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il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)

«Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle». Così scriveva Guido Mazzoni dopo l’elezione di Trump, sul sito Le parole e le cose: un lucido saggio, cui affiancherei Populismo 2.0 di Marco Revelli e La lotta di classe dopo la lotta di classe di Luciano Gallino.

Vere e proprie bussole per orientarsi in un mondo in cui la razionalità non è più in grado di comprendere la realtà (altroché l’hegeliano «il proprio tempo compreso con il pensiero»…). “Destra” e “sinistra” in senso lato possono rimandare a due costanti antropologiche diversamente declinate nei secoli: attenzione a conservare le tradizioni versus aspirazione al cambiamento, affermazione di libertà individuale versus realizzazione di rapporti sociali equi.

Nell’accezione politica hanno invece una storia più recente, dall’Illuminismo in poi: il termine stesso “sinistra” nasce con la Rivoluzione francese. Ed è collegato a un’altra idea, nata con la concezione ebraico-cristiana del tempo, cioè l’idea di una storia lineare e progressiva, tuttora prevalente nel senso comune. Per di più capitalisticamente identificata con l’idea di sviluppo.

Però, come diceva Nicola Chiaromonte, «la storia muta ma non cambia» e i ciclici corsi e ricorsi storici, sempre diversi ma sempre uguali, nella fase del declino non salvano dalla barbarie. Nel II secolo Roma contava 1.200.000 abitanti, nel 1527 solo 50.000… Mi sembra che il mondo occidentale sia caduto in una di quelle catastrofi periodiche che segnano il passaggio da un’epoca all’altra: solo che oggi tutto è a livello planetario.

La fantasmagorica crescita della tecnica ci ha fatto smarrire il senso del limite, della realtà e dei rapporti umani. L’unico spazio pubblico rimasto è quello solitario dello schermo del computer e dei narcistici social network, che tutto sono salvo che sociali. I grandi temi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta -l’autorealizzazione, l’abolizione dei divieti, l’emancipazione da vincoli secolari quando non millenari, l’appagamento dei desideri come diritto e valore rivoluzionario o comunque politico – negli anni sono diventati la bandiera ideologica e l’alibi dell’élite al potere oggi in Occidente, pantografata da Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street.

Ma già Simone Weil ammoniva: «Nella natura delle cose non è possibile alcuno sviluppo illimitato. Il mondo riposa del tutto sulla misura e l’equilibrio. La stessa cosa accade nella città». Cioè nel sociale e nel politico. Ma inutile farsi illusioni: i due campi (che non vanno confusi) sono devastati dalla selvaggia globalizzazione neoliberista, o comunque la si voglia chiamare (per un approfondito chiarimento della questione, che non è solo nominalistica, rinvio a Il rovescio della libertà, di Massimo De Carolis).

Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono ormai improponibili, e non solo perché il collasso interno li ha resi irriconoscibili: tutta la recente storia del Pd è esemplare e, come anche i vari tentativi di creare un’alternativa a sinistra, denuncia l’esaurimento di quel modello.

Il sociale è frantumato e sfibrato dall’impoverimento crescente, dalla disoccupazione giovanile, dalla crisi, lucidamente perseguita con baldo entusiasmo anche dai partiti sedicenti di sinistra, del sistema di garanzie del Welfare, bollato oggi come “stato assistenziale”. Dall’abolizione di ogni organismo intermedio tra società e Stato. E dall’ immigrazione dei dannati della terra e di chi cerca di salvarsi dalle nostre guerre.

Di questo sfrangiamento è causa anche la chiusura delle grandi fabbriche e la conseguente disseminazione della forza operaia, ormai disgregata, sotto ricatto e senza uno spazio collettivo che non era solo di lavoro ma pure di dibattito, di lotta e di mobilitazione, anche nella sua proiezione nella città.

E forse ancor più angoscia l’anestetizzazione verso la sofferenza degli altri: si comincia da qui e si arriva in fretta, ci stiamo arrivando, in molti paesi europei e della Nato (Turchia, anche coi nostri soldi) ci siamo già arrivati, ai campi di concentramento. Edith Bruck, in una recente intervista, si domanda: «Che cosa deve ancora succedere?». Guardando le foto dei cadaveri galleggianti sul mare non ci dice più nulla la tremenda constatazione di Simone Weil: «C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno»?

Alle svolte epocali della storia non si sfugge. Però, come recita un detto friulano citato spesso da Claudio Magris, morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna. Allora forse si può resistere comunque, con approcci nuovi o ripresi dalla tradizione libertaria socialista e anarchica, ma anche dal comunitarismo americano, alla Christopher Lasch, un conservatore di sinistra, autore tra l’altro di un profetico saggio sul narcisismo.

Ma senza andar troppo lontano si potrebbero rileggere Gobetti e Gramsci. Soprattutto avendo sempre come base programmatica l’attuazione della nostra Costituzione. In fin dei conti gli italiani si sono risvegliati in massa dalla loro apparente apatia solo nel 2006 e nel 2016 per rifiutare stravolgimenti della Carta. E lascia esterrefatti che il ceto politico in toto non abbia tenuto conto della formidabile mobilitazione, soprattutto giovanile, del dicembre scorso: un ulteriore sintomo dello stato comatoso dei nostri partiti e del nostro parlamento.

Così ci stiamo giocando le nuove generazioni. Cominciamo allora a rompere l’uniformità con le differenze, a disseminare ovunque sia possibile forme di contropotere organizzato (produttive, distributive, ecologiche, ambientali, di resistenza passiva) e cercare di collegarle tra loro per integrazioni successive.

E soprattutto dovremmo tutti recuperare la dimensione dell’alterità. Ricordandoci che adempiere gli obblighi verso gli altri è socialmente più fecondo che rivendicare un diritto. Come scriveva Anna Maria Ortese «La vita di un paese non è fattibile senza un impegno morale – oh, assai prima che politico».

«Le vecchie culture politiche appaiono abbandonate dai loro referenti sociali: sono percepite come omologate alle forme dominanti del capitalismo. La crisi dell’età della globalizzazione spalanca uno spazio per culture capaci di reinventare le forme di allargamento della democrazia, di partecipazione, di potere sociale.».

il manifesto, 9 maggio 2017

Il senso del voto francese è anche questo: con la sua marcia (poco) trionfale Macron ha vendicato Hillary Clinton, caduta nel suo sogno di un presidenzialismo a conduzione familiare e a forte egemonia finanziaria.

La destra in America, con Trump, ha giocato la briscola buttando sul tavolo la risposta conservatrice alla grande crisi del 2007. Con il suo immaginario politicamente scorretto, il comandante supremo dai capelli arancioni, ha strapazzato l’alternativa tecnocratica, che i poteri della finanza avevano fabbricato attorno alla candidatura di Clinton.

Una destra populista e protezionista avrebbe sfondato anche in Francia se però non avesse assunto il volto, ancora imbarazzante dopo il secolo breve, di una fascista al potere. Canterà pure la Marsigliese, ma Le Pen figlia evoca, non meno del padre vecchio camerata, un fantasma troppo oscuro per essere ospitato all’Eliseo. Le alchimie delle istituzioni della Quinta Repubblica hanno consentito la rivincita dei poteri forti della finanza e dei media che hanno investito tanto su un loro cavallo di scuderia che con appena il 23% acciuffa il potere.

Quello che la piccola rivoluzione passiva francese dice è che anche oltralpe si svolge il duello tra l’élite del denaro e della politica, che inventa novità cosmetiche per non perire, e le destre che agitano il codice del populismo, con gli immigrati come nemici concreti ma fasulli costruiti per sfondare. Gli stessi conservatori inglesi cavalcano l’euroscetticismo per riassorbire il dissenso dei ceti popolari. Riescono così a sgonfiare le nuove destre protezioniste, ma al caro prezzo dell’uscita dall’Unione europea. Per non parlare dello spettro della disgregazione del regno che si agita sotto le minacce scozzesi di devoluzione.

Con la prima grande contrazione sistemica del capitalismo globale si è aperta una generale crisi di rappresentanza. Cadono nel loro rendimento i regimi presidenziali, si inceppano i meccanismi maggioritari, si sgretolano i pilastri bipartitici, con buona pace dei profeti della democrazia decidente. Le destre, per resistere agli eventi, si convertono da inflessibili apostoli del liberismo della deregulation (l’asse Reagan-Tatcher) in profeti armati del protezionismo a suon di legge e ordine (l’asse Trump-May). Questo miracolo, che a intermittenza si ripete, è il punto di forza della destra. A sinistra i partiti non paiono troppo credibili quando accennano alla capriola che dalla febbre del liberismo (Cinton-Blair-Schroeder) li conduce a cavalcare le domande securitarie (liberi pistoleri di notte, esercizi repressivi con il decreto Minniti di giorno).

Quello che anche la Francia rivela è che la destra non è indebolita dalla crisi. Ad essere travolti dalle macerie del capitalismo in contrazione, sono i partiti riformisti, quelli di destra hanno mille vite. Escono disarcionati in Grecia, in Francia, in Spagna i partiti socialisti. Credevano di aver congelato i comportamenti elettorali arroccandosi come cartelli inamovibili di un’alternanza statica entro un sistema fermo alla venerazione delle divinità del mercato, che si è convertito in un produttore di diseguaglianza crescente. Le vecchie culture politiche appaiono esangui e abbandonate dai loro referenti sociali: sono percepite come omologate alle forme dominanti del capitalismo che ordina precarietà e incertezza. Solo il bistrattato Corbyn sprigiona simboli e sfide che alimentano qualche sogno di rottura.

La grande crisi sistemica dell’età della globalizzazione spalanca uno spazio per culture capaci di reinventare le forme di allargamento della democrazia, di partecipazione, di potere sociale.

Una nuova sinistra deve ricominciare dalla sua capacità più vecchia e perduta: la critica del potere astratto dello Stato rappresentativo e la contestazione delle alienazioni sociali connesse al dominio del capitale. È terminata la stagione della politica riformista subalterna al capitale e disponibile solo a gestire un movimento minore, determinato dai marginali spostamenti al centro, con la cattura del mitico elettore mediano soddisfatto delle promesse di consumo e di mobilità sociale.

Solo una sinistra di classe (nella analisi delle potenze del modo di produzione) e di popolo (nella proposta politica di un immaginario egemonico, aggregante e aperto alle differenze, alle culture) può sparigliare il duello fasullo tra una nuova destra che manda alla casa Bianca un capitalista e il nichilismo del denaro che invia un suo rappresentante all’Eliseo. Non ci sono altre maniere per arrestare il trionfo della post-democrazia ovunque En Marche.

«il manifesto, 26 aprile 2017

Mélenchon rivela, dimostra, impone alla sinistra italiana, se c’è e vuol esserlo davvero, cose chiare e nette. Rivela che meritare di essere definita «estrema» non impedisce di ottenere tanti voti quanto quelli che la distanziano di poco dalle due maggiori formazioni politiche.

Il risultato del primo turno dell’elezione in Francia dimostra, anzi, che la somma dei voti della sinistra estrema e del partito socialista, che è quello di Hamon e non quello di Hollande e degli altri converti al liberismo, supera quelli di Macron (23,8 %), il primo dei duellanti al secondo turno, dato che 19,6%, più 6,3 % è eguale a 25,9%. Essere di sinistra, anche estrema, non condanna perciò alla irrilevanza politica. Perché la sinistra non è morta col crollo del muro di Berlino.

Dimostra Mélanchon che si può rappresentare, quindi raccogliere, esprimere, assumere come propri e manifestare i bisogni, gli interessi, le domande, i progetti che emergono della classe sociale dei lavoratori.

Evitando, fortunatamente, di denominarli come partecipanti ad una gara podistica, primi, secondi, ultimi, penultimi … e nascondendo così che la loro è la condizione di vita determinata dal rapporto capitalistico di produzione. Rapporto che non è stato trasformato né dalla rivoluzione informatica né dalla globalizzazione che altri profili, anche importanti, hanno modificato, ma non certo la sua struttura quella salariale, che accomuna operai e impiegati, che, come tali, vengono sfruttati.

È quello stesso rapporto che investe i precari in quanto aspiranti allo sfruttamento, così come i disoccupati permanenti, depauperati anche della condizione di sfruttati. È, infine, quello degli emarginati dalle crisi di sovrapproduzione o da quella che da dieci anni attanaglia l’Europa, e che, con la finanziarizzazione dell’economia, prova a frenare o a mitigare le conseguenze della caduta tendenziale del tasso di profitto.

Mélanchon indica senza infingimenti che questa Europa è la maggiore e più evidente responsabile della sua regressione incessante sul piano della sostenibilità sociale. Non solo su questo giornale e già sulla rivista di questo giornale abbiamo denunziato cento volte l’accumulo di assurdità istituzionali e di totalitarismo normativo contenuto nei Trattati e riassunto in quello di Lisbona.

Oggi una forza politica europea non sospetta di popolarismo come la «sinistra radicale francese» pone come suo obiettivo programmatico la democratizzazione dell’Unione europea. Democratizzazione, quindi, non uscita avventuristica dall’Ue, consapevolezza quindi della impossibilità di lottare efficacemente contro il capitalismo da una dimensione territoriale minore da quella continentale. Democratizzazione che, per essere tale, deve radiare l’immunità politica dei consigli europei che, sotto lo scudo della collegialità, offre agli esecutivi degli stati dell’Ue, cioè ai produttori dei regolamenti europei, l’irresponsabilità politica delle norme che produce su proposta della Commissione, l’esecutivo per eccellenza dei Trattati, che a loro volta furono deliberati dagli esecutivi degli stati. Quei Trattati che pongono come fine esclusivo dell’Ue e come mezzo per raggiungerlo l’economia di mercato aperto e in libera concorrenza.

Dalla vicenda della sinistra radicale europea, dal suo irrompere imponente ed improvviso sulla scena francese la sinistra italiana deve trarre tutte le conseguenze. Innanzitutto quella di sapere che può esistere, e lo può, senza accoppiamenti snaturanti, senza attenuazioni o falsificazioni abiuranti, senza revisioni stravolgenti. Lo può se decide di essere sinistra.

«Gladys Martínez López del collettivo

Diagonal il manifesto

«La direzione di Podemos appoggia la creazione di un mezzo d’informazione alternativo»: così El País ha informato sulla nascita di El Salto, una piattaforma mediatica di proprietà collettiva appena nata a Madrid. Tuttavia, la realtà del processo che consolida El Salto è molto distante dalla descrizione del più grande quotidiano globale in lingua spagnola.

L’idea nasce nella redazione del quotidiano (creato nel 2005) dall’esigenza di democratizzare la comunicazione dello Stato spagnolo facendo confluire in uno spazio condiviso diverse realtà di informazione critica e indipendente. L’obiettivo è consolidare un nuovo gruppo mediatico per contendere l’egemonia dell’informazione alle grandi corporazioni. Intanto, il progetto è partito con una rivista mensile (lo scorso marzo è uscita il primo numero), che approfondirà le tematiche trattate quotidianamente in un’innovativa piattaforma digitale, con contenuti scritti e audiovisivi.

Un canale per dar voce ai movimenti sociali, ma anche per stimolare la partecipazione della cittadinanza nel mondo dell’informazione, El Salto è il risultato della vivacità sociale e politica apertasi con l’apparizione del movimento degli Indignados, il 15 maggio del 2011, durante il secondo governo Zapatero. Tutt’altro che una scelta di partito calata dall’alto, quindi, ma una complessa trama di alleanze e cooperazione tra mezzi d’informazione (anche in lingue diverse) della Galizia, del Paese Basco, dell’Andalusia, che porta oltre venti realtà indipendenti a creare, dal basso, «el primer gran medio financiado por la gente».

«Ci dicono impossibile, ma già lo stiamo facendo», si legge sulla pagina in formazione di El Salto. Come? Ce lo spiega Gladys Martínez López, una giovane del collettivo che ha partecipato alla costruzione del progetto.

Qual è la differenza tra El Salto e i media indipendenti a cui ci siamo abituati in passato?
Il movimento 15M ha segnato un punto di non ritorno; quell’esplosione di dignità, di denuncia e rivendicazione mostrò una ripoliticizzazione di ampi strati della società, evidenziando l’indignazione popolare. Sono nati diversi mezzi d’informazione, alcuni dei quali hanno cominciato ad occupare quello spazio alla sinistra di El País in cui fino ad allora ci muovevamo praticamente da soli. In questo scenario interessante, il progetto è cresciuto. Tuttavia, al di là della riuscita di Diagonal, avevamo come la sensazione di sbattere contro un tetto di vetro che ci impediva di continuare a crescere, sentivamo di esserci accomodati nel nostro giornalismo di nicchia. Invece, per andare oltre e consolidare la nostra sostenibilità, dovevamo fare un “salto”, non aveva più senso continuare a competere con tutti quei mezzi d’informazione con cui già avevamo stabilito logiche di cooperazione. Allora ci siamo chiesti perché non creare un grande mezzo d’informazione con un’infrastruttura comune in cui possano confluire tutti questi progetti. Così abbiamo cominciato a confrontarci con i diversi progetti mediatici che hanno poi dato vita a El Salto. Proprio questa volontà di unire, di far confluire, di creare logiche di collaborazione pura, è uno degli elementi originali rispetto ad altre esperienze mediatiche.

Stiamo costruendo un grande mezzo d’informazione, di massa però orizzontale, basato e sostenuto da migliaia di persone associate, con norme etiche per quanto riguarda pubblicità e indipendenza da imprese, partiti, ecc. Un altro aspetto chiave è l’importanza che diamo all’informazione locale, sempre più abbandonata dal sistema mediatico dominante, ma oggi cruciale più che mai, per l’interesse che suscitano gli «ayuntamientos del cambio» (città ribelli, ndr) e per l’importanza della dimensione territoriale delle lotte. Infatti il numero zero è uscito in sei edizioni diverse: insieme all’edizione statale, quelle andalusa, galiziana, di Madrid, della Navarra, di Aragón. Infine, El Salto oltre ad essere un “mezzo di mezzi d’informazione”, vuole consolidarsi come gruppo mediatico innovativo nello sperimentare nuovi formati e nuove tecniche comunicative. Per questo tendiamo a tessere alleanze e a creare spazi di cooperazione.

Un “salto” collettivo in un mondo, quello dell’informazione, che sembra essere sempre più ostaggio delle logiche di mercato e delle grandi corporazioni. Qual è il panorama mediatico in Spagna?
Nella prima edizione abbiamo dedicato un ampio spazio ai grandi gruppi mediatici, che nello stato spagnolo si accaparrano più della metà del mercato dell’informazione e la maggior parte dell’audience: Mediaset, Prisa, Atresmedia. Tutti questi gruppi, tra le altre cose, sono accomunati dal vincolo che unisce i loro consigli d’amministrazione a grandi banche, multinazionali dell’energia, grandi imprese… Per noi è impossibile fare informazione indipendente con un consiglio d’amministrazione legato a grandi imprese.

Dall’altra parte, come ho spiegato prima, troviamo un panorama mediatico indipendente, nato dopo il 15M, con una molteplicità di nuovi media e di diverse tendenze. C’è poi il recente processo di “democratizzazione” dell’informazione, con l’assottigliamento, nello spazio digitale, delle linee che separano “giornalismo professionale” e “giornalismo cittadino”. Certamente il panorama è inedito, ma resta solida l’egemonia del discorso dominante e dei grandi apparati mediatici, appoggiati dai gruppi politici e imprenditoriali. Per questo crediamo necessario un giornalismo critico, dal basso, appoggiato e partecipato da migliaia di persone associate.

Un progetto che s’inserisce in una cornice abbastanza vivace. Che relazione c’è tra El Salto e la fase politica che vive lo Stato spagnolo?
Il bipartitismo è ancora vigente, e il Partido Popular – un partito di destra per certi versi erede del franchismo – continua a governare. Ciò nonostante, tanto il Partido Popular come il Psoe (i due “partiti del regime”) sono usciti malconci dall’esplosione del movimento del 15M, prima, e poi dall’irruzione di Podemos nelle istituzioni. In diverse comunità autonome, le candidaturas del cambio sono riuscite a sconfiggere l’egemonia pluridecennale del Partido Popular, anche se questo in diversi contesti ha significato stringere alleanze con il Psoe.

Negli ayuntamientos del cambio, governati da liste civiche di unità popolare, le lotte sociali sono entrate con forza nei consigli comunali. Molti attivisti e attiviste dei movimenti hanno oggi cariche istituzionali e politiche, con conseguenze positive ma anche negative: s’indeboliscono i movimenti per lavorare in istituzioni le cui logiche sono veramente difficili da cambiare. Senza dubbio, dalla prospettiva di un mezzo d’informazione critico come il nostro è molto più facile ottenere dichiarazioni e interviste da questi nuovi partiti, liste civiche, istituzioni che si sono nutrite dei movimenti, perché sono più accessibili. A seconda del contesto e delle situazioni, si sono ottenuti cambiamenti più o meno importanti, ma anche blocchi, disillusioni, incoerenze… Noi crediamo fermamente che è imprescindibile mantenere un’assoluta indipendenza da qualunque potere economico e politico per informare dal basso sulle ingiustizie, le promesse incompiute, gli immobilismi, di qualsiasi stampo e colore politico.

La forza dirompente di un'analisi lucida di un mondo disumano e delle direzioni del cambiamento necessario: parole di verità che il pensiero dominante, non riesce a pronunciare, neppure a sinistra. Huffington Post online, 16 aprile 2017, con riferimenti

Solo papa Francesco riesce a bucare la cinica coltre del pensiero unico che domina il discorso pubblico italiano. Si deve a lui se il popolo che disperatamente vorrebbe una sinistra può ancora ascoltare una lettura del mondo 'da sinistra'. E leggere un programma per rifarlo, questo mondo.

Come un vento potente, la voce di Francesco spazza via le miserie di una cronaca inchiodata alla farsa delle primarie Pd, a una guerra di potere che umilia il servizio pubblico, a una inchiesta nata intorno ad un regolamento di conti nel giglio magico.

E rimette al centro ciò che al centro deve stare: la "scandalosa realtà di un mondo ancora tanto segnato dal divario tra lo sterminato numero di indigenti, spesso privi dello stretto necessario, e la minuscola porzione di possidenti che detengono la massima parte della ricchezza e pretendono di determinare i destini dell'umanità. Purtroppo, a duemila anni dall'annuncio del Vangelo e dopo otto secoli dalla testimonianza di Francesco, siamo di fronte a un fenomeno di "inequità globale" e di "economia che uccide" (così la lettera che papa Francesco ha inviato al vescovo di Assisi nel giorno di Pasqua).
Ecco: qua c'è tutto. Un partito che avesse la forza di presentarsi alle elezioni italiane con questa analisi della realtà, e con il programma di rovesciarla dalle fondamenta, riuscirebbe immediatamente a riportare alle urne i milioni di italiani che da anni non ci vanno, e che solo per il referendum sulla deriva plebiscitaria del Paese hanno voluto esprimersi.

Ma non c'è traccia di una simile prospettiva.

Solo pochi giorni fa un politico che si autodefinisce "socialista" e che per questo è appena uscito dal Pd, ha detto, presentando la trasformazione di un monumento storico in un resort di "iperlusso", che "abbiamo il problema di costruire un'offerta turistica adeguata per i grandi ricchi del mondo, coloro che hanno bisogno di un'accoglienza straordinaria come quella che può essere fatta qui".

È davvero impressionante aver potuto ascoltare, nella stessa settimana e a pochi chilometri di distanza, due discorsi così paradossalmente opposti. L'uomo di governo socialista che si inchina al denaro e pensa che il nostro problema sia accogliere adeguatamente i grandi ricchi. E il sovrano di una teocrazia assoluta che denuncia con lucidità e spirito profetico che l'esistenza stessa dei grandi ricchi nega in radice ogni possibilità di vera democrazia.

Perché, come ha scritto Michel Foucault commentando un passo famoso della Politica di Aristotele: «Ecco la risposta di Aristotele (una risposta estremamente interessante, fondamentale, che entro certi limiti rischia forse di provocare un ribaltamento di tutto il pensiero politico greco): è il potere dei più poveri a caratterizzare la democrazia. E quand'anche i più poveri fossero di gran lunga i meno numerosi, è sufficiente che esercitino il potere perché si possa dire che vi è democrazia".

Finché la sinistra penserà che governare significhi oliare il binario dell'ingiustizia globale e offrire al popolo le briciole che cadono dal tavolo della mostruosa diseguaglianza che sfigura il pianeta, quella 'sinistra' sarà talmente indistinguibile dalla destra da non poter essere votata nemmeno volendo.
E al papa venuto dalla fine del mondo continuerà ad appartenere l'unica voce che annuncia incessantemente la necessità di rovesciare "la scandalosa realtà" di questo mondo.

Riferimenti
Qui potete scaricare il testo integrale della lettera di papa Francesco al vescovo di Assisi. Altri scritti di o su papa Francesco nella cartella Jorge Mario Bergoglio, in eddyburg

Il candidato della sinistra alternativa (Jean-Luc Mèlenchon, leader di "Francia ribelle") supera il candidato socialdemocratico e contadi entrare in ballottaggio contro la fascista Le Pen. Le tre ragioni d'un fenomeno sorprendente.

Linkiesta online, 11 aprile 2017

E’ il momento di Jean-Luc Mélenchon. Il candidato della France insoumise, ex ala sinistra del Partito socialista, da cui è uscito nel 2008, sta scalando la classifica delle intenzioni di voto dei francesi. Partito come fanalino di coda dei cosiddetti “grandi” candidati qualche settimana fa, Mélenchon ha prima superato il candidato socialista Benoit Hamon e in questi giorni - stando agli ultimi sondaggi - avrebbe addirittura sopravanzato anche il leader della destra moderata François Fillon (17%), attestandosi al 18%, subito dietro al duo di testa Le Pen/Macron (24%). Un fenomeno definito “sorprendente” dalla stampa e dall’opinione pubblica, ma che si può facilmente riassumere in tre punti.

1) I vasi comunicanti. A voler osservare superficialmente l’evoluzione delle intenzioni di voto, è evidente che la scalata di Mélenchon non ha minimamente intaccato l’elettorato di Marine Le Pen, né quello di Emmanuel Macron - entrambi stabili, in testa, al 24%. Anche Fillon, nonostante le ennesime rivelazioni sull’impiego fittizio della moglie, non si è praticamente mai schiodato dal 17%. L’unico a precipitare nei sondaggi è stato il candidato socialista Hamon, sceso drammaticamente sotto la soglia del 10%. Mélenchon, quindi, avrebbe rubato voti al “collega” di sinistra e non ai suoi autentici avversari ideologici. Pensandoci bene, non è troppo sorprendente. Hamon, infatti, dopo aver vinto a sorpresa le primarie del PS, si è ritrovato isolato all’interno del suo stesso partito. Perfino Manuel Valls, che aveva dichiarato che avrebbe accettato l’esito delle primarie, qualunque esso fosse stato, lo ha abbandonato per Macron, paventando una possibile elezione del Front national. E' ovvio che una parte dell’elettorato di sinistra, quindi, non ritiene più che Hamon possa rappresentare ancora quel “voto utile” per impedire la vittoria delle destre.

2) Largo ai giovani. Nonostante i suoi 65 anni, Mélenchon sembra un ragazzino. L’idea di affidare la gestione della sua campagna elettorale a un gruppo di studenti e militanti poco più che trentenni, sta dando i suoi frutti. Su YouTube, tanto per fare un esempio, i video del candidato della France insoumise fanno regolarmente il botto - il suo canale conta quasi 280mila abbonati. Ma non solo. Anche la scelta di moltiplicare i suoi comizi utilizzando degli ologrammi è stata una scelta vincente: sia perché la stampa ha versato fiumi di inchiostro sull’argomento, sia perché la trovata piace, incuriosisce e fa l’occhiolino ad un pubblico giovane altrimenti sempre più disinteressato nei confronti della politica. E non parliamo neanche del videogioco Fiscal Kombat (CLICCA QUI per giocare), che è diventato un vero e proprio fenomeno mediatico.

3) Dédiabolisation di sinistra. Conosciuto per i suoi toni forti e il suo stile collerico e impertinente, Mélenchon ha intelligentemente cambiato strategia di comunicazione. Già a partire dal primo dibattito televisivo, quello con i cinque “favoriti” all'Eliseo, il candidato della France insoumise ha deliberatamente deciso di abbassare i toni nel tentativo di prendere le distanze da quella connotazione “estremista” con cui i media e l’opinione pubblica hanno sempre etichettato l’uomo politico e il suo movimento. Basta ascoltarlo per rendersi conto che il suo tono è diventato molto più pacato e solenne e il suo personaggio decisamente più "presidenziabile". Insomma, un’autentica dédiabolisation - per riprendere il termine con cui ci si riferisce all'operazione messa in atto da Marine Le Pen per rendere più "presentabile" il Front national - di sinistra.

Secondo alcuni opinionisti, il bacino di elettori alla portata di Mélenchon si sarebbe esaurito e la sua scalata dovrebbe realisticamente fermarsi qui. Eppure, le proiezioni che lo vedrebbero affrontare Marine Le Pen al secondo turno, lo darebbero vincitore. Ecco quindi - contrariamente a ciò che si diceva - un altro elemento che potrebbe spostare ancora più elettori e fare di Mélenchon l’uomo in grado di sconvolgere gli equilibri di un'elezione mai così incerta.

«La crescita di peso della finanza contribuisce alla formazione di poteri del tutto indipendenti dal lavoro vivo e che condizionano il lavoro vivo, cioè la base sociale della sinistra storica». il manifesto, 9 aprile 2017 (c.m.c.)

Crisi della sinistra, ma anche crisi della politica, come ci ha spiegato nei suoi ultimi scritti e nel Midollo del leone il nostro Alfredo Reichlin e come conferma il fatto che la formazione politica che raccoglie più consenso sia oggi il MoVimento 5 Stelle. Aggiungerei ancora che c’è anche crisi della cultura e della scuola.

La crisi della sinistra non è solo italiana, ma investe tutto il mondo che definiamo occidentale: pensiamo solo agli Usa di Donald Trump. Questa crisi dipende anche da cambiamenti strutturali: innovazioni tecnologiche («la nuova rivoluzione delle macchine»), globalizzazione, finanziarizzazione dell’economia… Tutti mutamenti che hanno seriamente indebolito i lavoratori, quel che una volta chiamavamo classe operaia, proletariato, le innovazioni tecnologiche riducono l’impiego di lavoro vivo.

La globalizzazione tende a formare un proletariato in aree finora sottosviluppate ma crea una forte concorrenza al proletariato storico del nostro Occidente. La crescita di peso della finanza contribuisce alla formazione di poteri del tutto indipendenti dal lavoro vivo e che condizionano – se addirittura non dominano – il lavoro vivo, cioè la base sociale della sinistra storica.

Questo mutamento storico – che io appena accenno – andrebbe studiato e approfondito: siamo in presenza di un nuovo capitalismo (assai diverso e più pesante del neocapitalismo) che va studiato seriamente per individuare anche con che tipo di lotte dobbiamo contrastarlo e se di queste lotte si debbono far carico solo i lavoratori e non anche i cittadini. E ancora: che rivendicazioni mettere in campo?

Centrale mi sembra la riduzione dell’orario di lavoro, con un allargamento del tempo libero che provocherebbe anche una crescita dei consumi. E penso anche che dovremmo prolungare la scuola dell’obbligo : per vivere in questa incombente modernità non basta più la terza media.

Altro tema da affrontare in modo nuovo è la globalizzazione: come i lavoratori super sfruttati del terzo monda debbono entrare in campo, come possiamo coinvolgerli nella, lotta comune?

Dobbiamo capire che siamo a un passaggio d’epoca, direi un po’ come ai tempi di Marx quando il capitalismo diventava realtà e cambiava non solo i modi di produzione, ma anche i modi di vivere degli esseri umani.

Quando scrivo «passaggio d’epoca» vorrei ricordare che il capitalismo fu, certamente, un passaggio d’epoca, ma conservò modi di pensare e valori e anche autori del passato greco-romano, come dire che nella discontinuità c’è sempre anche una continuità, ma questo non ci deve impedire di capire i mutamenti che condizioneranno la vita dei giovani e delle generazioni future.

Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà.

Quando Enrico Rossi ha annunciato la sua discesa in campo per contendere a Renzi il ruolo di segretario del Pd siamo stati in molti a chiederci in nome di quali valori e di quali programmi il Presidente della Regione Toscana entrasse nella competizione. Ma anche dopo la sua uscita dal Partito democratico insieme a Bersani e D’Alema, non abbiamo avuto risposte, salvo le dichiarazioni di volersi collocare più “a sinistra” di quanto finora praticato dal Pd.

Una sinistra che tuttavia non emerge nel dibattito e nelle esternazioni degli scissionisti e dei compagni critici ma rimasti nel partito; si parla infatti di possibili alleanze, di schieramenti, di opzioni sulla legislatura e sulla legge elettorale, di prese di distanza dai vari giudicati e pregiudicati. Con la conseguenza di fare sorgere il dubbio che più che una critica da sinistra della politica del Pd renziano, pesino i posizionamenti, i rapporti di potere e le carriere politiche dei vari protagonisti.

Tutt’al più, a essere benevoli, sembra che Rossi, quando parla di “sinistra” guardi all’Italia del passato, alle lotte operaie degli anni ’60 e 70 e non compia – lui come gli altri – il tentativo di comprendere come siano cambiate le condizioni del pianeta, l’economia mondiale e la società italiana; e quali siano le sfide che la sinistra deve affrontare nel mondo dei Trump e della destra di ritorno, con i suoi carichi di xenofobia e isolazionismo; in un mondo in cui la disoccupazione è diventata un fatto strutturale, ancor più nell’Italia che arranca dietro agli altri paesi europei.
Basterebbe, invece di avere gli occhi puntati sul palazzo, prestare attenzione ai movimenti, ai comitati, alle associazioni, ai cittadini che hanno detto no nel referendum, per comprendere cosa significhi una politica di sinistra e all’altezza delle sfide.

Due discriminanti: da un punto di vista generale, una sinistra moderna non può che essere ambientalista; anzi “neoambientalista” – come ha più volte sostenuto Alberto Asor Rosa - intendendo con il prefisso “neo” che occorre superare le politiche che mirano alla mera sostenibilità delle risorse. Nell’opzione neoambientalista l’ambiente è non è un qualcosa cui contemperare le politiche di sviluppo, ma è esso stesso al centro di uno sviluppo qualitativamente diverso. In quest’ottica, paesaggio e ambiente non sono soggetti passivi, vincoli da rispettare, ma soggetti attivi di un’economia basata sull’intelligenza, la conoscenza, la ricerca, l’innovazione tecnologica.

Questa opzione comporta (è il secondo punto) che la scelta di sinistra implichi la rottura con il “cartello” delle grandi opere inutili. E’ ormai chiaro come, cambiando i governi - da Berlusconi a Renzi e Gentiloni con vari passaggi di mano - rimanga tuttavia saldo il partito delle grandi opere, l’unico che non teme la fuga degli iscritti; il partito che condizionando le politiche economiche, la distribuzione delle risorse finanziarie, il bilancio dello Stato, costituisce un potente freno allo sviluppo economico, oltre che causa delle crescenti diseguaglianze reddituali.

Si tratta di un blocco che vede solidali politici, mediatori, lobbisti, grandi imprese di costruzioni e banche erogatrici di crediti garantiti dallo Stato; un cartello che alimenta la corruzione pervasiva del sistema politico e della casta, mentre allo stesso tempo è un macigno che ostacola la crescita, perché destina gran parte degli investimenti pubblici a settori ultra maturi e con una bassissima componente occupazionale, sottraendoli alle componenti innovative dell’economia, quelle che creano ricchezza immateriale e danno possibilità di lavoro qualificato ai giovani ora costretti a cercarlo all’estero - il flusso migratorio che più di ogni altro dovrebbe preoccupare i nostri ministri.
E’ questa inversione di rotta ciò che chiedono, dal basso, i comitati, le associazioni, i cittadini. Invece, finora Rossi si è mosso esattamente nella stessa direzione del partito che ha abbandonato, sostenendo in Toscana le imprese più inutili, dannose e dispendiose, tra cui spicca il sottoattraversamento di Firenze da parte dell’alta velocità, il nuovo aeroporto, l’autostrada tirrenica, addirittura paragonata alla “strada dell’uomo” e opposta alla “strada dell’asino”, infelice citazione di Le Corbusier. Si obietta che Rossi finora non poteva fare altrimenti, perché condizionato dal partito di Renzi. Ma oraè libero, anzi, si èliberato. Ci attendiamo comportamenti conseguenti se vuole inaugurare una nuovapolitica di sinistra. A meno che, come non ci auguriamo, non sia tutto unaquestione di posizionamenti, carriere e rapporti di potere.

il manifesto, 23 marzo 2017

Aldo Bonomi mi propone di rimettere in gioco il mio Non ti riconosco, dichiarazione di smarrimento espressa in forma affermativa. E di virarla, per così dire, in forma interrogativa: come provare a conoscere il nostro tempo, fattosi appunto irriconoscibile?

Ricostruisce anche, in quel suo articolo, il nostro “camminare domandando” fuori dalle mura sicure del fordismo verso i territori magmatici del post-fordismo. E racconta la fatica di Sisifo di seguire il movimento altalenante della scomposizione e della ricomposizione di quasi tutto, soggetti storici, equilibri territoriali, comparti produttivi e riproduttivi, forme della rappresentanza e della rappresentazione… Con in testa la consapevolezza (l’idea, l’utopia?) che lasciate alle spalle le fabbriche in rovina – gli antichi punti focali di un conflitto fondativo e in fondo costituente – si trattasse, per chi non volesse arrendersi, di “fare società”. Parla, infine, di “sociologia delle macerie”, per dare un nome, sintetico, al nostro “lavoro intellettuale”.

Mette in fila tutto questo, Aldo, e ogni passaggio non è solo un pezzo di un’autobiografia collettiva rivisitato. E’ anche una sfida al nostro dispositivo conoscitivo: un colpo di piccone, un tassello dopo l’altro, a un “paradigma” che forse non richiede solo di essere aggiornato, ma sostituito perché, appunto, “falsificato” (ossia, rivelato fallace alla prova dello sguardo).

Prendiamo la questione della scomposizione e della ricomposizione.

Forse quel ciclo non è affatto “eterno”. Forse alla scomposizione non segue più una ri-composizione, ma solo la decomposizione. Forse la distruzione creatrice di schumpeteriana memoria, creatrice non è più. Si limita a distruggere e basta. L’Italia, dobbiamo ben dircelo, ha mancato il passaggio dall’età industriale a quella successiva. Non ha più un vero apparato industriale (ce l’ha spiegato Gallino più di dieci anni fa), non ha ancora (e non avrà mai) una vera economia dei servizi, se non a microscopiche macchie di leopardo.

Quello che osserviamo scrutando “il sociale” sono appunto macerie. Ma il resto dell’Occidente, pur mascherandole meglio, non è un esempio di salute. L’Europa sta su nelle sue aree centrali ridistribuendo alla rovescia le risorse – dal basso verso l’alto, dalle periferie ai centri – ma non ne crea di nuove, portatrici di futuro… E negli Usa, l’abbiamo visto quale sia il peso delle macerie delle infinite heartlands rispetto alle sottili fasce a scorrimento veloce delle aree costiere, in occasione dell’elezione di Trump… Per questo concludevo l’introduzione del mio libro citando Libeskind secondo cui essere consapevoli di essere parte di una fine è già un inizio…

Oppure prendiamo il progetto sintetizzato nella formula “fare società”. Doveva segnare l’avvento della figura del “Volontario” come nuovo produttore di buone pratiche e di alternative all’esistente, in sostituzione dell’obsoleto “Militante” ottocentesco. Favorire forme ardite di Communitas virtuosa nel quadro di un umanesimo rigenerato.

Non è andata così. All’inverso.

Non voglio fare di ogni erba un fascio. Men che meno insistere sulle piaghe più evidenti di quel “mondo”: le “Misericordie” impiegate come polizia interna prima nei Cie e poi negli Hotspot, guardiani di un’umanità dolente e vessata, testimoni reticenti e a volte complici delle vessazioni; le cooperative sociali costituite a copertura di attività criminali dei nuovi schiavisti, a far mercato dei corpi migranti… Non voglio parlare di questi casi di aperto tradimento della mission del Volontariato.

Voglio parlare dei suoi settori “sani”, che lavorano non solo nella legalità ma per la legalità e la solidarietà, ridotti tuttavia a sbiadite controfigure. Tritati nel meccanismo del mercato, spesso sviliti nella logica degli appalti che li costringe alla concorrenza reciproca, al mors tua vita mea, alle scelte al ribasso pur di aggiudicarsi i servizi che in un paese civile spetterebbero all’ente pubblico. E comunque costretti all’irrilevanza nel campo delle decisioni che contano. Oggetti e ornamenti delle retoriche politiche.

In questo contesto, la nostra “sociologia delle macerie” non può che disvelare ciò che trova: macerie, appunto. Senza un punto archimedico su cui poggiare, la sociologia non può che rimanere meramente – inerzialmente – descrittiva. E quel punto archimedico non può che essere, per una sociologia che voglia essere anche performativa – che non rinunci cioè a essere, per dirla ancora con Gallino, pensiero critico -, il “conflitto”. L’apertura di linee di frattura mobilitanti. Forme della resistenza e del rifiuto d’obbedienza ai dispositivi della sottomissione e dell’espropriazione.

O meglio, la domanda (le domande) sul conflitto (sui conflitti): sul come, il dove, il chi e soprattutto il perché di esso (anzi di essi, al plurale). Perché, nonostante la moltiplicazione del disagio e del degrado sociale, questa assenza di protesta stabile e dispiegata, che non sia la forma delegante e sfregiata del voto cosiddetto “populista”? L’unico che sembra – sembra, appunto! – far paura ai nuovi padroni del vapore transnazionale o ai loro (provvisori) ceti politici.

E poi, dove puntare lo sguardo per tentare almeno d’intravvedere l’embrione di una linea di faglia che si allarga? Un tempo si disse “ai cancelli!”, perché era lì, sulle catene di montaggio, che il lavoro vivo resisteva al comando incorporato nella “tecnologia di concatenamento” che l’incatenava. Poi si disse “fuori!”, negli spazi prima periferici della fabbrica diffusa dove il produrre s’impastava col territorio e le sue reti di prossimità.

Ma oggi? dove ci si batte? per contendere brandelli di autonomia, individuale o di gruppo, al comando altrui (perché, continuo testardamente a pensarlo, è questa, dell’autonomia, la radice creatrice in ogni autentico conflitto sociale).

Chi lo fa? Gli ambulanti nei mercati rionale condannati all’estinzione dalla “direttiva Bolkenstein”? I taxisti in rivolta contro il grande fratello incistato nell’App di Uber? O i futuri schiavi del dispotismo di quello stesso algoritmo, destinatari delle contumelie dei taxisti? O i nuovi agricoltori impegnati nella difesa delle qualità organolettiche dei propri prodotti contro la standardizzazione uniformante e immiserente dell’agricoltura chimica? O i residenti-resistenti portatori di una coscienza di luogo nel tempo del predominio sradicante dei flussi (penso naturalmente ai valsusini, ma non solo)? O i pochi restanti e i sempre più numerosi ritornanti alle terre dell’abbandono…

Lo so, nessuno di questi ha la “bella centralità” del conflitto di un tempo. Tutti soffrono di una qualche ambiguità. Ma per chi come noi ha fatto dell’interrogazione sul sociale il proprio mestiere è lì che si deve guardare.

E’ quello il nostro “orto di Candide”, sapendo che rinchiudersi nel proprio orto non va bene, ma restare senza orto vorrebbe dire consegnarsi al mercato.

». la Repubblica, 16 marzo 2017 (c.m.c.)


Il filosofo tedesco Jürgen Habermas intervistato sul nuovo MicroMega invita la sinistra europea a ripartire riscoprendo le battaglie delle origini.

Dopo il 1989 si è parlato di una “fine della storia” nella democrazia e nell’economia di mercato, oggi assistiamo a un nuovo fenomeno: l’emergere – da Putin ed Erdogan fino a Donald Trump – di forme di leadership populiste e autoritarie.

È ormai evidente che una nuova “internazionale autoritaria” riesce a determinare sempre di più il discorso pubblico. Aveva ragione allora il suo coetaneo Ralf Dahrendorf quando prevedeva un XXI secolo sotto il segno dell’autoritarismo? Si può o si deve già parlare di una svolta dei tempi?
«Quando, dopo la svolta dell’89-90, Fukuyama riprese lo slogan della “post
storia” – che originariamente era legato a un feroce conservatorismo – questa sua reinterpretazione del concetto dava espressione al miope trionfalismo di élite occidentali che si affidavano alla fede liberale nell’armonia prestabilita tra democrazia ed economia di mercato. Questi due elementi plasmano la dinamica della modernizzazione sociale, ma sono connessi a imperativi funzionali che tendono continuamente a entrare in conflitto.

Solo grazie a uno Stato democratico degno di questo nome è stato possibile conseguire un equilibrio tra crescita capitalistica e partecipazione della popolazione alla crescita media di economie altamente produttive: una partecipazione, questa, che veniva accettata, anche se solo in parte, in quanto socialmente equa. Storicamente, tuttavia, questo bilanciamento, che solo può giustificare il nome di “democrazia capitalistica”, è stato più l’eccezione che la regola. Già solo per questo si capisce come l’idea che il “sogno americano” si potesse consolidare su scala globale non fosse che un’illusione.

Oggi destano preoccupazione il nuovo disordine mondiale e l’impotenza degli Stati Uniti e dell’Europa di fronte ai crescenti conflitti internazionali, e logorano i nostri nervi la catastrofe umanitaria in Siria o nel Sudan del Sud e gli atti terroristici di matrice islamista. E tuttavia, nella costellazione evocata nella domanda, non riesco a scorgere una tendenza unitaria diretta verso un nuovo autoritarismo: solo diverse cause strutturali e molte casualità. L’elemento unificante è il nazionalismo, che nel frattempo però abbiamo anche a casa nostra. Anche prima di Putin ed Erdogan, la Russia e la Turchia non erano certo “democrazie ineccepibili”. Con una politica occidentale solo un po’ più accorta forse avremmo potuto impostare relazioni diverse con questi paesi: saremmo forse riusciti a rafforzare anche le forze liberali presenti nelle popolazioni di questi paesi».

Non si sopravvalutano così retrospettivamente le possibilità che erano in mano all’Occidente?
«Chiaramente per l’Occidente, già solo a causa dei suoi interessi divergenti, non era facile confrontarsi, in modo razionale e nel momento opportuno, con le pretese geopolitiche della retrocessa superpotenza russa oppure con le aspettative di politica europea dell’irascibile governo turco. Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda l’egomane Trump, un caso significativo per l’intero Occidente. Con la sua disastrosa campagna elettorale Trump ha portato alle estreme conseguenze una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln.

Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino. Ciò che trovo inquietante, quindi, non è tanto il nuovo modello di un’internazionale autoritaria, a cui si faceva riferimento nella domanda, quanto la destabilizzazione politica in tutti i nostri paesi occidentali. Nel valutare il passo indietro degli Stati Uniti dal ruolo di gendarmi globali sempre pronti a intervenire, non dobbiamo perdere di vista qual è il contesto strutturale in cui ciò avviene, contesto che concerne anche l’Europa.
La globalizzazione economica, messa in moto negli anni Settanta da Washington con la sua agenda politica neoliberista, ha avuto come conseguenza un declino relativo dell’Occidente su scala globale rispetto alla Cina e agli altri paesi Brics in ascesa. Le nostre società devono elaborare la percezione di questo declino globale e insieme a ciò la complessità sempre più esplosiva della nostra vita quotidiana, connessa agli sviluppi tecnologici. Le reazioni nazionalistiche si rafforzano negli strati sociali che non traggono alcun beneficio – o non ne traggono abbastanza – dall’aumento del benessere medio delle nostre economie».

Stiamo assistendo a una sorta di processo di irrazionalizzazione politica dell’Occidente? C’è una parte della sinistra che ormai si professa a favore di un populismo di sinistra come reazione al populismo di destra.
«Prima di reagire in modo puramente tattico bisogna sciogliere un enigma: come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?».

Quale dovrebbe essere allora la risposta di sinistra alla sfida della destra?
«Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati. A mio avviso, infatti, l’unica alternativa ragionevole tanto allo status quo del capitalismo finanziario selvaggio quanto al programma del recupero di una presunta sovranità dello Stato nazionale, che in realtà è già erosa da tempo, è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L’Unione europea una volta mirava a questo – l’Unione politica europea potrebbe ancora esserlo».

Oggi tuttavia sembra essere persino peggio del populismo di destra in sé il “pericolo di contagio” del populismo nel sistema dei partiti tradizionali, in tutta Europa.

«L’errore dei vecchi partiti consiste nel riconoscere il fronte che definisce il populismo di destra: ossia “Noi” contro il sistema. Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l’acqua al mulino del populismo di destra. Si dovrebbero quindi rendere di nuovo riconoscibili le opposizioni politiche, nonché la contrapposizione tra il cosmopolitismo di sinistra – “liberale” in senso culturale e politico – e il tanfo etnonazionalistico della critica di destra alla globalizzazione. In breve: la polarizzazione politica dovrebbe cristallizzarsi di nuovo tra i vecchi partiti attorno a opposizioni reali. I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo, non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra ».

Traduzione di Giorgio Fazio L’intervista è tratta da Blätter für deutsche und internationale Politik, le domande sono della redazione

LA PROPOSTA

LA POLITICA

«Libertà e Giustizia: "». la Repubblica, 13 marzo 2017 (c.m.c.)

«Libertà e Giustizia pensa che la politica sia una bella cosa e i cittadini devono partecipare, anche senza candidarsi a qualcosa. In Italia c’è bisogno intorno al Palazzo di un modo nuovo di fare politica, che lo circondi in senso buono per dialogarci». Il professore Tomaso Montanari è il nuovo presidente dell’associazione che tanto si è impegnata per il no nella battaglia referendaria. E da quella vittoria intende ripartire.

Professore Montanari si parla di un “cambio di verso” di Matteo Renzi. Lei che ne pensa?
«Credo che si debbano giudicare i fatti e purtroppo c’è un problema di inaffidabilità di Renzi. Per esempio aveva detto che in caso di sconfitta al referendum avrebbe lasciato la politica. C’è un problema di storytelling, di narrazione, di scostamento fra gli annunci e la realtà . Il nostro giudizio si misurerà sui fatti ».

In questa sinistra così frammentata c’è qualcuno a cui vi sentite più vicini?
«Noi abbiamo fatto la scelta di non affiancare nessuno, nonostante dopo il 4 dicembre siano arrivate tante richiesta di vicinanza e offerte di candidature. Noi pensiamo che tutte queste manovre in corso siano molto autoreferenziali. Guardano dentro il campo, il Parlamento, le candidature, e poco al paese reale. Un’associazione come Libertà e Giustizia invece si rivolge ai cittadini e il nostro scopo è quello di offrire a questi cittadini uno strumento nuovo per esercitare la sovranità».

Il referendum del 4 dicembre può essere considerato un pezzo di questa ritrovata sovranità popolare. Ma c’era grande attesa per una nuova legge elettorale…

«Negli ultimi anni si è pensato che il problema fosse la governabilità e anche la sinistra si è convinta della necessità della vocazione maggioritaria. Ma il problema è: andare al governo per fare che cosa? Quello che vediamo è che manca un progetto, una visione di paese. Noi speriamo che una legge elettorale proporzionale possa portare in Parlamento un progetto e ricucire questa frattura fra elettori e rappresentanza».

I sondaggi però dicono che non ci sono maggioranze. La novità è che adesso i grillini parlano di alleanze. Si legge anche che i grillini la stimino molto…
«Libertà e Giustizia aveva già proposto un’alleanza su basi chiare fra Pd e grillini dopo le elezioni del 2013. Il fatto che oggi i grillini parlino di alleanze è un tratto di maturità. Del resto i Cinque stelle erano per il no e il no voleva dire difendere una Repubblica parlamentare. E quindi in una Repubblica parlamentare bisogna trovare dei compromessi. Che non sono naturalmente degli inciuci. Sulle simpatie grilline posso dire che il problema non sono le simpatie, ma una politica che sia disposta ad accettare il dissenso, il confronto. Io ho qualche dubbio che i grillini siano pronti ad accettare il dissenso, ma purtroppo devo dire che non lo è neanche il Pd».

«Salto d'epoca. Finita la ruota della fortuna siamo entrati nella ruota del criceto, tanti smanettoni invisibili e sommersi, precari a partita Iva con la paura e il rancore che si fa razzismo».

il manifesto, 8 marzo 2017

È interrogante l’ultimo libro di Marco Revelli. Mi domando se non ci resti che sussurrare, o urlare «non ti riconosco più» e ritirarci in buon ordine nel racconto di microcosmi e di territori resilienti, magari con Magnaghi e la sua rete dei territorialisti.

Oppure se valga la pena di alzare lo sguardo e continuare a cercare per capire oltre l’invito di Candido «Dobbiamo coltivare il nostro orto», evocato in un altro scritto di Revelli sul manifesto. O ancora se valga la pena continuare nella fatica di Sisifo dello scomporre e ricomporre il farsi della società nel salto d’epoca dell’accelerazione, con lo sguardo delle lunghe derive braudeliane del potere, del mercato, della civiltà materiale.

Sono tempi di sorvolatori del mondo, di storytelling, di flussi che impattano nei luoghi mutandoli antropologicamente, culturalmente, socialmente ed economicamente. Partirei, come sempre, dal basso, dal processo di deposito delle polveri sottili dei flussi nei polmoni delle “vite minuscole”, della vita quotidiana, nel loro, un po’ come per noi, non riconoscersi più in ciò che era abituale. Può sembrare retrò, ma credo che la parola chiave di tanti comportamenti collettivi sia “sommerso”. Che diventa, nella discontinuità di inizio secolo, sommerso carsico e non più sommerso ascendente. Questo sommerso carsico ha poco a che fare con il “ben scavato vecchia talpa” di marxiana memoria.

Riappare il tema del rendersi invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il cimitero/Mediterraneo. Scomporre e ricomporre i detriti di questo fiume mi pare questione sociale e politica, avendo chiaro che pochi sono i salvati e tanti i sommersi. In questo magma carsico si evidenzia un’altra questione: lo sfarinamento della società di mezzo, intesa sia come crisi del tessuto prepolitico della rappresentanza sociale e lo sfarinamento dei ceti medi cui si aggiunge oggi la forma partito. Il sommerso ascendente dei tardi anni ’60 sembra, nel piccolo, un’epopea da far west: contadini che, nella migrazione interna, si fanno operaio massa, operai specializzati che emergono dai sottoscala costruendo capannoni e disegnando con i sindaci aree industriali che si fanno distretto; cooperative di consumo e di lavoro che diventano grandi gruppi della distribuzione o della produzione. La piccola borghesia si fa ceto medio, come ebbe a rilevare Paolo Sylos Labini nella sua analisi.

Questa voglia collettiva di rendersi ed essere visibili nel fare società e nel fare economia non c’è più. Per molti l’ascesa e la visibilità non hanno significato inclusione nel passaggio d’epoca della globalizzazione selettiva. Migliaia di imprese hanno chiuso, milioni di posti di lavoro sono andati distrutti, molti sono tornati nei sottoscala e nell’economia informale. E’ una spaccatura che attraversa anche il sindacato, che firma accordi di welfare aziendale con le medie imprese globalizzate e di formazione al lavoro “ibrido” fatto di manualità, informatica e robotica, mentre in basso si ritrova a svuotare con il cucchiaio il mare dei voucher. E che dire e che fare di fronte alla proposta di Bill Gates di tassare i robot? E del mondo della cooperazione, ipervisibile in alto con la grande distribuzione e i grandi gruppi assicurativi e in basso con le false cooperative dei lavori ai margini della logistica o, peggio ancora, speculando sui profughi richiedenti asilo? E’ così che si è scomposto l’operaio massa e il volontario come sostituto del militante, di cui scrivevamo su Communitas. Si è rotto il contratto non scritto che rendeva visibili le vite minuscole della piccola borghesia. Pochi sono andati verso l’alto, a fare i manager, gli altri sono andati in basso pieni di incertezze per il destino dei figli a rischio neet. Le azioni delle banche e i Bot non sono più un rifugio, alcune banche sono fallite con le loro assemblee di popolo. La borsa poi…

Ci si “aerbirizza”, quelli a cui è rimasta la casa, facendosi affittuari per studenti e turisti, ci si “uberizza” in lavoratori autonomi di terza generazione fatti di lavoretti vari offerti dai padroni degli algoritmi, magari in conflitto con il lavoro autonomo di prima generazione. Oppure ci si ritrova a lavorare per start up che organizzano il lavoro domestico a domicilio o la consegna di cibi pronti. Ragionammo anni fa dei forconi, che si prendevano il centro delle città. Si trattava di un “popolino” di ambulanti commercianti e artigiani ormai working poors, provenivano dal contado e non dalle fabbriche, segno di un territorio desertificato. Un deserto che sotto il sole dei flussi surriscalda un magma sociale difficile da toccare e trattare con le categorie del ‘900 senza scottarsi. A seconda del punto di eruzione è fatto di taxisti in deficit corporativo, da ambulanti che reclamano spazi, di espulsi dai robot, sino ai nuovi lavoratori servili nell’economia dei servizi e del capitalismo delle reti. Ne deduco che lo scomporre e ricomporre questo magma sia questione politica quanto il tema nodale delle povertà. Così come mi pare urgente capire che cosa ne sia del lavoro e dei lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita Iva terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro nella dittatura dell’algoritmo.

I pifferai della ruota della fortuna raccontano spesso delle start up che si quotano o sono acquistate dai padroni della rete, o di makers che rivitalizzano la fabbrica diffusa. In quella che il grande Bauman definiva la lotta di classe per l’apparire. A noi tocca ragionare della ruota del criceto che mostra, in una stasi accelerata, tanti smanettoni al lavoro invisibili e sommersi, o precari a partita Iva a basso reddito, quando va bene. Anche la composizione dei migranti è cambiata. Oggi li definiamo profughi. Ed anche per loro, per gli scampati al Mediterraneo, è questione il rimanere sommersi ed invisibili, nella speranza di andare verso un altrove, di andare oltre un muro, per non essere rimpatriati (se di patria si può parlare). Il grande esodo nasce da guerre, da mutamenti ambientali che producono i dannati della terra.

A fronte di questo salto d’epoca, la paura ed il rancore si sono fatti razzismo nell’Europa dell’indifferenza che non coglie la sfida delle migrazioni come questione politica che interroga un modello di sviluppo che produce fame, guerra e desertificazione. Verrebbe da dire “non voglio essere complice di questa economia e di questa politica”. Visto che non trovo un altrove, mi ritiro a coltivare il mio orticello. Ma proprio l’alzare lo sguardo nel riconoscere e riconoscersi nella sociologia delle macerie induce l’urgenza di un lavoro sociale di lunga lena, prepolitico, di ricostruzione, che vada oltre il nostro circoscritto coltivare l’orto volteriano.

il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2017 (p.d.)

I tormenti della nostra sinistra, si sa, sono ciclici. Da giorni, sui giornali, grafici e tabelle ricordano tutte le trasformazioni (non solo nominali) dal lontano 1921 fino alla vagheggiata “cosa rosa”. Quali scosse agitano il maggior partito progressista dopo l’umiliazione delle urne di dicembre? Ne abbiamo parlato con Stefano Rodotà, che di quella sinistra è uno dei padri nobili.

Professore, nel Pd il problema è solo “Renzi il rottamatore”?
Renzi ci ha messo molto di suo per arroganza e scarsa considerazione degli altri: non il modo migliore per evitare le separazioni. Ha molte responsabilità ma non è questione di carattere, vorrei che fosse chiaro. Ha fatto una precisa scelta politica decidendo che i toni, i modi e i tempi di questa fase fossero quelli che abbiamo visto.
Che ruolo ha avuto il voto di dicembre nel terremoto a sinistra?
Senza il referendum e senza quel risultato non ci sarebbe stata la scissione. Ma è stato il fattore scatenante, esisteva già una situazione interna al partito completamente predisposta alle lacerazioni. Attorno al leader o presunto tale si è creato un circolo, mi riferisco a quello che viene chiamato il ‘Giglio Magico’, di gestione ristretta, ristrettissima, del potere. Il guaio non è solo Renzi rottamatore, ma una politica che tende a creare giri stretti, quindi escludenti. Un partito è un’entità plurale, dove chi dice ‘noi’ non usa il plurale maiestatis ma parla per una comunità di persone.

Ora si dice: un segretario-premier troppo di destra, un corpo estraneo, si è preso il Pd. Ma che Renzi avesse certe posizioni era chiaro da tempo: basta pensare al Jobs act.
Su questo non c’è dubbio. A chi tardivamente scopre che Renzi non è di sinistra si può solo chiedere, ‘ma dov’eri tu?’. Mi paiono tentativi di autoassoluzione: in che partito sono vissuti quelli che ora si stupiscono? Cosa hanno votato su Jobs act, Italicum, riforma della Costituzione?
Romano Prodi ha detto “dividersi è un suicidio”. È d'accordo?
No, per nulla. Stare insieme a ogni costo è opportuno? Mi pare evidente che non c’è un confronto politico tra i vari soggetti che sia sufficiente a stare insieme. Ma attenzione: separarsi ha senso se la scelta risulta comprensibile, cioè se non appare alla comunità di riferimento una scelta dettata da interessi personali o di corrente. Detto ciò, rimanere insieme senza ragioni condivise mi pare poco sensato.

Basta riproporre la formula della coalizione ulivista?
Ora come ora non si può riproporre meccanicamente proprio nulla. La situazione è cambiata, ci sono altri protagonisti. Sembra una banalità, ma pensiamo alle questioni all’ordine del giorno, per esempio al tema, cruciale, del lavoro. Su questo mi faccia dire una cosa: da giorni Susanna Camusso ha chiesto al governo quando intende fissare la data per i referendum, senza ottenere risposta. Ma questa non è una questione che riguarda il rapporto tra Paolo Gentiloni e Susanna Camusso, riguarda tutti noi. Io voglio sapere cosa intende fare l’esecutivo.
Tutti parlano della necessità di stare uniti in chiave difensiva, contro i cosiddetti populismi. Il presupposto non è dei migliori.
Se si assume un atteggiamento spaventato e difensivo, i Cinque Stelle probabilmente otterranno ancora più consensi. Il punto è interrogarsi sulle ragioni di questi flussi elettorali, quali sono le urgenze e le necessità dei cittadini. Considerare drammaticamente la vittoria dei ‘populismi ’ non è una soluzione politica. Mi pare sia già stata dimenticata l’esperienza di dicembre. È inutile parlare di populismo quando le indicazioni del popolo vengono sistematicamente ignorate. In questo momento i cittadini stanno dicendo di voler essere ‘popolo legislatore’, ma nessuno li ascolta. Sul tema lavoro ci è toccato sentire il ministro Poletti dire che piuttosto di fare il referendum si potevano sciogliere le Camere: questa non può essere la risposta di un ministro.

Come vede il ritorno al proporzionale?
Bene, perché sono proporzionalista da sempre! Se guardo al passato penso che il proporzionalismo ha consentito in momenti difficili – per esempio negli anni Settanta – a gruppi extraparlamentari di avere una scelta rispetto ad altri modi di agire, per esempio alla lotta armata: cioè andare in Parlamento. Oggi il quadro è naturalmente diverso, ma io reputo che sia ugualmente essenziale dare voce e rappresentanza a chi in un sistema maggioritario non ne avrebbe: questo richiede una legge elettorale che non si carichi solo del problema della governabilità. Un buon esempio è la legge tedesca. Nel formulare la nuova legge bisogna che, più di tutto, sia chiaro ai cittadini che nulla viene fatto per limitare il loro potere di esprimersi e il loro diritto di essere rappresentati. Questo sarebbe tragico. Ora bisogna anche dire che non si può tergiversare più di tanto: la richiesta dei cittadini è andare a votare.
Gentiloni ha detto chiaramente che la legislatura arriverà al 2018.
Il presidente del Consiglio fa bene a dire fino a che punto vuole arrivare. Si assume così due responsabilità, la prima delle quali rispetto alle pressioni che ci sono per anticipare le elezioni. Ma soprattutto dovrà dire che cosa vuole fare, perché vuole arrivare a fine legislatura.

Renzi, Orlando, Emiliano: come andrà a finire e per chi tifa?
Sono sempre pessimo nei pronostici... Fino ad ora si dovrebbe dire che Renzi ha più carte in mano. Però i due sfidanti stanno fornendo, in modo molto diverso, risposte diverse da quelle puramente oppositive all’aggressività renziana. Cercano soluzioni politiche, e questa è una buona cosa.

Possiamo definire sconfitto un leader che ha perso malissimo il referendum, le cui politiche del lavoro hanno fallito, che si è visto bocciare dalla Consulta la legge elettorale su cui per tre volte ha posto la fiducia?
Certo che sì. L’unico momento di sincerità che abbiamo visto è stato quando Renzi si è dimesso da premier. Ma come ha ricordato lei, è stato battuto praticamente su tutta la linea: questo sfata un mito, dimostrando che non ha leadership.
Guardando il triste crepuscolo del PD fuori dal crepitìo degli eventi quotidiani si riesce forse a capire che cosa si è sbagliato e da dove si può ripartire.

il manifesto, 5 marzo 2017

La crisi che sta attraversando il Pd riguarda e interroga tutte le forze progressiste: non tanto per continuare a coltivare l’illusione che l’ennesima diaspora di gruppi dirigenti sia di per sé sufficiente a garantire un riscatto dei subalterni. Ma perché è lo specchio nazionale della più generale crisi istituzionale che sta attraversando tutto l’occidente.

Il Pd è fallito perché è fallita la cornice dentro la quale era stato costruito, quella della governance neoliberale. La costituzionalizzazione cioè dell’idea che all’interno delle società, finalmente pacificate in seguito alla caduta del muro di Berlino, non ci siano conflitti, e quindi interessi da elevare e altri da reprimere, ma “problemi” a cui dare risposte “tecniche”. Risposte magari da trovare anche attingendo dal calderone radicale, purché rimangano all’interno del perimetro di ciò che da noi si attendono “i mercati”. Il “centrismo radicale”, insomma, che può prosperare sia in regime di grande coalizione (Germania) che bipolare (paesi anglosassoni) che tecnico (l’Italia ha sperimentato tutte e tre le versioni), ma che sottende comunque l’esistenza di un meta-partito unico delle classi dominanti.

Il peccato originale del Pd non è stato quello di essere il prodotto di una fusione a freddo tra culture differenti (e già allora fortemente diluite), ma di essere nato fuori tempo massimo. In un’epoca, cioè, nella quale ancora si pensava che la “globalizzazione reale” era – e avrebbe continuato ad essere – un fattore di progresso per l’intera società, e soprattutto per una classe media, espressione dei settori creativi della finanza e della cultura, cui il partito guardava come al perno della vita nazionale, in quanto strutturalmente capaci di trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto.

Il Pd, dunque, si presentò ai cittadini come un partito post-ideologico, post-nazionale e post-classista, che avrebbe efficacemente guidato l’inserimento dell’Italia nel villaggio globale, assicurando al tempo stesso per le classi lavoratrici il mantenimento di livelli di welfare accettabili per resistere alla crescente precarizzazione dei loro impieghi. Lo stesso europeismo era considerato non tanto un progetto volto alla creazione di un’entità politica continentale con una forte identità sociale (e autonoma dagli interessi geopolitici statunitensi), ma come una via privilegiata per inserire il paese nella rete delle interdipendenze globali, rompendo le rigidità che rendevano difficile questa operazione.

Finché ha avuto senso l’antiberlusconismo militante, che assicurava un’identità progressista, e, d’altra parte, si manteneva un clima sociale accettabile, il progetto pareva andare incontro ad un futuro promettente. E’ stata la crisi del 2011 a far saltare il banco. La segreteria di Bersani non seppe (o non volle) vedere che la crisi degli spread, che lo Stato non poteva arginare – privo com’era di una Banca Centrale che sostenesse il debito pubblico -, rappresentava una grave torsione nel funzionamento della nostra democrazia; e che, a causa delle condizioni imposte dalla Bce e dal governo tedesco (Fiscal Compact, pareggio di bilancio), i poteri pubblici non potevano realizzare le politiche anticicliche necessarie a tenere a galla il paese. Mentre un’esigua élite nazionale si avvantaggiava dello stato d’emergenza per imporre drastiche misure di svalorizzazione del lavoro come via più rapida e più comoda alla ripresa dei profitti.

Insomma, la tanto decantata «Europa» si era trasformata in una gabbia le cui imposizioni peggioravano i conti pubblici, i livelli occupazionali e la vita dei cittadini in generale. Ormai abbandonata, con Enrico Letta e poi con Matteo Renzi, la retorica sugli Stati Uniti d’Europa e l’unione fiscale continentale che avrebbero reso sostenibile l’adozione della moneta unica, il Pd si è limitato a rafforzare la sua immagine di “partito della responsabilità” di fronte ad uno stato permanente di emergenza economica e di avanzata dei “populisti”. Un partito che, senza mai precisare in che maniera e con quali strumenti, avrebbe lottato per riorientare la politica economica della zona euro verso l’agognata “crescita”.

Naturalmente, dato il rigido controllo imposto dall’ex area del marco sulla costituzione gerarchica europea, Renzi non ha potuto ottenere niente più di un lieve margine negli obiettivi di rientro dal deficit, largamente insufficienti per far uscire l’Italia dalla deflazione e la stagnazione, ma pagati utilizzando la svalutazione del lavoro come merce di scambio. Il Pd non è così in condizione di tornare ad assicurarsi un consenso maggioritario nel perimetro del suo vecchio elettorato, che poco a poco prende coscienza che gli appelli all’Europa della crescita e del lavoro si stanno convertendo in un programma buono per le calende greche, i giorni cioè destinati a non arrivare mai.

La crisi generalizzata della governance neoliberale, e di quelle sinistre moderate che ne erano state i più coerenti alfieri, non apre tuttavia automaticamente le porte ai progetti di emancipazione popolare. Una nuova destra aggressiva ed esclusiva affila le armi e pesca nel consenso e nelle paure dei subalterni, un tempo rappresentati dal movimento operaio organizzato.

Il fallimento del Pd sta lì a dimostrare che non serve abbarbicarsi attorno alle certezze di ieri, se non a farsi travolgere dal loro tramonto. Nell’interstizio che si apre tra il vecchio che muore ed il nuovo che non sa nascere tocca inventare la democrazia di domani, prima che appaiano i mostri.

Grande è la confusione sotto il cielo, e la situazione è pessima, se si rimane nell'orizzonte dei partiti e partitini, disgregati, fatti, disfatti, disseminati, raggruppati. Ma un filo di speranza c'è, nell'eredità morale e materiale del referendum del 4 dicembre.

il manifesto, 26 febbraio 2017
Qualcuno sembra trarre un respiro di sollievo alla notizia che i sondaggi danno sempre come primo il Partito Democratico, attestato, secondo Swg, sul 28% in declino nel giro di una settimana di tre punti. Anche il M5Stelle perde, ma meno, dal 26,2 al 25,3% Questo dato in particolare consolerebbe i renziani. Difficile condividere un simile irresponsabile ottimismo. Non solo perché si devono ancora diradare le nebbie e depositare le polveri perché il normale cittadino possa orientarsi nel nuovo confuso quadro dell’offerta politica. Per questo è certamente prematuro inseguire i sondaggi, che registrano peraltro un alta percentuale di non risposte. Ma soprattutto perché non è questo il metro di misura per giudicare quello che succede. In realtà siamo di fronte alla crisi definitiva di un progetto politico. Quello iniziato con Veltroni che voleva fare del Pd un partito a vocazione maggioritaria autosufficiente, ponendo così nel discorso del Lingotto del 2007 le basi per la caduta del secondo governo Prodi.

Ora il Partito di Renzi è andato a sbattere contro il voto popolare del 4 dicembre. Un voto denso di motivazioni democratiche e sociali. Non a caso i giovani e il Mezzogiorno sono stati i due artefici della sconfitta della controriforma costituzionale. Gli stessi contro cui si abbatte il conclamato fallimento del Jobs act, certificato dai dati Inps che ci raccontano che nel 2016 il numero dei nuovi contratti «stabili» è crollato del 91% rispetto all’anno prima. Diminuiti gli incentivi sono spariti i posti di lavoro. Il rapporto di lavoro precario torna a farla da padrone. Con i suoi tassi di sfruttamento bestiale, come è stato evidenziato nel caso tragico di Paola Clemente morta di fatica nelle campagne pugliesi. Reclutata da un’agenzia interinale, forma moderna dell’antico sempre persistente caporalato. Si comprende bene perché il governo tema il referendum sui voucher e sui subappalti e nicchi rispetto all’obbligo che la legge gli impone di fissare la data per l’effettuazione.

Di fronte a questo dramma le tempeste in atto nel quadro politico restano confinate in un bicchiere d’acqua. Che si determini una vera e propria scissione, o che nel Pd sia in atto un’implosione a scoppio ritardato o una lunga diaspora, ha importanza relativa – se non per i singoli protagonisti. Così come dove effettivamente si accasino quelli se ne sono andati via da Sinistra Italiana a congresso aperto, dal momento che non lo sanno neppure loro. Il nuovo condottiero, Giuliano Pisapia, può forse drenare voti in uscita dal Pd e da Sel, ma non resuscitare il cadavere del centrosinistra. Del resto anche chi decide di abbandonare Renzi – non sto parlando delle continue giravolte di Emiliano – lo fa senza esprimere una leggibile passione ideale e politica, così da rimanere senza popolo. È incredibile che qualcuno pensi che ci si possa appassionare, appena varcata la soglia dei locali riservati agli addetti ai lavori, alla data del congresso o alle modalità delle primarie, quando le questioni della vita quotidiana ruotano attorno ai grandi temi del lavoro, in particolare per i giovani (già ci siamo dimenticati della sconvolgente lettera di Michele, morto suicida a trent’anni), della mancanza di reddito, della povertà, del disastro della scuola, come della sanità, dell’assoluta incertezza nel futuro.

Un tempo ci si aggrappava alla celebre citazione di Mao «Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente». Non era sempre così neppure allora, ma oggi di vero è rimasta solo la prima parte. Confusione tanta, ma situazione pessima.

Eppure una via d’uscita c’è sempre. Anche in questo difficile caso. La vittoria del No è stato il frutto di una insorgenza democratica, ove le idee di società legate al dettato costituzionale hanno fatto momentanea egemonia anche sulle destre che brandivano il referendum per scopi puramente politicisti. In quello scontro è tornato a manifestarsi, legando assieme i temi costituzionali con quelli sociali, un popolo di sinistra, con una forte incidenza giovanile. Si sono creati centinaia di comitati popolari sul territorio che non hanno alcuna intenzione di sciogliersi e reclamano una legge elettorale proporzionale per dare vita a un parlamento legittimo costituzionalmente. L’operazione da fare è quindi capovolgere il punto di partenza. Neppure una lista elettorale, per quanto necessaria, ci salverà.

Bisogna partire dalla capacità di relazione con un rinnovato popolo di sinistra – nel quale è così qualitativamente rilevante il protagonismo femminile – prima che dalla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra di cui pure abbiamo estremo bisogno. Perché quest’ultimo senza il primo è privo di fondamenta, esposto ai venti più flebili.

il manifesto, 25 febbraio

Il Pd è un partito «sbagliato», nato male, cresciuto peggio, destinato a concludere la sua parabola. In che modo lo vedremo presto. Lo si può ben cogliere nelle vicende di questi giorni.

Molti sembrano scandalizzati o infieriscono con toni moralisti: ma come, una scissione per una questione di calendario? In realtà, dietro tale questione, emerge il problema di fondo di questo partito, l’idea e il modello di partito che ne ha segnato le origini, e che ne sta segnando la fine.

Si parla di «congresso»: ma in realtà lo statuto del partito non usa nemmeno questa espressione, e non prevede quel processo democratico di confronto, dibattito interno e poi decisioni, cui si pensa normalmente quando si parla di un congresso.

Del resto, la cosa fu apertamente teorizzata a suo tempo: «Ma nel nostro Statuto il congresso non c’è», si leggeva in un’intervista a Salvatore Vassallo (Corriere della Sera, 28 gennaio 2009). Quello che c’è, come recita il titolo di un articolo dello Statuto stesso, è un’altra cosa: una «scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea nazionale». E’ qui la tara originaria, l’imprinting presidenzialistico e leaderistico che ha segnato la vita del Pd (su cui, ad onor del vero, nella prima fase della sua segreteria, Bersani tentò di intervenire, senza riuscirci).

Per comprendere la posta in gioco, nello scontro in corso, occorre dunque ricordare cosa prevede questo micidiale e distruttivo congegno: tutto si gioca sulle candidature, formalmente legate ad una piattaforma.

In una prima fase, agli iscritti spetta un solo, miserrimo compito: scremare le candidature, fino a ridurle (a certe condizioni) ad un massimo di tre. Poi si va alle primarie «aperte», ed entrano in gioco gli elettori. Nelle altre occasioni, un percorso durato circa sei mesi.

Ebbene, se queste sono le regole, la questione del calendario è una questione molto seria, su cui è sbagliato ironizzare.

Il problema è molto semplice: non c’è più propriamente un «corpo» del partito, alla fine vince chi riesce ad attivare la migliore circolazione «extra-corporea», ossia mobilitare risorse esterne al partito.

E qui entra in gioco l’analisi di quanto accaduto in questi anni: hanno perfettamente ragione quanti dicono che «la scissione c’è già stata».

Non si hanno dati precisi, ma decine, forse centinaia di migliaia, di iscritti se ne sono andati (del resto, cosa serve avere una tessera, se poi conta soprattutto la «gazebata» finale?).

Anche molti elettori se ne sono andati.

Le attuali minoranze del Pd sono prive, al momento, di una reale forza da spendere in questo scontro: l’unica possibilità che hanno è quello di provare a ri-mobilitare quella schiera di iscritti e di elettori che hanno abbandonato il partito in questi anni.

È un’impresa per certi versi disperata, ma che avrebbe comunque bisogno di alcuni mesi di tempo, per risultare credibile, suscitare una qualche speranza, e tentare di convincere quel popolo della sinistra che ricorda oggi un «volgo disperso», per dirla con Manzoni.

È vero che, grazie soprattutto al referendum, Renzi potrebbe aver perso una parte delle sue capacità espansive, e che, per altro verso, l’esito del referendum ha segnato una significativa ripresa di attività e di coraggio di una parte di quel popolo. Ma è un’impresa comunque ardua, perché il Pd renziano, in tutti questi anni, ha prodotto una rottura profonda: una radicale disconnessione sentimentale.

È davvero arduo pensare che tanta gente possa tornare ad appassionarsi alle sorti del Pd e dare una mano ai candidati delle minoranze.

Per questo, la partita che si sta giocando in queste ore è un gioco a somma zero, e siamo ad una stretta in cui comunque si impongono decisioni irreversibili.

Se le minoranze accettano di entrare in un percorso congressuale, tanto più se accelerato, rischiano di trovarsi dentro una trappola mortale.

Ma, per motivare adeguatamente una scissione, occorre fare emergere i veri nodi che si celano dietro la questione dei tempi.

Renzi vuole portare alle estreme conseguenze la logica che ne ha sempre guidato l’azione: una logica di clan, di tribù, intrinsecamente divisiva e proprietaria, incapace di concepire l’idea stessa di un partito come corpo collettivo, fondato sulla partecipazione democratica degli iscritti ed anche sulla mediazione all’interno dei gruppi dirigenti (una dimensione essenziale nella vita di un partito, che Renzi evoca in modo sprezzante e populista con l’immagine dei «caminetti»).

Ma occorre soprattutto fare emergere anche il tema di fondo: l’Italia non può non avere una sinistra, non può dilapidare l’eredità della storia del movimento operaio, socialista e comunista.

Ad una domanda, su cosa di «nuovo» potesse portare la sua candidatura alla guida della Spd, qualche giorno fa Martin Schulz ha risposto: «Nulla, la Spd da 150 anni dice le stesse cose».

Forse ha esagerato, ma recuperare l’orgoglio e la dignità di una storia, ecco, questa è forse la vera posta in gioco, e il primo passo da fare.

i lavori in corso in questo così denso fine settimana, è questa». Huffington Post, 19 febbraio 2017

L’infinita soap-opera del Pd non ha dalla sua dei buoni sceneggiatori: né fra i protagonisti, né fra gli osservatori. A una classe politica che oscilla fra il non dare il meglio e il dare il peggio di sé fa riscontro un coro di cronisti e commentatori che oscillano a loro volta fra la foga di descriverla come un covo di vipere velenose e l’ansia di scongiurare una scissione che sarebbe al meglio incomprensibile, al peggio devastante. Il bilancio della parabola del Pd – dieci anni non ancora compiuti e vissuti molto pericolosamente – pencola infine fra quello di un partito mai nato, di una miscela mal riuscita e di un progetto mai decollato, a quello di un bene prezioso e irrinunciabile, dell’unico superstite del riformismo europeo, dell’ultima barriera della civiltà contro l’invasione dei barbari pentastellati o trumpisti.

Tutto questo non aiuta a capire se c’è, e qual è, la posta della partita che si sta giocando – malamente – nel Pd, ma anche fuori dal Pd: sono aperti altri cantieri, in primis quello del congresso di fondazione di Sinistra Italiana, e intanto non smobilitano le reti dei comitati nati a sostegno del No al referendum costituzionale. Si può continuare a guardare tutto questo come una commedia recitata da attori di second’ordine, con le batterie cariche di personalismi, ambizioni, rivincite e rancori incrociati. Oppure si può fare uno sforzo di generosità – ce ne vuole parecchia, lo so – e alzare, quantomeno, l’asticella delle aspettative e delle richieste, sperando che serva ad alzare anche quella delle risposte.

Lascerei perdere, intanto, gli scongiuri. Il fantasma delle scissioni perseguita la sinistra, e l’invocazione dell’unità la alimenta, da quando è nata. Già questa storica altalena dovrebbe dire qualcosa di un problema evidentemente malposto. Non sempre la convivenza forzata è sinonimo di unità, e non sempre le divisioni sono foriere di sciagura. Non sempre l’unità è garanzia di un’identità riconoscibile, e non sempre le differenze condannano alla frammentazione. Un’articolazione non settaria delle differenze è ciò che da sempre manca alla sinistra e alla forma-partito disciplinata e disciplinare da cui la sinistra, fra mille trasmutazioni che della forma-partito hanno buttato il bambino tenendosi l’acqua sporca, non è mai riuscita a emanciparsi davvero.

Ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Stiamo all’oggi: è possibile guardare a quello che sta capitando non come un a un destino di disgregazione, ma come a un’occasione di ricomposizione? E’ possibile pensare che sia questa, e non la solita “resa dei conti” fra narcisi (uomini) in guerra fra loro la posta in gioco della situazione? E’ possibile guardare all’eventualità che il Pd si spezzi definitivamente come a un elemento di maggior chiarezza, e non maggior cupezza, del quadro?

Tutto dipende, naturalmente, dal giudizio che dell’avventura targata Pd si dà. Lo scongiuro della scissione muove evidentemente da un giudizio positivo, o meglio dalla convinzione che, ben realizzato o no, il progetto del Pd fosse, dieci anni fa, la risposta giusta al problema.

Varrebbe la pena ricordare che dieci anni fa “il problema” era assai diverso da quello di oggi: in Italia c’era un bipolarismo che pareva definitivo; la crisi mondiale del debito si annunciava – non vista, al Lingotto - ma non aveva ancora messo in crisi il pensiero unico neoliberale; l’opera di sistematico smantellamento delle tradizioni politiche europee novecentesche, e segnatamente di archiviazione del bagaglio concettuale della sinistra, era al suo apice; l’America era ancora, per quelli che si volevano emancipare dal complesso di colpa per essere stati comunisti a loro insaputa, un mito progressista, e l’aggettivo “democratico” un passepartout per risolvere qualunque dilemma del presente e del futuro. Si innamorò di quel progetto chi voleva una sinistra light, liberata da qualunque istanza di critica anticapitalistica, completamente risolta nell’interiorizzazione del paradigma liberaldemocratico come unico orizzonte possibile.

Era un innamoramento malriposto. Ma non solo per la perenne incompiutezza che avrebbe da allora in poi caratterizzato “l’amalgama mal riuscito”, bensì per i suoi difetti genetici. Un difetto di identità, perché dalla somma di due tradizioni indebolite non nasceva una cultura politica riconoscibile. Un difetto di struttura e di radicamento, perché il partito dei gazebo e delle primarie portava in sé l’embrione del partito personale del leader. Un difetto di progetto, perché la bandiera dei diritti, separata dalla critica dei poteri, si sarebbe rivelata ben presto una strada aperta al loro smantellamento più che al loro allargamento. Un difetto perfino nel nome, perché già allora era chiaro – non c’era ancora Trump, ma Berlusconi sì – che l’aggettivo “democratico”, in un Occidente in cui la democrazia si sfigurava partorendo mostri, non era la soluzione ma il problema. Un difetto, infine, di presunzione, in quell’ostinata idea, tutt’ora perdurante, che il Pd fosse “il partito della nazione” (il termine risale ad allora) che rappresentava e incorporava i destini dell’Italia. Il difetto stava dunque nel progetto, non nella sua cattiva realizzazione. Il seguito della vicenda l’ha solo aggravato, fino all’esito, estremo ma coerente, della scalata di Matteo Renzi, con la iper-personalizzazione della leadership e la rottamazione di ogni residua cultura politica che l’hanno caratterizzata.

Ma nel frattempo, soprattutto, si è rovesciato il mondo, ed è collassato il sistema politico italiano. Le sorti della globalizzazione non sono più magnifiche e progressive. La crisi del capitalismo finanziario ha smontato da sola le ricette neoliberali, con o senza lo zuccherino delle “terze vie” blairiane. La destra ha cambiato natura e da liberista si è fatta protezionista. I nazionalismi risorgono sotto la bandiera illusoria del sovranismo. E i popoli spremuti dalla crisi e, in Europa, dall’austerity si danno voce come possono e con chi trovano, sui una sponda e sull’altra dell’Atlantico: e tanto peggio per chi ha aspettato Trump per accorgersene, liquidando quattro anni fa il M5S a fenomeno effimero e transeunte e pensando di riportare il tripolarismo in un bipolarismo forzato a colpi di leggi elettorali incostituzionali e di riforme costituzionali sonoramente bocciate.

In un mondo così, torna non il bisogno, ma la necessità di una sinistra. Detta o non detta, dichiarata o sussurrata, esplicita o implicita, la posta in gioco della scissione del Pd, e più in generale dei lavori in corso in questo così denso fine settimana, è questa. Lo sanno benissimo i sacerdoti dello scongiuro, che non tralasciano talk show per mostrarsi esterrefatti e scandalizzati del riapparire dello spettro che il Pd avrebbe dovuto seppellire per sempre. La domanda vera è quanto ne siano consapevoli invece i protagonisti dello scontro. I quali stavolta, dentro e fuori dal Pd, sono pregati di fare sul serio. Il compito è urgente ma tutt’altro che facile, e tutt’altro che light. Lo dico con le parole di Carlo Galli Sinistra a congresso fra piccola e grande politica) : una sinistra di governo (e di “protezione” non securitaria della società ) che tenga conto che la globalizzazione non è passata invano dovrà essere nei fatti rivoluzionaria, tanto è il peso delle macerie da spostare e delle nuove istituzioni da ricostruire”. Vietato bluffare, accontentarsi di un pur necessario cambio ai posti di comando, riproporre ricette usurate con l’aggiunta di un 3 o 4.0, diluire nel moderatismo la radicalità necessaria. Gli esami non finiscono mai, ma qualche volta sono ultimativi.
Articoli di Michele Prospero, Aldo Carra, Tonino Perna. Ma serve una nuova sinistra, oppure un modo nuovo di pensare - e quindi di fare - Politica?

il manifesto, 22 febbraio 2017



ORGANIZZARE IL CAMPO APERTO
DI UNA SINISTRA PLURALE
di Michele Prospero

«Le radici del fallimento del Pd risiedono nelle scelte originarie del Lingotto, a favore di un partito incolore e senza classe. Con la benedizione di Marchionne»

Ed è scissione. Con ritardo, si registra un esperimento fallito. E si dice addio a un capo che altri danni presto procurerà alla democrazia in crisi. Nei media c’è chi lascia cadere sulla testa dei ribelli l’accusa di nichilismo. Per screditare i fuggiaschi, alcuni parlano di una scissione senza principi. Eppure al Testaccio gli insorti avevano riscoperto, come in Inghilterra, bandiera rossa.

Non c’entrano però i demoni del ‘900: la foto simbolo, di un evento che pure prospettava una rivoluzione socialista, era quella che riprendeva il Veltroni del Circo Massimo. Confusi pensieri. Nulla del Pd delle origini può aiutare chi vaga alla ricerca di una identità perduta. È il Lingotto l’origine del male, non la soluzione. Allora Veltroni stigmatizzò il conflitto come una brutta malattia, relegandolo nella cassapanca dell’800. Poiché lo scopo del capitale è solo il capitale stesso, senza il conflitto nessuno può sollevare questioni di giustizia per momenti di eguaglianza. Rinunciare al conflitto significa uccidere la politica e regalare il potere alle agenzie del capitale. Ovvero ai demoni del postmoderno.

Le radici del fallimento risiedono nelle scelte originarie del Lingotto in favore di un partito incolore e senza classe. La sua identità era fissata nel maggioritario e nelle primarie. Un collante fittizio che non poteva durare. Ci sono componenti del vecchio Pci che nell’amalgama si sentono a loro perfetto agio. Sono i notabili del partito degli eletti. Fassino, Chiamparino e Renzi, che si contendono la benedizione di Marchionne, costituiscono un amalgama riuscito. I vecchi miglioristi si trovano bene con il rottamatore visto come un modernizzatore. E Poletti è l’espressione di un tradimento delle ragioni sociali dello stesso riformismo emiliano che cede di schianto al fascino padronale del renzismo.

Per chi non si rassegnava a questa resa ingloriosa la rottura era inevitabile. La differenza tra Veltroni e Renzi non è nei principi, cioè nella visione aconflittuale del mondo, nella esaltazione dell’impresa, che è comune. Nemmeno nella cultura istituzionale e politica c’è una frizione: entrambi sognano il presidenzialismo e inseguono le primarie come unzione mistica in un partito liquido. Non a caso i media e i poteri economici che sostengono Renzi sono gli stessi che hanno accompagnato l’ascesa di Veltroni.

Quale è allora la differenza? Con l’alleanza capitolina tra il mattone e l’immaginario, tra le notti bianche e il cemento nero della città infinita del degrado speculativo, Veltroni aveva costruito le basi per la leadership nazionale. Il suo però non era ancora un partito personale, cioè si basava sul soccorso dei poteri forti, ma il leader non aveva costruito un potere economico autonomo. Con la sconfitta politica abbandonò per questo lo scettro.

Le fondazioni, le donazioni dei poteri finanziari, l’influenza del comitato d’affari della piccola borghesia toscana, specializzata nel cucire rapporti con banche e imprese all’ombra delle istituzioni conquistate, assicurano invece al leader un capitale a sua disposizione per edificare un partito personale che non obbedisce a canoni solo politici. Per questo tratto proprietario-personalistico del Pd non è stata ordinata la sola operazione politica decente dopo il clamoroso plebiscito: licenziare il capo di un non-partito, odiato dal popolo.

Il Pd salta, oltre che per il rifiuto delle degenerazioni di un partito personale, per altre due ragioni. La prima è la grande crisi economica alla quale il Pd risponde con il Jobs Act. Cioè con la potenza illimitata del capitale, padrone assoluto della vita del lavoratore, costretto a vagare in solitudine, e privo di diritti, tra i fantasmi della concorrenza. Già con Veltroni (emblematica fu l’operazione Calearo) il Pd aveva rinunciato ad ogni radicamento nel mondo del lavoro. Con Renzi la rottura è però definitiva e totale perché simbolico-culturale-giuridica. Dopo il Jobs Act si rompe la coalizione sociale del Pd, partito dei Parioli. E la prima area a saltare fu l’Emilia Romagna, con la diserzione di massa delle consultazioni regionali.

La seconda causa della catastrofe del Pd risiede nell’attacco alla costituzione. Il plebiscito di dicembre, convocato per consolidare il potere personale sulle tracce di uno scivolamento populistico e autoritario, ha segnato una cesura storica irreparabile. Ad essa il Pd reagisce con la provocazione della accelerazione verso i riti della nuova incoronazione mistica del capo caduto nel baratro.

Non serve a nulla evocare i demoni del ‘900 di fronte a ribelli che impugnano le armi per garantire la continuità del governo. Proprio questa aporia, di una rivolta per la stabilità, consiglia di gestire con accortezza tattica i tempi delle sinistre, variamente collocate nella gestione dei passaggi parlamentari, senza le accelerazioni perniciose. Organizzare il proprio campo, e al tempo stesso aprire con duttilità alla gestione delle sfide elettorali con una strategia aperta e condivisa: questo è il ruolo di una sinistra plurale che, pur nella differenza dei percorsi, non rinuncia a una vocazione egemonica.

La domanda di Gramsci deve sempre risuonare nei soggetti della sinistra, in tempi di crisi: come non diventare momenti che contribuiscono, loro malgrado, alla decomposizione generale. Una sinistra plurale nei profili organizzativi deve essere capace però di esprimere una convergenza, soprattutto se la legge elettorale la rende di fatto necessaria, come al senato. Una grande coalizione costituzionale, capace di lanciare una credibile alternativa, smentirebbe i censori che, dopo l’implosione del Pd, pronosticano un inevitabile trionfo del M5S.

Il terreno per le destre e il M5S sarebbe in discesa proprio se il Pd rimanesse ostaggio della follia renziana. Una sinistra plurale, non deviata dalla ossessione di trovare immediate soluzioni organizzative, può contendere il consenso ai tre populismi in scena e fare di lavoro e costituzione le bandiere di una ricostruzione democratica.

L’ORIZZONTE NON SI VEDE ANCORA
di Aldo Carra

«Dopo il 4 dicembre. Una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica»

Esattamente un anno fa con Cosmopolitica decollava il tentativo ambizioso di superare Sel per costruire una sinistra nuova e più larga. Adesso è nata Sinistra Italiana, alcuni promotori hanno deciso di fare altro, il Pd sta deflagrando e nel cielo europeo e mondiale si addensano nubi preoccupanti. Sembra passato un secolo. La storia corre e la sinistra annaspa. Come ha scritto Revelli siamo dentro un processo entropico: ogni giorno il quadro cambia e ogni pezzo non sta più né dove stava ieri, né dove pensavamo dovesse stare oggi. Alzare la testa per vedere meglio quel che accade fuori e lontano da noi: questo è il suggerimento che se ne ricava.

Giusto, ma non basta.

Perché il terreno sottostante, frana e se non si sta con i piedi per terra e in movimento, si rischia di restare intrappolati nelle sabbie mobili. Mai come oggi, quindi, dobbiamo muoverci nell’oggi scrutando l’orizzonte lontano e seguendo la direzione giusta.

All’orizzonte c’è la fase terminale dello sviluppo capitalistico, la sua mutazione genetica dalla produzione materiale di beni e servizi per soddisfare bisogni delle persone alla produzione virtuale di finanza per soddisfare le leggi di sopravvivenza della finanza stessa.

Ma ci sono all’orizzonte anche mutazioni straordinarie indotte dall’evoluzione tecnologica. Le macchine sostituiscono l’uomo e ne mutano il destino: o liberazione dal lavoro o dominio finanziario e tecnologico e nuova schiavitù dell’uomo, ridotto a scarto. Il progresso creato dall’uomo gli si rivolge contro. Problemi spaventosi stanno davanti a noi. Altro che sinistra moderata o radicale, campi larghi o orticelli, il destino di Renzi e quello della Raggi… Epperò.

Epperò dobbiamo agire nel presente per costruire il futuro. Il 4 dicembre rappresenta il punto di svolta di una tendenza pluriennale della politica italiana: l’idea che la governabilità è più importante della rappresentanza, la vocazione maggioritaria come diritto di una minoranza che non riesce a conquistare la maggioranza dei consensi popolari a diventare maggioranza per legge, un Partito incolore che, assemblando componenti storiche diverse, pretende di diventare il centro unico del sistema politico e poi, come evoluzione naturale, il passaggio dal partitone solo al comando all’uomo solo comando.

La riforma costituzionale e la legge elettorale non erano che il punto di arrivo di questa pericolosa perversione democratica. La risposta negativa degli italiani è stata la pietra tombale su quel progetto.

Quindi una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica.

Al congresso di Rimini abbiamo visto tanti giovani, una bella discussione, tanto entusiasmo. Quelli che chiamammo cosmopolitani tentano di dare l’assalto al cielo. Ma l’orizzonte non si vede ancora.

A diradare la nebbia di cui ha parlato Cofferati, penserà il tempo. Serve, però, che le tante energie che si sono mobilitate nel referendum provino a soffiare insieme. Per aiutare il vento della storia.

QUALCOSA SI MUOVE
MA ABBIAMO UN PROBLEMA,
IL LEADER CHE NON C’È
di Tonino Perna

«Sinistra. Ci servirebbe un Alexis Tsipras capace di cucire le diverse anime in un paese con una tradizione di scontro nella sinistra storica e nuova»

«C’è vita a sinistra» scrive Norma Rangeri nel suo editoriale sul nuovo scenario politico italiano. Dovremmo dire «Grazie Renzi» perché se non avesse sofferto di onnipotenza, attaccato la Costituzione per un plebiscito personale e giocato il tutto per tutto, non avremmo visto questo risveglio. Ma abbiamo di fronte una grande questione anche se facciamo finta che non esista.

In una recente intervista su questo quotidiano Rossana Rossanda ad un certo punto faceva un’osservazione che, a mio avviso, è centrale in questa fase storica: «Penso che oggi ci sia un bisogno spontaneo della gente di avere più una persona a cui collegarsi che un’idea.

Ripenso a quando, all’inizio della storia del manifesto, noi 3 o 4 più in vista, sicuramente avevamo molto difetti, ma non la superbia del personalismo». In queste poche battute è racchiuso un passaggio epocale.

Ricordo che una decina di anni fa, a cena conversando con la giornalista e scrittrice Adele Cambria, una persona che ha dato tanto al femminismo quanto alla mia terra, le esposi le ragioni e gli obiettivi della nascente Sinistra Euro Mediterranea, e lei mi chiese, gelandomi: ma il leader chi è?

Nella rivoluzione culturale del ’68, come nelle lotte sociali degli anni ’60 e ’70, c’erano tanti leader di movimento, di gruppi e gruppuscoli della sinistra extraparlamentare, ma l’adesione ad un movimento o a un partito avveniva sul piano ideologico prima di essere il frutto di una identificazione personale.

Anche nel grande Pci sicuramente Togliatti aveva un carisma ed una naturale leadership che non aveva Longo, ma non per questo il partito si dissolse alla scomparsa del «Migliore».

Oggi, anche se non ci piace, la gran parte delle nuove forze politiche si costruisce sulla figura del leader che a sua volta è in buona parte modellato dai mass media.

Per l’appunto è quello che Mauro Calise ha chiamato Il partito personale così come ha recentemente intitolato il suo ultimo saggio La democrazia del leader, una forma di democrazia che non ci piace affatto ma con cui dobbiamo fare i conti.

Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso c’è stato un mutamento culturale radicale già intuito e denunciato con grande acume da Christopher Lasch nel testo che lo ha reso famoso, La cultura del narcisismo, accompagnato da un sottotitolo profetico: «L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive».

È in questa dimensione esistenziale che la ricerca del leader come punto di riferimento manifesta, allo stesso tempo, il bisogno di una guida che dia un orizzonte ed una speranza in un’epoca di «disillusioni collettive» ed il bisogno di fuggire dalla propria responsabilità/ impegno per cambiare la società.

La creazione di un partito o forza politica della Sinistra non potrà non porsi questo problema, che può anche essere affrontato nella sua migliore accezione. Vale a dire: la ricerca di un leader capace di cucire le diverse anime, culturali prima che politiche, del nostro paese. Con alcuni valori forti quali l’uguaglianza, la solidarietà, la pace ed il rispetto della natura.

È quello che hanno fatto Syriza ed il suo leader Alexis Tsipras in un paese con una tradizione di scontro tra le diverse anime della sinistra storica e nuova.

Ed è quello che ci auguriamo nasca anche nel nostro paese, ma che non può essere il frutto di meri accordi di vertice. D’altra parte, sappiamo bene che una forza autenticamente di sinistra nasce all’interno della sfera sociale, nelle forme dell’altreconomia e, soprattutto, nei momenti storici di mobilitazione e conflitto.

Il periodo migliore di Rifondazione comunista seguì ai fatti di Genova del luglio 2001.

In quel violento scontro, carico di torture, pestaggi e violazioni dei diritti umani fondamentali, nacque una generazione politica nuova che riempì le file di quel partito che Fausto Bertinotti, ultimo leader della sinistra radicale, aveva aperto al movimento Noglobal, che marciava contro i Grandi del G7.

Per questo la ricerca di un leader-regista, capace di unire e portare a sintesi le diverse spinte non può prescindere dalla costruzione di movimenti dal basso che lottano e si impegnano, sul piano locale-globale, nella costruzione di una cultura ed una pratica quotidiana alternativa a questa società capitalistica sempre più distruttiva dei legami sociali e degli ecosistemi.

A sinistra nasce un partito, lontano dai rottami del PD. Che dal vecchio gemmi qualcosa di nuovo? Ls primavera non è poi tanto lontana, nel calendario astronomico. il manifesto, 21 febbraio 2017


«Congresso di Rimini. Eletto segretario Nicola Fratoianni, il partito al lavoro per organizzare comitati unitari per i referendum Cgil sul lavoro, e iniziative a sostegno di migranti e richiedenti asilo. In caso di fiducia c'è il "no" al governo Gentiloni: "E stiamo a vedere che faranno i possibili nuovi gruppi parlamentari...", avverte il neosegretario»

Da dove partire? “Anche dalla cura delle parole, dal restituire alle parole il loro significato, iniziando dalla parola ‘sinistra’. Per farlo, oggi, ci vuole coraggio”. Da Nichi Vendola, nel suo splendido intervento in chiusura di congresso, arriva anche questo prezioso consiglio ai naviganti di Sinistra italiana, entrati nel mare della politica (non solo) italiana con l’entusiasmo di chi parte per un viaggio liberatorio, anche se faticoso e pieno di rischi.

Sanno di avere di fronte una società disillusa, in gran parte convinta che la politica non possa migliorare (anzi…) la vita quotidiana. E non basta una parola, per giunta abusata ogni giorno a destra e a manca. “Dobbiamo fare il nostro mestiere – avverte quindi Nicola Fratoianni – perché di fronte alla situazione in cui versa questo paese, o si cambia in modo radicale o non c’è partita”. E radicale, spiega Piero Bevilacqua annunciando l’adesione al nuovo partito, significa “profondo”: “E’ un termine che non viene da Marco Pannella. Viene da Carlo Marx”.

Il documento finale del congresso sottolinea: “Quello che oggi scegliamo, a Rimini, non è ricostruire la sinistra che non c’è più, ma costruire una sinistra che non c’è mai stata”. Per specificare il concetto, l’intervento di Vendola aiuta: “Il centrosinistra, l’Ulivo, sono state esperienze collegate a una globalizzazione che sembrava potesse offrire delle opportunità. Si sono schiantate, perché è schiantata la base sociale che li sosteneva. Mi dispiace per i compagni e le compagne che se ne vanno. Ma per me oggi la cosa fondamentale è la bussola, e la rotta da seguire”. Scegliendo un’autonomia culturale e politica legata a quello che vuol dire essere di sinistra: “Non dobbiamo mai separarci dalla dimensione della lotta per la trasformazione della società”.

Nell’elezione di Fratoianni e del gruppo dirigente di Sinistra italiana – 503 sì, 32 contrari, 28 astenuti, un centinaio di assenti dall’inizio o al momento del voto – c’è la fotografia di una platea di delegati e delegate che ha portato in trionfo la giovane ex sindaca di Molfetta, Paola Natalicchio: “Chiedo a Fratoianni di lavorare all’unità della sinistra italiana e non solo di sinistra italiana. Di mettere insieme i pezzi per una alternativa di paese. E di capovolgere la piramide: perché la sensazione di un partito calato dall’alto in questi mesi è stata forte, e come dirigenti dobbiamo farci carico e promuovere un rovesciamento del processo. Giriamo il paese, solo un bagno di realtà ci può distrarre da questa storia di D’Alema e di Emiliano”.

Unità e umiltà, come scandito nell’assemblea di Podemos, con le immagini proiettate nell’auditorium e con Pablo Iglesias che ripete più volte: “Abbiamo un piede in Parlamento, ne dobbiamo avere un migliaio nella società”. Di qui le prime mosse del partito: con l’adesione alla Sinistra europea; con “i 500 comitati unitari da costruire subito” per i referendum della Cgil contro i voucher e la giungla di appalti e subappalti senza diritti. Comitati come quelli per i referendum costituzionali, ricordati da Martina Carpani (Rete della conoscenza) come un essenziale momento formativo per i giovani che si affacciano alla politica. E poi il sostegno, concreto, a migranti, rifugiati e richiedenti asilo nella giornata delle manifestazioni in tutto il continente. E ancora l’8 marzo per ‘Non una di meno’.

Quanto ai movimenti del quadro politico, pronti a discutere con tutti. Ma non con il cappello in mano. Anzi: “Se la scissione nel Pd dovesse portare a nuovi gruppi parlamentari – ammonisce Fratoianni – vorrei vedere cosa faranno se si dovesse votare la fiducia al governo Gentiloni”. A rispondergli, poche ore dopo, sarà il dem uscente Enrico Rossi a RaiNews: “Ci sarà, a quanto mi risulta, un gruppo formato da chi esce dal Pd e chi esce da Sinistra italiana, ma sosterrà il governo Gentiloni”. Già lo immaginava Stefano Fassina: “Non siamo l’organizzazione giovanile di D’Alema e Bersani. Abbiamo già dato, diciamo”. Così come, guardando a Pisapia, Pippo Civati ha replicato: “Vedo che chi ha votato Sì al referendum costituzionale si propone di organizzare chi ha votato No”.

L’ultimo intervento del congresso è stato quello di Luciana Castellina. Che, rispondendo a Eugenio Scalfari, ha chiosato: “Da una parte i ‘civilizzati’, tutti insieme, a difendere una democrazia svuotata. Dall’altra i ‘barbari’ che bussano alle porte. Noi dovremmo stare con i barbari. Perché lì c’è un pezzo del nostro popolo”.

il manifesto, 17 febbraio 2017 (c.m.c.)

Comincio da me, così si è più chiari. Proprio perché – come ha scritto Marco Revelli – bisogna «prendere le distanze dalle configurazioni del giorno» – una vera girandola – credo sia necessario non prendere le distanze dai processi più consistenti per avviare i quali molti compagni si sono impegnati.

Molti compagni e non questo o quel leader che si sente improvvisamente chiamato dal popolo a creare qualche “campo”. Per questo oggi andrò a Rimini per partecipare al Congresso costitutivo di Sinistra Italiana.

Ci vado innanzitutto perché sento che ho più che mai bisogno di stare assieme a compagni con i quali in questi anni abbiamo combattuto le stesse battaglie (non solo reduci, per fortuna anche tanti nati nei ’90) – per ultima quella del referendum – per ragionare con loro e tentare di indicare una prospettiva che mi/ci sottragga da questo “squilibrio di sistema”.

Perché più che mai sento che rischiamo di essere travolti se non costruiamo un luogo, un aggregato, che dia forza all’intenzione di rispondere a una domanda di senso e non solo di consenso immediato; se, soprattutto, non riusciamo a mettere in piedi una pratica politica che dia rappresentanza reale ai bisogni degli sfruttati e non sia, come sempre più è, solo comunicazione.

Per questo sento l’urgenza di relazionarmi con gli altri, di superare il maledetto isolamento individualista che ci ha tutti ammalato, di ritrovare il collettivo, senza il quale non mi resterebbe che il malinconico brontolio solitario. Un partito è questo, innanzitutto.

Provarci vuol dire “chiudersi”, “isolarsi”, mentre invece bisognerebbe aprirsi? Certo che bisogna aprirsi, ma per aprire una porta devo avere una casa, cioè un punto di vista organizzato, se no la porta sbatte e basta. E poi, per guardare a quello che c’è all’aperto, bisogna avere il cannocchiale, non la lente di ingrandimento che ti consente l’illusione ottica di vedere grandissimo quello che invece è piccolo.

Io credo, per esempio, che piccolo sia il dibattito che si sta svolgendo all’interno del Pd.

Non dico che non sia rilevante, anzi, dico solo che riguarda un pezzetto di mondo, mentre c’è un mondo più grande, fatto di movimenti, gruppi che operano sul territorio, reti, insomma una società italiana più ricca di fermenti di quanto generalmente si creda. Frantumata, certo, ma anche per questo penso sia giusto ricominciare a pensare ad un’organizzazione politica che sappia impegnarsi ad esserne parte, non solo vago referente esterno.

Del Pd mi interessa – e molto – il grande corpaccio della tradizione, che però non recupererò alla soggettività politica appiattendomi su uno dei leader della sua minoranza interna. Con i quali potrò, se ce ne saranno le condizioni, allearmi per combattere delle battaglie, forse, persino elettorali.

Ma tanto più efficacemente potremo farlo tanto più saremo capaci di imporre un confronto di merito, e non solo di posizionamento.E’un azzardo puntare su Sinistra Italiana, un cavallo così fragile , pieno di difetti, che subisce prima ancora di nascere -. un vero record – una scissione corposa ( e certamente dolorosa)? Sì, lo è.

Potrebbe non funzionare. E però penso che se perdiamo questa occasione il rischio di trovarci assai male sarebbe ben maggiore. Ci sono momenti in cui occorre rischiare, cioè scegliere (e francamente questo non è poi un rischio così grosso).

Ho scelto Sinistra Italiana perché chi la sta costruendo ha avuto il coraggio – per l’appunto – di aprirsi, e cioè di rinunciare alle certezze dei propri rifugi. Che è quanto di più efficace si possa fare se si vogliono davvero “aprire campi” più inclusivi, che non siano la somma di identità irrigidite.

Sel, decidendo di sciogliersi, proprio questo ha fatto: mettere in discussione se stessa, a partire dalla riflessione critica sull’esperienza del centrosinistra di cui era stata protagonista.Saremo elettoralmente irrilevanti? Dipende da molte cose, ma – ed è questo che mi importa ribadire in questo momento – non tutto si gioca su quel terreno.

C’è un enorme lavoro da fare nella società per tradurre la disperazione in un protagonismo politico capace di dare al conflitto una prospettiva. Per rivitalizzare le istituzioni democratiche che Renzi ha cercato di sterilizzare bisogna cominciare di qui, altrimenti qualsiasi governo, anche un centrosinistra un po’ più di sinistra, sarà inutile.

Ci sono tempi in cui i risultati di quanto si fa si possono misurare solo nel lungo periodo.Quanto sta bollendo in pentola non è affatto un nuovo bel centro-sinistra di sinistra.

Mi sembra di capire che, anzi, il nuovo scenario politico sia un nuovo bipolarismo: non il vecchio sinistra/destra, ma: da un lato i “barbari” ( 5Stelle, Salvini e c. più la plebe che protesta contro licenziamenti e povertà, gli immigrati); dall’altro i “civilizzati”, quelli che hanno capito che in momenti come questi si devono erigere trincee. (E cioè il Pd, i mozziconi di destra già da tempo imbarcati da Renzi, ma oramai anche Berlusconi, riammesso nel salotto buono da quando si è visto che, diciamocelo, non è brutto come Trump).

Eugenio Scalfari ad Ottoemezzo, giorni fa, l’ha detto con maggiore chiarezza di altri ricorrendo a toni persino apocalittici: chi è civilizzato deve capire che il castello della democrazia è assediato e senza fare tante storie ubbidire e combattere con chiunque si ingaggi.

A questo punto che lo schieramento invocato si chiami centro-sinistra, o larghe intese, non ha importanza, è questione solo nominale. Non è più tempo, insomma – ecco il messaggio – per occuparsi di dettagli cincischiando su quanto di sinistra potrebbe essere il centrosinistra.Non siamo più, mi pare, al renzismo, siamo oltre, quello è stato – o meglio ancora è – l’apprendista stregone.

L’appello dei civilizzati avrà sicuramente chi lo ascolta, può apparire persino di buon senso. Anche perché i civilizzati hanno meno problemi: non il lavoro, non la povertà, non le miserie dei servizi pubblici che si restringono come pelle di zigrino.

Solo che le cose non stanno così: se le scelte dovessero ridursi a questa alternativa saremmo davvero fritti: il disagio sociale e il populismo che cresce in assenza di una forza che se ne faccia carico, potrebbe davvero dare fuoco alle polveri.

Il realismo dovrebbe indurre a privilegiare l’obiettivo di colmare questo vuoto.

»

. il manifesto, 5 febbraio 2017, con postilla

Ragionare e intervenire sul processo politico in atto diventa ogni giorno più difficile in questo nostro, sempre più confuso paese. La tentazione di tacere è grandissima, tuttavia, anche tacere mi sembrerebbe fuori luogo. A meno che non si accetti di uscire definitivamente di scena. In mancanza di meglio, perciò, procediamo per punti separati. Può darsi che alla fine, rimettendoli insieme, un senso comune ne scaturisca.

1. Il voto anticipato

Io penso che in questo momento auspicare, e battersi, per il voto anticipato, sia più che sbagliato, criminale.

Si capisce, razionalmente, che lo facciano le destre estreme e il Movimento 5 Stelle: desiderano approfittare della congiuntura favorevole rappresentata dalla clamorosa sconfitta renziana al referendum, cui anche noi abbiamo contribuito (ma non potevamo fare altrimenti). Ma il Pd? Il Pd è trascinato al voto solo perché Renzi sa che molto probabilmente sarà sconfitto, ma ha bisogno di garantire alle sue personali posizioni una consistenza parlamentare sufficiente a garantirgli di traghettare il momento difficile, o quanto meno a non uscire di scena, o per sempre. A lui, s’intende: non al partito, che rischia di andare in frantumi ancor più di quanto non sia già accaduto nei frangenti precedenti.

Poi, per chi lo avesse dimenticato, c’è l’Italia. Può questo nostro sempre più confuso e disgraziato paese consentirsi il lusso di una campagna elettorale a breve termine ancor più violenta e distruttiva di quella passata, rischiando al tempo stesso la più che probabile affermazione della componente politica grillina, con tutto ciò che questo significherebbe sia sul piano interno sia su quello internazionale? La risposta, semplice e inequivocabile, è: no, non può.

L’Italia e, persino, il Pd non possono essere messi così facilmente in gioco al solo scopo di salvare quel che resta della carriera politica di Matteo Renzi. Possibile che il (cosiddetto) gruppo dirigente del Pd non ne prenda atto e non ne tragga le conseguenze logiche e necessarie? Arrivare alla scadenza naturale del 2018 attenuerebbe e in taluni casi cancellerebbe gli effetti negativi dei processi in atto, e forse qualche dato più positivo farebbe nascere.

2. La legge elettorale

Il fatto che non ci sia una legge elettorale decente è un argomento in più a favore della tesi sopra sostenuta. Votare con l’Italicum, emendato dalla Corte costituzionale sarebbe anche questo suicida. Incongruenze, contraddizioni, ecc. ecc., ne segnano il testo. Alle molte osservazioni da più parti già avanzate io ne aggiungerei una, cui attribuisco, diversamente da altri, un’importanza estremamente grande, anzi, una valenza quasi simbolica: quella che si riferisce ai capilista bloccati (emendata dalla Corte costituzionale con la misura, un po’ ridicola a dir la verità, dell’estrazione a sorte dell’unico beneficiario).

I capilista bloccati, infatti, sono l’espressione più lampante di una concezione della democrazia delegata ai capi e capetti di ogni genere. Io ritengo che tale misura confligga clamorosamente, nella sostanza, con l’art. 67 della Costituzione (appunto), il quale recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni, senza vincolo di mandato».

Spiega sapientemente il costituzionalista Ernesto Bettinelli: «In verità la norma costituzionale intende sottolineare che, dopo la competizione, gli ‘eletti’ acquisiscono in Parlamento una posizione esclusiva (status): una nuova dignità…. della quale devono essere consapevoli e meritevoli…». E cioè: sono liberi di pensare, decidere e votare, checché ne dica il loro partito o gruppo di appartenenza. Ma come questo potrebbe correttamente e, diciamo, agevolmente avvenire, se i deputati, invece di essere eletti dal popolo, lo fossero, pressoché direttamente, da un Matteo Renzi o da un Beppe Grilllo?

(A questo proposito, e sia pure marginalmente – ma non tanto – rispetto al discorso principale. Possibile che in nessuna sede, né politica né giudiziaria, sia stata osservata e denunciata la rilevanza penale delle norme che nel Movimento 5 Stelle regolamentano la fedeltà degli eletti al Capo, addirittura con un sistema di multe monetarie da appliccarsi nel caso di una qualsiasi infrazione al comando ricevuto? Se l’art. 67 della Costituzione è ancora in vigore, questo starebbe a significare che le procedure sono assolutamente fuori norma. E allora?).

Una nuova legge elettorale, sensata e coerente, rispettosa il più possibile della libera espressione della volontà popolare, cioè, il più possibile, senza vincoli né premiazioni fuori ogni misura, non si fa in due mesi, soprattutto sotto l’urgenza del voto. Ci vuole tutto il tempo che ci vuole, e ci vuole una saggezza sopra le parti, che per ora non si vede..

3. Le prospettive della sinistra

Poiché sono intervenuto su questo giornale (10 dicembre 2016) anticipatamente rispetto ad altri interlocutori e ad altre formazioni, vorrei tornare su quelle idee, precisarle e se possibile rilanciarle.

Scrivevo in quell’occasione che non c’è prospettiva politica strategica per la sinistra italiana al di fuori di un centro-sinistra di governo. Questo non vuol dire un centro-sinistra in qualsiasi forma e a qualsiasi condizione. Vuol dire, appunto, un’ipotesi strategica da costruire: prospettive, programmi, radicamento sociale e… uomini. Allo stato attuale delle cose Matteo Renzi, per le cose dette più volte, e anche in questo articolo in precedenza, appare non un possibile alleato ma un sicuro avversario (potrebbe cambiare? Altamente improbabile, e poco credibile, se accadesse). Per cui, anche questa volta separando l’uomo dal suo partito, il Pd potrebbe (dovrebbe) stare dentro il disegno di un possibile centro-sinistra soltanto se, com’è auspicabile – l’ho già detto più volte – rientrasse nella sua storica e irrinunciabile prospettiva (non ce n’è un’altra neanche per lui), liquidando la strategia destrorsa e populista del suo attuale leader.

Ma, per la precisione, occorre aggiungere: se si vuole fare un centro-sinistra, ci vuole oltre che un centro serio, orientato a guardare a sinistra, anche una sinistra seria, seriamente orientata a guardare verso il centro. Ripeto e preciso, perché non ci siano equivoci: una sinistra seria, cioè una sinistra-sinistra, seriamente (cioè con argomenti e fermezza di posizioni) orientata a guardare verso il centro. C’è? Non lo so: anche questo si vedrà, se le sarà consentito anche temporalmente di emergere (motivo in più, com’è comprensibile, per gli “altri”, e forse soprattutto per Renzi, per accelerare il più possibile il voto allo scopo di scongiurare questa prospettiva.

Un’ultima osservazione si può ancora fare. E’ un dato di fatto che la rivoluzione neoliberista, degenerata ora in trumpismo e populismo, e in Italia, fra l’altro, nelle fortune sproporzionate di una formazione di chiaro orientamento populistico-reazionario, come il Movimento 5 stelle, ha frantumato quasi dappertutto la sinistra, relegandola ai margini (se si pensa che in Inghilterra i laburisti di Corbyn si apprestano a votare in Parlamento per la Brexit, un brivido ci corre lungo la schiena). E se invece si assumesse come orientamento strategico e propria cultura politica la persuasione che mettere da parte (anche strumentalmente) le divisioni e praticare, anticipatamente rispetto ai tempi storici, l’unità, – l’unità di tutte le forze di sinistra (anche se le vicende più recenti sembrano muoversi nella direzione contraria) – non sarebbe utile questo a formulare in maniera più efficace la strategia e a modellare su quella l’azione?

Illusioni, utopia? Ma anche in questo campo la sinistra appare vistosamente avere dimenticato quanto illusioni e utopia servano, anzi siano necessarie a fare funzionare meglio la pratica, o almeno ne siano indissociabili. Stiamo tutti con il naso rivolto verso il basso a rimuginare la sconfitta. E se, una buona volta, lo volgessimo verso l’alto a guardare cosa c’è, se c’è qualcosa di possibile oltre la nostra sconfitta?

postilla

Il guaio è che se continuiamo a riferirci alla sinistra del millennio scorso (non solo come testimonianza storica ma anche come concretezza politica) non riusciremo mai a dare alcuna prospettiva credibile a quanti soffrono in mille modi diversi (con la fame e la sete, la miseria, la morte fisica, la disperazione, l'annichilimento personale, la mancanza di presente e di futuro ecc.ecc) a causa dei danni che ha procurato l'incarnazione attuale del capitalismo. Una forza rivoluzionaria (cioè fortemente orientata a uscire dal sistema vigente), se ci fosse e fosse abbastanza consistente potrebbe stipulare alleanze con altre, ma dovrebbe esserci. Io, non la vedo. Quindi non mi resta che consolarmi con l'antico motto di Claudio Napoleoni, «cercare ancora». Ma fuori dai residui del passato, e magari anche tra i cespugli di Grillo (e.s.)

(segue)

Forse la critica più rilevante che una parte di Sinistra Italiana muove al gruppo dirigente impegnato a svolgere il suo congresso fondativo è quella di un rischio di chiusura minoritaria. Una preoccupazione che appare anche ragionevole, visti gli esiti di tanti tentativi falliti nel recente passato. Ma tale preoccupazione è essa stessa miope e minoritaria, assai più di quanto non appaia a prima vista. Essa infatti guarda solo al breve periodo, agli esiti elettorali prossimi, alla frazione di presenze possibili in Parlamento nell’immediato futuro. Esattamente le preoccupazioni, tutte inclinate sull’immediato, nate sotto urgenze elettorali, che hanno fatto fallire, più o meno, tutti i precedenti tentativi di creare un soggetto politico di sinistra.

Non che la consistenza elettorale e la presenza in Parlamento siano elementi che un nascente partito politico debba trascurare. Ma essi non possono costituire gli aspetti condizionanti della sua nascita e del suo progetto generale. Un nuovo soggetto politico non può vincolarsi sin dalla fondazione ai problemi tattici del momento, e deve proiettarsi in una temporalità che scavalca il calendario delle tornate elettorali.

Perché il suo problema e il nostro, quello dell'Italia intera, non è la percentuale di consensi che riuscirà a ottenere alle prossime elezioni. E’ la creazione di un forza capace di rimettere in moto il conflitto anticapitalistico, di ridare protagonismo politico ai lavoratori, ai giovani e al ceto medio impoverito, senza cui il declino del paese sarà irrimediabile.

Certo, non si può ignorare che l’iniziativa di D’Alema e compagni sta creando un nuovo scenario. Ma attenzione: si tratta di una iniziativa a suo modo disperata, resa peraltro necessaria dall’avventurismo del loro segretario. Quel Matteo Renzi che tanti in Italia avevano scambiato per uno statista. Un tentativo che si svolge all’interno di un’area politica moderata su cui occorrerebbe esprimere un giudizio storico-politico. I tanti che oggi invocano la nascita di un nuovo centro-sinistra dovrebbero infatti rammentarsi che per realizzarlo occorrerebbe la presenza di un partito di sinistra. Che non c’è. E’ esattamente quel che sta cercando di fare Sinistra Italiana.

E’ dunque un errore pretendere che una nuova formazione, nata per affrontare un lavoro di lunga lena, si inceppi nelle questioni tattiche delle alleanze prossime venture. Per fare quale politica, con quale prospettiva strategica? E’ un errore che nasce da una inadeguatezza storiografica, teorica e culturale che ancora pesa in tanti settori della sinistra, tradizionale e non, incapaci di un bilancio sereno di quanto è accaduto negli ultimi 30 anni. Oggi un tale bilancio è possibile trarlo molto più agevolmente che non dieci anni fa. Perché quel che è accaduto è facile da interpretare: la sinistra storica, non solo quella italiana, ma anche quella delle socialdemocrazie europee, ha di fatto abbandonato il suo tradizionale insediamento sociale (classe operaia e ceti medi e popolari) e ha salvato se stessa come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione, favorendolo, talora anticipandolo (riforme del mercato del lavoro a partire da Treu e Schroeder, liberalizzazione dei capitali, a partire da Mitterand, ecc). Ancora oggi essa pratica un riformismo caritatevole, direi di riparazione.

Il capitalismo avanza lacerando e frantumando il tessuto sociale e la sinistra cerca di lenire gli esiti di quanto avviene con politiche alla giornata di puro tamponamento. È significativo che nel suo linguaggio non sia più presente la parola capitale, capitalismo e soprattutto lotta anticapitalistica. La globalizzazione ha generato un mondo di vincenti e di perdenti, il ceto politico della sinistra, appunto in quanto ceto, appartiene ai vincenti, malgrado la sconfitta storica dei ceti che un tempo rappresentava, malgrado il fallimento di fatto delle sue politiche.
C’è un’ altro aspetto grave di questa storia, segnata da una catastrofe teorico-culturale di vasta portata. Un aspetto che dovrebbe consigliare ogni sincero democratico a guardare con simpatia il tentativo di SI di costituire una forza antagonista ma aperta e non settaria, radicale nella visione e riformatrice nella prassi, un nuovo gruppo dirigente che sappia leggere in profondità i caratteri dirompenti del capitalismo attuale, che si propone di mostrare alle nuove generazioni e ai tanti italiani smarriti che una alternativa è possibile. E che non è quella dei 5S.
Il PD è il partito che ha firmato tutti i trattati europei, che ha sottoscritto la nascita dell’euro, che ha inserito in Costituzione il vincolo di bilancio, che ha autorizzato il fiscal compact, che ha insomma avuto un ruolo rilevante nel costruire l’architettura giuridica e finanziaria dell’Unione. Tale architettura, con ogni evidenza, oggi appare come un’ipoteca sull’avvenire del nostro Paese. L’euro, riconosciuto da economisti premi Nobel come un errore fondativo dell’Unione, è ormai considerato da un’opinione pubblica maggioritaria una trappola che assicura l’egemonia della Germania e l’inesorabile declino delle economie più deboli. E allora dov’è, non l’autocritica – vecchia parola che sa di rituale espiatorio – ma una rilettura storica degli errori del passato e soprattutto il nuovo orizzonte progettuale per uscirne?

». Altreconomia, n. 190 Febbraio 2017 (c.m.c.)

Le tre Destre. Sono le forze rimaste a contendersi il potere: la Destra tradizionale (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia), la nuova Destra populista (Movimento 5 Stelle) e la Destra neoliberista (Partito Democratico, con la fuorviante etichetta di “centro-sinistra”). Che molti neghino la distinzione tra destra e sinistra è un sintomo di quanto la mentalità di destra sia diffusa. Benché falsa, tale credenza ha finito per dire qualcosa di reale: in effetti la differenza da tempo non si vede. Non perché non esista in sé, ma perché la sinistra politica è sparita e così anche quella culturale.

È vero che la prima politica è quella dei cittadini e delle comunità civili che costruiscono risposte ai problemi senza affidarsi ai voleri dei politici. Ma l’interazione con la politica seconda, quella istituzionale, resta imprescindibile. Quindi un partito ci serve, benché come strumento debba essere profondamente trasformato. Il partito che serve non è di destra, né di finta sinistra, né neutro. Dev’essere uno strumento capace di aprire strade inedite, democratico anzitutto internamente, adatto per logica, regole e formazione dei suoi aderenti a trasformare il potere in servizio. Dovrà essere eticamente ispirato non per la presunzione settaria che i suoi iscritti siano per principio tutti onesti, ma per il metodo di prendere ogni decisione alla luce dell’etica del bene comune.

La differenza tra destra e sinistra è politica, ma ha radice etica: infatti la sinistra si definisce per l’impegno a tradurre in ogni situazione il criterio dei diritti umani e della natura, a scegliere la democrazia come forma di ordinamento della società e la nonviolenza come metodo. Non c’è sinistra dove manca la ricerca di un’alternativa al capitalismo. Il compito attuale è quello di dare seguito coerente (anche nella politica istituzionale) a questo orientamento, invece di incartarsi nella suggestione per cui si crede che la differenza con la destra non esista. Quest’ultima adotta ben altri criteri: il primato del mercato, il potere del capo, l’ostilità verso gli stranieri, il culto della piccola “comunità” chiusa, l’individualismo, il nazionalismo. In varia misura le tre Destre seguono criteri simili. La conferma sta nel fatto che nessuno dei partiti nominati è contro il sistema capitalista, anzi.

La promessa del Movimento 5 Stelle di porsi oltre destra e sinistra è inconsistente: lo strapotere del capo, la mancanza di una lettura critica della globalizzazione, la carenza di democrazia interna, l’ostilità verso i migranti e le alleanze nel Parlamento europeo attestano che questo partito non è affidabile. La sinistra politica e culturale è finita quasi ovunque in Europa perché non ha saputo rinnovarsi collocandosi dalla parte giusta rispetto alla contraddizione tra tutelati e non tutelati, tra Nord e Sud del mondo, tra generazioni vecchie e nuove, tra uomini e donne, tra violenza e nonviolenza, tra crescita e decrescita. Ha rinunciato a promuovere un’altra economia e un’altra società.

Segnalo l’esigenza di dare vita originale a un partito di sinistra non per nostalgia di forze come Sinistra Ecologia e Libertà o Rifondazione Comunista, le cui angustie sembrano riproporsi anche in Sinistra Italiana. Un partito strutturalmente diverso potrà nascere solo dalla maturazione della coscienza collettiva dei gruppi e delle associazioni (compresi i “Comitati per il ‘No’ al referendum costituzionale”) che lavorano per arrivare un giorno a sostituire il capitalismo con la democrazia intera. Purché diano forma politico-progettuale alla loro azione e, senza accontentarsi di restare alla forma di reti, spesso autoreferenziali, sappiano diventare movimenti di liberazione radicati e popolari.

La rigenerazione di una sinistra autentica in Italia e in Europa è condizione della rinascita della politica in quanto cura del bene comune. Chi lavora per un’altra economia, anche se non vuole avere a che fare con i partiti né con la sinistra, non può disinteressarsi di questa rinascita.

Dopo la Grecia, la Spagna, gli Usa, la Gran Bretagna, anche in Francia appare un candidato della sinistra radicale (quella che vuole andare alla radice della crisi. Intervista di Anais Ginori a Marc Lazar (l

a Repubblica) e un articolo di Anna Maria Merlo (il manifesto), 31 gennaio 2016

la Repubblica
"LAVORO ED ECOLOGIA
CON HAMON VINCE UNA NUOVA SINISTRA
Anais Ginori intervista Marc Lazar.

«Per il politologo le primarie socialiste sanciscono la sconfitta delle politiche di Hollande: e il successo di un partito più attento alle idee»

Marc Lazar, professore a Sciences Po e alla Luiss di Roma, con la vittoria di Benoît Hamon la gauche abbandona il realismo e sceglie l’utopia?
«Il voto delle primarie è soprattutto contro François Hollande e i suoi governi. Una parte della sinistra si è mobilitata per esprimere chiaramente il rigetto di quello che è stato fatto negli ultimi cinque anni. Poi la forza di Hamon è aver saputo offrire una narrazione nuova, spostando il partito a sinistra. Il concetto di utopia in questo caso è da maneggiare con cura».

Perché?
«Hamon non rappresenta una sinistra movimentista, solo di protesta e di opposizione. Lui vuole il potere. Le sue proposte sono discutibili, si può essere perplessi sulla fattibilità di alcune misure, ma sono lo specchio di una nuova visione del mondo, del lavoro, dell’ecologia».

L’idea di versare a tutti un reddito universale, che costerebbe allo Stato centinaia di miliardi di euro, non denota un’assenza di realismo?
«Ci sono riflessioni di filosofi su questa misura, che affascina in modo trasversale, e nasconde un dibattito serio su quale sarà il futuro del lavoro. Sicuramente nell’immediato è un’illusione. Se per caso vincesse, ipotesi improbabile, Hamon avrebbe difficoltà a versare il reddito universale e potrebbe deludere i suoi elettori. Ma bisogna guardare la proposta da un altro punto di vista».

Quale?
«E’ un risposta, magari sbagliata, a una domanda giusta, che esiste soprattutto tra i giovani. Ovvero immaginare la trasformazione del mondo e colmare quel vuoto di speranza, ideali, che ha portato all’attuale crisi della sinistra non solo in Francia. Hamon è il sintomo di radicalizzazione della sinistra sia all’interno di alcuni partiti, com’è accaduto nel Labour con Jeremy Corbyn, sia fuori, con la nascita di forze nuove come Syriza, Podemos».

Una sorta di rivincita sul riformismo di esponenti come Manuel Valls o Matteo Renzi?
«Nella loro lunga storia i riformisti o socialdemocratici hanno sempre sofferto di un deficit di credibilità sull’economia. La destra li ha sempre descritti come capaci solo di “tax and spend”, tassare e spendere soldi pubblici. I riformisti hanno dimostrato in Francia o in Italia di poter invece amministrare, governare. Ma per un certo elettorato di sinistra non è sufficiente. E probabilmente c’è anche una questione di metodo: sia a Valls che a Renzi è mancata l’arte del compromesso e una certa pedagogia nello spiegare le riforme».

Perché la svolta all’estrema sinistra del Ps non ha beneficiato Arnaud Montebourg?
«Montebourg ha una visione economica molto protezionista, mentre Hamon è aperto al mondo, unisce l’aspetto sociale a quello ecologico. La mancanza di notorietà del prescelto è un vantaggio: è apparso come un nome nuovo».

Hamon sarà sostenuto da Valls e dagli altri socialisti?
«Valls l’ha promesso ma penso che, in pratica, sarà fatto con poca convinzione, come accadde nel 2007 quando Ségolène Royal non venne appoggiata dall’apparato. L’ala destra del partito socialista si asterrà o farà poco. Il problema di Hamon è anche aprire un dialogo con i candidati fuori dal partito, come Mélenchon o Jadot (esponente dei Verdi, ndr.). E’ stato abile, già ieri ha lanciato un appello all’unità, in modo da farli sembrare settari».

Cosa succederà in caso di eliminazione di Hamon al primo turno?
«Dipende dalla percentuale che ottiene. Se ha un risultato dignitoso, strappando abbastanza voti a Mélenchon, come sembrano suggerire i primi sondaggi, allora potrà prendere il controllo del partito nell’autunno prossimo. Se invece finirà dietro a Mélenchon, allora Valls lancerà la battaglia per riconquistare la leadership».

E’ possibile la scomparsa del vecchio Ps?
«Non credo che possa sparire nel giro di qualche mese com’è accaduto al Partito socialista di Craxi. Nonostante la crisi, è una forza politica radicata nel Paese, negli enti locali, nell’amministrazione dello Stato. Di certo si è chiuso quello che noi chiamiamo il ‘ciclo di Epinay’ dal nome del congresso del 1971. E’ allora che François Mitterrand è riuscito a mettere insieme le diverse anime del socialismo. Una lunga storia terminata. Dopo le presidenziali, ci sarà un chiarimento: in un senso o nell’altro».

il manifesto
HAMON, LA QUADRATURA DEL CERCHIO
di Anna Maria Merlo

«Presidenziali. Dopo la vittoria alle primarie, il candidato socialista all'Eliseo incontra il primo ministro e cerca di unire. La strada è in salita. Macron attira l'ala destra del Ps. Uno spiraglio dal verde Jadot, chiusura da Mélenchon. Henri Weber: " È la quarta rifondazione della socialdemocrazia" (e si farà all'opposizione)»

Benoît Hamon, dopo aver vinto le primarie del Parti socialiste nel ballottaggio contro Manuel Valls (58,7% a 41,2%), in uno scrutinio che ha registrato una partecipazione in aumento (più di 2 milioni di votanti), ha subito iniziato la ricerca di un’intesa, sia nel Partito socialista che nell’area più allargata della sinistra. Sarà ricevuto in settimana dall’indifferente Hollande.

Ieri, il candidato del Ps alle presidenziali ha incontrato il primo ministro, Bernard Cazeneuve, che lo ha messo in guardia: «La sinistra non vincerà senza difendere il bilancio dei cinque anni della presidenza Hollande». Hamon si è dichiarato «soddisfatto» dell’incontro e ha assicurato che potrebbe «arricchire» il proprio programma con le «proposte» delle altre correnti del Ps, fermo restando il ritiro della Loi Travail. La strada non è facile. È stata la sinistra del Ps a vincere le primarie. A questi dissidenti il gruppo legato a Valls rimprovera la «fronda» contro Hollande, che ha finito per mettere fuori gioco per le prossime presidenziali prima il presidente in carica, poi lo stesso Valls e il partito. Già ieri, del resto, è iniziato un lento esodo di personalità dell’ala destra verso l’appoggio a Emmanuel Macron, candidato che per il momento non ha ancora presentato un programma politico preciso, ma che si dichiara «né di destra né di sinistra» e gioca la carta della gioventù (sua – ha 39 anni – e del suo elettorato, stando ai sondaggi).

Anche Hamon ha un elettorato giovane. Ha subito teso la mano alle altre due anime della sinistra, i Verdi e Jean-Luc Mélenchon. Europa Ecologia ha scelto, con le primarie, Yannick Jadot come candidato (estromettendo l’ex ministra Cécile Duflot, molto più conosciuta). Jadot, per il momento, mantiene la candidatura (ma ha difficoltà a raccogliere le 500 firme di politici eletti necessarie per potersi presentare). Ammette, però, «la bella campagna» di Hamon e mostra disponibilità, sempre che Hamon non si chiuda nei meandri del Ps. Molta meno disponibilità da parte di Jean-Luc Mélenchon, che considera possibile un’intesa solo alla condizione che sia lui a guidarla: Hamon preoccupa France Insoumise, un ultimo sondaggio dà Mélenchon sorpassato dal candidato Ps (ma tutti dietro Macron). Il Pcf, che ha scelto a fatica di schierarsi dietro Mélenchon rinunciando ad avere un proprio candidato, considera «una buona notizia» la vittoria di Hamon e si dice pronto a «discutere con tutta la sinistra anti-austerità».

Sulla sinistra e la vittoria di Hamon chiediamo un parere a Henri Weber, tra i fondatori della Ligue communiste révolutionnaire (Lcr), con Alain Krivine e Daniel Bensaid, poi vicino a Laurent Fabius, che è stato senatore Ps e europarlamentare.

Benoît Hamon può cambiare la situazione a sinistra? Può rappresentare un rilancio della socialdemocrazia data per morta?

La socialdemocrazia sta vivendo una crisi internazionale. La Francia non è esclusa, tanto più che qui è stata al governo e questo costa molto caro nelle difficili condizioni di oggi. La socialdemocrazia, secondo me, non è in agonia, ma sta vivendo una crisi di rifondazione. È la quarta volta: era successo nel 1921, nel ’40 con la guerra, nel ’69, dove il Ps era crollato al 5% alle presidenziali, per poi rinascere nel ’71 a Epinay e aprire un ciclo ventennale di esercizio del potere. Una crisi di rifondazione deve portare a un rinnovamento totale, teorico, di programma, di organizzazione, delle pratiche militanti. Dare il Ps per morto è ormai un genere letterario in Francia, questa tesi ha riempito le biblioteche. Ma il Ps è comunque riuscito ad aprire i seggi per le primarie, con 60mila militanti impegnati, niente male per un cadavere».

Il primo ministro, Bernard Cazeneuve, ha suggerito a Hamon di cercare un’unità a sinistra. È una strada possibile?

Ricomporre le diverse anime della sinistra prenderà tempo e sarà fatto stando all’opposizione. Certo, non è escluso che Macron vinca: bisogna aver presente che non è la sinistra che può vincere, ma la destra che può perdere. Non si può imputare questa crisi a un uomo o a un partito, anche se hanno delle responsabilità, siamo di fronte a eco-sistema politico che è cambiato, che fa sì che tutti i partiti di governo siano in crisi, come era successo negli anni ’30 solo i demagoghi prosperano. Macron rappresenta un tentativo, si tratta di un partito-impresa, un’organizzazione che si propone come un’impresa di servizi, con un capo gerarchico – lui stesso – che alla fine sceglierà i 577 candidati per le legislative, che si sono presentati in seguito a un appello su Internet.

Hamon a chi si rivolge?

Hamon parla all’immaginario. Ha adottato il metodo del principio di piacere, non quello del principio di realtà, ma del resto il suo obiettivo è trovare una soluzione alla crisi del Ps e della sinistra, conquistare il partito non arrivare all’Eliseo. Propone temi piacevoli alle orecchie di sinistra, a un uditorio che vuole sbarazzarsi dalla fatica del potere. Salvo Macron, tutti considerano che l’elezione è persa e che bisogna approfittarne per ricomporre la sinistra. Ma ognuno vuole farlo a proprio vantaggio, Mélenchon, Macron, Hamon. Il reddito universale che propone è una bella idea, ma per ora resta un’utopia.

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