Il manifesto, 24 dicembre 2015
È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.
Il sorriso dell’oppressa
Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».
La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, 14 euro). È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine – capitale avventuroso o magari venturoso»).
Le storie di Machiavelli
Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, … perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.
Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia De’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».
È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri. E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.
Il divenire della mutazione
L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro». «Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».
I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».
l manifesto, 24 dicembre 2015
CARA SINISTRA, È FINITO
IL PARTITO MONOTEISTA
di Lidia Menapace
Sinistra italiana. Accettare la sfida della complessità, dove ogni soggetto si riconosce come punto di partenza
Non riesco ad appassionarmi al «dibattito politico» in corso. La mia freddezza dipenderà certo dal cattivo carattere storicamente noto, ma ha anche una ragione «oggettiva»: ed è che la sua misura a me pare inferiore alla gravità e modestissima di fronte all’ampiezza delle questioni cui dovrebbe rispondere.
Cerco di dare un minimo di giustificazione critica a questo assunto per ora solo dichiarato. Si può oggi cercar dire qualcosa di «politico» senza ricordarsi che stiamo con un piede già in una guerra, e non occorre dire altro, per evocare tutti i peggiori fantasmi della nostra memoria?
Ma per non ammutolire, perché nessuno si chiede prioritariamente se qualcuno si ricorda ancora dell’articolo 11 della Costituzione che afferma perentoriamente «L’Italia ripudia la guerra» in qualsiasi forma, quella di aggressione che facemmo nella seconda mondiale, e pure quella detta difensiva in occasione di controversie internazionali nelle quali magari potremmo pure avere ragione?
Anche in questo caso dobbiamo ricorrere ad altri strumenti. Sembrava che questo comma dell’11 fosse decaduto per «costituzione materiale» come viene dolcemente chiamata la modifica di fatto della nostra Costituzione, e non nelle forme costituzionalmente previste, bensì per diritto consuetudinario, che peraltro non è il nostro. Capita però che Gentiloni e Kerry trovino invece una proposta per la questione libica di tipo politico e non militare e l’11 Cost. torna in vigore, evviva!
Dobbiamo fare novene a santa Rita, la santa degli impossibili, o a san Gennaro o a padre Pio, a seconda delle superstizioni che ciascuno in qualche modo osserva ? Francamente è troppo aleatorio e comunque certo «non scientifico»: non può essere gabellato per una risposta a Lenin.
Allora appunto: «Che fare?» Affrontare la questione delle forme della politica, che non è una banalità, ma un elemento fondativo per qualsiasi decisione o proposta.
Per non farla troppo lunga, mi ricordo che la questione delle forme della politica e specificamente quella che veniva chiamata alcuni decenni fa la questione della «forma/partito», è appunto annosa: mi appartiene dunque perché — se parlo io — è certo per Storia antica o per «gerontocrazia». Termini peraltro meno sgradevoli che «rottamazione».
Rinvio dunque a una proposta che avanzai allora sul manifesto (del cui gruppo storico facevo parte) che produsse anche un dibattito e poi svanì.
Dichiarato che la forma/partito è stata una delle più straordinarie invenzioni del pensiero e pratica politica, aggiungevo che però essa era adatta a rappresentare una società «semplice» e non era più utile di fronte alla «complessità sociale» scoperta da Niklas Luhmann e che in Italia aveva attratto l’attenzione di tutti i politologi e di Craxi che ne assunse le ricette pratiche , cioè che la «complessità sociale» pone problemi di governabilità e richiede un governo «decisionista». Luhmann aveva scritto le sue proposte per la Thatcher e gli americani degli anni Ottanta.
Rispetto a Luhmann allora dichiarai che bisogna assumere interamente la sfida della complessità, non accettando la proposta della «riduzione della complessità», della reductio ad unum, dell’intrinseco «monoteismo» del pensiero patriarcale e invece proporre di «governare la complessità». A questo punto dicevo che non vi è un solo soggetto politico pieno, ma che ogni soggetto può essere riconosciuto come «politico» se riesce a percorrere l’intero orizzonte della politica. Elencavo perciò il movimento operaio, il movimento delle donne, il movimento della pace, il soggetto dell’informazione (al posto del vecchio incerto e scientificamente indefinibile degli «intellettuali») e proponevo che si andasse costituendo un «Sistema», non un casino, «pattizio» non selvaggiamente intercompetitivo tra le forme politiche ecc. ecc.
Ho aggiunto cose e proposto aggiustamenti, ma a mio parere potrebbe ancora essere preso in considerazione. Ma per avviare un processo di questo tipo bisogna che ciascuno smetta di considerare se stesso come il monoteista unico punto di partenza e invece accetti confronti riduzioni modifiche ecc.
Se ne può discutere? A leggere ciò che propone senza spocchia ma seriamente Rifondazione, a me pare di sì.
Una dinamica che appunto taglia come un diamante il rapporto tra alto e basso in economia, in geopolitica e persino nella produzione locale di rancore e paura, la ritroviamo confermata anche sul piano della rappresentanza politica. Cosa è se non questo lo scontro andato in onda nelle elezioni francesi tra élite e moltitudine, tra Union sacrée e frustrazione di popolo alimentata proprio dalla dimensione di flusso assunta dalle politiche neoliberiste di Hollande? Cosa è se non questo il successo straordinario di Podemos come risposta dal basso, democratica e partecipata alla crisi? E in fondo cosa sta diventato, in concreto, il «partito della nazione» in tante parti del Paese se non uno straordinario racconto senza luoghi, dove la dimensione terrena assume i connotati di una questione da rimuovere?
Se la sinistra smette di frequentare i luoghi, se smette di attraversare le comunità locali con uno sguardo globale non sarà capace di narrazioni egemoniche. Non si tratta di enfatizzare il localismo o sommare le vertenze territoriali, si tratta di predisporre una lettura e un linguaggio nutriti dalle cose che accadono sul terreno, perché è qui che vivono, soffrono, si abbandonano all’anomia o a volte si battono le persone in carne ed ossa. Non solo la rete dunque, perché i luoghi esclusivamente immateriali alimentano il pregiudizio e costruiscono mentalità fragili in balia degli stati d’animo. Noi dobbiamo investire su questa dinamica reale, dove la povertà è un odore e la paura adrenalina che produce odio.
Su questo punto dovremmo organizzare una riflessione capace di interpretare le prossime amministrative proprio con la chiave di lettura del rapporto tra flussi e luoghi. Alla destra, così come ai pentastellati, è sufficiente cavalcare la paura che trova capri espiatori ideali nei migranti e nell’europeismo sconfitto. Al «partito della nazione» è sufficiente farsi Stato, anzi governo, costituire risposte dall’alto, regolatorie e distanti, cavalcare con destrezza il flusso della comunicazione pubblica, dello storytelling senza corpo, scarnificato e potente.
La sinistra dovrebbe avere la capacità di sapersi muovere su questo crinale, ostinatamente connessa alla metafora territoriale, dentro a una durevole vocazione al vincolo di popolo. Disposta alla manovra politica, almeno quanto Podemos.
Capace di produrre guerriglia, non guerra di posizione come fosse già un accumulo di forze, e di sfidare le destre e il «partito della nazione» su questo terreno difficile e indispensabile. Soprattutto giocare la partita, come è stata giocata altre volte, sapendo che per battere la destra bisogna prima battere una certa idea di centro sinistra. Senza lasciare il campo, tutto il campo, al partito di Renzi, costituendoci in ridotta e testimonianza.
Piuttosto accettare la sfida per l’egemonia, cogliendo sapientemente le contraddizioni senza rimuoverle, e trasformare le diverse istanze impegnate sul terreno, in un corpo a corpo per la sopravvivenza quotidiana, in progetto idea e conflitto capace di dare sostanza al partito della città. Si, il partito della città e dei cittadini pronti a sfidare il «partito della nazione», la sua dimensione incorporea fatta di poteri, effetti speciali e marketing. Sfidarlo ovunque sarà possibile, sfidarlo per prendere tutto il campo, sfidarlo su ogni terreno, agendo la pratica democratica e il federalismo tra le comunità agenti, anche dentro le primarie se le condizioni lo permettono.
Qui può e deve situarsi la sfida della sinistra che verrà, nella consapevolezza che l’unica forza di cui disponiamo è la capacità di porci in movimento, in ascolto, tra le pieghe di una società stremata. Senza rinunciare mai, senza farci bastare perimetri e verità per schiere ridotte, senza coccolarci nell’etica della sconfitta o in quella del sol che verrà. Attrezzarci per riconquistare quote di consenso e radicamento sociale, qui, ora, mentre la vita avviene, senza attese messianiche o misurazioni meccaniche di rapporti di forza.
Sarebbe la migliore delle battaglie quella predisposta per battere sul campo il partito di Renzi, senza rinunciare aprioristicamente ai luoghi del confronto e dello scontro. Appunto come possono essere le primarie. Battere il «partito della nazione» alle primarie per accumulare forza e credibilità, per battere alle elezioni il partito che fa davvero paura, quello delle piccole patrie, fisiche o immateriali, dei razzisti espliciti e del populismo becero e giacobino. Battere il Partito di Renzi alle primarie con una eccedenza di partecipazione democratica.
Un soggetto politico si fonda nella mischia di una battaglia e nella possibilità di vittoria. Difficile immaginare una costituente immobile, autoreferenziale, persino un po’ regressiva sul terreno della cultura politica. Soprattutto non si dà processo costituente senza mettere in campo la capacità di battersi, di farsi cambiamento, e di accarezzare il sogno di un successo.
Imanifesto, 22 dicembre 2015
Il brusco risveglio della Spagna, dopo la notte elettorale, ne è una chiarissima testimonianza. A poco è valso impostare una campagna elettorale sulla crescita del Pil del 3%, se poi le diseguaglianze addirittura crescono, se la disoccupazione giovanile è al 48% e se (con il Jobs act in salsa spagnola) la massa dei precari ormai lavora qualche ora per qualche giorno alla settimana. I due storici partiti che hanno diviso la responsabilità di governo, alternandosi al palazzo della Moncloa, vivono il punto più basso del loro consenso. E si dissanguano a vantaggio dei diretti concorrenti, a destra e a sinistra.
Il Pp di Rajoy perde 16 punti, il Psoe di Sanchez dimagrisce di 6, Podemos di Iglesias agguanta il 20 e Ciudadanos di Rivera il 14. Eccola la fotografia dopo un decennio di sforbiciate allo stato sociale e di corruzione galoppante. Podemos contro l’austerità, Ciudadanos in nome di una destra pulita, hanno incassato i dividendi.
La geografia del voto è molto articolata, la legge elettorale è penalizzante per formazioni come Izquierda unida, ma la sostanza è che da due le forze politiche principali sono diventate quattro. Un inedito per la giovane democrazia spagnola, un classico per il panorama dei partiti italiani. Come ha detto il vecchio socialista Gonzalez, premier negli anni ’80, «avremo un parlamento all’italiana ma senza italiani».
E dall’Italia, nei commenti della stampa e nelle prime reazioni politiche, se non un grido di dolore si legge un avviso di pericolo. Si parla di un’Europa malata di antipolitica, come se alle amare (e inutili) cure di Bruxelles non ci fosse alternativa. Come se di fronte alla devastante condizione in cui si ritrovano, gli elettori dovessero masochisticamente insistere a dare fiducia alla stessa classe dirigente. Come se o bipolarismo o caos. Quasi che parlare di legge elettorale proporzionale (Podemos) e di governi di coalizione equivalesse a evocare il diavolo. Dice Renzi: «La Spagna di oggi sembra l’Italia di ieri». E se invece la Spagna di oggi fosse l’Italia di domani? In fondo il Psoe prima di precipitare al 22 era al 28 per cento e secondo i sondaggi il Pd dal 36 è sceso attorno al 30, mentre il M5Stelle è salito dal 19 al 29. Sugli altri fronti, a sinistra del Pd e nel centrodestra, tutto è ancora in movimento.
Ma, di fronte a uno scenario spagnolo, Renzi ha già preparato la camicia di forza dell’Italicum con l’abnorme premio di maggioranza a garanzia di mantenere in vita il defunto bipolarismo.
La sinistra europea ha abbandonato la critica del capitalismo ed ha abbracciato le teorie del neoliberismo proprio nella fase in cui il capitalismo provoca il massimo di disagio sociale. Perciò appare inevitabile, con questa sinistra, il rafforzamento della destra populista.
La Repubblica, 19 dicembre 2015
La progressione del voto per il Fronte Nazionale tra le classi popolari si spiega innanzitutto con l’incapacità della sinistra di parlare a quella parte della popolazione ». Per Jean-Claude Michéa, infatti, la sinistra contemporanea non ha più nulla a che vedere con la nobile tradizione socialista. Incapace di proporre un’alternativa economica al capitalismo trionfante, ha ripiegato sulle battaglie civili care all’intellighenzia progressista e in sintonia con l’individualismo dominante. Il filosofo francese lo spiega in un breve e interessantissimo saggio intitolato I misteri della sinistra (Neri Pozza, traduzione di Roberto Boi), il cui analizza la deriva progressista dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto. «La sinistra non solo difende ardentemente l’economia di mercato, ma, come già sottolineava Pasolini, non smette di celebrarne tutte le implicazioni morali e culturali. Per la più grande gioia di Marine Le Pen, la quale, dopo aver ricusato il reaganismo del padre, cita ormai senza scrupoli Marx, Jaures o Gramsci! Ben inteso, una critica semplicemente nazionalistica dal capitalismo globale è necessariamente incoerente. Ma purtroppo oggi è la sola – nel deserto intellettuale francese – che sia in sintonia con quello che vivono le classi popolari».
Come spiega questa evoluzione della sinistra?
«Quella che ancora oggi chiamiamo “sinistra” è nata da un patto difensivo contro la destra nazionalista, clericale e reazionaria, siglato all’alba del XX secolo tra le correnti maggioritarie del movimento socialista e le forze liberali e repubblicane che si rifacevano ai principi del 1789 e all’eredità dell’illuminismo, la quale include anche Adam Smith. Come notò subito Rosa Luxemburg, era un’alleanza ambigua, che certo fino agli anni Sessanta ha reso possibili molte lotte emancipatrici, ma che, una volta eliminate le ultime vestigia dell’Ancien régime, non poteva che sfociare nella sconfitta di uno dei due alleati. È quello che è successo alla fine degli anni Settanta, quando l’intellighenzia di sinistra si è convinta che il progetto socialista fosse essenzialmente “totalitario”. Da qui il ripiegamento della sinistra europea sul liberalismo di Adam Smith e l’abbandono di ogni idea d’emancipazione dei lavoratori».
Perché quella che lei chiama la “metafisica del progresso” ha spinto la sinistra ad accettare il capitalismo?
«L’ideologia progressista è fondata sulla credenza che esista un “senso della storia” e che ogni passo avanti costituisca un passo nella giusta direzione. Tale idea si è dimostrata globalmente efficace fintanto che si è trattato di combattere l’Ancien régime. Ma il capitalismo – basato su un’accumulazione del capitale che, come ha detto Marx, non conosce “alcun limite naturale né morale” – è un sistema dinamico che tende a colonizzare tutte le regioni del globo e tutte le sfere della vita umana. Focalizzandosi sulla lotta contro il “vecchio mondo” e le “forze del passato”, per il “progressismo” di sinistra è diventato sempre più difficile qualsiasi approccio critico della modernità liberale. Fino al punto di confondere l’idea che “non si può fermare il progresso” con l’idea che non si può fermare il capitalismo ».
In questo contesto, in che modo la sinistra cerca di differenziarsi dalla destra?
«Da quando la sinistra è convinta che l’unico orizzonte del nostro tempo sia il capitalismo, la sua politica economica è diventata indistinguibile da quella della destra liberale. Da qui, negli ultimi trent’anni, il tentativo di cercare il principio ultimo della sua differenza nel liberalismo culturale delle nuove classi medie. Vale a dire nella battaglia permanente combattuta dagli “agenti dominati della dominazione”, secondo la formula di André Gorz, contro tutti i “tabù” del passato. La sinistra dimentica però che il capitalismo è “un fatto sociale” totale.
E se la chiave del liberalismo economico, secondo Hayek, è il diritto di ciascuno di “produrre, vendere e comprare tutto ciò che può essere prodotto o venduto” (che si tratti di droghe, armi chimiche, servizi sessuali o “madri in affitto”), è chiaro che il capitalismo non accetterà alcun limite né tabù. Al contrario, tenderà, come dice Marx, a affondare tutti i valori umani “nelle acque ghiacciate del calcolo egoista”».
Perché considera un errore da parte della sinistra aver accettato il capitalismo? C’è chi sostiene che sia una prova di realismo...
«Come scriveva Rosa Luxemburg nel 1913, la fase finale del capitalismo darà luogo a “un periodo di catastrofi”. Una definizione che si adatta perfettamente all’epoca nella quale stiamo entrando. Innanzitutto catastrofe morale e culturale, dato che nessuna comunità può sopravvivere solo sulla base del ciascuno per sé e dell’interesse personale. Quindi, catastrofe ecologica, perché l’idea di una crescita materiale infinita in un mondo finito è la più folle utopia che l’uomo abbia mai concepito. E infine catastrofe economica e finanziaria, perché l’accumulo mondializzato del capitale – la “crescita”– sta per scontrarsi con quello che Marx chiamava il “limite interno”. Vale a dire la contraddizione tra il fatto che la fonte di ogni valore aggiunto – e dunque di ogni profitto – è sempre il lavoro vivo, e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo al lavoro vivo le macchine, i programmi e i robot. Il fatto che le “industrie del futuro” creino pochi posti di lavoro conferma la tesi di Marx».
Perché, in questo contesto, ritiene necessario pensare “la sinistra contro la sinistra”?
«La forza della critica socialista nasce proprio dall’aver compreso fin dal XIX secolo che un sistema sociale basato esclusivamente sulla ricerca del profitto privato conduce l’umanità in un vicolo cieco. Paradossalmente, la sinistra europea ha scelto di riconciliarsi con questo sistema sociale, considerando “arcaica” ogni critica radicale nei suoi confronti, proprio nel momento in cui questo comincia a incrinarsi da tutte le parti sotto il peso delle contraddizioni interne. Insomma, non poteva scommettere su un cavallo peggiore! Per questo oggi è urgente pensare la sinistra contro la sinistra».
Il manifesto, 16 dicembre 2015
Si era partiti dalla semplice convinzione che non si potesse predicare una unità più ampia se in primo luogo le forze che avevano dato vita al risicato successo elettorale della lista dell’altra Europa per Tsipras non avessero esse stesse dato il via a un processo di unificazione e ricomposizione, superando le passate divisioni e scissioni. Un processo, non un atto singolo. Naturalmente un processo costituente è impegnativo perché chiama le forze che vi partecipano a raggiungere un obiettivo e a seguire una condivisa road map. Il suo fallimento non permette di riannodare il filo sulla bobina di partenza come se nulla fosse stato. Allo stesso tempo la delineazione di un percorso non prevede che tutti i nodi siano sciolti in anticipo, ma lungo il cammino. Come era scritto nel breve documento «Noi ci siamo, lanciamo la sfida», condiviso da tutti, anche da Civati prima di ricusarlo con una scelta unilaterale che però non metteva in discussione il progetto collettivo, tanto è vero che le porte del medesimo restavano aperte. Il dibattito condotto sul manifesto («C’è vita a sinistra») aveva articolato e approfondito la discussione.
Ma non si è riusciti a superare una doppia evidente contraddizione. Quella di chi pretende che non si formi un partito, ma nello stesso tempo non vuole sciogliere il proprio, come è evidente nella intervista a Ferrero su questo giornale (ieri, ndr). Quella di chi dice di volersi sciogliere, come Sel, ma vuole uniformare da subito i modelli di organizzazione di tutti, anticipando la costruzione di un gruppo parlamentare che secondo alcuni dovrebbe già essere immagine e sostanza del nuovo partito.
Sono stati avanzati tentativi di mediazione fra queste posizioni, come da ultimo quello di Act, ma senza successo. Il tentativo di abbellire questa modesta polemica facendo riferimento alla modellistica europea o latinoamericana con cui si sono organizzate le forze della sinistra, lascia il tempo che trova, sia perché quelle forme organizzative hanno origini in tradizioni, culture e processi storici assai diversi, sia perché in esse hanno agito singolarità irripetibili di donne e uomini. Ogni processo reale non può che essere originale e per darvi vita ci vuole una buona dose di coraggio intellettuale e politico che finora è mancata. Non ci si è voluto tagliare i ponti alle spalle, anzi si è pensato di fortificarli, dando più l’impressione di preparare vie di fuga che non di camminare verso una meta condivisa.
Se la necessità di un nuovo soggetto politico della sinistra non viene messa in discussione, almeno a parole, è però chiaro che la strada per perseguirlo va cambiata. Dal fallimento del tavolo nessuno può trarre la conclusione di andare avanti da solo e parlare in nome di quel progetto. Non andrebbe lontano e originerebbe nuove fratture. Un’eterogenesi dei fini. Se la crisi della rappresentanza politica è così forte da coinvolgerci direttamente, vedo solo due possibilità.
Da un lato si tratta di impegnarsi attorno alle questioni teoriche e politiche che presiedono la formazione di un nuovo soggetto. Come l’analisi del moderno capitalismo finanziario globale e i progetti portanti di una società di alternativa. Qui incontriamo la questione del Pd e della socialdemocrazia europea. Non si tratta di negare la sempiterna necessità di una politica di alleanze, ma di spezzare la gabbia delle coalizioni. Quindi di fare i conti definitivi con il centrosinistra.
Il pasticcio delle primarie milanesi dice che questo nodo non è sciolto. La nostalgia dell’ulivismo è fuorviante. Fu in realtà la degenerazione del Pd a seppellirlo. Il Pd catch all senza il governo non è nulla. La distruzione e la neutralizzazione dei corpi intermedi della società — che coinvolge anche il sindacato, da qui le difficoltà anche della coalizione sociale — comincia da se stesso. Stabilire un’alleanza strategica con il Pd vuole dire diventare satelliti dell’attuale sistema di potere.
Dall’altro lato, dobbiamo rendere persone e movimenti protagonisti di liste alternative di sinistra nelle prossime amministrative. E soprattutto concentrarci nella battaglia referendaria, sul referendum costituzionale (che deciderà anche della vita dell’attuale governo) come sulla raccolta delle firme per i referendum sociali. Non è irrealistico pensare che nel corso di queste battaglie emerga nuova linfa vitale per fare ripartire su basi più larghe e più solide il processo per un nuovo soggetto della sinistra.
Il manifesto, 16 dicembre 2015
Quando io militante molto romana ho sentito per la prima volta il suo nome è stato peraltro in una fase in cui siamo stati dalla stessa parte: lui dirigente di primo piano della Federazione di Milano, io ancora impegnata nella ribellione della Federazione giovanile contro la settaria chiusura di una parte dei vecchi. Che a Milano avevano una vera roccaforte contro cui si batterono, membri della stessa segreteria federale, sia Rossana Rossanda che Cossutta. È stato solo anni dopo che diventò esplicito tema di scontro politico il giudizio sull’Urss, e dunque il tema del rapporto fra il Pci e il Pcus.
Ancor oggi mi chiedo il perché di quel suo filosovietismo, che peraltro lui stesso ripensò quando all’inizio degli anni Novanta venne un giorno nella redazione del manifesto per ragionarne con pacatezza, riconoscendo la validità delle nostre obiezioni che erano invece state solo frettolosamente condannate.
È un interrogativo che riguarda tutto il Pci, anche se la corrente «cossuttiana» protrasse a lungo la sua fedeltà, in polemica con la rottura che Berlinguer aveva invece operato nel 1981. Io credo che più che un giudizio di merito sui pregi di quel socialismo già dagli anni Sessanta così segnato dal «breznevismo», si sia trattato del timore che, nel condannare quell’esperienza, venisse meno nel grande corpo dei comunisti italiani l’orizzonte dell’alterità, la coscienza che nonostante l’accettazione da parte del Pci delle regole del sistema democratico rappresentativo, il suo pieno inserimento nelle sue istituzioni, non si era perduto l’obiettivo strategico: la costruzione di una società alternativa al capitalismo. Una esigenza che forse proprio lui sentiva di più per esser stato per anni responsabile della politica degli enti locali del partito, che ha orientato nel senso delle più spericolate alleanze moderate.
Il legame con Mosca, insomma, era per lui una sorta di polizza di sicurezza, di certificazione del permanere di una identità rivoluzionaria.
Molti anni dopo, del resto, nella prima fase di vita di Rifondazione Comunista, quando si strinse fra Armando Cossutta (non con tutti i suoi) e i compagni ex Pdup che in quel partito erano entrati, un accordo forte sui connotati che la nuova formazione avrebbe dovuto avere, non ci fu alcun dissenso sul documento politico approntato per il Congresso costitutivo, in cui netta fu la presa di distanza dall’esperienza sovietica. (Non la cancellazione dell’importanza della rivoluzione d’ottobre, come poi il Pds si affrettò a fare, che era bene — si riaffermò — ci fosse stata, pur «avendo esaurito la sua carica propulsiva», per citare la frase di Berlinguer).
Con Cossutta, dicevo, ci siamo ritrovati dopo la Bolognina. Lui non era più nella direzione del partito, come del resto Ingrao. C’era stato un ricambio. E perciò a votare subito contro la proposta di Occhetto ci ritrovammo solo in tre: un’inedita coalizione, due ex Pdup (rientrato nel Pci poco prima della morte di Berlinguer), io e Magri, e Cazzaniga, giovane filosofo di Pisa, in quota Cossutta.
L’alleanza, come è noto, non si saldò subito, e a contestare la scelta dello scioglimento del Partito furono due diverse mozioni: la numero 2 che aggregava ingraiani e i più autorevoli berlingueriani, la numero 3, quella dei cossuttiani. Ma dopo il congresso di Bologna, in vista del ventesimo di Rimini, che avrebbe dovuto confermare la scelta, i due gruppi si unificarono e fu presentata una sola mozione. Insieme ottenemmo l’adesione del 35% del partito.
Perdemmo, ma non si trattava di una forza di poco conto. La divisione si riprodusse sul che fare di questa forza, se usarla dentro il partito o invece per costruirne un altro. Ad Arco di Trento, dove si tenne l’ultima nostra assemblea precongressuale, i due vecchi leader, Ingrao e Cossutta, tornarono a dividersi: Ingrao disse io comunque resto nel gorgo, Cossutta io comunque esco. Ma le due componenti si mischiarono nella scelta sicché a fondare il primo nucleo di Rifondazione furono compagni che provenivano da posizioni assai diverse.
Non starò certo a rifare la storia di quel tempo ormai remoto. Se non per testimoniare del legame strettissimo che si creò fra noi e Cossutta, e del coraggio di Armando nell’affrontare la diffidenza «antimanifestina» dei suoi vecchi compagni nei nostri confronti.
A me fu affidata la direzione del settimanale Liberazione, un compito difficilissimo, vi assicuro, per gli assalti continui che dovetti subire per le scelte che compivo. Ma sempre ho potuto contare sulla leale difesa di Cossutta. Che a Lucio Magri affidò addirittura la relazione al II° congresso di Rifondazione, nel momento burrascoso dell’arrivo sulla scena di Berlusconi e mentre il Pds ancora oscillava fra alleanza centrista e centrosinistra.
In quella fase Cossutta aveva ancora il controllo determinante del nuovo partito per il peso che vi aveva la vecchia base del Pci, ma ne temeva la deriva settaria, così come quella dei nuovi arrivati non provenienti dalle fila del Pci: i sindacalisti di base fuori dalla Cgil e Democrazia Proletaria. Bisognava trovare una figura per dirigere Rifondazione che non avesse vissuto gli scontri interni al Pci sì da superare i rancori del passato. Ed è così, di nuovo in accordo con Magri, che si pensò a Bertinotti, che aveva una storia socialista e sindacalista, non il nostro vissuto.
Mi fermo qui: raccontare quanto accadde dopo significherebbe riaprire un dibattito troppo vecchio e che comunque non è certo questa l’occasione per riattivare. Se ne ho accennato è per dire di come sia possibile superare vecchie rotture e costruire inediti accordi, un’esperienza da rinverdire.
Ad Armando Cossutta, che era il più anziano ed autorevole fra noi, va il merito di essersi mosso senza arroganze, senza sotterfugi, con intelligenza e lealtà. Le rotture successive di Rifondazione — quella che spinse molti di noi ex Pdup ad abbandonare nel 94–95, quella che indusse lo stesso Cossutta a rompere nel 1998; e infine quella di Sel — hanno tutte origine nel nodo irrisolto della discussione che seguì quel secondo congresso di Rifondazione che pure si era concluso quasi all’unanimità.
Se non suonasse retorico mi verrebbe di promettere, in morte di un compagno cui leviamo le bandiere e di cui piangiamo la scomparsa, che ci impegneremo finalmente a condurre su questi temi una riflessione comune e pacata. Ciao compagno Cossutta.
Qualche anno fa, in occasione di un congresso dei socialisti francesi, Michel Rocard, uno dei grandi vecchi del partito, commentò con tono amaro: «I partecipanti a questo congresso sono di tre tipi: quelli che hanno una carica politica, quelli che aspirano ad averla e quelli che, già che erano da queste parti, sono venuti a guardarsi attorno». La stessa cosa si può dire dell’incontro della Leopolda a Firenze, anche se questo non è un congresso. Ci sono tutte le categorie di persone indicate da Rocard, e nel clima euforico che caratterizza il meeting è difficile accorgersi di un grande assente: mancano gli iscritti e il popolo della base.
Il manifesto, 5 dicembre 2015
Se per comunismo inverato è sufficiente riferirsi al campo sovietico e al suo crollo per chiarire di cosa si parla (il libro tace delle sorti del comunismo cinese e questo è indubbiamente un limite che i due autori si sono scientemente dati), maggiormente complessa è la definizione di socialdemocrazia. Per farlo Bertinotti ricorre alle caratteristiche che John K. Galbraith usò per definire il capitalismo dei “trenta gloriosi”, ovvero l’intervento dello Stato in economia; una politica fiscale ridistributrice di reddito verso il basso; relazioni sociali di lavoro basate sulla contrattazione collettiva. In questi tre tratti si può riconoscere anche l’essenza della prassi della socialdemocrazia europea. Parlando di quella tedesca in particolare andrebbe un aggiunto un altro elemento non trascurabile, la Mitbestimmung, ovvero la partecipazione, seppur parziale (e spesso inefficace come si è visto nel caso Volkswagen) dei lavoratori nel controllo delle imprese. Definita così l’esperienza socialdemocratica non può non essere accostata a quella del New Deal roosveltiano, ma con due differenze che Bertinotti opportunamente sottolinea. Mentre il New Deal si cala in un’epoca di de globalizzazione segnata dalla Grande Crisi, la storia degli anni migliori della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare è tutta iscritta in una nuova fase di sviluppo del sistema capitalistico. In secondo luogo mentre negli Usa il motore del New Deal è direttamente lo stato, in Germania è il partito socialdemocratico che assume su di sé la costruzione di un simile quadro sociale e istituzionale. La formidabile crescita tedesca nel dopoguerra non è tuttavia attribuibile solo ai meriti della socialdemocrazia, quanto al fatto che la Germania ha sfruttato i vantaggi delle politiche keynesiane mondiali e ha goduto della rendita di posizione di bastione contro l’espansionismo sovietico. Il piano Marshall è servito anche a questo.
Il welfare state, oltre che derivare da una migliore comprensione dei meccanismi che producono le crisi economiche, è stato concepito dalle classi dirigenti, anche quando veniva ad esse strappato da dure lotte di classe, come la soluzione per ammorbidire la rivolta sociale e incanalarla entro i binari del sistema dato. Il ruolo funzionalista della socialdemocrazia non nasce solo nell’epoca del suo inarrestabile declino. Nello stesso tempo esso originava uno spazio contrastante con la sola produzione di valori di scambio.
Tuttavia non vi è una meccanica automaticità in quel simul stabunt vel simul cadent. Infatti le teorie neoliberiste compaiono da subito sullo scenario postbellico, con il famoso manifesto di Mont Pelerin del 1947, nel quale von Hayek, von Mises, Milton Friedman, Eucken (l’autore nel 1936 dell’atto fondativo dell’ordoliberalismo), Popper e altri ancora si propongono di difendere la libertà dell’uomo tanto dal comunismo sovietico quanto dalle politiche keynesiane. E’ lì che comincia quel lungo lavoro da talpa che li vedrà vincenti agli inizi degli anni Ottanta. Questa è una delle ragioni, per la quale il crollo del comunismo e la contemporanea crisi irreversibile della socialdemocrazia, non trova una risposta a sinistra. Quando la sinistra “rivoluzionaria” si trova il campo sgombro dai nemici e dai contendenti che riteneva principali, lo incontra già occupato dal neoliberismo il cui percorso aveva del tutto sottovalutato. La “rivoluzione restauratrice” messa in atto su scala mondiale da parte di quest’ultimo è stata potente e ha fatto egemonia. Anche nei confronti dei movimenti rivoluzionari dell’occidente, spesso risucchiati nella modernizzazione capitalistica, con vantaggi per i singoli al prezzo di una sconfitta rovinosa per le collettività. Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro – su cui non si indaga mai abbastanza e sulle quali Carlo Formenti ha fornito in precedenti libri sui knowledge workers importanti contributi - hanno tolto il terreno sotto i piedi per la rinascita di una sinistra. E’ quindi fuorviante prendersela con la “mutazione antropologica” delle giovani generazioni.
Più che di un superamento definitivo del clivage destra/sinistra – ancora percepibile nel senso comune, quando dalle sigle si scende sul terreno dei valori, come quello dell’uguaglianza – si dovrebbe dire della crisi profonda del pensiero e dei soggetti che dovrebbero farsene carico. Che fare allora? La risposta che Bertinotti fornisce sta nella riconsiderazione del populismo che assume “come centrale il conflitto alto/basso al posto di quello destra/sinistra”. Tuttavia il populismo è intrinsecamente ambiguo. Possiamo individuare un prevalente, in base al quale concludere che ve ne sono almeno due, uno di destra e uno di sinistra (ecco tornare il vecchio clivage), uno dall’alto e uno dal basso. Ma qui non siamo in America Latina, ove “indigenismo” e miseria sociale sono le basi e le molle del populismo, se si vuole ingenuo ma non ambiguo. Nel caso italiano più che l’ombra di Laclau insistono quelle dell’Uomo qualunque di Giannini e il più tradizionale trasformismo. Il caso del M5Stelle è emblematico. Per mantenere viva e pagante la sua ambiguità condita di wenofobia rifiuta le alleanze, ma quando vi è costretto dai meccanismi istituzionali, vira a destra, come con Nigel Farage nel Parlamento europeo.
D’altro canto ogni progetto di trasformazione deve fare i conti con il potere. Bertinotti scarta le semplificazioni alla Holloway, mostrando più considerazione per le tesi più raffinate di Dardot e Laval su una “possibile trasformazione sociale senza conquista del potere”. Del resto la potestà degli stati nazionali è stata svuotata dalla dimensione sovranazionale della governance a-democratica e dall’extraistituzionalizzazione dei poteri reali. Lo si è visto nel caso greco e nella sostanziale impraticabilità del piano B, a meno di non farlo coincidere con la Grexit di Schauble. Ma resta il tema della forza, senza la quale non si può spezzare quella potente dell’avversario né resistere al suo ritorno. La forza è in primo luogo egemonia, avvio di un potere costituente, con altri mezzi e regole di quello costituito. Così possono accadere la vittoria di Syriza in Grecia, ammaccata ma non piegata dai colpi della Troika; quella di Corbyn nel Labour; il governo delle sinistre in Portogallo, con un diverso ruolo dei socialisti. Tutto fragile, ma certamente il mondo non è né un algoritmo né un ologramma.
Huffington Post, 28 novembre 2015
Sala Umberto, un vecchio teatro nel centro di Roma. Si presenta l’ultimo numero di Micromega, sul palco c’è anche il direttore Flores d’Arcais. Il titolo della serata la dice già lunga: “La rivolta del cittadino contro il partito unico del privilegio e del conformismo”. Sembra il titolo di un post di Beppe Grillo, e invece è quel che resta del Palavobis e delle piazze di Cofferati, più di dieci anni dopo. La sentenza di Flores pare inappellabile: “Ha ragione Di Battista, a sinistra non c’è più nulla da rianimare. Ci sono solo pezzi di partitocrazia, e la sinistra fuori dal Pd è ancora peggio, sono i pezzi di partitocrazia emarginati da quelli vincenti”. L’ex garante della lista Tsipras ci va giù durissimo con Vendola: “Dopo quella telefonata a capo chino con l’uomo delle relazioni esterne di Ilva non capisco come possa stare ancora in politica, ma ognuno ha la dignità che ha. E peggio di lui sono quelli che gli stanno ancora intorno e non l’hanno buttato giù”.
A Renzi ci pensa Rodotà: “In lui vedo un retaggio craxiano più ancora che berlusconiano…”. Fuori due. I maitre a penser della sinistra giustizialista e dei diritti non vedono più nulla nel loro vecchio campo. Il sol dell’avvenire, ormai, è solo a cinque stelle. E quando il Dibba rivendica il mancato sostegno a Bersani nel 2013, tutti gli danno ragione. E lui: “Se avessimo fatto l’inciucio con uno dei partiti responsabili del disastro, oggi non saremmo un’opzione possibile per il futuro”. Applausi.
“Chi ha votato Pd voleva queste riforme? Voleva il ponte sullo stretto e le trivellazioni? Voleva De Luca?”, arringa Di Battista, supportato da una robusta claque che lui ogni tanto ferma con la mano per evitare il “santo subito”. Rodotà annuisce. “Con loro non ho sempre avuto un rapporto idilliaco, ma quando salirono sul tetto della Camera scongiurano la modifica dell’articolo 138 voluta dal governo Letta”. E ancora: “A me non piace lo spirito da curva, sono un vecchio signore, ma oggi per restare in contatto coi cittadini e non trasformarsi in oligarchia servono forme nuove di comunicazione…”.
C’è anche un ricordo personale del prof. Rodotà, che aleggia per due ore la sala: il ricordo di quei giorni del 2013 in cui “un popolo lo voleva al Quirinale”, dice il Dibba, e quella piazza gridava “Ro-do-tà”. La sala è commossa: “Sarebbe stato un grande presidente”.
Lui dà atto ai grillini di quell’omaggio: “Da allora mi riconoscono anche i ragazzi di 20 anni, ho ampliato in modo smisurato la platea a cui riesco ad arrivare”. Flores è assai più pragmatico: la sue guerra trentennale contro i “politici di professione” si invera nelle proposte grilline. “Fui io a proporre nel 1986 il tetto ai mandati, volevo persino metterlo in Costituzione. Ora loro lo fanno, la loro coerenza mi ha stupito”. E’ lui a sottolineare il collegamento coi girotondi, con i giorni del Palavobis e dell’indignazione della società civile contro Berlusconi. E oggi? “Oggi l’unica forza che assomiglia a quelle istanze è il M5s, l’unico movimento votabile. E infatti io lo voto sistematicamente da anni”. Applausi scroscianti, ma Flores, come ai tempi dei girotondi, vuole anche dettare l’agenda del partito di riferimento (anche se a fine 2013 definiva “molto inquietante” Casaleggio): “Dovete essere meno autoreferenziali, sulla Consulta andate all’offensiva, proponete voi tre nomi: Cordero, Carlassare e Rodotà”.
Il prof si chiama fuori: “No, non tiratemi più in ballo, io mi sono autorottamato!”. Flores è un fiume in piena e si rivolge al Dibba: “Organizziamo dei seminari con dei vostri parlamentari ed esponenti della società civile. Sarebbe un segnale grandioso. Solo se si apre alla società civile il M5s può davvero vincere a Torino e Roma, e anche nelle altre città”.
Dall’astio verso Napolitano (“Credevo di aver toccato il fondo con Cossiga e invece no…”, dice Flores) al reddito di dignità, dal no alle riforme costituzionali al parlamento delegittimato dopo la sentenza sul Porcellum: tra i due intellettuali e il giovane e arrembante Dibba la sintonia è pressoché totale. Il deputato ribadisce la coerenza del suo movimento, le regole da rispettare, dai soldi al tetto ai mandati all’impedimento a candidarsi a sindaco per chi sta in Parlamento. “A volte questa coerenza è faticosa…”, si sfoga. E a più riprese ribadisce che “secondo i sondaggi oggi potrei essere il sindaco della Capitale… un mestiere che mi renderebbe molto orgoglioso, durante il Giubileo tutti i grandi della terra che vengono a Roma incontrano anche il sindaco”, racconta con un (grande) retrogusto di rimpianto: “Ma non lo posso fare perché le istituzioni non sono un autobus da prendere per le convenienze personali”. La rinuncia pesa, la folla in platea lo incoraggia. Lui torna sul nazionale: “I più pericolosi oggi sono i partiti che si dicono di sinistra e che ti prendono in giro con il sorriso”. Flores è d’accordo: “E’ dai giorni dell’avvento di Blair che dico che ormai la scelta è tra due destre…”. Oppure cinque stelle. “Secondo me il M5s a Roma ce la può fare”, li benedice Rodotà.
Il manifesto, 20 novembre 2015
«Ad aprire il corteo saranno i lavoratori immigrati, con la scritta “Contro la guerra io non ho paura”. Alcuni di loro parleranno anche dal palco». La manifestazione Unions! di domani a Roma, indetta dalla Fiom e dalla Coalizione sociale, non poteva certo ignorare i fatti di Parigi. Anzi, le riflessioni che Maurizio Landini ci consegna incontrandoci nella nostra redazione — con noi Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco — sono in gran parte dedicate ai gravi fatti che accadono in Europa. Subito dopo, ovviamente, parliamo del contratto dei metalmeccanici, e del contrasto del sindacato alla legge di Stabilità e al Jobs Act. Di Renzi e del Pd, della nuova Sinistra italiana, dei Cinquestelle.
È un errore rispondere con la guerra ai terroristi? Quale altro strumento contro gli attentati?
«Lo diciamo chiaramente: noi siamo contro il terrorismo ma anche contro la guerra. Leader importanti come Blair stanno riconoscendo gli errori delle guerre del passato, e non si può non vedere che quello che viviamo oggi è in parte frutto dei conflitti armati. Dobbiamo muoverci su due terreni: innanzitutto smettere di vendere armi e di comprare petrolio dall’Isis. E poi dobbiamo superare la guerra con un’azione politica molto forte: mettendo intorno a un tavolo non solo i grandi paesi ma anche quelli delle zone calde. Servono azioni di intelligence comune per difenderci, certamente, ma anche e soprattutto iniziative culturali e sociali che tolgano il brodo di coltura dove fioriscono i terroristi».
Azioni culturali?
«Penso, con le dovute differenze, a quello che fecero la sinistra e il sindacato con il terrorismo degli anni Settanta: riuscirono a isolarlo, a prosciugare il brodo di coltura e di possibile connivenza. Allo stesso modo contro questo nuovo terrorismo serve una mobilitazione dal basso, tra le persone, e i musulmani, già divisi tra loro e in guerra da tempo. Per questo scegliamo di marciare con due bandiere: del lavoro e della pace».
Un dialogo non facile, quello con i musulmani, in questa fase.
«É la prima volta che in Europa delle persone scelgono di farsi esplodere per ucciderne altre: non possiamo sottovalutare questa minaccia, ma nel contempo dobbiamo evitare le semplificazioni e le equazioni “musulmano uguale terrorista”. Ho letto a fondo l’ultima enciclica del papa, e mi ha colpito l’analisi rispetto all’attuale modello di sviluppo, la centralità assoluta della finanza e le guerre innescate in questa logica. L’Isis si presenta davanti ai suoi possibili adepti non solo con il volto dell’integrità morale e ideologica, ma anche promettendo risposte alle disuguaglianze della nostra società. Se vogliamo combattere questa strumentalizzazione non possiamo chiuderci in casa, ma al contrario dobbiamo aprirci ancora di più al dialogo e all’inclusione. Verso tutti».
Al Nord nelle fabbriche lavorano molti immigrati. Il modello italiano di integrazione funziona? La Fiom riesce a coinvolgerli?
«Circa il 15–20% dei nostri iscritti, ormai, è di origini non italiane. Abbiamo tanti delegati tra i lavoratori immigrati, che rappresentano sia gli italiani che gli stranieri. Spesso, lo devo dire, con intelligenze e competenze anche superiori alle nostre, se non altro per il difficile vissuto che hanno alle spalle. A Padova, qualche settimana fa, abbiamo tenuto l’assemblea nazionale dei delegati immigrati: c’era anche la Presidente della Camera Laura Boldrini. Sono emerse richieste che dovremmo rivendicare per tutti: l’abrogazione della Bossi-Fini, la cancellazione dell’assurda tassa di soggiorno, un reddito di dignità. E il sindacato può fare tanto: in Germania l’Ig Metall investe 700–800 mila euro per impartire lezioni di tedesco agli immigrati, e per introdurre le altre culture ai lavoratori tedeschi. Tutto questo nelle sedi sindacali: che così diventano punti di riferimento per l’integrazione».
Passiamo al contratto. Siete riusciti a portare Federmeccanica su un unico tavolo.
«Sì, nonostante la presenza di due diverse piattaforme. Si riconosce il fatto che la Fiom è la sigla più rappresentativa. Poi è intervenuta una novità: la Uil è disponibile a sottoporre l’accordo al voto dei lavoratori. Chiediamo che le regole dell’accordo sulla rappresentanza, firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, vengano applicate nel contratto: così potremmo estenderne la validità a tutti i lavoratori, e andare insieme dal governo per chiedere che i minimi contrattuali diventino salario minimo legale».
Quali sono le richieste qualificanti della vostra piattaforma?
«C’è innanzitutto un principio nuovo da segnalare: i diritti da contratto dovranno valere per tutte le figure, fino alle partite Iva. Quindi minimi salariali, maternità, ferie, malattia, infortuni, Tfr. La formazione deve essere un diritto individuale, soggettivo, si devono ridurre gli orari se c’è un maggior utilizzo degli impianti, chiediamo di riformare l’inquadramento. E poi apriamo il nodo della sanità integrativa, ma purché sia valida anche questa per tutte le figure e per i familiari a carico: non sostitutiva di quella pubblica, ma di sostegno, per il rimborso ticket, il dentista, la non autosufficienza».
Che aumento chiedete?
«Del 3% sulle paghe base. Ma rinnovando il modello contrattuale: rinnovi ogni anno come in Germania, e vorremmo poi che il governo defiscalizzasse il primo livello. Se ci intendiamo su questi due punti, possiamo discutere con le imprese anche un eventuale conglobamento dell’attuale indennità perequativa, quella erogata a chi non fa accordi aziendali».
Da cosa viene fuori il 3%?Da tre elementi: l’inflazione; l’andamento del Pil italiano e di settore; la necessità di redistribuire reddito dopo anni in cui si è perso costantemente, indebolito anche dal fiscal drag. Ovviamente dove si vorrà e si riuscirà, ben venga la contrattazione di secondo livello: ma siccome nella realtà si riesce a fare solo nel 20–30% delle aziende, io devo garantire e qualificare il contratto nazionale».
La manifestazione è indetta anche contro la legge di Stabilità.
«Per noi deve cambiare. È una balla che sia espansiva, perché non ci sono investimenti pubblici e non si creano posti di lavoro. Si spendono i soldi per tagliare la tassa sulla casa, mentre si interviene pesantemente sulla sanità. Gli incentivi alle imprese non sono selettivi e vincolati a investimenti. Non c’è una seria lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, ma anzi — con misure come quella sui 3 mila euro– si incoraggiano comportamenti non certo virtuosi. Si sono ridotti gli ammortizzatori sociali, rendendoli addirittura più costosi dei licenziamenti per le imprese. Non si interviene sulle pensioni. Insomma, si prosegue lo schema già adottato per il Jobs Act, per la scuola. Il premier “giovane e sveglio” applica le ricette dell’austerity europea, la lettera della Bce, come fu per Monti e Letta, senza metterle in discussione».
Però ci pare che il sindacato faccia fatica a muoversi. Ma c’è davvero, come dite, tanta contrarietà a Renzi nel Paese?
«Io penso che il consenso per Renzi stia diminuendo, e che tra le persone che lavorano o che cercano lavoro non sia maggioritario. È vero, dall’altro lato, che abbiamo fatto passare un anno dallo sciopero generale. Un po’ dipende dal fatto che il premier decide a colpi di fiducia in Parlamento, nessuno ha mai votato un suo programma, e lui procede anche a dispetto delle proteste. Questo scoraggia le persone dalla partecipazione. E poi c’è la crisi, l’aumento della povertà, il non credere più nei mezzi tradizionali di lotta. Proprio per questo segnalo un’importante decisione della Cgil: la proposta di un referendum per l’abrogazione del Jobs Act. Perché se le leggi ci vengono imposte, dobbiamo lottare con tutti i mezzi legali che abbiamo per cancellarle. In gennaio la Cgil chiamerà al voto 5,5 milioni di iscritti, dopo aver proposto la sua alternativa, il nuovo Statuto dei lavoratori. Io credo che si potrebbe lavorare allo stesso modo anche per la scuola, l’ambiente. E non a caso, nella consultazione per il contratto, abbiamo chiesto ai metalmeccanici se sono d’accordo sul fatto che la Fiom si impegni su tutti questi temi. E in maggioranza ci stanno dando l’ok».
Sono temi che si intrecciano con quelli della nuova Sinistra italiana. Può essere un partito di riferimento per chi lavora?
«Il problema per noi non è avere una forza politica di riferimento, un partito unico, ma riuscire a ottenere che il lavoro diventi tema trasversale a tutta la politica. Mentre oggi, e grazie a precise scelte di Renzi, il tema economico trasversale e dominante — centrale direi — è al contrario l’impresa. Faccio un esempio: lo Statuto dei lavoratori è stato votato negli anni Settanta anche dalla Dc e dal Pli, partiti non certo di sinistra: a quei tempi il lavoro era evidentemente centrale per tutta la politica».
Quindi è tramontata del tutto l’epoca del rapporto diretto tra sindacato e partiti.
«Noi abbiamo sempre presentato le nostre proposte a tutti i partiti, e se le condividono, bene, questo ci aiuterà. Sulle pensioni vedo che la Lega la pensa come noi, sul reddito di dignità i Cinquestelle. Io quando ho cominciato a fare sindacato mi presentavo nella quota Pci della Cgil, oggi è l’opposto: un recente studio sui nostri delegati ha appurato che il 90% di loro non è iscritto a nessun partito. L’autonomia è fondamentale per fare bene il nostro lavoro, nel rispetto di tutte le forze politiche».
La Coalizione sociale sta funzionando? Tracciamo un bilancio.
«Io credo di sì, anche se non ho mai nascosto che fosse una sfida difficile, mentre la gran parte dei media la riduceva al problema «Landini fa un partito». E invece vogliamo ricostruire quel legame tra le persone, che poi ci permetterà magari di pensarla allo stesso modo quando voteremo al referendum sul Jobs Act. Ma partendo dalla base, dai territori, dai bisogni reali, da un nuovo mutualismo. Penso allo sportello anti-usura che abbiamo aperto a Cuneo, alla vendita scontata dei libri scolastici, al Fondo di solidarietà istituito a Pomigliano».
Ilmanifesto, 19 novembre 2015
Ma anche perché la guerra è entrata nella testa dei nostri governanti, nell’agenda e nel lessico delle istituzioni europee, ne ha colonizzato l’immaginario e i protocolli, il linguaggio dei leader e gli ordini del giorno delle assemblee parlamentari.
Il socialista Francois Hollande — il presidente della Francia repubblicana, un tempo emblema delle libertà politiche e dei diritti dell’uomo — che parla con le parole di Marine Le Pen è il simbolo, tragico, di questa metamorfosi regressiva. Il governo “de gauche” francese, che si propone di modificare la Costituzione fino a intaccare le regole sacre dei diritti individuali e addirittura a ipotizzare il ritorno alla pratica primordiale della «proscrizione» — della cancellazione della cittadinanza per i reprobi che «non ne sono degni» trasformandoli in “eslege” -; e poi, appellandosi all’art. 42.7 dei Trattati, trascina l’Europa intera nella sua guerra — in un formale «stato di guerra» -, non rivela solo il compiuto fallimento del socialismo europeo, diventato col tempo non solo altro da sé ma l’opposto di se stesso. Mette in mostra anche uno «stato dell’Unione» ormai gravemente degenerato, incapace di tener fede nemmeno alla più elementare delle sue promesse originarie: tutelare la pace. Difendere i diritti. E intanto si rialzano muri e si chiudono confini contro le prime vittime di questa guerra di massa. Tutto questo la dice davvero lunga sul percorso a ritroso condotto in questi anni di crisi e di resa. E sull’urgenza che, a livello continentale, nasca e si consolidi una sinistra autorevole in grado di colmare quel vuoto. Una sinistra con le carte in regola — e senza scheletri negli armadi, bombe sulla coscienza e operazioni neo-coloniali nel curriculum — per parlare di pace, di giustizia sociale internazionale, di diritti (degli ultimi) e di doveri (dei primi).
I segni dell’emergere di una sinistra nuova, capace di emanciparsi dalla crisi delle socialdemocrazie novecentesche e di ritornare a contare nello scenario inedito attuale sono d’altra parte già visibili, soprattutto sull’asse mediterraneo, dalla Grecia, naturalmente — dove la riconferma del mandato a Tsipras con un voto plebiscitario fa di Syriza un punto fermo di contraddizione e di resistenza nel contesto europeo -, al Portogallo come alla Spagna. E anche in Italia, finalmente, le cose si sono messe in movimento. Il documento Noi ci siamo. Lanciamo la sfida, elaborato e condiviso da tutte le principali componenti di un’articolata area di sinistra — da Sel al Prc, da Futuro a sinistra a Possibile e ad Act, fino a Cofferati e Ranieri e, naturalmente a L’Altra Europa che per questa soluzione si è spesa senza risparmio -, indica finalmente una data, la metà di gennaio, per dare inizio al processo costituente con un appuntamento partecipato e di massa. E contemporaneamente offre una piattaforma politica di analisi e di prospettiva chiara e condivisa in una serie di punti qualificanti: la fine conclamata del centro-sinistra, la constatata natura degradata del Pd oggi incompatibile nel suo quadro dirigente con qualsiasi prospettiva di sinistra, la necessità di costruire, in fretta, un’alternativa autonoma, non minoritaria né testimoniale, competitiva e credibile.
Nello stesso tempo si lavora nelle città che andranno al voto nelle prossime amministrative: è di sabato scorso la formalizzazione, a Torino, di una candidatura forte, condivisa attivamente da tutte le realtà di sinistra, radicata nella storia sociale della città — parlo di Giorgio Airaudo -, in grado di contendere con credibilità il consenso sia a un centro-sinistra esausto, in debito di idee e di proposte, sia al Movimento 5 stelle, costituendo un possibile esempio virtuoso in campo nazionale. Va d’altra parte in questa direzione la formazione, alla Camera dei deputati, di una prima aggregazione, ancora parziale ma significativa, di deputati di Sel e di ex Pd sotto il nome di Sinistra italiana, che costituisce indubbiamente un fattore positivo, in grado di rendere più efficace l’opposizione in Parlamento alle controriforme renziane e di dare visibilità al processo aggregativo, a condizione di considerarla per quello che è: la nascita di un embrione di gruppo parlamentare (l’ha detto bene Cofferati: «Al Quirino è nato un gruppo parlamentare, non un partito»). E di non sovrapporla o identificarla tout court con il processo costituente del «soggetto politico unitario e unico della sinistra», che è — e deve essere — molto più ampio, necessariamente radicato nei territori e partecipato socialmente, caratterizzato da tratti di radicale innovazione di forme, contenuti, facce e linguaggi, se vuole reggere la sfida dei tempi (né considerazioni diverse si possono fare per il gruppo cui ha dato vita, sempre alla camera, Civati).
Dico questo perché il momento è delicatissimo: per il contesto drammatico in cui ci si muove, e per la fragilità dei processi al nostro interno. Ciò che avverrà nelle prossime settimane e mesi ha il carattere di un’ultima chiamata. Un ennesimo fallimento non sarebbe perdonato. La grande partecipazione alle occasioni pubbliche di questi giorni (a Roma al Quirino e a Torino per il lancio della candidatura di Airaudo) ci dice che esiste un’attesa ampia, per rispondere alla quale è indispensabile che la riuscita del processo unitario sia e resti l’ obbiettivo prioritario di tutti e di ognuno, senza piani di riserva, furbizie o espedienti di corto respiro, che non sarebbero compresi da nessuno. Ha perfettamente ragione Carlo Galli quando, su questo stesso giornale, chiede un minimo di pulizia del linguaggio (ci si astenga da espressioni gravide di disprezzo e di pigrizia nel capire come «cosa rossa»). E scrive che «la sinistra di cui c’è bisogno» ha da essere «rossa e realistica» — cioè capace di fare proprie, rinnovandole e rigenerandole nel contesto attuale, le sfide del movimento operaio in una chiave non testimoniale (esattamente l’opposto di una «cosa») -, «radicale e accorta, plurale e unitaria». E aggiunge che deve mostrarsi capace di realizzare un’«accumulazione originaria di pensiero e di energia politica» mettendo insieme molte eredità culturali.
Ma esattamente per questo non può chiudersi, proprio ora, in recinti ristretti. In ciò che sopravvive «dentro le mura». Non può pensarsi — sarebbe mortale — come semplice prolungamento di una parte di ciò che è stato, né come Federazione di frammenti di un’unità passata andata in frantumi, né tantomeno come somma di personalità – o personalismi – in competizione per un’egemonia esangue. L’accelerazione in corso chiede di uscire dalle mura, contaminarsi con ciò che c’è «fuori». Per riportare fra noi chi è uscito, e conquistare chi non c’è mai stato. Ogni altra via ci consegnerebbe a percentuali di consenso residuali, di cui non c’è spazio né bisogno.
Per questo l’incontro di gennaio dovrà essere davvero all’insegna di uno stile nuovo di ragionare e di agire, preparato da un percorso – decine di assemblee, poi una carovana dell’alternativa – nei territori, strutturato in modo tale da restituire la parola a chi in questi anni l’aveva perduta o se l’è vista sequestrare, con un orizzonte compiutamente europeo e trans-nazionale come appunto transnazionali sono le sfide politiche da affrontare. Soprattutto dovrà essere un esercizio di pensiero.
Le immagini di morte e distruzione degli ultimi giorni ci ricordano quanto ciascuno di noi sia piccolo al cospetto dei grandi problemi dell’umanità, ma allo stesso tempo ci impongono una scelta, un’assunzione di responsabilità, un impegno collettivo che non lascia spazio all’indifferenza. Ci ricordano quanto sia urgente, come ricordato da Luigi Ciotti in occasione dell’ultimo saluto a Pietro Ingrao, «una politica come strumento di giustizia sociale, dunque di pace», e quanto sia decisivo l’impegno di tutti e di ciascuno al fine di perseguire tale obiettivo.
Nel bisogno di costruire «un altro mondo possibile» è facile individuare le ragioni del nostro impegno, in Italia quanto in Europa, per la costruzione di una sinistra politica all’altezza delle sfide del nostro tempo, ma non sfuggirà a nessuno, neppure all’osservatore meno attento, quanto questo obiettivo sia di là da venire.
Per fortuna qualcosa si muove. Proprio sulle colonne di questo giornale — all’interno dell’ampio dibattito C’è vita a sinistra — è stato possibile trovare diversi e autorevoli spunti sul tema, e la recente creazione del gruppo parlamentare Sinistra Italiana sembra finalmente aver dato una scossa al dibattito, un segnale percepito da molti (e a buon ragione) di controtendenza rispetto alle divisioni degli ultimi anni.
Pensiamo che ciò basti? Che l’iniziativa parlamentare sia esaustiva al fine di costruire un soggetto politico in nome e per conto degli uomini e delle donne che la sinistra ambisce a rappresentare?
Evidentemente no, non lo è, seppur non sia intenzione di chi scrive disconoscerne il valore. Piuttosto dovremmo interrogarci su quali siano gli strumenti utili per rendere la nostra iniziativa politica sempre più partecipata, dal basso e nel basso della nostra società, su come far diventare la rappresentanza istituzionale quello che Stefano Rodotà ha correttamente definito un «terminale sociale» per realtà civiche, reti, sindacati, movimenti, associazioni, singoli cittadini, insomma per quei tanti che, qui ed ora, ci chiedono di condividere un cammino per il cambiamento, per costruire insieme un’alternativa all’attuale stato delle cose.
Democratizzare i processi decisionali, renderli sempre più trasparenti e partecipati, mettere in rete competenze ed esperienze, puntare sullo sperimentalismo democratico, sono tutte sfide dalle quali non possiamo prescindere, ingredienti essenziali per la costruzione di un soggetto politico che sia di tutti e di tutte.
Su questi temi molti di noi sono impegnati da mesi. Come per la costruzione, ad esempio, di una piattaforma digitale che possa essere strumento di partecipazione, condivisione e attivazione che, come ci ha insegnato Manuel Castells, possa utilizzare la tecnologia come strumento di libertà, piuttosto che come dispositivo di dominio. Uno strumento recentemente utilizzato da Podemos per la stesura del proprio programma di Governo, che non sostituisca l’attivismo politico fatto sul territorio e la forma partito, ma che al contrario sia capace di innovare entrambi, renderli più democratici, più partecipati, in una parola più efficaci.
Su questo, come su tanto altro, ci siamo confrontati lo scorso settembre con un gruppo di lavoro che si è appositamente costituito, e che vede l’adesione di diverse esperienze politiche desiderose di lavorare insieme e che hanno risposto positivamente ad una specifica call to action (http:// con -senso .tumblr .com).
In queste settimane stiamo lavorando per valutare alcune strade da perseguire per la realizzazione della piattaforma, ma il suo senso e la sua utilità risponde ad un’esigenza profondamente politica.
Per questo dovremmo allargare ulteriormente le maglie del confronto, trovare le modalità per intrecciare i contributi fin qui elaborati con l’annunciato evento di gennaio che dovrebbe dare il via al percorso costituente. Per farlo servirà un atto di coraggio necessario, ovvero liberare qualsivoglia iniziativa dalla dimensione pattizia, dalla somma algebrica di ceto politico e da spinte identitarie e conservative, puntando al contrario sul riconoscimento delle differenze come valore aggiunto, come forza della nostra azione politica e non come debolezza.
Il resto lo decideranno le donne e gli uomini che parteciperanno al processo stesso, e magari, potremmo scoprire proprio lì, in questo cammino comune, che nella nostra società ci sono risorse più utili e più vitali al fine di costruire un soggetto politico di sinistra (di tutti e tutte) di quanto lo siano gli attuali gruppi dirigenti.
* Act – Agire, costruire, trasformare
Huffington Post, 18 novembre 2015
Non si può certo dire che il cammino per l’unità della sinistra sia semplice e lineare. Mi riferisco ovviamente alle forze e alle persone che si sentono e si collocano alla sinistra di un Pd che del campo della sinistra non fa più parte da tempo, per esplicita scelta del suo gruppo dirigente, in primis del suo segretario. Eppure tale cammino è in corso. Alcuni organi di stampa amano fare del gossip sull’argomento. Personalizzando le varie posizioni e contrapponendole come in una commedia dell’arte. Ognuno fa il suo mestiere, anche se sarebbe opportuno farlo meglio. E questo vale per tutti, nessuno, ma proprio nessuno escluso.
Sta di fatto che il “caso italiano”, di cui ormai parlano solo gli storici, si è completamente rovesciato. Siamo il paese dell’Unione europea dove la sinistra è più debole, o tra le meno consistenti sia in termini di consenso, misurato o no attraverso il termometro elettorale, che in quelli di forza nella presenza politica e nella vita sociale del paese. Conseguentemente in termini di organizzazione.
Eppure, da quando L’Altra Europa con Tsipras raggiunse, anche se di pochissimo, quel quorum alle europee che permise un’inversione di tendenza nei confronti della coazione a ripetere la sconfitta, un nuovo percorso ha preso inizio fino a giungere alla condivisione di un breve documento che convoca un’assemblea nazionale per il 15.16.17 gennaio 2016. Il documento (“Noi ci siamo, lanciamo la sfida” nel sito de L’altra Europa con Tsipras) è stato elaborato e condiviso da Act!, Altra Europa con Tsipras, Futuro a Sinistra, Partito della Rifondazione Comunista, Possibile, Sinistra Ecologia Libertà. Alle riunioni del tavolo hanno partecipato Sergio Cofferati e Andrea Ranieri.
Nel corso di quella assemblea verrà definita una carta di valori e un’agenda di impegni politici che - attraversando le elezioni amministrative, la raccolta di firme per i referendum già in preparazione contro l’Italicum, la cattiva scuola, lo sblocca Italia e il Job Act, nonché la celebrazione del referendum noTriv e quello contro la revisione della Costituzione messo in atto con la legge Boschi-Renzi - ci porterà nell’autunno del 2016 a dare vita a un nuovo soggetto politico della sinistra in grado di affrontare le prove dell’ impegno politico, sociale e elettorale che si imporranno.
Il cupo clima che si sta stendendo sull’Europa, a seguito degli attacchi omicidi dell’Isis e della risposta guerrafondaia e securitaria promossa da Hollande, richiedono una risposta nel contesto continentale e di ogni singolo paese, che imponga una svolta rispetto alle politiche dell’austerity e della fobia dei migranti, alle logiche di limitazione dei diritti e delle libertà, allo scatenarsi delle pulsioni di guerra su cui si orientano le attuali elites europee, delle quali il governo Renzi non è che un’articolazione.
Dopo la firma di quel documento sono intervenuti nuovi elementi che dimostrano che il processo unitario è in atto ed è un obiettivo realistico. Lo ha evidenziato il successo della manifestazione al teatro Quirino di Roma– che non ci sarebbe stato o non in quei termini senza avere alle spalle quella intelaiatura che ho decritto - che ha visto la nascita di un gruppo parlamentare unito, pronto a dare battaglia in primo luogo contro un’iniqua legge di stabilità.
Contemporaneamente procede la costruzione di una nuova coalizione sociale, che ha come protagonista la Fiom (li vedremo in piazza contro la legge di stabilità a Roma il 21 novembre), e che può contare non solo su molte organizzazioni dell’associazionismo, ma soprattutto su quell’attivismo e protagonismo sociale diffuso e per ora anonimo che non ha mai cessato di esistere nel nostro paese e che reclama un fronte unificatore. Un tema complesso, poiché chiama in causa anche una rifondazione del sindacato, a fronte dei nuovi processi intervenuti nel mondo del lavoro, che hanno rotto le vecchie paratie fra lavoro dipendente e autonomo, fra posto fisso e precariato, fra lavoro intellettuale e manuale, creando una situazione socialmente inedita tutta da studiare e mettere alla prova.
Se una coalizione sociale da sola non può risultare vincente, specie quando i temi che affronta sono di natura ormai sovrannazionale, è ancora più vero che una sinistra priva di insediamento e chiaro riferimento sociale non può esistere se non nella fantasia. I due processi sono quindi destinati a contaminarsi e incrociarsi sempre più frequentemente, non sono confondibili né sovrapponibili, ma non possono ignorarsi. Soprattutto neppure le dichiarazioni sprezzanti di Renzi li possono cancellare.
Il manifesto, 8 novembre 2015 (m.p.r.)
La sinistra italiana c’è. E ha iniziato il suo viaggio in un luogo aperto al popolo di sinistra. Era da tempo che non si vedeva tanta gente riunita per discutere e confrontarsi sulle ragioni e sul futuro possibile di una forza politica, non solo di opposizione al renzismo dominante e al blocco di centrodestra che cerca di riorganizzarsi. Perché quello che abbiamo sempre promosso e auspicato è la volontà di far incontrare e unire più voci, più organizzazioni, più aggregati sociali in grado di proporre e di costruire un’alternativa credibile, forte, convincente «di governo».
Lavoro garantito nei diritti e nel reddito; welfare; scuola pubblica; immigrazione come risorsa culturale e economica; ecologia per lo sviluppo sostenibile; sobrietà nello stile politico; assistenza sanitaria universalistica. Sono alcuni dei temi al centro dell’incontro di Sinistra italiana, essenziali e costituenti di un programma diverso per il Paese.
Ritrovare insieme storie e anime della sinistra, da Sel ai fuoriusciti del Pd, agli esponenti di «Altra Europa per Tsipras» è per il manifesto cosa buona e giusta. Quando abbiamo lanciato il dibattito «C’è vita a sinistra» credevamo nella sua utilità e speravamo nel suo successo. Vedere il nostro supplemento, che raccoglie gli interventi e le lettere arrivate in redazione, in mano a tutte le persone riunite nel gremito teatro romano ci conforta. È uno stimolo in più perché il nostro giornale diventi un saldo punto di riferimento politico-giornalistico per chi si riconosce in un progetto alternativo.
L’unico limite tangibile, e visibilmente, era la scarsa presenza giovanile. Non bastano i politici di professione, gli intellettuali, i militanti di un tempo per rendere concreta un’idea così ambiziosa. Se dovessi dare un suggerimento per le prossime iniziative è questo: pensiamo alle nuove generazioni, puntiamo sul loro coinvolgimento e sul loro protagonismo. Anche perché il ricambio può essere un anticorpo al verticismo dei gruppi parlamentari che adesso uniscono le loro energie. Oltretutto un ampio contributo di giovani può aiutare a modificare e arricchire il linguaggio e le forme di comunicazione.
Alcuni esponenti della maggioranza reagiscono con un sorriso di sufficienza all’uscita dei dirigenti del Pd e a iniziative come quella di ieri. Ma dimenticano, o non vogliono vedere, che questa è un’epoca di cambiamenti. E, come già scritto, quello che abbiamo visto ieri non è che l’inizio di un cambiamento.
Essa, quando c’è - e non sempre c’è - appare un fuoco di paglia, una levata di scudi senza alcun esito politico. Tant’è che molti di questi compagni e amici, finiti i clamori dello scandalo, tornano quasi subito alle loro occupazioni quotidiane (come se le sconfitte non pesassero, o fossimo ormai abituati ad esse come a un fenomeno naturale).
Al netto dei tanti errori di Marino (sui quali è inutile tornare), resta il fatto che la persona-sindaco Marino è stata letteralmente massacrata nella sua dignità di persona e destituita di ogni ragione politica, da cui l’indignazione feroce, e purtroppo effimera, di tante persone. Di fronte a questi tragici (nel senso di tragedia greca) fatti a me vengono in mente le parole di Ingrao, scritte nel libro di Goffredo Bettini (Un sentimento tenace, Imprimatur):
C’è, in quelle parole, il senso vero della politica. Forse le persone (di sinistra) non soffrono più il dolore guardando le ingiustizie, i soprusi, lo scardinamento delle regole, l’abuso di potere, l’ineguaglianza sociale, la sofferenza dei poveri e degli oppressi, come ad esempio, nel caso degli immigrati. La politica (anche quella buona) oggi ci invita semmai a guardare oltre: come ricostruire un’unità a sinistra, come contrastare o battere l’avversario di turno. Detto in altri termini, le persone sembrano contare assai poco. Ma davvero siamo sicuri che non bisognerebbe invece fare un passo indietro e riconsiderare quel senso di indignazione e di radicalità profonda contenuta nelle parole di Ingrao che possono apparire ai professionisti della politica, motivazioni personali e perfino moralistiche?
Le alchimie politiche per dare vita a nuovi soggetti, o a un nuovo soggetto della politica o a nuove formazioni, si sono tutte sempre sgretolate nell’arco di pochi mesi dalla loro nascita e tanto più si moltiplicano, tanto più esponenzialmente si dissolvono. Forse non è la strada giusta, forse non siamo pazienti, forse non siamo così decisamente convinti che questo non è il migliore dei mondi, forse l’ingiustizia ai danni degli altri non ci provoca quella sofferenza di cui parlava Ingrao, forse c’è qualcosa che ancora non riusciamo a capire e ad elaborare politicamente. Se tante persone si sono recate a vedere l’Expo partendo da paesi lontani, sacrificandosi a file interminabili per assistere a qualche fotografia o a qualche documentario che potevano tranquillamente essere consumati a casa propria davanti alla Tv, qualche motivo ci sarà pure.
Forza e potere dei mass-media, dirà qualcuno, ma non basta a spiegare il movimento di oltre 20 milioni di visitatori in fila, quando a protestare per la defenestrazione del Sindaco, sulla piazza del Campidoglio, non ce n’era più di qualche migliaio.
In questo tocchiamo con mano la potenza dell’egemonia del capitale e dei poteri forti. Un’egemonia che disincanta alcuni e che conduce altri sulla strada della rivolta populista contro un sistema che ormai non tutela i più svantaggiati e che offre spettacoli effimeri a quel ceto medio che crede ancora di poter conservare i vecchi privilegi.
La Repubblica, 2 novembre 2015
Il sistema politico italiano si sta riassestando. Matteo Renzi persegue la sua costruzione del partito della nazione esercitando una forte capacità di attrazione verso un mondo di destra disgregato e alla ricerca di approdi. Il Movimento 5Stelle sembra anch’esso guardare oltre i suoi abituali confini, consapevole di una forza che gli proviene dal suo apparire come l’unica plausibile opposizione. Gli spezzoni della destra si agitano, alla ricerca di un federatore che possa ripetere quel che Berlusconi fece nel 1994, contando magari su una modifica della legge elettorale che riapra le porte alle coalizioni.
A sinistra si moltiplicano le iniziative, e si può provare ad elencare le più importanti. È annunciata per sabato prossimo la costituzione di un nuovo schieramento parlamentare, nel quale dovrebbero confluire gli eletti di Sel, quelli già usciti o in via di uscita dal Pd, quelli che hanno già abbandonato altri gruppi. È appena nato un Comitato per il no nel futuro referendum sulla riforma costituzionale e lo stesso sta avvenendo per contrastare l’Italicum, impugnandolo davanti alla Corte costituzionale e preparando un referendum che ne cancelli gli aspetti più negativi. È stato avviato un lavoro comune tra Libera, Caritas, Coalizione sociale per sostenere una legge che introduca un reddito giustamente chiamato “di dignità”. Altri gruppi si sono già organizzati per arrivare a referendum abrogativi di norme della legge sulla scuola e in materia di lavoro. Il Forum dell’acqua prosegue la sua difesa davanti ai giudici del risultato del referendum del 2011, in molte città viene riproposto il tema della tutela dei beni comuni e si agisce a difesa dei diritti sociali.
Di fronte a questa abbondanza sono possibili alcune prime conclusioni e nascono molti interrogativi. L’insistenza sui referendum fa emergere una linea che mette in primo piano l’iniziativa diretta dei cittadini e apre spazi alla loro partecipazione. È evidente la volontà di reagire al localismo, alla frammentazione delle iniziative, poiché il referendum è uno strumento che unifica, che promuove una discussione nazionale su grandi temi sociali e istituzionali. Ma, imboccando con tanta determinazione la via dell’appello diretto al popolo, non si finisce con il secondare proprio quel populismo che viene additato come un rischio da evitare?
Questo ci porta agli interrogativi sollevati dalle altre iniziative. Stanno per nascere gruppi parlamentari dichiaratamente di sinistra e che, indubbiamente, si configureranno come il primo passo verso la nascita di un nuovo partito. Come si muoveranno? La finalità di dar vita a una visibile e consistente opposizione può far correre il rischio di una esclusiva preminenza dell’attività di contrasto delle iniziative del Governo, di un eterno contropiede. Finalità necessaria, ma che dovrebbe essere accompagnata da un altrettanto intenso lavoro su questioni specifiche, ignorate o sottovalutate dall’azione governativa.
Questa è una considerazione che vale anche per i referendum, non pianificabili a tavolino, ma che hanno successo solo se preceduti e accompagnati da un intenso lavoro sociale, come insegna il referendum sull’acqua. L’essere terminali sociali, tuttavia, non può trasformare il lavoro dei gruppi parlamentari in un semplice rispecchiamento di tutto ciò che si muove nella società. Non si deve confondere la molteplicità delle iniziative con la frammentazione. Per uscire da questa situazione, serve un lavoro culturale, una riflessione sulla democrazia che misuri tutti gli effetti a cascata del congiungersi di riforma costituzionale e legge elettorale, con la nascita di un governo del Primo ministro che modifica la forma di governo e lambisce la forma di Stato. E si deve valutare la situazione italiana come parte della più generale discussione sulle sorti della democrazia, che recentissimi studi italiani hanno messo in evidenza e che dovrebbero essere meditati anche per ristabilire la comunicazione tra cultura e politica.
La politica è selezione di domande, individuazione di priorità. Operazioni che non possono essere affidate solo ai gruppi parlamentari. Se davvero si vuole rendere concreto e visibile un nuovo campo della sinistra, i diversi soggetti oggi all’opera devono essere capaci di parlarsi, di confrontarsi continuamente. Non è impresa facile, perché vi sono identità forti che temono di perdere rendite acquisite e ombre del passato che temono d’essere cancellate. Ma le forze in campo dovrebbero essere guidate dalla consapevolezza che i loro attuali limiti possono essere superati solo se si crea una massa critica in grado di promuovere mutamenti reali.
Le indicazioni puntuali non mancano. Di fronte ad una distribuzione a pioggia di risorse nella materia del sostegno al lavoro è tempo di passare ad una nuova impostazione, di cui il reddito di dignità è l’esempio più chiaro. Devono essere garantite nuove forme di intervento dei cittadini: con una semplice modifica dei regolamenti parlamentari si può rendere obbligatorio l’esame delle leggi d’iniziativa popolare; riprendendo in sede parlamentare il tema dei beni comuni, si possono sottrarre all’abbandono, alla dissipazione, alla speculazione risorse importanti. Si deve abbandonare il perverso scambio tra impoverimento dei diritti sociali e concessione al ribasso di qualche diritto civile. Si deve riprendere una seria discussione sull’Europa. L’elenco si può allungare, ma questo dovrebbe essere il compito di una discussione corale che abbia come bussola la ricostruzione di una politica costituzionale.
Per rincarare la dose: la competizione democratica è congenitamente truccata. Chi scrive le regole sono i giocatori, ma non sempre tutti d’intesa fra loro. Le scrivono i vincenti a spese della concorrenza.
Le ultime leggi elettorali adottate in Italia lo confermano come meglio non si potrebbe. Contano invero molto le circostanze. Nel 1946– 48, quando si adottarono proporzionale e bicameralismo, i vincenti erano tanti e nessuno era in grado di imporsi agli altri: furono costretti a un accordo piuttosto equo. Non appena però la Dc si convinse che circostanze e rapporti di forza erano cambiati, adottò la legge truffa.Qui sta tuttavia il bello delle elezioni. Non è detto che quando i vincenti le riscrivono, o reinterpretano, a propria misura, le regole funzionano secondo le attese. Padri e padrini dell’Italicum si tengano per avvertiti.
La democrazia elettorale mantiene un margine, seppur ristretto, di imprevedibilità. Inoltre, le elezioni ciclicamente si ripetono. Competitività e ciclicità sono pregi fondamentali. Il loro primo pregio sta nel fatto che se non ci sono la democrazia diventa autocrazia e la democrazia (elettorale) è un marchio oggidì quasi irrinunciabile. In secondo luogo, competitività e ciclicità assicurano che nessun risultato è mai per sempre. Prima o dopo, il diavolo ci mette la coda.
La competitività, tuttavia, se non è resa fittizia, ha pure un altro pregio. Costringe i concorrenti a mostrarsi un po’ generosi con gli elettori: se vuoi che ti votino, qualcosa devi concedergli. Suffragio universale e welfare sono esistiti per questa ragione. Proprio per bloccare questa possibilità – definita di volta in volta dai catoni di accatto demagogia, clientelismo, assistenzialismo o populismo – le regole democratiche sono state da un quarto di secolo ricongegnate riducendo a due le alternative e rendendole fittizie. Dato che i concorrenti, per inseguire l’elettore intermedio, promettono e fanno tutti le stesse cose. Oppresso da tale competitività simulata, lo Stato sociale ci ha lasciato le penne. Mentre metà elettori, disgustati, non votano nemmeno, le elezioni oggi si vincono con una manciata di voti, lautamente pagati da chi ha i soldi. Come si voleva.
Qualcuno a questo punto invocherà la Costituzione e le tavole dei diritti. Ma andiamo alla sostanza: costituzioni e diritti sono tentativi d’irrigidire giuridicamente un equilibrio di potere dato storicamente e proiettarlo nel tempo. La costituzione del ‘48 voleva irreversibile l’antifascismo e il – modesto – comune denominatore che legava le forze politiche che la sottoscrissero, ovvero l’attenzione per il mondo del lavoro e le classi popolari. La Costituzione è pertanto un incrocio tra un programma politico solenne e un pezzo di carta. Dopo un avvio sferragliante, per un po’ il programma politico ha funzionato. Ma non per forza intrinseca, ma perché c’erano larghissime truppe elettorali e imponenti organizzazioni di massa che lo garantivano.
Al contempo, i partiti erano in concorrenza tra loro per l’elettorato popolare. Aggiungiamoci, infine, che c’era una classe politica che, pur tra tanti distinguo, ci credeva. Per fortuna c’è anche chi fa politica non solo per vincere le elezioni, ma anche per attuare qualche nobile ideale. Alla lunga la Costituzione si è ridotta a un pezzo di carta.
Competizione effettiva, vasti elettorati e organizzazioni di massa in grado di suscitarli sono ciò che consente di arredare la democrazia in maniera non troppo misera.
Bene, la retorica della governabilità ad ogni costo, di destra e di sinistra, ha azzerato la competizione e quella moralista ha accusato i partiti di essere la sentina di ogni vizio. Le sentine si possono anche svuotare. Si è detto invece che i partiti erano congenitamente viziosi e li si è ridotti a ectoplasmi.
Conclusione. Se vogliamo difendere il progetto politico dei Padri costituenti, perché lo riteniamo ancora valido, o se ne vogliamo immaginare un altro che salvaguardi i succitati principi e presti attenzione alla gente comune, tocca radunare truppe, armarsi e combattere. Con armi pacifiche, ma che facciano arretrare l’avversario. Non è facile, perché l’avversario è attrezzato: fra le altre cose ci ha incatenati ai diktat dell’Europa dei banchieri.
Ma non è detto che sia impossibile. Non è impossibile, ad esempio, escogitare tecniche comunicative utili aggirare le blindature dei media, che sono in mano ai ricchi. I cosiddetti partiti populisti, si badi, ci stanno riuscendo, seppur nell’intento d’instradare la democrazia sui binari del razzismo e dell’intolleranza. Tant’è che pure a sinistra da qualche parte qualcosa si muove: in Inghilterra, nella penisola iberica, in Grecia.
Chissà perché la sinistra italiana è rimasta finora prigioniera di personalismi e narcisismi, limitandosi a pestare i piedi per i diritti violati e per le malefatte di questo e quello. Chi dice però che non possa far di meglio?
LaRepubblica, 1 febbraio 2015
Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro. La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune.
Quando vi siete conosciuti esattamente?
«Nel 1964. Venne a una riunione del partito comunista italiano come giornalista del Nouvel Observateur . Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi al giornale Le Monde, suscitando la collera del partito comunista francese»Collera perché?«Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico»
Cosa?
«Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi»
Lei come è diventata comunista?
«Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo»
E lei?
«Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito».
Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
«Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la casa della cultura».
Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
«Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare».
Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
«Avevamo soprattutto dei rapporti personali».
Con chi si è complicata la vita?
«Con Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere».
Pensava di essere nel giusto?
«Pensavo che l'Urss fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato».
Quell'anno alcuni restituirono la tessera.
«E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante».
Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
«Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti»
Dove?
«In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza».
Foucault aveva sparato a zero contro l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
«Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i piedi»
Ha conosciuto Foucault personalmente?
«Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul Quai Voltaire. Era un'intelligenza di primordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l'Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno»
Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
«Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un'amica comune mi chiamò. Disse che Helene, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt'altro modo».
Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
«Helene venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis»
Quale malattia?
«Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Helene. Penso piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci»
Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
«Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto».
Tra le figure importanti nella sua vita c'è stata anche quella di Luigi Pintor.
«Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme»
Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
«Ho una certa invidia per le mie amiche - come Margarethe von Trotta - che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un'altra»
Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
«Non ho più un'idea di Dio dall'età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio»
Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
«I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no».
Dove lei è nata?
«Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po' strana»
Si riconosce un lato romantico?«Se c'è si ha paura di tirarlo fuori. Non c'è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell'innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro»
Come vive il presente, questo presente?
«Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita»
E le sue radici: Pola? L'Istria?
«Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo. Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me»
C
Traduco in italiano l’ultimo articolo di Bia Sarasini sul : ci siamo fatti prendere in giro per un anno e mezzo e forse più da Sel, che non aveva nessuna intenzione di unificarsi con L’altra Europa e con Rifondazione, ma voleva solo logorarle, cosa che aveva cominciato a fare fin da prima della campagna elettorale e che alla fine le è riuscito benissimo.
Abbiamo perso per strada oltre un milione di elettori, quarantamila persone che avevano firmato con entusiasmo il nostro manifesto, migliaia di compagni disgustati dal nostro tergiversare, tre quarti dell’intellighenzia italiana che si era illusa di trovare nel nostro progetto un punto di riferimento, il lavoro di decine di comitati locali.
Abbiamo sprecato il “momento magico” del risultato elettorale sparando a palle incatenate contro Barbara Spinelli - figura senza la quale la nostra lista non sarebbe mai nata - cosa che peraltro avevamo cominciato a fare già durante la campagna elettorale, sostenendo che un bel bikini avrebbe attirato più voti dei suoi noiosi discorsi politici. Adesso non contiamo più niente e ci rendiamo conto che quelli con cui avevamo promesso di fare il big bang della sinistra, compresi molti fuoriusciti dal PD, pensano solo a rifare il centro-sinistra perché non sanno concepire nient’altro.
D’altronde neanche noi sappiamo bene che cosa fare, ma andiamo avanti così. Speriamo che il buon dio ci aiuti.
Il manifesto, 24 ottobre 2015
Non che ci sia da stupirsi. La frammentazione dello spazio politico a sinistra è sempre rimasta tale, nonostante l’impegno generoso di tante e tanti, nonostante lo sforzo di tenere un filo che leghi le mille esperienze tra sociale senza rappresentanza e politico che non trova una forma. Nonostante il successo — modesto ma unico — dell’ultimo progetto unitario della sinistra, il risultato della lista l’Altra Europa con Tsipras alle Europee del 2014, senza ignorare la delusione e gli abbandoni che ne sono seguiti. Non c’è da meravigliarsi che le inevitabili e fin troppo contenute rotture — vista la rotta impressa dal segretario Matteo Renzi — che sono in corso nel Pd, facciano fatica a orientarsi nel campo nuovo in cui vengono trovarsi, quello che il gergo mediatico continua a chiamare sinistra radicale, e che più volentieri facciano riferimento ai momenti migliori del passato recente. E a parte la meraviglia che sicuramente avrà colto l’eccellente Professore nel vedersi considerare il riferimento di un progetto di sinistra, addirittura di una “cosa rossa”, il fatto sorprendente è che in questo quadro vien cancellata la crisi economica che ha sconvolto la scena mondiale. Come sembra sparita la crisi del welfare e della buona vecchia socialdemocrazia, che dallo tsunami della crisi è stata spazzata via.
E lo dico senza dimenticare, anzi, le mie simpatie uliviste del passato. Proprio perché ne ho seguito passo passo l’intera evoluzione, l’evocazione attuale mi sembra assurda. La mutazione del Pd impressa da Renzi è l’ostacolo più evidente. Una mutazione che si sta completando sotto nostri occhi, con l’espulsione dal proprio profilo non tanto delle radici storiche che nella comunicazione di propaganda vengono — con misura — coltivate, quanto del radicamento sociale.
È così sorprendente, questa prospettiva, che viene da chiedersi se non sia uno dei tanti giochi in corso per affondare definitivamente ogni tentativo di sinistra nel nostro paese. Una sinistra antiliberista, che punti a proteggere i giovani, i pensionati, le donne, i lavoratori, dalla violenza dell’attacco sociale, una sinistra che vede nel governo Renzi l’interprete fedele, anzi, creativo — del disegno liberista delle élite europee. Come si fa a pensare ad alleanze con chi taglia la sanità pubblica? Come non vedere prospettive diverse in Europa, per esempio in Portogallo?
Certo, ogni proposta è legittima, in un terreno che non vede ancora in campo un progetto comune, un terreno che non ha nome, tanto che si ritrova a essere identificato con un richiamo che nella versione più benevola appare nostalgica, come “cosa rossa”. E non si può certo immaginare che ci sia un’unica prospettiva, l’esatto contrario dell’idea in cui ci siamo spesi in tante e in tanti. L’idea di un mettersi in marcia, di avviare insieme un progetto che nel camminare prende forma. Un mettersi in moto che ha bisogno di un avvio, un inizio. Un inizio fin troppo atteso.
Abbiamo discusso, nei mesi scorsi, della vita a sinistra. La vita, se c’è, a un certo punto prende forma, vive appunto. Credo che continuare a trascinare la decisioni di partenza di riunione in riunione sia un gioco mortale. Si potrebbe anche chiamarlo gioco delle tre carte, vedo e non vedo, ci sono e non ci sono. È divertente, ma solo per chi tiene il banco. Che non è nessuno dei partecipanti. E il banco sono il governo, o l’Europa, o il liberismo, fate voi. Che a giocare ci siano solo uomini non è un dettaglio irrilevante.
Il manifesto, 16 ottobre 2015 (m.p.r.)
C’è vita se c’è capacità utopica, dove per utopia s’intende anche l’immaginazione di “luoghi di vita” buoni, desiderati, da realizzare. La sinistra - l’insieme delle forze sociali organizzate anche piano politico al servizio dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani rispetto a diritti e dignità - ha purtroppo sperimentato a sue spese la perdita di immaginazione e capacità utopica.
I gruppi dominanti sono riusciti, a partire dagli anni ’70, ad imporre nuovamente la loro narrazione della vita, della società e del mondo. E per due ragioni principali. Da un lato, ritornati al potere all’epoca di Reagan e Thatcher, hanno operato una massiccia de-costruzione ideologica e sociale dello Stato del welfare. Dall’altro, non avendo sviluppato una visione politica autonoma della scienza e della tecnologia, la sinistra non ha potuto giocare alcun ruolo innovatore influente sulle strategie di controllo ed uso delle nuove tecnologie del vivente, cognitive, dell’informazione e della comunicazione, energetiche e delle tecnologie dei materiali, sulla base delle quali l’economia mondiale e le società “sviluppate” sono state profondamente ristrutturate.
Le nuove narrazioni “positive” del mondo e delle trasformazioni sociali sono cosi diventate monopolio dei gruppi dominanti. Le sinistre sono state relegate al ruolo secondario di “forze di reazione”. I dominanti hanno invece rafforzato il loro potere in quanto fissatori dell’agenda politica planetaria: al centro del dibattito filosofico, politico e culturale c’ è stata solo la loro utopia (mistificatrice) della globalizzazione economica, da loro data come creazione inevitabile e irresistibile (senza alternative) dei luoghi di vita dell’umanità.
Nel corso degli anni ’90, c’è stato un risveglio utopico a sinistra. Mi riferisco alla tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, al principio di sostenibilità in alternativa all’imperativo della crescita economica infinita, al successo contro l’Ami ed l’Omc (Seattle), al bilancio partecipativo, al buem vivir, al lancio del Forum sociale mondiale. Purtroppo, si è trattato di un fenomeno di corta durata. L’incapacità delle sinistre d’integrare e federare le loro forze in azioni e programmi comuni mondiali durevoli, ha permesso ai gruppi dominanti, di sconfiggerle ai vari livelli nazionali in nome della nuova modernità legata alla “globalizzazione delle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche” e della lotta contro il preteso nuovo nemico mondiale, il terrorismo. Se a ciò si aggiungono le ripetute crisi economiche e finanziarie che da più di 25 anni hanno devastato i tessuti sociali e le comunità locali, nazionali, continentali e mondiali, si capisce il perché mai come oggi la potenza, violenta del sistema dominante è stata cosi grande a livello mondiale (il pianeta) e globale (in tutti i campi).
Due gli insegnamenti generali per le sinistre del mondo, ed in particolare per la sinistra in Europa. Primo. Non v’è capacità utopica da solitari. La grande forza utopica di Syriza (in breve: la ri-organizzazione europea del debito) è stata duramente calpestata perché nessun altro governo e popolo europeo se n’è fatto alleato esplicito e convinto. Ri-costruire una capacità utopica forte e solida della sinistra è un’opera di lungo periodo che deve avvenire su basi europee e mondiali (l’esperienza dell’acqua bene comune insegna).
Non c’è allo stato attuale del mondo una via nazionale della sinistra. La lotta contro il diritto di proprietà intellettuale sul vivente deve essere continentale e mondiale. Lo stesso vale della lotta, da rinnovare, contro gli armamenti. Idem per quanto riguarda la messa fuori legge dei fattori strutturali generatori dei processi d’impoverimento per natura transnazionali e mondiali. Per questo la nuova capacità utopica della sinistra deve fondarsi su una nuova concezione dell’umanità, dell’uguaglianza nei diritti, del lavoro e dell’istituzionalizzazione politica planetaria del potere. Secondo. Non v’è riconquista della capacità utopica senza un forte radicamento “locale” delle innovazioni grazie alla promozione di “comunità di vita” glocali, cioè senza la traduzione concreta a livello delle comunità locali dei principi e delle strategie mondiali. Questo significa l’esistenza di forze sociali portatrici di interessi collettivi mondiali ma localmente diversificati e plurali. In passato, i contadini, gli operai, la piccola e media borghesia, hanno svolto tale ruolo. Nel XXI° secolo, tocca all’umanità, glocale per definizione, di esprimere la capacità utopica del mondo. Il futuro della sinistra è l’umanità, coscienza sociale della globalità della vita e della mondialità della condizione umana (cittadinanza universale plurale).
La Repubblica, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)
Ma anche i lavoratori, le istituzioni pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano.