiti. Specialmente le persone più povere, per reddito e per sapere. La politica che compete nel campo ristretto disegnato dagli interessi del grande capitale finanziario diventa sempre più rissosa e meno trasparente. La degenerazione morale della politica origina dal venire meno di chiare alternative strategiche, di interessi e di valori.

Se gli obiettivi da raggiungere sono per tutti gli stessi, se si rifiuta in partenza l’idea che un altro mondo è possibile, se cadono le distinzioni che hanno segnato le storie della sinistra e della destra, la politica diventa sempre di più un affare interno di chi nella politica investe per affermare se stesso. La casta dei professionisti della politica, che si rottama per rigenerarne una nuova.

È per questo che abbiamo deciso di intraprendere la strada della costruzione di un partito della sinistra. Perché siamo partigiani. Rispetto alla parte che ha voce, soldi, potere noi scegliamo l’altra parte, quella che oggi non trova voce e ascolto dentro la politica istituzionale. La parte di quelli che hanno visto ridurre il proprio reddito e la possibilità di decidere della propria vita, mentre ricchezze e potere si sono concentrati nelle mani dei pochi. La parte di quelli che credono che il sapere sia un modo per orientarsi nel modo e per orientarlo, che stia insieme alla libertà e alla bellezza e non alla ricerca del profitto e dell’utile. La parte delle intelligenze negate, di quelli a cui non è stata data la possibilità di accedere al sapere e di quelli che vedono ogni giorno svalorizzata la conoscenza che hanno acquisito con impegno e fatica. La parte di quelli che non misurano l’uscita dalla crisi sulla base di qualche decimale di PIL in più o in meno, magari trainati da quegli stessi fattori (il petrolio a buon mercato, l’aumento della liquidità monetaria) che hanno provocato la crisi economica e messo a rischio il pianeta; bensì dal lavoro buono e dignitoso che si riuscirà a costruire, dalla salubrità dell’ambiente in cui viviamo, dalla diffusione del sapere e della cultura, dalla salvaguardia e dall’estensione dei beni comuni, da una più equa redistribuzione dei profitti dalle rendite finanziarie verso i salari, la ricerca libera e l’innovazione tecnologica.

Rispetto ad un mondo che ha subordinato ogni cosa all’utile e al profitto siamo dalla parte dell’uguaglianza e della libertà.

Ma i partiti attuali non sembrano avere nessuna voglia di affrontare le ragioni vere della loro crisi di rappresentanza, che si manifesta nel crescente astensionismo e nel venire meno della partecipazione alla loro vita. Hanno anzi scelto quasi ovunque la strada del decisionismo e del restringimento degli spazi nei quali si esercita la democrazia. Si vota per decidere chi comanda. Dopo starà a chi comanda esercitare un potere sempre meno trasparente e sempre più subalterno alle logiche del grande capitale.

È questa la ragione di fondo che orienta la riforma della Costituzione e quella delle legge elettorale che il Parlamento ha votato e che saremo chiamati a confermare o a respingere con un referendum.
Se si intende continuare a smantellare lo stato sociale, a ridurre i diritti di chi lavora, a martoriare il territorio con le grandi opere e le trivellazioni, occorre ridurre gli spazi dove il popolo e che lo rappresenta prendono la parola. Il Parlamento deve essere un luogo di maggioranze blindate e di truppe fedeli, con tempi sempre più ristretti per discutere e deliberare.

Rischiamo di diventare la repubblica del silenzio ­assenso rispetto alle decisioni di chi comanda. E si riducono le risorse economiche e progettuali a disposizione delle autonomie locali, quelle che comunque devono fare i conti in presa diretta con le domande dei cittadini.

Il referendum per la Costituzione sarà il primo terreno su cui il nuovo soggetto politico in costruzione si cimenterà. Per evitare che venga prosciugata l’acqua in cui la buona politica può esercitarsi.

Non sarà solo una battaglia a difesa della Costituzione nata dalla Resistenza. Sarà una battaglia per dare alla Costituzione piena attuazione. Dal diritto al lavoro, a quello alla salute, alla casa, all’istruzione e alla cultura, promuovendo campagne e se occorre referendum per affermare i diritti negati dalle misure del governo su questi terreni. E per affrontare con lo spirito della nostra Costituzione i nuovi grandi problemi che mettono a rischio la convivenza e la vita stessa nel nostro Paese e nel Pianeta.

Il riscaldamento climatico, le migrazione dei popoli, la risposta al terrorismo e alla guerra, il diritto ad una vita felice delle donne e degli uomini indipendentemente dal loro orientamento sessuale. E come aprire nei luoghi del lavoro e della vita spazi di partecipazione nei quali le persone siano chiamate a deliberare sulle scelte che riguardano il loro presente e il loro futuro.

Il partito che vogliamo costruire si presenterà alle elezioni ma non sarà il partito delle elezioni.
Sarà presente nelle istituzioni ma non sarà il partito degli eletti. Sarà il partito che intende promuovere la democrazia di ogni giorno. E che assicurerà il suo pieno sostegno e quello delle sue stesse presenze istituzionali, come già oggi fanno il gruppo parlamentare della sinistra italiana e gli amministratori locali impegnati sul progetto, a tutti i movimenti, i sindacati, le associazioni che nel territorio e nei luoghi di lavoro promuovono partecipazione e conflitto.

Perché sa che nessun vero cambiamento è possibile senza rivitalizzazione della società e del tessuto democratico diffuso del nostro Paese, senza ricostruzione della trama sociale lacerata e divisa da anni di egemonia politica, culturale, economica e sociale del neoliberismo.

Nella società degli individui frammentati e massificati, tenuti insieme dalla cultura del consumismo, vince la destra comunque si chiami. Il nostro partito non pretenderà di esser il soggetto unico della politica. Se c’è ancora speranza di salvare l’Italia e l’Europa è perché in questi anni migliaia di presone hanno continuato a pensare e a ragionare insieme sulle scelte che riguardano la loro vita e il loro rapporto coi grandi problemi del mondo. Cominciando a praticare le cose che chiedevano e rivendicavano.

Dal diritto alla casa, all’istruzione, alla salute, al rispetto dell’ambiente, alla solidarietà attiva nei confronti dei migranti, alla difesa e alla valorizzazione del beni comuni. La nostra aspirazione al governo e la nostra possibilità di governare si fondano sulla piena autonomia e sulla creatività di questi soggetti. Soggetti che dal canto loro ogni giorno verificano come, proprio per salvaguardare la loro autonomia e la loro capacità di incidere, sia necessaria anche una presenza che ne assuma contenuti e obiettivi nelle sedi dove si possono spostare e finalizzare risorse, dove di decide lo spessore delle frontiere,la pace e la guerra. Nel governo delle amministrazioni locali, degli Stati, dell’Europa.

Questo intreccio fra movimenti sociali e obiettivi di governo spiega l’avanzata in Europa di una nuova sinistra, da Syriza a Podemos. E l’affermarsi in alcuni degli stessi partiti storici di leaders esplicitamente alternativi al neoliberismo dominante e al predominio della finanza.

Jeremy Corbyn in Inghilterra. Bernie Sanders negli Stati Uniti. Si apre oggi in Italia, in Europa, nel mondo un nuovo spazio politico a sinistra oltre la crisi delle socialdemocrazie. Il nostro partito non pensa se stesso come il vertice di una piramide ma come il nodo di una rete in cui si moltiplicano le esperienze di autogestione, di mutualismo, di auto organizzazione.

Nemmeno il percorso che intendiamo intraprendere per fondare il nuovo partito sarà verticale, tanto meno verticista. Nessuno deve essere legittimato a dirigere sulla base delle sue precedenti esperienze di direzione.

Perché anche il modo di fare politica di chi ha messo a disposizione sé stesso per il nuovo progetto, nei partiti come nei movimenti, non è stato esente dai molti dei vizi della politica che vogliamo superare. E perché oggi l’intelligenza necessaria ad affrontare i grandi problemi che il mondo attraversa è diffusa tra quelle migliaia di persone che mentre la politica insisteva nei vecchi rituali e nelle vecchie formule, hanno provato a tenere insieme e a pensare insieme i loro problemi e i problemi del mondo. Sono loro che devono essere protagoniste del percorso che si apre. Sono le loro idee, le loro esperienze che devono nutrire il percorso a partire dai tre giorni di febbraio. Loro come persone e non per la tessera che hanno in tasca.

Il nuovo soggetto non può essere la semplice unione tra quanti in questi anni hanno provato a resistere, coi loro partiti o come minoranza nel partito di Renzi, alla deriva neoliberista e decisionista.
Non ha come obiettivo di conquistare una dignitosa percentuale all’interno di un corpo elettorale drasticamente ridotto dalla sfiducia e dall’astensionismo. Deve avere l’ambizione di conquistare alla partecipazione democratica gli sfiduciati e i delusi: e i tanti che fanno politica, la politica che conta, nei luoghi del lavoro e della vita.

È per questo che abbiamo detto no al nuovo soggetto come federazione delle esperienze organizzate esistenti.È per questo che partirà una vera e propria marcia per l’alternativa, un cammino di assemblee e di piccoli e grandi incontri che attraverserà l’Italia per organizzare il confronto pubblico sui temi, coinvolgendo reti sociali e di movimento, associazioni, ricercatori, sindacati e singoli cittadini in una grande discussione sul futuro del paese.Chi farà nel nuovo partito la sua prima esperienza politica deve contare quanto chi viene da una lunga storia.

Certamente sarà necessario dare vita a strutture di coordinamento e di servizio che organizzino la partecipazione e la mobilitazione sugli obiettivi che insieme ci daremo. Ma siamo chiamati tutti a vigilare perché questa delega provvisoria fino al Congresso Costituente non sia una requisizione del dibattito politico e delle decisioni.

Le strutture territoriali che costruiremo non dovranno essere semplici terminali per mobilitare la gente su decisioni assunte altrove, ma i momenti essenziali della stessa elaborazione politica.
I grandi obiettivi generali che ci daremo saranno tanto più forti e convincenti quanto più nasceranno dalle pratiche sociali e dai pensieri che le alimentano.
I nuovi strumenti di comunicazione, come la piattaforma digitale, così come il coordinamento intelligente delle occasioni più tradizionali di confronto diretto, rappresenteranno i luoghi nei quali si incontreranno le idee e le proposte nate nei territori, per diventare patrimonio di tutte e di tutti.

Il rispetto della cultura in Italia è scomparso da tempo. Matteo Renzi continua sulla scia dei suoi predecessori: Mussolini, Scelba, Berlusconi.

La Repubblica online, bloc "Articolo 9", 19 febbraio 2016

Oggi, in una bellissima intervista a Repubblica, il fisico Guido Tonelli ha spiegato che è riuscito a studiare, grazie alle borse di studio e ai sacrifici della sua famiglia, perché «a quel tempo c'era un grandissimo rispetto per la cultura e lo studio». Ecco, se oggi l'Italia non è un paese per ricercatori, se oggi non investiamo in ricerca è forse soprattutto perché abbiamo perduto quel rispetto.

Veniamo da una lunga stagione di delegittimazione del sapere critico e della cultura. Nel ventennio berlusconiano l'ignoranza è stata sdoganata, e quasi celebrata, da un senso comune che si riflette tuttora in film, televisione, discorso pubblico di infimo livello intellettuale. Ma, anche prima, il potere italico ha spesso ostentato il suo disprezzo per la cultura: da Mussolini che si vantava di esser entrato in un museo due o tre volte nella vita, al «culturame» di Scelba.

Con Matteo Renzi non siamo usciti da questa tradizione, purtroppo. L'ex sindaco di Firenze parla continuamente di cultura, senza però esserne affetto: un portatore sano di cultura. Commentando un libro di Renzi (Stil novo, la rivoluzione della bellezza da Dante a twitter, Milano 2012), lo scrittore Paolo Nori rifletteva sulla singolare stranezza per cui «in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta». Ecco, questo giudizio mi è tornato in mente sentendo il nostro presidente del Consiglio che, parlando non in un luogo qualunque, ma all'Università di Buenos Aires, faceva la monumentale gaffe di citare una poesia del massimo scrittore argentino, Jorge Luis Borges... che però non era di Borges. Quel testo, banale e imbarazzante come un motto da bacioperugina, si trova – attribuito a Borges – sulla rete: e copiare da internet senza controllare le fonti, e il tipico errore che si cerca di sradicare dalle matricole universitarie.

Nessuno pretende che Renzi vegli di notte per studiare Borges: ma investire così poco sul livello culturale del proprio staff pur volendo parlare continuamente di cultura, è una scelta che rivela una profonda mancanza di rispetto «per la cultura e per lo studio». E il punto non è la figuraccia di Renzi (una più o una meno...): il punto è il futuro della ricerca e della cultura in questo povero Paese.

Le barricate minacciate da Zaia riecheggiano le mura promesse da Trump. Eppure la regione che Zaia governa ha conosciuto ondate di emigrazioni che non erano dovute alle guerre ma alla miseria: i veneti erano "migranti economici"come si dice oggi per respingerli. La Repubblica, 19 febbraio 2016


«Non accoglieremo nuovi immigrati: il Veneto ha già fatto troppo. Da noi non c’è più posto». Luca Zaia boccia il nuovo piano d’accoglienza da 150mila posti del Viminale: «Il governo invece di gestire i flussi di rifugiati – attacca il governatore veneto – si è ridotto a fare il tour operator. Smista e basta».

Il Veneto è dunque pronto alle barricate contro i nuovi ingressi?
«Sia chiaro, oggi l’11% della popolazione veneta è straniero: circa 514mila migranti. Abbiamo avuto i flussi di albanesi, di romeni e via via di tutti gli altri. Su un punto non ci sono dubbi: è vigliacco non accogliere chi fugge dalla morte. Ma i dati ci dicono che due immigrati su tre alla fine non ricevono lo status di rifugiato. Stiamo riempiendo il nostro territorio di stranieri che non hanno diritto all’ospitalità, mentre i rifugiati veri li lasciamo per strada ».

Ci spieghi meglio.
«Chi non ha diritto all’asilo fa ricorso al giudice e intanto rimane. I rimpatri sono quasi impossibili, vista la mancanza di accordi di riammissione con i Paesi principali di partenza. E intanto cosa succede a chi ottiene lo status di rifugiato? Semplice: le cooperative lo mettono in strada visto che non vale più i 35 euro giornalieri. I sindaci non sanno più come fare. E il governo non fa nulla ».

È colpa del governo se sbarcano migliaia di rifugiati nel nostro Paese?
«Se arrivano non è certo colpa del governo, ma è nella gestione dei flussi che non sta facendo niente. Dovrebbe poi farsi sentire di più in Europa».

Invece?
«Invece siamo davanti a un governo che pesa poco o nulla a livello internazionale. E a un comportamento inaccettabile dell’Unione europea, che ci ha lasciati soli. Io dico che andrebbe revocato il premio Nobel per la Pace all’Europa».

Cosa andrebbe fatto per arginare i flussi di migranti, allora?
«Bisognerebbe aprire campi di accoglienza internazionali nel Nord Africa, dove ciascuno, anche la mia Regione, farebbe la sua parte».

Insomma, da parte vostra non ci sarà un posto in più per l’accoglienza dei profughi?
«Ripeto: solidarietà a chi fugge dalle guerre, senza se e senza ma. Non a queste condizioni, però. Noi già facciamo il nostro, non siamo disposti a ulteriori sforzi».

Rinasce il fronte del No delle regioni a guida centrodestra?

«Non è questione di colore politico. Bisogna osservare quello che sta succedendo nei nostri territori. Pronti a rivoltarsi, come sta accadendo in Germania contro la Merkel».

Con l'Italia è l'insieme del sistema capitalistico che è in crisi profonda.Si avverano le peggiori previsioni degli economisti: siamo entrati in una «una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze». Il manifesto, 19 febbraio 2016

No, non ce la fa. L’economia mondiale non si riprende. Anzi. L’ultima botta all’ottimismo incosciente lo ha dato nientemeno che l’Ocse, dopo che già il Fmi, qualche settimana fa, aveva abbassato le stime della crescita. Secondo l’organizzazione di Parigi il Pil globale aumenterà del 3% nell’anno in corso e del 3,3% nel 2017. Si tratta in entrambi i casi di uno 0,3% rispetto alle precedenti previsioni. In questo modo l’espansione del Pil globale nel 2016 non risulterebbe diversa da quella del 2015, che “di per sé aveva segnato il ritmo di crescita più lento degli ultimi cinque anni”. Le economie emergenti rallentano in modo vistoso. C’è chi dice che l’India forse supererà la Cina, ma in una corsa al ribasso. Per quanto riguarda l’Eurozona, dice l’Ocse, i potenziali benefici della riduzione del prezzo del petrolio non si sono fatti sentire. I bassissimi tassi di interesse e l’euro debole non sono bastati per favorire uno sviluppo degli investimenti, mentre le sofferenze bancarie “restringono il canale creditizio della trasmissione della politica monetaria”. Per cui è prevedibile che gli effetti di una nuova espansione di quest’ultima, prevista dopo la riunione della Bce del prossimo 10 marzo, siano già alle spalle o rimangano strozzati dal mal funzionamento generale del sistema. Col “sindacalese” di una volta si sarebbe detto che il “cavallo non beve”.

L’Italia è in linea con queste pessime previsioni. Non c’è da stupirsi quindi se l’Ocse ci attribuisce un aumento del Pil del solo 1%, in netta retrocessione rispetto all’1,4% attribuitoci solo nel novembre scorso. Del resto anche la Corte dei Conti si fa sentire. Il Presidente Raffaele Squitieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 spegne ogni speranza sulla spending review renziana, che viene anzi considerata responsabile della riduzione dei servizi reali ai cittadini, in nessun modo considerabili superflui. Basta gettare un occhio alla sanità pubblica!

Lawrence Summers può quindi tornare sulla sua analisi preferita, quello che lo portò alla fine del 2013 a diagnosticare una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze. Peraltro con il sostanziale accordo di Paul Krugman. L’altro giorno scriveva sul Financial Times che: “Il coordinamento globale dovrebbe smetterla di perdere tempo dietro ai luoghi comuni su riforme strutturali e risanamento dei conti pubblici e lavorare per garantire una domanda adeguata a livello globale.” Invece in Europa si fa l’esatto contrario. Mentre la prospettiva di una nuova fase recessiva dell’economia americana è tutt’altro che fantascientifica. Summers la prevede in termini molto pesanti già per l’anno in corso e soprattutto per i prossimi due. Janet Yellen, presidentessa della Fed, fa capire di temerla visto che ha bloccato il rialzo dei tassi e anzi non esclude persino di portarli in territorio negativo. Le minute dell’ultimo consiglio della Bce di gennaio non solo rivelano le divisioni al proprio interno, ma molto scetticismo sulla possibilità d’impedire o solo frenare l’avvitamento verso il basso dell’inflazione, malgrado l’ottimismo della volontà di Mario Draghi.

La definizione “stagnazione secolare” non è nuova. Venne coniata da Alvin Hansen, uno dei più importanti seguaci e propalatori delle teorie di Keynes. Secondo Hansen, apprezzato anche da Paul Samuelson e James Tobin e in parte ripreso in campo marxista da Paul Sweezy, la tendenza strutturale alla stagnazione sarebbe stata provocata da una asfittica dinamica dei consumi accompagnata dalla fine della mobilitazione bellica che aveva portato indubbiamente a un incremento della capacità produttiva. Si disse poi che la preoccupazione di Hansen si era dimostrata del tutto infondata di fronte ai trent’anni “gloriosi” dello sviluppo capitalistico postbellico. Ma non si fece tesoro del fatto che fu proprio l’incremento dell’intervento pubblico in economia e l’allargarsi dello stato sociale, grazie alle lotte del movimento operaio e democratico, a fornire le basi per quell’insuperato periodo di sviluppo economico. L’affermazione dei bisogni e dei diritti sul piano sociale, a partire dai luoghi della produzione, aveva costituito una leva formidabile per tutta l’economia. Ed era quello che mancava non solo in Hansen, ma per certi aspetti persino nel suo maestro Keynes. Ma nei lunghi decenni dell’egemonia neoliberista tuttora imperante, quello stato sociale è stato abbattuto per fare spazio ad una nuova fase di accumulazione e di scorribande per il capitale finanziario, mentre l’intervento pubblico ha assunto un carattere sempre più residuale e sempre meno innovativo. A quelle leve bisogna oggi guardare in termini innovativi per progettare una nuova società. A questo serve un nuovo soggetto di sinistra che ancora non c’è. Non basta abbattere il mito della crescita se ci si perde nella foresta pietrificata delle diseguaglianze.

«Egitto. Resa dei conti per il team investigativo italiano, ostruito dal regime. Sembra che ormai si estenda a macchia d’olio la repressione dei centri di ricerca e dei think tank critici verso il regime».

Il manifesto, 18 febbraio 2016 (m.p.r.)

Oggi è la giornata decisiva per le indagini sulla tortura e morte del dottorando italiano, Giulio Regeni. Il team di investigatori italiani (Ros, Sco e Interpol), volati al Cairo subito dopo il ritrovamento del cadavere lo scorso 3 febbraio, aspetta ancora che le autorità egiziane consegnino tabulati telefonici, tutti i numeri agganciati dall’ultima cella dal cellulare di Giulio e i filmati delle telecamere a circuito chiuso nella zona di Doqqi. Sarebbe utile chiedere anche i video intorno alla metro Mohamed Naguib, non lontano da piazza Tahrir e dove Giulio era atteso, poiché ancora non è sicuro dove Giulio sia stato prelevato.

Se ancora una volta la collaborazione egiziana sarà solo a parole o si limiterà a fornire false prove, come è avvenuto con il supertestimone che ha parlato di due agenti in borghese che avrebbero prelevato il giovane sotto casa, contraddetto dalle deposizioni dei coinquilini di Giulio, è possibile che il team italiano ritorni a Roma o esprima apertamente il suo disappunto.

Fin qui le autorità egiziane hanno voluto insabbiare il caso. Non solo, sembra che ormai si estenda a macchia d’olio la repressione dei centri di ricerca e dei think tank critici verso il regime. Il ministro della Salute ha disposto per il prossimo lunedì la chiusura del Centro per la riabilitazione delle Vittime delle violenze (El Nadeem). La questione delle torture è davvero centrale per smascherare le malefatte del regime di al-Sisi e i metodi arbitrari della polizia egiziana contro cui giovani e migranti erano scesi in piazza nel 2011.

Per questo, nello show televisivo di Ontv, Youssef al-Hussein si è presentato con una maglietta con la scritta una «Nazione senza torture». L’iniziativa è in solidarietà con Mahmoud Mohammed, un giovane imprigionato per oltre due anni perché indossava quella stessa maglietta. Mahmoud potrebbe essere accusato di terrorismo e finire nelle mani sanguinarie della Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla). La rilevanza dell’impunità degli atti di tortura è tornata evidente proprio nel caso Regeni.

Il capo della polizia investigativa che sta indagando sul caso, Khaled Shalaby, era stato condannato in primo grado per tortura. Vari ufficiali in prigione per aver praticato torture sono stati prosciolti tra di loro il luogotenente, Yassin Salah Eddin, l’ufficiale responsabile di aver sparato all’attivista socialista, Shaimaa el-Sabbagh. La Corte di Alessandria ha poi prosciolto, l’ufficiale, Hossam El-Shennawy, detenuto con l’accusa di aver torturato a morte, Sayed Bilal nel gennaio del 2011.

Questo muro contro muro delle autorità egiziane che in nessun modo sembrano interessate ad arginare lo stato di polizia in cui vive il paese arriva mentre l’allerta sicurezza, innalzata sin dal 25 gennaio, quando Giulio Regeni è scomparso in occasione del quinto anniversario dalle rivolte del 2011, non si è affatto placata in Egitto.

La seconda conferenza economica di Sharm el-Sheikh, prevista per maggio, è in via di cancellazione. La stessa cosa era accaduta la scorsa settimana con il World Economic Forum (Wef). In questa fase, il Cairo è in contatto con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per stabilire le condizioni per il nuovo prestito. Non solo sarebbero dovuti essere siglati contratti miliardari con l’italiana Eni in merito alla gestione del prospetto esplorativo Zohr IX, il maxi giacimento di gas che cambierà gli assetti economici nel Mediterraneo orientale.

Ma sono tutti gli egiziani a sembrare davvero poco soddisfatti della presidenza al-Sisi dopo la bassissima partecipazione elettorale alle ultime elezioni presidenziali e parlamentari. Non sono solo i medici a protestare per le violenze che sono costretti a subire da parte della polizia per falsificare i loro report sulle torture. Si sono uniti a loro anche gli studenti universitari. Le elezioni studentesche sono state annullate dalle autorità egiziane.

Secondo molti studenti della coalizione Voce dell’Egitto, i risultati del voto annullato non avrebbero garantito le intenzioni del governo di mettere le mani sugli atenei. Dopo il golpe militare, le università sono state veri centri di opposizione. I movimenti studenteschi più intransigenti si sono concentrati negli atenei di Ayn Shamps e al-Azhar, università tradizionalmente vicine ai Fratelli musulmani.

Secondo gli attivisti universitari, le autorità non permettono agli studenti detenuti di sostenere gli esami. Alcuni membri delle associazioni legate al gruppo Egitto Forte nelle università hanno anche accusato le amministrazioni accademiche di impedire ai membri dei gruppi giovanili della Fratellanza musulmana e di 6 aprile di prendere parte alle elezioni studentesche.

Infine, anche i ricercatori egiziani, dopo i dipendenti pubblici, sono scesi in piazza per protestare contro disoccupazione e precarietà per lavoratori qualificati.

La Repubblica, 18 febbraio 2016

La benedizione del Papa nel punto esatto dove passa la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Le sue dita che, sotto una croce di legno piazzata lungo il Rio Bravo, si tendono a salutare i 50 mila accalcati al confine americano, uniti ai 200 mila nella parte messicana. Un gesto che genera grande emozione. La gente piange, agita i fazzoletti, in aria volteggiano nel più totale silenzio due elicotteri di parti diverse, quasi uno di fronte all’altro. «Nessuna frontiera potrà impedire di unirci. Grazie, fratelli e sorelle, per sentirci una sola famiglia e una stessa comunità cristiana».

È una messa per tutti. Al di qua e al di là del confine. In una terra immersa nella violenza delle bande di narcotrafficanti. Di qua Ciudad Juarez, oggi una delle città più sanguinose al mondo. Di là El Paso, la mèta agognata. In mezzo, un reticolato. E i migliaia che tentano di fuggire ogni giorno. La celebrazione di Francesco è la prima di un Pontefice a cavallo fra due Paesi, con l’altare posto ad appena 80 metri dalla linea di demarcazione.

È questa l’ultima immagine di Francesco in questi suoi sei giorni di viaggio in Messico. Lungo la rete di metallo che separa lo Stato del Texas da quello del Chihuahua, il Pontefice argentino ha per tutti parole di conforto: «Qui a Ciudad Juárez si concentrano migliaia di migranti dell’America Centrale. Un cammino carico di terribili ingiustizie: schiavizzati, sequestrati, molti nostri fratelli sono oggetto di commercio».

«Non possiamo negare la crisi umanitaria — dice Bergoglio — negli ultimi anni ha significato la migrazione di migliaia di persone, in treno, in autostrada, anche a piedi attraversando centinaia di chilometri per montagne, deserti, strade inospitali. Questa tragedia umana che la migrazione forzata rappresenta, è un fenomeno globale. Questa crisi, che si può misurare in cifre, noi vogliamo misurarla con nomi, storie, famiglie. Sono fratelli e sorelle che partono spinti dalla povertà e dalla violenza, dal narcotraffico e dal crimine organizzato. Ingiustizia che si radicalizza nei giovani: loro, come carne da macello, sono perseguitati e minacciati quando tentano di uscire dalla spirale della violenza e dall’inferno delle droghe ». Solo un’ora prima, in un incontro con il mondo del lavoro, aveva detto basta allo sfruttamento: «Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni».

Le statistiche dicono che oggi Ciudad Juarez è più violenta di Caracas. Sede di 950 pandillas, le bande armate che infestano il Messico, è tristemente famosa per le migliaia di donne scomparse, prelevate soprattutto dalle fabbriche clandestine. I racconti di questa gente parlano di ponti sulle strade dove pendono cadaveri impiccati, corpi infilzati, teste mozzate.

E allora Francesco va a incontrare i detenuti nel carcere Cereso 3, istituto con 3.600 prigionieri. Qui scontano la pena sicari, membri delle gang, assassini. In 30, distintisi per buona condotta, lo salutano e gli stringono la mano. Il Papa compare dietro il filo spinato. «Non rimanete prigionieri del passato. Alzate la testa e lavorate per la vostra libertà. Chi sperimenta l’inferno può essere profeta nella società. Non parlo dalla cattedra, ma dall’esperienza dei miei peccati».

E nemmeno in viaggio la diplomazia di Francesco si ferma. Una delegazione vaticana, in visita all’università islamica al-Azhar del Cairo, riapre i canali dopo i rapporti difficili degli anni scorsi. Ora il Papa è disposto a ricevere il Grande Imam egiziano.

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Il manifesto, 18 febbraio 2016

La strada da San Diego a El Paso costeggia 1.200 km di frontiera fra Messico e Stati uniti, e non sono neanche la metà per completare il tragitto a Brownsville, sul Golfo del Messico. Il più lungo confine di terra fra mondo sviluppato e «terzo mondo» è la linea arbitraria che taglia una regione meticcia: duecento anni di colonizzazione spagnola e duecento di dominio americano, con una costante, la pulizia etnica dei popoli indigeni, uno sterminio che è l’atto fondativo di una terra di frontiera permanente e ne plasma tuttora il retaggio violento.

Nessun luogo su questo confine crudele ne è forse un simbolo quanto la città divisa di El Paso/Ciudad Juarez un agglomerato binazionale di quasi 4 milioni di abitanti tagliata a metà dalla frontiera internazionale. Da El Paso l’originale governatore spagnolo Don Juan De Oñate lanciò la spedizione che avrebbe finito per massacrare gli indiani Pueblo (per sedare una rivolta ad ogni maschio adulto venne tagliato il piede sinistro). Il presente di Ciudad Juarez esprime violenze altrettanto efferate nella sanguinosa narco-guerra che ne fece la «capitale mondiale degli omicidi».

Questo luogo è stato il terminale del viaggio pastorale più simbolico ad oggi di Papa Francesco. La violenza più didascalica della frontiera — e cioè di tutte quelle che disegnano le ingiuste divisioni del pianeta — è contenuta nell’abisso fra i due lati contigui, la quasi allegorica differenza fra ricchezza texana e miseria messicana. Su questa soglia che unisce e divide due mondi, è venuto ad inginocchiarsi il papa scegliendo di farlo nel momento in cui sul lato settentrionale, ricco e potente, è in corso una elezione che amplifica le contraddizioni espresse da questa frontiera.

I latinos, su entrambi i lati del confine, sono ancora una volta al centro della retorica politica grazie alle invettive di Donald Trump ma anche quelle di Ted Cruz e Marco Rubio, che pur di origine cubana fanno a gara per superarsi come paladini anti-immigrazione. Nell’etere sotto il cielo impossibilmente stellato del deserto il fiele corre sulle onde medie, quelle delle radio conservatrici che vomitano la propria rabbia contro «quelli che vengono a rubarci il paese» e contro il presidente «traditore musulmano e comunista» che li accoglie . È la paura viscerale che gonfia i sondaggi di Trump esacerbata in questi giorni dalla morte di un santo protettore dell’«America di una volta», Antonin Scalia, àncora reazionaria della corte suprema.

Con Scalia viene meno il controllo conservatore della Corte suprema, cruciale per smontare la «legacy» di Obama . Nel panico, la destra annuncia il boicottaggio di una nomina di un nuovo giudice da parte del presidente. Ma l’ostruzionismo a priori obbliga i repubblicani a scoprirsi e il costo politico per i candidati potrebbe essere molto alto, in particolare proprio fra gli ispanici. Fra le pratiche al vaglio della corte suprema infatti c’è anche il progetto di amnistia parziale agli immigrati e richiedenti asilo. Il «filibuster» ad oltranza dei repubblicani del congresso si tradurrebbe quindi, in un anno elettorale, in affronto potenzialmente suicida al 17% della popolazione.

Obama martedì ha denunciato il boicottaggio repubblicano come sabotaggio della stessa democrazia. «È la misura del rancore che rende impossibile governare» ha dichiarato. Intanto i latinos del Sudovest potrebbero essere determinanti anche in campo democratico nelle primarie contese fra Hillary e Bernie Sanders. Sabato prossimo si voterà in Nevada dove gli ispanici sono un quarto della popolazione e costituiscono in particolare una alta percentuale nei sindacati, tradizionali sostenitori clintoniani.

La presenza di Franscesco sulla soglia simbolica di un occidente sempre più chiuso contro i diversi è stata dunque la più significativa del suo papato. Non a caso Donald Trump da giorni la denuncia come un ingerenza negli «affari interni» della sua campagna xenofoba. Di sicuro si è trattato di un atto profondamente politico, giunto al termine di un pellergrinaggio simbolico che ha ripercorso in Messico i passi dei migranti dalle alture indigene del Chiapas attraverso lo stato Purepecha del Michoacan, le favelas di Città del Messico fino al Rio Grande dove, 400 anni dopo che i frati francescani benedissero il genocidio, Bergoglio ha tenuto a benedire un gruppo di immigrati attraverso quel reticolato che vuole dividere fisicamente ricchi e diseredati.

L’abbattimento simbolico di uno di quei confini che il papa ha chiaramente definito monumenti all’esclusione.

a Repubblica, 17 febbraio 2016

«I quattro paesi di Visegrad sono il nuovo Asse. Il nemico è Angela Merkel, simbolo forte dell’Europa liberale ». Lo dice Agnes Heller, filosofa ungherese che è stata il massimo esponente della Scuola di Budapest e rimane la leader storica dell’intellighenzia critica del centro-est europeo.

Questi no all’Europa raccolgono ampi consensi in patria: che cosa sta succedendo nel centro-est dell’Europa?
«Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia ricordano il vecchio Asse. Non sono uniti da valori ma dall’identificare un nemico comune: il cuore della Ue, soprattutto la Germania, contro cui sono in guerra per imporre le loro ideologie illiberali e prendere la guida dell’Europa insieme a forze a loro affini. È una sfida lanciata a liberal, progressisti, conservatori, a tutti i veri europei».

Il no ai migranti non è l’obiettivo principale?
«È piuttosto strumento della loro guerra: criminalizzano migranti e profughi per criminalizzare Angela Merkel che, dicono, accogliendoli sul suolo europeo distrugge la loro idea d’Europa. È guerra tra diverse parti dell’ex impero sovietico e le democrazie dell’Europa occidentale e meridionale. Vincerà chi avrà il controllo della Ue».

Merkel primo bersaglio, dunque: perché?
«Perché è e rimane il personaggio più forte, centrale, dell’Unione europea. Nella partita in corso, lei è come il Re negli scacchi. Devono riuscire a darle scacco per trasformare la Ue in una “Europa delle patrie” rette da sistemi illiberali nazionali, di cui Orbàn e i suoi migliori alleati, i governanti polacchi, parlano. Scacco al re, anzi regina in questo caso, nel nome di nazionalismo e onnipotenza degli Stati nazionali, il vero male del Ventesimo secolo, a mio modo di vedere».

Ma sono comunque popolarissimi in patria: perché?
«Perché gli elettori da noi sono frustrati e depressi, sebbene non manchi chi scende in piazza per protestare contro questi governi antiliberali. È sempre facile in Europa orientale, dove esistono persino opposizioni a destra di Orbán o del PiS polacco, giocare la carta del nazionalismo, dire che occorre resistere ai diktat in arrivo da fuori. Il potere è così forte da creare oligarchi che poi lo sostengono».

I cittadini condividono dunque il no alla solidarietà europea dei loro politici?
«Purtroppo, giocando la carta della resistenza nazionalista contro presunti ricatti di Bruxelles o Berlino, hanno distrutto il principio stesso della solidarietà, legame e valore fondamentali dell’Europa. Vogliono tutto dalla Ue, ma non danno nulla in cambio. La gente dimentica gli ingenti aiuti e investimenti europei. E l’egoismo degli Stati nazionali, definiti da Nietzsche “bruti che si servono da sé”, distrugge i valori costitutivi europei. Ma in patria slogan e propaganda convincono ».

Quanto è pericoloso tutto questo?
«Molto, perché le democrazie occidentali si stanno mostrando deboli a fronte di questi semi-dittatori. Germania, Francia, Italia, in quanto Stati liberali, non sono portati ad assumere linee dure o sanzioni. Se resteranno deboli, l’Asse e i suoi potenziali seguaci potranno davvero mettere a rischio la Ue e i suoi principi»

L’Europa democratica dovrebbe reagire più duramente?
«Non so come dovrebbe reagire, ma so che deve mostrarsi forte. Difendere i suoi valori. E capire la serietà della sfida illiberale di cui Orbán è l’ideatore: lui invita tutti a non sentirsi più innanzitutto europei. Nel futuro non temo certo guerre europee, ma sostengo che il virus illiberale e demagogico potrà diffondersi e minare le fondamenta democratiche dell’Europa, contando sulla capacità di condizionare l’elettorato con un messaggio forte e populista».

Sbilanciamoci.info, Newsletter n. 461, 16 febbraio 2016

Le fredde righe partorite dalla tecnocrazia europea nascondono una responsabilità politica precisa dei Governi europei: quella di imprigionare donne uomini e bambini sotto le bombe di paesi come la Siria o di affidare i loro destini alla variabilità delle condizioni meteorologiche. Muri, hot-spot, identificazioni forzate sono nient’altro che strumenti di morte che l’Europa chiede di usare proprio ai paesi membri più esposti all’attuale pressione migratoria.

Alzate le barriere contro i migranti, o alzeremo quelle tra i paesi europei. E’, in estrema sintesi, il messaggio contenuto nel dossier sullo stato dei lavori previsti dall’Agenda sulle migrazioni, redatto dalla Commissione europea diffuso mercoledì 10 febbraio. Un documento in cui si mette in discussione uno dei pilastri dell’Unione Europea, ossia la libera circolazione: la Commissione minaccia infatti di bloccare Schengen per due anni qualora la Grecia, uno dei paesi in cui la pressione migratoria è attualmente più forte, non si adegui ai dettami europei.

Ad Atene la Commissione europea rivolge le critiche più forti, sollecitando maggiori controlli alle frontiere per evitare che i migranti si spostino verso gli altri paesi europei.Non è una richiesta astratta: entro tre mesi Tsipras dovrà presentare un piano per il controllo dei confini, facilitando anche il lavoro dei funzionari Frontex già presenti, e di quelli che secondo la Commissione dovrebbero ancora arrivare. All’interno del piano la Grecia dovrebbe, secondo le richieste europee, predisporre delle strutture di “accoglienza” dei richiedenti asilo che, sfuggiti ai controlli ellenici, si sono già spostati in altri paesi europei, Germania e Svezia in testa: il trasferimento dei migranti risponderebbe alla restaurazione, in Grecia, del regolamento Dublino, finora bloccato da alcune sentenze emesse nel 2011 dalla Corte europea dei diritti umani, a causa delle indegne condizioni di accoglienza riscontrate in territorio ellenico.

Date le gravi difficoltà economiche in cui versa la Grecia, l’Unione prevede un’assistenza in collaborazione con il sostegno operativo dell’Unhcr: la Commissione ha infatti già approvato lo stanziamento di 80 milioni di euro per sostenere le capacità di accoglienza del paese, portandole di 50.000 posti. Una missione “umanitaria” che ha, paradossalmente, l’obiettivo di allontanare persone in difficoltà dal territorio europeo, in un paese da anni stretto nella morsa della crisi, messo in ginocchio da pesanti misure di austerity e con il tasso di disoccupazione al 25%.

Se la Grecia non dovesse dar seguito ai punti sollevati dalla Commissione, il rischio concreto è la reintroduzione delle frontiere interne per un periodo di due anni.

Anche l’Italia viene bacchettata sui controlli, in particolare in relazione alla questionehotspots: solo due dei sei previsti sono attivi. Proprio per superare i problemi amministrativi e i ritardi legati alla scelta dei siti, la Commissione mette a disposizione una squadra mobile europea, per la rapida creazione di una nuova struttura nella Sicilia orientale. La pressione sugli hotspots va di pari passo con la necessità, tutta europea, di procedere alle registrazioni e conseguentemente a riallocazioni o rimpatri -sempre in base alla discutibile divisione tra migranti economici e profughi, arbitrariamente decisa dalle istituzioni europee- e di evitare che i migranti si spostino negli altri paesi membri. E’ in quest’ottica che la Commissione sottolinea la possibilità di usare la forza per effettuare i rilievi dattiloscopici, e arrivare così all’obiettivo europeo: pur riconoscendo un incremento della registrazione delle impronte digitali – dall’8% nel settembre 2015 al 78% nel gennaio 2016 in Grecia, e dal 36% del settembre 2015 all’87% nel mese di gennaio 2016 in Italia – l’Unione sollecita il raggiungimento del 100% dei rilievi entro il summit europeo previsto per marzo. Ed è sulle deportazioni che l’Europa insiste particolarmente: gli oltre 14mila rimpatri forzati effettuati dall’Italia nel 2015, e la partecipazione a 11 voliorganizzati da Frontex, non sarebbero sufficienti, secondo la Commissione, a fronte di oltre 160mila arrivi registrati lo scorso anno. E’ in quest’ottica che l’Europa chiede di intervenire sulla legge nazionale, allungando i tempi di trattenimento, non considerando gli attuali 90 giorni idonei alla chiusura delle pratiche per i rimpatri. Una pressione esplicita ad ampliare (di nuovo!) quel sistema dei centri di identificazione ed espulsione che nel nostro paese ha dato luogo a gravi violazioni dei diritti umani, a numerose proteste delle persone detenute e a un business sconfinato spesso nell’uso improprio di risorse pubbliche.

Se a Grecia e Italia viene rimproverato di non alzare muri abbastanza alti per evitare l’ingresso dei migranti in Europa, gli altri stati membri vengono richiamati sull’unico punto in cui l’Unione poteva effettivamente fare la differenza in merito all’accoglienza, ossia le ricollocazioni. Un aspetto che è stato a lungo discusso nelle diverse sedi istituzionali, senza però tradursi in una soluzione concreta. A dirlo sono i numeri: dei 160mila migranti che i paesi europei avrebbero dovuto accogliere da Italia e Grecia, all’8 febbraio 2016 risultano partite solo 279 persone da Roma e 218 da Atene.

Sollecitando l’applicazione di processi di “responsabilità e solidarietà” tra paesi membri, la Commissione ha comunque definito ancora una volta la posizione dell’Europa rispetto ai migranti: “Deve essere chiaro alle persone che arrivano nell’Unione – si legge nel dossier -che se necessitano di protezione la riceveranno, ma non potranno decidere dove. E se non sono qualificate per riceverla, saranno rimpatriate”.

Il tema dell’accoglienza non è praticamente nominato: e questo nonostante ilcatastrofico panorama internazionale non accenni alcun miglioramento. Solo considerando il conflitto siriano in corso da cinque anni, sarebbero 470.000 i civili morti a causa della guerra e delle sue conseguenze, come la mancanza di cure mediche, cibo e acqua; l’11,5% della popolazione siriana è rimasto ucciso o ferito dall’inizio, nel marzo 2011, della guerra; l’aspettativa di vita è calata dai 70 anni del 2010 ai 55 del 2015 (dati diffusi dal Centro siriano per la ricerca politica -Scpr). Per quanto riguarda i viaggi verso l’Europa, le stragi non sembrano diminuire: lunedì scorso ventisette persone – tre le quali undici bambini – hanno perso la vita nel naufragio dell’imbarcazione su cui viaggiavano, provando a raggiungere l’isola greca di Lesbo dalle coste turche. Un altro naufragio al largo della Turchia ha provocato la morte di altre undici persone.

Le fredde righe partorite dalla tecnocrazia europea nascondono una responsabilità politica precisa dei Governi europei: quella di imprigionare donne uomini e bambini sotto le bombe di paesi come la Siria o di affidare i loro destini alla variabilità delle condizioni meteorologiche. Muri, hot-spot, identificazioni forzate sono nient’altro che strumenti di morte che l’Europa chiede di usare proprio ai paesi membri più esposti all’attuale pressione migratoria.

Un vero e proprio ricatto, considerando i pesanti problemi economici che potrebbero derivare dall’abbandono di Schengen.

«La Repubblica, 15 febbraio 2016 (m.p.r.)

Mentre i ministri delle Finanze dell’Unione si riunivano venerdì scorso a Bruxelles nelle stanze del Justus Lipsius, decretando con una firma la messa in mora sui profughi della povera Grecia, e dando praticamente il via al restringimento dell’Europa di Schengen, dall’altra parte del mondo - nell’ufficio lussuossimo di un grattacielo di Dubai, in un ranch blindatissimo del Nord Est messicano - il contabile di turno avrà stancamente cliccato sul tasto “send” di un personal computer, di un laptop, forse anche di un semplice smartphone: e per l’ennesima volta la marea di denaro più o meno sporco avrà investito, senza incontrare resistenza, le coste del continente.
Ma sì, diciamolo subito. Davvero in Europa c’è ancora qualcuno che pensa di fermare le stragi dei migranti e l’orrore della jihad alzando l’ennesimo muro? Davvero c’è chi pensa di fermare gli esseri umani decretando la morte di Schengen? No, pretendere di proteggersi innalzando di nuovo i confini è un errore. Un madornale errore. Innanzitutto perché è dimostrato che le strutture militari, terroristiche non hanno bisogno di utilizzare canali clandestini. Riescono a strutturarsi e a essere operative in ogni Paese indipendentemente dai flussi migratori attuali. È ormai accertato che ad agire in queste strutture - l’abbiamo purtroppo visto nel caso del Bataclan e di Charlie Hebdo - sono uomini e donne di seconda generazione. E se in alcuni casi, è vero, ci siamo trovati di fronte a persone che avevano chiesto l’asilo politico e si sono poi trasformate in miliziani, si è trattato di una “evoluzione” indipendente dalla struttura madre.
È questa la premessa fondamentale per capire che fermare Schengen significherebbe soltanto distruggere l’integrazione europea. E non semplicemente nella declinazione dei diritti ma nella stessa formazione della struttura sociale. Fermare Schengen vorrebbe dire uccidere il grande progetto iniziale; cioè la costruzione degli “ stati uniti d’Europa”. Fermare Schengen sarebbe la vittoria di una visione che credevamo ormai superata: quella secondo la quale ci si possa difendere costruendo castelli e barriere. Noi italiani lo sappiamo bene. Non lo diceva già il Principe di Machiavelli? Costruire nuovi castelli genera solo nuovi assedi.
Non basta. Il paradosso è ancora più grave. Perché questa è la politica che pretende di fermare i corpi ma non i flussi illegali e finanziari ormai senza più alcun controllo. Che cosa ha reso possibile la creazione di un vero e proprio potere terroristico in Belgio? I finanziamenti che da Dubai, dall’Arabia Saudita, dal Medio Oriente più in generale sono arrivati attraverso i vari canali finanziari più scoperti.
La Francia ha il Lussemburgo. La Germania ha il Liechtenstein. La Spagna ha Andorra. L’Italia ha San Marino. Tutto il mondo ha la Svizzera. Stiamo parlando di isole finanziarie che non solo attraggono - nella migliori delle ipotesi - evasori fiscali. Stiamo parlando di centri che attraggono nel cuore d’Europa strategie criminali e finanziarie: basti pensare alla vicenda recente del Chapo, il re dei trafficanti di droga che faceva riciclare in Svizzera montagne di narcodollari che poi finivano in una banca di Vaduz, nel Liechtenstein.
E allora smettiamola di credere a chi vuole convincerci che l’Europa paga il prezzo che paga - le immigrazioni senza controllo, il terrore senza limiti - perché è troppo esposta. Non è vero: l’Europa paga un prezzo altissimo per la sua incapacità di gestire i flussi finanziari e il riciclaggio. La riflessione da fare è tutta qua: il problema sono i capitali, non gli esseri umani. Sono i capitali che circolano senza controllo a compromettere la sicurezza dell’economia pulita e la tenuta sociale. È il risiko della finanza a rendere sempre meno sicura l’Europa. Riusciranno mai a capirlo lì nelle stanze del Justus Lipsius?

«». Il manifesto


È venuto il momento che il manifesto, dopo avere indagato anch’esso sulla tragica morte di Giulio Regeni e di fronte a tante, troppe illazioni, per rispetto di Giulio e della sua famiglia e per rispetto anche dei nostri lettori provi a chiarire equivoci, sbagli, ma anche a confermare convinzioni profonde su questo atroce delitto che non esitiamo a definire di Stato. Perché intorno alle circostanze della morte dolorosa di Giulio Regeni, mentre emergono notizie e verità sconcertanti sulla sua uccisione, rischiano di piovere prese di posizione in aperta contraddizione.
Qualcuno ci accusa di non aver pubblicato subito l’articolo inviatoci co-firmato con uno pseudonimo; altri di essere stati «sciacalli» per averlo pubblicato dopo; qualcun altro di non avere chiarito se era o no un collaboratore; infine di non pagare i collaboratori.

1) Per prima cosa vogliamo subito dire che, dopo attenta valutazione, abbiamo finalmente accertato che Giulio Regeni aveva proposto al un solo articolo insieme a un altro collaboratore e con lo pseudonimo. Abbiamo equivocato che fossero suoi anche due contributi precedenti perché di eguale contenuto (i sindacati) e con pseudonimo. Cosa che sottolineava ai nostri occhi la cautela se non proprio la preoccupazione di Giulio Regeni. Di questo equivoco ci scusiamo sia con i lettori che con la famiglia e con l’avvocata Alessandra Ballerini.

2) L’articolo al quale Regeni aveva collaborato era in attesa di pubblicazione, non era stato ancora pubblicato perché accade così nelle redazioni. Un contributo sul sindacato egiziano andava contestualizzato, soprattutto in vista dell’anniversario del 25 gennaio di Piazza Tahrir. Non riuscivamo a metterlo nel modo adeguato e allora Giulio e l’altro collaboratore lo proposero a Nena News dove è stato pubblicato.
Ma, ecco il punto, l’atteggiamento di Giulio che insieme a un altro collaboratore aveva proposto l’articolo non è di chi si mostra irritato per la non pubblicazione, ma positivo, anzi ancora motivato e propositivo. Ci scrivono infatti il 12 gennaio: «Un po’ a malincuore abbiamo deciso di proporre il pezzo ad altre testate online altrimenti invecchierebbe troppo. Restiamo comunque molto volentieri a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto. Per noi è un piacere poter pubblicare sul . Grazie della vostra disponibilità, a presto».

3) Da questo punto di vista, chiariamo la questione del «collaboratore». Giulio Regeni era entrato in contatto con il manifesto, non era un collaboratore come tradizionalmente s’intende. Diverso è il caso di sfruttare il lavoro gratuito, come recita una delle accuse circolate in Rete. Su questo il manifesto può ricordare le tante pagine dedicate all’analisi di come il lavoro gratuito è usato contro gli altri lavoratori (ad esempio qui).
Ma ci sono tanti freelance che scrivono per il manifesto. Per noi sono compagni di viaggio. Li paghiamo poco e spesso in ritardo. Ma li paghiamo. Collaborare con noi vuol dire sensibilità comune sui contenuti, approfondimento di temi condivisi, e poi anche un articolo.
Non a caso Giulio Regeni era entrato in rapporti con noi — a questo teniamo in modo particolare -, visto il nostro lavoro d’indagine e denuncia sulle crisi del Medio Oriente e in particolare sull’Egitto.
Si dimentica infatti con grande facilità che siamo stati quasi l’unico giornale a denunciare da subito i crimini del golpe militare dell’estate 2013 del generale Al-Sisi raccontando quel massacro e tutte le malefatte sanguinose che ne sono seguite, da allora fino ad oggi. E la solitudine era terribile l’anno seguente quando denunciammo il presidente del consiglio Matteo Renzi che per primo sdoganava con una visita al Cairo il golpista proclamando che era «l’uomo nuovo emergente in Medio Oriente» e poi ricevendolo e incontrandolo anche a Roma.

4) Perché nelle ore difficili e concitate il giorno dopo l’annuncio del ritrovamento del suo corpo martoriato abbiamo allora deciso di pubblicare l’articolo che Giulio Regeni ci aveva proposto e che non eravamo riusciti a pubblicare?
Dovrebbe essere evidente, l’abbiamo già scritto ma vale la pena ripetere: esattamente perché la tragedia che si era appalesata diceva che quel testo non rappresentava più un semplice buon articolo ma era diventato un documento fondamentale, «il» documento, per capire perché davvero fosse stato sequestrato, torturato e ucciso così barbaramente.
Non ne avevamo diritto? No, avevamo il di farlo.
Abbiamo rifiutato di stare zitti, un giornale non può farlo, tantomeno poteva farlo il manifesto. Solo a dieci giorni dalla scomparsa di Giulio Regeni e a due dalla sua morte comprovata, abbiamo deciso di pubblicare l’articolo-documento.
È elemento di verità inoltre ricordare che i timori e i guai che hanno riguardato l’ambiente degli amici di Giulio sono cominciati non con la pubblicazione dell’articolo, ma per l’assassinio di Giulio Regeni.

5) Un’ultima doverosa considerazione. Crediamo di non avere sbagliato a pubblicarlo perché così facendo difendevamo le ragioni di Giulio Regeni. E poi, se non avessimo deciso di pubblicarlo non saremmo forse ancora alle prese con una verità comodissima, quella del crimine malavitoso o a sfondo sessuale? E’ così evidente che le autorità del regime egiziano continuano a far finta di nulla, a trincerarsi dietro «le indagini» e intanto probabilmente preparano proprio quella verità di comodo che il nostro governo a parole dichiara di volere evitare.
Abbiamo pubblicato l’articolo di Giulio (tacendo naturalmente il nome dell’altro collaboratore) perché fossero chiari i motivi politici che avevano indotto a ucciderlo e confutare così il tentativo di attribuire la sua morte a un volgare crimine malavitoso o a sfondo sessuale, tutte piste vergognose su cui le autorità insistono, dando spazio all’oggettività di una indagine che ha invece profondi contenuti politici.
Una testimonianza che conalida le molte verità che sono già emerse, quelle che non emergeranno mai e i vizi di quella del «potere pseudo-democratico» di cui inostri governanti "democratici" sono complici.

La Repubblica, 15 febbraio 2016

Di certo c’è solo che è morto. Quel che il giornalista Tommaso Besozzi scrisse a proposito della fine del bandito Giuliano, sbugiardando la versione ufficiale, si può scrivere oggi per Giulio Regeni. Possiamo purtroppo aggiungere altre due certezze. La seconda è che le responsabilità vanno cercate negli stessi apparati di polizia che indagano o fingono di indagare o sviano le indagini sull’accaduto. La terza è che questa verità, pur sotto gli occhi, non sarà mai su carta, nero su bianco, conclamata e capace di conseguenze agli opportuni livelli, dai garage dove avvengono le torture alle terrazze da cui si vede il Nilo. Fa male quanto le altre considerazioni ammettere che in questi casi si diffonde una sorta di fatalismo di Stato, una ragion deviante che accompagna le traiettorie di un’inchiesta, curva dopo curva, verso il vicolo cieco, un muro di mattoni su cui sta scritto a spray: dimenticare conviene. È già accaduto altre volte, accadrà ancora, anche questo sappiamo.

Lo schema è sempre lo stesso. Esiste un potere che si fonda su procedure pseudo-democratiche e per questo si guadagna il riconoscimento da parte della comunità internazionale, dopo che i rapporti degli ispettori Ocse sulle tornate elettorali sono stati cestinati. Il fondamento di questo rispetto non si basa su una affinità di valori e intenti, ma su una varietà di opportunismi economici e politici. Sono spesso in ballo accordi finanziari di grande rilievo. E disturbare il manovratore mettendone in dubbio la legittimità o la legalità significherebbe riaprire le porte al caos, alla sua sostituzione con figure più pericolose per il controllo della situazione in aree a rischio. La si definisce strategia del male minore. Ora, andate a spiegare quanto minore sia questo male alla vedova di Alexander Litvinenko e fatele accettare l’idea che non esistono prove in grado di collegare l’avvelenamento al polonio di suo marito allo zar russo che l’aveva preso di mira. Andate dai genitori di Giulio Regeni a spiegare quanto minore sia il male di rimettere a un faraone e alla sua corte il peccato di aver massacrato il loro figlio.

È sempre lo stesso schema: l’abbiamo già visto e lo vedremo ancora. Quel potere pseudo-democratico, con cui però si viene a patti, nazionalizza le televisioni, sottomette i giornali e controlla i corrispondenti stranieri. Che in Egitto funzioni così l’ho sperimentato di persona lavorandoci per un anno ai “dorati” tempi di Mubarak. I colleghi locali mi spiegarono le regole di sopravvivenza. Per superficialità ne violai una: «Mai scrivere Mubarak, la censura è un computer, inserisce la funzione cerca parola, tu non usare il nome e sei a posto». Lo feci e immediatamente ne pagai le conseguenze.
Definisco “dorati” quei tempi perché invece di farmi sparire mi diedero 24 ore per lasciare il Paese. Poi l’intervento di un diplomatico e della direzione di questo giornale mi valse una proroga di sei mesi. Fui convocato dall’addetto alla stampa straniera in un ufficio vuoto, il genere più temibile. Sulla scrivania, una sola carpetta. Conteneva i fax dall’Italia con tutti i miei articoli dall’Egitto tradotti in arabo. Ogni “spiacevolezza” era stata sottolineata. Teatralmente il funzionario le rilesse una dopo l’altra stracciando le pagine. Lasciò intatta solo quella su Mubarak e la rimise nella carpetta. Aggiunse: «La prossima volta non ci rivedremo». Giulio Regeni non ha avuto una seconda occasione. Chiunque creda che quel che scriveva non fosse letto da occhi attenti o che lo pseudonimo valesse a proteggerlo, sogna e non si è ancora svegliato.
Ci sono molte buone ragioni per cui cedere al fatalismo e ammettere che, sì: dimenticare conviene. Ce n’è una per non farlo: noi siamo vivi e Giulio è morto. Glielo dobbiamo perché siamo ancora qui, con gli occhi che vedono, la testa che ragiona e il cuore che batte. Siamo qui a fare 2+2, mica ci vuole un algoritmo per certe conclusioni. Siamo qui, ognuno con i suoi mezzi: chi un cartello con cui protestare, chi un computer acceso, chi una scrivania vuota con sopra il telefono collegato ai numeri giusti. Rassegnarsi all’ineluttabilità della menzogna è diventarne complici morali. In un mondo libero chi si piega per convenienza è morto molto, ma molto prima di Giulio Regeni.

Chissà quando si aprirà l'armadio nel quale (supponiamo a Bruxelles) sono conservati gli atti della vergogna di questo secolo, la strage dei migranti?

Ilsole24ore.com, 15 febbraio 2015

L’Armadio della vergogna sarà desecretato da domani. Si tratta dei documenti rivenuti nel 1994 fra cui si trovano 695 fascicoli d'inchiesta e un registro generale con 2.274 notizie di reato relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazifascista. I documenti saranno desecretati secondo la “direttiva Renzi” e sono destinati ad apparire sul canale dell'archivio storico della Camera.

Da domani consultabile l’elenco
Da domani, dunque, sul sito internet dell'Archivio storico della Camera dei deputati, all'indirizzo http://archivio.camera.it/, sarà possibile consultare l'elenco e richiedere copia dei documenti declassificati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti che nella XIV legislatura si è occupata della vicenda del cosiddetto «armadio della vergogna». Istituita con la legge 107/2003, la Commissione aveva il compito di indagare sulle anomale archiviazioni provvisorie e sull'occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, contenenti denunce di crimini nazifascisti, commessi nel corso della seconda guerra mondiale e riguardanti circa 15mila vittime.

Boldrini: un nuovo capitolo del percorso di trasparenza di Montecitorio

«Sono contenta che il percorso di trasparenza di Montecitorio si arricchisca di un nuovo e importante capitolo - ha commentato la presidente Laura Boldrini - perché un Paese veramente democratico non può avere paura del proprio passato». A seguito di specifiche sollecitazioni della presidenza della Camera alle varie autorità che le avevano redatte originariamente, sono state declassificate e rese ora consultabili. Si tratta di documenti che la Commissione d'inchiesta ha acquisito dagli archivi del ministero degli Affari esteri, del ministero della Difesa, dell'allora Servizio informazioni e sicurezza militare (Sismi), del Consiglio della magistratura militare e del Tribunale di Roma. La disponibilità di questi documenti completa e integra i testi dei resoconti delle sedute della Commissione che erano già stati pubblicati in rete in corso di svolgimento, fra l'8 ottobre 2003 e il 16 febbraio 2006, e che sono tuttora consultabili nel testo integrale all'indirizzo http://legxiv.camera.it/_bicamerali/nochiosco.asp?pagina=/_bicamer ali/leg14/crimini/home.htm

Due articoli sull'inquietate vicenda dei droni killer impiegati dagli Usa per la guerra di Libia: la guerra non dichiarata divampa, e il PIL cresce

11 febbraio 2016
ASIGONELLA IL CENTRO SATELLITARE
PER TELEGUIDARE I DRONI KILLER USA

di Antonio Mazzeo

La base siciliana di Sigonella si prepara ad ospitare uno dei principali centri al mondo per il comando, il controllo satellitare e la manutenzione di tutti i droni delle forze armate statunitensi. Il 14 novembre 2015 il Naval Facilities Engineering Command Office per l’Europa e l’Asia sud-occidentale della Marina militare Usa con sede a Napoli ha pubblicato il bando di gara per la realizzazione nella stazione aeronavale n. 2 di Sigonella (NAS 2) dell’UAS SATCOM Relay Pads and Facility, un sito fornito di tutte le attrezzature necessarie a supportare le telecomunicazioni via satellite del Sistema degli aerei senza pilota (Unmanned Aircraft System - UAS) e assicurare “lo spazio per la gestione delle operazioni e delle attività di manutenzione” dei droni in dotazione all’US Air Force e all’US Navy. Il bando, classificato con il codice n. 3319116r1007, prevede la demolizione e la rimozione delle vecchie infrastrutture ospitate nell’area e la realizzazione del nuovo centro per il controllo satellitare dei velivoli senza pilota con relative strade d’accesso per un importo compreso tra i 10 e i 25 milioni di dollari. La società contractor dovrà consegnare i lavori entro 550 giorni dalla stipula dell’accordo con il Dipartimento della marina statunitense.

Il progetto per realizzare in Sicilia l’UAS SATCOM Relay Pads and Facility era stato presentato la prima volta al Congresso nell’aprile del 2011, ma l’approvazione è giunta solo in occasione della predisposizione del bilancio per le costruzioni militari per l’anno fiscale 2016. “Nel nuovo centro saranno installati dodici ripetitori UAS SATCCOM con antenne, macchinari e generatori di potenza con la possibilità di aggiungere altri otto ripetitori della stessa tipologia”, è riportato nella scheda progettuale fornita dal Dipartimento della difesa. “Il progetto prevede inoltre tutti i sistemi infrastrutturali, meccanici, elettrici, stradali, di prevenzione incendi ed allarme per supportare il sito per le comunicazioni satellitari”.

“Il Sistema degli aerei senza pilota richiede un’ampia facility che assicuri la massime efficienza operativa durante le missioni di attacco armato e di riconoscimento a supporto dei war-fighters”, aggiunge il Pentagono. “La costruzione di una SATCOM Antenna Relay facility è necessaria per supportare i link di comando dei velivoli controllati a distanza, in modo da collegare le stazioni terrestre presenti negli Stati Uniti con gli aerei senza pilota operativi nella regione dell’Oceano atlantico. Con il completamento di questo progetto saranno soddisfatte le richieste a lungo termine di ripetitori SATCOM per i “Predator” (MQ-1), i “Reaper” (MQ-9) e i “Global Hawk” (RQ-4). Il nuovo sito supporterà inoltre il sistema si sorveglianza aeronavale con velivoli senza pilota UAV Broad Area Maritime Surveillance (BAMS) di US Navy e le missioni speciali del Big Safari di US Air Force”. Il programma BAMS vede l’acquisizione di una quarantina di droni di ultima generazione “Global Hawk” da schierare nelle stazioni aeronavali di Jacksonville (Florida), Kadena (Giappone), Diego Garcia, Hawaii e Sigonella; il Big Safari è invece un articolato programma di acquisizione, gestione, potenziamento di speciali sistemi d’arma avanzati (velivoli senza pilota, grandi aerei da trasporto e per le operazioni d’intelligence e riconoscimento, ecc.) coordinato dal 645th Aeronautical Systems Group dell’US Air Force con sede nella base di Wright-Patterson (Ohio).

I droni-spia e i droni-killer che opereranno sotto il controllo del nuovo centro di Sigonella saranno utilizzati per le missioni pianificate dai comandi strategici di Eucom, Africom e Centcom, in modo da fornire in tempo reale le “informazioni più aggiornate ai reparti combattenti”. “Il sito di Sigonella garantirà la metà delle trasmissioni del Sistema dei velivoli senza pilota UAS e opererà in appoggio al sito di Ramstein (Germania)”, aggiunge il Pentagono. “Senza l’UAS SATCOM Relay Site gli aerei senza pilota non saranno in grado di effettuare le loro missioni essenziali, non potranno essere sostenuti gli attacchi armati e si verificherà una riduzione significativa delle capacità operative odierne e un impatto negativo grave per le future missioni d’oltremare”.

La stazione per il controllo satellitare dei droni di Ramstein è stata completata nel secondo semestre del 2013 all’interno della foresta che sorge nei pressi del grande impianto di baseball utilizzato dal personale militare Usa di stanza nella grande installazione tedesca. Secondo quanto riportato in una lunga inchiesta pubblicata nell’aprile 2015 da The Intercept, il giornale fondato da Glenn Greenwald, l’UAS Satcom Relay di Ramstein è il vero “cuore hi-teach della guerra Usa dei droni”. “Ramstein fa viaggiare sia il segnale satellitare che dice al drone cosa fare sia quello che trasporta le immagini che il drone vede”, aggiunge The Intercept. “Questi dati viaggiano attraverso i cavi sottomarini a fibra ottica, ma è grazie al sistema UAS Satcom che il segnale riesce a viaggiare senza ritardi in modo da permettere ai piloti di manovrare un velivolo a migliaia di chilometri con la necessaria tempestività”. Dalla stazione di Ramstein i segnali sono trasmessi ai satelliti militari operanti nello spazio in banda Ku e alla grande base aerea di Creech (Nevada), la principale centrale di US Air Force per le operazioni planetarie dei droni. Il nuovo UAS Satcom Relay di Sigonella opererà come stazione “gemella” dell’infrastruttura ospitata in Germania, assicurando l’“indispensabile” backup alle operazioni d’intelligence e di telecomunicazione satellitare di Ramstein.

A Sigonella sarà realizzata pure un’ampia area per la sosta dei velivoli senza pilota USA. “Il costo delle infrastrutture di supporto è superiore del 25% di quanto calcolato preventivamente perché la facility deve essere realizzata in un’area sottosviluppata e delicata dal punto di vista ecologico”, spiega il Pentagono. “La SATCOM Communications Support Facility avrà un’estensione di 1.200 metri quadri e non potrà contare sull’apporto finanziario della NATO”. Quando la nuova stazione entrerà in funzione, verranno trasferiti a Sigonella 55 militari e 58 dipendenti civili dell’US Air Force.

La base aereonavale siciliana ospita stabilmente dal 2009 alcuni droni-spia “Global Hawk” della Marina Usa e dal 2013 pure uno stormo di droni-killer MQ-1 “Predator” dell’US Air Force, utilizzati per le incursioni in Libia, Somalia, Regione dei Grandi Laghi, Mali e Niger. A partire dal prossimo anno, Sigonella farà pure da centro di comando e controllo dell’AGS - Alliance Ground Surveillance, il nuovo programma di sorveglianza terrestredella NATO che verterà su una componente aerea basata su cinque velivoli a controllo remoto “Global Hawk” versione Block 40, che saranno installati anch’essi in Sicilia.

13 febbraio 2016
I GRANDI AFFARI DEI PROGETTISTI DEL CENTRO DRONI USA ASIGONELLA

«L’economista ed ex ministro delle finanze greco parla del Movimento per la democrazia in Europa lanciato a Berlino. "La tempesta perfetta del 2015 allarma anche chi non aveva posizioni critiche sull’Unione. C’è spazio per nuove coalizioni"». Il manifesto,

Incontriamo Yanis Varoufakis il giorno dopo il lancio del Movimento per la democrazia in Europa (DiEM 25) alla Volksbühne di Berlino, chiedendogli, per iniziare, un’illustrazione del progetto.

«Nel 2015 abbiamo avuto in Europa una sorta di tempesta perfetta, per il sommarsi di molteplici fattori di crisi: lo scontro tra il governo greco e la troika, i rifugiati, l’assenza di una politica estera europea su quanto accade in Nord Africa e in Siria, in Ucraina. Queste crisi hanno due conseguenze essenziali: accelerano una tendenza alla disintegrazione dell’Unione Europea, ma mettono in allarme anche quanti, in questi anni, non hanno avuto posizioni critiche sull’Europa: molti democratici liberali, moderati, affezionati alla democrazia, difficilmente possono sentirsi a loro agio in questa Unione, dopo quanto è avvenuto nel 2015. Questo disagio lascia spazio a nuove coalizioni, tra democratici liberali, socialdemocratici, radicali di sinistra, verdi, attivisti come quelli della rete Blockupy. È una possibilità che non durerà a lungo. Se non la cogliamo, se non costruiamo un movimento “pan-europeo” capace di interrompere la tendenza alla disintegrazione dell’Europa, al riemergere dei nazionalismi, mancheremmo un compito decisivo».

Il progetto e il manifesto di DiEM pongono al centro la questione della democrazia. Ma come intendono superare quella crisi della democrazia rappresentativa così evidente non solo a livello europeo ma anche nei singoli Stati membri? A noi sembra che vi siano ragioni strutturali che spingono verso l’emergere di processi di governo “post-democratici”. E che dunque il riferimento alla democrazia debba essere qualificato in maniera radicalmente innovativa.

«Credo che si debbano distinguere due aspetti. C’è una crisi generale della democrazia, nell’epoca del capitalismo finanziarizzato. Il capitale finanziario è nemico della democrazia ovunque nel mondo, negli Usa come in Europa. Ma c’è una specificità tossica per quanto riguarda l’Europa: non abbiamo una federazione con specifiche istituzioni democratiche, la stessa Banca Centrale Europea ha uno statuto non paragonabile ad esempio a quello della Federal Reserve. Non abbiamo neppure i checks and balances di base che caratterizzano le democrazie. La stessa crisi della democrazia negli Stati nazionali è qui connessa con il modo in cui funziona l’Ue: quest’ultima prende tutte le decisioni che contano per un Paese come l’Italia, ad esempio, e il demos non ha la possibilità di intervenire. I suoi rappresentanti nazionali non hanno alcun potere di realizzare le loro promesse, come abbiamo visto in Grecia».
Ci sembra tuttavia che in questo modo non venga aggirata la difficoltà di riproporre sul livello europeo soluzioni istituzionali centrate attorno alla rappresentanza, nel momento in cui questa si trova di fronte a fattori di crisi che hai definito «universali».

«Non sono un federalista nel senso conservatore del termine, non penso che la soluzione consista semplicemente nel fatto che i governi si riuniscano e decidano qualche tipo di federazione. Penso ad esempio alle proposte di Schäuble: non determinerebbero democrazia ma autocrazia, condurrebbero a una sorta di dispotismo fiscale. L’unione politica non è necessariamente democratica. Il punto fondamentale è questo: noi non pensiamo che la democratizzazione possa venire dall’alto! Può solo venire dal basso, e questa convinzione è ciò che fa di DiEM un movimento, e non un think tank o un partito federalista europeo. Il primo passaggio per noi è la trasparenza dei processi decisionali: siamo fortemente convinti che questo punto possa cambiare le regole del gioco. La seconda priorità, per discutere sulla democratizzazione dell’Ue, è rimuovere i fattori che ne stanno determinando la disintegrazione. Penso a interventi radicali sul debito, sul sistema bancario, sul basso tasso di investimenti, sulla povertà e sulle migrazioni. Si può farlo reinterpretando le regole esistenti, non semplicemente invocando “flessibilità” come fa Renzi, e cioè la gentile concessione di non seguire le regole. Dobbiamo riorganizzare le istituzioni esistenti, cambiare la politica della Bce, della Banca Europea per gli Investimenti. È possibile lavorare all’interno delle regole, ma reinterpretandole radicalmente: Schäuble lo fa di continuo, a modo suo».
La disintegrazione dell’Europa ha tra l’altro aspetti che si possono definire in termini geografici. Alla divisione tra Nord e Sud si aggiunge ora, in maniera molto aspra quella tra Est e Ovest, che non riguarda solo la questione dei rifugiati ma l’idea stessa del rapporto tra governanti e governati. In queste condizioni come può svilupparsi un’iniziativa “pan-europea”?

«La frattura tra Est e Ovest attraversa ogni ambito, dal tema dei migranti a quello dell’organizzazione della zona euro e della politica estera. Molti Paesi dell’Est reclamano una politica aggressiva, militaristica contro la Russia, pretendono la nostra solidarietà su questo terreno senza offrirne alcuna su questioni come la ristrutturazione del debito pubblico. Come possiamo costruire ponti tra Est e Ovest? L’unico modo è attraverso movimenti capaci di coinvolgere i democratici, i progressisti di quei Paesi, offrendo loro un’opportunità. Immaginate di essere giovani dissidenti ungheresi, non avete un’iniziativa, un soggetto a cui aderire. Il partito europeo della sinistra non accetta iscrizioni dirette, è una confederazione di partiti nazionali, e i suoi rappresentanti in Paesi come l’Ungheria o la Repubblica Ceca sono screditati. Se il DiEM riesce ad affermarsi come punto di riferimento credibile e attraente per i democratici nell’Europa dell’Est, può costruire dei ponti».

La questione del rapporto con la Russia ci sembra cruciale e gravida di pericoli. Alle sue spalle c’è la questione del rapporto tra l’Unione europea e gli Stati uniti e in particolare il ruolo della Nato. Che cosa ne pensi?
«Ho lavorato a lungo negli Stati Uniti, e ho avuto colleghi collaboratori della Nato. Molti di loro sono convinti che la Nato abbia esaurito la sua funzione. Il problema è che la Nato è alla costante ricerca di ragioni che ne legittimino l’esistenza. Deve inventare continuamente nuovi nemici. È quel che vogliamo in Europa? Non credo. Prendiamo Putin. Lo considero un criminale di guerra, non per l’Ucraina ma per quel che ha fatto in Cecenia. Il più grande regalo alla carriera politica di Putin è stata l’espansione della Nato a est. Può dire al suo popolo che l’autoritarismo in Russia è giustificato dall’incombere di un nemico. Oggi la Nato offre un senso di sicurezza fittizio a Paesi come l’Estonia, la Georgia, l’Ucraina. In realtà la sua espansione a est comporta militarizzazione e continue occasioni di conflitto con la Russia. Una Ue consapevole dei suoi interessi dovrebbe semplicemente non partecipare a questo gioco.

L’obiettivo di lungo termine del DiEM è la convocazione di un’assemblea costituente in Europa. Quali sono le condizioni per compiere questo passo che, nella storia, ha sempre seguito grandi rotture e sommovimenti sociali?

«La mia compagna, un’artista, una volta mi ha detto: perché sugli aerei c’è una scatola nera che ci potrà dire dopo la catastrofe per quali ragioni siamo morti? Non sarebbe meglio averne una da aprire prima dell’incidente, in modo che questo non avvenga? Mi sembra un’ottima domanda: perché dovremmo aspettare il disastro per organizzare un’assemblea costituente e non farlo invece perché non avvenga? Le condizioni oggettive per un’assemblea costituente sono date in Europa per la frammentazione di fronte a cui ci troviamo. Abbiamo bisogno di un insieme di movimenti che impongano alle istituzioni europee un’agenda di stabilizzazione nel senso che cercavo di spiegare prima. Solo su questa base si può creare un sistema elettorale inclusivo e realmente europeo per l’elezione dell’assemblea. I tedeschi, ad esempio, devono avere la possibilità di votare candidati italiani o francesi (e viceversa). Una buona fonte di ispirazione possono essere i progetti di ricerca finanziati dalla Commissione nelle università: se vuoi fare domanda per un finanziamento devi creare un consorzio tra Università di almeno sette Paesi. Perché non immaginare che per candidarsi alla costituente sia necessario formare liste con candidati di dieci o quindici Paesi?»

Hai parlato in questi giorni dell’austerità come una forma di “guerra di classe” dall’alto. Ma quali forze oggi possono essere messe in campo dal basso non solo per difendersi dall’attacco ma per esercitare un reale potere costituente?

«Molti compagni e amici mi hanno rimproverato un riferimento troppo generico alla democrazia. Ma pensate alla definizione che ne ha dato Aristotele, il quale non era certo un democratico: il governo dei liberi e dei poveri. È una buona definizione: i poveri, i subalterni, gli sfruttati sono la maggioranza. E dunque una democrazia reale non può che essere dominata dai movimenti dei poveri. Le democrazia liberali, che hanno le loro radici nella tradizione della Magna Charta, sono state certo un’altra cosa. La Magna Charta è una carta dei baroni, dei proprietari terrieri contro il Re, che garantiva loro di avere i propri servi e di non vederseli portare via dal sovrano. La democrazia liberale ha questo pedigree. Questa democrazia è arrivata ai suoi limiti con il capitalismo finanziarizzato. Un movimento democratico oggi è per definizione un movimento che punta a mettere fine alla guerra di classe dall’altro organizzando un contrattacco dal basso».

Questo pone il problema, per noi fondamentale, di pensare una nuova articolazione tra movimento democratico e lotta di classe. Come pensi concretamente una simile articolazione?

«Se è la stabilizzazione il problema basilare in Europa, questa non è possibile senza la crescita tumultuosa di un movimento democratico. I poteri esistenti non ne sono in grado. Immaginate un movimento che imponga alla Banca centrale di cominciare ad acquistare il debito della Banca Europea per gli Investimenti anziché quello tedesco o italiano, per finanziare un ambizioso Green New Deal per l’Europa. Invece di stampare moneta per i circuiti del capitale finanziario, la creazione di moneta andrebbe a finanziare la cooperazione produttiva, a creare posti di lavoro in settori innovativi, ponendo al tempo stesso condizioni favorevoli per l’organizzazione e la lotta dei lavoratori e contrastando la mercificazione e la precarizzazione del lavoro».

DiEM ha l’ambizione di costituire una forza transnazionale di tipo nuovo, collegando attivisti, politici, intellettuali, artisti, sindacalisti su un terreno immediatamente “pan-europeo”. Non è una scommessa facile e sono pochi i modelli a cui ispirarsi. Qual è il processo innovativo che hai in mente?

«La disintegrazione dell’Ue è qualcosa di inedito, contraddice una storia fondata sul progressivo avanzamento dell’integrazione. Per questo c’è bisogno di uno strumento nuovo. I partiti di sinistra europei hanno la loro base negli Stati nazionali, e il Gue ne costituisce una sorta di confederazione, che non mette in discussione il fondamento nazionale. È una delle ragioni della loro impotenza. Non è una questione di cattiva volontà: sono costretti ad articolare programmi di governo che non potranno mai essere attuati. Se questa diagnosi è corretta una piattaforma comune per i democratici in Europa deve essere costruita attraverso un’azione politica che non abbia la propria base negli Stati nazionali. E non può essere un partito, per definizione gerarchico. I militanti dei partiti di sinistra possono aderire a DiEM e continuare a militare nel loro partito nazionale. Ma in DiEM affrontiamo i nostri problemi comuni indipendentemente dalla affiliazione partitica o dalle convinzioni filosofiche di ciascuno. La risposta alla vostra domanda non potrà che essere trovata gradualmente. È un work in progress. Come diceva Brian Eno alla Volksbühne martedì, se non hai una ricetta comincia a cucinare, la ricetta arriverà».

Quali saranno i prossimi passi di DiEM?

«Abbiamo già annunciato una petizione, indirizzata ai Presidenti dell’Eurogruppo, del Consiglio Europeo e della Bce, chiedendo che assicurino lo streaming delle loro riunioni (alla Bce chiediamo di fare quello che fa la Federal Reserve: rendere pubblici i verbali delle riunioni due settimane dopo che si sono tenute). Sarà anche un’occasione per cominciare a organizzare il movimento attorno a una campagna concreta. Stiamo cominciando a costituire gruppi di lavoro per costruire una piattaforma digitale che ci consenta di intervenire nel dibattito pubblico e di articolare il nostro lavoro. Abbiamo poi individuato cinque aree tematiche, di cruciale importanza per il futuro dell’Europa: il Green New Deal, la questione del debito e del sistema bancario, le migrazioni e i confini, la trasparenza e il tipo di Costituzione di cui l’Europa ha bisogno. Vogliamo arrivare nel giro di un anno ad avere cinque policy papers su questi temi. Cominceremo con il comporre un elenco di problemi e di domande per ciascuna di queste aree tematiche, per poi lanciare una grande campagna di consultazione in diverse sedi e in diversi Paesi. Da queste riunioni emergeranno proposte che verranno “filtrate” e “ricombinate” da gruppi di lavoro che sottoporranno il risultato a grandi assemblee tematiche. Queste assemblee voteranno un documento finale, che sarà poi sottoposto al giudizio di tutti i membri di DiEM. È un processo che può essere definito di democrazia in azione, da cui emergerà un vero Manifesto di DiEM, non una semplice dichiarazione di principi».

(La versione integrale dell’intervista è pubblicata nel sito www.euronomade.info)
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