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il Fatto quotidiano
Potrebbe essere il sintetico commento a questa pessima campagna elettorale, che sembra basata essenzialmente su tre pilastri: la scelta dei candidati sulla base della fedeltà al capo (complimenti vivissimi a chi ha scritto e approvato questa legge elettorale), le promesse sempre più mirabolanti (aboliremo il lunedì pare fra le più sobrie e realiste), e la rincorsa dei peggiori istinti che attraversano la pancia di un paese incattivito, che applaude ad una tentata strage razzista.
Ma c’è chi va controcorrente: una piccola esperienza, ogni giorno meno piccola in realtà, cammina ostinatamente in direzione contraria. Potere al popolo è una lista nata dal basso, anzi è nata proprio per unire le esperienze di movimento, di resistenza e di lotta presenti sui territori. Un’esigenza che evidentemente era latentema viva: dopo l’appello lanciato da Je so’ pazzo – ex OPG di Napoli, con una rapidità sorprendente si sono moltiplicate le adesioni e le mobilitazioni di moltissime realtà, associazioni, movimenti, collettivi, centri sociali, spezzoni sindacali, che si sono autorganizzati attorno a quella idea iniziale: dare voce ai non rappresentati, gli esclusi, lavoratrici e lavoratori, precari, studenti, quel popolo che ormai è (scarsamente) presente solo nelle parole del ceto politico anche di un centrosinistra sempre più centro e sempre più omologabile al centrodestra.

In poche settimane si sono tenute centinaia di assemblee in cui sono stati discussi e condivisi indirizzi generali, punti del programma e candidature, tutte espressione dei territori, con candidate (oltre il 60%) e candidati che rappresentano vertenze, lotte ed esperienze attive nel tessuto sociale e politico locale.
A Firenze in lista ci sono esponenti dei movimenti contro le grandi opere e la Tav, dei sindacati di base, delle Brigate di Solidarietà Attiva e dei Clash City Workers, attivisti che da anni attraversano le strade cittadine, le periferie e i luoghi dei conflitti, lottando per diritti, giustizia e libertà. Anche la partecipazione di un partito già strutturato come Rifondazione ha seguito la stessa strada e le stesse modalità, senza verticismi o notabili da calare, che so, a Bolzano.

Sono state raccolte le firme per presentare le liste in tutti i collegi del paese, in numero doppio rispetto al necessario. Quelle firme che facevano tremare la Bonino, che pur di non raccoglierle ha preferito allearsi con Tabacci.

Quello che colpisce è l’attivismo e l’entusiasmo che tutto questo ha suscitato, un fermento che rincuora, e che per stessa dichiarata intenzione iniziale è parte fondamentale di tutta l’avventura, che deve sostenere la fase elettorale, ma soprattutto proseguire dopo, farsi corpo sociale, iniziativa politica viva.

Intanto si moltiplicano adesioni e interesse, dall’appello del mondo della cultura a quello degli urbanisti, architetti, agronomi, ecologi, ambientalisti, dal videomessaggio di Ken Loach a quello di Moni Ovadia.

Quello che colpisce è anche il disinteresse, al limite del boicottaggio, da parte dell’informazione mainstream, un oscuramento mediatico che va dalla Rai alla carta stampata fino ai canali multimediali di informazione. Fino all’assurdo che in molte rilevazioni, come in alcune app sui posizionamenti dei lettori (come il “partitometro” di Repubblica online) Potere al Popolo non c’è, mentre figurano ben rappresentate formazioni di estrema destraal limite della irrilevanza elettorale, e ben oltre quello dellalegittimità costituzionale e della decenza, come Forza Nuova.

il manifesto, 15 febbraio 2018 Mentre la lista di "estrema" sinistra Potere al popolo(dove sono le "sinistre" non estreme?) sta superando la soglia per entrare in Parlamento, ecco un finalmente un documento politico che affronta i problemi che gli altri trascurano

Un gruppo di urbanisti, architetti, agronomi, ecologi, ambientalisti, attivisti ha lanciato un appello perché nella campagna elettorale e nel voto del 4 marzo assuma rilievo politico la città, il territorio e l’ambiente. I promotori dell’appello, Ilaria Boniburini, Paolo Cacciari, Eddy Salzano, Sergio Brenna, Guido Viale, Enzo Scandurra, affermano che non c’è più tempo per trasgiversare.

«I cambiamenti climatici, inquinamenti, perdita della biodiversità e della fertilità dei suoli, rarefazione delle risorse naturali, devastazione del paesaggio, emarginazione dei soggetti più fragili, la lotta di tutti contro tutti ci dicono che il nostro habitat è prossimo al collasso».

La politica dei partiti ha ignorato la dimensione fisica, territoriale e ambientale delle scelte politiche. La pianificazione pubblica è stata delegittimata per lasciare campo libero alle singole iniziative immobiliari, alle «grandi opere», all’urbanizzazione selvaggia, alle forze economiche di mercato, alle rendite immobiliari e finanziarie. Nel nostro paese non vi è mai stata una visione strategica per un uso ecosostenibile e condiviso del territorio.

Non è solo una crisi «nel» sistema, né una crisi solo italiana. E’ una crisi «del» sistema capitalistico e dell’attuale modello di sviluppo, che brucia risorse naturali vicine all’esaurimento e restituisce scarti tossici non metabolizzabili, che espelle gli abitanti meno abbienti e più fragili dal loro habitat e produce diseguaglianze sempre più accentuate.

Il sistema va profondamente cambiato, a partire dalle sollecitazioni dei comitati, movimenti e associazioni che agiscono in difesa della salute e della qualità dei territori, dell’agricoltura contadina, del diritto alla città, e del patrimonio naturale e storico.

Un’idea convincente di ciò che occorre fare è espressa nel programma elettorale di Potere al popolo:

* rivendicare un radicale cambiamento negli investimenti pubblici. Le risorse finanziarie destinate alle missioni militari, alle «grandi opere» (come il Mose, la Tav in Val di Susa, la Pedemontana) e ad altri progetti ambientalmente dannosi (come la Tap, le trivellazioni petrolifere, l’eolico selvaggio), in quanto dispendiosi, devastanti, spesso del tutto inutili che impoverisco territori e indebitano i cittadini, dovrebbero essere destinati al benessere di tutti gli abitanti;

* un massiccio programma di manutenzione e cura del patrimonio naturale, infrastrutturale ed edilizio, a partire della messa in sicurezza idrogeologica e sismica;
*centralità della salute ambientale nelle scelte di sviluppo economico, culturale e sociale: dalla tutela della qualità dell’aria e dell’acqua alla sovranità e qualità alimentare; dall’eliminazione dell’energia da combustibili fossili e altre fonti ambientalmente dannose, alla bonifica dei siti inquinati, dal potenziamento di una mobilità sostenibile e il trasporto pubblico allo stop del consumo di suolo; dalla ripubliccizazione della acqua, a una gestione dei rifiuti basata sulla loro riduzione, riuso e riciclo;
* priorità della vivibilità delle città sugli interessi della rendita: da un piano di riqualificazione delle periferie a un potenziamento dei servizi pubblici, da un piano straordinario di alloggi sociali a una nuova legge per il controllo degli affitti; da una pianificazione democratica dei territori e un reale decentramento delle decisioni al prevalere delle virtù sociali della cooperazione, solidarietà, mutualismo e valorizzazione delle differenze.

Il testo integrale dell’appello e l’elenco dei firmatari è pubblicato su eddyburg.it
PRIMI FIRMATARI:

Maurizio Acerbo, Paolo Baldeschi, Piero Bevilacqua, Giancarlo Consonni, Lidia Decandia, Enzo Di Salvatore, Maria Pia Guermandi, Susanna Böhm Kuby, Giorgio Nebbia, Cristina Quintavalla, Maria Rosa Vittadini, Alberto Ziparo

il manifesto,

Un appello al mondo della cultura. Contro le politiche neoliberiste portate avanti dai governi di centrodestra e centrosinistra in questi anni; contro la barbarie che oggi ha mille volti: il lavoro che sfrutta e umilia, la povertà e l’ineguaglianza, i migranti lasciati annegare in mare, i disastri ambientali, i nuovi fascismi, la violenza sulle donne, la crescente repressione, i diritti negati»

Siamo lavoratori della cultura, dell’informazione e della conoscenza. Siamo scrittori, docenti, autori, musicisti, giornalisti, registi, ricercatori, attori, artisti, scenografi, direttori della fotografia, produttori; abbiamo tutti storie personali diverse e diversi percorsi interni alla sinistra. Ma tutti ci siamo ritrovati concordi nello scegliere, oggi, di votare i candidati della lista di «Potere al popolo».

Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché ci siamo battuti e continueremo a batterci contro le politiche neoliberiste portate avanti dai governi di centrodestra e centrosinistra in questi anni; contro «la barbarie che oggi ha mille volti: il lavoro che sfrutta e umilia, la povertà e l’ineguaglianza, i migranti lasciati annegare in mare, i disastri ambientali, i nuovi fascismi, la violenza sulle donne, la crescente repressione, i diritti negati».

Viviamo il tempo buio di una crisi economica, sociale, ambientale e culturale che apre la strada ad una vera e propria crisi di civiltà il cui emblema è la guerra tra i poveri, il razzismo, la xenofobia.

Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché ci battiamo per la costruzione di una sinistra basata sulla connessione tra diversi soggetti del conflitto e culture critiche, che coinvolga persone, associazioni, partiti, reti e organizzazioni della sinistra sociale, culturale e politica, antiliberista e anticapitalista; una sinistra che in tutti questi anni si è battuta contro le ingiustizie e lo sfruttamento, la demolizione della democrazia, dei diritti sociali e civili, contro la mercificazione della cultura, dei diritti, della vita, per la piena applicazione della Costituzione; una sinistra che non si è mai arresa; una sinistra che non ha rinunciato ad elaborare un pensiero forte, che non ha rinunciato alla sfida per l’egemonia e alla costruzione di un nuovo senso comune alternativo al pensiero unico neoliberista. Pensiero unico che l’intera gamma della comunicazione ha costruito in anni e anni di lavoro determinando una ormai generalizzata sfiducia e «insofferenza» nei confronti della politica e delle istituzioni, che produce rifiuto senza la forza di proposte di cambiamento.

Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché ci riconosciamo nell’alternativa di società che propone: una società fondata sulla dignità e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, sull’eliminazione di ogni discriminazione, sull’affermazione dei diritti delle donne, sul principio di eguaglianza sostanziale, sulla riconquista dei diritti sociali e civili, sulla salvaguardia del patrimonio ambientale, culturale ed artistico, sul ripudio della guerra.

Noi firmatari di questo appello votiamo «Potere al popolo» perché vogliamo cambiare lo stato delle cose esistenti.

Citto Maselli, Moni Ovadia, Francesca Fornario, Paolo Pietrangeli, Fabio Alberti, Carmine Amoroso, Gianluigi Antonelli, Enzo Apicella, Piero Arcangeli, Giorgio Arlorio, Marco Asunis, Manuela Ausilio, Saverio Aversa, Stefano G. Azzarà, Simona Baldanzi, Tiziana Barillà, Mauro Berardi, Cesare Bermani, Luca Bigazzi, Paola Boffo, Susanna Bhome-Kuby, Cinzia Bomoll, Marina Boscaino, Sergio Brenna, Mario Brunetti, Benedetta Buccellato, Paolo Cacciari, Enrico Calamai, Francesco Calandra, Francesco Caruso, Riccardo Cardellicchio, Carlo Cerciello, Salvatore Cingari, Lorenzo Cini, Paolo Ciofi, Elena Coccia, Gastone Cottino, Wasim Dahmash, Franco D’Aniello, Massimo Dapporto, Fabio de Nardis, Marco Dentici, Pippo di Marca, Enzo di Salvatore, Angelo d’Orsi, Valerio Evangelisti, Amedeo Fago, Paolo Favilli,, Luigi Fazzi, Beppe Gaudino, Alfonso Giancotti, Michele Giorgio, Giovanni Greco, Alexander Hobel, Maria Jatosti, Francesca Lacaita, Maria Lenti, Maria Grazia Liguori, Guido Liguori, Antonio Loru, Fabiomassimo Lozzi, Romano Luperini, Silvia Luzzi, Maicol&Mirco, Lucio Manisco, Danilo Maramotti, Fabio Marcelli, Gino Marchitelli, Eugenio Melandri, Lidia Menapace, Magda Mercatali, Maria Grazia Meriggi, Massimo Modonesi, Francesco Moneti, Giorgio Montanini, Giovanna Montella, Lia Francesca Morandini, Raul Mordenti, Roberto Musacchio, Federico Odling, Federico Oliveri,Federico Pacifici, Marco Pantosti, Vera Pegna, Riccardo Petrella, Pina Rosa Piras, Sabika Shah Povia, Alberto Prunetti, Stefania Ragusa, Christian Raimo, Elisabetta Randaccio, Gianfranco Rebucini, Gianluca Riggi, Annamaria Rivera, Annalisa Romani, Maria Letizia Ruello, Mimma Russo, Nino Russo, Giovanni Russo Spena, Arianna Sacerdoti, Carla Salinari, Cesare Salvi, Edoardo Salzano, Antonio Sanna, Angela Scarparo, Marino Severini, Alessandro Simoncini, Ernesto Screpanti, Paolo Sollier, Massimo Spiga, Stefano Taglietti, Angelo Tantaro, Enrico Terrinoni, Mario Tiberi, Stefania Tuzi, Renzo Ulivieri, Pierfrancesco Uva, Fulvio Vassallo Paleologo, Vauro, Guido Viale, Imma Villa, Lello Voce, Annalisa Volpone, Pasquale Voza, Giulia Zoppi.

Per adesioni: maselli.citto@fastwebnet.it

il manifesto,

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Raccolte oltre 40mila firme. Viola Carofalo: "Siamo gli unici che non rischiano di sciogliersi prima delle elezioni"»
Superato l’ultimo ostacolo in un collegio della circoscrizione Sicilia 1, è adesso ufficiale che alle elezioni del 4 marzo ci sarà anche la lista di sinistra Potere al Popolo! Liste e firme vengono consegnate stamattina alle 11.30 nelle corti d’appello, l’annuncio diffuso ieri ai militanti in giro per l’Italia è già di festa: «Portate i moduli, lo spumante, i dolci, le bandiere, le trombette, fate venire le persone da tutta la regione, trasformiamo un atto burocratico in una grande presa di parola collettiva». Servivano poco più di 25 mila firme, ne hanno raccolte in pochi giorni più di 40mila.

Nata a Napoli in un’assemblea del centro sociale Je so’ pazzo la notte successiva al definitivo fallimento delle assemblee del Brancaccio, la proposta di una lista che tenesse assieme movimenti e partiti della sinistra radicale è cresciuta attraverso 150 assemblee territoriali e l’adesione di Rifondazione comunista, Partito comunista italiano, Sinistra anticapitalista e rete Eurostop. Il nome riprende lo slogan con il quale il centro sociale napoletano conclude da tempo si suoi comunicati – richiamo al motto all power to the people del Black panther party – il simbolo è tutto nuovo. «Ce ne avevano proposto uno incredibile che aveva dentro tutto: la bandiera italiana, la parola sinistra, un pugno, una stella e la falce e martello. Uno dentro l’altro, sembrava disegnato da Escher», raccontano i militanti napoletani. Che hanno fatto di testa loro.

L’invito alle assemblee è stato invece quello di scegliere i candidati nelle liste senza votazioni, ma con la discussione. Qualche volta ci si è persino riusciti. «Mentre tutte le forze politiche dal Pd a Liberi e Uguali litigano sulle candidature per spartirsi tra ceti politici le poltrone in palio – dice Viola Carofalo, portavoce che per la legge elettorale è il capo politico della lista, ma che non sarà neanche candidata – mentre i cinque stelle dimostrano ancora una volta la mancanza di democrazia delle parlamentarie, noi, che abbiamo iniziato dal basso e senza mezzi, siamo riusciti in pochissimi giorni a raccogliere le firme e a elaborare le candidature che vengono soprattutto dalle vertenze e dalle lotte del territorio».

Negli elenchi, maggioranza di donne capolista nel proporzionale alla camera, 35 (il 56%) contro 28 uomini (44%). Tra le candidate la partigiana e pacifista Lidia Menapace a Trento, a Verona Patrizia Buffa, impegnata nelle lotte contro le mafie, Stefania Iaccarino nel Lazio, protagonista della vertenza contro Almaviva, Nicoletta Dosio, storica attivista No Tav, capolista nel plurinominale in Piemonte 2. Altri candidati di movimento sono Giovanni Ceraolo che viene dalle lotte per la casa a Livorno e Gianpiero Laurenzano, impiegato di banca impegnato nel Clash city workers, Giuseppe Aragno, professore di storia che correrà a Napoli nel collegio del Vomero dove Renzi ha schierato Paolo Siani. I segretari di Rifondazione Maurizio Acerbo e del Pci Mauro Alboresi sono capolista rispettivamente a Roma e in Emilia Romagna 3. Giorgio Cremaschi in Campania 1.

«Abbiamo scelto i nostri candidati alla luce del sole – dice ancora Viola Carofalo – per condividere con tutti le scelte e le ragioni del programma. Siamo l’unica lista che non rischia di sciogliersi prima ancora di iniziare la campagna elettorale». La soglia di sbarramento del 3% sembra lontanissima, anche se il fatto di essere ostinatamente esclusi da ogni sondaggio autorizza almeno a sognare. «Se andrà male avremo fatto comunque un passo in avanti, messo in contatto realtà di movimento che non si conoscevano, imparato a fare cose che prima non sapevamo fare. E non finisce qui».

Non siamo populisti, ci definiamo popolari: andiamo al sodo delle questioni che ci sembrano centrali per le persone e cioè lavoro, diritti, ambiente e no alle discriminazioni“. Non ha dubbi Viola Carofalo nel definire in un’intervista all’agenzia Dire il movimento Potere al Popolo, di cui è "capo politic2o.

“La scelta dei nostri candidati non sul web ma in assemblea” Spesso si parla alla pancia delle persone – aggiunge -: si fa gioco sul razzismo, sui più bassi istinti. Noi vogliamo parlare alla testa e al cuore delle persone e dire che può esistere un’Italia solidale, più equa, più giusta dove non si venga sfruttati sul lavoro, dove non si discrimini per il colore della pelle, dove non si alimenti l’odio per chi sta peggio di te. Ma dove si cerchi una solidarietà tra persone che vivono condizioni analoghe”. Quindi diversi dai partiti considerati oggi populisti, il Movimento Cinque Stelle, e la Lega Nord.

Sul tema della cittadinanza agli stranieri, avversato dalla destra leghista, Carofalo spiega la posizione di Potere al Popolo. “Le persone che nascono italiane sono italiane, a tutti gli effetti. Nessun uomo deve essere considerato clandestino, tantomeno chi nasce in questo Paese”. Nessuna spinta verso i ‘no euro’, “il tema del referendum non si pone, piuttosto – commenta Carofalo – c’è la questione dei trattati. Se ci chiedessero di poterci esprimere sui trattati saremo favorevoli, intanto perché sarebbe un esercizio di quello che chiamiamo potere o sovranità popolare”.

Il metodo di selezione dei loro candidati è uguale in tutto il Paese: non il web, modus operandi del Movimento 5 Stelle, né le segreterie di partito, come avviene nelle formazioni politiche tradizionali. “Potere al Popolo ha scelto i suoi candidati in Italia nelle assemblee territoriali; ogni territorio sarà rappresentato da chi ne è stato il principale portavoce di lotte e battaglie”, spiega Viola Carofalo.

“I nostri candidati sono principalmente provenienti da realtà di base, da comitati dal basso, da sindacalisti. Uno tra tutti, Giorgio Cremaschi– dice la candidata premier – un nostro candidato e un sindacalista molto attivo e radicale”. La lista di Potere al Popolo sarà nazionale“saremo in tutte le grandi città, da Nord a Sud, e siamo in dirittura d’arrivo quasi dappertutto per la raccolta delle firme utili a presentare la lista. Gli altri avranno nomi eccellenti, grandi appoggi e sponsor. Noi abbiamo la forza di attivisti e militanti che sono stati con noi, ai banchetti, a raccogliere firme”.
“La Sinistra radicale siamo noi”. La necessità da cui partiamo è quella di ricostruire una sinistra radicale: ci sembra che in Italia non ci sia, che si siano persi ragionamenti su questi cruciali come il lavoro, la solidarietà sociale, la difesa dell’ambiente, la lotta alle discriminazioni“.
Si presentano come la vera sinistra radicale, in corsa alle elezioni del 4 marzo, gli esponenti di Potere al Popolo, movimento rappresentato da Viola Carofalo, ricercatrice precaria e candidato premier della formazione. Lavoro e diritti sono i punti centrali del programma di Potere al Popolo, riassunti da Carofalo nel corso di un’intervista all’agenzia Dire.

“Il lavoro deve essere stabile e non precario“, precisa la ricercatrice, secondo cui vanno abolite tutte le riforme approvate dai governi degli ultimi 20 anni “dal Jobs Act alla riforma Fornero, dal pacchetto Treu alle riforme che hanno peggiorato le condizioni dei lavoratori e degli sfruttati di questo Paese”. Al Sud “tutte le contraddizioni che viviamo nel Paese, dalla sanità, al lavoro, alla scuola, si vivono doppiamente. Partiamo dai territori – riflette Carofalo – che da troppo tempo sono stati abbandonati”. E quello che chiede Potere al Popolo è un governo che sia finalmente attento “ai diritti sociali”. “Dalla Buona Scuola ai tagli inflitti alla sanità: bisogna fare marcia indietro – spiega il candidato premier – e andare avanti verso un nuovo Stato sociale in cui tutti abbiano la possibilità di essere curati, di avere accesso a una istruzione adeguata, a una vita degna. Che è quello che non ci è stato dato negli ultimi anni”.

“De Luca se ne frega delle persone”

“De Luca è inqualificabile, non solo per il livello politico ma anche umano. E per noi le biografie delle persone contano: lui è l’incarnazione dell’arroganza della politica, del fregarsene dei bisogni di chi dovrebbe rappresentare”. Questo il giudizio di Carofalo sul governo della Regione Campania, guidata da Vincenzo De Luca.

Un’insufficienza per il governatore Pd; un voto positivo, invece, all’amministrazione retta da Luigi de Magistris nella città di Napoli. “L’amministrazione ha fatto molto su cultura e riscatto della città, poco per le periferie. Ma ci sembra che il voto sia positivo: benché nessuno di noi faccia parte di demA e nonostante ribadiamo di non essere interni a quel percorso – sottolinea la ricercatrice – ci sono delle persone candidate con noi a Napoli espressione di demA”.
E attenzione proprio alle dichiarazioni rilasciate da Luigi de Magistris alla Dire (“Potere al Popolo è l’unica lista che dice qualcosa di maggiormente radicato con il popolo”, ndr): “Se ci apprezza – commenta Carofalo -, visto che è la prima volta che ci candidiamo, in qualsiasi forma e a qualsiasi livello, non è tanto per quello che diciamo quanto per quello che facciamo. Sicuramente ha visto cosa facciamo a Napoli ed è questo modello che vogliamo portare a livello nazionale, mettendo insieme tante forze e realtà dal basso”.

Articolo ripreso dall'agenzia DIRE. qui raggiungibile

Qui potete aprire Il video di Viola Carofalo

il manifesto, 24 gennaio 2018. Ovviamente PaP firma l'appello, ma ricorda che molti dei proponenti (d'Alema, Bersani, e moltissimi altri membri del Pd e dello stessa listaGrasso hanno votato contro la costituzione.

Abbiamo letto l’appello rivolto alle liste elettorali da parte di Felice Besostri e altri costituzionalisti a sottoscrivere un patto che contrasti «ogni ulteriore proposta di riforma che miri a modificare la forma democratica e parlamentare del nostro modello repubblicano» e ogni ulteriore tentativo di «costituzionalizzare principi neoliberisti o limitare la sovranità popolare, i diritti fondamentali delle persone».

Per Potere al Popolo si tratta di un impegno scontato: la nostra è la lista del No sociale al referendum del 4 dicembre, per questo non possiamo non aderire al Patto che pone le condizioni minime per qualunque lista che abbia a cuore la difesa dei diritti. Condizioni minime ma non sufficienti, a nostro avviso, ad assicurare attualmente quei diritti ai lavoratori, alle donne, agli studenti, ai pensionati, ai richiedenti asilo, ai senza casa, ai malati, ai precari, ai disoccupati, agli abitanti delle periferie.

L’appello infatti chiede di non violare la Costituzione «ulteriormente», visto che le violazioni negli ultimi anni sono state ripetute, persino da parte di chi oggi aderisce al Patto. Molti tra i candidati più in vista di LeU – firmatari dell’appello – come Bersani e D’Alema hanno deliberatamente modificato la Costituzione che oggi si impegnano a difendere.

Lo hanno fatto insieme a Berlusconi riscrivendo l’articolo 81 e inserendo l’obbligo del pareggio di bilancio imposto dalle oligarchie europee, votando la riforma Fornero, il Jobs Act e le altre leggi che hanno reso la Costituzione lettera morta.

Il pareggio di bilancio ha obbligato gli enti locali a tagliare drasticamente la spesa destinata ai servizi sociali fondamentali: sanità, edilizia popolare, trasporto pubblico, istruzione, solo per citarne alcuni. Oggi cinque milioni di italiani sono in povertà assoluta, dieci in povertà relativa, undici rinunciano alle cure mediche. Comprendiamo che chi in passato ha tradito il ripudio della guerra, bombardando gli inermi e votando a favore delle finanziarie che ogni anno hanno aumentato le spese militari, non possa oggi promettere la pace né sottrarsi ai vincoli della Nato, che chiede ai paesi aderenti di destinare il due per cento del Pil alle spese militari.

Potere al Popolo invece si batterà per garantire a tutte e tutti l’effettiva applicazione dei principi fondamentali della Costituzione, a cancellare l’obbligo del pareggio di bilancio, a contrastare le misure di austerity imposte dai trattati europei. Ci impegniamo a cancellare le leggi che hanno alzato muri tra le persone e limitato i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, degli omosessuali, dei richiedenti asilo. Aderiamo, con l’auspicio che la Costituzione, patrimonio di tutti i cittadini e non di una o più liste elettorali, possa in futuro essere modificata non per negare i diritti ma per estenderli alla maggioranza della popolazione.

Potere al popolo si opporrà a ogni tentativo di fare della prossima una «legislatura costituente»: un parlamento eletto col Rosatellum non ha la legittimità di toccare la Costituzione. Siamo l’unica lista che si pronuncia per l’approvazione di una legge elettorale proporzionale finalmente costituzionale. Soprattutto, continueremo a difendere la Costituzione non tanto firmando appelli ma sostenendo e prendendo parte alle lotte di coloro che si battono nelle piazze e nei luoghi di lavoro per tutelare e conquistare i diritti costituzionali finora negati.

Per vedere e sentire: Viola Carofalo è il “capo politico” di Potere al Popolo

Ci sono sindacalisti come Giorgio Cremaschi (ex Fiom) e politici come Maurizio Acerbo (Rifondazione comunista). Un’ex staffetta partigiana ed ex parlamentare come Lidia Menapace e la pasionaria dei No Tav Nicoletta Dosio. Ma anche sostenitori non candidati come l’allenatore Renzo Ulivieri e Haidi Giuliani, madre di Carlo, il ragazzo ucciso al G8 di Genova.

Tutti a pugno chiuso e con una stella rossa da seguire, quella di “Potere al popolo”, nuova forza politica nata a novembre sulle ceneri del movimento del Teatro Brancaccio (Roma), che si presenta alle elezioni da outsider e fuori dalle alleanze, raccolta di firme permettendo (“ma siamo già a buon punto”, dicono).

Un movimento dal basso, che viene dal mondo dei lavoratori precari, dei disoccupati, dei sindacati di base e dei centri sociali. Ed è proprio da un centro sociale napoletano – Je so pazzo, un ex ospedale psichiatrico giudiziario occupato nel quartiere Materdei – che arriva la sua portavoce, Viola Carofalo, 37enne ricercatrice precaria in filosofia all’Università Orientale. “Vogliamo ridare dignità alla parola sinistra perché di sinistra in Italia c’è bisogno. Io mi definisco comunista, ma non tutti quelli che hanno aderito lo sono: non vogliamo ingessarci dentro un’etichetta o un’ideologia”, spiega Carofalo, che però non sarà candidata.

“Potere al popolo” nasce, appunto, dal fallimento dell’assemblea del Brancaccio: “Tomaso Montanari è stato coerente: quando ha visto che quel movimento non aveva ossigeno, si è fatto da parte. Anna Falcone, invece, mi pare sia candidata per LeU. Forse era quello che voleva fin dall’inizio…”, continua Carofalo.

Il 3% che garantirebbe l’entrata in Parlamento a stare alle ultime affluenze è fissato a circa un milione di voti: un’impresa quasi impossibile. Ma se dovesse riuscire il miracolo, poi che succede? “Vogliamo entrare in Parlamento per far sentire la nostra voce, portare nel Palazzo le lotte dal basso. Ma escludiamo a priori qualsiasi alleanza. Il Movimento 5 Stelle è populista e non è di sinistra. LeU, invece, è un Pd 2.0: non c’è differenza, vengono tutti dal partito di Renzi e lì vogliono tornare, come dimostrano le parole di D’Alema”, sostiene la portavoce di Potere al popolo.

Ma Renzi e Berlusconi pari sono? “Non sono la stessa cosa, ma hanno messo in campo politiche in assoluta continuità e su alcune temi Renzi è stato pure peggio: sul lavoro, con il Jobs act, e sull’immigrazione. La Minniti-Orlando è una legge fascista”, dice Carofalo.

Uguaglianza sociale, lavoro, welfare, parità di genere (nelle liste le donne sono circa il 40%), difesa dell’ambiente, lotta per i deboli, antifascismo sono le parole d’ordine. Nel loro dna i movimenti antagonisti, la lotta per la casa, l’America Latina, Podemos. Che Guevara e il subcomandante Marcos. “Il mio idolo però è Bertolt Brecht, che ha saputo mettere in poesia e letteratura discorsi altissimi e complessi”, afferma Carofalo.

Che poi guarda verso destra. “CasaPound è un movimento fascista che andrebbe messo fuori legge. La Lega è più subdola, ma poi, come nel Dottor Stranamore, la destra che è in loro viene fuori, come si è visto con le dichiarazioni di Fontana”. Con Sinistra Italiana finita nelle spire di Grasso, Bersani e D’Alema, un po’ di spazio elettorale gauchiste davanti c’è, specie pescando tra i giovani diretti verso l’astensione. Alcuni sondaggi li danno attorno all’1% già ora: se Renzi deve preoccuparsi di Grasso, insomma, Grasso deve preoccuparsi di Carofalo & C. Power to the people, cantava John Lennon. Ma forse loro preferiscono Adelante, compañeros di Carlos Puebla

Qui apri il link al discorso di Viola Carofalo, portavoce di "Potere al popolo"

la Stampa

Le citazioni più frequenti sono di Marx, Lenin, Fidel Castro, Hugo Chavez, Antonio Gramsci, Salvador Allende. L’obiettivo dichiarato è la “liquefazione delle tolleranze morali verso i governanti”. Sembra complicato, ma è quel “punto di rottura” in cui le masse di proletari e sfruttati si ribellano fino a sovvertire lo status quo.

Parliamo di Potere al popolo, la lista di ultrasinistra che nasce dalle ceneri del movimento del Teatro Brancaccio dello storico dell’arte Tomaso Montanari: una lista che parte da un video-appello notturno di un centro sociale occupato di Napoli “Je so pazzo”, nato nell’ex ospedale psichiatrico del quartiere Materdei. A novembre l’appello su Facebook, pochi giorni dopo un’affollata assemblea a Roma. Il capo politico è stato individuato in Viola Carofalo, 37 anni, assegnista in Filosofia all’Orientale di Napoli, una vita nei movimenti antagonisti, una che già alla parola “capo” inorridisce.

La lista sta nascendo da assemblee territoriali, mette insieme No Tav, No Triv, No Mose e tutto quello che sa di ribelle all’ordine costituito. Una lista che guarda al mutualismo di Podemos e della prima Syriza (prima che Alexis Tsipras chinasse il capo all’Europa), e ha ottimi rapporti anche con i francesi di France Insoumise guidata da Jean-Luc Melenchon, che ha mandato un rappresentante all’ultima assemblea romana.

Il traguardo del 3% resta un miraggio, ma il tentativo è quello di ricostruire delle reti dal basso e rosicchiare voti al M5S, soprattutto al Sud, sui cavalli di battaglie dell’ambientalismo e del no alle grandi opere. Puntano sui delusi del grillismo che tornerebbero a votare un partito di sinistra radicale invece di affollare le fila dell’astensionismo. L’altro bacino possibile di voti è quello di Liberi e uguali, considerati una sorta di “Pd-2”, un partito “ambiguo”. “Molti di loro hanno votato il fiscal compact e la legge Fornero”, una delle accuse. Carofalo non usa gira di parole verso i big di Liberi e uguali: “D’Alema, Speranza, Bersani sono i responsabili del collasso della sinistra e dell’arretramento delle nostre condizioni di vita, odiati da tutti». Qualche timido tentativo di contatto c’è stato nei mesi scorsi, sponsorizzato da alcuni ex Sel confluiti sotto le insegne di Pietro Grasso. Ma la scelta come leader dell’ex pm ha contribuito alla rottura: Pap (l’acronimo usato dagli attivisti di Potere al popolo) contrasta ogni logica securitaria, propone l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. Non vuole magistrati al potere.

Al di là della partecipazione spontanea, che pure c’è, l’ossatura arriva dalla vecchia Rifondazione comunista, che ha totalizzato circa 60mila donazioni con il 2 per mille, oltre 600mila euro. Un risultato record per una forza che da tempo è fuori dal Parlamento. Rifondazione resta un po’ defilata, per scelta: nel simbolo non c’è traccia della falce e martello rimasti in custodia dopo la fine del Pci. Al loro posto una stella rossa. Il segretario del Prc Maurizio Acerbo sarà uno dei candidati, mentre sono stati posti paletti invalicabili verso chi è stato già eletto in qualche istituzione: stop dunque a Paolo Ferrero ma anche a Paolo Cacciari, fratello antagonista dell’ex sindaco di Venezia. E tuttavia alle assemblee si sono viste vecchie glorie della sinistra come Franco Turigliatto (il senatore che voleva far cadere Prodi), Giorgio Cremaschi, e poi Haidi Giuliani, l’eurodeputata della Lista Tsipras Eleonora Forenza. Ci sono stati endorsment di peso come quello della ex staffetta partigiana Lidia Menapace, ma anche di sportivi come il tecnico Renzo Ulivieri e del cantautore e autore di “Contessa” Paolo Pietrangeli.

Schierati i sindacalisti di base dell’Ubs, si attende una lettera -appello firmata da alcuni dirigenti della Cgil. Col sindaco di Napoli Luigi De Magistris un rapporto dialettico. “Lo sosteniamo, ma non a scatola chiusa”, spiega Carofalo. Che lo invita, la prossima volta, a “candidarsi con noi”. Per il momento, a Napoli correrà con Pap lo storico Giuseppe Aragno, molto vicino al sindaco di Napoli. Ma i punti di riferimento di Pap sono soprattutto stranieri. E’ all’estero che i nuovi marxisti italiani cercano le ricette per “riannodare il dialogo con le masse popolari”. Come? “Camminare domandando”, come dicono gli zapatisti. E così facendo abbiamo imparato tantissimo”.

il manifestoil manifesto è molto avaro di spazio. Ragione di più per appoggiare quella lista

Potere al popolo! giovedì prossimo sbarca nella sala stampa della camera: la lista lanciata dal video-appello dell’Ex Opg Je so’ pazzo presenterà candidati e programma per le elezioni politiche del 4 marzo, frutto dell’elaborazione di oltre 300 assemblee territoriali, e il capo politico, Viola Carofalo. Nella mini bio Viola si definisce «lavoratrice precaria con un assegno di ricerca dell’Università Orientale, dopo aver conseguito due dottorati in filosofia». La location è stata scelta con un obiettivo: «Portiamo alla camera le istanze di tutti coloro che hanno subito le decisioni politiche degli ultimi anni ma che si sono adoperati per far fronte alla crisi e all’impoverimento dilagante».

Domenica scorsa, a Napoli, gli attivisti hanno riempito il cinema Modernissimo per la presentazione dei candidati.

Le storie personali raccontano la piattaforma politica della lista. C’erano volti noti della sinistra come l’ex leader della Fiom Giorgio Cremaschi, l’avvocato Elena Coccia e lo storico Giuseppe Aragno accanto a una nuova generazione di protagonisti delle lotte. Chiara Capretti è uno dei motori dell’Ex Opg (dove l’ambulatorio registra più di 1.500 visite all’anno di napoletani e migranti), tra i fondatori della rete di Solidarietà popolare per l’accoglienza dei senza fissa dimora, rete che coordina associazioni impegnate sui temi della disuguaglianza sociale, della povertà e diritti dei detenuti.
Barbara Pierro è facile incontrarla a Scampia: avvocata, nel suo quartiere lavora con l’associazione «Chi rom e… chi no» perché ci siano condizioni giuste di vita per tutti attraverso processi di emancipazione e riappropriazione dello spazio pubblico. Salvatore Cosentino è laureato in filosofia e fa il fonico, è uno di quei lavoratori dello spettacolo che subiscono un mercato del lavoro sempre più precario e a basso costo. Anche Salvatore è facile da intercettare tra chi, a Bagnoli, si batte contro la speculazione e per la bonifica dell’ex area Italsider.

Sul palco domenica è salita anche Hazel Ndulue per spiegare che «una donna di colore non è l’oggetto delle passioni maschiliste né il colore della pelle ci identifica automaticamente come stranieri». Hazel non ha i 25 anni necessari per candidarsi ma il suo impegno a Castel Volturno è parte del lavoro di Potere al popolo! sui territori.

Sul piano nazionale, saranno in lista Lidia Menapace e Nicoletta Dosio (attivista No Tav). E poi c’è Ilaria Mugnai, 29 anni e un contratto come consulente informatico, le tasse da pagare alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, occupante casa, impegnata con i Clash city workers e parte delle Brigate di solidarietà attiva, in Abruzzo durante i giorni del terremoto.Stefania Iaccarino è invece una di quei lavoratori Almaviva della sede di Roma che si sono rifiutati di firmare l’accordo accettato dai sindacati e poi hanno fatto ricorso contro i licenziamenti, ottenendo il reintegro.

C’è anche un pezzo del mondo del calcio che appoggia Potere al popolo! L’allenatore Renzo Ulivieri ha postato su Facebook: «Ho provato a spiegarmelo. Anche razionalmente. Sto con Liberi e uguali, il cosiddetto Pd2, perché più forza prende più riuscirà a spostare a sinistra il Pd1. Solo che per me la politica è passione. Mentre facevo questi pensieri emozione zero. Ho scelto Potere al popolo! e sarò lì. La scelta riguarda il tipo di società nella quale vogliamo vivere. O si è di sinistra o non lo si è».

Partecipa alle assemblee di Vercelli Paolo Sollier: nato in Val di Susa, figlio di operai, era il centrocampista comunista del Perugia degli anni ’70 che militava in Avanguardia Operaia e salutava la tifoseria con il pugno chiuso.

Assemblea Popolare Democrazia Uguaglianza,

Si può fare politica per cambiare il mondo. O si può fare politica per gestire lo stato delle cose.

Nel primo caso si parte da un tentativo di leggerlo, il mondo. Di capirlo. E di capire cosa fare, e cosa non fare, per cambiarlo. Nel secondo caso si parte dalla geometria delle alleanze, dalla scelta di un leader mediaticamente efficace, da una strategia sì, ma di marketing. Nel primo caso si ha in mente una strada, e la si percorre con determinazione e coerenza. Nel secondo caso si vive alla giornata, si risponde agli appelli dei giornali, si tratta su tutto.

È possibile che la prima via sia velleitaria, astratta, disincarnata. È sicuro che la seconda via finisce per lasciare le cose come sono. La prima via di solito non giova affatto a chi la percorre. La seconda spesso giova soltanto a chi la sceglie e la pratica.

Il Brancaccio è stato un tentativo di fare politica nel primo modo. Secondo uno schema chiaro: vedere, giudicare, agire. Lo scorso 18 giugno abbiamo detto cosa pensavamo di venticinque anni di centrosinistra, e non solo degli ultimi tre della sua fase finale, quella renziana. Poi abbiamo provato a spiegare perché quella strada andava lasciata: per sempre, senza esitazioni.

Con un esempio brutale: non si ferma la destra votando per Minniti, che fa la politica della destra, e la fa in un governo che difende gli interessi dei pochi contro quello dei molti. Perché se oggi Berlusconi è risorto e la Lega è alle porte, è per quello che ha fatto e per quello che non ha fatto il Pd: e dunque allearsi con il Pd per fermare la destra è come mettere la testa sul ceppo per fermare il boia.

E infine abbiamo cercato di mostrare in che direzione avremmo voluto agire: scrivendo, collettivamente, un progetto di Paese, in cento assemblee. Un progetto una cui prima, parzialissima, bozza è ora a disposizione di tutti.

Leggendola, si capisce perché chi si riconosce nel percorso del Brancaccio non potrebbe mai allearsi con il Pd: per una ragione disarmantemente semplice, e cioè perché si va in direzioni diverse. Opposte.

Se il Brancaccio non è entrato in Liberi e Uguali non è solo perché non avrebbe avuto molto da dire a una somma di partiti già esistenti, sommati in una operazione di marketing elettorale blindata contro ogni dissenso, e con un leader scelto da dentro il Palazzo.

Ma anche perché non era affatto chiara la sua direzione: e non era chiara perché non si partiva da una analisi approfondita del reale. Qual è, infatti, la visione di Liberi e Uguali, che può presentarsi lanciando nello stesso giorno la proposta (sacrosanta) di abolire le tasse universitarie e quella di tenersi il contratto a tutele crescenti?

Poco importa se questa ultima posizione sarà corretta: il punto è la fragilità, per non dire l'assenza, di una visione chiara e condivisa. Del resto, il giudizio di Mdp e Possibile sul Centrosinistra era profondamente diverso da quello del Brancaccio. E Sinistra Italiana, che invece condivideva quel progetto, ha fatto una scelta pragmatica, le cui ragioni nobili sono state illustrate da Luciana Castellina sul Manifesto.

Ora i nodi vengono già al pettine. La possibilità di un'alleanza con il Pd in Lazio e in Lombardia è strettamente legata – come scrive lucidamente Stefano Folli – al "futuro del centrosinistra quando si tratterà comunque di sedersi intorno a un tavolo e discutere, specie se il risultato del 4 marzo dovesse imporre una riflessione a tutto l'arcipelago della Sinistra". Tradotto: se ci si allea oggi con il Pd, anche solo in Lazio, questo lascia aperta una porta all'alleanza nazionale per un governo "di responsabilità". Perché è ovvio che le stesse sirene che oggi chiamano all'unità contro le destre per due regioni, lo faranno a maggior ragione per tutto il Paese dopo il 4 marzo.

Capisco tutto, e in primo luogo capisco profondamente il travaglio di Sinistra Italiana, ma credo che alla dirigenza di Liberi e Uguali, alla direzione di Repubblica, a Susanna Camusso e a molti altri sfugga una cosa. Che è questa: chiamare al voto utile col Pd contro le destre significa preparare solo un trionfo ancora maggiore delle destre. Continuare ad appoggiare il sistema (questo sistema insalvabile e imperdonabilmente ingiusto) significa dare ragione a chi dice che il sistema si può solo abbattere.

Per questo alla grande manifestazione del 16 dicembre dei poveri e dei migranti non c'erano bandiere della Cgil, ma solo dell'Usb. Per questo i sommersi, gli ultimi, i giovani del Sud o non votano, o votano per i 5 Stelle: cioè per chi, di sicuro, non sarà poi alleato del Pd, sentito, perfettamente a ragione, come il garante dell'orrendo stato delle cose.

Io li capisco, profondamente. È quello il popolo che dovrebbe stare a cuore alla Sinistra. È con quel popolo che dovrebbe stare chi fa politica per cambiare il mondo.

L'edizione integrale, rieditata da

eddyburg, del documento dell'Assemblea Popolare per la Democrazia e l'Uguaglianza nel quale si riassumono i contenuti emersi delle piazze e città d'Italia dopo l'Assemblea del Brancaccio. In calce il link al testo .pdf

PER LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’È,
PER INVERTIRE LA ROTTA DELL’ITALIA,
PER ROVESCIARE IL TAVOLO DELLE DISEGUAGLIANZE.

Gennaio 2018

Avvertenza.
Questo testo è un primo tentativo di sintetizzare e restituire a tutti le idee, i progetti, le aspirazioni, le proposte emerse nelle cento assemblee “del Brancaccio” che hanno attraversato l’Italia durante l’estate e l’autunno del 2017 (e che si possono tutte trovare sul
sito Assemblea Popolare DemocraziaUguaglianza. Non è un programma, non è omogeneo, non è compiuto. È un abbozzo, un inizio, un insieme di schede. Una sorta di cartello indicatore: che segna la direzione da imboccare se davvero vogliamo cambiare questo Paese.
La speranza è che tutti coloro che hanno creduto nel percorso “per la democrazia e l’uguaglianza” possano portare queste idee nelle liste che appoggiano in vista delle elezioni del prossimo 4 marzo. O anche semplicemente utilizzarle come pietra di paragone per giudicare i programmi elettorali. O come bussola per continuare a cercare la Sinistra che ancora non c’è. Quella Sinistra che, dal 5 marzo 2018, bisognerà̀ ricominciare a costruire.
A questo tentativo hanno collaborato, in modi e misure diverse: Andrea Baranes, Luca Benci, Piero Bevilacqua, Ilaria Boniburini, Alberto Campailla, Vezio De Lucia, Giuseppe De Marzo, Anna Falcone, Maria Pia Guermandi, Federico Martelloni, Filippo Miraglia, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Livio Pepino, Gianni Principe, Christian Raimo, Andrea Ranieri, Edoardo Salzano, Francesco Sylos Labini.


Indice delle schede

1.La sinistra che ancora non c’é
4. iniziamo dalle donne.
10 il lavoro.
12 il reddito di dignità.
15 la democrazia.
16 centro e periferia.
18 per invertire la rotta in economia.
24 fisco.
27 salute.
29 la scuola.
31 la ricerca e l’universita’.
35 la casa e la casa comune: territorio e patrimonio culturale.
1. LA SINISTRA CHE ANCORA NON C’É

Il percorso iniziato con l’Assemblea del Brancaccio aveva, come compito primario, quello di colmare il fossato che ancora oggi esiste tra la politica istituzionale (cioè quella del sistema dei partiti e presente nelle istituzioni democratiche) e gli attori sociali che fanno politica nei contesti di vita e di lavoro delle persone. Le associazioni sindacali e culturali, quelle grandi e strutturate e quelle che si muovono su un obiettivo specifico – l’accoglienza dei migranti, il contrasto alla povertà, la cura del territorio – e su un contesto territoriale limitato, ma che sempre più spesso sono state capaci, partendo dalla concretezza dei problemi che affrontano, di produrre uno sguardo lungo, più lungo di quello della politica- istituzione, sui fenomeni del nostro tempo.

Abbiamo pensato che le elezioni politiche imminenti avrebbero potuto essere un terreno privilegiato per avviare questo percorso. Costruendo le liste elettorali attraverso un metodo partecipato e democratico, in cui – assieme, senza rendite di posizione e canali privilegiati – i militanti dei partiti politici di sinistra, alternativi ai tre poli esistenti, e i protagonisti del civismo attivo decidessero in maniera trasparente i programmi, le candidature, e la leadership collettiva che dovesse impersonarli. Costruendo dal basso quella unità di tutte le forze di sinistra che dall’alto sembrava difficile realizzare.

Non è andata così. Le elezioni si sono rivelate, una volta di più, il momento peggiore per progettare e realizzare il reinsediamento sociale della politica della sinistra. Nei partiti, in quale più e in quale meno, ha prevalso una logica di autoconservazione e di affermazione del proprio primato, e la società̀ civile attiva ha faticato a mobilitarsi per imporre ai partiti, a livello nazionale, quel metodo trasparente e democratico che aveva dati buona prova di sé, con buoni risultati elettorali, in tante elezioni amministrative recenti.

Le liste che hanno trovato impulso dalla Assemblea del Brancaccio sono dunque due: Liberi e Uguali e Potere al popolo. E se una parte del popolo della Sinistra voterà per la forza antisistema dei 5 Stelle, altri ancora non parteciperanno al voto. Il rischio che avvertiamo è che questa rottura, derivante in gran parte dalla storia passata delle diverse formazioni della sinistra, più o meno alternativa, provochi una rottura nel popolo che ci proponevamo di tenere insieme. Da una parte il sociale strutturato e istituzionalizzato, e dall’altra il conflitto sociale e culturale sorto fuori e talvolta contro le regole e i contenuti dei grandi contenitori tradizionali. Da una parte il popolo che ha dato vita alla grande manifestazione della CGIL sulle pensioni, e dall’altra quella dei diversi movimenti che hanno unito i migranti e il sindacalismo di base nella manifestazione romana del 16 dicembre.

Un unico popolo

Ma questo è un unico popolo: il popolo che riteniamo essenziale tenere insieme, se davvero vogliamo ricostruire la sinistra nel nostro Paese. Un popolo che era riuscito a stare insieme nelle tante coalizioni civiche a livello territoriale: mentre la coalizione civica nazionale non è decollata.

Tuttavia, le più di cento assemblee che nei territori si sono sviluppate hanno dimostrato che questo incontro, quando avviene, produce una straordinaria ricchezza di idee e di proposte. È questa ricchezza che vogliamo restituire.

Ci sono qui, in questo embrione di programma, elementi su cui invitiamo a riflettere: e che intendiamo discutere con tutti quelli che hanno partecipato alla sua elaborazione, e con le forze che si presenteranno alle elezioni. Ma queste istanze vanno molto oltre la stessa scadenza elettorale. Il cambiamento radicale che la situazione richiede, può funzionare se vede come protagonisti le persone impegnate nel lavoro sociale e culturale, se serve di orientamento e trae alimento dai conflitti e dalle pratiche sociali che avvengono nei contesti di vita e di lavoro. Per una politica che non si limiti a chiedere la delega, ma si metta al servizio di quanti cercano di praticare la democrazia di ogni giorno.

Non è una pura petizione di principio. La democrazia non delegata è la condizione necessaria per affrontare una crisi che è insieme economica, sociale, ambientale, e che nel suo insieme dà luogo a quella che papa Francesco ha definito come “bancarotta dell’umanità̀”. E che non è risolvibile senza la mobilitazione attiva della maggioranza delle persone, comprese quelle che non vanno più a votare perché si son stancate di un rituale che fa del voto un semplice bene di consumo individuale, sganciato dai conflitti e dai reali processi di trasformazione che riguardano la vita reale delle persone.

Una forza di sinistra è tale se pensa la sua presenza nelle istituzioni – al governo come all’opposizione – come un mezzo per ampliare i processi di partecipazione e di autogoverno dei cittadini, se si pensa non come il vertice della piramide, ma come il nodo di una rete con tutti i soggetti che fanno politica fuori dai confini delle istituzioni, che praticano con passione ed intelligenza l’utopia del quotidiano.

Del resto, hanno avuto questa caratteristica i due più grandi movimenti a cavallo tra i due millenni: quello per la giustizia ambientale e il femminismo. Entrambi capaci di coniugare la capacità di porsi obiettivi di politica globale, e quella di praticare nel quotidiano nuove modalità di relazione delle persone, nuovi stili di vita: quel “buon vivere” che è l’alternativa più radicale al consumismo individualista e alla riduzione dell’uomo e dei suoi diritti alla sfera economica e alla tirannia del mercato. La lotta per l’uguaglianza e quella per il lavoro, come quella per la pace nel mondo acquistano significato se si collegano alla lotta contro il riscaldamento climatico che sta mettendo in discussione la stessa sopravvivenza del genere umano sul pianeta. La sfida cruciale è quella di unire la lotta per l’uguaglianza al riconoscimento delle diversità, che è la cifra fondamentale del movimento delle donne.

Le migrazioni, le guerre, il riscaldamento climatico ci impongono infatti un mutamento radicale della nostra stessa idea di sviluppo economico, e dei nostri stili di vita.

Migliaia di persone sono morte, affogate nel Mediterraneo, perché́ il nostro benessere era stato pagato da un meccanismo che, attraverso le varie fasi dello sfruttamento delle risorse altrui, aveva trasformato le loro regioni in inferni, dai quali tentavano di scappare.

La morte nei nostri mari, a pochi passi da noi, di quelle persone ha posto la domanda del perchè fuggivano sapendo dei grandissimi rischi da affrontare. La risposta ha fatto comprendere, a coloro che se la sono posta, che il prezzo del nostro benessere era stato pagato con l’impoverimento dei popoli di cui avevamo rubato le risorse: a cominciare dagli uomini resi schiavi agli albori del colonialismo, per proseguire con l’estrazione dal suolo dei loro minerali e del loro petrolio, per proseguire ancora con la sostituzione delle nostre colture industriali ai loro regimi alimentari, con la distruzione delle loro culture e delle loro lingue, con la sostituzione del nostro imperialismo ai loro poteri, delle nostre lingue alle loro. È la truffa della parola “sviluppo” utilizzata per giustificare lo sfruttamento di popoli e risorse situati su territori lontani, in nome di una cultura superiore, più “sviluppata”.

Un'altra idea di sviluppo

Sviluppo non significava aumento della nostra capacità di ascoltare e comprendere gli altri, qualunque lingua essi adoperassero, utilizzando insieme cervello e cuore: significava solo aumento della produzione e consumo di merci, aumento della ricchezza di chi produceva e induceva a consumare merci sempre più inutili , sacrificando per una merce inutile ma fonte di maggior ricchezza il produttore a un bene che veniva distrutto (un bosco antico per qualche tonnellata di legname, una città storica per una marea di turisti, un paesaggio di struggente bellezza per una selva di palazzoni o una marea di villette).

Questo sviluppo, da un obiettivo è diventato una religione, una credenza cui tutti si inchinano obbedienti. In nome di questo sviluppo abbiamo invaso, saccheggiato, distrutto altre regioni e altri popoli, abbiamo trasformato paradisi in inferni da cui fuggire. E alla fine del ciclo abbiamo trasformato i fuggitivi da nostri simili in cerca di salvezza in nemici da abbattere.

Il primo passo che dobbiamo dunque compiere è diventare consapevoli del fatto che la miseria e la disperazione degli inferni del mondo sono fortemente dipendenti dalle decisioni prese nel nostro mondo – e dalla credenza dello “sviluppo” che abbiamo accettato e praticato. I passi successivi si chiamano accoglienza, cittadinanza e una politica estera profondamente diversa.

Accoglienza: i migranti vanno accolti e aiutati a mettersi in salvo, costruendo canali protetti per chi vuole fuggire, sconfiggendo le azioni malavitose che si generano attorno alla domanda di fuga. E non solo tragitti organizzati fisicamente con vettori adeguati, ma politiche di assistenza sanitaria e sociale, alle quali l’Europa deve contribuire a dare il suo sostegno.

Cittadinanza: non assimilazione e omogeneizzazione ma riconoscimento agli stranieri degli stessi diritti e doveri degli italiani, nel rispetto delle differenze culturali e religiose. Significa predisporci noi stessi a diventare diversi da quello che siamo: di diventare noi stessi meticci (se già non lo siamo).

Politica estera: una politica indipendente e incernierata sulla pace e su aiuti umanitari genuini, non legati a meccanismi di sfruttamento di risorse locali, favoreggiamento di interessi economici nazionali, o ricatti politici.

E poi dobbiamo comprendere che esiste una stretta correlazione tra il modello di sviluppo dominante, l’impoverimento economico e sociale della nostra società, le devastazioni ambientali entro e fuori i nostri confini, e i flussi migratori indotti provenienti dai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce gli effetti negativi di questo sviluppo sono le persone più povere, fragili e molto spesso coloro che meno hanno contribuito a provocarli.

La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra è stata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni, il concetto di sviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori (senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato le politiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altre concezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.

Nei decenni successivi c’è stata una progressiva sovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forte riduzione dei significati complessi e che il termine comprende.

La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginario che lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito, anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte.

Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta caratterizzato da profonde diseguaglianze socio-economiche, in cui lo sfruttamento delle risorse naturali e la protezione dei capitali e dei profitti dei grandi investitori sta provocando espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti da un numero sempre più consistente di aree, e sta progressivamente deteriorando l’ambiente fisico, sociale e culturale in cui viviamo.

Occorre superare il paradigma dello sviluppo e dell’infinita e indefinita produzione di merci, poiché è una produzione indipendente da ogni valutazione delle loro qualità intrinseche in funzione del miglioramento dell’uomo e della società̀. L’economia “data”, (vogliamo alludere con questo termine al fatto che questa non è né l’unica economia storicamente esistita né l’unica possibile), va radicalmente trasformata. Due paradigmi a cui appellarci, per esplorare, indagare, studiare e sperimentare un nuovo sistema socio-economico, sono quello dei “beni comuni” e della “città come bene comune”.

Per cominciare, una nuova visione del mondo e dell’economia, radicalmente diversa da quella nel cui ambito viviamo da troppi secoli.

Non è uno sforzo né semplice né breve, ma se la distanza tra il mondo attuale e quello che vogliamo costruire è grande, grande, determinato e costante dovrà essere il nostro impegno.

Occorre anche essere pronti a superare l’eurocentrismo, che ha prodotto una sorta di inamidatura dei modi di vivere, produrre, consumare, rapportarsi agli altri. In questo senso, l’ondata immigratoria può costituire una risorsa e un’opportunità di rinnovamento della civiltà europea, nord-atlantica e globale. La globalizzazione, se intesa in questo senso di commistione, condivisione, confronto, dialogo e sintesi (al plurale) di modi di vivere e concepire diversi, diventa un’occasione di innovazione ed emancipazione.

Se assumiamo il conflitto sociale, la partecipazione alle decisioni e l’auto-organizzazione come i principi fondamentali della nuova politica, la città e il territorio e le sue trasformazioni sono il terreno fondamentale dell’iniziativa politica: allora, conoscere le regole che le governano e pensare alle nuove regole possibili diventa la priorità. E sulle città si è sviluppata gran parte delle discussioni nelle assemblee territoriali che si richiamano al Brancaccio e di cui proviamo a dare conto in questa bozza programmatica: ancora assai acerba, squilibrata, piena di lacune e di limiti. Ma che va intesa come un primo frutto di un intenso lavoro comune: che non intendiamo abbandonare.

4. INIZIAMO DALLE DONNE

Sono le donne ad avere le parole del cambiamento. Sono loro a muoversi, a trovare le forme per opporsi a un potere sempre più reazionario, violento, e nello stesso tempo inafferrabile, insomma il neocapitalismo contemporaneo. È successo in Polonia, nel settembre 2016, con la manifestazione del “lunedì nero”, giorno in cui lo sciopero delle donne da qualunque forma di lavoro, compreso il portare i bambini a scuola, ha trascinato tutto il paese in piazza contro il governo, contro una legge che voleva proibire la già limitata libertà di aborto. E in questi mesi sono le donne a guidare l’opposizione a un governo sempre più duro. È successo negli Usa. Il 21 gennaio 2017 la Marcia della donne ha riempito le strade della grandi città degli Stati Uniti, contro il neopresidente Trump, con in testa i pussy hat, cappellini fucsia, colore che è diventato il simbolo del movimento. Succede in America Latina, continente leader contro la violenza sulle donne.

NonUnaDiMeno è la sigla che si è estesa a livello internazionale. In Italia dal 2016 il movimento è tornato in piazza. Con forza, con rabbia, con gioia, con determinazione. Nelle manifestazioni contro la violenza, nell’8 marzo che a livello internazionale è stato rivitalizzato come giornata di lotta e di sciopero, non come la festa tra amiche in cui era stato relegato negli ultimi anni. In un mescolamento di generazioni, dalle ragazze delle scuole medie alle nonne, in una vasta presenza di esperienze e di sigle diverse, dalle lavoratrici ai sindacati alle studenti alle ricercatrici precarie, a chi insegue una pensione che si allontana sempre di più, in un ampia gamma di obiettivi, dal piano antiviolenza alla lotta alla precarietà, alla consapevolezza che la cura, l’antica gabbia in cui venivano rinchiuse le donne, è una risorsa attiva di cambiamento per tutta la società. Un movimento che crea connessioni inedite, preziose in questo momento di passaggio, di necessaria ridefinizione delle identità e degli obiettivi.

Tra i primi obiettivi da raccogliere la lotta contro la violenza. Le recenti vicende che si possono riassumere come “caso Weinstein”, hanno messo sotto i riflettori che la violenza contro le donne è estesa in tutti gli aspetti della vita, dalla casa alla strada, al lavoro. Che si tratta di una forma del potere. Le misure di prevenzione e contrasto alle molestie e alla violenza di genere vanno rafforzate, sostenute con investimenti e, soprattutto, con un approfondimento del lavoro culturale ed educativo, per smantellare le basi della diffusa mentalità sessista. Così come i centri antiviolenza e le case rifugio devono trovare forme continuative e costanti di finanziamento e rafforzamento della loro rete, in modo da coprire la domanda di aiuto e assistenza sull’intero territorio nazionale. Essenziale, inoltre, è la garanzia di una giustizia rapida e certa nei procedimenti giudiziari in materia, che garantiscano, prima durante e dopo la loro celebrazione una reale protezione delle vittime di violenza da vendette e reiterazione delle condotte criminose. Molti femminicidi sono il risultato di storie di violenza ignorate o sottovalutate. Non deve più accadere e il fenomeno va contrastato e prevenuto come priorità assoluta di una società che non pò̀ tollerare ulteriormente la morte violenta di tante donne per il solo fatto di essere donne.

Altro punto centrale per il movimento è la lotta alla precarietà del lavoro. Un obiettivo in comune con gli uomini, naturalmente. Per le donne la precarietà̀ mostra con più chiarezza come il neocapitalismo derubi le persone della loro vita. L’impossibilità o quasi di fare progetti per il futuro, diventa un forzatura dei ritmi biologici, dei corpi.

Reddito di dignità, sostegno alla maternità e paternità, asili nido pubblici e gratuiti, anche nei luoghi di lavoro, sono le misure essenziali. Ma anche un ripristino del welfare che non faccia gravare tutta la cura degli anziani e dei familiari con disabilità su donne che non vedono più la fine di rapporti di lavoro, rispetto a una pensione sempre più lontana. O che devono lottare con lavori sfuggenti e sempre più ridotti e precari, nonostante l’età.

Pace, antirazzismo, anticolonialismo, inclusione, solidarietà e sostegno sociale. Contro la violenza, contro le ingiustizie. Queste sono le parole che i nuovi movimenti, i nuovi femminismi riprendono e rilanciano nel mondo. Queste sono le parole che facciamo nostre.

10. IL LAVORO

Per la Costituzione, il lavoro è fattore d’emancipazione e riscatto, mentre al tempo del “lavoro povero” esso è divenuto, essenzialmente, ricatto e solitudine. Negli anni della crisi, poi, mentre la struttura produttiva italiana si riduceva e si trasformava, un uso politico della crisi agitava il miraggio dell’occupazione come leva di deregolamentazione e compressione retributiva, svalutando tutto il lavoro sul piano non soltanto economico. Disoccupazione e sotto occupazione toccano livelli drammatici specie per i giovani, anche altamente scolarizzati; abbondano forme di lavoro precario di tipo subordinato e non, o addirittura non qualificato: come lavoro, semi-gratuito e gratuito, talvolta anche coatto. Proseguono indisturbati i processi di scomposizione dell’impresa e decentramento della produzione anche oltreconfine, con esternalizzazioni (e privatizzazioni) che coinvolgono anche i servizi della Pubblica Amministrazione. Dilagano i contratti nazionali pirata, stipulati da finti sindacati per legittimare il peggioramento delle condizioni di lavoro.

Lo smantellamento di diritti e garanzie – prima praticata con la moltiplicazione di forme di lavoro alternative ai rapporti standard, poi con l’indebolimento delle tutele anche di questi ultimi, oltre che del ruolo del giudice – ha determinato uno spostamento dei rapporti di forza a vantaggio dei datori di lavoro. Se da un lato ciò scoraggia i lavoratori dall’esercizio, collettivo e individuale, anche dei diritti vigenti, dall’altro lato ha assecondato la “via bassa” allo sviluppo, favorita dalla politica di incentivi a favore delle imprese, slegati da investimenti in innovazione e qualità. Per contro, l’assetto organizzativo dell’impresa non va assunto come dato, ma come l’esito di un processo che il diritto può orientare e governare, affinchè chi utilizza lavoro altrui ne assuma sempre anche la responsabilità.

La sinistra muore se non riesce a rappresentare il lavoro, coniugandolo con la libertà. Un programma di cambiamento, nel solco della Costituzione, va fondato sulla ricomposizione del mondo del lavoro e sulla responsabilizzazione dell’impresa; sul rilancio delle libertà individuali e collettive, dentro e fuori dalle tradizionali forme della rappresentanza e sulla difesa della titolarità individuale del diritto di sciopero. Per riunificare il lavoro è, innanzitutto, necessario garantire l’emancipazione dal ricatto del bisogno, anche attraverso la garanzia di un reddito di base sganciato dalla prestazione lavorativa; al contempo, bisogna riconoscere essenziali diritti di libertà a chiunque svolga lavoro personale e continuativo in un’organizzazione altrui, per la realizzazione di beni o servizi di cui altri è immediatamente legittimato ad appropriarsi: a tutto il lavoro per conto altrui va riconosciuto un nucleo di diritti che vadano dal rispetto della riservatezza alla tutela della professionalità, dall’equo compenso ai diritti sindacali fino al diritto alla stabilità del rapporto, da considerarsi architrave e pre- condizione dell’effettività di ogni altra tutela. Sotto questo profilo, va innanzitutto reintrodotta ed estesa la reintegrazione sul posto di lavoro come rimedio generale al licenziamento ingiustificato: la reintegrazione non ha, infatti, alcun legame con l’organizzazione del lavoro di matrice fordista-taylorista; rappresenta, semplicemente, il più antico ed efficace rimedio contro gli abusi.

In seconda battuta, è tempo d’invertire la rotta sul fronte del lavoro povero, precario e gratuito o semi-gratuito: a) sperimentando forme, anche inedite, di regolamentazione del lavoro sulle piattaforme digitali; b) introducendo per tutti/e, ed anche per il lavoro autonomo, un salario minimo legale che si riferisca ai contratti collettivi autentici; c) disboscando la selva dei rapporti precari (a partire da lavoro a chiamata e occasionale), mal pagati (tirocini) o non pagati affatto (alternanza scuola-lavoro); d) tornando a legare tutti i contratti con una scadenza ad esigenze oggettive di carattere temporaneo.

Specie in un paese nel quale si lavora ben più della media europea, vanno introdotti istituti finalizzati alla riduzione dell’orario di lavoro, in modo tale da liberare tempo di vita, redistribuire lavoro e favorire nuova occupazione, in particolare giovanile.

In terzo luogo, al fine di responsabilizzare l’impresa e governarne l’articolazione organizzativa, alla tecnica della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore va nuovamente affiancata la parità di trattamento tra dipendenti del primo e del secondo, il che consentirebbe solo un decentramento orientato alla specializzazione qualitativa, precludendo quello finalizzato alla mera riduzione dei costi.

La responsabilità̀ dell’impresa deve essere anche quella di far crescere, e non di indebolire la professionalità e le competenze dei lavoratori. Va quindi affermato il diritto per tutti i lavoratori alla formazione continua, anche come misura essenziale per affrontare le sfide dell’innovazione dei prodotti e dei processi, ampliando e non contraendo la dignità del lavoro.

In ultimo, ma non per ultimo, andrebbe garantito e agevolato l’acceso alla giustizia per chi vive del proprio lavoro, sia accelerando i tempi del processo, sia rinnovandone la gratuità.

Tornare a regolare il lavoro di mercato è essenziale per salvaguardare la dignità del lavoro e per perseguire uno sviluppo basato sulla qualità invece che sulla contrazione dei diritti e del costo del lavoro. Ma non risolverà di per sé i problemi della disoccupazione e della povertà crescente. È necessario per questo pensare e progettare nuovo lavoro fuori dalle compatibilità economiche del mercato. Esiste una immensa quantità̀ di lavori necessari per la sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni di vita che non vengono effettuati, perchè il Mercato non li considera utili (non producono né profitto nè rendita). Esiste insomma una enorme domanda insoddisfatta di lavoro. Pensiamo alla messa in sicurezza del territorio: dalla ricostituzione dell’integrità fisica dei terreni non urbanizzati, alla ricostituzione del reticolo idrologico; dai rimboschimenti, allo sviluppo di un’agricoltura articolata secondo le diverse potenzialità e le diverse domande alimentari. Pensiamo alla ristrutturazione edilizia e urbanistica delle lande urbane devastate dalla speculazione. Pensiamo a una ricostruzione dei sistemi per la mobilità non più basati su modalità energivore e inquinanti. Pensiamo alle dotazione di spazi pubblici articolati in relazione delle esigenze, delle loro caratteristiche. Dobbiamo rovesciare il rapporto tra lavoro ed economia. È l’economia, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia.

12. IL REDDITO DI DIGNITÀ

È necessario e urgente introdurre anche in Italia (come in moltissimi altri paesi europei) un Reddito di dignità (o minimo, o di cittadinanza). Dal 2008 al 2014 la crisi in Italia ed Europa, secondo i dati Istat, ha raddoppiato e quasi triplicato i numeri della povertà̀ relativa ed assoluta. Sono infatti 10 milioni quelli in povertà relativa, il 16,6% della popolazione complessiva, ed oltre 6 milioni, il 9,9% della popolazione, in povertà assoluta. Ma oltre i dati relativi alla condizione specifica della povertà, dobbiamo comprendere nel computo finale tutte quelle fasce sociali a rischio povertà: dai working poor (oltre 3,2 milioni di lavoratori e lavoratrici) ai precari, dagli over 50 senza alcun lavoro alle donne, dai migranti ai giovani, dagli anziani a coloro che hanno difficoltà abitative il numero dei soggetti a rischio potrebbe aumentare in maniera esponenziale.

Il Reddito di dignità, è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza per coloro che non possono lavorare o accedere ad un lavoro in grado di garantire un reddito dignitoso o non possono accedere ai sistemi di sicurezza sociale (ammortizzatori socio- economici) perché li hanno esauriti (esodati, mobilità) o non ne hanno titolo o vi accedono in misura tale da non superare la soglia di rischio di povertà. Il Reddito di dignità, garantisce uno standard minimo di vita per gli individui e per i nuclei familiare di cui fanno parte che non hanno adeguati strumenti di supporto economico. Il Reddito di dignità, è anche uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie in una fase di grave crisi e di aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali, perché è uno strumento che rompe il ricatto economico imposto da chi ha il vero controllo del territorio.

Occorre destinare al Reddito minimo di dignità almeno 16 miliardi di euro all’anno (la Francia ne impiega 10, l’Irlanda 20), da recuperare attraverso una riduzione della spesa militare, e da una ricostruzione del sistema fiscale ispirato alla progressività e alla giustizia.

15. LA DEMOCRAZIA

Da più di dieci anni l’Italia non ha una legge elettorale conforme alla Costituzione.

Prima il Porcellum, annullato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1 del 2014; poi l’Italicum, annullato con la sentenza n. 35 del 2016; ora il Rosatellum, approvato abusando di rapporti di forza parlamentari costruiti illegittimamente e imponendo ben otto votazioni di fiducia incostituzionali. Il vizio, sorto nel 2006, è andato di anno in anno incancrenendosi in una situazione che la Corte costituzionale ha definito di «alterazione» del rapporto di rappresentanza tra elettori ed eletti, di «coartazione» della volontà degli elettori, di «contraddizione» del principio democratico, di lesione della libertà di voto. Cosa di più grave avrebbe potuto colpire la democrazia italiana?

L’ossessione di incoronare un vincitore la sera stessa delle elezioni ha travolto l’essenza stessa del sistema parlamentare: il confronto tra le posizioni presenti nella società, alla ricerca, conflittuale ma costruttiva, di possibili profili di compromesso. Abbiamo assistito alla creazione di giganti coi piedi d’argilla, forti in Parlamento grazie a numeri artificialmente gonfiati e deboli nella società perché privi di reale consenso. L’arroganza del potere è cresciuta in parallelo alla sua inettitudine: lo sprezzo per i deboli, l’irrisione delle minoranze, lo sfregio delle forme hanno prodotto azioni politiche di corto respiro, volte a cristallizzare l’esistente, sempre a rimorchio degli stravolgimenti socio-economici in atto. Tanto potere per una politica violenta, tronfia, subalterna.

Viviamo in una società sempre più diseguale e divisa. Abbiamo bisogno di costruire ponti, non di innalzare muri. Al centro del sistema deve tornare il Parlamento, l’organo che rappresenta tutti. Le decisioni fondamentali che riguardano la collettività devono tornare a essere apertamente discusse, a nascere dall’ascolto delle opinioni altrui, a guardare al futuro perché frutto di costruzioni condivise. La contrapposizione tra rappresentanza e governabilità è fuorviante. Un Paese è tanto più governabile quanto più le sue

istituzioni costituzionali sono rappresentative. Dalla scuola media unica, obbligatoria e gratuita (1962) al servizio sanitario nazionale (1978), passando per lo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970), tutti i più rilevanti interventi di attuazione del dettato costituzionale si sono avuti quando massima è stata la capacità di rappresentare nelle istituzioni i differenti orientamenti politici presenti nella società. Per questo è, anzitutto, necessaria una legge elettorale proporzionale, che ridia finalmente voce agli italiani in modo equilibrato e plurale, anche con riguardo alla scelta dei rappresentanti. Inoltre, il Parlamento deve tornare ad assumersi la piena responsabilità delle scelte politiche fondamentali, riequilibrando il rapporto col governo sull’iniziativa delle leggi e ponendo fine all’abuso della delega legislativa.

Gli italiani hanno bisogno di tornare a concepire l’attività politica come un’occasione di impegno costruttivo, non di occupazione del potere. Le forze politiche devono essere messe in condizione di svolgere un’attività continuativa, diffusa sul territorio, organizzata. La loro presenza non può esaurirsi nella figura di leader che occupano spazi virtuali e si palesano fisicamente a singhiozzo, in occasione delle consultazioni elettorali. Per assicurare continuità servono risorse. È per questo che si deve reintrodurre il finanziamento pubblico delle forze politiche, da attribuirsi in rapporto al numero degli iscritti e vincolandolo a trasparente rendicontazione (sottoposta alla Corte dei Conti), e imporre rigorosi limiti quantitativi al finanziamento offerto dai privati perché nessuno possa approfittare delle proprie ricchezze personali e a tutti siano garantite uguali condizioni e opportunità di partecipazione alla contesa politica.

Per lo stesso motivo è necessario intervenire sul sistema dei media, nazionali e locali, attraverso cui passa la comunicazione politica: stampa, televisione, internet. È necessario recuperare l’idea che l’informazione è un bene pubblico, il cui pluralismo va tutelato a garanzia dei diritti costituzionali di informare e di essere informati. Per questo proponiamo una severa legge sull’informazione, che rilanci il servizio pubblico e garantisca la competitività delle aziende editoriali private colpendo le concentrazioni proprietarie.

16. CENTRO E PERIFERIA

In questi ultimi anni le regioni sono passate da essere presentate come la soluzione ai problemi dell’Italia, grazie all’avvicinamento delle istituzioni ai cittadini, al problema dell’Italia, a causa degli scandali che hanno colpito la classe politica locale. Come un pendolo fuori controllo, adesso, con i referendum del Veneto e della Lombardia, gli equilibri politici sembrano di nuovo tendere verso le regioni. L’incerta definizione del ruolo delle istituzioni territoriali ha investito anche gli enti locali, travolti da una legislazione continuamente in divenire che ha privato di ruolo e identità, oltre che di risorse, comuni, province e città metropolitane.

Nelle città vive la grande maggioranza della popolazione del globo. Anche in Italia vivono 22 milioni di persone solo nelle 14 città metropolitane ed almeno 10 milioni negli altri grandi comuni esterni a queste. Non è solo un fenomeno quantitativo. Il modo di vivere urbano condiziona l’insieme della vita umana sul pianeta. È cambiata l’idea storica di città, la stessa distinzione fra città e campagna, fra chi è dentro e chi è fuori. L’economia globale, coi suoi flussi di denaro e di persone, di parole e di cose, il computer e il container, rende vicino quel che è lontano, ma insieme allontana i vicini, sconvolgendo i vecchi modi del vivere insieme. Le città sono sempre più differenziate tra loro ed al loro interno, tra l’estremo delle zone riservate alle élites in rete col mondo, protette ed autosufficienti, le aree intermedie popolate da ceti medi più o meno impoveriti, e l’estremo opposto delle aree periferiche abitate dai ceti più emarginati, spaccati dalla contraddizione tra autoctoni ed immigrati.

Nelle città la crisi morde più forte. La riduzione di risorse e di poteri dovuta al neocentralismo di uno Stato cinghia di trasmissione delle Istituzioni sovranazionali e della finanza globale, al quale s’è aggiunto il neocentralismo delle Regioni, ha causato in quasi tutte le città la perdita di controllo del territorio e la riduzione degli spazi comuni, il degrado culturale ed ambientale, la sofferenza delle categorie più deboli, la crisi dei servizi pubblici fino alla soglia del collasso. Le associazioni ed i movimenti impegnati su queste

tematiche si trovano a riscontrarne le connessioni concrete nella vita delle persone e la derivazione comune dalle politiche di austerità̀; perciò, la contiguità territoriale dei progetti e delle pratiche di partecipazione ha la possibilità di produrre un coordinamento delle rispettive attività, fino a produrre forme di collegamento permanente a livello cittadino. Ovvero a livello politico.

Il governo delle città, in Italia, è stato compromesso dal fallimento della riforma delle Città metropolitane e dell’abolizione delle Province. più in generale, dall’ affermarsi del nuovo centralismo dello Stato e delle Regioni. E’ necessaria, perciò, una riforma dell’assetto istituzionale delle città nella direzione dello sviluppo della democrazia e della partecipazione. Ciò significa, in primo luogo spostare poteri e risorse verso il basso, dalle Regioni verso gli Enti locali; poi, allentare i vincoli di bilancio per la spesa sociale, gli investimenti, il buon andamento degli apparati; infine, rendere effettive ed esigibili le procedure di partecipazione.

È necessario porre un limite al centralismo regionale. Non è possibile che le Regioni continuino a gestire ed amministrare quando la Costituzione prevede che la loro funzione sia quella di legiferare, programmare, indirizzare e coordinare, mentre l’amministrazione attiva spetta di norma agli Enti locali. Agli Enti locali maggiori vanno attribuite nuove funzioni in materia di servizi essenziali, ed i mezzi per farvi fronte. Tutti gli Enti locali devono avere organi eletti dai cittadini, per essere responsabilizzati da un’investitura popolare sul programma.

Pertanto:

a) In applicazione dell’art. 118 COST. va precisato che di norma le funzioni amministrative e gestionali sono attribuite a Comuni, Province e Città metropolitane e non alle Regioni, anche per l’attuazione di leggi regionali. Nei casi in cui le Regioni ritengano di dover esercitare direttamente tali funzioni per assicurarne l’esercizio unitario, sono tenute a dimostrare le ragioni di tale necessità.

b) Le Città metropolitane e le Province devono essere governate da organi eletti direttamente dai cittadini ( Sindaco o Presidente, Consiglio ), Devono lavorare a tempo pieno, evitando doppi incarichi tra la Città metropolitana, la Provincia e i singoli Comuni. I Sindaci metropolitani e i Presidenti devono esercitare le proprie funzioni con il supporto di organi collegiali ( Giunte ) formate da Assessori non appartenenti ai Consigli, cui viene delegata la realizzazione delle missioni e dei programmi di governo dell’ Ente. Alle città metropolitane vanno attribuite competenze, anche normative, in materia di sanità, scuola, servizi sociali e di integrazione, lavoro.

c) Nella formazione dei rispettivi Bilanci, le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono contemperare le garanzie dei diritti incomprimibili di cui alla Prima parte della Costituzione con il principio dell’equilibrio di Bilancio di cui all’ Art. 81, comunque escludendo che l’attuazione di tale principio possa condizionare in termini assoluti e generali l’ erogazione sui rispettivi territori dei servizi essenziali per garantire l’effettività dei diritti incomprimibili, come previsto dalla recente giurisprudenza costituzionale. In particolare, per garantire nel proprio territorio il buon andamento delle amministrazioni e l’erogazione dei servizi essenziali le Città metropolitane, le Province e i Comuni devono poter procedere ad assunzioni di personale superando i vincoli stabiliti dalla legislazione vigente in materia di assunzioni per gli Enti locali.

La centralità della partecipazione attiva dei cittadini costituisce un decisivo fattore di cambiamento della politica e dell’amministrazione, a partire dai livelli di governo più vicini alle persone. La spinta a favorire la partecipazione ha prodotto, negli ultimi venticinque anni, una grande quantità di norme, dagli Statuti degli Enti ai Regolamenti conseguenti, che tuttavia hanno avuto scarsa attuazione, sia per un atteggiamento di diffidenza di gran parte del ceto politico, sia per la crescente sfiducia dei cittadini verso la politica in generale. Questa situazione può essere rovesciata da due fattori: a) l’impegno deciso in questo senso di un nuovo progetto politico, che si fondi anche al suo interno sulla partecipazione democratica; b) una nuova disciplina che renda

obbligatoria, e dunque esigibile, l’attivazione di procedure di partecipazione in relazione all’ esercizio di funzioni e potestà amministrative decisive per il funzionamento democratico delle istituzioni locali.

Pertanto:

a) Nell’ordinamento di tutti gli Enti locali devono esse reinseriti Regolamenti sulla partecipazione democratica, che prevedano elenchi delle Associazioni abilitate ad intervenire nelle relative procedure nonché modalità di coinvolgimento dei singoli, cittadini o comunque residenti.

b) In tutti gli Enti locali, nelle procedure di approvazione del Bilancio di previsione va inserita la previsione della presentazione al Consiglio, congiuntamente alla proposta formale di Bilancio, di una proposta di Bilancio partecipato costruita con procedure decentrate di consultazione democratica di cittadini ed associazioni. Nella delibera di approvazione del Bilancio, il Consiglio è tenuto a motivare esplicitamente le ragioni delle eventuali difformità rispetto alla proposta di Bilancio partecipato.

c) In tutte le procedure di approvazione di Piani territoriali va inserita la considerazione di documenti unitari prodotti al riguardo dalle associazioni presenti sul territorio, con la previsione dell’obbligatorietà della motivazione delle scelte del Piano eventualmente difformi.

d) Ogni atto relativo all’ affidamento della gestione dei beni comuni, pubblici o privati, a imprese esterne alla pubblica amministrazione va subordinato all’ espletamento di una procedura di verifica della convenienza di un affidamento “in house” o ad aziende pubbliche o ad associazioni di cittadini e di residenti, procedura che si concluda con una specifica delibera del Consiglio competente.

È dunque necessario immaginare una legge di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali ( coi relativi tempi di discussione e di approvazione); una iniziativa politica nei confronti delle Regioni e degli Enti locali per realizzare le proposte di cui sopra nelle parti e nella misura consentite dalla legislazione vigente ( da avviare nell’immediato ).

La strategia dell’austerity ha teso ad allontanare dai cittadini i centri di potere un cui si prendono le decisioni. Lo spostamento di risorse economiche e politiche verso i comuni, che sono i luoghi dove i cittadini e le organizzazioni sociali possono far sentire la loro voce, non deve tuttavia permettere che continuino ad acuirsi oltre il tollerabile le diseguaglianze territoriali nell’attuazione dei diritti fondamentali: la salute, l’assistenza, l’istruzione. Si è giunti all’aberrazione di introdurre ticket sanitari differenziati su prestazioni integranti i livelli essenziali delle prestazioni che dovrebbero essere egualmente garantite su tutto il territorio nazionale. Come stupirsi che ammonti addirittura a quattro anni la differenza di aspettativa di vita tra i cittadini che vivono in regioni diverse? Da ultimo, stiamo assistendo a un insensato discorso sui residui fiscali regionali, volto a rattrappire egoisticamente la solidarietà da nazionale a regionale: come se, nell’affrontare il problema della redistribuzione della ricchezza, la regione di residenza fosse più importante della condizione di benessere o indigenza.

Dobbiamo dare a tutti gli italiani, in qualunque parte del territorio nazionale vivano, eguali opportunità di realizzare il proprio progetto di vita. Competenze attualmente attribuite alle regioni devono tornare a essere gestite dallo Stato, in particolare in quei settori dove si è perduta, o si sta perdendo, la dimensione nazionale dell’azione politica. Vogliamo che sui temi della salute, della formazione, della tutela dei beni culturali, della protezione dell’ambiente, del governo del territorio le competenze delle regioni siano ridotte o eliminate, incrementando le competenze dello Stato. Un profondo ripensamento deve, inoltre, investire il tema delle regioni a Statuto speciale: la specialità ha perso giustificazione, trasformandosi in privilegio odioso e controproducente. L’eventuale attribuzione di poche competenze differenziate, motivate da ragioni oggettive, deve prendere il posto degli Statuti speciali. Tutte le regioni tornino a essere ordinarie e con competenze circoscritte a profili non riguardanti diritti costituzionali da garantire egualmente a tutti.

Il Mezzogiorno d’Italia è oramai uno dei territori più arretrati d’Europa. Troppe risorse politiche, intellettuali ed economiche sono state negli ultimi anni destinate ad affrontare una presunta questione settentrionale di cui tutti siamo stati chiamati a farci carico, mentre la vera questione territoriale del Paese, quella meridionale, veniva abbandonata a se stessa. L’arretratezza, non solo economica, del meridione deve diventare un tema sentito da tutti gli italiani. Proponiamo l’istituzione di un’Agenzia per il Mezzogiorno, perché solo uno strumento d’intervento statale può adeguatamente far fronte a un problema che coinvolge lo Stato nel suo complesso.

La legislazione sul “federalismo” fiscale va abolita. La logica di mercato non può essere elevata a criterio attraverso cui gestire i rapporti tra Stato e autonomie. Territori e città devono poter contare sulla solidarietà reciproca. Le risorse vanno distribuite con l’obiettivo primario di migliorare i servizi dove più sono carenti, nel contempo preservando quelli che già hanno raggiunto idonei livelli di qualità.

18. PER INVERTIRE LA ROTTA IN ECONOMIA

La rinuncia ad inserire il Fiscal Compact nei Trattati europei e il suo affidamento ad una prossima direttiva rimanda ad una sede ancora meno democraticamente qualificata una decisione cruciale, in base alla quale dovremmo riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e PIL al 60%. Potrà essere sancita, con forza superiore alle Leggi ordinarie, la rinuncia a qualsiasi margine di manovra dei prossimi governi, obbligandoci a continui avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno servizi. Soprattutto, si potrà affermare il definitivo primato della tecnocrazia sulla democrazia. L'economia come scienza esatta, guidata da regole matematiche dove il benessere dei cittadini, i diritti o l'ambiente diventano le variabili su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili.

Il Fiscal Compact è solo uno delle regole che hanno messo nero su bianco le politiche di austerità, diligentemente seguite dal nostro Paese, malgrado periodiche quanto roboanti dichiarazioni sul volere “battere i pugni sul tavolo a Bruxelles”. Un comportamento ambiguo quanto pericoloso, perché da credito alle pulsioni nazionaliste e populiste di chi dice che è impossibile cambiare le cose in UE. Da un lato “è l'Europa che ce lo chiede” e “non ci sono i soldi” come foglie di fico per giustificare tagli e sacrifici, dall'altro, caso più unico che raro in UE, cambiamo la Costituzione per inserirvi il pareggio di bilancio.

I singoli trattati seguono il dogma mercantilista che domina in Europa. Il compito principale dello Stato non è più il benessere dei cittadini – il bene comune, come scriveva Giuseppe Dossetti –, ma mettere le proprie imprese nelle migliori condizioni per competere. La competitività come obiettivo in sé, e soprattutto una competitività che non si gioca su ricerca e innovazione di prodotto o processo. Al contrario, in particolare in Italia assistiamo a una corsa verso il fondo in materia ambientale e sociale, inseguendo la Cina sul piano del costo e dei diritti del lavoro o le Isole Cayman su quello della tassazione.

L'unica “politica industriale” - oltre alle privatizzazioni per fare cassa - è assicurare sgravi e contributi alle imprese. Politiche unicamente dal lato dell'offerta, per produrre di più e a prezzi più bassi. Ma il problema in Italia è dal lato offerta o nella domanda? Le imprese non investono e non assumono perché il costo del lavoro è eccessivo e ci sono troppe tutele, o al contrario perché le diseguaglianze deprimono la domanda, perché c'è una profonda sfiducia nel futuro, perché queste stesse politiche contribuiscono al peggioramento della crisi?

Una crisi nata dagli eccessi e dai disastri della finanza privata, il cui conto è stato scaricato sul pubblico. In un gigantesco ribaltamento dell'immaginario collettivo, oggi quest'ultimo è sotto accusa e subisce le politiche di austerità, mentre la prima è ripartita a pieno ritmo e viene inondata di soldi. Le migliaia di miliardi del Quantitative Easing sono in massima parte rimasti incastrati in circuiti speculativi invece di alimentare l'economia reale.

Sul piano delle regole va se possibile ancora peggio. A ottobre la Commissione europea dichiara di abbandonare il progetto di separazione tra banche commerciali e di investimento. Le lobby rialzano la testa, chiedendo nuovamente di abbattere regole e controlli La lezione della crisi, se mai era stata appresa, è stata già dimenticata.

Una risposta è dunque chiudere una volta per tutte il casinò finanziario. Da una tassa sulle transazioni finanziarie a misure contro i paradisi fiscali o gli eccessi della speculazione, sappiamo cosa andrebbe fatto e come. Il problema non è nelle difficoltà tecniche, ma nella volontà politica di attuare tutto questo.

In parallelo occorre riaffermare il ruolo della finanza pubblica. Serve un piano di investimenti per l'occupazione, la riconversione ecologica dell'economia, la mobilità sostenibile, la ricerca. Tutti obiettivi di lungo periodo che non possono essere lasciati alla mano invisibile di un mercato guidato dal massimo profitto nel brevissimo periodo.

Come primi passi dobbiamo escludere gli investimenti dal patto di stabilità e abbandonare il Fiscal Compact.

Nello stesso momento, le regole europee non possono essere un alibi per non cambiare rotta in Italia. Le risorse si possono trovare con un diverso utilizzo della spesa pubblica. Tagliare le spese militari per investire nel sociale; chiudere la disastrosa stagione delle grandi opere e occuparsi di tutela e conservazione del territorio; investire nella transizione energetica dalle fossili alle rinnovabili con vantaggi non solo ambientali, ma anche per l'occupazione e la bilancia commerciale (considerato il peso delle importazioni di gas e petrolio), per non parlare delle implicazioni geopolitiche. Solo pochi esempi per chiarire che servono regole diverse, ma che è ancora più urgente un cambiamento culturale, tanto in Italia quanto su scala europea.

24. FISCO

Negli ultimi decenni, il sistema fiscale italiano è andato trasformandosi: da improntato al principio di progressività a ispirato a una tendenziale proporzionalità. È noto che più aumenta la disponibilità di un bene, meno prezioso questo diventa per il suo possessore. Per questo, al crescere della ricchezza deve crescere la percentuale di risorse da pagare in imposte, in modo che la raccolta delle risorse pubbliche non gravi egualmente su tutti, ma in misura maggiore sui ricchi. Questo elementare principio di giustizia, prescritto dall’art. 53 Cost., è oggi pressoché ignorato nel nostro sistema fiscale. L’imposizione sul reddito grava quasi esclusivamente sui redditi medi e medio-bassi, a tutto vantaggio di coloro che guadagnano cifre più elevate. L’imposizione sui patrimoni mobiliari e immobiliari è modestissima. L’imposizione sulle eredità è addirittura risibile: la più alta aliquota italiana è inferiore alla più bassa aliquota tedesca. Il rapporto tra imposte dirette (progressive) e imposte indirette (proporzionali) è sempre più squilibrato a favore delle seconde. A ciò va aggiunta un’evasione fiscale ampiamente superiore ai 100 miliardi di euro annui e l’opacità prodotta da una giungla di detrazioni, deduzioni, sgravi, esenzioni, assegni familiari, bonus, addizionali locali.

Un’enorme quantità di ricchezza si è spostata, negli ultimi anni, dal basso verso l’alto. Luciano Gallino ne ha calcolato l’ammontare in 240 miliardi di euro. Nel 1973, quando venne istituita l’Irpef, erano previsti trentadue scaglioni, l’aliquota più bassa era fissata al 10%, quella più alta al 72%. Oggi gli scaglioni sono scesi a cinque; l’aliquota più bassa è salita al 23%, quella più alta è scesa al 43%. Si sono alzate le tasse ai poveri per abbassarle ai ricchi. Il risultato è stato l’impoverimento non solo degli strati più indigenti della popolazione, ma anche della classe media, sempre più “schiacciata” verso il basso. Ridurre le tasse indiscriminatamente è sbagliato: vanno ridotte a chi ne paga troppe; vanno aumentate a chi ne paga poche.

Sono diverse le misure che si potrebbero mettere in campo. Aumentare il numero degli scaglioni Irpef, introducendo almeno un

sesto scaglione per i redditi oltre i 100.000 euro, con aliquota più alta di quella massima attuale. Diminuire le aliquote per il primo e secondo (redditi fino a 28.000 euro), aumentandole per quarto e quinto scaglione (oltre i 55.000). Rivedere la tassa di successione, riducendo l’attuale franchigia di un milione di euro e introducendo anche qui scaglioni ad aliquote progressive. È poi inammissibile che in Italia venga tassato quasi esclusivamente il reddito ma non la ricchezza. Dobbiamo riprendere il dibattito intorno a una seria tassazione patrimoniale, che riguardi prima di tutto il patrimonio immobiliare inutilizzato. Più in generale, non si può addurre la scusa di una completa libertà di movimento dei capitali per giustificare l'impossibilità di tassare i patrimoni mobiliari e finanziari. Al contrario, questo è un ulteriore argomento per tornare a parlare di controlli sui flussi di capitale in entrata e in uscita dall’Italia. Un argomento che si lega alla necessità di un serio contrasto ai paradisi fiscali, che non può ridursi a inseguire l’isoletta tropicale di turno. Dobbiamo guardare in casa nostra. Da dove provengono i soldi che finiscono offshore? Chi ne trae beneficio? La proposta, oggi discussa in UE, di obbligo per tutte le imprese di pubblicare i bilanci suddivisi in ogni giurisdizione in cui operano (Country by Country reporting) sarebbe una delle misure in tale direzione e un passo in avanti non solo contro l’evasione fiscale ma anche per contrastare riciclaggio internazionale e traffici illeciti.

Queste sono alcune prime proposte, alle quale possono seguire diverse altre. La cosa fondamentale è invertire la rotta degli ultimi anni e adottare da subito delle misure per una maggiore progressività del sistema fiscale, in linea con quanto previsto dalla nostra Costituzione.

27. SALUTE

Negli ultimi anni, con particolare accelerazione a partire dalla spending review sono state adottate politiche di definanziamento del Servizio sanitario nazionale che prevedono una diminuzione in termini percentuali del rapporto fondo sanitario/pil che nel 2020 dovrebbe scendere al 6,3%. Nei paesi europei solo Portogallo, Grecia e Slovenia hanno un rapporto inferiore.

Il definanziamento ha portato alla chiusura di ospedali, di posti letto, al depotenziamento dei servizi, al blocco del turnover del personale, alla diminuzione degli investimenti, alle maggiori difficoltà di accesso alle cure e all’aumento delle liste di attesa.

La contrazione della spesa pubblica ha comportato il progressivo aumento della spesa privata dei cittadini sia con acquisito di prestazioni dirette (out of pocket) sia intermediata da assicurazioni e fondi sanitari integrativi. Nel 2015 a fronte di 147 miliardi di spesa sanitaria totale, 113 miliardi sono risultati della spesa pubblica, 30 miliardi di spesa out of pocket e 4,5 di spesa intermediata.

La spesa intermediata privata è destinata a salire non solo per il progressivo peggioramento delle strutture pubbliche, ma anche per le politiche fiscali favorevoli ai fondi sanitari e alle assicurazioni. Anche gli accordi sindacali che portano alla creazione del c.d. “welfare aziendale” portano la spesa in quella direzione.

Il diritto alla salute non è omogeneo sul territorio nazionale anche per la diversa organizzazione posta in essere nelle regioni e per le politiche di compartecipazione alla spese (ticket) diverse sul territorio nazionale. Negli ultimi anni cinque regioni meridionali sono commissariate dal ministero dell’economia e i vincoli di bilancio hanno nettamente prevalso sulla tutela del diritto costituzionale alla salute.

Sul versante dei diritti legati alla bioetica (inizio e fine vita) il ritardo del nostro paese è ancora più evidente: una legge conquista di civiltà, come la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, è in difficoltà per lo strumentale utilizzo dell’istituto dell’obiezione di coscienza; la legge sulla fecondazione assistita è, nonostante i ripetuti interventi della Corte costituzionale, ancora inaccettabile.

Occorre mettere in atto un progressivo rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale che permetta, entro la fine della legislatura, un recupero più ottimale del rapporto spesa pubblica/pil per permettere:
– un progressivo smaltimento delle liste di attesa;
– uno straordinario programma di assunzioni di operatori e
professionisti del Servizio sanitario nazionale;
– la riforma delle cure primarie e territoriali oggi non più rinviabile;
– l’eliminazione del c.d. superticket e la progressiva diminuzione delle altre forme di partecipazione alla spesa in favore di politiche di appropriatezza per combattere sprechi e abusi. Le politiche di compartecipazione alla spesa devono essere omogenee su tutto il territorio nazionale;
– investimento in edilizia sanitaria per la sostituzione di ospedali obsoleti, inefficienti e costosi nella gestione (con il divieto di costruzione di ospedali con la “finanza di progetto” che vede la compartecipazione e la gestione di “concessionari” privati).

È necessario anche un forte contrasto alla corruzione e ai conflitti di interesse che allignano in molte parti dell’intero sistema.

Sul fronte della bioetica è necessaria una stagione riformatrice che metta fine agli abusi dell’obiezione di coscienza per le procedure abortive e che porti al varo di una nuova legge sulla fecondazione assistita che ponga, tra l’altro, fine ai divieti per le donne single e alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.

Sempre sul versante bioetico è necessaria una legge sulle decisioni complessive di fine vita – che integri la recente legge sul testamento biologico - che riconosca il pieno diritto di autodeterminazione delle proprie scelte individuali per porre fine alla “migrazione” verso l’estero.

29. LA SCUOLA

La scuola della Costituzione è la scuola che deve assicurare la mobilità sociale e dare a tutti pari opportunità per essere cittadini sovrani, inserirsi nella società e nel lavoro come soggetti liberi e consapevoli, superando le differenze derivanti dalla famiglia e dal luogo in cui si è nati, e dalle condizioni economiche di partenza. Uno strumento fondamentale per rimuovere le cause dell’ineguaglianza, come indicato dall’art. 3 della Costituzione. E invece la scuola italiana resta, a settant’anni dalla Costituzione, una scuola classista. In cui gli alunni si distribuiscono nei diversi ordini scolastici a seconda delle condizioni di reddito e cultura della famiglie di provenienza, e in cui i “dispersi” vivono tutti in famiglie povere e nelle periferie delle città, figli di migranti o di italiani poveri. Una scuola che, come diceva don Milani, continua ad assomigliare ad un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Tutto questo nonostante l’impegno profuso da migliaia di insegnanti, di pedagogisti illuminati, da militanti del movimento operaio e sindacale, consapevoli dell’importanza che ha la scuola nel segnare le disuguaglianze fra le persone nel lavoro e nella società̀, per costruire una buona scuola, capace di far crescere tutti, a partire dai più poveri e svantaggiati, portando nella scuola pubblica l’ispirazione e i metodi educativi della scuola di Barbiana.

Il problema è che le riforme, dopo quelle degli anni sessanta e settanta – i tempi della scuola media unica, del sostegno alla innovazione didattica e ai programmi delle elementari, al superamento delle classi speciali per i diversamente abili, alla conquista del tempo pieno, riforme ancora segnate dallo spirito della Costituzione – hanno avuto come effetto quello di creare difficoltà e intralci burocratici alla buona scuola reale, piuttosto che aiutarla e sostenerla. Un buon inizio sarebbe quello di de-riformare la scuola: abrogando tutte le ultime riforme.

La buona scuola reale, la pedagogia per crescere tutti insieme, vive finché vive una speranza di trasformare il mondo, di promuovere la dignità e la libertà del lavoro, di vincere la fame e le guerre; entra in crisi quando ci si propone l’adattamento dei bambini e degli adolescenti al mondo com’è.

E le riforme degli ultimi anni, l’ultima, quella del governo Renzi è l’esempio più clamoroso, hanno come obiettivo l’adattamento ad un mondo che nel frattempo è diventato sempre meno uguale, sempre più ingiusto e violento. La buona scuola reale ha come asse la cooperazione educativa, la buona scuola di Renzi promuove la competizione, la gerarchia e l’individualismo, un una sorta di neoliberismo dell’anima che enfatizza le eccellenze, reali o presunte, e colpevolizza chi non ce la fa.

La scuola è colpevolizzata perchè non sa fornire alla economia e alle imprese quello che serve. Così si addebita alla scuola la ‘colpa’ di non preparare i ragazzi al lavoro, e si ‘rimedia’ istradandoli in percorsi di alternanza scuola-lavoro in lavori poveri e dequalificati, in imprese in cui è assente la formazione per gli stessi lavoratori. Contemporaneamente, si vanifica il lavoro della scuola per far convivere bambini di tanti paesi diversi negando la cittadinanza a chi ha un colore della pelle diverso; e le scuole che insegano ai bambini il rispetto dell’ambiente li consegnano poi ad un mondo che l’ambiente e il territorio continua a inquinarlo e cementificarlo.

Ma la buona scuola reale è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è. La sinistra che vuole cambiare il mondo deve dunque impegnarsi per sostenere e fare avanzare la buona scuola che ha resistito alla riforme calate dall’alto. Lavorando a sostegno di quanti oggi sono impegnati a mettere in rete le esperienze migliori: il movimento di cooperazione educativa, il CIDI, le organizzazioni studentesche, i sindacati della scuola che non si rassegnano ad una lotta di pura resistenza, ma difendono gli spazi di autodeterminazione delle scuole che interpretano l’autonomia come comunità educativa

Dove è presente nelle istituzioni locali deve impegnarsi a mettere in rete la scuola con le opportunità educative e culturali presenti nel territorio, consapevole che la scuola funziona quando l’intera città sa essere città educativa. E concentra il suo impegno maggiore sulle scuole delle periferia, che sono spesso l’unico momento in cui un tessuto sociale frammentato e disperso può provare a ripensarsi come una comunità.

Una sinistra di governo dovrebbe avere come impegno prioritario la rimozione delle cause della dispersione scolastica. A partire da quelle economiche. La gratuità dell’istruzione deve essere resa effettiva a tutti i livelli, contrastando la deriva che scarica sulle famiglie, in maniera insostenibile per le famiglie più povere, i tagli al sistema scolastico e ai bilanci delle singole scuole. Una percentuale altissima, quasi la metà dei ragazzi delle superiori, ricorre alle lezioni private, per raggiungere gli standard che permettono una valutazione positiva. I compiti a casa acuiscono le differenze fra chi ha in casa libri e genitori in grado di aiutarli e chi non ce l’ha. È la scuola della meritocrazia e dell’individualismo che genera queste derive. La scuola della cooperazione educativa, quella in cui si impara tutti assieme e i più bravi diventano ancora più bravi impegnandosi a fianco di chi resta indietro, non ha bisogno né di lezioni private né di compiti a casa. Il divieto delle lezioni private deve essere accompagnato dal giusto riconoscimento economico del lavoro degli insegnanti, sottratto alla logica di una valutazione meritocratica che premia l’individualismo docente e scoraggia la cooperazione educativa.

Le scuole devono essere aperte alla educazione permanente degli adulti. La scuola italiana ha vissuto il momento più ricco della sua storia recente quando gli operai sono tornati a scuola dopo la conquista contrattuale delle 150 ore. Quando i genitori erano contemporaneamente genitori ed allievi. L’assenza di un sistema di educazione degli adulti, che vuol dire scuola, ma anche biblioteche pubbliche, teatri, cinema, accesso al patrimonio culturale del territorio, è una delle carenze più gravi del sistema educativo del nostro Paese. Eppure ha a che fare con i diritti di cittadinanza fondamentali e la vivibilità del territorio. La stessa percezione della sicurezza passa in gran parte da qui. Gli anziani che invecchiano soli si sentono infinitamente più insicuri di quelli che non hanno rinunciato a imparare, che escono di casa per vivere la città anche come un insieme di opportunità educative.

Abrogare la riforma di Renzi non è di per se sufficiente a risolvere i problemi della scuola italiana. Ma liberarsi della logica aziendalistica e mercatistica che la ispira è la precondizione per affrontare i problemi reali che la riforma non ha affrontato o distorto. La dispersione scolastica. L’ingresso nella scuola italiana di bambini provenienti da ogni parte del mondo. La crescente demotivazione dei ragazzi e delle famiglie a investire e a impegnarsi nello studio. A quest’ultimo problema la riforma di Renzi ha risposto enfatizzando l’uso delle tecnologie, diventate un fine del percorso educativo invece che un mezzo per condividere sapere e conoscenza. Oltre che alla onnipotenza del mercato i ragazzi sono chiamati ad adattarsi alla onnipotenza dell’algoritmo, per prepararsi ad un sistema produttivo in cui sempre più le tecnologie non sono al servizio dell’uomo ma l’uomo al servizio delle tecnologie. Il fatto che i percorsi scolastici sempre meno abbiano come sbocco un lavoro dignitoso è risolto con il mito della auto-imprenditorialità. Nel frattempo l’alternanza in lavori e lavoretti per abituarsi fin da subito all’obbedienza e alla passività, al lavoro senza diritti dei call center o dei mcdonald. L’adattamento al mondo oltre che ingiusto si rivela impossibile, incapace di produrre, nelle condizioni attuali, un patto educativo fra insegnanti, alunni, famiglie. Perché il mondo a cui ci si dovrebbe adattare è un mondo senza futuro. Educare i ragazzi e le ragazze ad essere attori di un futuro possibile dovrebbe essere il compito primario della scuola. A partire dalla questione che più di ogni altra sbarra la strada al futuro, il riscaldamento climatico che mette in pericolo la stessa vita umana sul pianeta. È quello che Edgar Morin indicava ai ragazzi orfani della Resistenza e del ’68: studiare per salvare il mondo. E su questo tema provare a trovare un filo comune delle discipline separate e disperse. La storia degli uomini e la storia della natura, lo studio dell’ambiente e quello del paesaggio. E questo tema doveva interrogare le professioni e i lavori del futuro. La pedagogia, come direbbe Gunther Anders, del futuro anteriore, quella che non ha paura di indicare il disastro a cui ci porterebbe il nostro modo di produrre e di consumare, ma fornisce gli strumenti per impegnarsi ad evitarlo.

31. LA RICERCA E L’UNIVERSITA’

La ricerca è il frutto di un sistema d’istruzione che crea quelle competenze che sono la precondizione del processo che collega ricerca a sviluppo economico. La politica degli ultimi quattro lustri ha identificato nel sistema formativo, alla base della formazione delle competenze, il capro espiatorio del mancato sviluppo del paese. Per renderlo più adatto al mondo del lavoro sono state introdotte la riforma Gelmini, la riforma della Buona Scuola, ecc.: si tratta però di una risposta politica sbagliata che invertita in maniera radicale.

I laureati fanno fatica a entrare nel mondo del lavoro, ma in Italia la percentuale di laureati è la metà che nell’Europa del centro-nord; su dieci ragazzi che lasciano il paese nove hanno la laurea; i ricercatori italiani sono ancora capaci di vincere i più ambiti e ricchi progetti europei, ma sempre più spesso scelgono di svolgere la loro attività di ricerca all’estero. Nonostante i laureati siano pochi, la politica dell’ultimo decennio sono state tagliate risorse nel settore della formazione con il risultato di ridurre il fondo di finanziamento ordinario delle università del 20%, i finanziamenti per la ricerca di base dell’80%, del 20% i corsi universitari e del 45% quelli di dottorato. Complessivamente vi è stata una diminuzione del 20% dei docenti e degli immatricolati mentre è esploso il precariato. Per contro le tasse universitarie sono aumentate in media del 60% (raggiungendo il terzo posto in Europa) mentre le borse di studio si collocano ai minimi del continente. Inoltre i tagli si sono distribuiti in maniera molto eterogena sul territorio nazionale, colpendo il centro sud a vantaggio del nord, generando pericolosi e nuovi squilibri. La spesa per il sistema universitario pubblico è oggi di circa 6,5 miliardi di euro, contro i 20 miliardi della Francia e i quasi 27 miliardi della Germania: una differenza abissale.

La presenza di un’attività di ricerca che sia di livello internazionale, è, una condizione necessaria ma non sufficiente per lo sviluppo economico. Il sistema formativo deve creare delle conoscenze e delle capacità che rappresentano il potenziale indispensabile per poi

riuscire a innovare; tuttavia queste capacità, se non sono inserite in un sistema imprenditoriale e industriale adeguato, non possono di per sé generare sviluppo economico. Il problema del nostro paese è, infatti, un altro: quello di essere il fanalino di coda nella quota di occupati nei settori ad alta conoscenza e ad alta intensità tecnologica che rendono possibile lo sviluppo di beni che più difficilmente sono prodotti anche da altri. L’Italia eccelle nell’occupare la penultima posizione per quanto riguarda la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese. Dunque la motivazione delle politiche dell’istruzione è stata di formare personale che si possa adeguare a un sistema produttivo a bassa intensità tecnologica, che a sua volta non richiede dal sistema formativo competenze qualificate, generando in tal mondo un circolo vizioso al ribasso per

economia basata sulla competitività del costo del lavoro piuttosto che puntare alla competitività tecnologica. Dunque la rotta tracciata è caratterizzata dalla desertificazione non solo tecnologica, ma anche scientifica e culturale e dalla crescita di una tipologia lavoro sempre più mortificante per il paese e per le nuove generazioni. E’ perciò necessario ricostruire la base scientifica, tecnologica e intellettuale del nostro paese. Quest’obiettivo deve essere guidato dall’intervento pubblico, considerati l’ingente dimensione dell’impegno finanziario e l’incerta redditività economica che caratterizzano l’investimento in questi contesti. Solo un coordinamento la formazione. Per questo si è preferito puntare su un’

presenza di settori tecnologicamente innovativi, potrà evitare tra politiche della formazione, di ricerca e sviluppo e politiche industriali volte a potenziare la all’Italia di andare incontro a una emarginazione dal contesto competitivo internazionale e dunque a una regressione economica ancora più marcata di quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni.

Delle politiche, cioè, che invece di puntare a formare manodopera di basso livello formativo per lavori a basso costo, ripunti a formare quelle capacità di conoscenza che rappresentano l’unico potenziale di uno sviluppo solido. Queste dunque le proposte chiave per una inversione della rotta:

(1) rifinanziamento del sistema universitario (2) renderlo tendenzialmente gratuito, iniziando con l’abbassare le tasse universitarie e renderle più progressive con il reddito familiare (3) intervenire per diminuire gli squilibri geografici, soprattutto con riguardo al mezzogiorno (4) piano straordinario di reclutamento (5) separazione tra reclutamento e progressione di carriera (5) aumentare i fondi per i progetti di ricerca di base da 30 milioni/anno a almeno 500 (6) tutelare la libertà di ricerca (articolo 33 della Costituzione) e in particolare abolire l’Agenzia di Valutazione che al momento interferisce pesantemente con la libertà di ricerca (7)riorganizzazione del comporto ricerca (Enti Pubblici di Ricerca e Istituto Italiano di Tecnologia) (8) coordinamento interministeriale delle politiche per la ricerca e l’innovazione tecnologica (9) Messa a punto di strategie progettuali di ricerca e innovazione in risposta agli obiettivi di sviluppo del paese.

35.LA CASA E LA CASA COMUNE:
TERRITORIO E PATRIMONIO CULTURALE

Quello della casa è un problema strutturale non un’emergenza. Da circa vent’anni, con l’esaurimento delle entrate ex Gescal e con il trasferimento delle competenze alle regioni, l’Italia è l’unico Paese europeo privo di una politica nazionale per la casa. Sono più di 600 mila le domande per l’assegnazione di alloggi pubblici, alle quali vanno aggiunti i bisogni delle famiglie che non possono far fronte neanche ai canoni delle case popolari. Sono stati disposti solo occasionali finanziamenti volti più al sostegno dell’imprenditoria che ad alleviare il disagio abitativo. Le politiche da attivare al più presto sono almeno le seguenti: riassetto degli istituti preposti alla gestione dell’edilizia pubblica; abrogazione delle sciagurate norme che autorizzano la svendita degli alloggi pubblici; garanzia di risorse pubbliche costanti e continuative.

Le suddette azioni, perché siano efficaci, pretendono l’istituzione di un settore dell’amministrazione statale – ministero, agenzia o dipartimento – cui affidare le politiche della casa, attualmente disperse in varie sedi e gestite in maniera estemporanea.

Lo stesso settore dell’amministrazione statale dovrebbe coordinare apposite politiche per le città, come avviene in molti Paesi europei. Si consideri che più della metà degli italiani vivono in aree urbane dove, tra l’altro, è di vitale importanza l’introduzione di misure per far fronte a problemi fino a poco tempo fa sconosciuti come il cambiamento climatico, le ondate di calore, le siccità, le inondazioni. L’incremento del verde pubblico, degli spazi aperti e degli alberi è una delle più efficaci politiche, perseguibile anche con modeste risorse, funzionale a: catturare CO2; garantire l’alimentazione delle falde; assecondare la coesione sociale; favorire la mobilità dolce pedonale e ciclabile.

No al consumo del suolo. Anche se recentemente rallentato, il consumo del suolo (legale e illegale) continua a essere responsabile dello snaturamento del paesaggio e delle città. Il disegno di legge governativo approvato dalla Camera nel 2016 prospetta un progressivo calo delle espansioni destinate ad azzerarsi nel 2050, come richiesto dall’UE. Quand’anche fosse credibile il rispetto dei tempi con un improbabile meccanismo a cascata (Stato, regioni, comuni), la prosecuzione seppure frenata della crescita edilizia per oltre trent’anni porterebbe alla definitiva dissipazione del Bel Paese e a un inevitabile peggioramento delle condizioni di vita nei nuovi insediamenti destinati a restare forse per sempre privi di servizi adeguati.

L’unica soluzione consiste nel fermare subito il consumo del suolo In questo senso agiscono la legge della Toscana del 2014 e il Prg di Napoli del 2004 che non consentono nuove espansioni. Un testo da assumere a modello è quello proposto dal sito eddyburg del 2013: scavalcando le regioni, fa capo alle competenze esclusive dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio (Costituzione, art. 117, c. 2, lett. s) e obbliga i comuni a localizzare qualsivoglia trasformazione solo nell’ambito del territorio urbanizzato.

Tutela del paesaggio. A 13 anni dall’approvazione del Codice dei beni culturali, solo cinque regioni dispongono di piani paesaggistici approvati o adottati (Puglia, Toscana, Piemonte, Sardegna e Lazio). Un risultato scandaloso. Né risultano predisposte le “linee fondamentali del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio”

Il patrimonio culturale. Non c’è mai stata, in questo paese, una politica culturale costituzionalmente orientata. Nell’ultima legislatura, poi, sono arrivate le ‘riforme’ di Dario Franceschini. La riforma Franceschini si basa su un principio semplice, anzi brutale: separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l'abolizione. Il resto (archivi, biblioteche, siti minori, patrimonio diffuso) è semplicemente abbandonato a se stesso: avvenga quel che può.

In gioco non c'è la dignità dell'arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso (Codice, art. 145, c. 1) che potrebbero dare un contributo decisivo a mettere ordine nell’assetto urbanistico. Urge perciò – nel quadro di una radicale riforma del Mibact – rilanciare con fermezza e competenza la pianificazione paesaggistica. la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell'ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto ad un'unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l'antidoto. Se il patrimonio non produce conoscenza diffusa, ma lusso per pochi basato sullo schiavismo, davvero non abbiamo più motivi per mantenerlo con le tasse di tutti: non serve più al progetto della Costituzione, che è "il pieno sviluppo della persona umana" (art. 3).

Il progetto sulla tutela, invece, è stato chiarito da Maria Elena Boschi. Dialogando amabilmente con Matteo Salvini in diretta televisiva (Porta a Porta, 16 novembre 2016), l'allora ministra per le riforme ha candidamente ammesso: "io sono d'accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d'accordo". Ecco la verità. Renzi l'aveva scritto, in un suo libro: "soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della democrazia". Detto fatto: ora chi vuole cementificare, distruggere, esportare clandestinamente, saccheggiare necropoli ha la strada spianata.

Tutto questo non è una novità, è l'estremizzazione della linea anticostituzionale di Alberto Ronchey (ministro per i beni culturali dal 1992 al 94), guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati la dottrina del patrimonio come ‘petrolio d’Italia’, la religione del privato con l’annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Walter Veltroni) lo slittamento ‘televisivo’ per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero.

La storia dell’arte è in grande parte la storia dell'autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.

Perché questo si realizzi, i primi passi sono semplici e chiari: abrogare le riforme Franceschini; tornare immediatamente al livello di finanziamento precedente al taglio Bondi-Tremonti del 2008; riportare la pianta organica dei Beni culturali a 25.000 unità e coprirle tutte con posti a tempo indeterminato; riunire Ambiente e Beni Culturali in un solo Ministero del Territorio e del Patrimonio, da intendere come un ministero dei diritti della persona, come lo sono quelli della Salute e dell’Istruzione.



Perché apre il cuore alla speranza l'iniziativa partita “Potere al popolo”, mi piace. Perché vuol dire “democrazia”.Demos e Kratos, popolo e potere assieme. Utile ricordarlo all’inizio di unacampagna elettorale. Giusto per prendere le distanze dalle retoriche sul ritotruffaldino delle elezioni e battersi contro la “trasformazione dellapopolazione in elettorato” – per usare una espressione di Pierre Rimbert(“Dietro le quinte del mercato elettorale” su Le Monde Diplomnatique del maggio2017). Giusto segnare la differenza tra un’idea e un’altra di politica. Unaconcezione della politica come competizione per la conquista degli apparati digoverno e un’altra come azione permanente per abbassare il baricentro delledecisioni, disseminare il potere, creare orizzontalità, reti civiche solidali. Giustoripresentare – in ogni occasione – quel tanto che c’è e che si muove “albasso”, tra le macerie che ha lasciato la crisi.


É necessario continuare a ricordareche una “ripresa” senza occupazione e redistribuzione della ricchezza non ciserve. Un lavoro che non produca utilità sociale è sfruttamento e alienazione. Unsistema produttivo che non rispetti salute e ambiente è suicida. Una finanza chearricchisca le rendite è criminale. La privatizzazione dello stato e delpatrimonio sociale è un furto. Alzare frontiere armate per respingere chi dasecoli deprediamo è semplicemente immorale. Se etica e politica – alcuni diconofin da Machiavelli – si sono trovate ufficialmente disgiunte, di fronte al piùgrande sterminio in tempo di pace in corso tra il Sahara e il Mediterraneo, è forse arrivato il momento di ridare unfondamento etico alla politica.

Mi pare anche bello che questa iniziativa dentro-contro leelezioni parta da una tra le esperienzepiù significative di solidarietà e mutualismo in corso nel nostro paese. Che sene parli è già un risultato. Sono una decina gli immobili che a Napoli sonostati liberati dal degrado e dalla speculazione e riconsegnati ad un usocollettivo e sociale. Non vedo altro modo per attuare la Costituzione se non quello messo in attodall’amministrazione partenopea anche per i servizi idrici. Una testimonianzadell’esistenza di un’altra possibile cultura e pratica di governo. Ma, a benguardare, esiste un vasto repertorio di sperimentazioni di sistemi economici edi welfare alternativi che hanno come obiettivo non la massimizzazione deiprofitti, ma il miglioramento dei legami sociali comunitari.

L’altra novità che fa scaldare il cuore è la voglia di autorappresentazione politica che emerge dai promotori di “Potere al popolo!”. Unrovesciamento del discorso e del linguaggio. I movimenti sociali rifiutano di essere intesi come un fenomeno spontaneo, effimero, prepolitico,incapace di gestire il confronto nelle sedi istituzionali, bisognoso dellatutela di un “ceto politico esperto” e si propongono invece come attoripolitici interi, non solo nelle piazze, ma anche nei palazzi. Non so ce lafaranno, scansando insidie burocratiche e fagogitazioni varie, ma mi pare chemeritino una firma per la presentazione della lista loro. Faranno bene anche acoloro che sono alla ricerca di un nuovo significato da dare alla sinistra. Hascritto Raul Zibechi: “Sono sempre i piccoli gruppi a prendere l’iniziativa,senza tener conto dei ‘rapporti di forza’ ma guardando solo alla giustiziadelle loro azioni” (Sulle piccole azionie le grandi vittorie, www.comune-info.net13/1/2014).
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Sorprendentemente, nel suo emozionato discorso di circostanza, al momento dell’investitura a leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso ha tessuto l’elogio del termine radicale. E’ dunque una buona occasione per tornare a riflettere su questo aggettivo.

L’utilità immediata nasce dalla possibilità di chiarire una volta per tutte (si fa per dire) che radicale non significa estremista, settario, massimalista, come fa la grande stampa, interessata a mettere alla gogna quanti pensano alla politica come agente modificatore dei rapporti sociali. Nel lessico della sinistra esso ha ben più alto significato e più nobile origine. L’etimo storico risale al giovane Marx per il quale «essere radicale significa afferrare le cose alla radice».

DUNQUE SINONIMO di radicale non è estremista, ma profondo. Politica radicale è quella che guarda alle nascoste gerarchie di reddito e di potere su cui poggia l’intero edificio sociale. Essa non si limita alla gestione dell’esistente. Quest’ultima è la politica degradata ad amministrazione che ha svuotato la sinistra europea della sua tradizione e funzione storica. E’ il tran tran di gran parte delle nostre forze politiche, fiancheggiate dai grandi media, creatori di un sopramondo spettacolare in cui la finzione mercantile occulta abissi di iniquità reale.

CERTO NON MI SFUGGE che specie nei gruppi giovanili, nei movimenti, spesso alberga l’ingenua pretesa di trasformare in azione immediata l’ analisi radicale, di saltare la mediazione politica, la forma concertata di mutamento della realtà che tiene conto dei rapporti di forza in campo.

Oggi la sinistra o è radicale o non è. E in Italia è in grandissimo ritardo. I fenomeni sociali che avanzano da oltre un decennio sono di inaudita gravità. Mai nella storia contemporanea d’Europa e del mondo era accaduto che, per un periodo così lungo e per estese fasce sociali, le scelte delle classi dirigenti si traducessero in forme continuate e minacciose di retrocessione sociale. Il tempo portava avanzamento e benessere. Oggi gli anni avanzano portando per tanti strati di popolazione impoverimento e minacce di ulteriore regressione. La politica di austerità della Ue è da quasi 10 anni un fomite di violenza sociale. Da qui i cosiddetti populismi e i risorgenti fascismi. Essi nascono da un bisogno di radicalità dell’azione politica – cioè di efficacia di mutamento dell’azione dei partiti e dei governi – che la sinistra non assolve più.

Radicale , ma anche anticapitalistica. E’ scomparsa la parola capitalismo dal lessico della sinistra e pour cause. Il fondatore del Pd ha dichiarato sin dalle origini l’equidistanza tra imprenditori e operai. E come può essere di sinistra un partito che mette sullo stesso piano chi sfrutta e chi è sfruttato? Certo, non siamo nell’800, e nella nostra piccola e media impresa esistono anche generose figure di imprenditori. Ma siamo in una società capitalistica…

ANCHE IL TERMINE anticapitalistico ha bisogno di chiarimenti, di essere difeso da tentativi ideologici di criminalizzazione. Esso non allude a un progetto insurrezionale. Non ci sono più Palazzi d’Inverno da prendere d’assalto. Ma l’aggettivo possiede l’alto valore simbolico e ideale di mostrare un’alternativa generale alla miseria del presente. Dà senso e direzione all’azione politica, riscattandola dalla sua particolarità e proiettandola, in una tensione universalistica, verso la costruzione di un nuovo mondo possibile.

SI DIMENTICA SPESSO, allorché si tende ad annullare la distinzione tra destra e sinistra, che quest’ultima possiede un altro elemento di caratterizzazione, oltre agli altri ben noti: essa ha sempre accompagnato l’azione politica quotidiana con una elaborazione teorica sistematica, con l’analisi costante del modo di produzione capitalistico e delle sue trasformazioni. E’ la condizione non solo per dare efficacia operativa all’azione politica, ma anche per indicare una prospettiva di profonda alternativa al presente. Per tanti, soprattutto per coloro che hanno “voce,” il presente va bene così com’è. Per la vasta platea dei subalterni non è così. Per le nuove generazioni che si affacciano sotto il cielo della nostra epoca lo status quo è privo di futuro, ridotto ormai a qualche nuovo prodotto tecnologico gettato sul mercato.Il futuro è il prossimo smartphone lanciato dalla Apple. Ma una società incapace di alimentare il “sogno di una cosa “ incancrenisce, si dissolve nel deserto spirituale del nichilismo.

Alleanza Popolare Democrazia Uguaglianza, 20 novembre 2017.

Da ogni punto del variegato mondo della sinistra italiana alternativa al PD (una formazione, quella di Renzi, che per conto mio non ho mai giudicato “di sinistra”) si levano appelli e inviti a formare un raggruppamento elettorale in grado di opporsi sia al PD e alle liste a esso collegate, sia al M5S sia, ovviamente, alle destre.

Forti pressioni si esercitano sull’Assemblea Popolare Democrazia e Uguaglianza (Anna Falcone e Tomaso Montanari, appello del Brancaccio) perché aderisca formalmente a questa lista. La grande distanza che divide, nell’analisi e nella proposta politica, la posizione del Brancaccio da quelle delle sinistre italiane mi è sempre sembrata così profonda- a tutto vantaggio di quella del Brancaccio – che ho sempre nutrito forti perplessità per incontri e confusioni per le due aree politiche: condivido pienamente le ragioni dell’area Brancaccio, ho forti perplessità su quelle della “sinistra”.

Riepilogo le ragioni per cui l’analisi e la proposta di Anna e Tom mi sono sembrate le uniche adeguate a comprendere, e quindi a combattere efficacemente, la crisi che travaglia il nostro pianeta e le sue popolazioni nell’ età del capitalismo globalizzato.

* La denuncia del carattere radicale della crisi che il mondo attraversava. Era una crisi che rivelava come alle sue radici vi fosse l’ideologia dello sviluppo: un’ideologia il cui dominio aveva accresciuto a dismisura la frattura tra ricchi e poveri, tra popoli che vivono nei paradisi del benessere e popoli che vivono negli inferni della carestia e delle guerre, entrambi creati dal dominio di quella ideologia.

* La netta rottura con il passato della “politica politicante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccolo Pantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In una parola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente le destre) del secolo scorso.

*

L’affermazione dell’eguaglianza come essenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo dei diritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che sia il suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, la lingua che parla, la religione che professa.

* La consapevolezza che la trasformazione da compiere non era l’aggiustamento del sistema economico-sociale nel quale viviamo (il capitalismo), né la moderazione dei suoi effetti più distruttivi, ma il suo superamento radicale (il superamento dell’”economia che uccide”).

Ciò detto, esprimevo la mia perplessità su un punto: non sul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferivo al difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizione di una identità “di parte”, radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storia del nostro paese, e quella dell’efficacia politicanell’immediato.

Far prevalere la ricerca dell’efficacia immediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) comportava secondo me ad annebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta. Il percorso che mi sembrava preferibile era: prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità, e solo dopo stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivi nella pratica politica.

La mia perplessità era fondata sul fatto che quella “sinistra” cui il documento si riferiva era stata complice – se non addirittura co-autore – della tragedia che si compiva sotto i nostri occhi. L’ideologia dello sviluppo è stata pienamente condivisa dalla sinistra, e la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, cioè lo sfruttamento delle regioni e dei popoli lontani, era stato lo strumento accettato per accrescere salari e welfare nei paesi “sviluppati”.[ cfr. il mio: La parola Sinistra]

Per concludere, accettare di far parte di una “sinistra” capace di contribuire a tagliare le radici della crisi (una “crisi” non cartacea, ma testimoniata ogni giorno dai corpi mutilati o affogati dei fuggitivi) mi sembrava e mi sembra un’ipocrisia, se non è preceduta da una esplicita presa di coscienza delle responsabilità storiche e attuali della “sinistra” e da una concreta applicazione, nella vita politica di ciascuno di quel convincimento.

Articolo tratto da "Alleanza Popolare Democrazia Uguaglianza" qui reperibile in originale

Assemblea Popolare Democrazia Uguaglianza

Ci rivolgiamo a tutte e tutti coloro che hanno camminato con noi nel percorso del Brancaccio, verso la “Sinistra che ancora non c’è”. Abbiamo risposto per sincero spirito costruttivo e di responsabilità ai tanti appelli che si sono succeduti in questi giorni e di cui ringraziamo tutti. Lo spirito del Brancaccio ha seminato bene, e di questo siamo felici.

Eravamo e siamo a tutt’oggi convinti che la formazione di una alleanza fra cittadini e forze politiche per la difesa della Costituzione e la riaffermazione dei diritti cancellati dalle politiche neoliberiste degli ultimi governi, la costruzione di un fronte unico e innovativo della Sinistra verso un progetto più grande dei suoi singoli pezzi, il rilancio delle politiche per l’uguaglianza e per una democrazia compiuta, in tutte le sue forme partecipative e sostanziali siano e restino l’obiettivo primario di ogni ragionamento e azione politica della stagione che viviamo.

Ma, ad oggi, la nostra proposta alle forze politiche, perché il percorso verso una lista unica a Sinistra potesse essere ampiamente partecipato, democratico, libero e trasparente, non ha avuto alcuna risposta. Il risultato è che ormai si corre a grandi passi verso due liste: una di MDP, Possibile, SI; l’altra di Rifondazione Comunista e altri soggetti.

Nessuna di queste due proposte corrisponde a quella idea di unità, credibilità, partecipazione, innovazione, radicalità lanciata nel nostro appello del 18 giugno, che prefigurava l’inizio di una nuova stagione per il Paese e per la Sinistra.

Di più, le ragioni e i fini che sembrano muoverle – nel rispetto della piena autonomia dei soggetti politici che le guidano – non richiamano, neanche lontanamente, il metodo e lo spirito del Brancaccio. Nessuno ­ – a cominciare da noi due – può pensare di imporre agli aderenti a quell’appello una linea comune circa le decisioni che tutti ci troveremo a dover prendere nelle prossime elezioni: scegliere tra due liste diverse, guardare altrove o prendere la tristissima e dura decisione di non votare.

In queste ore si moltiplicano gli appelli pubblici e privati a noi stessi e a tante personalità della cosiddetta società civile perché si esprimano a favore di uno dei due processi a sinistra: naturalmente ognuno degli interpellati deciderà in totale libertà.

Ma noi teniamo a sottolineare che il progetto dell’ “alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” era quello di fornire ai cittadini comuni gli strumenti per incidere davvero in un processo politico: una cosa molto, molto diversa dall’invitare cittadini dai volti noti a fare i testimonial di una lista, di fatto, controllata dalle segreterie dei partiti. E molto diversa anche dalla partecipazione personale ad un’aggregazione di centri sociali organizzati e altri partiti.

Sappiamo che in tutta Italia una parte degli iscritti a Mdp, possibile, Sinistra Italiana si sta mobilitando, anche con toni di palese protesta, perché le assemblee dei prossimi giorni abbiano qualche possibilità di scardinare un copione prescritto e avvilente. Siamo con loro: la loro aspirazione di democrazia e di rinnovamento è la nostra.

Ma crediamo che, nelle condizioni date, per chi, come noi, non ha la tessera di nessuno dei tre partiti impegnati in questa alleanza non ci siano le garanzie minime per poter partecipare e portare costruttivamente il nostro contributo.

È per questo che noi non interverremo alle assemblee di questo fine settimana e a quella del 3 dicembre, pur augurando a tutti buon lavoro e il miglior successo.

Ed è ancora per questo che vogliamo andare avanti, nello spirito e per i fini che hanno ispirato il nostro appello del 18 Giugno e che hanno portato tante persone a mobilitarsi nella bellissima esperienza partecipativa delle “100 Piazze per il Programma”.

Vogliamo impegnarci a fondo perché tutto questo lavoro comune abbia un seguito: perché è qui, è legato alle cose, alle idee, ai problemi e alle loro soluzioni il nucleo più autentico del cammino che abbiamo condiviso, un cammino che non vogliamo interrompere.

Abbiamo un grande desiderio di incontrarci, e di recuperare l’occasione dell’assemblea che siamo stati costretti ad annullare. Apriremo a breve un percorso di confronto ampio e partecipato sui risultati del lavoro di sintesi fatto sulle proposte programmatiche emerse dalle 100 piazze e sulle scelte che dovremo compiere per organizzare al meglio il nostro lavoro futuro. A gennaio presenteremo a Roma i risultati di questo percorso, discutendolo con quanti di voi vorranno partecipare.

Anche se il percorso del Brancaccio non porterà ad alcuna lista, crediamo che sia importante per tutti che nella prossima campagna elettorale possa avere spazio la nostra visione del futuro: che potrà essere un metro su cui misurare le proposte e le promesse delle diverse liste. E anche un anticipo della costruzione della Sinistra che ancora non c’è, e che bisognerà pur deciderci a costruire.

Crediamo che proprio dall’incontro di gennaio potremo riprendere insieme il percorso: decidendo quale forma, quale mèta, quale passo vorremo e potremo tenere insieme. A presto, dunque, e grazie,

Anna Falcone, Tomaso Montanari

Vedi anche, di Tomaso Montanari, La lista Grasso, una grande occasione perduta

Associazione Popolare Democrazia Uguaglianza,

Ci rivolgiamo a tutte e tutti coloro che hanno camminato con noi nel percorso del Brancaccio, verso la “Sinistra che ancora non c’è”. Abbiamo risposto per sincero spirito costruttivo e di responsabilità ai tanti appelli che si sono succeduti in questi giorni e di cui ringraziamo tutti. Lo spirito del Brancaccio ha seminato bene, e di questo siamo felici. Eravamo e siamo a tutt’oggi convinti che la formazione di una alleanza fra cittadini e forze politiche per la difesa della Costituzione e la riaffermazione dei diritti cancellati dalle politiche neoliberiste degli ultimi governi, la costruzione di un fronte unico e innovativo della Sinistra verso un progetto più grande dei suoi singoli pezzi, il rilancio delle politiche per l’uguaglianza e per una democrazia compiuta, in tutte le sue forme partecipative e sostanziali siano e restino l’obiettivo primario di ogni ragionamento e azione politica della stagione che viviamo.

Ma, ad oggi, la nostra proposta alle forze politiche, perché il percorso verso una lista unica a Sinistra potesse essere ampiamente partecipato, democratico, libero e trasparente, non ha avuto alcuna risposta. Il risultato è che ormai si corre a grandi passi verso due liste: una di MDP, Possibile, SI; l’altra di Rifondazione Comunista e altri soggetti.

Nessuna di queste due proposte corrisponde a quella idea di unità, credibilità, partecipazione, innovazione, radicalità lanciata nel nostro appello del 18 giugno, che prefigurava l’inizio di una nuova stagione per il Paese e per la Sinistra. Di più, le ragioni e i fini che sembrano muoverle – nel rispetto della piena autonomia dei soggetti politici che le guidano – non richiamano, neanche lontanamente, il metodo e lo spirito del Brancaccio.

Nessuno ­ – a cominciare da noi due – può pensare di imporre agli aderenti a quell’appello una linea comune circa le decisioni che tutti ci troveremo a dover prendere nelle prossime elezioni: scegliere tra due liste diverse, guardare altrove o prendere la tristissima e dura decisione di non votare.

In queste ore si moltiplicano gli appelli pubblici e privati a noi stessi e a tante personalità della cosiddetta società civile perché si esprimano a favore di uno dei due processi a sinistra: naturalmente ognuno degli interpellati deciderà in totale libertà. Ma noi teniamo a sottolineare che il progetto dell’ “alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” era quello di fornire ai cittadini comuni gli strumenti per incidere davvero in un processo politico: una cosa molto, molto diversa dall’invitare cittadini dai volti noti a fare i testimonial di una lista, di fatto, controllata dalle segreterie dei partiti. E molto diversa anche dalla partecipazione personale ad un’aggregazione di centri sociali organizzati e altri partiti.

Sappiamo che in tutta Italia una parte degli iscritti a Mdp, possibile, Sinistra Italiana si sta mobilitando, anche con toni di palese protesta, perché le assemblee dei prossimi giorni abbiano qualche possibilità di scardinare un copione prescritto e avvilente. Siamo con loro: la loro aspirazione di democrazia e di rinnovamento è la nostra. Ma crediamo che, nelle condizioni date, per chi, come noi, non ha la tessera di nessuno dei tre partiti impegnati in questa alleanza non ci siano le garanzie minime per poter partecipare e portare costruttivamente il nostro contributo.

È per questo che noi non interverremo alle assemblee di questo fine settimana e a quella del 3 dicembre, pur augurando a tutti buon lavoro e il miglior successo. Ed è ancora per questo che vogliamo andare avanti, nello spirito e per i fini che hanno ispirato il nostro appello del 18 Giugno e che hanno portato tante persone a mobilitarsi nella bellissima esperienza partecipativa delle “100 Piazze per il Programma”.

Vogliamo impegnarci a fondo perché tutto questo lavoro comune abbia un seguito: perché è qui, è legato alle cose, alle idee, ai problemi e alle loro soluzioni il nucleo più autentico del cammino che abbiamo condiviso, un cammino che non vogliamo interrompere.

Abbiamo un grande desiderio di incontrarci, e di recuperare l’occasione dell’assemblea che siamo stati costretti ad annullare. Apriremo a breve un percorso di confronto ampio e partecipato sui risultati del lavoro di sintesi fatto sulle proposte programmatiche emerse dalle 100 piazze e sulle scelte che dovremo compiere per organizzare al meglio il nostro lavoro futuro. A gennaio presenteremo a Roma i risultati di questo percorso, discutendolo con quanti di voi vorranno partecipare.

Anche se il percorso del Brancaccio non porterà ad alcuna lista, crediamo che sia importante per tutti che nella prossima campagna elettorale possa avere spazio la nostra visione del futuro: che potrà essere un metro su cui misurare le proposte e le promesse delle diverse liste. E anche un anticipo della costruzione della Sinistra che ancora non c’è, e che bisognerà pur deciderci a costruire.

Crediamo che proprio dall’incontro di gennaio potremo riprendere insieme il percorso: decidendo quale forma, quale mèta, quale passo vorremo e potremo tenere insieme. A presto, dunque, e grazie,

Anna Falcone, Tomaso Montanari

AssembleaPopolareDemocraziaUguaglianza , 23 novembre 2017. Lettera aperta a Anna Falcone e Tomaso Montanari, in relazione alla campagna elettorale in corso

Da ogni punto del variegato mondo della sinistra italiana alternativa al PD (una formazione, quella di Renzi, che per conto mio non ho mai giudicato “di sinistra”) si levano appelli e inviti a formare un raggruppamento elettorale in grado di opporsi sia al PD e alle liste a esso collegate, sia al M5S sia, ovviamente, alle destre.

Forti pressioni si esercitano sull’Assemblea Popolare Democrazia e Uguaglianza (Anna Falcone e Tomaso Montanari, appello del Brancaccio) perché aderisca formalmente a questa lista. La grande distanza che divide, nell’analisi e nella proposta politica, la posizione del Brancaccio da quelle delle sinistre italiane mi è sempre sembrata così profonda- a tutto vantaggio di quella del Brancaccio - che ho sempre nutrito forti perplessità per incontri e confusioni per le due aree politiche: condivido pienamente le ragioni dell’area Brancaccio, ho molti radicati dubbi su quelle della “sinistra”.

Riepilogo le ragioni per cui l’analisi e la proposta di Anna e Tom mi sono sembrate le uniche adeguate a comprendere, e quindi a combattere efficacemente, la crisi che travaglia il nostro pianeta e le sue popolazioni nell’ età del capitalismo globalizzato:
- La denuncia del carattere radicale della crisi che il mondo attraversava. Era una crisi che rivelava come alle sue radici vi fosse l’ideologia dello sviluppo: un’ideologia il cui dominio aveva accresciuto a dismisura la frattura tra ricchi e poveri, tra popoli che vivono nei paradisi del benessere e popoli che vivono negli inferni della carestia e delle guerre, entrambi creati dal dominio di quella ideologia.
- La netta rottura con il passato della “politica politicante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccolo Pantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In una parola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente le destre) del secolo scorso.
- L’affermazione dell’eguaglianza come essenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo dei diritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che sia il suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, la lingua che parla, la religione che professa.
- La consapevolezza che la trasformazione da compiere non era l’aggiustamento del sistema economico-sociale nel quale viviamo (il capitalismo), né la moderazione dei suoi effetti più distruttivi, ma il suo superamento radicale (il superamento dell’”economia che uccide”).

Ciò detto, esprimevo la mia perplessità su un punto: non sul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferivo al difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizione di una identità “di parte”, radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storia del nostro paese, e quella dell’efficacia politica nell’immediato.

Far prevalere la ricerca dell’efficacia immediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) comportava secondo me ad annebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta. Il percorso che mi sembrava preferibile era: prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità, e solo dopo stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivi nella pratica politica.

La mia perplessità era fondata sul fatto che quella “sinistra” cui il documento si riferiva era stata complice – se non addirittura co-autore – della tragedia che si compiva sotto i nostri occhi. L’ideologia dello sviluppo è stata pienamente condivisa dalla sinistra, e la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, cioè lo sfruttamento delle regioni e dei popoli lontani, era stato lo strumento accettato per accrescere salari e welfare nei paesi “sviluppati”(cfr in proposito il mio articolo La parola "Sinistra"]

Per concludere, accettare di far parte di una “sinistra” capace di contribuire a tagliare le radici della crisi (una “crisi” non cartacea, ma testimoniata ogni giorno dai corpi mutilati o affogati dei fuggitivi) mi sembrava e mi sembra un’ipocrisia, se non è preceduta da una esplicita presa di coscienza delle responsabilità storiche e attuali della “sinistra” e da una concreta applicazione, nella vita politica di ciascuno, di quel convincimento.

Edoardo Salzano, 20 novembre 2017
Qui la fonte da cui è tratto l'articolo

il manifesto,

«Sinistra. Il comportamento di certi aspiranti federatori, all’opera negli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati sabotatori (periamo inconsapevoli)»

Sono una dei tanti elettori italiani che guardano con vera preoccupazione all’appuntamento delle prossime elezioni perché, semplicemente, non sappiamo per chi votare.

Siamo elettori orfani, persone alla ricerca di un partito o una lista credibili, con candidati pronti ad affrontare un’elezione nazionale proponendo risposte di sinistra alle sfide del tempo: in primo luogo quelle del lavoro e delle disuguaglianze. Ma anche la sfida del clima e dell’ambiente, dell’istruzione e della sanità, del diritto e soprattutto dei diritti. Quello che cerchiamo è una proposta politica che possa guardare al mondo in cui ci troviamo, a cominciare dallo stesso mare Mediterraneo che ci circonda.

PROBABILMENTE ABBIAMO votato in modi anche diversi alle ultime elezioni, ma di una cosa siamo convinti: riteniamo che alla luce dei fatti, delle alleanze che ha stretto e delle leggi approvate dagli ultimi due governi (e di quelle passate nel dimenticatoio), l’attuale Partito Democratico non può o non vuole formulare le risposte che rivendichiamo. Per questo motivo ci appassionano ben poco le ultime manovre in atto per cercare una pezza che sia a sinistra. Vogliamo andare avanti.

E siccome la speranza sarà pur sempre l’ultima a morire, continuiamo a guardare con interesse alla discussione in corso a sinistra per la formazione di una lista comune. Siamo realisti, l’obiettivo non è semplice, trattandosi, almeno in parte, di una ricomposizione tra soggetti che hanno preso strade diverse. Ma avremmo salutato con piacere delle voci nuove nel panorama un po’ polveroso della sinistra italiana. E’ stata un’attesa lunga e frustrante.

Guardando infatti il comportamento di certi aspiranti federatori durante gli ultimi mesi, ci sono costruttori che si sono rivelati – speriamo inconsapevoli – sabotatori, facendo deragliare più di un tentativo avviato per mettere in piede un vero contendete di sinistra. In questo modo al Pd è stato lasciato campo libero per continuare a rivendicare uno spazio politico e la rappresentanza degli interessi di molti elettori che ha, nei fatti, abbandonato da tempo.

È STATO PERSO MOLTO, troppo tempo prezioso, e la delusione in giro a questo punto è tanta. Questo renderà ancora più difficile il compito dei giocatori rimasti in campo, e in particolare dei promotori dell’assemblea nazionale per la costituzione di una nuova proposta politica di sinistra del 2 dicembre, fin qui Roberto Speranza, Pippo Civati e Nicola Fratoianni, a nome dei rispettivi movimenti.

Forse se ne aggiungeranno altri, speriamo di si, perché con la rinuncia a partecipare dei due principali promotori di ’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza’, meglio noti come quelli del Brancaccio’, dopo un percorso di ben 98 assemblee in giro per il paese con l’obiettivo specifico della costituzione di una lista comune, la futura aggregazione ha perso la sua unica componente ‘civica’, guidata da due promettenti new entry sulla scena politica nazionale: Anna Falcone e Tomaso Montanari.

Senza di loro l’appuntamento del 2 dicembre rischia di perdere smalto, la freschezza del nuovo, ma soprattutto respiro: l’eco del movimento di opinione, in particolare di giovani, che contribuirono in modo decisivo a fare vincere il ‘No’ nel referendum costituzionale dell’anno scorso.

MA C’È UN ALTRO MOTIVO che ci fa rimpiangere la loro assenza. Ai due portavoce del Brancaccio va dato atto che sono stati gli unici a porre con forza la questione delle regole per la selezione dei candidati della futura lista comune. Non è una questione da poco.

Il decollo finale della nuova proposta politica deve molto alla protervia con la quale il Pd di Matteo Renzi ha imposto una indifendibile legge elettorale. Questa forzatura politica ed istituzionale ha pubblicamente sancito la tacita alleanza parlamentare del Pd con la destra dell’impresentabile Verdini, e provocato la rottura motivata del presidente del Senato Pietro Grasso, regalando alla nuova formazione di sinistra la possibilità di un leader di peso (o almeno di rango) e tutto meno che divisivo.

LA DRAMMATICA DECISIONE di Grasso ha portato i gravi difetti della legge elettorale all’attenzione di tutti. Un marchingegno cinicamente congegnato per mantenere il potere nelle mani dei capi partito, privando gli elettori non solo del potere di scelta, ma anche di una effettiva rappresentanza. Agli alti principi e alla sovranità del popolo non badava proprio nessuno.

È per questo motivo che il modo in cui si formeranno le liste elettorali del futuro soggetto politico è una questione tutto meno che secondaria, e sicuramente di pari importanza al suo programma elettorale. E questo è il secondo punto che mi preme di sottolineare.

IL PERCORSO DA AVVIARE dopo il 2 dicembre dovrà costituire la rappresentazione concreta del rigetto dei principi guida del cosiddetto Rosatellum: è una legge fatta per consegnare il potere di scelta dei candidati ai segretari dei partiti? Scegliamoli invece «con metodo democratico», come recita la Costituzione. E’ stata abbandonata la parità di genere? Assicuriamola davvero per i componenti della nuova lista. E’ consentito l’obbrobrio delle pluricandidature, permettendo ai capilista di esercitare un potere feudale di prima scelta? La nuova lista le bandirà.

Solo così si potranno smentire le rabbiose accuse lanciate nel giorno della rinuncia da un Montanari più che deluso, che, di fatto, sfida i proponenti dell’assemblea del 2 dicembre a dimostrare che quell’appuntamento non sarà, come ha detto, «un teatro che copre l’obiettivo reale: rieleggere la fetta più grande possibile degli attuali gruppi parlamentari». Se, come me lo auguro, Montanari ha torto, bisognerà dimostrarglielo, e, ciò facendo, sperare di recuperare un bel po’ di delusi come lui nel paese.

Ma se per disgrazia quel gruppo di parlamentari uscenti che si sono ritrovati intorno alla nuova proposta per un futuro soggetto politico di sinistra pensano davvero di allestire una zatterella di salvataggio personale, temo che potrebbero fare la stessa triste fine dei 147 passeggeri della famosa zattera della Medusa (di cui si salvarono solo in 15), con buona pace delle speranze nostre e loro.

il manifesto, 21 novembre 2017. Abbandona il proscenio una nuova sinistra, ecco che un'atra occupa il suo posto. Alla fine ci troveremo a cantare tutti insieme "Bandiera rossa la trionferà"

«Assemblea a Roma organizzata dai militanti dell'ex opg "Je so pazzo" di Napoli. Con rifondazione e comunisti italiani. Si lavora a una lista elettorale, la terza oltre quella di Pisapia con il Pd e di Bersani e D'Alema senza il Pd»

Sabato scorso a Roma si sarebbe dovuta tenere l’assemblea del Brancaccio, invece se n’è tenuta un’altra al Teatro Italia. Tomaso Montanari e Anna Falcone hanno deciso di fare un passo di lato («I segretari di Mdp, Possibile e Sinistra italiana hanno scelto un leader. E questo ha ‘risolto’ tutti i problemi» l’accusa di Montanari). I militanti dell’ex Opg Je so’ pazzo di Napoli hanno deciso di occupare il vuoto lasciato dai «civici» per proporre la costruzione di una lista di sinistra. Senza nessun centro a cui guardare «perché la lotta di classe non l’inventiamo noi, è nelle cose», hanno rivendicato nell’intervento finale.

Gli attivisti dell’ex Opg hanno in gestione (attraverso una delibera dell’amministrazione napoletana) uno spazio «bene comune»: nelle stanze di un convento, diventato un luogo di reclusione per criminali ritenuti pazzi e poi abbandonato, adesso c’è l’ambulatorio popolare, lo sportello legale per migranti e lavoratori in nero, corsi di italiano, doposcuola per i ragazzi del quartiere, la palestra e il teatro popolare. Un lavoro sviluppato in rete con i collettivi, i centri culturali e sociali a partire da Clash city workers e quelli che si riconoscono nella sigla «Potere al popolo», nata lo scorso settembre a Napoli e diffusa in ventidue città da nord a sud della penisola. Avevano provato a partecipare all’assemblea del Brancaccio, a giugno, ma non era scattato il feeling. Con la prima fila occupata dai leader dei partiti della sinistra, l’ex Opg aveva avvisato: «Non costruiamo un luogo per dirigenti senza territori».

Sabato si sono ritrovati con il teatro pieno: molti dei partecipanti erano transfughi del Brancaccio, tante le sigle delle lotte contro le politiche di sfruttamento degli ultimi governi come i No tav e No tap e poi anche realtà strutturate come Rifondazione comunista, il Partito comunista italiano (già Pdci) ed Eurostop. Per cambiare paradigma bisogna cambiare metodo, spiega Matteo Giardiello: «Su lavoro, sanità, scuola, migranti la discussione è monopolizzata dal, quello occupato dal Pd, oppure dal Movimento 5 Stelle o dalla destra. Per costruire una lettura e un percorso di sinistra abbiamo avviato le assemblee provinciali, che porteranno a una sintesi regione per regione. Entro la prima metà di dicembre ci sarà un nuovo incontro nazionale e poi partiremo con la raccolta delle firme. Programma, firme, candidati saranno il frutto del protagonismo delle comunità in cui operiamo».

Sul palco le testimonianze dei lavoratori del call center Almaviva di Roma, licenziati per non aver accettato un accordo capestro che tagliava del 17% stipendi da 600 euro e poi reintegrati dal giudice del lavoro, sindacalisti di base come Giovanni dell’Usb di Livorno: «Abbiamo l’esperienza per mobilitare una grossa parte di questa gente. Sapremo essere la differenza, la speranza, i giochi di segreteria lasciamoli stare, ci hanno ammazzato». E docenti come Roberto, del Coordinamento insegnanti autoconvocati: «Questa esperienza parte dalle lotte, non abbiamo tra noi i responsabili delle politiche degli ultimi anni. Vogliamo cancellare non solo il Jobs Act e la Buona Scuola ma anche il pacchetto Treu e la riforma Fornero, togliere l’appoggio alle guerre imperialiste».
Rifondazione ha aderito al percorso con un voto in direzione (26 favorevoli, 9 contrari): «Giudichiamo negativamente l’annullamento dell’assemblea del Brancaccio e positivamente l’incontro al Teatro Italia, per la capacità di far esprimere esperienze di lotta, pratiche solidali, volontà di partecipazione, nuovo entusiasmo».

Se il percorso lo scrivono i territori, all’assemblea di sabato scorso è toccato indicare il metodo, come spiega Viola dell’ex Opg: «Nella versione de L’Internazionale scritta da Franco Fortini c’è una frase che dice tutto del nostro compito: “Dove era il no, faremo il sì”. Proviamo a rovesciarlo questo mondo rovesciato e iniziamo a farlo rovesciandoci, mettendoci prima noi sottosopra».

il manifesto,

Il brusco arresto del percorso avviato lo scorso 18 giugno al teatro Brancaccio da Anna Falcone e Tomaso Montanari è una brutta notizia per la sinistra e per il Paese. L’idea di introdurre un’iniezione di rinnovamento e di partecipazione dal basso, della società civile più o meno organizzata, insieme ai partiti alla sinistra del Pd e non contro di loro, in una stagione segnata dall’antipolitica e da una forte disillusione, rappresenta una delle poche novità positive del dibattito politico in corso.

Le soluzioni che oggi sono in campo, senza un quadro di riferimento che vada oltre i partiti, e con i leader delle formazioni della sinistra che sottoscrivono un accordo e incoronano un capo autorevole, rischia di essere un deja vu al quale non possiamo e non vogliamo rassegnarci.

Le 100 piazze del Brancaccio hanno suscitato in migliaia di persone una grande aspettativa e la speranza che finalmente la sinistra diffusa, sotto scacco in questo Paese dove l’egemonia della destra è sempre più evidente, potesse rialzare la testa e mettere in campo una alternativa credibile ed efficace. Questo significa confermare sì il ruolo dei partiti, riconosciuto dalla nostra Costituzione, provando però a percorrere strade nuove caratterizzate da un forte rinnovamento, sia programmatico sia di metodo.

L’assemblea del 2 dicembre, presentandosi – al di la delle intenzioni dei promotori – come la ratifica di una scelta interna al “tavolo dei partiti”, certamente legittima, ma che ripropone riti noti, e rischia di tradursi in un arretramento rispetto al percorso aperto ed inclusivo che si stava profilando, mentre vi è oggi la necessità e l’opportunità di produrre uno scarto in avanti che ci allontani dall’esperienza della Sinistra Arcobaleno e dei più recenti insuccessi.

Un’altra disfatta o un risultato semplicemente consolatorio per i partiti a sinistra del Pd sarebbe un disastro, politico e culturale.

La povertà sempre più diffusa, il disagio sociale nelle mille periferie del Paese, il populismo e il neo fascismo crescenti, non consentono a nessuno di rimanere a guardare. C’è la necessità di far ripartire il percorso messo in moto con l’assemblea del Brancaccio, confidando nel fatto che le formazioni politiche che hanno promosso l’assemblea del 2 dicembre diano un segnale di apertura concreto, a partire dalla ridefinizione degli appuntamenti già previsti e fissando le tappe successive in un percorso realmente comune e trasparente. Solo così si potrà dimostrare la reale apertura ai cittadini e a quella “maggioranza invisibile” del Paese che non vota più e dal cui reale coinvolgimento - come già ribadito da più parti - dipendono la credibilità dell’appello dei partiti e il successo elettorale di una qualsiasi lista futura.

Per questo facciamo appello innanzitutto a Tomaso e Anna, a coloro che hanno condiviso quel percorso, ai partiti della sinistra alternativa a questo governo, inclusi quelli che non stanno nel percorso del 2 dicembre, e a tutte quelle persone che credono che la sinistra possa svolgere un ruolo in questo Paese e in Europa, a rivederci per costruire le condizioni per una assemblea nazionale della sinistra unita, alternativa e profondamente rinnovata, realmente aperta ai cittadini e a quanti si riconoscano nel progetto.

Rocco Albanese, Marco Barbieri, Piero Bevilacqua, Sandra Bonsanti, Stefano Brugnara, Alberto Campailla, Anna Caputo, Luciana Castellina, Sergio Cofferati, Massimo Cortesi, Andrea Costa, Vezio De Lucia, Luigi Ferrajoli, Daniele Lorenzi, Giorgio Marasà, Federico Martelloni, Walter Massa, Filippo Miraglia, Andrea Ranieri, Bia Sarasini, Salvatore Settis, Francesco Silos Labini, Domenico Rizzi

il manifesto

Intervista. L'avvocata dei 'civici' del Brancaccio: non abbiamo tradito il mandato, ora chiediamo regole democratiche per l’assemblea del 2 dicembre e i suoi delegati. Rifondazione è dentro questo percorso perché noi abbiamo detto no ai veti

Mdp, Sinistra italiana e Possibile hanno convocato l’assemblea della lista unitaria per il 2 dicembre, il 24 e il 25 novembre eleggono i delegati. Avvocata Anna Falcone, voi civici dell’area del «Brancaccio» siete della partita?
«Abbiamo la nostra assemblea il 18 novembre, consegneremo la lettera di intenti (il documento-base unitario, ndr), lì stabiliremo i criteri di partecipazione alla lista unitaria. Io e Montanari abbiamo contribuito a lavorare a questa lettera che è una proposta. Chiediamo garanzie democratiche sull’assemblea del 2 e su tutto il percorso comune. Ci hanno garantito che sarà così. Lavoriamo perché lo sia davvero».

Il Prc obietta che non avevate mandato per quel testo.
«La lettera è stata pubblicata prematuramente, ha sorpreso anche noi. Non abbiamo fatto in tempo a condividerla con tanti altri soggetti civici. Ma avevamo avvisato Acerbo, il segretario del Prc. Che sul manifesto ha ammesso di averla ricevuta da noi. Ci ha anche risposto».

Condividerla significa comunicarla?
«Comunicarla e sapere gli altri cosa ne pensavano. Ma abbiamo sempre detto che l’obiettivo più importante è la lista unitaria. Sarebbe stato sciocco dire di no. Quel testo contiene tutte le condizioni che abbiamo chiesto nel nostro appello al Brancaccio. È evidente che non contiene tutto, non è ancora un programma».

Quindi non è vero che non avevate il mandato per stare al tavolo con le forze politiche?
«Lo avevamo, avevamo fatto anche una conferenza stampa per dire con trasparenza che iniziavamo una serie di incontri per verificare la possibilità di fare la lista unica. Oggi avere quel documento è una garanzia per noi: è nero su bianco quello che si va a fare».

Non avete consegnato il Brancaccio a Bersani e D’Alema, come dice Acerbo?
«Assolutamente no, è o il contrario. In democrazia non si possono fare liste di proscrizione. Il rinnovamento si fa tutti insieme con regole comuni. Acerbo è sempre stato d’accordo. Certo, dobbiamo avere garanzie su come sarà convocata l’assemblea e come saranno scelti i delegati, quanto sarà democratica e aperta alla società civile. Felici per l’elezione al parlamento regionale di Fava in Sicilia, ma lì si è capito che se una lista non prevede un percorso con la società civile poi non raggiunge i risultati sperati. Ma sono fiduciosa. E non fa bene dare addosso a chi ha lavorato per non escludere il Prc: abbiamo detto sempre no ai veti. Rifondazione è a questo tavolo delle regole anche grazie a questo. L’impressione di aver disatteso gli impegni è falsata e sbagliata. Proseguiamo nel mandato che abbiamo ricevuto».

Ma vi aggiungerete all’assemblea del 2 dicembre?
«Lo valuteremo in assemblea. Faremo tutti gli sforzi possibili per fare la lista unica di sinistra, su un programma radicale e con un metodo democratico. I nostri sforzi nascono da questo intento. Non abbiamo una subordinata».

O una lista unitaria o niente?
«O c’è una lista unitario oppure il Brancaccio non si spaccherà sulle posizioni di uno o di un altro partito. Non consentiremo che diventi un ring. Se il partiti volessero farne un terreno di scontro, andremo avanti con i cittadini, le associazioni, i movimenti di base e la società civile».

O alla lista arrivate tutti insieme o non ci arrivate?
«Noi abbiamo chiesto a tutti di aderire a una lista unica. Faremo tutti gli sforzi per arrivarci, se la sinistra dovesse andare al voto di nuovo frantumata sarebbe l’ennesimo esempio di poca credibilità. E comunque per altre determinazioni ci vorrebbe un mandato diverso».

Deciderete a maggioranza?

«Non abbiamo un regolamento, ma certo le posizioni si scelgono a maggioranza assoluta».

Chi voterà il 18?
«Le nostre assemblee sono aperte. Ma per evitare che qualcuno pensi di fare una scalata dal Brancaccio voteranno online tutti quelli che hanno fatto l’iscrizione certificata e che hanno aderito all’appello».

Fino a che terrete aperte le iscrizioni?
«Immagino fino al 17 per una minima esigenza di ordine. Dobbiamo evitare lo spettacolo che ha dato la sinistra di polemiche e divisioni e uno dei motivi per cui alcuni partiti, compreso il Prc, non supererebbero da soli la soglia del 3 per cento. Davvero, concentriamoci sulle regole dell’assemblea unitaria».

È sicura che i vostri futuri alleati non le abbiano già scelte?
«Voglio essere fiduciosa: penso di no. Sanno che noi dobbiamo prima decidere nella nostra assemblea. Guardi, litigare sarebbe facile. Noi siamo seri e costruttivi. A conferma, non partecipiamo alla convocazione dell’assemblea del 2 perché abbiamo il passaggio del 18 e perché prima devono essere chiare e garantite le regole di democrazia, partecipazione e deliberazione. È lì la vera sfida. Eviteremo in tutti i modi che succeda come nelle volte precedenti, e soprattutto in Rivoluzione civile, dove si sono fatte assemblee dal basso e invece alla fine i candidati sono stati scelti in una riunione di notte fra i capi delle segreterie. Dobbiamo fare tutti uno sforzo per evitare gli errori del passato. Ma nessuno può dare lezioni agli altri».

Pisapia potrebbe tornare nella vostra lista unitaria?
«Pisapia continua ad avere un obiettivo diverso dal nostro: costruire il centrosinistra e fare alleanza anche con il Pd».


Se non ci fosse il problema delle elezioni (e con quel vergognoso Rosatellum) la soluzione del problema delle alleanze potrebbe essere fedele al manifesto del Brancaccio con una regola molto semplice: all’Assemblea popolare Democrazia e Uguaglianza si iscrive chi vuole, ma, se ha la tessera di un partito la lascia nel cassetto dei ricordi. Ma oggi, alla vigilia di elezioni nazionale si presenterebbero da una parte Assemblea Popolare, dall’altro i vecchi partitini allontanatisi da Renzi, il M5s e in fondo in fondo il PD di Renzi e il resto. A questo punto le scelte sembrano solo due: o si fa un accordo tattico col meno lontano degli altri, oppure si concorre ad accrescere ancora il numero degli astenuti. (e.s.)

la Repubblica,» (c.m.c.)

Se ci chiedessimo se teniamo più alla democrazia o alla sinistra, dovremo rispondere alla democrazia. Per questa ragione teniamo alla sinistra. È il connubio tra queste due sorelle che deve stare a cuore a chi sente franare la terra sotto i piedi della sinistra, nel nostro paese e dovunque nell’occidente. La ricostruzione della democrazia in Europa è stata opera del riformismo cristiano e socialdemocratico, non delle destre.

Ci illuderemmo se pensassimo che il fascismo sia un anacronismo — forse lo è nelle forme arcaiche dell’Italia agricola, ma non nelle idee e nelle aspirazioni, che restano anti-democratiche, anti-universaliste e faziose — convinti che lo Stato debba essere al servizio di una parte, quella identitaria e nazionalista. Questo era ed è ancora l’ordine della gerarchia. La democrazia costituzionale è l’opposto. E ha bisogno di una sinistra riformista. Dal 1945 questo è il paradigma, in Italia e in Europa.Che ha funzionato non solo per una questione di maggioranza numerica. La sinistra aveva una base sociale chiaramente definita - una classe lavoratrice con i suoi possibili alleati sociali - da cui discendeva una visione non ambigua delle politiche da fare.

Questa chiarezza di orizzonte non è nella sostanza cambiata. Perché è vero che le forme del lavoro sono cambiate, ma la composizione del potere sociale segue comunque la condizione del lavoro (e della sua assenza o precarietà); segue la condizione popolare, non quella della ricchezza.

L’eguaglianza e la giustizia sociale sono state sempre le gambe e le antenne della sinistra. Non sono principi astratti — sono principi regolativi che aiutano a leggere gli eventi e i fatti, a individuare che cosa poter volere ora, al fine di poter approntare altre decisioni domani. Non ci sono due mondi: una società ideale che sta sopra le nostre teste, e dei politici che razzolano come possono, con l’assunto che le cose del mondo vanno altrimenti. La sinistra democratica è pragmatica. E lo è perché adotta quei due principi come sue linee guide, e ragione “come se” la società che vuole debba essere giusta e solidale. Senza quel “come se”, senza i principi che guidano le scelte, la sinistra è un partito che vuole voti, e vaga lì o là come un calabrone per prenderli, senza una fisionomia riconoscibile. E sistematicamente perde.

Il “come se” non è poi cosí complicato da capire. Se vogliamo che la nostra società sia inclusiva e i cittadini abbiano eguale dignità dobbiamo volere una scuola pubblica che sia tale; e dobbiamo volere che sia buona per tutti i ragazzi e le ragazze, aperta e inclusiva a sua volta. La scuola pubblica è fondamentale per la democrazia, che non è governo dei sapienti, ma deve rendere i suoi cittadini alfabetizzati e acculturati, per il loro bene e quello di tutti. Non è un optional, e le ricette non sono infinite, né tutte compatibili. Il “come se” non è complicato da capire nemmeno quando si vuole che la Repubblica sia in grado di essere sempre dalla parte dei cittadini quando hanno bisogno di cure.

Non è accettabile che una sinistra si arrenda al dio mammone e privatizzi progressivamente la sanità — con danni irreparabili, anche in termini di costi. E di qualità, perché basta andare negli Stati Uniti per comprendere il disastro della sanità privata.Una sinistra pragmatica è piena di valori, non roboante e non populista, sa bene che senza un’organizzazione partitica la sua politica non fa strada, anche se possono far strada alcuni politici. La personalizzazione della politica può far bene alla destra; fa malissimo alla sinistra (e forse, tra i problemi del Pd vi è proprio il suo statuto), che deve riuscire a conciliare la partecipazione con la delega, la leadership con il collettivo. Per questa ragione il partito deve essere una scuola di vita pubblica e di formazione politica.

Senza questo, c’è tanta audience televisiva e poca costruzione di consenso. E il “come se” non è capito. L’audience premia chi sa gridare contro e crea polemica; uno sport facilissimo, che non richiede studio, né alcuna prova. Queste personalità generano più polverone che politica. Sono lontane dalla realtà, incapaci di riflessione pragmatica. L’audience basta a se stessa, e a loro. Ma la sinistra che forma opinione deve prendere un cammino diverso, e ricostruire la sua cultura politica attraverso l’incontro delle persone, in luoghi materiali e veri.

il manifesto


«Liste&alleanze. L'avvocata dell'area civica del Brancaccio: Grasso stimabile ma il metodo no, prima scriviamo il programma e poi chi lo sa incarnare davvero. Bersani e D’Alema come capi no, serve più coraggio. Ma per le candidature anche Rifondazione ricordi che le assemblee saranno democratiche e sovrane»

Il 18 novembre terranno un’assemblea nazionale «di restituzione del programma, con tavoli tematici in cui confluiranno le proposte arrivate dai territori e sulla piattaforma online. Lavoro, diseguaglianza, economia, Europa» così la spiega Anna Falcone, avvocata e capofila dell’«alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza», a sinistra chiamata sbrigativamente ’quelli del Brancaccio’, dal teatro romano dove si sono autoconvocati lo scorso 18 giugno. Il numero degli iscritti al movimento ancora non c’è, spiega, «abbiamo attivato le adesioni online, per pronunciarsi sulle nostre proposte bisognerà fare un’iscrizione certificata. Ma ancora non abbiamo tirato le somme». Dopo l’assemblea quest’area confluirà – se ce ne sono le condizioni – con altre forze della sinistra in un’altra assemblea, a dicembre, per il varo di una lista unitaria. «Abbiamo chiesto che sia un’assemblea democratica, non solo confronto fra gruppi dirigenti. Bisogna dimostrare che cambiamo metodo, non solo proposta politica. Non dobbiamo rischiare di essere un’accozzaglia di sigle. Il nostro obiettivo è portare al voto almeno il 50 per cento degli elettori di sinistra che non vota più».

Avvocata, avete gelato gli entusiasmi dei vostri compagni di strada sul presidente Grasso. Non è ’il nostro programma vivente’ come lo definisce Nichi Vendola?

«Ho la massima stima di Grasso, gli riconosco un’identità di sinistra che ha speso nella sua storia precedente da servitore dello stato. Ma dopo aver perso sei mesi dietro all’indicazione della leadership di Pisapia vorrei evitare di perdere altri mesi sull’indicazione di un altro leader, Grasso o no. Non sarà un leader più o meno carismatico a riportare al voto i delusi, ma riuscire a far capire che la nostra proposta può cambiare loro la vita. Anche in parte, sul lavoro, sulle diseguaglianze fra chi vive nelle periferie del paese o in quelle sociali».

Il problema è il metodo con cui scegliere un leader, o non volete un leader?

»Intanto non vogliamo un leader indicato dai media, anche loro come la politica hanno un problema serio di scollamento dalla vita reale. Chiediamo di procedere per priorità: scriviamo un programma insieme, diamo risposte convincenti, e solo alla fine sceglieremo le migliori candidature e la migliore leadership che incarni quel programma. Invertire le priorità è segno di debolezza. Ed è debolezza cercarsi ogni volta un soggetto terzo, buono per la sua credibilità personale, a prescidere dal programma. C’è una nuova classe dirigente che emerge, una nuova generazione che dovrebbe prendersi la responsabilità di essere portavoce del progetto. Comunque a me piacerebbe una leadership diffusa».

Intanto di voi ’civici’ in prima fila siete sempre e solo in due, lei e il professore Montanari. Le vostra ’leadership diffusa’ quando arriverà?
«Dopo l’assemblea del 18 novembre. Ma guardi che la stragrande maggioranza dei nostri incontri in giro per l’Italia si svolgono senza di noi».

Un leader della lista comunque dovrete sceglierlo. Il Rosatellum prevede che sia indicato il «capo della forza politica».
«Chi incarna un programma dev’essere coerente con quello. Se scegliamo prima il leader svuotiamo di significato e di forza il programma. In una società quotata prima si sceglie la nuova mission e poi l’amministratore delegato giusto per la mission».

Ai tempi di Pisapia eravate contro un leader che aveva votato sì al referendum. Non va bene neanche chi è stato nel Pd?
«Ci mancherebbe altro. Vogliamo costruire un campo largo e non facciamo liste di proscrizione. Se parla di Grasso, ripeto, è persona stimabilissima. Ma oltre al metodo c’è un problema di coraggio. Grasso è rassicurante perché ha servito lo stato. Ma gli italiani non ci chiedono di essere rassicurati, ci chiedono di essere coraggiosi. Se la leadership fosse nelle mani dei cittadini sono sicura che farebbero una scelta più coraggiosa».

Per Rifondazione, che partecipa alle vostre assemblee, ministri e esponenti dei governi del fu centrosinistra devono restare fuori dalle liste. Tradotto: no a Bersani, D’Alema. E altri. La pensa così anche lei?
«Certo non possono essere leader. Ma per le candidature invito tutti, anche Rifondazione, a ricordare che le assemblee saranno democratiche e sovrane. Si converge su un programma, e tutto il resto arriverà in coerenza. Non credo che ci voterebbero se dicessimo: abbiamo un programma radicale, innovativo e coraggioso, alla Corbyn, alla Sanders, ma un leader della stagione dei governi precedenti. A Rifondazione ricordo anche di non iniziare dai veti che dividono. Abbiamo un obiettivo preciso: andare in parlamento per evitare che i suoi due terzi possano cambiare la Costituzione. Per questo dobbiamo far eleggere una seria rappresentanza di una nuova sinistra.».

Davvero avete frenato la convergenza con Mdp per le offerte tattiche di dialogo di Speranza a Renzi?
«C’è una parte di Mdp che continua a pensare in maniera ossessiva all’elettorato del Pd e fa passi comprensibili in quel mondo, volti a raccogliere l’elettorato in fuga dal Pd. Ma è una cosa incomprensibile all’esterno. L’elettorato in fuga dal Pd ci voterà non per i tatticismi e le stoccatine ma per un programma coraggioso, magari anche più di quello di Italia bene comune».

E ora con Mdp vi siete chiariti?
«È un problema che deve chiarire Mdp al suo interno e con la sua base. Che viene alle nostre assemblee ed ha le idee chiare. Non capisco le timidezze dei dirigenti».

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