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«Drammi storici. Pubblicata la piéce sulla rivolta dei Ciompi "Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze" di Jeremy Lester. Testo sul passato che proietta la sua attualità sul presente».

Il manifesto, 24 dicembre 2015

È giugno a Parigi, corre l’anno 1848. La famiglia Tocqueville è a tavola, in una casa signorile della rive gauche. Tuona il cannone sull’altra riva della Senna, la canaglia operaia sarà infine sconfitta e massacrata. Ma il terrore serpeggia in casa Tocqueville, tanto forte è l’impressione destata dall’insurrezione armata proletaria. A una giovane cameriera, che arriva proprio dal Faubourg Saint-Antoine, uno degli epicentri della rivolta, sfugge un sorriso. Sarà licenziata immediatamente, ma quel sorriso – lo ha ricordato anni fa Toni Negri, discutendo Spettri di Marx di Jacques Derrida – rimane una splendida incarnazione dello spettro del comunismo che avrebbe a lungo turbato i sonni della borghesia.

È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.

Il sorriso dell’oppressa

Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».

La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, 14 euro). È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine – capitale avventuroso o magari venturoso»).

Le storie di Machiavelli

Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, … perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.

Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia De’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».

È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri. E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.

Il divenire della mutazione

L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro». «Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».

I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».

l manifesto, 24 dicembre 2015



CARA SINISTRA, È FINITO
IL PARTITO MONOTEISTA
di Lidia Menapace
Sinistra italiana. Accettare la sfida della complessità, dove ogni soggetto si riconosce come punto di partenza

Non riesco ad appassionarmi al «dibattito politico» in corso. La mia freddezza dipenderà certo dal cattivo carattere storicamente noto, ma ha anche una ragione «oggettiva»: ed è che la sua misura a me pare inferiore alla gravità e modestissima di fronte all’ampiezza delle questioni cui dovrebbe rispondere.

Cerco di dare un minimo di giustificazione critica a questo assunto per ora solo dichiarato. Si può oggi cercar dire qualcosa di «politico» senza ricordarsi che stiamo con un piede già in una guerra, e non occorre dire altro, per evocare tutti i peggiori fantasmi della nostra memoria?

Ma per non ammutolire, perché nessuno si chiede prioritariamente se qualcuno si ricorda ancora dell’articolo 11 della Costituzione che afferma perentoriamente «L’Italia ripudia la guerra» in qualsiasi forma, quella di aggressione che facemmo nella seconda mondiale, e pure quella detta difensiva in occasione di controversie internazionali nelle quali magari potremmo pure avere ragione?

Anche in questo caso dobbiamo ricorrere ad altri strumenti. Sembrava che questo comma dell’11 fosse decaduto per «costituzione materiale» come viene dolcemente chiamata la modifica di fatto della nostra Costituzione, e non nelle forme costituzionalmente previste, bensì per diritto consuetudinario, che peraltro non è il nostro. Capita però che Gentiloni e Kerry trovino invece una proposta per la questione libica di tipo politico e non militare e l’11 Cost. torna in vigore, evviva!

Dobbiamo fare novene a santa Rita, la santa degli impossibili, o a san Gennaro o a padre Pio, a seconda delle superstizioni che ciascuno in qualche modo osserva ? Francamente è troppo aleatorio e comunque certo «non scientifico»: non può essere gabellato per una risposta a Lenin.

Allora appunto: «Che fare?» Affrontare la questione delle forme della politica, che non è una banalità, ma un elemento fondativo per qualsiasi decisione o proposta.

Per non farla troppo lunga, mi ricordo che la questione delle forme della politica e specificamente quella che veniva chiamata alcuni decenni fa la questione della «forma/partito», è appunto annosa: mi appartiene dunque perché — se parlo io — è certo per Storia antica o per «gerontocrazia». Termini peraltro meno sgradevoli che «rottamazione».

Rinvio dunque a una proposta che avanzai allora sul manifesto (del cui gruppo storico facevo parte) che produsse anche un dibattito e poi svanì.

Dichiarato che la forma/partito è stata una delle più straordinarie invenzioni del pensiero e pratica politica, aggiungevo che però essa era adatta a rappresentare una società «semplice» e non era più utile di fronte alla «complessità sociale» scoperta da Niklas Luhmann e che in Italia aveva attratto l’attenzione di tutti i politologi e di Craxi che ne assunse le ricette pratiche , cioè che la «complessità sociale» pone problemi di governabilità e richiede un governo «decisionista». Luhmann aveva scritto le sue proposte per la Thatcher e gli americani degli anni Ottanta.

Rispetto a Luhmann allora dichiarai che bisogna assumere interamente la sfida della complessità, non accettando la proposta della «riduzione della complessità», della reductio ad unum, dell’intrinseco «monoteismo» del pensiero patriarcale e invece proporre di «governare la complessità». A questo punto dicevo che non vi è un solo soggetto politico pieno, ma che ogni soggetto può essere riconosciuto come «politico» se riesce a percorrere l’intero orizzonte della politica. Elencavo perciò il movimento operaio, il movimento delle donne, il movimento della pace, il soggetto dell’informazione (al posto del vecchio incerto e scientificamente indefinibile degli «intellettuali») e proponevo che si andasse costituendo un «Sistema», non un casino, «pattizio» non selvaggiamente intercompetitivo tra le forme politiche ecc. ecc.

Ho aggiunto cose e proposto aggiustamenti, ma a mio parere potrebbe ancora essere preso in considerazione. Ma per avviare un processo di questo tipo bisogna che ciascuno smetta di considerare se stesso come il monoteista unico punto di partenza e invece accetti confronti riduzioni modifiche ecc.

Se ne può discutere? A leggere ciò che propone senza spocchia ma seriamente Rifondazione, a me pare di sì.



IL PARTITO DELLE CITTÀPER BATTERE
QUELLO DELLA NAZIONE
di Massimiliano Smeriglio

Per battere la destra bisogna prima battere un’idea di centro sinistra. E non ridursi a testimonianza

Come ci ha raccontato in questi anni Aldo Bonomi la potenza dei flussi scompone e violenta la vitalità dei luoghi perché incapace di interpretare la cura del paesaggio e la presa in carico della coscienza di luogo. Questa disputa vale sul piano economico nel rapporto tra economia finanziaria, un flusso, anzi un algoritmo che si muove nella rete, e processo produttivo. Le politiche dell’austerity sono un flusso che spezza i luoghi, le comunità, la nuda vita. Vale nel rapporto tra ciò che è delocalizzabile e ciò che produce valore perché intrinsecamente connesso alla identità, alla cultura profonda di un luogo, ai beni comuni di una municipalità, alla sua storia. Vale nel rapporto complicato tra i flussi migratori e il loro impatto con le piccole patrie occidentali. In questa faglia vi è persino un filone inesauribile di consenso elettorale razzista e a buon mercato.

Una dinamica che appunto taglia come un diamante il rapporto tra alto e basso in economia, in geopolitica e persino nella produzione locale di rancore e paura, la ritroviamo confermata anche sul piano della rappresentanza politica. Cosa è se non questo lo scontro andato in onda nelle elezioni francesi tra élite e moltitudine, tra Union sacrée e frustrazione di popolo alimentata proprio dalla dimensione di flusso assunta dalle politiche neoliberiste di Hollande? Cosa è se non questo il successo straordinario di Podemos come risposta dal basso, democratica e partecipata alla crisi? E in fondo cosa sta diventato, in concreto, il «partito della nazione» in tante parti del Paese se non uno straordinario racconto senza luoghi, dove la dimensione terrena assume i connotati di una questione da rimuovere?

Se la sinistra smette di frequentare i luoghi, se smette di attraversare le comunità locali con uno sguardo globale non sarà capace di narrazioni egemoniche. Non si tratta di enfatizzare il localismo o sommare le vertenze territoriali, si tratta di predisporre una lettura e un linguaggio nutriti dalle cose che accadono sul terreno, perché è qui che vivono, soffrono, si abbandonano all’anomia o a volte si battono le persone in carne ed ossa. Non solo la rete dunque, perché i luoghi esclusivamente immateriali alimentano il pregiudizio e costruiscono mentalità fragili in balia degli stati d’animo. Noi dobbiamo investire su questa dinamica reale, dove la povertà è un odore e la paura adrenalina che produce odio.

Su questo punto dovremmo organizzare una riflessione capace di interpretare le prossime amministrative proprio con la chiave di lettura del rapporto tra flussi e luoghi. Alla destra, così come ai pentastellati, è sufficiente cavalcare la paura che trova capri espiatori ideali nei migranti e nell’europeismo sconfitto. Al «partito della nazione» è sufficiente farsi Stato, anzi governo, costituire risposte dall’alto, regolatorie e distanti, cavalcare con destrezza il flusso della comunicazione pubblica, dello storytelling senza corpo, scarnificato e potente.

La sinistra dovrebbe avere la capacità di sapersi muovere su questo crinale, ostinatamente connessa alla metafora territoriale, dentro a una durevole vocazione al vincolo di popolo. Disposta alla manovra politica, almeno quanto Podemos.

Capace di produrre guerriglia, non guerra di posizione come fosse già un accumulo di forze, e di sfidare le destre e il «partito della nazione» su questo terreno difficile e indispensabile. Soprattutto giocare la partita, come è stata giocata altre volte, sapendo che per battere la destra bisogna prima battere una certa idea di centro sinistra. Senza lasciare il campo, tutto il campo, al partito di Renzi, costituendoci in ridotta e testimonianza.

Piuttosto accettare la sfida per l’egemonia, cogliendo sapientemente le contraddizioni senza rimuoverle, e trasformare le diverse istanze impegnate sul terreno, in un corpo a corpo per la sopravvivenza quotidiana, in progetto idea e conflitto capace di dare sostanza al partito della città. Si, il partito della città e dei cittadini pronti a sfidare il «partito della nazione», la sua dimensione incorporea fatta di poteri, effetti speciali e marketing. Sfidarlo ovunque sarà possibile, sfidarlo per prendere tutto il campo, sfidarlo su ogni terreno, agendo la pratica democratica e il federalismo tra le comunità agenti, anche dentro le primarie se le condizioni lo permettono.

Qui può e deve situarsi la sfida della sinistra che verrà, nella consapevolezza che l’unica forza di cui disponiamo è la capacità di porci in movimento, in ascolto, tra le pieghe di una società stremata. Senza rinunciare mai, senza farci bastare perimetri e verità per schiere ridotte, senza coccolarci nell’etica della sconfitta o in quella del sol che verrà. Attrezzarci per riconquistare quote di consenso e radicamento sociale, qui, ora, mentre la vita avviene, senza attese messianiche o misurazioni meccaniche di rapporti di forza.

Sarebbe la migliore delle battaglie quella predisposta per battere sul campo il partito di Renzi, senza rinunciare aprioristicamente ai luoghi del confronto e dello scontro. Appunto come possono essere le primarie. Battere il «partito della nazione» alle primarie per accumulare forza e credibilità, per battere alle elezioni il partito che fa davvero paura, quello delle piccole patrie, fisiche o immateriali, dei razzisti espliciti e del populismo becero e giacobino. Battere il Partito di Renzi alle primarie con una eccedenza di partecipazione democratica.

Un soggetto politico si fonda nella mischia di una battaglia e nella possibilità di vittoria. Difficile immaginare una costituente immobile, autoreferenziale, persino un po’ regressiva sul terreno della cultura politica. Soprattutto non si dà processo costituente senza mettere in campo la capacità di battersi, di farsi cambiamento, e di accarezzare il sogno di un successo.

Dopo Syriza, Podemos, . Se si lavora bene, se non prevale la volontà di conservare i vecchi guscu e degli individualismi, allora il disagio profocato dall'emonia del neoliberismo su tutto l'arco della politiqe polkiticienne potrè essere sconfitto da sinistra. due aeìrticoli di Norma Rageri e .

Imanifesto, 22 dicembre 2015


Non solo è possibile, ma accade. E si ripete. La Grecia, il Portogallo, la Francia, ora la Spagna. In fondo crisi significa cambiamento. La lunga crisi e la esiziale scelta di curarla con l’austerità hanno cambiato la geografia sociale di questi paesi, e ora il responso delle urne restituisce, nel voto, la profondità del cambiamento politico. Vacillano i pilastri delle forze di governo e si rafforzano i nuovi raggruppamenti nati nel decennio horribilis: a sinistra come a destra.

Il brusco risveglio della Spagna, dopo la notte elettorale, ne è una chiarissima testimonianza. A poco è valso impostare una campagna elettorale sulla crescita del Pil del 3%, se poi le diseguaglianze addirittura crescono, se la disoccupazione giovanile è al 48% e se (con il Jobs act in salsa spagnola) la massa dei precari ormai lavora qualche ora per qualche giorno alla settimana. I due storici partiti che hanno diviso la responsabilità di governo, alternandosi al palazzo della Moncloa, vivono il punto più basso del loro consenso. E si dissanguano a vantaggio dei diretti concorrenti, a destra e a sinistra.

Il Pp di Rajoy perde 16 punti, il Psoe di Sanchez dimagrisce di 6, Podemos di Iglesias agguanta il 20 e Ciudadanos di Rivera il 14. Eccola la fotografia dopo un decennio di sforbiciate allo stato sociale e di corruzione galoppante. Podemos contro l’austerità, Ciudadanos in nome di una destra pulita, hanno incassato i dividendi.

La geografia del voto è molto articolata, la legge elettorale è penalizzante per formazioni come Izquierda unida, ma la sostanza è che da due le forze politiche principali sono diventate quattro. Un inedito per la giovane democrazia spagnola, un classico per il panorama dei partiti italiani. Come ha detto il vecchio socialista Gonzalez, premier negli anni ’80, «avremo un parlamento all’italiana ma senza italiani».

E dall’Italia, nei commenti della stampa e nelle prime reazioni politiche, se non un grido di dolore si legge un avviso di pericolo. Si parla di un’Europa malata di antipolitica, come se alle amare (e inutili) cure di Bruxelles non ci fosse alternativa. Come se di fronte alla devastante condizione in cui si ritrovano, gli elettori dovessero masochisticamente insistere a dare fiducia alla stessa classe dirigente. Come se o bipolarismo o caos. Quasi che parlare di legge elettorale proporzionale (Podemos) e di governi di coalizione equivalesse a evocare il diavolo. Dice Renzi: «La Spagna di oggi sembra l’Italia di ieri». E se invece la Spagna di oggi fosse l’Italia di domani? In fondo il Psoe prima di precipitare al 22 era al 28 per cento e secondo i sondaggi il Pd dal 36 è sceso attorno al 30, mentre il M5Stelle è salito dal 19 al 29. Sugli altri fronti, a sinistra del Pd e nel centrodestra, tutto è ancora in movimento.

Ma, di fronte a uno scenario spagnolo, Renzi ha già preparato la camicia di forza dell’Italicum con l’abnorme premio di maggioranza a garanzia di mantenere in vita il defunto bipolarismo.

In ogni caso alle elezioni mancano, sulla carta, ancora due anni mentre il paese resta in forte affanno. Bce e Confindustria spengono i facili entusiasmi sulla ripresa, lo stesso ministro Padoan parla di una fase di «stagnazione secolare». E non è facile, nonostante la grancassa governativa e l’abuso in perfetto stile “berlusconiano” delle televisioni, manipolare la realtà. Grande è la confusione sotto il cielo d’Europa, magari la situazione non è eccellente, di sicuro la rendita di chi governa è finita.

La sinistra europea ha abbandonato la critica del capitalismo ed ha abbracciato le teorie del neoliberismo proprio nella fase in cui il capitalismo provoca il massimo di disagio sociale. Perciò appare inevitabile, con questa sinistra, il rafforzamento della destra populista.

La Repubblica, 19 dicembre 2015

La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ». Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. «La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola – nel deserto intellettuale francese – che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».

Come spiega questa evoluzione della sinistra?

«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».

Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?

«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo – basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” – è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo ».

In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra?
«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale.

E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».

Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...

«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale – la “crescita”– sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto – e dunque di ogni profitto – è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».

Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?

«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».

Le contraddizioni tra le diverse volontà e i diversi soggetti che ambiscono a costruire una sinistra per il XXI secolo hanno condotto finora in un vicolo cieco. Come uscirne? Una proposta.

Il manifesto, 16 dicembre 2015

Per quanto brusca e ingloriosa, la fine del tavolo che discuteva dell’inizio di un processo costituente un nuovo soggetto politico della sinistra, merita qualche considerazione. Se non altro per capire se quel progetto è realistico e da dove ripartire, poiché rimettere insieme le gambe del tavolo è impossibile.

Si era partiti dalla semplice convinzione che non si potesse predicare una unità più ampia se in primo luogo le forze che avevano dato vita al risicato successo elettorale della lista dell’altra Europa per Tsipras non avessero esse stesse dato il via a un processo di unificazione e ricomposizione, superando le passate divisioni e scissioni. Un processo, non un atto singolo. Naturalmente un processo costituente è impegnativo perché chiama le forze che vi partecipano a raggiungere un obiettivo e a seguire una condivisa road map. Il suo fallimento non permette di riannodare il filo sulla bobina di partenza come se nulla fosse stato. Allo stesso tempo la delineazione di un percorso non prevede che tutti i nodi siano sciolti in anticipo, ma lungo il cammino. Come era scritto nel breve documento «Noi ci siamo, lanciamo la sfida», condiviso da tutti, anche da Civati prima di ricusarlo con una scelta unilaterale che però non metteva in discussione il progetto collettivo, tanto è vero che le porte del medesimo restavano aperte. Il dibattito condotto sul manifesto («C’è vita a sinistra») aveva articolato e approfondito la discussione.

Ma non si è riusciti a superare una doppia evidente contraddizione. Quella di chi pretende che non si formi un partito, ma nello stesso tempo non vuole sciogliere il proprio, come è evidente nella intervista a Ferrero su questo giornale (ieri, ndr). Quella di chi dice di volersi sciogliere, come Sel, ma vuole uniformare da subito i modelli di organizzazione di tutti, anticipando la costruzione di un gruppo parlamentare che secondo alcuni dovrebbe già essere immagine e sostanza del nuovo partito.

Sono stati avanzati tentativi di mediazione fra queste posizioni, come da ultimo quello di Act, ma senza successo. Il tentativo di abbellire questa modesta polemica facendo riferimento alla modellistica europea o latinoamericana con cui si sono organizzate le forze della sinistra, lascia il tempo che trova, sia perché quelle forme organizzative hanno origini in tradizioni, culture e processi storici assai diversi, sia perché in esse hanno agito singolarità irripetibili di donne e uomini. Ogni processo reale non può che essere originale e per darvi vita ci vuole una buona dose di coraggio intellettuale e politico che finora è mancata. Non ci si è voluto tagliare i ponti alle spalle, anzi si è pensato di fortificarli, dando più l’impressione di preparare vie di fuga che non di camminare verso una meta condivisa.

Se la necessità di un nuovo soggetto politico della sinistra non viene messa in discussione, almeno a parole, è però chiaro che la strada per perseguirlo va cambiata. Dal fallimento del tavolo nessuno può trarre la conclusione di andare avanti da solo e parlare in nome di quel progetto. Non andrebbe lontano e originerebbe nuove fratture. Un’eterogenesi dei fini. Se la crisi della rappresentanza politica è così forte da coinvolgerci direttamente, vedo solo due possibilità.

Da un lato si tratta di impegnarsi attorno alle questioni teoriche e politiche che presiedono la formazione di un nuovo soggetto. Come l’analisi del moderno capitalismo finanziario globale e i progetti portanti di una società di alternativa. Qui incontriamo la questione del Pd e della socialdemocrazia europea. Non si tratta di negare la sempiterna necessità di una politica di alleanze, ma di spezzare la gabbia delle coalizioni. Quindi di fare i conti definitivi con il centrosinistra.

Il pasticcio delle primarie milanesi dice che questo nodo non è sciolto. La nostalgia dell’ulivismo è fuorviante. Fu in realtà la degenerazione del Pd a seppellirlo. Il Pd catch all senza il governo non è nulla. La distruzione e la neutralizzazione dei corpi intermedi della società — che coinvolge anche il sindacato, da qui le difficoltà anche della coalizione sociale — comincia da se stesso. Stabilire un’alleanza strategica con il Pd vuole dire diventare satelliti dell’attuale sistema di potere.

Dall’altro lato, dobbiamo rendere persone e movimenti protagonisti di liste alternative di sinistra nelle prossime amministrative. E soprattutto concentrarci nella battaglia referendaria, sul referendum costituzionale (che deciderà anche della vita dell’attuale governo) come sulla raccolta delle firme per i referendum sociali. Non è irrealistico pensare che nel corso di queste battaglie emerga nuova linfa vitale per fare ripartire su basi più larghe e più solide il processo per un nuovo soggetto della sinistra.

Il manifesto, 16 dicembre 2015

Nella storia, noi ingraiani del Pci, e ancor più noi del Manifesto e poi del Pdup, siamo annoverati fra gli avversari di Armando Cossutta. E non si può certo negare che il contrasto politico sia stato fra noi duro e di sostanza. E però io, ma credo anche gli altri miei compagni, provo grande tristezza nel momento in cui apprendo della sua scomparsa. Non solo per nostalgia della nostra vecchia comunità comunista che ogni giorno riceve dalla realtà attuale una nuova botta, sicché gli antichi contrasti ci sembrano minuzie rispetto ai solchi che oggi si sono aperti con una sua parte così consistente, quella che ancora sta nel Pd. Non solo. È perché io a Cossutta volevo bene, e credo lui ne volesse a noi: nonostante la durezza della nostra radiazione, cui il gruppo di compagni che a Cossutta si ispirava dette un sostanziale contributo, è rimasta reciproca stima. Che ci consentì di ritrovarci assieme, impegnati sullo stesso fronte, a partire dall’avvio del processo di scioglimento del Pci, nel 1989.

Quando io militante molto romana ho sentito per la prima volta il suo nome è stato peraltro in una fase in cui siamo stati dalla stessa parte: lui dirigente di primo piano della Federazione di Milano, io ancora impegnata nella ribellione della Federazione giovanile contro la settaria chiusura di una parte dei vecchi. Che a Milano avevano una vera roccaforte contro cui si batterono, membri della stessa segreteria federale, sia Rossana Rossanda che Cossutta. È stato solo anni dopo che diventò esplicito tema di scontro politico il giudizio sull’Urss, e dunque il tema del rapporto fra il Pci e il Pcus.

Ancor oggi mi chiedo il perché di quel suo filosovietismo, che peraltro lui stesso ripensò quando all’inizio degli anni Novanta venne un giorno nella redazione del manifesto per ragionarne con pacatezza, riconoscendo la validità delle nostre obiezioni che erano invece state solo frettolosamente condannate.

È un interrogativo che riguarda tutto il Pci, anche se la corrente «cossuttiana» protrasse a lungo la sua fedeltà, in polemica con la rottura che Berlinguer aveva invece operato nel 1981. Io credo che più che un giudizio di merito sui pregi di quel socialismo già dagli anni Sessanta così segnato dal «breznevismo», si sia trattato del timore che, nel condannare quell’esperienza, venisse meno nel grande corpo dei comunisti italiani l’orizzonte dell’alterità, la coscienza che nonostante l’accettazione da parte del Pci delle regole del sistema democratico rappresentativo, il suo pieno inserimento nelle sue istituzioni, non si era perduto l’obiettivo strategico: la costruzione di una società alternativa al capitalismo. Una esigenza che forse proprio lui sentiva di più per esser stato per anni responsabile della politica degli enti locali del partito, che ha orientato nel senso delle più spericolate alleanze moderate.

Il legame con Mosca, insomma, era per lui una sorta di polizza di sicurezza, di certificazione del permanere di una identità rivoluzionaria.

Molti anni dopo, del resto, nella prima fase di vita di Rifondazione Comunista, quando si strinse fra Armando Cossutta (non con tutti i suoi) e i compagni ex Pdup che in quel partito erano entrati, un accordo forte sui connotati che la nuova formazione avrebbe dovuto avere, non ci fu alcun dissenso sul documento politico approntato per il Congresso costitutivo, in cui netta fu la presa di distanza dall’esperienza sovietica. (Non la cancellazione dell’importanza della rivoluzione d’ottobre, come poi il Pds si affrettò a fare, che era bene — si riaffermò — ci fosse stata, pur «avendo esaurito la sua carica propulsiva», per citare la frase di Berlinguer).

Con Cossutta, dicevo, ci siamo ritrovati dopo la Bolognina. Lui non era più nella direzione del partito, come del resto Ingrao. C’era stato un ricambio. E perciò a votare subito contro la proposta di Occhetto ci ritrovammo solo in tre: un’inedita coalizione, due ex Pdup (rientrato nel Pci poco prima della morte di Berlinguer), io e Magri, e Cazzaniga, giovane filosofo di Pisa, in quota Cossutta.

L’alleanza, come è noto, non si saldò subito, e a contestare la scelta dello scioglimento del Partito furono due diverse mozioni: la numero 2 che aggregava ingraiani e i più autorevoli berlingueriani, la numero 3, quella dei cossuttiani. Ma dopo il congresso di Bologna, in vista del ventesimo di Rimini, che avrebbe dovuto confermare la scelta, i due gruppi si unificarono e fu presentata una sola mozione. Insieme ottenemmo l’adesione del 35% del partito.

Perdemmo, ma non si trattava di una forza di poco conto. La divisione si riprodusse sul che fare di questa forza, se usarla dentro il partito o invece per costruirne un altro. Ad Arco di Trento, dove si tenne l’ultima nostra assemblea precongressuale, i due vecchi leader, Ingrao e Cossutta, tornarono a dividersi: Ingrao disse io comunque resto nel gorgo, Cossutta io comunque esco. Ma le due componenti si mischiarono nella scelta sicché a fondare il primo nucleo di Rifondazione furono compagni che provenivano da posizioni assai diverse.

Non starò certo a rifare la storia di quel tempo ormai remoto. Se non per testimoniare del legame strettissimo che si creò fra noi e Cossutta, e del coraggio di Armando nell’affrontare la diffidenza «antimanifestina» dei suoi vecchi compagni nei nostri confronti.

A me fu affidata la direzione del settimanale Liberazione, un compito difficilissimo, vi assicuro, per gli assalti continui che dovetti subire per le scelte che compivo. Ma sempre ho potuto contare sulla leale difesa di Cossutta. Che a Lucio Magri affidò addirittura la relazione al II° congresso di Rifondazione, nel momento burrascoso dell’arrivo sulla scena di Berlusconi e mentre il Pds ancora oscillava fra alleanza centrista e centrosinistra.

In quella fase Cossutta aveva ancora il controllo determinante del nuovo partito per il peso che vi aveva la vecchia base del Pci, ma ne temeva la deriva settaria, così come quella dei nuovi arrivati non provenienti dalle fila del Pci: i sindacalisti di base fuori dalla Cgil e Democrazia Proletaria. Bisognava trovare una figura per dirigere Rifondazione che non avesse vissuto gli scontri interni al Pci sì da superare i rancori del passato. Ed è così, di nuovo in accordo con Magri, che si pensò a Bertinotti, che aveva una storia socialista e sindacalista, non il nostro vissuto.

Mi fermo qui: raccontare quanto accadde dopo significherebbe riaprire un dibattito troppo vecchio e che comunque non è certo questa l’occasione per riattivare. Se ne ho accennato è per dire di come sia possibile superare vecchie rotture e costruire inediti accordi, un’esperienza da rinverdire.

Ad Armando Cossutta, che era il più anziano ed autorevole fra noi, va il merito di essersi mosso senza arroganze, senza sotterfugi, con intelligenza e lealtà. Le rotture successive di Rifondazione — quella che spinse molti di noi ex Pdup ad abbandonare nel 94–95, quella che indusse lo stesso Cossutta a rompere nel 1998; e infine quella di Sel — hanno tutte origine nel nodo irrisolto della discussione che seguì quel secondo congresso di Rifondazione che pure si era concluso quasi all’unanimità.

Se non suonasse retorico mi verrebbe di promettere, in morte di un compagno cui leviamo le bandiere e di cui piangiamo la scomparsa, che ci impegneremo finalmente a condurre su questi temi una riflessione comune e pacata. Ciao compagno Cossutta.

«Al partito alla maniera moderna la perdita degli iscritti non dispiace, anzi! Gli iscritti non gli interessano più. Il partito classico puntava ad avere nello stesso tempo molti iscritti e molti elettori. Al partito di oggi stanno a cuore quasi solo gli elettori». Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Qualche anno fa, in occasione di un congresso dei socialisti francesi, Michel Rocard, uno dei grandi vecchi del partito, commentò con tono amaro: «I partecipanti a questo congresso sono di tre tipi: quelli che hanno una carica politica, quelli che aspirano ad averla e quelli che, già che erano da queste parti, sono venuti a guardarsi attorno». La stessa cosa si può dire dell’incontro della Leopolda a Firenze, anche se questo non è un congresso. Ci sono tutte le categorie di persone indicate da Rocard, e nel clima euforico che caratterizza il meeting è difficile accorgersi di un grande assente: mancano gli iscritti e il popolo della base.

L’incontro di Firenze costituisce infatti l’icona di un fenomeno politico che si rende sempre più visibile: i partiti senza iscritti. Il fenomeno è segnalato in diversi paesi d’Europa, soprattutto nell’ala sinistra degli schieramenti. In Gran Bretagna, in Norvegia e in Francia, dal 1980 i partiti hanno perso più della metà degli iscritti. Il Partito democratico non fa eccezione: dai più di 500.000 iscritti del 2013 è sceso ai 350.000 del 2014. Quest’anno siamo sotto i centomila e qualcuno parla finanche di 60.000. Questi sono dati conosciuti.
Meno noto è il suo rovescio: al partito alla maniera moderna la perdita degli iscritti non dispiace, anzi! Gli iscritti non gli interessano più. Il partito classico puntava ad avere nello stesso tempo molti iscritti e molti elettori. Al partito di oggi stanno a cuore quasi solo gli elettori: ciò che vogliono sono i voti, non gli iscritti. Per questo non c’è bisogno di tenere aperte le sedi periferiche: ai tempi di Bersani i circoli Pd erano circa 7000, oggi sono circa 6400 e il piano di riorganizzazione del partito prevede che diventino 4500 entro l’anno prossimo.
Alcuni partiti non hanno praticamente struttura territoriale, non tengono congressi e non si confrontano mai. La dissociazione tra partito e iscritti è sempre più netta. Il partito tende a rendersi invisibile. Ciò si vede chiaramente negli incontri tipo Leopolda: gli emblemi di partito sono scomparsi, non ci sono più inni di appartenenza, il format non è quello del congresso ma oscilla tra lo show (scenografie, annunciatori, ribalte, luci teatrali, casting accuratissimo, star mediatiche e campioni di ogni genere), il corso motivazionale per venditori (c’è perfino la parata delle testate nemiche), la recita parrocchiale, in ogni caso con sovrano sprezzo del senso del kitsch. Le citazioni in grande sui pannelli non sono tratte dai classici del pensiero socialista (e neanche cristiano-sociale) ma da quello scrittore per anime semplici che è Antoine de Saint-Exupéry…
Come si spiega questo fenomeno? Secondo una possibile interpretazione, ai partiti gli iscritti non interessano più perché, in fondo, i molti iscritti sono più un peso che una risorsa. Sono una fonte inesauribile di richieste, proposte e proteste verso il vertice. Interpellano la dirigenza, si candidano alla cariche interne, ne chiedono la rotazione, costringono a dare risposte, pongono problemi scomodi. Insomma, producono un sovraccarico per la dirigenza del partito, che non è più libera di fare quel che vuole. In pratica, il modello di partito come organizzazione che forma le sue idee dal basso verso l’alto non funziona più. È finita l’epoca in cui il dibattito territoriale contribuiva a fissare l’agenda. Adesso l’agenda è fissata dall’alto e portata a condivisione con procedure più adatte al marketing che all’elaborazione politica.
La liquefazione del corpo dei fedelissimi ha diversi significati. Vista dal lato dei cittadini indica che si sono stancati di non contare nulla o quasi e che del ceto politico non si fidano più. Insomma, indifferenza e apatia. Visto invece dal lato dei partiti è indizio di una metamorfosi. Via via sgravati dell’impegnativa massa di iscritti, i partiti stanno cambiando pelle e mission. Una volta erano (almeno in parte) scuole di alfabetizzazione politica, di sensibilizzazione e di dibattito. Oggi sono sempre più «agenzie di marketing politico» ( cito Alfio Mastropaolo), il cui compito primario è quello di reclutare i candidati a livello centrale e periferico, creare e consolidare i gruppi di comando, massimizzare il consenso e soprattutto piazzare persone amiche sulle centinaia di poltrone di tutti i livelli su cui è la politica a decidere.
In pratica, torna a primeggiare la funzione di “patronato delle nomine” che un secolo fa esatto Max Weber indicava come vocazione preminente dei partiti. Per questi motivi non hanno più bisogno né di iscritti né di sedi. Quel che gli occorre sono efficienti e spregiudicati apparati di campagna: portavoce, ricognitori, ufficiali di collegamento, addetti al fund raising, consulenti, sbrigafaccende, tecnocrati e media peopleamici o finanche embedded… Chissà che la riflessione di Rocard, che sembrava una mesta pietra tombale sulla forma-partito classica, non possa esser letta come la partecipazione di nascita del partito nuovo.

Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia neoliberale, Una storia del marxismo è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore». Il manifesto, 8 dicembre 2015

L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.

Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.

La forza degli inediti

Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei suoi partiti.

Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto decisamente molto critico e problematico.
Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo può essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto con la collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo non certo trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica Marx pubblicò pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867, e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che uscì in Germania orientale nel 1953.

Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua personalità, quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto».

Una visione politica

In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa visione della lotta e della emancipazione della classe operaia, che contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.

La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai dubbi, e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una direzione gradualista o migliorista.

Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre del 1879), il grande partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue componenti, a darne una lettura riformista o «revisionista».

Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale (fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani» (termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come «marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.

Le accuse di settarismo

I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il contesto in cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento a questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al «marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato, dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra lui e la corrente francese che al suo nome veniva accostata.

Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica e ideologica» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).

Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una interessante lettera dell’11 giugno 1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si sarebbero mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante e talvolta anche ossessivo.

Il rischio del fideismo

Ma il punto più importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola «marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo e di fideismo.
Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere.

La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse anche diventare una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano questa teoria come loro punto di riferimento ideale.

Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una «dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una ininterrotta ricerca critica.
Non solo una recensione, ma un contributo rilevante per la ricerca di una "nuova sinistra". L'errore del passato (non si è compreso che la talpa del neoliberismo lavorava nel profondo), le scarne possibilità per il futuro.

Il manifesto, 5 dicembre 2015


Simul stabunt vel simul cadent, è la diagnosi, o meglio la narrazione di quanto è accaduto, ove i soggetti avvinghiati da questo comune destino sono la socialdemocrazia europea e il comunismo più o meno inverato. Lo sviluppo della contraddizione alto/basso, connessa con un anticapitalismo strutturale e attivo che riporti in auge i concetti di socialista e di comunista, “marxianamente intesi come sinonimi”, ricusando la dimensione da politique politicienne del termine sinistra, può essere la terapia e la soluzione per riempire quel vuoto che la crisi di quest’ultima ha lasciato. Questa è la sintesi che si può trarre da un piccolo ma densissimo libro che contiene una conversazione fra Carlo Formenti e Fausto Bertinotti (Rosso di sera, Jaca Book, Milano 2015, pp. 108, euro 12).

Se per comunismo inverato è sufficiente riferirsi al campo sovietico e al suo crollo per chiarire di cosa si parla (il libro tace delle sorti del comunismo cinese e questo è indubbiamente un limite che i due autori si sono scientemente dati), maggiormente complessa è la definizione di socialdemocrazia. Per farlo Bertinotti ricorre alle caratteristiche che John K. Galbraith usò per definire il capitalismo dei “trenta gloriosi”, ovvero l’intervento dello Stato in economia; una politica fiscale ridistributrice di reddito verso il basso; relazioni sociali di lavoro basate sulla contrattazione collettiva. In questi tre tratti si può riconoscere anche l’essenza della prassi della socialdemocrazia europea. Parlando di quella tedesca in particolare andrebbe un aggiunto un altro elemento non trascurabile, la Mitbestimmung, ovvero la partecipazione, seppur parziale (e spesso inefficace come si è visto nel caso Volkswagen) dei lavoratori nel controllo delle imprese. Definita così l’esperienza socialdemocratica non può non essere accostata a quella del New Deal roosveltiano, ma con due differenze che Bertinotti opportunamente sottolinea. Mentre il New Deal si cala in un’epoca di de globalizzazione segnata dalla Grande Crisi, la storia degli anni migliori della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare è tutta iscritta in una nuova fase di sviluppo del sistema capitalistico. In secondo luogo mentre negli Usa il motore del New Deal è direttamente lo stato, in Germania è il partito socialdemocratico che assume su di sé la costruzione di un simile quadro sociale e istituzionale. La formidabile crescita tedesca nel dopoguerra non è tuttavia attribuibile solo ai meriti della socialdemocrazia, quanto al fatto che la Germania ha sfruttato i vantaggi delle politiche keynesiane mondiali e ha goduto della rendita di posizione di bastione contro l’espansionismo sovietico. Il piano Marshall è servito anche a questo.

Il welfare state, oltre che derivare da una migliore comprensione dei meccanismi che producono le crisi economiche, è stato concepito dalle classi dirigenti, anche quando veniva ad esse strappato da dure lotte di classe, come la soluzione per ammorbidire la rivolta sociale e incanalarla entro i binari del sistema dato. Il ruolo funzionalista della socialdemocrazia non nasce solo nell’epoca del suo inarrestabile declino. Nello stesso tempo esso originava uno spazio contrastante con la sola produzione di valori di scambio.

Tuttavia non vi è una meccanica automaticità in quel simul stabunt vel simul cadent. Infatti le teorie neoliberiste compaiono da subito sullo scenario postbellico, con il famoso manifesto di Mont Pelerin del 1947, nel quale von Hayek, von Mises, Milton Friedman, Eucken (l’autore nel 1936 dell’atto fondativo dell’ordoliberalismo), Popper e altri ancora si propongono di difendere la libertà dell’uomo tanto dal comunismo sovietico quanto dalle politiche keynesiane. E’ lì che comincia quel lungo lavoro da talpa che li vedrà vincenti agli inizi degli anni Ottanta. Questa è una delle ragioni, per la quale il crollo del comunismo e la contemporanea crisi irreversibile della socialdemocrazia, non trova una risposta a sinistra. Quando la sinistra “rivoluzionaria” si trova il campo sgombro dai nemici e dai contendenti che riteneva principali, lo incontra già occupato dal neoliberismo il cui percorso aveva del tutto sottovalutato. La “rivoluzione restauratrice” messa in atto su scala mondiale da parte di quest’ultimo è stata potente e ha fatto egemonia. Anche nei confronti dei movimenti rivoluzionari dell’occidente, spesso risucchiati nella modernizzazione capitalistica, con vantaggi per i singoli al prezzo di una sconfitta rovinosa per le collettività. Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro – su cui non si indaga mai abbastanza e sulle quali Carlo Formenti ha fornito in precedenti libri sui knowledge workers importanti contributi - hanno tolto il terreno sotto i piedi per la rinascita di una sinistra. E’ quindi fuorviante prendersela con la “mutazione antropologica” delle giovani generazioni.

Più che di un superamento definitivo del clivage destra/sinistra – ancora percepibile nel senso comune, quando dalle sigle si scende sul terreno dei valori, come quello dell’uguaglianza – si dovrebbe dire della crisi profonda del pensiero e dei soggetti che dovrebbero farsene carico. Che fare allora? La risposta che Bertinotti fornisce sta nella riconsiderazione del populismo che assume “come centrale il conflitto alto/basso al posto di quello destra/sinistra”. Tuttavia il populismo è intrinsecamente ambiguo. Possiamo individuare un prevalente, in base al quale concludere che ve ne sono almeno due, uno di destra e uno di sinistra (ecco tornare il vecchio clivage), uno dall’alto e uno dal basso. Ma qui non siamo in America Latina, ove “indigenismo” e miseria sociale sono le basi e le molle del populismo, se si vuole ingenuo ma non ambiguo. Nel caso italiano più che l’ombra di Laclau insistono quelle dell’Uomo qualunque di Giannini e il più tradizionale trasformismo. Il caso del M5Stelle è emblematico. Per mantenere viva e pagante la sua ambiguità condita di wenofobia rifiuta le alleanze, ma quando vi è costretto dai meccanismi istituzionali, vira a destra, come con Nigel Farage nel Parlamento europeo.

D’altro canto ogni progetto di trasformazione deve fare i conti con il potere. Bertinotti scarta le semplificazioni alla Holloway, mostrando più considerazione per le tesi più raffinate di Dardot e Laval su una “possibile trasformazione sociale senza conquista del potere”. Del resto la potestà degli stati nazionali è stata svuotata dalla dimensione sovranazionale della governance a-democratica e dall’extraistituzionalizzazione dei poteri reali. Lo si è visto nel caso greco e nella sostanziale impraticabilità del piano B, a meno di non farlo coincidere con la Grexit di Schauble. Ma resta il tema della forza, senza la quale non si può spezzare quella potente dell’avversario né resistere al suo ritorno. La forza è in primo luogo egemonia, avvio di un potere costituente, con altri mezzi e regole di quello costituito. Così possono accadere la vittoria di Syriza in Grecia, ammaccata ma non piegata dai colpi della Troika; quella di Corbyn nel Labour; il governo delle sinistre in Portogallo, con un diverso ruolo dei socialisti. Tutto fragile, ma certamente il mondo non è né un algoritmo né un ologramma.

Vasta ( e confusa) è l'area nella quali si svolge animosamente la ricerca di una sinistra del XXI secolo.

Huffington Post, 28 novembre 2015

Alessandro Di Battista non fa a tempo a citare l’asilo nido realizzato dal sindaco grillino di Pomezia che subito il prof. Rodotà s’accalora: “Gli asili erano le bandiere del Pci in Emilia, venivano da tutto il mondo a studiarli. Sono un pezzo della cultura della sinistra, dei diritti sociali, che non può essere abbandonato”. La platea – in parte grillina, in parte di reduci dei girotondi e di delusi dalle sinistre – si appassiona. Una donna in prima fila propone la sua risposta: “È finito tutto dopo la morte di Berlinguer!”. Rodotà sorride amaro: “Forse è proprio così”.

Sala Umberto, un vecchio teatro nel centro di Roma. Si presenta l’ultimo numero di Micromega, sul palco c’è anche il direttore Flores d’Arcais. Il titolo della serata la dice già lunga: “La rivolta del cittadino contro il partito unico del privilegio e del conformismo”. Sembra il titolo di un post di Beppe Grillo, e invece è quel che resta del Palavobis e delle piazze di Cofferati, più di dieci anni dopo. La sentenza di Flores pare inappellabile: “Ha ragione Di Battista, a sinistra non c’è più nulla da rianimare. Ci sono solo pezzi di partitocrazia, e la sinistra fuori dal Pd è ancora peggio, sono i pezzi di partitocrazia emarginati da quelli vincenti”. L’ex garante della lista Tsipras ci va giù durissimo con Vendola: “Dopo quella telefonata a capo chino con l’uomo delle relazioni esterne di Ilva non capisco come possa stare ancora in politica, ma ognuno ha la dignità che ha. E peggio di lui sono quelli che gli stanno ancora intorno e non l’hanno buttato giù”.

A Renzi ci pensa Rodotà: “In lui vedo un retaggio craxiano più ancora che berlusconiano…”. Fuori due. I maitre a penser della sinistra giustizialista e dei diritti non vedono più nulla nel loro vecchio campo. Il sol dell’avvenire, ormai, è solo a cinque stelle. E quando il Dibba rivendica il mancato sostegno a Bersani nel 2013, tutti gli danno ragione. E lui: “Se avessimo fatto l’inciucio con uno dei partiti responsabili del disastro, oggi non saremmo un’opzione possibile per il futuro”. Applausi.

“Chi ha votato Pd voleva queste riforme? Voleva il ponte sullo stretto e le trivellazioni? Voleva De Luca?”, arringa Di Battista, supportato da una robusta claque che lui ogni tanto ferma con la mano per evitare il “santo subito”. Rodotà annuisce. “Con loro non ho sempre avuto un rapporto idilliaco, ma quando salirono sul tetto della Camera scongiurano la modifica dell’articolo 138 voluta dal governo Letta”. E ancora: “A me non piace lo spirito da curva, sono un vecchio signore, ma oggi per restare in contatto coi cittadini e non trasformarsi in oligarchia servono forme nuove di comunicazione…”.

C’è anche un ricordo personale del prof. Rodotà, che aleggia per due ore la sala: il ricordo di quei giorni del 2013 in cui “un popolo lo voleva al Quirinale”, dice il Dibba, e quella piazza gridava “Ro-do-tà”. La sala è commossa: “Sarebbe stato un grande presidente”.

Lui dà atto ai grillini di quell’omaggio: “Da allora mi riconoscono anche i ragazzi di 20 anni, ho ampliato in modo smisurato la platea a cui riesco ad arrivare”. Flores è assai più pragmatico: la sue guerra trentennale contro i “politici di professione” si invera nelle proposte grilline. “Fui io a proporre nel 1986 il tetto ai mandati, volevo persino metterlo in Costituzione. Ora loro lo fanno, la loro coerenza mi ha stupito”. E’ lui a sottolineare il collegamento coi girotondi, con i giorni del Palavobis e dell’indignazione della società civile contro Berlusconi. E oggi? “Oggi l’unica forza che assomiglia a quelle istanze è il M5s, l’unico movimento votabile. E infatti io lo voto sistematicamente da anni”. Applausi scroscianti, ma Flores, come ai tempi dei girotondi, vuole anche dettare l’agenda del partito di riferimento (anche se a fine 2013 definiva “molto inquietante” Casaleggio): “Dovete essere meno autoreferenziali, sulla Consulta andate all’offensiva, proponete voi tre nomi: Cordero, Carlassare e Rodotà”.

Il prof si chiama fuori: “No, non tiratemi più in ballo, io mi sono autorottamato!”. Flores è un fiume in piena e si rivolge al Dibba: “Organizziamo dei seminari con dei vostri parlamentari ed esponenti della società civile. Sarebbe un segnale grandioso. Solo se si apre alla società civile il M5s può davvero vincere a Torino e Roma, e anche nelle altre città”.

Dall’astio verso Napolitano (“Credevo di aver toccato il fondo con Cossiga e invece no…”, dice Flores) al reddito di dignità, dal no alle riforme costituzionali al parlamento delegittimato dopo la sentenza sul Porcellum: tra i due intellettuali e il giovane e arrembante Dibba la sintonia è pressoché totale. Il deputato ribadisce la coerenza del suo movimento, le regole da rispettare, dai soldi al tetto ai mandati all’impedimento a candidarsi a sindaco per chi sta in Parlamento. “A volte questa coerenza è faticosa…”, si sfoga. E a più riprese ribadisce che “secondo i sondaggi oggi potrei essere il sindaco della Capitale… un mestiere che mi renderebbe molto orgoglioso, durante il Giubileo tutti i grandi della terra che vengono a Roma incontrano anche il sindaco”, racconta con un (grande) retrogusto di rimpianto: “Ma non lo posso fare perché le istituzioni non sono un autobus da prendere per le convenienze personali”. La rinuncia pesa, la folla in platea lo incoraggia. Lui torna sul nazionale: “I più pericolosi oggi sono i partiti che si dicono di sinistra e che ti prendono in giro con il sorriso”. Flores è d’accordo: “E’ dai giorni dell’avvento di Blair che dico che ormai la scelta è tra due destre…”. Oppure cinque stelle. “Secondo me il M5s a Roma ce la può fare”, li benedice Rodotà.

«Intervista al segretario della Fiom: "Ci mobilitiamo contro il terrorismo e la guerra". Al centro della protesta di domani il contratto e la legge di Stabilità targata Renzi. La Cgil prepara un referendum per abrogare il Jobs Act. "Possibili anche su scuola e ambiente"».

Il manifesto, 20 novembre 2015

«Ad aprire il corteo saranno i lavoratori immigrati, con la scritta “Contro la guerra io non ho paura”. Alcuni di loro parleranno anche dal palco». La manifestazione Unions! di domani a Roma, indetta dalla Fiom e dalla Coalizione sociale, non poteva certo ignorare i fatti di Parigi. Anzi, le riflessioni che Maurizio Landini ci consegna incontrandoci nella nostra redazione — con noi Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco — sono in gran parte dedicate ai gravi fatti che accadono in Europa. Subito dopo, ovviamente, parliamo del contratto dei metalmeccanici, e del contrasto del sindacato alla legge di Stabilità e al Jobs Act. Di Renzi e del Pd, della nuova Sinistra italiana, dei Cinquestelle.

È un errore rispondere con la guerra ai terroristi? Quale altro strumento contro gli attentati?
«Lo diciamo chiaramente: noi siamo contro il terrorismo ma anche contro la guerra. Leader importanti come Blair stanno riconoscendo gli errori delle guerre del passato, e non si può non vedere che quello che viviamo oggi è in parte frutto dei conflitti armati. Dobbiamo muoverci su due terreni: innanzitutto smettere di vendere armi e di comprare petrolio dall’Isis. E poi dobbiamo superare la guerra con un’azione politica molto forte: mettendo intorno a un tavolo non solo i grandi paesi ma anche quelli delle zone calde. Servono azioni di intelligence comune per difenderci, certamente, ma anche e soprattutto iniziative culturali e sociali che tolgano il brodo di coltura dove fioriscono i terroristi».

Azioni culturali?
«Penso, con le dovute differenze, a quello che fecero la sinistra e il sindacato con il terrorismo degli anni Settanta: riuscirono a isolarlo, a prosciugare il brodo di coltura e di possibile connivenza. Allo stesso modo contro questo nuovo terrorismo serve una mobilitazione dal basso, tra le persone, e i musulmani, già divisi tra loro e in guerra da tempo. Per questo scegliamo di marciare con due bandiere: del lavoro e della pace».

Un dialogo non facile, quello con i musulmani, in questa fase.
«É la prima volta che in Europa delle persone scelgono di farsi esplodere per ucciderne altre: non possiamo sottovalutare questa minaccia, ma nel contempo dobbiamo evitare le semplificazioni e le equazioni “musulmano uguale terrorista”. Ho letto a fondo l’ultima enciclica del papa, e mi ha colpito l’analisi rispetto all’attuale modello di sviluppo, la centralità assoluta della finanza e le guerre innescate in questa logica. L’Isis si presenta davanti ai suoi possibili adepti non solo con il volto dell’integrità morale e ideologica, ma anche promettendo risposte alle disuguaglianze della nostra società. Se vogliamo combattere questa strumentalizzazione non possiamo chiuderci in casa, ma al contrario dobbiamo aprirci ancora di più al dialogo e all’inclusione. Verso tutti».

Al Nord nelle fabbriche lavorano molti immigrati. Il modello italiano di integrazione funziona? La Fiom riesce a coinvolgerli?
«Circa il 15–20% dei nostri iscritti, ormai, è di origini non italiane. Abbiamo tanti delegati tra i lavoratori immigrati, che rappresentano sia gli italiani che gli stranieri. Spesso, lo devo dire, con intelligenze e competenze anche superiori alle nostre, se non altro per il difficile vissuto che hanno alle spalle. A Padova, qualche settimana fa, abbiamo tenuto l’assemblea nazionale dei delegati immigrati: c’era anche la Presidente della Camera Laura Boldrini. Sono emerse richieste che dovremmo rivendicare per tutti: l’abrogazione della Bossi-Fini, la cancellazione dell’assurda tassa di soggiorno, un reddito di dignità. E il sindacato può fare tanto: in Germania l’Ig Metall investe 700–800 mila euro per impartire lezioni di tedesco agli immigrati, e per introdurre le altre culture ai lavoratori tedeschi. Tutto questo nelle sedi sindacali: che così diventano punti di riferimento per l’integrazione».

Passiamo al contratto. Siete riusciti a portare Federmeccanica su un unico tavolo.
«Sì, nonostante la presenza di due diverse piattaforme. Si riconosce il fatto che la Fiom è la sigla più rappresentativa. Poi è intervenuta una novità: la Uil è disponibile a sottoporre l’accordo al voto dei lavoratori. Chiediamo che le regole dell’accordo sulla rappresentanza, firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, vengano applicate nel contratto: così potremmo estenderne la validità a tutti i lavoratori, e andare insieme dal governo per chiedere che i minimi contrattuali diventino salario minimo legale».

Quali sono le richieste qualificanti della vostra piattaforma?
«C’è innanzitutto un principio nuovo da segnalare: i diritti da contratto dovranno valere per tutte le figure, fino alle partite Iva. Quindi minimi salariali, maternità, ferie, malattia, infortuni, Tfr. La formazione deve essere un diritto individuale, soggettivo, si devono ridurre gli orari se c’è un maggior utilizzo degli impianti, chiediamo di riformare l’inquadramento. E poi apriamo il nodo della sanità integrativa, ma purché sia valida anche questa per tutte le figure e per i familiari a carico: non sostitutiva di quella pubblica, ma di sostegno, per il rimborso ticket, il dentista, la non autosufficienza».

Che aumento chiedete?
«Del 3% sulle paghe base. Ma rinnovando il modello contrattuale: rinnovi ogni anno come in Germania, e vorremmo poi che il governo defiscalizzasse il primo livello. Se ci intendiamo su questi due punti, possiamo discutere con le imprese anche un eventuale conglobamento dell’attuale indennità perequativa, quella erogata a chi non fa accordi aziendali».

Da cosa viene fuori il 3%?Da tre elementi: l’inflazione; l’andamento del Pil italiano e di settore; la necessità di redistribuire reddito dopo anni in cui si è perso costantemente, indebolito anche dal fiscal drag. Ovviamente dove si vorrà e si riuscirà, ben venga la contrattazione di secondo livello: ma siccome nella realtà si riesce a fare solo nel 20–30% delle aziende, io devo garantire e qualificare il contratto nazionale».

La manifestazione è indetta anche contro la legge di Stabilità.
«Per noi deve cambiare. È una balla che sia espansiva, perché non ci sono investimenti pubblici e non si creano posti di lavoro. Si spendono i soldi per tagliare la tassa sulla casa, mentre si interviene pesantemente sulla sanità. Gli incentivi alle imprese non sono selettivi e vincolati a investimenti. Non c’è una seria lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, ma anzi — con misure come quella sui 3 mila euro– si incoraggiano comportamenti non certo virtuosi. Si sono ridotti gli ammortizzatori sociali, rendendoli addirittura più costosi dei licenziamenti per le imprese. Non si interviene sulle pensioni. Insomma, si prosegue lo schema già adottato per il Jobs Act, per la scuola. Il premier “giovane e sveglio” applica le ricette dell’austerity europea, la lettera della Bce, come fu per Monti e Letta, senza metterle in discussione».

Però ci pare che il sindacato faccia fatica a muoversi. Ma c’è davvero, come dite, tanta contrarietà a Renzi nel Paese?
«Io penso che il consenso per Renzi stia diminuendo, e che tra le persone che lavorano o che cercano lavoro non sia maggioritario. È vero, dall’altro lato, che abbiamo fatto passare un anno dallo sciopero generale. Un po’ dipende dal fatto che il premier decide a colpi di fiducia in Parlamento, nessuno ha mai votato un suo programma, e lui procede anche a dispetto delle proteste. Questo scoraggia le persone dalla partecipazione. E poi c’è la crisi, l’aumento della povertà, il non credere più nei mezzi tradizionali di lotta. Proprio per questo segnalo un’importante decisione della Cgil: la proposta di un referendum per l’abrogazione del Jobs Act. Perché se le leggi ci vengono imposte, dobbiamo lottare con tutti i mezzi legali che abbiamo per cancellarle. In gennaio la Cgil chiamerà al voto 5,5 milioni di iscritti, dopo aver proposto la sua alternativa, il nuovo Statuto dei lavoratori. Io credo che si potrebbe lavorare allo stesso modo anche per la scuola, l’ambiente. E non a caso, nella consultazione per il contratto, abbiamo chiesto ai metalmeccanici se sono d’accordo sul fatto che la Fiom si impegni su tutti questi temi. E in maggioranza ci stanno dando l’ok».

Sono temi che si intrecciano con quelli della nuova Sinistra italiana. Può essere un partito di riferimento per chi lavora?
«Il problema per noi non è avere una forza politica di riferimento, un partito unico, ma riuscire a ottenere che il lavoro diventi tema trasversale a tutta la politica. Mentre oggi, e grazie a precise scelte di Renzi, il tema economico trasversale e dominante — centrale direi — è al contrario l’impresa. Faccio un esempio: lo Statuto dei lavoratori è stato votato negli anni Settanta anche dalla Dc e dal Pli, partiti non certo di sinistra: a quei tempi il lavoro era evidentemente centrale per tutta la politica».

Quindi è tramontata del tutto l’epoca del rapporto diretto tra sindacato e partiti.
«Noi abbiamo sempre presentato le nostre proposte a tutti i partiti, e se le condividono, bene, questo ci aiuterà. Sulle pensioni vedo che la Lega la pensa come noi, sul reddito di dignità i Cinquestelle. Io quando ho cominciato a fare sindacato mi presentavo nella quota Pci della Cgil, oggi è l’opposto: un recente studio sui nostri delegati ha appurato che il 90% di loro non è iscritto a nessun partito. L’autonomia è fondamentale per fare bene il nostro lavoro, nel rispetto di tutte le forze politiche».

La Coalizione sociale sta funzionando? Tracciamo un bilancio.
«Io credo di sì, anche se non ho mai nascosto che fosse una sfida difficile, mentre la gran parte dei media la riduceva al problema «Landini fa un partito». E invece vogliamo ricostruire quel legame tra le persone, che poi ci permetterà magari di pensarla allo stesso modo quando voteremo al referendum sul Jobs Act. Ma partendo dalla base, dai territori, dai bisogni reali, da un nuovo mutualismo. Penso allo sportello anti-usura che abbiamo aperto a Cuneo, alla vendita scontata dei libri scolastici, al Fondo di solidarietà istituito a Pomigliano».

Sarebbe insensato tentar di risolvere il problema della costruzione di una nuova sinistra senza rompere la barriera che separa il mondo dei frammenti della vecchia sinistra dalla società.

Ilmanifesto, 19 novembre 2015

Ma anche perché la guerra è entrata nella testa dei nostri governanti, nell’agenda e nel lessico delle istituzioni europee, ne ha colonizzato l’immaginario e i protocolli, il linguaggio dei leader e gli ordini del giorno delle assemblee parlamentari.

Il socialista Francois Hollande — il presidente della Francia repubblicana, un tempo emblema delle libertà politiche e dei diritti dell’uomo — che parla con le parole di Marine Le Pen è il simbolo, tragico, di questa metamorfosi regressiva. Il governo “de gauche” francese, che si propone di modificare la Costituzione fino a intaccare le regole sacre dei diritti individuali e addirittura a ipotizzare il ritorno alla pratica primordiale della «proscrizione» — della cancellazione della cittadinanza per i reprobi che «non ne sono degni» trasformandoli in “eslege” -; e poi, appellandosi all’art. 42.7 dei Trattati, trascina l’Europa intera nella sua guerra — in un formale «stato di guerra» -, non rivela solo il compiuto fallimento del socialismo europeo, diventato col tempo non solo altro da sé ma l’opposto di se stesso. Mette in mostra anche uno «stato dell’Unione» ormai gravemente degenerato, incapace di tener fede nemmeno alla più elementare delle sue promesse originarie: tutelare la pace. Difendere i diritti. E intanto si rialzano muri e si chiudono confini contro le prime vittime di questa guerra di massa. Tutto questo la dice davvero lunga sul percorso a ritroso condotto in questi anni di crisi e di resa. E sull’urgenza che, a livello continentale, nasca e si consolidi una sinistra autorevole in grado di colmare quel vuoto. Una sinistra con le carte in regola — e senza scheletri negli armadi, bombe sulla coscienza e operazioni neo-coloniali nel curriculum — per parlare di pace, di giustizia sociale internazionale, di diritti (degli ultimi) e di doveri (dei primi).

I segni dell’emergere di una sinistra nuova, capace di emanciparsi dalla crisi delle socialdemocrazie novecentesche e di ritornare a contare nello scenario inedito attuale sono d’altra parte già visibili, soprattutto sull’asse mediterraneo, dalla Grecia, naturalmente — dove la riconferma del mandato a Tsipras con un voto plebiscitario fa di Syriza un punto fermo di contraddizione e di resistenza nel contesto europeo -, al Portogallo come alla Spagna. E anche in Italia, finalmente, le cose si sono messe in movimento. Il documento Noi ci siamo. Lanciamo la sfida, elaborato e condiviso da tutte le principali componenti di un’articolata area di sinistra — da Sel al Prc, da Futuro a sinistra a Possibile e ad Act, fino a Cofferati e Ranieri e, naturalmente a L’Altra Europa che per questa soluzione si è spesa senza risparmio -, indica finalmente una data, la metà di gennaio, per dare inizio al processo costituente con un appuntamento partecipato e di massa. E contemporaneamente offre una piattaforma politica di analisi e di prospettiva chiara e condivisa in una serie di punti qualificanti: la fine conclamata del centro-sinistra, la constatata natura degradata del Pd oggi incompatibile nel suo quadro dirigente con qualsiasi prospettiva di sinistra, la necessità di costruire, in fretta, un’alternativa autonoma, non minoritaria né testimoniale, competitiva e credibile.

Nello stesso tempo si lavora nelle città che andranno al voto nelle prossime amministrative: è di sabato scorso la formalizzazione, a Torino, di una candidatura forte, condivisa attivamente da tutte le realtà di sinistra, radicata nella storia sociale della città — parlo di Giorgio Airaudo -, in grado di contendere con credibilità il consenso sia a un centro-sinistra esausto, in debito di idee e di proposte, sia al Movimento 5 stelle, costituendo un possibile esempio virtuoso in campo nazionale. Va d’altra parte in questa direzione la formazione, alla Camera dei deputati, di una prima aggregazione, ancora parziale ma significativa, di deputati di Sel e di ex Pd sotto il nome di Sinistra italiana, che costituisce indubbiamente un fattore positivo, in grado di rendere più efficace l’opposizione in Parlamento alle controriforme renziane e di dare visibilità al processo aggregativo, a condizione di considerarla per quello che è: la nascita di un embrione di gruppo parlamentare (l’ha detto bene Cofferati: «Al Quirino è nato un gruppo parlamentare, non un partito»). E di non sovrapporla o identificarla tout court con il processo costituente del «soggetto politico unitario e unico della sinistra», che è — e deve essere — molto più ampio, necessariamente radicato nei territori e partecipato socialmente, caratterizzato da tratti di radicale innovazione di forme, contenuti, facce e linguaggi, se vuole reggere la sfida dei tempi (né considerazioni diverse si possono fare per il gruppo cui ha dato vita, sempre alla camera, Civati).

Dico questo perché il momento è delicatissimo: per il contesto drammatico in cui ci si muove, e per la fragilità dei processi al nostro interno. Ciò che avverrà nelle prossime settimane e mesi ha il carattere di un’ultima chiamata. Un ennesimo fallimento non sarebbe perdonato. La grande partecipazione alle occasioni pubbliche di questi giorni (a Roma al Quirino e a Torino per il lancio della candidatura di Airaudo) ci dice che esiste un’attesa ampia, per rispondere alla quale è indispensabile che la riuscita del processo unitario sia e resti l’ obbiettivo prioritario di tutti e di ognuno, senza piani di riserva, furbizie o espedienti di corto respiro, che non sarebbero compresi da nessuno. Ha perfettamente ragione Carlo Galli quando, su questo stesso giornale, chiede un minimo di pulizia del linguaggio (ci si astenga da espressioni gravide di disprezzo e di pigrizia nel capire come «cosa rossa»). E scrive che «la sinistra di cui c’è bisogno» ha da essere «rossa e realistica» — cioè capace di fare proprie, rinnovandole e rigenerandole nel contesto attuale, le sfide del movimento operaio in una chiave non testimoniale (esattamente l’opposto di una «cosa») -, «radicale e accorta, plurale e unitaria». E aggiunge che deve mostrarsi capace di realizzare un’«accumulazione originaria di pensiero e di energia politica» mettendo insieme molte eredità culturali.

Ma esattamente per questo non può chiudersi, proprio ora, in recinti ristretti. In ciò che sopravvive «dentro le mura». Non può pensarsi — sarebbe mortale — come semplice prolungamento di una parte di ciò che è stato, né come Federazione di frammenti di un’unità passata andata in frantumi, né tantomeno come somma di personalità – o personalismi – in competizione per un’egemonia esangue. L’accelerazione in corso chiede di uscire dalle mura, contaminarsi con ciò che c’è «fuori». Per riportare fra noi chi è uscito, e conquistare chi non c’è mai stato. Ogni altra via ci consegnerebbe a percentuali di consenso residuali, di cui non c’è spazio né bisogno.

Per questo l’incontro di gennaio dovrà essere davvero all’insegna di uno stile nuovo di ragionare e di agire, preparato da un percorso – decine di assemblee, poi una carovana dell’alternativa – nei territori, strutturato in modo tale da restituire la parola a chi in questi anni l’aveva perduta o se l’è vista sequestrare, con un orizzonte compiutamente europeo e trans-nazionale come appunto transnazionali sono le sfide politiche da affrontare. Soprattutto dovrà essere un esercizio di pensiero.

Le immagini di morte e distruzione degli ultimi giorni ci ricordano quanto ciascuno di noi sia piccolo al cospetto dei grandi problemi dell’umanità, ma allo stesso tempo ci impongono una scelta, un’assunzione di responsabilità, un impegno collettivo che non lascia spazio all’indifferenza. Ci ricordano quanto sia urgente, come ricordato da Luigi Ciotti in occasione dell’ultimo saluto a Pietro Ingrao, «una politica come strumento di giustizia sociale, dunque di pace», e quanto sia decisivo l’impegno di tutti e di ciascuno al fine di perseguire tale obiettivo.

Nel bisogno di costruire «un altro mondo possibile» è facile individuare le ragioni del nostro impegno, in Italia quanto in Europa, per la costruzione di una sinistra politica all’altezza delle sfide del nostro tempo, ma non sfuggirà a nessuno, neppure all’osservatore meno attento, quanto questo obiettivo sia di là da venire.

Per fortuna qualcosa si muove. Proprio sulle colonne di questo giornale — all’interno dell’ampio dibattito C’è vita a sinistra — è stato possibile trovare diversi e autorevoli spunti sul tema, e la recente creazione del gruppo parlamentare Sinistra Italiana sembra finalmente aver dato una scossa al dibattito, un segnale percepito da molti (e a buon ragione) di controtendenza rispetto alle divisioni degli ultimi anni.

Pensiamo che ciò basti? Che l’iniziativa parlamentare sia esaustiva al fine di costruire un soggetto politico in nome e per conto degli uomini e delle donne che la sinistra ambisce a rappresentare?

Evidentemente no, non lo è, seppur non sia intenzione di chi scrive disconoscerne il valore. Piuttosto dovremmo interrogarci su quali siano gli strumenti utili per rendere la nostra iniziativa politica sempre più partecipata, dal basso e nel basso della nostra società, su come far diventare la rappresentanza istituzionale quello che Stefano Rodotà ha correttamente definito un «terminale sociale» per realtà civiche, reti, sindacati, movimenti, associazioni, singoli cittadini, insomma per quei tanti che, qui ed ora, ci chiedono di condividere un cammino per il cambiamento, per costruire insieme un’alternativa all’attuale stato delle cose.

Democratizzare i processi decisionali, renderli sempre più trasparenti e partecipati, mettere in rete competenze ed esperienze, puntare sullo sperimentalismo democratico, sono tutte sfide dalle quali non possiamo prescindere, ingredienti essenziali per la costruzione di un soggetto politico che sia di tutti e di tutte.

Su questi temi molti di noi sono impegnati da mesi. Come per la costruzione, ad esempio, di una piattaforma digitale che possa essere strumento di partecipazione, condivisione e attivazione che, come ci ha insegnato Manuel Castells, possa utilizzare la tecnologia come strumento di libertà, piuttosto che come dispositivo di dominio. Uno strumento recentemente utilizzato da Podemos per la stesura del proprio programma di Governo, che non sostituisca l’attivismo politico fatto sul territorio e la forma partito, ma che al contrario sia capace di innovare entrambi, renderli più democratici, più partecipati, in una parola più efficaci.

Su questo, come su tanto altro, ci siamo confrontati lo scorso settembre con un gruppo di lavoro che si è appositamente costituito, e che vede l’adesione di diverse esperienze politiche desiderose di lavorare insieme e che hanno risposto positivamente ad una specifica call to action (http:// con -senso .tumblr .com).

In queste settimane stiamo lavorando per valutare alcune strade da perseguire per la realizzazione della piattaforma, ma il suo senso e la sua utilità risponde ad un’esigenza profondamente politica.

Per questo dovremmo allargare ulteriormente le maglie del confronto, trovare le modalità per intrecciare i contributi fin qui elaborati con l’annunciato evento di gennaio che dovrebbe dare il via al percorso costituente. Per farlo servirà un atto di coraggio necessario, ovvero liberare qualsivoglia iniziativa dalla dimensione pattizia, dalla somma algebrica di ceto politico e da spinte identitarie e conservative, puntando al contrario sul riconoscimento delle differenze come valore aggiunto, come forza della nostra azione politica e non come debolezza.

Il resto lo decideranno le donne e gli uomini che parteciperanno al processo stesso, e magari, potremmo scoprire proprio lì, in questo cammino comune, che nella nostra società ci sono risorse più utili e più vitali al fine di costruire un soggetto politico di sinistra (di tutti e tutte) di quanto lo siano gli attuali gruppi dirigenti.

* Act – Agire, costruire, trasformare

«Se una coalizione sociale da sola non può risultare vincente, specie quando i temi che affronta sono di natura ormai sovrannazionale, è ancora più vero che una sinistra priva di insediamento e chiaro riferimento sociale non può esistere se non nella fantasia.».

Huffington Post, 18 novembre 2015
Non si può certo dire che il cammino per l’unità della sinistra sia semplice e lineare. Mi riferisco ovviamente alle forze e alle persone che si sentono e si collocano alla sinistra di un Pd che del campo della sinistra non fa più parte da tempo, per esplicita scelta del suo gruppo dirigente, in primis del suo segretario. Eppure tale cammino è in corso. Alcuni organi di stampa amano fare del gossip sull’argomento. Personalizzando le varie posizioni e contrapponendole come in una commedia dell’arte. Ognuno fa il suo mestiere, anche se sarebbe opportuno farlo meglio. E questo vale per tutti, nessuno, ma proprio nessuno escluso.

Sta di fatto che il “caso italiano”, di cui ormai parlano solo gli storici, si è completamente rovesciato. Siamo il paese dell’Unione europea dove la sinistra è più debole, o tra le meno consistenti sia in termini di consenso, misurato o no attraverso il termometro elettorale, che in quelli di forza nella presenza politica e nella vita sociale del paese. Conseguentemente in termini di organizzazione.

Eppure, da quando L’Altra Europa con Tsipras raggiunse, anche se di pochissimo, quel quorum alle europee che permise un’inversione di tendenza nei confronti della coazione a ripetere la sconfitta, un nuovo percorso ha preso inizio fino a giungere alla condivisione di un breve documento che convoca un’assemblea nazionale per il 15.16.17 gennaio 2016. Il documento (“Noi ci siamo, lanciamo la sfida” nel sito de L’altra Europa con Tsipras) è stato elaborato e condiviso da Act!, Altra Europa con Tsipras, Futuro a Sinistra, Partito della Rifondazione Comunista, Possibile, Sinistra Ecologia Libertà. Alle riunioni del tavolo hanno partecipato Sergio Cofferati e Andrea Ranieri.

Nel corso di quella assemblea verrà definita una carta di valori e un’agenda di impegni politici che - attraversando le elezioni amministrative, la raccolta di firme per i referendum già in preparazione contro l’Italicum, la cattiva scuola, lo sblocca Italia e il Job Act, nonché la celebrazione del referendum noTriv e quello contro la revisione della Costituzione messo in atto con la legge Boschi-Renzi - ci porterà nell’autunno del 2016 a dare vita a un nuovo soggetto politico della sinistra in grado di affrontare le prove dell’ impegno politico, sociale e elettorale che si imporranno.

Il cupo clima che si sta stendendo sull’Europa, a seguito degli attacchi omicidi dell’Isis e della risposta guerrafondaia e securitaria promossa da Hollande, richiedono una risposta nel contesto continentale e di ogni singolo paese, che imponga una svolta rispetto alle politiche dell’austerity e della fobia dei migranti, alle logiche di limitazione dei diritti e delle libertà, allo scatenarsi delle pulsioni di guerra su cui si orientano le attuali elites europee, delle quali il governo Renzi non è che un’articolazione.

Se prima era in pericolo la tenuta dell’Unità europea a causa delle politiche economiche condotte, quelle che avevano ridotto la Grecia e il Portogallo al disastro (per citare due paesi che hanno saputo politicamente reagire), ora sono a rischio anche i più elementari principi di civiltà e convivenza a causa di questa sorta di Patriot Act che si vorrebbe assumere, nell’illusione peregrina che questo serva a sconfiggere il nichilismo dell’Isis. I mercati mostrano di gradire e ringraziano, come dimostrano i bollettini azionari di queste ore. Come si sa la guerra o il suo solo annuncio fa bene alla finanza. Se sommiamo questo al dilagare delle diseguaglianze visibili empiricamente, nonché oggetto di studio da parte di economisti che pur partendo da premesse diverse giungono alle stesse conclusioni, ovvero che il loro aumento genera ingiustizie sociali insopportabili, rende evidente la necessità della ricostruzione di una forza di sinistra che non guardi al passato, ma al futuro, facendo i conti con questo presente che mette a grave rischio la sopravvivenza materiale delle persone, la democrazia e la stessa vita del pianeta.

Dopo la firma di quel documento sono intervenuti nuovi elementi che dimostrano che il processo unitario è in atto ed è un obiettivo realistico. Lo ha evidenziato il successo della manifestazione al teatro Quirino di Roma– che non ci sarebbe stato o non in quei termini senza avere alle spalle quella intelaiatura che ho decritto - che ha visto la nascita di un gruppo parlamentare unito, pronto a dare battaglia in primo luogo contro un’iniqua legge di stabilità.

Spiace che ancora non sia in grado di raccogliere tutti, come si vede dalla costituzione separata, come parte del gruppo misto, di parlamentari che si richiamano a Civati – che pure è tra i firmatari del documento già citato – o che provengono dal M5Stelle. Ma tutti i processi, quando sono reali, hanno i loro tempi per maturare. Purché non sia troppo. Intanto si produce una dipartita significativa di personalità di rilievo dal Pd. Sia a livello centrale che a quello locale. Saranno le elezioni amministrative a fornire la valutazione sul peso e la rilevanza di questi processi. Saranno anche le nuove liste a sinistra nelle prossime amministrative, cui si sta già lavorando, a misurare la capacità di essere un’alternativa credibile a Pd e a M5stelle, tale da riportare al voto chi se ne era allontanato e in gran numero.

Contemporaneamente procede la costruzione di una nuova coalizione sociale, che ha come protagonista la Fiom (li vedremo in piazza contro la legge di stabilità a Roma il 21 novembre), e che può contare non solo su molte organizzazioni dell’associazionismo, ma soprattutto su quell’attivismo e protagonismo sociale diffuso e per ora anonimo che non ha mai cessato di esistere nel nostro paese e che reclama un fronte unificatore. Un tema complesso, poiché chiama in causa anche una rifondazione del sindacato, a fronte dei nuovi processi intervenuti nel mondo del lavoro, che hanno rotto le vecchie paratie fra lavoro dipendente e autonomo, fra posto fisso e precariato, fra lavoro intellettuale e manuale, creando una situazione socialmente inedita tutta da studiare e mettere alla prova.

Se una coalizione sociale da sola non può risultare vincente, specie quando i temi che affronta sono di natura ormai sovrannazionale, è ancora più vero che una sinistra priva di insediamento e chiaro riferimento sociale non può esistere se non nella fantasia. I due processi sono quindi destinati a contaminarsi e incrociarsi sempre più frequentemente, non sono confondibili né sovrapponibili, ma non possono ignorarsi. Soprattutto neppure le dichiarazioni sprezzanti di Renzi li possono cancellare.

«Da tempo che non si vedeva tanta gente riunita per discutere e confrontarsi sulle ragioni e sul futuro possibile di una forza politica, non solo di opposizione al renzismo dominante e al blocco di centrodestra che cerca di riorganizzarsi».

Il manifesto, 8 novembre 2015 (m.p.r.)

La sini­stra ita­liana c’è. E ha ini­ziato il suo viag­gio in un luogo aperto al popolo di sini­stra. Era da tempo che non si vedeva tanta gente riu­nita per discu­tere e con­fron­tarsi sulle ragioni e sul futuro pos­si­bile di una forza poli­tica, non solo di oppo­si­zione al ren­zi­smo domi­nante e al blocco di cen­tro­de­stra che cerca di rior­ga­niz­zarsi. Per­ché quello che abbiamo sem­pre pro­mosso e auspi­cato è la volontà di far incon­trare e unire più voci, più orga­niz­za­zioni, più aggre­gati sociali in grado di pro­porre e di costruire un’alternativa cre­di­bile, forte, con­vin­cente «di governo».

Lavoro garan­tito nei diritti e nel red­dito; wel­fare; scuola pub­blica; immi­gra­zione come risorsa cul­tu­rale e eco­no­mica; eco­lo­gia per lo svi­luppo soste­ni­bile; sobrietà nello stile poli­tico; assi­stenza sani­ta­ria uni­ver­sa­li­stica. Sono alcuni dei temi al cen­tro dell’incontro di Sini­stra ita­liana, essen­ziali e costi­tuenti di un pro­gramma diverso per il Paese.

Ritro­vare insieme sto­rie e anime della sini­stra, da Sel ai fuo­riu­sciti del Pd, agli espo­nenti di «Altra Europa per Tsi­pras» è per il mani­fe­sto cosa buona e giu­sta. Quando abbiamo lan­ciato il dibat­tito «C’è vita a sini­stra» cre­de­vamo nella sua uti­lità e spe­ra­vamo nel suo suc­cesso. Vedere il nostro sup­ple­mento, che rac­co­glie gli inter­venti e le let­tere arri­vate in reda­zione, in mano a tutte le per­sone riu­nite nel gre­mito tea­tro romano ci con­forta. È uno sti­molo in più per­ché il nostro gior­nale diventi un saldo punto di rife­ri­mento politico-giornalistico per chi si rico­no­sce in un pro­getto alternativo.

L’unico limite tan­gi­bile, e visi­bil­mente, era la scarsa pre­senza gio­va­nile. Non bastano i poli­tici di pro­fes­sione, gli intel­let­tuali, i mili­tanti di un tempo per ren­dere con­creta un’idea così ambi­ziosa. Se dovessi dare un sug­ge­ri­mento per le pros­sime ini­zia­tive è que­sto: pen­siamo alle nuove gene­ra­zioni, pun­tiamo sul loro coin­vol­gi­mento e sul loro pro­ta­go­ni­smo. Anche per­ché il ricam­bio può essere un anti­corpo al ver­ti­ci­smo dei gruppi par­la­men­tari che adesso uni­scono le loro ener­gie. Oltre­tutto un ampio con­tri­buto di gio­vani può aiu­tare a modi­fi­care e arric­chire il lin­guag­gio e le forme di comunicazione.

Alcuni espo­nenti della mag­gio­ranza rea­gi­scono con un sor­riso di suf­fi­cienza all’uscita dei diri­genti del Pd e a ini­zia­tive come quella di ieri. Ma dimen­ti­cano, o non vogliono vedere, che que­sta è un’epoca di cam­bia­menti. E, come già scritto, quello che abbiamo visto ieri non è che l’inizio di un cambiamento.

«Nasce "Sinistra italiana". Per il momento in parlamento. Dal Pd scatta l’accusa di intelligenza con la destra. Che però è alleata di Renzi. Oggi a Roma la presentazione del «"primo passo". Con Fassina, D’Attorre, Galli. Ma senza Civati, che pensa a unire una componente nel "misto"». Il manifesto, 7 novembre 2015

«Le uscite a sini­stra spesso hanno por­tato come risul­tato di favo­rire gli avver­sari, e loro così stanno facendo il gioco della destra». L’accusa di intel­li­genza con il nemico, grande clas­sico delle scis­sioni, ieri è arri­vata. Anche se in que­sto caso il para­dosso è che il nemico, almeno un pezzo del nemico, è un alleato di governo. Ieri Lorenzo Gue­rini, vice­se­gre­ta­rio Pd, ha attac­cato quelli che escono dal suo par­tito. Alfredo D’Attorre, dal banco degli impu­tati, respinge l’accusa al mit­tente: «Se deve tro­vare chi fa più il gioco della destra non a parole ma con le scelte con­crete, non ha che da rivol­gersi al segre­ta­rio di cui è vice».

Pro­ba­bil­mente è solo un assag­gio delle pole­mi­che dei pros­simi giorni. Per­ché gli anti ren­ziani del par­la­mento da ora ten­te­ranno l’opera di ero­sione del Pd. Oggi al Tea­tro Qui­rino di Roma va in scena la pre­sen­ta­zione del nuovo gruppo di Mon­te­ci­to­rio, «Sini­stra ita­liana», nome che ha il pre­gio della chia­rezza. La coin­ci­denza con l’anniversario della Rivo­lu­zione sovie­tica è casuale: la mag­gior parte dei pre­senti non l’ha mai festeg­giata per età e per con­vin­zione. Del «Sì» faranno parte i depu­tati eletti con Sel, gli ex Pd Fas­sina, Gre­gori, D’Attorre, Folino e Galli, l’ex Sel Clau­dio Fava. Ma «altri arri­ve­ranno pre­sto», giura D’Attorre, che a un appello ai suoi ex com­pa­gni di par­tito: «A chi è ancora nel Pd voglio dire che pur­troppo biso­gna guar­dare in fac­cia la realtà, anche se è dolo­roso, come lo è stato per me. In que­sto Pd per la sini­stra non c’è pos­si­bi­lità di inci­dere. E que­sto apre ancora più il campo al M5S».

La chia­mata non è rivolta solo ai par­la­men­tari. In alcune città saranno pro­mosse ini­zia­tive per pre­sen­tare i nuovi gruppi, «ter­mi­nali sociali», come li ha defi­niti Ste­fano Rodotà. Un docu­mento inti­to­lato «Rico­struire la sini­stra per il lavoro e per l’Italia» cir­cola nella ’base’ Pd insof­fe­rente al par­tito della nazione. Nei pros­simi mesi si vedrà con quali effetti. Vuole essere «un «nuovo ini­zio, non una cosa rossa», sot­to­li­nea D’Attorre. Certo una nuova for­ma­zione di sini­stra (o di recu­pero delle cul­ture del cen­tro­si­ni­stra, a seconda di chi parla) a cui da tempo si lavora anche nella sini­stra radi­cale. I per­corsi non sono sem­pre con­ver­genti, fin qui. Negli negli scorsi giorni è stato appro­vato un docu­mento comune fra Sel, Prc, Altra Europa con Tsi­pras, Act, Pos­si­bile (Civati) e Futuro a sini­stra (Fas­sina) per l’avvio della fase costi­tuente di un «nuovo sog­getto». L’unità della com­pa­gnia è la scom­messa dei pros­simi mesi, dalle ammi­ni­stra­tive di giugno.
«La sini­stra è in crisi eppure di una sini­stra si sente, oggi più che mai, il biso­gno», è l’appello un gruppo di docenti uni­ver­si­tari, eco­no­mi­sti, intel­let­tuali rivolto alla pla­tea romana. Aprirà le danze un mes­sag­gio della pre­si­dente della Camera Laura Bol­drini, poi il vero cal­cio di ini­zio sarà di Ste­fano Fas­sina, l’ex mini­stro del governo Letta, primo ad abban­do­nare il Pd ren­ziano insieme alla depu­tata romana Monica Gre­gori. Nel pome­rig­gio chiu­derà l’assemblea Arturo Scotto, capo­gruppo di Sel e ora di «Sì». In mezzo, oltre ai com­pa­gni di par­tito, par­le­ranno stu­denti, lavo­ra­tori, eso­dati e altre realtà di cui il nuovo gruppo vuole essere appunto «ter­mi­nale sociale». Ci sarà anche Fran­ce­sca Chia­vacci dell’Arci. Man­derà un mes­sag­gio Ser­gio Cof­fe­rati, ex Pd doc, che bene­dice l’iniziativa. C’è chi annun­cia una com­po­nente di «Sini­stra ita­liana» anche nel gruppo misto del senato. Ma non subito: a fre­nare sono i due sena­tori ex M5S Boc­chino e Cam­pa­nella, oggi dell’Altra Europa: «Siamo coin­volti nel per­corso costi­tuente di una nuova forza della sini­stra. Ma l’atto di iscri­zione al gruppo avverrà in un secondo momento», spiega il primo. E Cam­pa­nella: «Vogliamo fare da ponte fra Sel e le altre realtà che si muo­vono nella stessa dire­zione. Mi auguro che pre­sto saremo tutti insieme, anche con Civati».

In realtà Civati lavora a una com­po­nente auto­noma nel gruppo misto della camera. «Uni­remo insieme espe­rienze finora divise per offrire al Paese un’agenda cre­di­bile di cam­bia­mento», assi­cura Nichi Ven­dola. Per D’Attorre «la novità è che chi usciva dal Pd rima­neva disperso. Da domani parte un grande pro­cesso uni­ta­rio, c’è un rife­ri­mento che adesso è par­la­men­tare e poi si strut­tu­rerà nei ter­ri­tori e l’anno pros­simo ci sarà il pro­cesso di costru­zione del par­tito vero e proprio».

Una riflessione profonda e accorata sulle ragioni per cui l'indignazione non si trasforma in azione conseguente, e sul cambiamento di prospettiva che è necessario assumere. Il manifesto, 4 novembre 2015
Da quando è ini­ziato il caso Marino ricevo tele­fo­nate e mes­saggi, da com­pa­gni e amici, il cui con­te­nuto è pres­sap­poco que­sto: «Fac­ciamo qual­cosa, non pos­siamo assi­stere alla morte della demo­cra­zia». Ma que­sto sen­ti­mento auten­tico di mal­con­tento, o di disa­gio, o di fru­stra­zione, non arriva oltre una sana quanto legit­tima indi­gna­zione «tra­sfor­mando la spon­ta­neità in orga­niz­za­zione, la folla in massa cosciente, il dis­senso in pro­po­sta poli­tica alter­na­tiva», come ha ben scritto Angelo d’Orsi (il mani­fe­sto, 1 novembre).

Essa, quando c’è - e non sem­pre c’è - appare un fuoco di paglia, una levata di scudi senza alcun esito poli­tico. Tant’è che molti di que­sti com­pa­gni e amici, finiti i cla­mori dello scan­dalo, tor­nano quasi subito alle loro occu­pa­zioni quo­ti­diane (come se le scon­fitte non pesas­sero, o fos­simo ormai abi­tuati ad esse come a un feno­meno naturale).

Al netto dei tanti errori di Marino (sui quali è inu­tile tor­nare), resta il fatto che la persona-sindaco Marino è stata let­te­ral­mente mas­sa­crata nella sua dignità di per­sona e desti­tuita di ogni ragione poli­tica, da cui l’indignazione feroce, e pur­troppo effi­mera, di tante per­sone. Di fronte a que­sti tra­gici (nel senso di tra­ge­dia greca) fatti a me ven­gono in mente le parole di Ingrao, scritte nel libro di Gof­fredo Bet­tini (Un sen­ti­mento tenace, Impri­ma­tur):

«Io sento peno­sa­mente la sof­fe­renza altrui: dei più deboli, o più esat­ta­mente dei più offesi. Ma la sento per­ché pesa a me: per così dire, mi dà fasti­dio, mi fa star male. Quindi, in un certo senso, non è un agire per gli altri: è un agire per me. Per­ché alcune sof­fe­renze degli altri mi sono insop­por­ta­bili. Que­sto epi­so­dio può dire la ragione per cui io rimango incol­lato alla poli­tica, per­sino sotto l’aspetto tat­tico. Non sono sicuro che ciò si possa rap­pre­sen­tare come una moti­va­zione morale. C’entrano gli “altri”, in quanto la loro con­di­zione mi “turba”, e senza gli “altri” non esi­sto (nem­meno sarei nato)».

C’è, in quelle parole, il senso vero della poli­tica. Forse le per­sone (di sini­stra) non sof­frono più il dolore guar­dando le ingiu­sti­zie, i soprusi, lo scar­di­na­mento delle regole, l’abuso di potere, l’ineguaglianza sociale, la sof­fe­renza dei poveri e degli oppressi, come ad esem­pio, nel caso degli immi­grati. La poli­tica (anche quella buona) oggi ci invita sem­mai a guar­dare oltre: come rico­struire un’unità a sini­stra, come con­tra­stare o bat­tere l’avversario di turno. Detto in altri ter­mini, le per­sone sem­brano con­tare assai poco. Ma dav­vero siamo sicuri che non biso­gne­rebbe invece fare un passo indie­tro e ricon­si­de­rare quel senso di indi­gna­zione e di radi­ca­lità pro­fonda con­te­nuta nelle parole di Ingrao che pos­sono appa­rire ai pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, moti­va­zioni per­so­nali e per­fino moralistiche?

Le alchi­mie poli­ti­che per dare vita a nuovi sog­getti, o a un nuovo sog­getto della poli­tica o a nuove for­ma­zioni, si sono tutte sem­pre sgre­to­late nell’arco di pochi mesi dalla loro nascita e tanto più si mol­ti­pli­cano, tanto più espo­nen­zial­mente si dis­sol­vono. Forse non è la strada giu­sta, forse non siamo pazienti, forse non siamo così deci­sa­mente con­vinti che que­sto non è il migliore dei mondi, forse l’ingiustizia ai danni degli altri non ci pro­voca quella sof­fe­renza di cui par­lava Ingrao, forse c’è qual­cosa che ancora non riu­sciamo a capire e ad ela­bo­rare poli­ti­ca­mente. Se tante per­sone si sono recate a vedere l’Expo par­tendo da paesi lon­tani, sacri­fi­can­dosi a file inter­mi­na­bili per assi­stere a qual­che foto­gra­fia o a qual­che docu­men­ta­rio che pote­vano tran­quil­la­mente essere con­su­mati a casa pro­pria davanti alla Tv, qual­che motivo ci sarà pure.

Forza e potere dei mass-media, dirà qual­cuno, ma non basta a spie­gare il movi­mento di oltre 20 milioni di visi­ta­tori in fila, quando a pro­te­stare per la defe­ne­stra­zione del Sin­daco, sulla piazza del Cam­pi­do­glio, non ce n’era più di qual­che migliaio.

In que­sto toc­chiamo con mano la potenza dell’egemonia del capi­tale e dei poteri forti. Un’egemonia che disin­canta alcuni e che con­duce altri sulla strada della rivolta popu­li­sta con­tro un sistema che ormai non tutela i più svan­tag­giati e che offre spet­ta­coli effi­meri a quel ceto medio che crede ancora di poter con­ser­vare i vec­chi pri­vi­legi.

Chi ha cuore e capa­cità di pen­sare una nuova sini­stra deve ripar­tire da una revi­sione pro­fonda di alcune cate­go­rie sto­ri­che come, ad esem­pio, quella diven­tata astratta e gene­rica di popolo, fran­tu­mato, quest’ultimo, in un ven­ta­glio ampio di nuovi ceti sfrut­tati a vario titolo. Il rife­ri­mento deve essere alla per­sona offren­dole la pos­si­bi­lità di eman­ci­parsi e di capire come le sue esi­genze pos­sono con­vi­vere e anzi acqui­stare senso solo se messe a con­fronto con quelle dell’altro. Per­ché spesso accade, quando si tenta di creare una nuovo for­ma­zione poli­tica, che la per­sona venga ine­vi­ta­bil­mente oscu­rata in nome di vec­chie stra­te­gie e astute tat­ti­che che pro­du­cono ulte­riore disaf­fe­zione e disin­canto. Anche se non sof­fia più il vento della sto­ria, come afferma Cas­sano, si può andare a remi, se però si cono­sce la rotta e si ha la pazienza di remare e di stare insieme sulla stessa barca.
Da referendum al Parlamento, un esame rigoroso e appassionato dei temi ineludibili se il «mondo della sinistra» vuole contare nella ricomposizione in atto del quadro politico.

La Repubblica, 2 novembre 2015

NO, non si possono valutare le novità che ogni giorno compaiono nel mondo della sinistra ritornando a quel pensiero di Mao secondo il quale «grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente». E neppure ci si può affidare alla speranza di cento fiori che fioriranno. Proprio perché si tratta di iniziative significative, servono analisi rigorose, senza nostalgie o compiacenze, per cercar di cogliere gli elementi di una consapevole discontinuità e i segni di una attenzione per la realtà legata ad uno sguardo sul futuro.

Il sistema politico italiano si sta riassestando. Matteo Renzi persegue la sua costruzione del partito della nazione esercitando una forte capacità di attrazione verso un mondo di destra disgregato e alla ricerca di approdi. Il Movimento 5Stelle sembra anch’esso guardare oltre i suoi abituali confini, consapevole di una forza che gli proviene dal suo apparire come l’unica plausibile opposizione. Gli spezzoni della destra si agitano, alla ricerca di un federatore che possa ripetere quel che Berlusconi fece nel 1994, contando magari su una modifica della legge elettorale che riapra le porte alle coalizioni.

A sinistra si moltiplicano le iniziative, e si può provare ad elencare le più importanti. È annunciata per sabato prossimo la costituzione di un nuovo schieramento parlamentare, nel quale dovrebbero confluire gli eletti di Sel, quelli già usciti o in via di uscita dal Pd, quelli che hanno già abbandonato altri gruppi. È appena nato un Comitato per il no nel futuro referendum sulla riforma costituzionale e lo stesso sta avvenendo per contrastare l’Italicum, impugnandolo davanti alla Corte costituzionale e preparando un referendum che ne cancelli gli aspetti più negativi. È stato avviato un lavoro comune tra Libera, Caritas, Coalizione sociale per sostenere una legge che introduca un reddito giustamente chiamato “di dignità”. Altri gruppi si sono già organizzati per arrivare a referendum abrogativi di norme della legge sulla scuola e in materia di lavoro. Il Forum dell’acqua prosegue la sua difesa davanti ai giudici del risultato del referendum del 2011, in molte città viene riproposto il tema della tutela dei beni comuni e si agisce a difesa dei diritti sociali.

Di fronte a questa abbondanza sono possibili alcune prime conclusioni e nascono molti interrogativi. L’insistenza sui referendum fa emergere una linea che mette in primo piano l’iniziativa diretta dei cittadini e apre spazi alla loro partecipazione. È evidente la volontà di reagire al localismo, alla frammentazione delle iniziative, poiché il referendum è uno strumento che unifica, che promuove una discussione nazionale su grandi temi sociali e istituzionali. Ma, imboccando con tanta determinazione la via dell’appello diretto al popolo, non si finisce con il secondare proprio quel populismo che viene additato come un rischio da evitare?

In realtà, nel momento in cui la verticalizzazione e la concentrazione del potere impoveriscono la democrazia rappresentativa e fanno deperire pericolosamente controlli e contrappesi, il referendum si presenta come uno strumento per ricostruire equilibri costituzionali e reagire ai processi di esclusione che sono all’origine dell’astensionismo elettorale. Esattamente l’opposto di un suo uso plebiscitario, che si ha quando, dall’alto, si chiede la conferma di una decisione già presa. Siamo piuttosto di fronte ad una di quelle strategie “contro-democratiche” esplorate da Pierre Rosanvallon, per reagire alla “presidenzializzazione della democrazia”, attivando poteri di partecipazione e controllo dei cittadini. Ma, nella particolare situazione italiana, il referendum costituisce anche uno strumento per la costruzione dell’agenda politica, per individuare questioni rilevanti che altrimenti sarebbero oscurate dalla forza di interessi particolari o da arretratezza politica e culturale.

Questo ci porta agli interrogativi sollevati dalle altre iniziative. Stanno per nascere gruppi parlamentari dichiaratamente di sinistra e che, indubbiamente, si configureranno come il primo passo verso la nascita di un nuovo partito. Come si muoveranno? La finalità di dar vita a una visibile e consistente opposizione può far correre il rischio di una esclusiva preminenza dell’attività di contrasto delle iniziative del Governo, di un eterno contropiede. Finalità necessaria, ma che dovrebbe essere accompagnata da un altrettanto intenso lavoro su questioni specifiche, ignorate o sottovalutate dall’azione governativa.

La costruzione dell’agenda politica non può essere tutta lasciata all’esterno. Alla società e al suo modo di organizzarsi si deve guardare non solo per reagire a chi ne vuole certificare l’irrilevanza e cancellare ogni soggetto collettivo. Nel momento in cui si cerca di allargare l’orizzonte politico, non basta il ricorso intelligente a tutti gli strumenti parlamentari disponibili, che possono incontrare resistenze difficilmente superabili. Per batterle, è indispensabile che i gruppi parlamentari siano un vero “terminale sociale”, per creare sui singoli temi quella pressione collettiva essenziale per superare gli ostacoli.

Questa è una considerazione che vale anche per i referendum, non pianificabili a tavolino, ma che hanno successo solo se preceduti e accompagnati da un intenso lavoro sociale, come insegna il referendum sull’acqua. L’essere terminali sociali, tuttavia, non può trasformare il lavoro dei gruppi parlamentari in un semplice rispecchiamento di tutto ciò che si muove nella società. Non si deve confondere la molteplicità delle iniziative con la frammentazione. Per uscire da questa situazione, serve un lavoro culturale, una riflessione sulla democrazia che misuri tutti gli effetti a cascata del congiungersi di riforma costituzionale e legge elettorale, con la nascita di un governo del Primo ministro che modifica la forma di governo e lambisce la forma di Stato. E si deve valutare la situazione italiana come parte della più generale discussione sulle sorti della democrazia, che recentissimi studi italiani hanno messo in evidenza e che dovrebbero essere meditati anche per ristabilire la comunicazione tra cultura e politica.

La politica è selezione di domande, individuazione di priorità. Operazioni che non possono essere affidate solo ai gruppi parlamentari. Se davvero si vuole rendere concreto e visibile un nuovo campo della sinistra, i diversi soggetti oggi all’opera devono essere capaci di parlarsi, di confrontarsi continuamente. Non è impresa facile, perché vi sono identità forti che temono di perdere rendite acquisite e ombre del passato che temono d’essere cancellate. Ma le forze in campo dovrebbero essere guidate dalla consapevolezza che i loro attuali limiti possono essere superati solo se si crea una massa critica in grado di promuovere mutamenti reali.

Le indicazioni puntuali non mancano. Di fronte ad una distribuzione a pioggia di risorse nella materia del sostegno al lavoro è tempo di passare ad una nuova impostazione, di cui il reddito di dignità è l’esempio più chiaro. Devono essere garantite nuove forme di intervento dei cittadini: con una semplice modifica dei regolamenti parlamentari si può rendere obbligatorio l’esame delle leggi d’iniziativa popolare; riprendendo in sede parlamentare il tema dei beni comuni, si possono sottrarre all’abbandono, alla dissipazione, alla speculazione risorse importanti. Si deve abbandonare il perverso scambio tra impoverimento dei diritti sociali e concessione al ribasso di qualche diritto civile. Si deve riprendere una seria discussione sull’Europa. L’elenco si può allungare, ma questo dovrebbe essere il compito di una discussione corale che abbia come bussola la ricostruzione di una politica costituzionale.

Se vogliamo difen­dere il pro­getto poli­tico dei Padri costi­tuenti, p o se ne vogliamo imma­gi­nare un altro che sal­va­guardi i suc­ci­tati prin­cipi e pre­sti atten­zione alla gente comune, tocca radu­nare truppe, armarsi e com­bat­tere». Il manifesto, 27 ottobre 2015


Qual­cuno ancora non l’ha inteso. Di per sé la demo­cra­zia non è gran cosa. Sarà un nobi­lis­simo ideale, ma quella toc­cata agli umani è una mise­ria. Come ebbe a dire Schum­pe­ter, è una gara per le cari­che pub­bli­che e per i divi­dendi che offrono. Basta vin­cere le ele­zioni. Un tempo gli elet­tori si atti­ra­vano esi­bendo alcuni sacri prin­cipi – ugua­glianza, soli­da­rietà, ecc. – e attuando poli­ti­che piut­to­sto gene­rose nei loro con­fronti, non­ché arruo­lan­doli e asso­cian­doli tra­mite i par­titi. Per com’è fatta da ultimo la com­pe­ti­zione poli­tica, gli elet­tori sono attratti mediante costo­sis­sime cam­pa­gne media­ti­che. Quindi, si fa eco­no­mia di poli­ti­che «sociali», per fare quelle gra­dite a chi finan­ziale cam­pa­gne elet­to­rali: a cena o in sedi più riposte.

Per rin­ca­rare la dose: la com­pe­ti­zione demo­cra­tica è con­ge­ni­ta­mente truc­cata. Chi scrive le regole sono i gio­ca­tori, ma non sem­pre tutti d’intesa fra loro. Le scri­vono i vin­centi a spese della concorrenza.

Le ultime leggi elet­to­rali adot­tate in Ita­lia lo con­fer­mano come meglio non si potrebbe. Con­tano invero molto le cir­co­stanze. Nel 1946– 48, quando si adot­ta­rono pro­por­zio­nale e bica­me­ra­li­smo, i vin­centi erano tanti e nes­suno era in grado di imporsi agli altri: furono costretti a un accordo piut­to­sto equo. Non appena però la Dc si con­vinse che cir­co­stanze e rap­porti di forza erano cam­biati, adottò la legge truffa.Qui sta tut­ta­via il bello delle ele­zioni. Non è detto che quando i vin­centi le riscri­vono, o rein­ter­pre­tano, a pro­pria misura, le regole fun­zio­nano secondo le attese. Padri e padrini dell’Italicum si ten­gano per avvertiti.

La demo­cra­zia elet­to­rale man­tiene un mar­gine, sep­pur ristretto, di impre­ve­di­bi­lità. Inol­tre, le ele­zioni cicli­ca­mente si ripe­tono. Com­pe­ti­ti­vità e cicli­cità sono pregi fon­da­men­tali. Il loro primo pre­gio sta nel fatto che se non ci sono la demo­cra­zia diventa auto­cra­zia e la demo­cra­zia (elet­to­rale) è un mar­chio oggidì quasi irri­nun­cia­bile. In secondo luogo, com­pe­ti­ti­vità e cicli­cità assi­cu­rano che nes­sun risul­tato è mai per sem­pre. Prima o dopo, il dia­volo ci mette la coda.

La com­pe­ti­ti­vità, tut­ta­via, se non è resa fit­ti­zia, ha pure un altro pre­gio. Costringe i con­cor­renti a mostrarsi un po’ gene­rosi con gli elet­tori: se vuoi che ti votino, qual­cosa devi con­ce­der­gli. Suf­fra­gio uni­ver­sale e wel­fare sono esi­stiti per que­sta ragione. Pro­prio per bloc­care que­sta pos­si­bi­lità – defi­nita di volta in volta dai catoni di accatto dema­go­gia, clien­te­li­smo, assi­sten­zia­li­smo o popu­li­smo – le regole demo­cra­ti­che sono state da un quarto di secolo ricon­ge­gnate ridu­cendo a due le alter­na­tive e ren­den­dole fit­ti­zie. Dato che i con­cor­renti, per inse­guire l’elettore inter­me­dio, pro­met­tono e fanno tutti le stesse cose. Oppresso da tale com­pe­ti­ti­vità simu­lata, lo Stato sociale ci ha lasciato le penne. Men­tre metà elet­tori, disgu­stati, non votano nem­meno, le ele­zioni oggi si vin­cono con una man­ciata di voti, lau­ta­mente pagati da chi ha i soldi. Come si voleva.

Qual­cuno a que­sto punto invo­cherà la Costi­tu­zione e le tavole dei diritti. Ma andiamo alla sostanza: costi­tu­zioni e diritti sono ten­ta­tivi d’irrigidire giu­ri­di­ca­mente un equi­li­brio di potere dato sto­ri­ca­mente e pro­iet­tarlo nel tempo. La costi­tu­zione del ‘48 voleva irre­ver­si­bile l’antifascismo e il – mode­sto – comune deno­mi­na­tore che legava le forze poli­ti­che che la sot­to­scris­sero, ovvero l’attenzione per il mondo del lavoro e le classi popo­lari. La Costi­tu­zione è per­tanto un incro­cio tra un pro­gramma poli­tico solenne e un pezzo di carta. Dopo un avvio sfer­ra­gliante, per un po’ il pro­gramma poli­tico ha fun­zio­nato. Ma non per forza intrin­seca, ma per­ché c’erano lar­ghis­sime truppe elet­to­rali e impo­nenti orga­niz­za­zioni di massa che lo garantivano.

Al con­tempo, i par­titi erano in con­cor­renza tra loro per l’elettorato popo­lare. Aggiun­gia­moci, infine, che c’era una classe poli­tica che, pur tra tanti distin­guo, ci cre­deva. Per for­tuna c’è anche chi fa poli­tica non solo per vin­cere le ele­zioni, ma anche per attuare qual­che nobile ideale. Alla lunga la Costi­tu­zione si è ridotta a un pezzo di carta.

Com­pe­ti­zione effet­tiva, vasti elet­to­rati e orga­niz­za­zioni di massa in grado di susci­tarli sono ciò che con­sente di arre­dare la demo­cra­zia in maniera non troppo misera.

Bene, la reto­rica della gover­na­bi­lità ad ogni costo, di destra e di sini­stra, ha azze­rato la com­pe­ti­zione e quella mora­li­sta ha accu­sato i par­titi di essere la sen­tina di ogni vizio. Le sen­tine si pos­sono anche svuo­tare. Si è detto invece che i par­titi erano con­ge­ni­ta­mente viziosi e li si è ridotti a ectoplasmi.

Con­clu­sione. Se vogliamo difen­dere il pro­getto poli­tico dei Padri costi­tuenti, per­ché lo rite­niamo ancora valido, o se ne vogliamo imma­gi­nare un altro che sal­va­guardi i suc­ci­tati prin­cipi e pre­sti atten­zione alla gente comune, tocca radu­nare truppe, armarsi e com­bat­tere. Con armi paci­fi­che, ma che fac­ciano arre­trare l’avversario. Non è facile, per­ché l’avversario è attrez­zato: fra le altre cose ci ha inca­te­nati ai dik­tat dell’Europa dei banchieri.

Ma non è detto che sia impos­si­bile. Non è impos­si­bile, ad esem­pio, esco­gi­tare tec­ni­che comu­ni­ca­tive utili aggi­rare le blin­da­ture dei media, che sono in mano ai ric­chi. I cosid­detti par­titi popu­li­sti, si badi, ci stanno riu­scendo, sep­pur nell’intento d’instradare la demo­cra­zia sui binari del raz­zi­smo e dell’intolleranza. Tant’è che pure a sini­stra da qual­che parte qual­cosa si muove: in Inghil­terra, nella peni­sola ibe­rica, in Grecia.

Chissà per­ché la sini­stra ita­liana è rima­sta finora pri­gio­niera di per­so­na­li­smi e nar­ci­si­smi, limi­tan­dosi a pestare i piedi per i diritti vio­lati e per le male­fatte di que­sto e quello. Chi dice però che non possa far di meglio?

Nell'intervista di Antonio Gnoli la vita di una protagonista di una delle principali correnti politiche e culturali che hanno attraversato l'Italia dalla Resistenza a oggi. raccontata da chi la sta vivendo.

LaRepubblica, 1 febbraio 2015

Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune.

Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po' rassegnata e un po' incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K.S. Karol. «Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l'amore è stato un'esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato», dice.

Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur . Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese»Collera perché?«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico»

Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi»

Ma non era comunista?
«Era prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere "Louis Aragon"! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio».

Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo»

E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».

Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
«Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura».

Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».

Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».

Ma anche una linea da osservare.
«Togliatti era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita».

Con chi si è complicata la vita?
«Con Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere».

Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l'Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato».

Quell'anno alcuni restituirono la tessera.
«E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante».

Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti»

Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».

Foucault aveva sparato a zero contro l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i piedi»

Ha conosciuto Foucault personalmente?

«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un'intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l'Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno»

Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un'amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt'altro modo».

Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis»

Quale malattia?

«Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci»

Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».

A proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi?
«Lucio non era affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane»

Tra le figure importanti nella sua vita c'è stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme»

Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo?
«Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente dall'Italia non sono stati rovinati»

Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho una certa invidia per le mie amiche - come Margarethe von Trotta - che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un'altra»

Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
«Non ho più un'idea di Dio dall'età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio»

Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».


Il rapporto con suo padre come è stato?
«Era un uomo all'antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C'era molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che eravamo parte dell'impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent'anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine di Pola»

Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po' strana»

Si riconosce un lato romantico?«Se c'è si ha paura di tirarlo fuori. Non c'è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell'innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro»

Come vive il presente, questo presente?
«Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita»

Ha mai pensato di tornare in Italia?
«No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe»
È l'orgoglio che glielo impedisce?
«È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh»

E le sue radici: Pola? L'Istria?
«Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me»

C
Traduco in italiano l’ultimo articolo di Bia Sarasini sul : ci siamo fatti prendere in giro per un anno e mezzo e forse più da Sel, che non aveva nessuna intenzione di unificarsi con L’altra Europa e con Rifondazione, ma voleva solo logorarle, cosa che aveva cominciato a fare fin da prima della campagna elettorale e che alla fine le è riuscito benissimo.

Abbiamo perso per strada oltre un milione di elettori, quarantamila persone che avevano firmato con entusiasmo il nostro manifesto, migliaia di compagni disgustati dal nostro tergiversare, tre quarti dell’intellighenzia italiana che si era illusa di trovare nel nostro progetto un punto di riferimento, il lavoro di decine di comitati locali.

Abbiamo sprecato il “momento magico” del risultato elettorale sparando a palle incatenate contro Barbara Spinelli - figura senza la quale la nostra lista non sarebbe mai nata - cosa che peraltro avevamo cominciato a fare già durante la campagna elettorale, sostenendo che un bel bikini avrebbe attirato più voti dei suoi noiosi discorsi politici. Adesso non contiamo più niente e ci rendiamo conto che quelli con cui avevamo promesso di fare il big bang della sinistra, compresi molti fuoriusciti dal PD, pensano solo a rifare il centro-sinistra perché non sanno concepire nient’altro.

D’altronde neanche noi sappiamo bene che cosa fare, ma andiamo avanti così. Speriamo che il buon dio ci aiuti.

Una decisa critica ai contorcimenti dei resti della vecchia sinistra, che riprende il cammino come se nulla fosse cambiato, e alle incertezze della sinistra radicale.

Il manifesto, 24 ottobre 2015

Allora, era qui che dove­vamo arri­vare, il futuro della sini­stra è il ritorno al pas­sato dell’Ulivo di Prodi? Mesi e mesi di tavoli, incon­tri, riu­nioni, e annessi rin­vii che spez­zano il cuore e i pro­getti in vista del magic moment, sem­pre alla ricerca della mai rag­giunta con­giun­tura per­fetta, era per ritro­vare l’antico cen­tro­si­ni­stra? Quello bello, di un tempo, quando non c’era la crisi all’orizzonte, il wel­fare era soste­ni­bile e l’Europa era ancora un bel sogno in cui cre­dere, men­tre nes­suno imma­gi­nava l’apparire del par­tito della nazione?

Non che ci sia da stu­pirsi. La fram­men­ta­zione dello spa­zio poli­tico a sini­stra è sem­pre rima­sta tale, nono­stante l’impegno gene­roso di tante e tanti, nono­stante lo sforzo di tenere un filo che leghi le mille espe­rienze tra sociale senza rap­pre­sen­tanza e poli­tico che non trova una forma. Nono­stante il suc­cesso — mode­sto ma unico — dell’ultimo pro­getto uni­ta­rio della sini­stra, il risul­tato della lista l’Altra Europa con Tsi­pras alle Euro­pee del 2014, senza igno­rare la delu­sione e gli abban­doni che ne sono seguiti. Non c’è da mera­vi­gliarsi che le ine­vi­ta­bili e fin troppo con­te­nute rot­ture — vista la rotta impressa dal segre­ta­rio Mat­teo Renzi — che sono in corso nel Pd, fac­ciano fatica a orien­tarsi nel campo nuovo in cui ven­gono tro­varsi, quello che il gergo media­tico con­ti­nua a chia­mare sini­stra radi­cale, e che più volen­tieri fac­ciano rife­ri­mento ai momenti migliori del pas­sato recente. E a parte la mera­vi­glia che sicu­ra­mente avrà colto l’eccellente Pro­fes­sore nel vedersi con­si­de­rare il rife­ri­mento di un pro­getto di sini­stra, addi­rit­tura di una “cosa rossa”, il fatto sor­pren­dente è che in que­sto qua­dro vien can­cel­lata la crisi eco­no­mica che ha scon­volto la scena mon­diale. Come sem­bra spa­rita la crisi del wel­fare e della buona vec­chia social­de­mo­cra­zia, che dallo tsu­nami della crisi è stata spaz­zata via.

E lo dico senza dimen­ti­care, anzi, le mie sim­pa­tie uli­vi­ste del pas­sato. Pro­prio per­ché ne ho seguito passo passo l’intera evo­lu­zione, l’evocazione attuale mi sem­bra assurda. La muta­zione del Pd impressa da Renzi è l’ostacolo più evi­dente. Una muta­zione che si sta com­ple­tando sotto nostri occhi, con l’espulsione dal pro­prio pro­filo non tanto delle radici sto­ri­che che nella comu­ni­ca­zione di pro­pa­ganda ven­gono — con misura — col­ti­vate, quanto del radi­ca­mento sociale.

È così sor­pren­dente, que­sta pro­spet­tiva, che viene da chie­dersi se non sia uno dei tanti gio­chi in corso per affon­dare defi­ni­ti­va­mente ogni ten­ta­tivo di sini­stra nel nostro paese. Una sini­stra anti­li­be­ri­sta, che punti a pro­teg­gere i gio­vani, i pen­sio­nati, le donne, i lavo­ra­tori, dalla vio­lenza dell’attacco sociale, una sini­stra che vede nel governo Renzi l’interprete fedele, anzi, crea­tivo — del dise­gno libe­ri­sta delle élite euro­pee. Come si fa a pen­sare ad alleanze con chi taglia la sanità pub­blica? Come non vedere pro­spet­tive diverse in Europa, per esem­pio in Portogallo?

Certo, ogni pro­po­sta è legit­tima, in un ter­reno che non vede ancora in campo un pro­getto comune, un ter­reno che non ha nome, tanto che si ritrova a essere iden­ti­fi­cato con un richiamo che nella ver­sione più bene­vola appare nostal­gica, come “cosa rossa”. E non si può certo imma­gi­nare che ci sia un’unica pro­spet­tiva, l’esatto con­tra­rio dell’idea in cui ci siamo spesi in tante e in tanti. L’idea di un met­tersi in mar­cia, di avviare insieme un pro­getto che nel cam­mi­nare prende forma. Un met­tersi in moto che ha biso­gno di un avvio, un ini­zio. Un ini­zio fin troppo atteso.

Abbiamo discusso, nei mesi scorsi, della vita a sini­stra. La vita, se c’è, a un certo punto prende forma, vive appunto. Credo che con­ti­nuare a tra­sci­nare la deci­sioni di par­tenza di riu­nione in riu­nione sia un gioco mor­tale. Si potrebbe anche chia­marlo gioco delle tre carte, vedo e non vedo, ci sono e non ci sono. È diver­tente, ma solo per chi tiene il banco. Che non è nes­suno dei par­te­ci­panti. E il banco sono il governo, o l’Europa, o il libe­ri­smo, fate voi. Che a gio­care ci siano solo uomini non è un det­ta­glio irrilevante.

«Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazio­nale della sini­stra. Per que­sto la nuova capa­cità uto­pica della sini­stra deve fon­darsi su una nuova con­ce­zione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione poli­tica pla­ne­ta­ria del potere».

Il manifesto, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)

C’è vita se c’è capa­cità uto­pica, dove per uto­pia s’intende anche l’immaginazione di “luo­ghi di vita” buoni, desi­de­rati, da rea­liz­zare. La sini­stra - l’insieme delle forze sociali orga­niz­zate anche piano poli­tico al ser­vi­zio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani rispetto a diritti e dignità - ha pur­troppo spe­ri­men­tato a sue spese la per­dita di imma­gi­na­zione e capa­cità utopica.

I gruppi domi­nanti sono riu­sciti, a par­tire dagli anni ’70, ad imporre nuo­va­mente la loro nar­ra­zione della vita, della società e del mondo. E per due ragioni prin­ci­pali. Da un lato, ritor­nati al potere all’epoca di Rea­gan e That­cher, hanno ope­rato una mas­sic­cia de-costruzione ideo­lo­gica e sociale dello Stato del wel­fare. Dall’altro, non avendo svi­lup­pato una visione poli­tica auto­noma della scienza e della tec­no­lo­gia, la sini­stra non ha potuto gio­care alcun ruolo inno­va­tore influente sulle stra­te­gie di con­trollo ed uso delle nuove tec­no­lo­gie del vivente, cogni­tive, dell’informazione e della comu­ni­ca­zione, ener­ge­ti­che e delle tec­no­lo­gie dei mate­riali, sulla base delle quali l’economia mon­diale e le società “svi­lup­pate” sono state pro­fon­da­mente ristrutturate.

Le nuove nar­ra­zioni “posi­tive” del mondo e delle tra­sfor­ma­zioni sociali sono cosi diven­tate mono­po­lio dei gruppi domi­nanti. Le sini­stre sono state rele­gate al ruolo secon­da­rio di “forze di rea­zione”. I domi­nanti hanno invece raf­for­zato il loro potere in quanto fis­sa­tori dell’agenda poli­tica pla­ne­ta­ria: al cen­tro del dibat­tito filo­so­fico, poli­tico e cul­tu­rale c’ è stata solo la loro uto­pia (misti­fi­ca­trice) della glo­ba­liz­za­zione eco­no­mica, da loro data come crea­zione ine­vi­ta­bile e irre­si­sti­bile (senza alter­na­tive) dei luo­ghi di vita dell’umanità.

Nel corso degli anni ’90, c’è stato un risve­glio uto­pico a sini­stra. Mi rife­ri­sco alla tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie inter­na­zio­nali, al prin­ci­pio di soste­ni­bi­lità in alter­na­tiva all’imperativo della cre­scita eco­no­mica infi­nita, al suc­cesso con­tro l’Ami ed l’Omc (Seat­tle), al bilan­cio par­te­ci­pa­tivo, al buem vivir, al lan­cio del Forum sociale mon­diale. Pur­troppo, si è trat­tato di un feno­meno di corta durata. L’incapacità delle sini­stre d’integrare e fede­rare le loro forze in azioni e pro­grammi comuni mon­diali dure­voli, ha per­messo ai gruppi domi­nanti, di scon­fig­gerle ai vari livelli nazio­nali in nome della nuova moder­nità legata alla “glo­ba­liz­za­zione delle rivo­lu­zioni scien­ti­fi­che e tec­no­lo­gi­che” e della lotta con­tro il pre­teso nuovo nemico mon­diale, il ter­ro­ri­smo. Se a ciò si aggiun­gono le ripe­tute crisi eco­no­mi­che e finan­zia­rie che da più di 25 anni hanno deva­stato i tes­suti sociali e le comu­nità locali, nazio­nali, con­ti­nen­tali e mon­diali, si capi­sce il per­ché mai come oggi la potenza, vio­lenta del sistema domi­nante è stata cosi grande a livello mon­diale (il pia­neta) e glo­bale (in tutti i campi).

Ora­mai, una larga parte delle sini­stre del “Nord del mondo” ritiene che la sola pos­si­bi­lità rea­li­sta di dare spa­zio ad una forza poli­tica di sini­stra capace di con­qui­stare il potere di gover­nare è di inno­vare a par­tire da e restando all’interno del sistema. De facto, la capa­cità uto­pica della sini­stra si esprime oggi essen­zial­mente attorno e sulle stesse aree su cui lavo­rano le inno­va­zioni dei gruppi rifor­mi­sti delle forze domi­nanti, cen­trate sull’emergenza e lo svi­luppo del “‘nuovo” impren­di­tore sociale, chia­mato “impren­di­tore col­let­tivo”, per dif­fe­ren­ziarlo dall’imprenditore indi­vi­duale del capi­ta­li­smo tra­di­zio­nale. Penso al vasto e pro­li­fico insieme di inno­va­zioni ope­rate all’insegna dell’economia del bene comune, di comu­nione, dell’economia cir­co­lare, della tran­sfor­ma­tive society, della tran­si­tion society, dell’economia blu, dell'eco­no­mia col­la­bo­ra­tiva, della sha­ring eco­nomy, dell’economia sociale e soli­dale, della nuova finanza.

La ragione di essere di que­ste incu­ba­trici uto­pi­che è la ricerca delle nuove forme di pro­du­zione e di accu­mu­la­zione di ric­chezza all’era delle tec­no­lo­gie di reti, fluide, ad ele­vata den­sità e varietà di dati in rapida cumu­la­zione, ad altis­sima capa­cità tra­sfor­ma­trice, irri­du­ci­bili, omni-operative.

Due gli inse­gna­menti gene­rali per le sini­stre del mondo, ed in par­ti­co­lare per la sini­stra in Europa. Primo. Non v’è capa­cità uto­pica da soli­tari. La grande forza uto­pica di Syriza (in breve: la ri-organizzazione euro­pea del debito) è stata dura­mente cal­pe­stata per­ché nes­sun altro governo e popolo euro­peo se n’è fatto alleato espli­cito e con­vinto. Ri-costruire una capa­cità uto­pica forte e solida della sini­stra è un’opera di lungo periodo che deve avve­nire su basi euro­pee e mon­diali (l’esperienza dell’acqua bene comune insegna).

Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazio­nale della sini­stra. La lotta con­tro il diritto di pro­prietà intel­let­tuale sul vivente deve essere con­ti­nen­tale e mon­diale. Lo stesso vale della lotta, da rin­no­vare, con­tro gli arma­menti. Idem per quanto riguarda la messa fuori legge dei fat­tori strut­tu­rali gene­ra­tori dei pro­cessi d’impoverimento per natura trans­na­zio­nali e mon­diali. Per que­sto la nuova capa­cità uto­pica della sini­stra deve fon­darsi su una nuova con­ce­zione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione poli­tica pla­ne­ta­ria del potere. Secondo. Non v’è ricon­qui­sta della capa­cità uto­pica senza un forte radi­ca­mento “locale” delle inno­va­zioni gra­zie alla pro­mo­zione di “comu­nità di vita” glo­cali, cioè senza la tra­du­zione con­creta a livello delle comu­nità locali dei prin­cipi e delle stra­te­gie mon­diali. Que­sto signi­fica l’esistenza di forze sociali por­ta­trici di inte­ressi col­let­tivi mon­diali ma local­mente diver­si­fi­cati e plu­rali. In pas­sato, i con­ta­dini, gli ope­rai, la pic­cola e media bor­ghe­sia, hanno svolto tale ruolo. Nel XXI° secolo, tocca all’umanità, glo­cale per defi­ni­zione, di espri­mere la capa­cità uto­pica del mondo. Il futuro della sini­stra è l’umanità, coscienza sociale della glo­ba­lità della vita e della mon­dia­lità della con­di­zione umana (cit­ta­di­nanza uni­ver­sale plurale).

«Anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, la società civile, creano ricchezza. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza».

La Repubblica, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

Sette economisti (fra cui Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e la sottoscritta) hanno accettato di fare da consulenti economici per Jeremy Corbyn, il nuovo leader del Partito laburista britannico. Mi auguro che il nostro scopo comune sia aiutare il Labour a creare una politica economica fondata sugli investimenti, inclusiva e sostenibile. Metteremo sul tavolo idee diverse, ma voglio proporvi le mie considerazioni riguardo alle politiche progressiste di cui il Regno Unito e il resto del mondo hanno bisogno oggi.
Quando il Partito laburista ha perso le elezioni, lo scorso maggio, in tanti, anche esponenti del Governo ombra, gli hanno contestato di non aver saputo interloquire con i «creatori di ricchezza», cioè la comunità imprenditoriale. Che le imprese creino ricchezza è evidente.

Ma anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano.

Le politiche tradizionalmente considerate “business friendly”, come i crediti di imposta e la riduzione delle aliquote, a lungo andare possono essere nocive per l’attività imprenditoriale. Allo stesso modo, è ora di superare il dibattito sull’austerity e discutere di come costruire collaborazioni intelligenti e reciprocamente vantaggiose fra pubblico e privato, in grado di alimentare la crescita per decenni.
Per cominciare dobbiamo investire in istruzione, capitale umano, tecnologia e ricerca. In molti settori gli imponenti progressi tecnologici e organizzativi hanno prodotto un aumento della produttività. Molte di queste innovazioni decisive affondano le loro radici in ricerche finanziate dallo Stato. Per garantire che ci siano progressi anche in futuro, ci sarà bisogno di interventi diretti e investimenti in innovazione lungo l’intera catena dell’innovazione: ricerca di base, ricerca applicata e finanziamenti alle imprese nelle fasi iniziali.
Oltre a questo c’è bisogno di una finanza paziente e a lungo termine. Gran parte della finanza attuale è troppo speculativa e troppo focalizzata sui risultati immediati. Per una rivoluzione tecnologica c’è bisogno della pazienza e della dedizione dei finanziamenti pubblici. In certi Paesi, come Germania e Cina, sono delle banche pubbliche a svolgere questo ruolo; in altri, il compito è affidato a organismi pubblici. Una cosa del genere significa anche definanziarizzare l’economia reale, troppo attenta al breve termine.
Nell’ultimo decennio, le aziende del “Fortune 500” che operano in settori come l’informatica, la farmaceutica e l’energia hanno speso più di 3mila miliardi di dollari per riacquistare azioni proprie, allo scopo di gonfiare il prezzo del titolo, le stock options e i compensi dei dirigenti. Bisogna ricompensare quelle aziende che reinvestono i profitti in produzione, innovazione e formazione del capitale umano.
Il passo successivo è incrementare i salari e il tenore di vita. Fino agli anni 80, gli incrementi di produttività erano accompagnati da aumenti salariali. Il collegamento si è spezzato per effetto della riduzione del potere negoziale dei lavoratori e del crescente orientamento delle aziende verso la finanza. I sindacati sono un elemento chiave per un’efficace governance delle imprese e vanno coinvolti maggiormente nelle politiche per l’innovazione, spingendo per investimenti in istruzione e formazione, i motori a lungo termine dei salari.
Anche le istituzioni pubbliche devono essere rafforzate. Per poter prendere decisioni di politica economica audaci c’è bisogno di agenzie pubbliche e istituzioni che siano capaci di assumersi dei rischi. Creare una rete di agenzie e istituzioni decentralizzata e dotata di adeguati finanziamenti, che lavora in collaborazione con le imprese, renderebbe lo Stato più efficiente e maggiormente focalizzato in senso strategico.
Anche il sistema fiscale deve diventare più progressivo. Dobbiamo farla finita con l’abbassare le tasse alla cieca, creando scappatoie che consentono pratiche di elusione fiscale, e offrire crediti di imposta che hanno effetti limitati in investimenti e creazione di posti di lavoro. Anche sul debito bisogna cambiare atteggiamento. Invece di focalizzarci sui deficit di bilancio, dovremmo puntare l’attenzione sul denominatore del rapporto debito-Pil. Se gli investimenti pubblici accrescono la produttività di lungo periodo, il rapporto rimane sotto controllo. Nell’Ocse, molti dei Paesi con un rapporto debito-Pil più elevato (per esempio Italia, Portogallo e Spagna) hanno un disavanzo relativamente contenuto, ma non investono efficacemente in istruzione, ricerca, formazione, o programmi di welfare disegnati in modo da facilitare l’aggiustamento economico.
La politica di bilancio e la politica monetaria sono importanti, ma solo se abbinate alla creazione di opportunità nell’economia reale. La creazione di moneta, attraverso il cosiddetto quantitative easing, non alimenterà l’economia reale se la nuova moneta finirà nei forzieri di banche che non prestano. E quando le imprese non vedono opportunità, i tassi di interesse non bastano a influenzare gli investimenti.
Infine, non dobbiamo aver paura di guidare la direzione dello sviluppo verso un’economia verde. Gli stimoli di bilancio dovrebbero sostenere progetti trasformativi, come quelli che hanno determinato i grandi progressi dell’informatica e delle telecomunicazioni, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, tutte aree «prescelte» da un settore pubblico che ha lavorato al fianco delle imprese. Lo sviluppo verde è molto di più delle semplici energie rinnovabili: può diventare una direzione nuova per l’intera economia.
Copyright: Project Syndicate, 2015 (Traduzione di Fabio Galimberti)
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