«L’Ue non esiste più se non come entità burocratica. Lo spettacolo di questi due giorni di Consiglio europeo - il vertice dei capi di Stato e di governo - lo ha sancito con plastica evidenza: non è stata altro che un’assemblea di Stati nazione e pure litigiosi».
Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2016 (m.p.r.)
Che alla fine l’accordotra i leader dell’Ue eDavid Cameron - altermine di una trattativainfinita di cui non si conosconoi dettagli - serva davveroa trattenere Londra; che sifaccia finta o meno di avere unastrategia comune su migrantie profughi; che mentresi introducono discriminazionitra i cittadini europei si ostentinoo meno sorrisi a favoredi telecamera. Che questoavvenga o no una cosa è certa:l’Ue non esiste più se non comeentità burocratica. Lospettacolo di questi due giornidi Consiglio europeo - il verticedei capi di Stato e di governo- lo ha sancito con plasticaevidenza: non è stata altroche un’assemblea di Statinazione e pure litigiosi. Eccoun breve racconto per punti.
Brexit
Trattative infinite aBruxelles per dare qualchecartuccia a Cameron da giocarsisul fronte del Sì al referendumsulla permanenza diLondra nell’Ue (gli euroscetticisono avanti di 2 puntinell’ultimo sondaggio e tra lorosi schiera anche il ministrodella Giustizia di Cameron).L’accordo doveva essere sancitoieri mattina, ma l’annuncio è arrivato solo alle 10 di sera:«Il teatro è finito», ha twittatola presidente lituana DaliaGrybauskaite. Almeno alla fine- dopo il rinvio di colazione,pranzo e merenda - i leader europeisi sono sfamati nella cenacomune. Mentre andiamo instampa, non si conoscono iparticolari dell’accordo. I retroscenadell’ultim’ora sostengonoche Londra non avràun potere di veto sulle sceltedell’Eurozona (di cui non faparte), ma ha ottenuto il “frenodi emergenza”: una discriminazioneper i lavoratori europeiche si trasferiscono in GranBretagna, i quali - in sostanza -avranno assegni familiari piùleggeri rispetto ai colleghi enon avranno diritto alle casepopolari. E questo, pare, per 7anni: Bruxelles aveva proposto4 anni, Londra ha replicatochiedendone 13, l’accordo - dicono- è arrivato nel mezzo.
Austria
Come promesso, sen’è fregata del divieto di Bruxelles(“misure illegali”) e delleposizioni degli altri leadereuropei e ieri ha chiuso le frontiere(autorizzate 80 richiestedi asilo al giorno e 3.200 transitiverso altri Paesi): «L’annoscorso abbiamo preso 90 milapersone, quest’anno abbiamodeciso di accogliere 37.500 richiedentiasilo. Se in proporzionealla popolazione ognipaese facesse come noi - hadetto il cancelliere Werner Faymann- potremmo distribuire2 milioni di rifugiati». L’Italia,ovviamente, non gradisce:«Creare barriere al Brennero- dice il ministro Alfano -è una pura illusione: non si puòrisolvere il problema dei migrantiin un solo Paese».
L’Ungheria e gli altri
Il governodi Orban si è schieratocon Vienna e ha annunciatoche domani chiuderà i varchiferroviari con la Croazia. IPaesi della rotta dei Balcani(Slovenia, Croazia, Serbia eMacedonia) faranno altrettanto:hanno, peraltro, già firmatoun accordo con l’Austria.Esiste pure un piano B promossoda Polonia, RepubblicaCeca, Slovacchia e Ungheria:una barriera in Macedonia senon si riuscirà a sigillare lafrontiera turca (la CommissioneUe chiede a Erdogan di faredi più, ma Ankara non vuole rinunciarea un lucrativo poteredi ricatto sull’Europa).
Germania
Il ministrodell’Interno tedesco Thomasde Maizière, ieri al Bundestag,ha minacciato Austria, Ungheria,etc: «È inaccettabileche alcuni Paesi tentino di trasferirei problemi comuni unilateralmentesulle spalle deitedeschi. Questo, alla lunga,non sarebbe senza conseguenze».Affronteremo la questionedei migranti, ha spiegatopoi, negli accordi di Schengen«finché sarà possibile».
Grecia
Alexis Tsipras, a cui èstato ordinato di sigillare le suefrontiere entro marzo, ieri hatentato di uscire dall’angolo:ha minacciato di non votarel’accordo sulla Brexit se non sirisolve la questione migranti.Hollande e Merkel lo hannotranquillizzato: c’è tempo finoa marzo e Bruxelles “farà la suaparte” (cioè, darà dei soldi).
Italia
Matteo Renzi chiedein sostanza che venga rispettatol’accordo sui “ricollocamenti” di una parte dei profughiche arrivano in Italia(40mila in due anni) e Grecia(66mila) sottoscritto mesi fa.Ad oggi, dicono i numeri dellaCommissione, sono state ricollocate288 persone dall’Italia e 295 dalla Grecia. Il principaleostacolo sono i Paesidell’Est, che rifiutano i ricollocamenti:Renzi ha propostodi penalizzarli economicamentesui trasferimenti comunitari;Ungheria e Polonial’hanno definito “un ricatto”.
I migranti
Il conflitto siriano- dice l’Onu - ha creato 13milioni di profughi, la maggiorparte dei quali è nei paesi confinanti:nel 2015 un milione dipersone ha tentato, comunque,di raggiungere l’Europa,venti volte più che nel 2014.Anche quest’anno gli arrividovrebbero essere un milione.Tra le poche decisioni delConsiglio: i flussi vanno contenutianche coi respingimentialle frontiere esterne.
«Profughi. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana?»
Il manifesto, 20 febbraio 2016
«Io non l’ho voluto!», grida dio — nel grande dramma Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus – davanti al mondo intero che si autodistrugge in guerra.
«Noi non l’abbiamo voluto!», grideranno i capi di governo a Bruxelles, Berlino, Londra, Parigi, Roma e nelle altri capitali europee, quando fatalmente l’Unione europea andrà alla fine in pezzi. Ma a quel punto, chi avrà voluto e che cosa davvero avrà determinato questo esito?
Prima di abbozzare una risposta, converrà ricordare ai Salvini, ai Farage, ai Grillo e a tutti gli altri agitatori della domenica che sono stati settanta i milioni di morti della seconda guerra mondiale e i più di venti della prima ad aver spinto nella direzione di un’unificazione europea – e questo dopo tre secoli di conflitti incessanti in cui tutti si battevano contro tutti.
L’Europa non ha nulla da insegnare in tema di pace, solidarietà e diritti, perché è stata sino a settant’anni fa il continente più mortifero della storia. E oggi ricomincia a contorcersi in conflitti, chiusure, minacce e ripicche come se avesse dimenticato tutto.
Intendiamoci. Magari un accordo dell’ultimo minuto con Cameron si troverà. Ma i nodi continueranno a venire al pettine, perché le ragioni della crisi sono sistemiche, e non dipendono solo dall’avventatezza del premier inglese, che è lanciato nel risiko del Brexit per ragioni di esclusiva politica interna. La ragione fondamentale è che la Ue manca di qualsiasi progetto politico-sociale comune, e che tutti i suoi membri sono vincolati a logiche locali, ai piccoli dividendi politici nazionali, in una fase di stagnazione e incertezza economica che radicalizza ogni scelta. In questo senso Cameron, indubbiamente uno statista mediocre, non è più responsabile di Merkel, Hollande e tutti gli altri, compreso il nostro gioviale primo ministro.
Consideriamo la questione dei profughi. Se la Ue avesse uno straccio di politica estera comune, e soprattutto non dipendente dalle pulsioni neo-imperiali di Cameron o di Hollande o da quelle anti-russe degli Usa, si sarebbe posta da anni la questione dei profughi e non improvvisamente, nell’agosto 2015, come ha fatto Merkel. Non si affiderebbe in tutto e per tutto a Erdogan perché tenga lontano dall’Europa i profughi, concedendogli, oltre a 3 miliardi di euro, mano libera contro i curdi e in Siria. E soprattutto avrebbe affrontato la questione umana e sociale dei profughi, dalla Siria e da altri paesi in guerra, in modo solidale, distribuendo equamente gli oneri dell’accoglienza ai vari paesi e lavorando a un’integrazione sociale degli stranieri che, nel lungo periodo, avrebbe sicuramente giovato alla sua economia.
E invece no. Debole con i forti e fortissima con i deboli, concede a Cameron un referendum che a suo tempo ha rifiutato alla Grecia. Abbozza una ricollocazione dei profughi che fallisce clamorosamente. E ora deve digerire la chiusura delle frontiere in Austria, Ungheria e altri stati balcanici, ciò che si ripercuoterà a catena in tutto il continente. Invece di creare un piano di sicurezza sociale per tutti i membri si appresta a concedere all’iperliberista Cameron una riduzione dei benefici per i migranti Ue in Inghilterra. Nel frattempo, ricominciano gli sbarchi in Sicilia, con altri annegati, e la buona stagione è alle porte. Intanto, la situazione in Siria e Libia è sempre più esplosiva.
A quasi settant’anni dai primi trattati europei, questa è la realtà del vecchio continente. Se decine di milioni di morti nelle guerre europee non sono un buon argomento per un continente unito, alcune decine di migliaia di migranti annegati lo saranno per un minimo di solidarietà umana in Europa?
». La Repubblica, 20 febbraio 2016
Cervelli in fuga, rientri dei cervelli, successi dei ricercatori italiani all’estero. Su questo fronte si scontrano due opposte retoriche, le geremiadi sull’Italia matrigna che costringe all’emigrazione i migliori e l’esultanza sul talento italiano che trionfa nel mondo. C’è del vero in entrambe, ma una più quieta analisi rivela altri elementi.
Il tasso di emigrazione (a prescindere dal grado di istruzione) è raddoppiato negli ultimi cinque anni, e intanto l’attrattività dell’Italia è drammaticamente calata. Nel 2014 il saldo migratorio con l’estero nell’età più produttiva registra una perdita di 45.000 residenti, dei quali 12.000 laureati, che hanno trovato impiego in Europa, ma anche in America e in Brasile. Dati preoccupanti, che accrescono l’età media di un Paese già tra i più vecchi del mondo (157,7 ultra-65 per 100 minori di 15 anni). Ma l’emigrazione di chi fa ricerca ha risvolti economici e produttivi, non solo demografici. Prima di tutto, perché dalla ricerca (anche da quella “pura”, le cui applicazioni vengono dopo anni) nasce l’innovazione, che a sua volta genera produttività e occupazione. E poi perché gli anni di formazione, dalle elementari ai dottorati, hanno per il Paese un costo pro capite altissimo, ed è dissennato e antieconomico “regalare” ad altri un ricercatore di prima qualità dopo averlo allevato a caro prezzo.
C’è qui un equivoco da dissipare: da sempre chi fa ricerca si muove da un Paese all’altro, anzi l’esistenza di clerici vagantes è un requisito della libertà intellettuale. Niente di male se un biologo o un archeologo italiano va a lavorare in Svizzera o in Canada. A meno che questo flusso non sia unidirezionale, cioè in netta perdita. È quel che accade in Italia, dove il saldo negativo è intorno a 10 a 1 (uno straniero che fa ricerca in Italia per ogni 10 italiani all’estero). Ma il trend comincia già negli anni universitari, dove l’Italia è sempre meno attrattiva per gli studenti di altri Paesi: nel 2014 quasi 50.000 italiani sono andati a studiare all’estero, solo 16.000 stranieri sono venuti in Italia (contro i 68.000 che sono andati in Germania o i 46.000 della Francia). Secondo l’Ocse, che ha diffuso questi dati, lo squilibrio è dovuto ai bassi salari e alla difficoltà di trovar lavoro in Italia, dove «nel 2014 solo il 65% dei laureati fra 25 e 34 anni hanno trovato impiego, ed è questo il livello più basso d’Europa (media 82 %)».
Un indice significativo è offerto dai finanziamenti Erc (European Research Council) per i giovani (entro 12 anni dal dottorato): fino a 2 milioni per ogni progetto, che il vincitore può spendere dove crede, scegliendo una host institution in uno dei Paesi Ue. Colpisce, guardando le statistiche 2015 (oltre un miliardo di euro di fondi distribuiti), il contrasto fra due dati: da un lato, l’Italia è al secondo posto dopo la Germania, con 61 progetti vincenti. Dall’altro lato, il numero degli italiani che portano in altro Paese la propria “dote” è il più alto d’Europa: 31 su 61, il 50%. Niente di male se un italiano preferisce un laboratorio inglese; ma nel Regno Unito, se i vincitori sono 54 (meno degli italiani), a scegliervi la host institution sono ben 115, con un saldo nettamente positivo (+ 61).
Lo stesso vale per Germania, Francia, Olanda, e così via: l’Italia è il fanalino di coda (è stata scelta da due soli stranieri, un portoghese e una romena), con forte saldo negativo (- 30). Perché? La verità è che ricercatori di alto livello e studenti alle prime armi tendono a diffidare dell’Italia per le stesse ragioni, carenza delle strutture e incertezza delle prospettive; per non dire degli stipendi universitari, congelati da anni e non competitivi.
Davanti a questi dati, chi vuole o l’insulto o l’applauso è in difficoltà. Bisogna esser contenti di quanto siamo bravi, o scontenti perché spendiamo la nostra intelligenza altrove? Ma la maggiore urgenza è fare un passo indietro, e domandarci: se i nostri studiosi hanno tanto successo nel mondo, non sarà prima di tutto perché la nostra vituperata scuola, a partire dal liceo classico di cui improvvisati censori reclamano la morte, è molto ma molto migliore di quel che amiamo credere, e abitua al pensiero creativo assai più di altri sistemi educativi? E perché allora sottometterla al ripetuto elettroshock di riforme ricche di codicilli ma prive di indirizzo culturale? Seconda domanda: i ricercatori italiani tanto ricercati a Harvard, a Berlino, a Oxford, a Parigi sono stati formati nelle università italiane, che da Tremonti in qua vengono considerate (e a volte sono) la sentina di ogni vizio. Ma non avranno anche qualche virtù, se producono fior di studiosi ricercati dappertutto?
La scuola, l’università, la ricerca sono prove di futuro. A giudicare dai risultati le nostre istituzioni, nonostante la disgregazione di questi anni, hanno sfornato ottimi studiosi. Sapranno farlo ancora dopo il dissanguamento di risorse umane e di finanziamenti? Come ha notato l’Ocse, «l’Italia spende nell’educazione terziaria lo 0,9% del Pil, al penultimo posto fra i Paesi Ocse, con un livello simile a Brasile e Indonesia, mentre Paesi come il Canada, il Cile, la Danimarca, la Corea, la Finlandia e gli Stati Uniti spendono nel settore oltre il 2% del Pil». Micidiali nubi si addensano sul futuro: i Prin (“progetti di ricerca di interesse nazionale”) sono stati finanziati nell’ultimo bando (dicembre 2015) con la ridicola cifra di 91 milioni per tutta Italia, per tutte le discipline (in Germania la sola Exzellenzinitiative comporta fondi di ricerca per tre miliardi in cinque anni).
Perdura il quasi-blocco delle assunzioni, che condanna a una perpetua anticamera migliaia di docenti abilitati a cattedre di prima e seconda fascia. La scuola pubblica viene definanziata in favore della scuola privata, e riforma dopo riforma perde la natura di teatro della conoscenza e della creatività e si fa addestramento a frammentarie “competenze” di obbedienti esecutori. Perciò a ogni affermazione di ricercatori italiani all’estero dovremmo pensare: oggi campiamo di rendita, consolandoci coi successi di chi è stato formato da una scuola e da un’università che, intanto, stiamo distruggendo. Ma domani? I giovani migliori (se abbienti) dovranno formarsi all’estero, perché la nostra scuola si immiserisce in microriforme senz’anima e le nostre università mancano di docenti, laboratori, biblioteche? Gli italiani che emigravano cent’anni fa erano padri, e mandavano le rimesse in patria per il futuro dei figli. I nuovi emigranti sono per lo più figli: quel che stiamo perdendo non sono solo le loro rimesse, ma la ricchezza che essi stessi rappresentano.
Cosmopolitica. Davanti a duemila persone via al nuovo partito, il nome definitivo al congresso. Ci sarà un comitato promotore largo. "Ultima chiamata, riconquistiamo la fiducia dei nostri"». Il manifesto, 20 febbraio 2016
Grandi palloni rossi e sottili frecce gialle tipo patatine fritte, elementi stranianti nel razionalissimo Palazzo dei Congressi di Roma. Oltre 2mila presenze registrate, un palco che s’infila nella platea in un tentativo di accorciare le distanze fra chi parla e chi ascolta, come dire fra la sinistra e il suo popolo, perché l’obiettivo è «riconquistare la fiducia dei nostri», spiega Peppe De Cristofaro. È partita ieri pomeriggio la tre giorni di Cosmopolitica, ’cosmo’ anche perché è la ricerca di mettere ordine al ’caos’, spiega il professore Carlo Galli. È il primo giorno di «un’assemblea libera, che non può essere congressuale» (ancora De Cristofaro). Oggi si apriranno i 24 tavoli stile Leopolda e le quattro assemblee tematiche sulle quattro campagne del nuovo soggetto: democrazia, scuola, ambiente, lavoro e welfare. Poi un’intera sessione sulla democrazia digitale e su ’Commo’, la «casa online» di Si. Domenica sarà la giornata clou.
Ma il vero congresso invece arriverà a dicembre, così il vero simbolo, il vero nome, le vere regole. Fin lì è tutto provvisorio: il nome Sinistra italiana, che è quello del gruppo parlamentare nato alla camera dalla fusione fra Sel e cinque ex Pd. È noto il dissenso dei ragazzi del movimento Act sul nome, forse addirittura sulla parola «sinistra» per essere stata consumata da molti usurpatori, ma se ne riparlerà. Paolo Cento proporrà «Sinistra verde». Ma per ora giovani scapigliati e vecchie glorie sembrano d’accordo che bisogna tenere la creatura al riparo delle polemiche. Anche sulle perplessità sull’idea di «partito», altro termine su cui le anime più movimentiste sbuffano. Il risultato è la proposta di De Cristoaro: «Una formula ibrida, un partito oltre il classico partito», in grado — nelle intenzioni — di chiudere «il tempo degli accrocchi e di tutto quello che ha segnato la sconfitta della sinistra».
Ci sarà un comitato «ampio, imponente e aperto», e uno esecutivo più ristretto su cui si percepisce una certa effervescenza. Le questioni organizzative non scaldano i cuori (ma il confronto sì, mentre il manifesto va in stampa si svolge la prima delle due plenarie su questo delicato aspetto), ma sono importanti per capire se il nuovo soggetto avrà le gambe per affrontare la lunga traversata di una sinistra che diventa autonoma e indipendente.
La sfilata degli interventi, coordinati da Betta Piccolotti, affronta le battaglie qualificanti future. Immigrazione, democrazia, referendum sulle trivelle e quello sulla riforma costituzionale, la platea paziente ascolta. Si commuove per l’omaggio a Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto, e Valeria Solesin, la ricercatrice morta al Bataclan di Parigi.
I temi sono tanti, si passano il testimone, a volte con qualche contraddizione. Voluta, non casuale: sono le contraddizioni della sinistra, intesa almeno fin qui nel suo significato più estensivo. Basta ascoltare Franco Martini, Cgil, l’autocritica di un sindacato che si è attestato «sulla difesa di quello che eravamo, di quello che ci stavano portando via», e subito dopo la ricercatrice Marta Fana che contesta alla Cgil proprio gli accordi per i quali i salari sono andati giù.
Il cimento del percorso costituente è rimettere insieme non tanto i pezzi della sinistra ma un suo punto di vista. C’era Sel, ma non è bastata, il fallimento della coalizione Italia Bene comune lo dimostra. C’erano i movimenti e adesso non ci sono più, o almeno ci sono poco. Il rischio di chiudersi in una ridotta: per alcuni è considerato un pretesto per la conservazione dell’esistente, per altri è forte. In un’intervista video Laura Boldrini lo dice: «Il cambiamento non si fa in un angolo, il cambiamento non si fa ballando da soli».
Lo sa bene Stefano Fassina, qui presente, che cerca di mettere insieme tutta la sinistra romana per le amministrative. Dal versante opposto del residuo centrosinistra, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia oggi ci sarà, ma non ha ancora deciso se parlare: a occhio questa la platea non voterebbe Sala, il candidato renziano che ha vinto le primarie. Sergio Cofferati lo dice: «Sala è la negazione della stagione dei sindaci arancioni». L’ex segretario Cgil però non vuole rubare la scena: «Oggi c’è la necessità e l’impegno a far emergere le forze dei giovani». Farà il padre nobile, magari un padre ancora molto attivo. Così anche Nichi Vendola, il cui intervento registrato è atteso per domenica.
Per dissenso invece non ci sono anche altri protagonisti: Civati, per esempio. Rifondazione e l’Altra Europa sono ospiti ma per ora stanno fuori da Si. «Spero che arrivino, nessuno è proprietario del processo costituente», dice l’ex dem Alfredo D’Attorre. Ma è il problema dei problemi. E non è questione (solo) di qualche parlamentare o qualche sigla, riguarda il popolo di una sinistra oggi senza popolo. «Il punto è che questo processo non ci chiuda in sé, che sappia dialogare con quello che c’è fuori. Che con i movimenti non costruisca un rapporto di cooptazione, che non abbia la pretesa di rappresentare tutto», è l’invito del professore Sandro Mezzadra.
Bruxelles. Mentre nelle acque di fronte ad Agrigento si consuma una nuova tragedia, sui migranti in Europa si continua a litigare. Di fronte all’emergenza sempre più pressante e al rischio della polverizzazione di Schengen, i leader europei hanno passato due giorni e due notti a Bruxelles per discutere di Brexit. Di rifugiati solo una discussione nella notte tra giovedì e venerdì, inconcludente e segnata dai litigi. Si aspetta marzo, si spera di convincere la Turchia a bloccare le partenze verso la Grecia (Ankara ha già ricevuto tre miliardi per la gestione dei profughi siriani) e si attende tra poche settimane che la Commissione presenti il piano per modificare in modo permanente ed efficace le regole europee per ripartire tra i Ventotto i migranti e salvare Schengen. Ma ancora una volta spetterà ai governi accettare il sistema e stando al clima respirato a Bruxelles la svolta non sembra vicina. Non per niente Juncker rinvia la proposta da dicembre. Ma ora non può più aspettare visto che senza una soluzione a maggio Schengen rischia di saltare.
Ieri l’Austria ha sfidato Bruxelles attuando la decisione di accettare solo 80 richiedenti asilo al giorno. Un piano che la Commissione l’altro ieri aveva definito illegale. Il Cancelliere Faymann nel chiuso del summit europeo ha spiegato ai colleghi di avere fatto il possibile (ha accolto circa 120mila profughi) e di non avere alternative al tetto agli ingressi: «Se tutti accettassero i nostri stessi numeri potremmo distribuire due milioni di rifugiati». L’austriaco si è ritrovato isolato al tavolo, ma molti leader della Vecchia Europa pur temendo ripercussioni per Schengen e danni economici dalla chiusura del Brennero hanno in parte compreso le sue ragioni, dettate dall’egoismo dei paesi dell’Est che costruiscono muri e rifiutano di ospitare i migranti arrivati negli altri paesi.
L’altra notte Renzi ha minacciato i governi dell’ex blocco sovietico di tagliare loro i fondi europei se non cambieranno linea. Minaccia in passato spesa anche dalla Merkel. Ma ieri il governo ungherese ha tirato dritto: «Quello di Renzi è un ricatto politico», le parole del portavoce di Orban. «Renzi non può ricattare nessuno», ha aggiunto il ministro polacco Konrad Szymanski. Con loro in Italia si schiera Salvini, mentre la presidente della Camera Laura Boldrini appoggia il premier: «Non si sta in una famiglia solo quando fa comodo». L’Ungheria poi ha annunciato una nuova mossa unilaterale: domani chiuderà le tre frontiere ferroviarie con la Croazia. La Slovenia lunedì conferirà più poteri all’esercito nel controllo dei confini. Ma il ministro degli Interni tedesco, Thomas de Maizière, ha diffidato i partner da ulteriori misure dannose per la Germania: «Alla lunga ci sarebbero conseguenze». La Merkel intanto ha ottenuto un vertice tra i Ventotto e la Turchia ai primi di marzo.
In attesa che la Grecia controlli a pieno le sue frontiere e che arrivi il piano Juncker, la Cancelliera ritiene che la collaborazione di Ankara nel bloccare le partenze dalle sue coste sia cruciale. Tsipras ha invece bloccato l’accordo per evitare il Brexit se non avrà garanzie che la Grecia non sarà sigillata fuori da Schengen. Hollande, criticato perché non sostiene la ripartizione dei migranti, ha detto che la Francia farà la sua parte quando le frontiere esterne torneranno sotto controllo. In fondo anche il presidente francese vuole «salvare Schengen».
Più di trecento miliardi spalmati su sei anni. È questa la torta dei fondi europei che Matteo Renzi - rilanciando una minaccia già brandita da Berlino vuole togliere ai paesi dell’Europa orientale che si rifiutano di accogliere i richiedenti asilo. Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. E ancora, i baltici, altrettanto contrari all’idea di una gestione comune dei migranti, di una ripartizione tra i Ventotto di chi fugge in Europa per trovare riparo da guerra e terrorismo. Sono loro che hanno portato Schengen sull’orlo del collasso bloccando da mesi qualsiasi decisione comunitaria. Che hanno costretto paesi come Austria, Germania e Svezia, inizialmente accoglienti con tutti i profughi, a chiudere le porte e a ripristinare i controlli alle frontiere precipitando l’Unione in uno stallo figlio di un pericoloso tutti contro tutti. E poco importa che anche Francia e Spagna siano scettiche verso le riallocazioni: se il problema fosse stato risolto subito avrebbero accettato il sistema.
UNANIMITÀ
La minaccia ad Orban&Co sui fondi piace a molte capitali della Vecchia Europa, ma non è facile da portare alle estreme conseguenze. Il bilancio pluriennale dell’Unione viene infatti approvato all’unanimità su proposta della Commissione ed è difficile immaginare che i leader dell’ex blocco sovietico decidano spontaneamente di tagliarsi i soldi nel 2019, quando l’Ue inizierà a negoziare le prospettive finanziarie 2021-2027. Più verosimile pensare un blitz immediato, visto che i governi ogni anno all’interno del bilancio pluriennale (quello attuale copre il periodo 2014-2020) decidono le spese per i 12 mesi successivi. In questo caso a maggioranza qualificata. Ma appare comunque improbabile che i leader dell’Est non riescano a mettere insieme una minoranza di blocco in grado di fermare la rappresaglia congelando il bilancio. Dunque quella sui fondi può essere considerata una minaccia più politica che reale, anche se nasconde una grande verità su quanto le capitali dell’Est siano europeiste nell’incassare gli ingenti aiuti di Bruxelles e quanto si rivelino egoiste nel non accettare la ripartizione dei migranti ora stipati in pochi paesi.
CONTRIBUTORI
Il bilancio 2014-2020 dell’Unione conta 970 miliardi. Circa 300 tornano ai governi sotto forma di aiuti. Si tratta dei fondi strutturali, di coesione (riservati alle nazioni dell’ultimo allargamento), dei sussidi all’agricoltura, al sociale e di altre decine di programmi europei. Il più grande contributore netto al bilancio comunitario è la Germania, che ad esempio nel 2014 ha avuto un saldo passivo verso l’Unione di 15,5 miliardi. Seguono Francia, che tra dare e avere ha perso 7,1 miliardi, Gran Bretagna (4,9), Olanda (4,7) e Italia (4,4), che nell’ultimo negoziato condotto da Monti nel 2013 ha migliorato di due miliardi il saldo.
BENEFICIARI
Tra i paesi dell’Europa pre-allargamento chi è beneficiario netto dei fondi Ue sono Grecia e Portogallo e per cifre irrisorie Irlanda, Malta e Cipro. La parte del leone nel prendere la fanno però i paesi dell’Est. Come la Polonia, nazione governata dalla destra populista di Kaczynski e Szydlo, contraria all’accoglienza. Peccato che nel 2014 Varsavia abbia registrato un saldo attivo di 13,7 miliardi nel rapporto tra dare e avere con Bruxelles. Il tipico esempio di nazione accusata di accettare la solidarietà a senso unico. Una cifra pari al 3,47% del Prodotto interno lordo con la quale Varsavia sta ammodernando economia e infrastrutture. Tra l’altro nel periodo 2014-2020 può ricevere 228 milioni Ue per i migranti. Altro campione di incassi è l’Ungheria del liberticida Viktor Orban: 5,6 miliardi di attivo nel 2014, pari addirittura al 5,64% del Pil nazionale. E tra l’altro gli ungheresi hanno a disposizione 93 milioni europei per gestire i profughi. Prende bene anche la Repubblica Ceca: 3 miliardi all’anno pari al 2% del Pil. Vengono poi Bulgaria (1,8 miliardi, 4,4% del Pil), Lituania (1,5 miliardi, 4,3% del Pil) e Lettonia (799 milioni, il 3,35% del Pil). Anche gli altri paesi dell’Est, con cifre inferiori, sostengono le loro economie grazie ai fondi europei. Gli stessi paesi che da mesi voltano le spalle alle nazioni che non riescono da sole a gestire i profughi in arrivo dalla Siria. E che ora sono allo stremo.
Si chiamerebbe Salih Neccar e sarebbe un membro delle Ypg ("Unità di protezione popolare' curda). Così, con poche parole, le autorità turche si sono regalate la giustificazione per la strategia anti-kurda nella regione: ieri mattina la Turchia diceva di aver identificato il responsabile materiale della strage di mercoledì sera. Già a poche ore dall’attentato di Ankara l’esercito dava la risposta più scontata: è stato il Pkk. Ieri mattina le accuse si sono arricchite di nuovi dettagli: in coordinamento con il Partito dei Lavoratori Kurdi hanno operato membri delle Ypg siriane, le unità di difesa popolari del Pyd di Rojava. In casa turca uno più uno fa sempre due, ma le regole dell’equazione le dettano le priorità di Stato. Un’architettura che si confà alla perfezione con le ultime mosse turche: il presidente Erdogan, regista di un sistema autoritario che supera i confini nazionali, si fa inquirente, giudice e boia.
Corriere della Sera e il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)
Corriere della Sera
IL MONITO ALLE DEMOCRAZIE
CHE COSTRUISCONO I MURI
di Massimo Franco
Si sarebbe tentati di dire che il Papa ha scomunicato Trump. Non è così, naturalmente. Semmai, è stato il miliardario statunitense, uno dei candidati repubblicani alla Casa Bianca, a usare parole rozzamente provocatorie nei confronti di Bergoglio.
Dargli dell’agente del governo messicano perché difende i migranti significa non capire né voler capire il ruolo che il Pontefice si assegna. E farlo poche ore dopo che il Papa aveva visitato il muro di separazione tra Usa e Messico a Ciudad Juárez, città-simbolo di sfruttamento e femminicidi, ma anche di economie e di umanità che si incontrano, non poteva non avere effetto.
Corriere della Sera
IL PAPA: TRUMP NON È CRISTIANO
Dal volo papale. Sono passate poche ore da quando Francesco, a Ciudad Juárez, ha salutato e benedetto i migranti oltre il Rio Grande e la rete metallica che divide Messico e Stati Uniti. Si torna a Roma, il Papa raggiunge in fondo all’aereo i giornalisti che lo hanno seguito fino al confine e per un’ora risponde a tutte le domande, anche le più scomode, come quando elogia il coraggio di Ratzinger nella lotta alla pedofilia con parole che fanno capire le resistenze che subì in Curia. Anzitutto, però, c’è il tema che ha segnato il viaggio.
Il Sole 24 Ore
«UNIONI CIVILI? NON MI IMMISCHIO. SE TRUMP ALZA MURI NON è CRISTIANO»
di Carlo Marroni
Parla più di un’ora il Pontefice al termine di una settimana tra Cuba e Messico destinata a lasciare una traccia profonda.Cosa pensa delle regolamentazione delle unioni civili e del capitolo più controverso delle adozioni? «Prima di tutto io non so come stanno le cose nel Parlamento italiano, il Papa non s’immischia nella politica italiana. - dice Bergoglio - Nella prima riunione che ho avuto con i vescovi nel maggio 2013 ho detto loro: con il Governo italiano arrangiatevi voi. Il Papa non si mette nella politica concreta di un Paese. L’Italia non è il primo paese che fa questa esperienza. Quanto al mio pensiero, io penso quello che la Chiesa sempre ha detto su questo tema». E la Chiesa ha sempre detto che il matrimonio è tra un uomo e una donna, anche se da tempo si è aperto un dibattitto sul riconoscimento progressivo dei diritti per altre forme di unione.
«Dall’affare tabacchi a Mani Pulite, Storie (e guai) di chi si oppose a scandali e ruberie».
Corriere della sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)
Giù le mani da Giovanna Ceribelli. Troppe volte, nel passato più recente e più remoto, chi ha denunciato uno scandalo come la commercialista di Caprino Bergamasco che ha fatto scoppiare l’ultimo bubbone della Sanità lombarda è stato abbandonato a se stesso, isolato, punito. Come fosse colpevole di non essersi fatto gli affari suoi.
Il manifesto e Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
CASSON: «RENZI DEVE PRETENDERE RISPETTO DA AL-SISI»
Il senatore Pd Felice Casson, ha partecipato ieri, come segretario del Copasir, all’audizione del direttore dell’Aise Alberto Manenti che si trovava il 3 febbraio al Cairo per un’altra missione, nel giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Ma sui contenuti della riunione di ieri tenuta a Palazzo San Macuto «rispetto l’obbligo alla riservatezza», premette Casson.
Da magistrato, che idea si è fatta delle indagini condotte in Egitto sull’omicidio Regeni?
Sono state fatte molto male. Ho l’impressione netta che non si voglia arrivare alla verità. Ci sono ritardi chiarissimi e non c’è collaborazione con gli organi di polizia giudiziaria italiani che sono andati al Cairo. Per esempio, i controlli sulle telecamere disseminate nel quartiere dove Regeni viveva sono stati fatti molto in ritardo: i negozi e gli uffici infatti dopo alcuni giorni cancellano le immagini registrate, e in due settimane i servizi sono in grado di fare qualsiasi cosa sulle registrazioni in modo da non fare avere elementi di prova che invece sono fondamentali. Il fatto che i tabulati telefonici ancora non arrivino è una chiara prova di non mancanza di volontà. Così come è caduta nel vuoto la richiesta di interventi per verificare tramite i cellulari chi fosse presente sul posto. Insomma, a distanza di settimane non c’è stata alcuna risposta concreta nel rispetto delle linee di azione investigative e dei protocolli che di solito si rispettano in queste situazioni.
A cosa è dovuto, secondo lei?
Bisogna calarsi in quell’ambiente: l’Egitto è certamente un regime, e con uno Stato aduso a sistemi di tortura contro gli oppositori politici di qualsiasi genere. Ne abbiamo avuto anche una prova diretta nel caso di Abu Omar quando venne sequestrato a Milano da agenti dei servizi segreti italiani e dalla Cia e venne portato in Egitto dove fu sottoposto a tortura. In più, all’interno di quello Stato ci sono guerre intestine feroci tra apparati e tra fazioni.
Il suo collega Giacomo Stucchi, il presidente del Copasir, denuncia diplomaticamente la «mancanza di dialogo tra le loro forze in campo» che sono «coordinate in modo diverso da come avviene da noi». Ma secondo lei, ritardi e depistaggi sono frutto di un ordine impartito dall’alto o sono dovuti alla condizione di uno Stato senza controllo?
Le due cose non sono in contraddizione. La mancanza di dialogo è dovuta alla guerra intestina egiziana. A mio parere è soprattutto un problema interno, con risvolti ovviamente internazionali. Ma credo spetti allo Stato egiziano pretendere chiarezza, nel suo stesso interesse. Perché credo che sarebbe un problema per qualunque nazione sapere che ci sono pezzi di Stato - che si chiamino squadroni, forze speciali, intelligence, polizia o altro - che fanno quello che vogliono.
E le sembra che la pressione italiana sia sufficiente per convincere le autorità egiziane a collaborare di più?
A livello di indagini, quello che l’Italia doveva fare è stato fatto: gli esperti sono stati inviati sul posto rapidamente, ma essendo un territorio straniero non hanno mano libera o carta bianca. Ogni loro azione dipende rigidamente dalla volontà degli egiziani. Ma dal punto di vista politico si può fare di più: il nostro vertice statale deve pretendere in maniera più forte la verità. Perché qui si tratta di diritti fondamentali di una persona, ma anche di dignità di uno Stato. Non possiamo subire situazioni come quelle che si sono verificate in altri casi: penso alla vicenda dei marò, che è molto diversa ma che per certi versi è sintomatica di un’incapacità di gestire i rapporti internazionali.
In questo caso però ci sono in ballo gli interessi economici del capitalismo italiano.
Sì certo, grandi interessi, ma c’è una sproporzione molto forte tra le due cose. Credo che non ci siano al momento elementi per collegare questi forti interessi alla vicenda Regeni, che potrebbe essere anche più limitata.
Legami diretti con l’omicidio no, ce lo auguriamo almeno. Ma non si può non ricordare che il presidente del consiglio e segretario del suo partito ha detto che «l’Eni è un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi segreti».
Una frase imprudente. Ed è vero che ha detto anche che l’Egitto attuale è un esempio di democrazia. E io non sono assolutamente d’accordo. Capisco che Renzi, che gestisce i rapporti diretti ad altissimo livello, non possa dire tutto quello che pensa, però ci troviamo di fronte ad uno Stato che è ancora un regime e non possiamo farci mettere i piedi in testa. Credo che in questo modo ci stiano prendendo in giro. Non è assolutamente accettabile.
Quali armi abbiamo per poterli convincere, se non quelle economiche?
Penso che il rapporto diretto tra vertici funziona meglio dei canali indiretti diplomatici, che hanno un loro peso ma certamente inferiore. È una questione che va affrontata al più alto livello, facendo rimanere impregiudicati i rapporti economici e di lavoro tra i due Stati. Pensiamo anche ai tanti egiziani che vivono qui da noi. Non si possono agitare ritorsioni o minacce di qualsiasi genere: a livello di autorità statali è possibile pretendere il rispetto della propria dignità e della propria sovranità che in questo caso è stata violata.
Quindi sta nella capacità di Renzi di farsi valere con Al-Sisi. Ma il premier dovrebbe convincersi che il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico, e che qualunque sia il fine la repressione violenta che viola i diritti umani non può essere tollerata.
Questa è una questione molto complicata, perché l’Egitto certamente costituisce un fulcro e uno snodo all’interno del mondo arabo. E certamente non era pensabile che si potessero sviluppare al suo interno movimenti come quelli delle primavere arabe. È un punto di equilibrio tra mondo arabo e occidentale, come per altri versi lo è anche la Siria. Rendere instabili Stati di questo tipo può costare moltissimo. Ma non si può pensare che sia un singolo Stato a mantenere equilibri o a fare da baluardo al terrorismo jihadista: è una questione che va risolta a livello di comunità internazionale, tutta insieme. In particolare poi, i metodi repressivi egiziani che violano i diritti umani non sono utilizzati contro il terrorismo islamico ma nei confronti degli oppositori al regime, nei confronti della sinistra, dei sindacati o dei Fratelli musulmani. Al di là delle ideologie, è il metodo antidemocratico e violento che assolutamente non può essere accettato, né dall’Italia né dagli altri Paesi democratici, e non solo per l’Egitto.
Anche in Italia è prevista l’impunità per la tortura di Stato.
Infatti bisognerebbe far approvare il disegno di legge che introduce la tortura nel codice penale e che viene continuamente rimandato in commissione da tre o quattro legislature.
Corriere della Sera
L’INCHIESTA REGENI
DALL'EGITTO CAOS E SMENTITE.
I DUBBI DEGLI INVESTIGATORI ITALIANI
di Virginia Piccolilli
I media: il killer è dei Fratelli musulmani. La Procura del Cairo: non ci sono prove
«La Procura egiziana si sta avvicinando all’identificazione del killer». L’annuncio arriva nel pomeriggio sul portale egiziano filogovernativo Youm7: «Giulio Regeni sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano».
Un'occasione da non perdere per tentare di costituire una forza politica nettamente "di parte" che dia voce e speranza alle vittime della fase attuale del sistema capitalistico. Una cronaca del primo giorno dell'assemblea nazionale e il documento d'apertura. Il manifesto, 19 febbraio 2016
NUOVO SOGGETTO COSMOPOLITICO
di D.P.
Un ricordo di Giulio Regeni, il giovane ricercatore torturato e ucciso al Cairo, dei cui assassini ancora non si sa nulla. Un video sull’esaltante campagna elettorale di Bernie Sanders. Il promo di un film sulle trivelle (il regista è Emanuele Bonaccorsi) per ricordare che il primo appuntamento con il destino, per la nuova creatura politica che nasce, è quello del referendum del 17 aprile.
Partono oggi pomeriggio alle quattro — al Palazzo dei Congressi di Roma — le tre giornate di Cosmopolitica, la quasi-nascita del nuovo soggetto della sinistra. Il vero parto avverrà a dicembre, almeno secondo la proposta di molti del gruppo di organizzatori, quando dovrebbe tenersi il congresso fondativo; dopo il referendum sulla riforma costituzionale, che sarà uno spartiacque per il futuro del paese.
Il programma è fitto di dibattiti, laboratori, tavoli ma anche piccoli eventi e colpi di scena, in qualche misura. Il modello è quello della kermesse ’sellina’ Human Factor, e non è diversissimo dalla Leopolda renziana. Ma gli organizzatori smentiscono con fastidio: i dibattiti dei tavoli finiranno condensati in una sintesi che poi andrà a implementare il programma politico. Si vedrà.
Nei laboratori o nel palco della plenaria arriveranno figure storiche della sinistra italiana, come Luciana Castellina, ma anche storie più recenti, e più impreviste, come quella di Giovanna Martelli, consigliera per le pari opportunità del governo Renzi che qualche settimana fa ha lasciato il gruppo del Pd in polemica. C’è chi dice che potrebbe annunciare il suo avvicinamento a Sinistra italiana.
Ci saranno i sindaci Leoluca Orlando e Luigi De Magistris, ma anche Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, che è vero che sono di Sel, ma la loro presenza non era per niente scontata: si tratta pur sempre della nascita di un soggetto ostile alle alleanze con il Pd in piena campagna elettorale nelle proprie rispettive città.
Fra gli scettici, ma con motivazioni opposte, anche Marco Revelli dell’Altra Europa e Paolo Ferrero del Prc, ma anche loro ci saranno. Come i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, un messaggio di Maurizio Landini, i presidenti di Legambiente, Arci, Arcigay.
Nichi Vendola non ci sarà, sarà presente con un video che sarà proiettato domenica. E c’è da scommettere che sarà un momento delicato per l’assemblea, quello del fondatore di Sel non presente al suo evento di trasformazione in nuovo partito.
Ma l’elenco è impossibile, il programma completo si trova su Cosmopolitica.org. Il calcio d’avvio è affidato a Betta Piccolotti, responsabile comunicazione di Sel, poi a Andrea Ranieri, il braccio destro di Sergio Cofferati che riassumerà il documento politico su cui nasce l’ipotesi del nuovo soggetto, e ancora il sociologo Carlo Galli, ex deputato Pd e ora entrato nel gruppo di Sinistra italiana e poi la filosofa Laura Bazzicalupo.
Più o meno a questo punto dovrebbe andare in onda il video di Laura Boldrini, la presidente della camera proveniente dalle file di Sel ma che guarda con qualche apprensione il percorso della ’nuova cosa’. Per la quale, spiega, è certa che ci sia «uno spazio politico». Altri due ’scettici’ della possibile radicalizzazione a sinistra saranno presenti di persona: domani Giuliano Pisapia, alle prese con grosse turbolenze nella sua ex lista, domenica Massimo Zedda.
Più tardi, già oggi, la prima assemblea plenaria sul percorso costituente, per dare un minimo di organizzazione e un comitato provvisorio nel periodo transitorio di qui al congresso (questa sessione sarà tenuta da Peppe De Cristofaro, senatore e responsabile organizzazione di Sel).
L’assemblea si riconvocherà domani alla stessa ora. Qui si parlerà della forma partito, qui si deciderà il nome della nuova cosa, almeno quello provvisorio. «Sinistra italiana» per ora è il più quotato da Sel ed ex Pd, ma anche il più criticato dai movimenti.
Domani sarà giorno dei ventiquattro tavoli tematici (dai diritti civili al disarmo, dalla sanità al futuro del terzo settore, dalle banche all’antimafia fino al Sud e all’accesso ai saperi, dal Jobs Act all’austerità alla criminalizzazione delle migrazioni), e della discussione sulla democrazia digitale anche per cominciare a prendere le misure con Commo, la piattaforma digitale del nuovo soggetto politico, che rischia di essere una presenza sovraccarica di senso — forse anche di aspettative — sin dall’inizio del nuovo percorso.
Nel pomeriggio quattro assemblee sulle altrettante aree tematiche che sostanzieranno le quattro prime campagne del nuovo soggetto, insomma il primo abbozzo di programma. «Democrazia, partecipazione, riforme costituzionali», «Saperi, scuola, istruzione, conoscenza», «Ambiente, clima, conversione ecologica dell’economia», «Lavoro, welfare, politiche economiche».
Il rispetto della cultura in Italia è scomparso da tempo. Matteo Renzi continua sulla scia dei suoi predecessori: Mussolini, Scelba, Berlusconi.
La Repubblica online, bloc "Articolo 9", 19 febbraio 2016
Oggi, in una bellissima intervista a Repubblica, il fisico Guido Tonelli ha spiegato che è riuscito a studiare, grazie alle borse di studio e ai sacrifici della sua famiglia, perché «a quel tempo c'era un grandissimo rispetto per la cultura e lo studio». Ecco, se oggi l'Italia non è un paese per ricercatori, se oggi non investiamo in ricerca è forse soprattutto perché abbiamo perduto quel rispetto.
Veniamo da una lunga stagione di delegittimazione del sapere critico e della cultura. Nel ventennio berlusconiano l'ignoranza è stata sdoganata, e quasi celebrata, da un senso comune che si riflette tuttora in film, televisione, discorso pubblico di infimo livello intellettuale. Ma, anche prima, il potere italico ha spesso ostentato il suo disprezzo per la cultura: da Mussolini che si vantava di esser entrato in un museo due o tre volte nella vita, al «culturame» di Scelba.
Con Matteo Renzi non siamo usciti da questa tradizione, purtroppo. L'ex sindaco di Firenze parla continuamente di cultura, senza però esserne affetto: un portatore sano di cultura. Commentando un libro di Renzi (Stil novo, la rivoluzione della bellezza da Dante a twitter, Milano 2012), lo scrittore Paolo Nori rifletteva sulla singolare stranezza per cui «in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta». Ecco, questo giudizio mi è tornato in mente sentendo il nostro presidente del Consiglio che, parlando non in un luogo qualunque, ma all'Università di Buenos Aires, faceva la monumentale gaffe di citare una poesia del massimo scrittore argentino, Jorge Luis Borges... che però non era di Borges. Quel testo, banale e imbarazzante come un motto da bacioperugina, si trova – attribuito a Borges – sulla rete: e copiare da internet senza controllare le fonti, e il tipico errore che si cerca di sradicare dalle matricole universitarie.
Nessuno pretende che Renzi vegli di notte per studiare Borges: ma investire così poco sul livello culturale del proprio staff pur volendo parlare continuamente di cultura, è una scelta che rivela una profonda mancanza di rispetto «per la cultura e per lo studio». E il punto non è la figuraccia di Renzi (una più o una meno...): il punto è il futuro della ricerca e della cultura in questo povero Paese.
Con l'Italia è l'insieme del sistema capitalistico che è in crisi profonda.Si avverano le peggiori previsioni degli economisti: siamo entrati in una «una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze». Il manifesto, 19 febbraio 2016
No, non ce la fa. L’economia mondiale non si riprende. Anzi. L’ultima botta all’ottimismo incosciente lo ha dato nientemeno che l’Ocse, dopo che già il Fmi, qualche settimana fa, aveva abbassato le stime della crescita. Secondo l’organizzazione di Parigi il Pil globale aumenterà del 3% nell’anno in corso e del 3,3% nel 2017. Si tratta in entrambi i casi di uno 0,3% rispetto alle precedenti previsioni. In questo modo l’espansione del Pil globale nel 2016 non risulterebbe diversa da quella del 2015, che “di per sé aveva segnato il ritmo di crescita più lento degli ultimi cinque anni”. Le economie emergenti rallentano in modo vistoso. C’è chi dice che l’India forse supererà la Cina, ma in una corsa al ribasso. Per quanto riguarda l’Eurozona, dice l’Ocse, i potenziali benefici della riduzione del prezzo del petrolio non si sono fatti sentire. I bassissimi tassi di interesse e l’euro debole non sono bastati per favorire uno sviluppo degli investimenti, mentre le sofferenze bancarie “restringono il canale creditizio della trasmissione della politica monetaria”. Per cui è prevedibile che gli effetti di una nuova espansione di quest’ultima, prevista dopo la riunione della Bce del prossimo 10 marzo, siano già alle spalle o rimangano strozzati dal mal funzionamento generale del sistema. Col “sindacalese” di una volta si sarebbe detto che il “cavallo non beve”.
L’Italia è in linea con queste pessime previsioni. Non c’è da stupirsi quindi se l’Ocse ci attribuisce un aumento del Pil del solo 1%, in netta retrocessione rispetto all’1,4% attribuitoci solo nel novembre scorso. Del resto anche la Corte dei Conti si fa sentire. Il Presidente Raffaele Squitieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016 spegne ogni speranza sulla spending review renziana, che viene anzi considerata responsabile della riduzione dei servizi reali ai cittadini, in nessun modo considerabili superflui. Basta gettare un occhio alla sanità pubblica!
Lawrence Summers può quindi tornare sulla sua analisi preferita, quello che lo portò alla fine del 2013 a diagnosticare una “stagnazione secolare” per il mondo intero, con il corollario dell’incremento a dismisura delle diseguaglianze. Peraltro con il sostanziale accordo di Paul Krugman. L’altro giorno scriveva sul Financial Times che: “Il coordinamento globale dovrebbe smetterla di perdere tempo dietro ai luoghi comuni su riforme strutturali e risanamento dei conti pubblici e lavorare per garantire una domanda adeguata a livello globale.” Invece in Europa si fa l’esatto contrario. Mentre la prospettiva di una nuova fase recessiva dell’economia americana è tutt’altro che fantascientifica. Summers la prevede in termini molto pesanti già per l’anno in corso e soprattutto per i prossimi due. Janet Yellen, presidentessa della Fed, fa capire di temerla visto che ha bloccato il rialzo dei tassi e anzi non esclude persino di portarli in territorio negativo. Le minute dell’ultimo consiglio della Bce di gennaio non solo rivelano le divisioni al proprio interno, ma molto scetticismo sulla possibilità d’impedire o solo frenare l’avvitamento verso il basso dell’inflazione, malgrado l’ottimismo della volontà di Mario Draghi.
La definizione “stagnazione secolare” non è nuova. Venne coniata da Alvin Hansen, uno dei più importanti seguaci e propalatori delle teorie di Keynes. Secondo Hansen, apprezzato anche da Paul Samuelson e James Tobin e in parte ripreso in campo marxista da Paul Sweezy, la tendenza strutturale alla stagnazione sarebbe stata provocata da una asfittica dinamica dei consumi accompagnata dalla fine della mobilitazione bellica che aveva portato indubbiamente a un incremento della capacità produttiva. Si disse poi che la preoccupazione di Hansen si era dimostrata del tutto infondata di fronte ai trent’anni “gloriosi” dello sviluppo capitalistico postbellico. Ma non si fece tesoro del fatto che fu proprio l’incremento dell’intervento pubblico in economia e l’allargarsi dello stato sociale, grazie alle lotte del movimento operaio e democratico, a fornire le basi per quell’insuperato periodo di sviluppo economico. L’affermazione dei bisogni e dei diritti sul piano sociale, a partire dai luoghi della produzione, aveva costituito una leva formidabile per tutta l’economia. Ed era quello che mancava non solo in Hansen, ma per certi aspetti persino nel suo maestro Keynes. Ma nei lunghi decenni dell’egemonia neoliberista tuttora imperante, quello stato sociale è stato abbattuto per fare spazio ad una nuova fase di accumulazione e di scorribande per il capitale finanziario, mentre l’intervento pubblico ha assunto un carattere sempre più residuale e sempre meno innovativo. A quelle leve bisogna oggi guardare in termini innovativi per progettare una nuova società. A questo serve un nuovo soggetto di sinistra che ancora non c’è. Non basta abbattere il mito della crescita se ci si perde nella foresta pietrificata delle diseguaglianze.
«Egitto. Resa dei conti per il team investigativo italiano, ostruito dal regime. Sembra che ormai si estenda a macchia d’olio la repressione dei centri di ricerca e dei think tank critici verso il regime».
Il manifesto, 18 febbraio 2016 (m.p.r.)
Oggi è la giornata decisiva per le indagini sulla tortura e morte del dottorando italiano, Giulio Regeni. Il team di investigatori italiani (Ros, Sco e Interpol), volati al Cairo subito dopo il ritrovamento del cadavere lo scorso 3 febbraio, aspetta ancora che le autorità egiziane consegnino tabulati telefonici, tutti i numeri agganciati dall’ultima cella dal cellulare di Giulio e i filmati delle telecamere a circuito chiuso nella zona di Doqqi. Sarebbe utile chiedere anche i video intorno alla metro Mohamed Naguib, non lontano da piazza Tahrir e dove Giulio era atteso, poiché ancora non è sicuro dove Giulio sia stato prelevato.
Se ancora una volta la collaborazione egiziana sarà solo a parole o si limiterà a fornire false prove, come è avvenuto con il supertestimone che ha parlato di due agenti in borghese che avrebbero prelevato il giovane sotto casa, contraddetto dalle deposizioni dei coinquilini di Giulio, è possibile che il team italiano ritorni a Roma o esprima apertamente il suo disappunto.
Fin qui le autorità egiziane hanno voluto insabbiare il caso. Non solo, sembra che ormai si estenda a macchia d’olio la repressione dei centri di ricerca e dei think tank critici verso il regime. Il ministro della Salute ha disposto per il prossimo lunedì la chiusura del Centro per la riabilitazione delle Vittime delle violenze (El Nadeem). La questione delle torture è davvero centrale per smascherare le malefatte del regime di al-Sisi e i metodi arbitrari della polizia egiziana contro cui giovani e migranti erano scesi in piazza nel 2011.
Per questo, nello show televisivo di Ontv, Youssef al-Hussein si è presentato con una maglietta con la scritta una «Nazione senza torture». L’iniziativa è in solidarietà con Mahmoud Mohammed, un giovane imprigionato per oltre due anni perché indossava quella stessa maglietta. Mahmoud potrebbe essere accusato di terrorismo e finire nelle mani sanguinarie della Sicurezza di Stato (Amn el-Dawla). La rilevanza dell’impunità degli atti di tortura è tornata evidente proprio nel caso Regeni.
Il capo della polizia investigativa che sta indagando sul caso, Khaled Shalaby, era stato condannato in primo grado per tortura. Vari ufficiali in prigione per aver praticato torture sono stati prosciolti tra di loro il luogotenente, Yassin Salah Eddin, l’ufficiale responsabile di aver sparato all’attivista socialista, Shaimaa el-Sabbagh. La Corte di Alessandria ha poi prosciolto, l’ufficiale, Hossam El-Shennawy, detenuto con l’accusa di aver torturato a morte, Sayed Bilal nel gennaio del 2011.
Questo muro contro muro delle autorità egiziane che in nessun modo sembrano interessate ad arginare lo stato di polizia in cui vive il paese arriva mentre l’allerta sicurezza, innalzata sin dal 25 gennaio, quando Giulio Regeni è scomparso in occasione del quinto anniversario dalle rivolte del 2011, non si è affatto placata in Egitto.
La seconda conferenza economica di Sharm el-Sheikh, prevista per maggio, è in via di cancellazione. La stessa cosa era accaduta la scorsa settimana con il World Economic Forum (Wef). In questa fase, il Cairo è in contatto con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per stabilire le condizioni per il nuovo prestito. Non solo sarebbero dovuti essere siglati contratti miliardari con l’italiana Eni in merito alla gestione del prospetto esplorativo Zohr IX, il maxi giacimento di gas che cambierà gli assetti economici nel Mediterraneo orientale.
Ma sono tutti gli egiziani a sembrare davvero poco soddisfatti della presidenza al-Sisi dopo la bassissima partecipazione elettorale alle ultime elezioni presidenziali e parlamentari. Non sono solo i medici a protestare per le violenze che sono costretti a subire da parte della polizia per falsificare i loro report sulle torture. Si sono uniti a loro anche gli studenti universitari. Le elezioni studentesche sono state annullate dalle autorità egiziane.
Secondo molti studenti della coalizione Voce dell’Egitto, i risultati del voto annullato non avrebbero garantito le intenzioni del governo di mettere le mani sugli atenei. Dopo il golpe militare, le università sono state veri centri di opposizione. I movimenti studenteschi più intransigenti si sono concentrati negli atenei di Ayn Shamps e al-Azhar, università tradizionalmente vicine ai Fratelli musulmani.
Secondo gli attivisti universitari, le autorità non permettono agli studenti detenuti di sostenere gli esami. Alcuni membri delle associazioni legate al gruppo Egitto Forte nelle università hanno anche accusato le amministrazioni accademiche di impedire ai membri dei gruppi giovanili della Fratellanza musulmana e di 6 aprile di prendere parte alle elezioni studentesche.
Infine, anche i ricercatori egiziani, dopo i dipendenti pubblici, sono scesi in piazza per protestare contro disoccupazione e precarietà per lavoratori qualificati.
La Repubblica, 18 febbraio 2016
La benedizione del Papa nel punto esatto dove passa la frontiera tra Stati Uniti e Messico. Le sue dita che, sotto una croce di legno piazzata lungo il Rio Bravo, si tendono a salutare i 50 mila accalcati al confine americano, uniti ai 200 mila nella parte messicana. Un gesto che genera grande emozione. La gente piange, agita i fazzoletti, in aria volteggiano nel più totale silenzio due elicotteri di parti diverse, quasi uno di fronte all’altro. «Nessuna frontiera potrà impedire di unirci. Grazie, fratelli e sorelle, per sentirci una sola famiglia e una stessa comunità cristiana».
È una messa per tutti. Al di qua e al di là del confine. In una terra immersa nella violenza delle bande di narcotrafficanti. Di qua Ciudad Juarez, oggi una delle città più sanguinose al mondo. Di là El Paso, la mèta agognata. In mezzo, un reticolato. E i migliaia che tentano di fuggire ogni giorno. La celebrazione di Francesco è la prima di un Pontefice a cavallo fra due Paesi, con l’altare posto ad appena 80 metri dalla linea di demarcazione.
È questa l’ultima immagine di Francesco in questi suoi sei giorni di viaggio in Messico. Lungo la rete di metallo che separa lo Stato del Texas da quello del Chihuahua, il Pontefice argentino ha per tutti parole di conforto: «Qui a Ciudad Juárez si concentrano migliaia di migranti dell’America Centrale. Un cammino carico di terribili ingiustizie: schiavizzati, sequestrati, molti nostri fratelli sono oggetto di commercio».
«Non possiamo negare la crisi umanitaria — dice Bergoglio — negli ultimi anni ha significato la migrazione di migliaia di persone, in treno, in autostrada, anche a piedi attraversando centinaia di chilometri per montagne, deserti, strade inospitali. Questa tragedia umana che la migrazione forzata rappresenta, è un fenomeno globale. Questa crisi, che si può misurare in cifre, noi vogliamo misurarla con nomi, storie, famiglie. Sono fratelli e sorelle che partono spinti dalla povertà e dalla violenza, dal narcotraffico e dal crimine organizzato. Ingiustizia che si radicalizza nei giovani: loro, come carne da macello, sono perseguitati e minacciati quando tentano di uscire dalla spirale della violenza e dall’inferno delle droghe ». Solo un’ora prima, in un incontro con il mondo del lavoro, aveva detto basta allo sfruttamento: «Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni».
Le statistiche dicono che oggi Ciudad Juarez è più violenta di Caracas. Sede di 950 pandillas, le bande armate che infestano il Messico, è tristemente famosa per le migliaia di donne scomparse, prelevate soprattutto dalle fabbriche clandestine. I racconti di questa gente parlano di ponti sulle strade dove pendono cadaveri impiccati, corpi infilzati, teste mozzate.
E allora Francesco va a incontrare i detenuti nel carcere Cereso 3, istituto con 3.600 prigionieri. Qui scontano la pena sicari, membri delle gang, assassini. In 30, distintisi per buona condotta, lo salutano e gli stringono la mano. Il Papa compare dietro il filo spinato. «Non rimanete prigionieri del passato. Alzate la testa e lavorate per la vostra libertà. Chi sperimenta l’inferno può essere profeta nella società. Non parlo dalla cattedra, ma dall’esperienza dei miei peccati».
E nemmeno in viaggio la diplomazia di Francesco si ferma. Una delegazione vaticana, in visita all’università islamica al-Azhar del Cairo, riapre i canali dopo i rapporti difficili degli anni scorsi. Ora il Papa è disposto a ricevere il Grande Imam egiziano.
Il manifesto, 18 febbraio 2016
Nessun luogo su questo confine crudele ne è forse un simbolo quanto la città divisa di El Paso/Ciudad Juarez un agglomerato binazionale di quasi 4 milioni di abitanti tagliata a metà dalla frontiera internazionale. Da El Paso l’originale governatore spagnolo Don Juan De Oñate lanciò la spedizione che avrebbe finito per massacrare gli indiani Pueblo (per sedare una rivolta ad ogni maschio adulto venne tagliato il piede sinistro). Il presente di Ciudad Juarez esprime violenze altrettanto efferate nella sanguinosa narco-guerra che ne fece la «capitale mondiale degli omicidi».
Questo luogo è stato il terminale del viaggio pastorale più simbolico ad oggi di Papa Francesco. La violenza più didascalica della frontiera — e cioè di tutte quelle che disegnano le ingiuste divisioni del pianeta — è contenuta nell’abisso fra i due lati contigui, la quasi allegorica differenza fra ricchezza texana e miseria messicana. Su questa soglia che unisce e divide due mondi, è venuto ad inginocchiarsi il papa scegliendo di farlo nel momento in cui sul lato settentrionale, ricco e potente, è in corso una elezione che amplifica le contraddizioni espresse da questa frontiera.
I latinos, su entrambi i lati del confine, sono ancora una volta al centro della retorica politica grazie alle invettive di Donald Trump ma anche quelle di Ted Cruz e Marco Rubio, che pur di origine cubana fanno a gara per superarsi come paladini anti-immigrazione. Nell’etere sotto il cielo impossibilmente stellato del deserto il fiele corre sulle onde medie, quelle delle radio conservatrici che vomitano la propria rabbia contro «quelli che vengono a rubarci il paese» e contro il presidente «traditore musulmano e comunista» che li accoglie . È la paura viscerale che gonfia i sondaggi di Trump esacerbata in questi giorni dalla morte di un santo protettore dell’«America di una volta», Antonin Scalia, àncora reazionaria della corte suprema.
Con Scalia viene meno il controllo conservatore della Corte suprema, cruciale per smontare la «legacy» di Obama . Nel panico, la destra annuncia il boicottaggio di una nomina di un nuovo giudice da parte del presidente. Ma l’ostruzionismo a priori obbliga i repubblicani a scoprirsi e il costo politico per i candidati potrebbe essere molto alto, in particolare proprio fra gli ispanici. Fra le pratiche al vaglio della corte suprema infatti c’è anche il progetto di amnistia parziale agli immigrati e richiedenti asilo. Il «filibuster» ad oltranza dei repubblicani del congresso si tradurrebbe quindi, in un anno elettorale, in affronto potenzialmente suicida al 17% della popolazione.
Obama martedì ha denunciato il boicottaggio repubblicano come sabotaggio della stessa democrazia. «È la misura del rancore che rende impossibile governare» ha dichiarato. Intanto i latinos del Sudovest potrebbero essere determinanti anche in campo democratico nelle primarie contese fra Hillary e Bernie Sanders. Sabato prossimo si voterà in Nevada dove gli ispanici sono un quarto della popolazione e costituiscono in particolare una alta percentuale nei sindacati, tradizionali sostenitori clintoniani.
La presenza di Franscesco sulla soglia simbolica di un occidente sempre più chiuso contro i diversi è stata dunque la più significativa del suo papato. Non a caso Donald Trump da giorni la denuncia come un ingerenza negli «affari interni» della sua campagna xenofoba. Di sicuro si è trattato di un atto profondamente politico, giunto al termine di un pellergrinaggio simbolico che ha ripercorso in Messico i passi dei migranti dalle alture indigene del Chiapas attraverso lo stato Purepecha del Michoacan, le favelas di Città del Messico fino al Rio Grande dove, 400 anni dopo che i frati francescani benedissero il genocidio, Bergoglio ha tenuto a benedire un gruppo di immigrati attraverso quel reticolato che vuole dividere fisicamente ricchi e diseredati.
L’abbattimento simbolico di uno di quei confini che il papa ha chiaramente definito monumenti all’esclusione.
a Repubblica, 17 febbraio 2016
«I quattro paesi di Visegrad sono il nuovo Asse. Il nemico è Angela Merkel, simbolo forte dell’Europa liberale ». Lo dice Agnes Heller, filosofa ungherese che è stata il massimo esponente della Scuola di Budapest e rimane la leader storica dell’intellighenzia critica del centro-est europeo.
Questi no all’Europa raccolgono ampi consensi in patria: che cosa sta succedendo nel centro-est dell’Europa?
«Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia ricordano il vecchio Asse. Non sono uniti da valori ma dall’identificare un nemico comune: il cuore della Ue, soprattutto la Germania, contro cui sono in guerra per imporre le loro ideologie illiberali e prendere la guida dell’Europa insieme a forze a loro affini. È una sfida lanciata a liberal, progressisti, conservatori, a tutti i veri europei».
Il no ai migranti non è l’obiettivo principale?
«È piuttosto strumento della loro guerra: criminalizzano migranti e profughi per criminalizzare Angela Merkel che, dicono, accogliendoli sul suolo europeo distrugge la loro idea d’Europa. È guerra tra diverse parti dell’ex impero sovietico e le democrazie dell’Europa occidentale e meridionale. Vincerà chi avrà il controllo della Ue».
Merkel primo bersaglio, dunque: perché?
«Perché è e rimane il personaggio più forte, centrale, dell’Unione europea. Nella partita in corso, lei è come il Re negli scacchi. Devono riuscire a darle scacco per trasformare la Ue in una “Europa delle patrie” rette da sistemi illiberali nazionali, di cui Orbàn e i suoi migliori alleati, i governanti polacchi, parlano. Scacco al re, anzi regina in questo caso, nel nome di nazionalismo e onnipotenza degli Stati nazionali, il vero male del Ventesimo secolo, a mio modo di vedere».
Ma sono comunque popolarissimi in patria: perché?
«Perché gli elettori da noi sono frustrati e depressi, sebbene non manchi chi scende in piazza per protestare contro questi governi antiliberali. È sempre facile in Europa orientale, dove esistono persino opposizioni a destra di Orbán o del PiS polacco, giocare la carta del nazionalismo, dire che occorre resistere ai diktat in arrivo da fuori. Il potere è così forte da creare oligarchi che poi lo sostengono».
I cittadini condividono dunque il no alla solidarietà europea dei loro politici?
«Purtroppo, giocando la carta della resistenza nazionalista contro presunti ricatti di Bruxelles o Berlino, hanno distrutto il principio stesso della solidarietà, legame e valore fondamentali dell’Europa. Vogliono tutto dalla Ue, ma non danno nulla in cambio. La gente dimentica gli ingenti aiuti e investimenti europei. E l’egoismo degli Stati nazionali, definiti da Nietzsche “bruti che si servono da sé”, distrugge i valori costitutivi europei. Ma in patria slogan e propaganda convincono ».
Quanto è pericoloso tutto questo?
«Molto, perché le democrazie occidentali si stanno mostrando deboli a fronte di questi semi-dittatori. Germania, Francia, Italia, in quanto Stati liberali, non sono portati ad assumere linee dure o sanzioni. Se resteranno deboli, l’Asse e i suoi potenziali seguaci potranno davvero mettere a rischio la Ue e i suoi principi»
L’Europa democratica dovrebbe reagire più duramente?
«Non so come dovrebbe reagire, ma so che deve mostrarsi forte. Difendere i suoi valori. E capire la serietà della sfida illiberale di cui Orbán è l’ideatore: lui invita tutti a non sentirsi più innanzitutto europei. Nel futuro non temo certo guerre europee, ma sostengo che il virus illiberale e demagogico potrà diffondersi e minare le fondamenta democratiche dell’Europa, contando sulla capacità di condizionare l’elettorato con un messaggio forte e populista».
Sbilanciamoci.info, Newsletter n. 461, 16 febbraio 2016
Alzate le barriere contro i migranti, o alzeremo quelle tra i paesi europei. E’, in estrema sintesi, il messaggio contenuto nel dossier sullo stato dei lavori previsti dall’Agenda sulle migrazioni, redatto dalla Commissione europea diffuso mercoledì 10 febbraio. Un documento in cui si mette in discussione uno dei pilastri dell’Unione Europea, ossia la libera circolazione: la Commissione minaccia infatti di bloccare Schengen per due anni qualora la Grecia, uno dei paesi in cui la pressione migratoria è attualmente più forte, non si adegui ai dettami europei.
Ad Atene la Commissione europea rivolge le critiche più forti, sollecitando maggiori controlli alle frontiere per evitare che i migranti si spostino verso gli altri paesi europei.Non è una richiesta astratta: entro tre mesi Tsipras dovrà presentare un piano per il controllo dei confini, facilitando anche il lavoro dei funzionari Frontex già presenti, e di quelli che secondo la Commissione dovrebbero ancora arrivare. All’interno del piano la Grecia dovrebbe, secondo le richieste europee, predisporre delle strutture di “accoglienza” dei richiedenti asilo che, sfuggiti ai controlli ellenici, si sono già spostati in altri paesi europei, Germania e Svezia in testa: il trasferimento dei migranti risponderebbe alla restaurazione, in Grecia, del regolamento Dublino, finora bloccato da alcune sentenze emesse nel 2011 dalla Corte europea dei diritti umani, a causa delle indegne condizioni di accoglienza riscontrate in territorio ellenico.
Date le gravi difficoltà economiche in cui versa la Grecia, l’Unione prevede un’assistenza in collaborazione con il sostegno operativo dell’Unhcr: la Commissione ha infatti già approvato lo stanziamento di 80 milioni di euro per sostenere le capacità di accoglienza del paese, portandole di 50.000 posti. Una missione “umanitaria” che ha, paradossalmente, l’obiettivo di allontanare persone in difficoltà dal territorio europeo, in un paese da anni stretto nella morsa della crisi, messo in ginocchio da pesanti misure di austerity e con il tasso di disoccupazione al 25%.
Se la Grecia non dovesse dar seguito ai punti sollevati dalla Commissione, il rischio concreto è la reintroduzione delle frontiere interne per un periodo di due anni.
Anche l’Italia viene bacchettata sui controlli, in particolare in relazione alla questionehotspots: solo due dei sei previsti sono attivi. Proprio per superare i problemi amministrativi e i ritardi legati alla scelta dei siti, la Commissione mette a disposizione una squadra mobile europea, per la rapida creazione di una nuova struttura nella Sicilia orientale. La pressione sugli hotspots va di pari passo con la necessità, tutta europea, di procedere alle registrazioni e conseguentemente a riallocazioni o rimpatri -sempre in base alla discutibile divisione tra migranti economici e profughi, arbitrariamente decisa dalle istituzioni europee- e di evitare che i migranti si spostino negli altri paesi membri. E’ in quest’ottica che la Commissione sottolinea la possibilità di usare la forza per effettuare i rilievi dattiloscopici, e arrivare così all’obiettivo europeo: pur riconoscendo un incremento della registrazione delle impronte digitali – dall’8% nel settembre 2015 al 78% nel gennaio 2016 in Grecia, e dal 36% del settembre 2015 all’87% nel mese di gennaio 2016 in Italia – l’Unione sollecita il raggiungimento del 100% dei rilievi entro il summit europeo previsto per marzo. Ed è sulle deportazioni che l’Europa insiste particolarmente: gli oltre 14mila rimpatri forzati effettuati dall’Italia nel 2015, e la partecipazione a 11 voliorganizzati da Frontex, non sarebbero sufficienti, secondo la Commissione, a fronte di oltre 160mila arrivi registrati lo scorso anno. E’ in quest’ottica che l’Europa chiede di intervenire sulla legge nazionale, allungando i tempi di trattenimento, non considerando gli attuali 90 giorni idonei alla chiusura delle pratiche per i rimpatri. Una pressione esplicita ad ampliare (di nuovo!) quel sistema dei centri di identificazione ed espulsione che nel nostro paese ha dato luogo a gravi violazioni dei diritti umani, a numerose proteste delle persone detenute e a un business sconfinato spesso nell’uso improprio di risorse pubbliche.
Se a Grecia e Italia viene rimproverato di non alzare muri abbastanza alti per evitare l’ingresso dei migranti in Europa, gli altri stati membri vengono richiamati sull’unico punto in cui l’Unione poteva effettivamente fare la differenza in merito all’accoglienza, ossia le ricollocazioni. Un aspetto che è stato a lungo discusso nelle diverse sedi istituzionali, senza però tradursi in una soluzione concreta. A dirlo sono i numeri: dei 160mila migranti che i paesi europei avrebbero dovuto accogliere da Italia e Grecia, all’8 febbraio 2016 risultano partite solo 279 persone da Roma e 218 da Atene.
Sollecitando l’applicazione di processi di “responsabilità e solidarietà” tra paesi membri, la Commissione ha comunque definito ancora una volta la posizione dell’Europa rispetto ai migranti: “Deve essere chiaro alle persone che arrivano nell’Unione – si legge nel dossier -che se necessitano di protezione la riceveranno, ma non potranno decidere dove. E se non sono qualificate per riceverla, saranno rimpatriate”.
Il tema dell’accoglienza non è praticamente nominato: e questo nonostante ilcatastrofico panorama internazionale non accenni alcun miglioramento. Solo considerando il conflitto siriano in corso da cinque anni, sarebbero 470.000 i civili morti a causa della guerra e delle sue conseguenze, come la mancanza di cure mediche, cibo e acqua; l’11,5% della popolazione siriana è rimasto ucciso o ferito dall’inizio, nel marzo 2011, della guerra; l’aspettativa di vita è calata dai 70 anni del 2010 ai 55 del 2015 (dati diffusi dal Centro siriano per la ricerca politica -Scpr). Per quanto riguarda i viaggi verso l’Europa, le stragi non sembrano diminuire: lunedì scorso ventisette persone – tre le quali undici bambini – hanno perso la vita nel naufragio dell’imbarcazione su cui viaggiavano, provando a raggiungere l’isola greca di Lesbo dalle coste turche. Un altro naufragio al largo della Turchia ha provocato la morte di altre undici persone.
Le fredde righe partorite dalla tecnocrazia europea nascondono una responsabilità politica precisa dei Governi europei: quella di imprigionare donne uomini e bambini sotto le bombe di paesi come la Siria o di affidare i loro destini alla variabilità delle condizioni meteorologiche. Muri, hot-spot, identificazioni forzate sono nient’altro che strumenti di morte che l’Europa chiede di usare proprio ai paesi membri più esposti all’attuale pressione migratoria.
Un vero e proprio ricatto, considerando i pesanti problemi economici che potrebbero derivare dall’abbandono di Schengen.
«La Repubblica, 15 febbraio 2016 (m.p.r.)
«». Il manifesto
Una testimonianza che conalida le molte verità che sono già emerse, quelle che non emergeranno mai e i vizi di quella del «potere pseudo-democratico» di cui inostri governanti "democratici" sono complici.
La Repubblica, 15 febbraio 2016
Di certo c’è solo che è morto. Quel che il giornalista Tommaso Besozzi scrisse a proposito della fine del bandito Giuliano, sbugiardando la versione ufficiale, si può scrivere oggi per Giulio Regeni. Possiamo purtroppo aggiungere altre due certezze. La seconda è che le responsabilità vanno cercate negli stessi apparati di polizia che indagano o fingono di indagare o sviano le indagini sull’accaduto. La terza è che questa verità, pur sotto gli occhi, non sarà mai su carta, nero su bianco, conclamata e capace di conseguenze agli opportuni livelli, dai garage dove avvengono le torture alle terrazze da cui si vede il Nilo. Fa male quanto le altre considerazioni ammettere che in questi casi si diffonde una sorta di fatalismo di Stato, una ragion deviante che accompagna le traiettorie di un’inchiesta, curva dopo curva, verso il vicolo cieco, un muro di mattoni su cui sta scritto a spray: dimenticare conviene. È già accaduto altre volte, accadrà ancora, anche questo sappiamo.
Chissà quando si aprirà l'armadio nel quale (supponiamo a Bruxelles) sono conservati gli atti della vergogna di questo secolo, la strage dei migranti?
Ilsole24ore.com, 15 febbraio 2015
L’Armadio della vergogna sarà desecretato da domani. Si tratta dei documenti rivenuti nel 1994 fra cui si trovano 695 fascicoli d'inchiesta e un registro generale con 2.274 notizie di reato relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazifascista. I documenti saranno desecretati secondo la “direttiva Renzi” e sono destinati ad apparire sul canale dell'archivio storico della Camera.
Da domani consultabile l’elenco
Da domani, dunque, sul sito internet dell'Archivio storico della Camera dei deputati, all'indirizzo http://archivio.camera.it/, sarà possibile consultare l'elenco e richiedere copia dei documenti declassificati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti che nella XIV legislatura si è occupata della vicenda del cosiddetto «armadio della vergogna». Istituita con la legge 107/2003, la Commissione aveva il compito di indagare sulle anomale archiviazioni provvisorie e sull'occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, contenenti denunce di crimini nazifascisti, commessi nel corso della seconda guerra mondiale e riguardanti circa 15mila vittime.
Boldrini: un nuovo capitolo del percorso di trasparenza di Montecitorio
«Sono contenta che il percorso di trasparenza di Montecitorio si arricchisca di un nuovo e importante capitolo - ha commentato la presidente Laura Boldrini - perché un Paese veramente democratico non può avere paura del proprio passato». A seguito di specifiche sollecitazioni della presidenza della Camera alle varie autorità che le avevano redatte originariamente, sono state declassificate e rese ora consultabili. Si tratta di documenti che la Commissione d'inchiesta ha acquisito dagli archivi del ministero degli Affari esteri, del ministero della Difesa, dell'allora Servizio informazioni e sicurezza militare (Sismi), del Consiglio della magistratura militare e del Tribunale di Roma. La disponibilità di questi documenti completa e integra i testi dei resoconti delle sedute della Commissione che erano già stati pubblicati in rete in corso di svolgimento, fra l'8 ottobre 2003 e il 16 febbraio 2006, e che sono tuttora consultabili nel testo integrale all'indirizzo http://legxiv.camera.it/_bicamerali/nochiosco.asp?pagina=/_bicamer ali/leg14/crimini/home.htm
Due articoli sull'inquietate vicenda dei droni killer impiegati dagli Usa per la guerra di Libia: la guerra non dichiarata divampa, e il PIL cresce
La base siciliana di Sigonella si prepara ad ospitare uno dei principali centri al mondo per il comando, il controllo satellitare e la manutenzione di tutti i droni delle forze armate statunitensi. Il 14 novembre 2015 il Naval Facilities Engineering Command Office per l’Europa e l’Asia sud-occidentale della Marina militare Usa con sede a Napoli ha pubblicato il bando di gara per la realizzazione nella stazione aeronavale n. 2 di Sigonella (NAS 2) dell’UAS SATCOM Relay Pads and Facility, un sito fornito di tutte le attrezzature necessarie a supportare le telecomunicazioni via satellite del Sistema degli aerei senza pilota (Unmanned Aircraft System - UAS) e assicurare “lo spazio per la gestione delle operazioni e delle attività di manutenzione” dei droni in dotazione all’US Air Force e all’US Navy. Il bando, classificato con il codice n. 3319116r1007, prevede la demolizione e la rimozione delle vecchie infrastrutture ospitate nell’area e la realizzazione del nuovo centro per il controllo satellitare dei velivoli senza pilota con relative strade d’accesso per un importo compreso tra i 10 e i 25 milioni di dollari. La società contractor dovrà consegnare i lavori entro 550 giorni dalla stipula dell’accordo con il Dipartimento della marina statunitense.
Il progetto per realizzare in Sicilia l’UAS SATCOM Relay Pads and Facility era stato presentato la prima volta al Congresso nell’aprile del 2011, ma l’approvazione è giunta solo in occasione della predisposizione del bilancio per le costruzioni militari per l’anno fiscale 2016. “Nel nuovo centro saranno installati dodici ripetitori UAS SATCCOM con antenne, macchinari e generatori di potenza con la possibilità di aggiungere altri otto ripetitori della stessa tipologia”, è riportato nella scheda progettuale fornita dal Dipartimento della difesa. “Il progetto prevede inoltre tutti i sistemi infrastrutturali, meccanici, elettrici, stradali, di prevenzione incendi ed allarme per supportare il sito per le comunicazioni satellitari”.
“Il Sistema degli aerei senza pilota richiede un’ampia facility che assicuri la massime efficienza operativa durante le missioni di attacco armato e di riconoscimento a supporto dei war-fighters”, aggiunge il Pentagono. “La costruzione di una SATCOM Antenna Relay facility è necessaria per supportare i link di comando dei velivoli controllati a distanza, in modo da collegare le stazioni terrestre presenti negli Stati Uniti con gli aerei senza pilota operativi nella regione dell’Oceano atlantico. Con il completamento di questo progetto saranno soddisfatte le richieste a lungo termine di ripetitori SATCOM per i “Predator” (MQ-1), i “Reaper” (MQ-9) e i “Global Hawk” (RQ-4). Il nuovo sito supporterà inoltre il sistema si sorveglianza aeronavale con velivoli senza pilota UAV Broad Area Maritime Surveillance (BAMS) di US Navy e le missioni speciali del Big Safari di US Air Force”. Il programma BAMS vede l’acquisizione di una quarantina di droni di ultima generazione “Global Hawk” da schierare nelle stazioni aeronavali di Jacksonville (Florida), Kadena (Giappone), Diego Garcia, Hawaii e Sigonella; il Big Safari è invece un articolato programma di acquisizione, gestione, potenziamento di speciali sistemi d’arma avanzati (velivoli senza pilota, grandi aerei da trasporto e per le operazioni d’intelligence e riconoscimento, ecc.) coordinato dal 645th Aeronautical Systems Group dell’US Air Force con sede nella base di Wright-Patterson (Ohio).
I droni-spia e i droni-killer che opereranno sotto il controllo del nuovo centro di Sigonella saranno utilizzati per le missioni pianificate dai comandi strategici di Eucom, Africom e Centcom, in modo da fornire in tempo reale le “informazioni più aggiornate ai reparti combattenti”. “Il sito di Sigonella garantirà la metà delle trasmissioni del Sistema dei velivoli senza pilota UAS e opererà in appoggio al sito di Ramstein (Germania)”, aggiunge il Pentagono. “Senza l’UAS SATCOM Relay Site gli aerei senza pilota non saranno in grado di effettuare le loro missioni essenziali, non potranno essere sostenuti gli attacchi armati e si verificherà una riduzione significativa delle capacità operative odierne e un impatto negativo grave per le future missioni d’oltremare”.
La stazione per il controllo satellitare dei droni di Ramstein è stata completata nel secondo semestre del 2013 all’interno della foresta che sorge nei pressi del grande impianto di baseball utilizzato dal personale militare Usa di stanza nella grande installazione tedesca. Secondo quanto riportato in una lunga inchiesta pubblicata nell’aprile 2015 da The Intercept, il giornale fondato da Glenn Greenwald, l’UAS Satcom Relay di Ramstein è il vero “cuore hi-teach della guerra Usa dei droni”. “Ramstein fa viaggiare sia il segnale satellitare che dice al drone cosa fare sia quello che trasporta le immagini che il drone vede”, aggiunge The Intercept. “Questi dati viaggiano attraverso i cavi sottomarini a fibra ottica, ma è grazie al sistema UAS Satcom che il segnale riesce a viaggiare senza ritardi in modo da permettere ai piloti di manovrare un velivolo a migliaia di chilometri con la necessaria tempestività”. Dalla stazione di Ramstein i segnali sono trasmessi ai satelliti militari operanti nello spazio in banda Ku e alla grande base aerea di Creech (Nevada), la principale centrale di US Air Force per le operazioni planetarie dei droni. Il nuovo UAS Satcom Relay di Sigonella opererà come stazione “gemella” dell’infrastruttura ospitata in Germania, assicurando l’“indispensabile” backup alle operazioni d’intelligence e di telecomunicazione satellitare di Ramstein.
A Sigonella sarà realizzata pure un’ampia area per la sosta dei velivoli senza pilota USA. “Il costo delle infrastrutture di supporto è superiore del 25% di quanto calcolato preventivamente perché la facility deve essere realizzata in un’area sottosviluppata e delicata dal punto di vista ecologico”, spiega il Pentagono. “La SATCOM Communications Support Facility avrà un’estensione di 1.200 metri quadri e non potrà contare sull’apporto finanziario della NATO”. Quando la nuova stazione entrerà in funzione, verranno trasferiti a Sigonella 55 militari e 58 dipendenti civili dell’US Air Force.
La base aereonavale siciliana ospita stabilmente dal 2009 alcuni droni-spia “Global Hawk” della Marina Usa e dal 2013 pure uno stormo di droni-killer MQ-1 “Predator” dell’US Air Force, utilizzati per le incursioni in Libia, Somalia, Regione dei Grandi Laghi, Mali e Niger. A partire dal prossimo anno, Sigonella farà pure da centro di comando e controllo dell’AGS - Alliance Ground Surveillance, il nuovo programma di sorveglianza terrestredella NATO che verterà su una componente aerea basata su cinque velivoli a controllo remoto “Global Hawk” versione Block 40, che saranno installati anch’essi in Sicilia.
13 febbraio 2016
I GRANDI AFFARI DEI PROGETTISTI DEL CENTRO DRONI USA ASIGONELLA
«L’economista ed ex ministro delle finanze greco parla del Movimento per la democrazia in Europa lanciato a Berlino. "La tempesta perfetta del 2015 allarma anche chi non aveva posizioni critiche sull’Unione. C’è spazio per nuove coalizioni"». Il manifesto,
Hai parlato in questi giorni dell’austerità come una forma di “guerra di classe” dall’alto. Ma quali forze oggi possono essere messe in campo dal basso non solo per difendersi dall’attacco ma per esercitare un reale potere costituente?
«Molti compagni e amici mi hanno rimproverato un riferimento troppo generico alla democrazia. Ma pensate alla definizione che ne ha dato Aristotele, il quale non era certo un democratico: il governo dei liberi e dei poveri. È una buona definizione: i poveri, i subalterni, gli sfruttati sono la maggioranza. E dunque una democrazia reale non può che essere dominata dai movimenti dei poveri. Le democrazia liberali, che hanno le loro radici nella tradizione della Magna Charta, sono state certo un’altra cosa. La Magna Charta è una carta dei baroni, dei proprietari terrieri contro il Re, che garantiva loro di avere i propri servi e di non vederseli portare via dal sovrano. La democrazia liberale ha questo pedigree. Questa democrazia è arrivata ai suoi limiti con il capitalismo finanziarizzato. Un movimento democratico oggi è per definizione un movimento che punta a mettere fine alla guerra di classe dall’altro organizzando un contrattacco dal basso».
«Se è la stabilizzazione il problema basilare in Europa, questa non è possibile senza la crescita tumultuosa di un movimento democratico. I poteri esistenti non ne sono in grado. Immaginate un movimento che imponga alla Banca centrale di cominciare ad acquistare il debito della Banca Europea per gli Investimenti anziché quello tedesco o italiano, per finanziare un ambizioso Green New Deal per l’Europa. Invece di stampare moneta per i circuiti del capitale finanziario, la creazione di moneta andrebbe a finanziare la cooperazione produttiva, a creare posti di lavoro in settori innovativi, ponendo al tempo stesso condizioni favorevoli per l’organizzazione e la lotta dei lavoratori e contrastando la mercificazione e la precarizzazione del lavoro».
«La disintegrazione dell’Ue è qualcosa di inedito, contraddice una storia fondata sul progressivo avanzamento dell’integrazione. Per questo c’è bisogno di uno strumento nuovo. I partiti di sinistra europei hanno la loro base negli Stati nazionali, e il Gue ne costituisce una sorta di confederazione, che non mette in discussione il fondamento nazionale. È una delle ragioni della loro impotenza. Non è una questione di cattiva volontà: sono costretti ad articolare programmi di governo che non potranno mai essere attuati. Se questa diagnosi è corretta una piattaforma comune per i democratici in Europa deve essere costruita attraverso un’azione politica che non abbia la propria base negli Stati nazionali. E non può essere un partito, per definizione gerarchico. I militanti dei partiti di sinistra possono aderire a DiEM e continuare a militare nel loro partito nazionale. Ma in DiEM affrontiamo i nostri problemi comuni indipendentemente dalla affiliazione partitica o dalle convinzioni filosofiche di ciascuno. La risposta alla vostra domanda non potrà che essere trovata gradualmente. È un work in progress. Come diceva Brian Eno alla Volksbühne martedì, se non hai una ricetta comincia a cucinare, la ricetta arriverà».
«Abbiamo già annunciato una petizione, indirizzata ai Presidenti dell’Eurogruppo, del Consiglio Europeo e della Bce, chiedendo che assicurino lo streaming delle loro riunioni (alla Bce chiediamo di fare quello che fa la Federal Reserve: rendere pubblici i verbali delle riunioni due settimane dopo che si sono tenute). Sarà anche un’occasione per cominciare a organizzare il movimento attorno a una campagna concreta. Stiamo cominciando a costituire gruppi di lavoro per costruire una piattaforma digitale che ci consenta di intervenire nel dibattito pubblico e di articolare il nostro lavoro. Abbiamo poi individuato cinque aree tematiche, di cruciale importanza per il futuro dell’Europa: il Green New Deal, la questione del debito e del sistema bancario, le migrazioni e i confini, la trasparenza e il tipo di Costituzione di cui l’Europa ha bisogno. Vogliamo arrivare nel giro di un anno ad avere cinque policy papers su questi temi. Cominceremo con il comporre un elenco di problemi e di domande per ciascuna di queste aree tematiche, per poi lanciare una grande campagna di consultazione in diverse sedi e in diversi Paesi. Da queste riunioni emergeranno proposte che verranno “filtrate” e “ricombinate” da gruppi di lavoro che sottoporranno il risultato a grandi assemblee tematiche. Queste assemblee voteranno un documento finale, che sarà poi sottoposto al giudizio di tutti i membri di DiEM. È un processo che può essere definito di democrazia in azione, da cui emergerà un vero Manifesto di DiEM, non una semplice dichiarazione di principi».