C'è l'impressione che in questi anni - quelli di transito tra il novecento e il nuovo millennio - la "politica dei partiti" abbia abbandonato la riflessione teorica sulle dinamiche reali della società e del Paese, rinunciando alla costruzione di elaborazioni orientate a porre rimedio ai danni concreti e quotidiani del neolibersimo, e prima del capitalismo italiano. Riflessioni ed elaborazioni da incidere nell'alveo di un progetto di società e di futuro chiaro e condiviso, o come auspica Fausto Bertinotti (nell'intervista con Sansonetti su Liberazione del 7 novembre), di una nuova "ideologia".
La "questione territoriale" è, a questo proposito, emblematica, ma anche utile a ritrovare la via per una dialettica nella sinistra, da cui elaborare i contenuti di un nuovo progetto di società, e, contestualmente, di un nuovo progetto di governo, concretamente alternativo al "berlusconismo", di destra e di sinistra.
Quattro categorie
La "questione territoriale" si connota, nei suoi tratti principali, per almeno quattro categorie problematiche, intimamente legate.
La prima di queste ha a che fare con i ritmi e le forme dell'urbanizzazione in Italia: se è vero che il ritmo dell'edificazione (di alloggi, attrezzature e infrastrutture) si è oggi allentato rispetto a cinquant'anni fa, è anche vero che le forme di questa edificazione sono oggi maggiormente invasive ed energivore, allorché si concretano in ciò che nel gergo disciplinare si chiama "dispersione degli insediamenti". Si tratta di una forma di urbanizzazione a bassa densità, che si allunga in mille rivoli e acquitrini, "consumando" il suolo del vasto territorio attorno ai centri urbani storici; richiedendo ai cittadini e ai "fattori di produzione" di muoversi, di spostarsi, per raggiungere le attrezzature - di vita, di lavoro, di produzione ecc. - che, seguendo altre economie di localizzazione, rimangono necessariamente "distanti": così si sta producendo un territorio saturo di manufatti e una società vieppiù erratica. Il primo di questi "prodotti" deve far riflettere sulla compromissione, difficilmente reversibile, delle diverse funzioni (e delle diverse risorse) del territorio: quella agricola, quella "ecologicamente produttiva", quella ricreativa, quella identitaria ecc. Il secondo impatta invece, principalmente, sulla mobilità privata dei cittadini e sulle forme relazionali e comunitarie che, con questo nuovo e spontaneo assetto territoriale, si stanno producendo. Significa quindi, tra l'altro, aumento del consumo di carburanti fossili, di inquinamento, di incidentalità stradale, cioè di voci di costo collettivo nei bilanci pubblici (per ciò che riguarda la mobilità), e - per ciò che riguarda il sistema sociale - "privatizzazione" dei legami, degli scambi, della socializzazione, della comunicazione: una comunità cioè che sta prendendo il sentiero dell'isolamento tra soggetti, della rottura della "sfera pubblica" a favore di un succedaneo privato.
La seconda categoria problematica si riferisce al sistema di infrastrutture e di politiche per la mobilità e i trasporti, che nel nostro Paese sembrano non servire un "progetto" ma asservire ad uno stato di cose. Si parla infatti di "domanda di infrastrutture", come conseguenza di un fatto non governato o non governabile: spesso cioè si costruiscono insediamenti senza interrogarsi sulla portata e la scala della mobilità indotta (delle persone e delle merci); a valle di questo processo "si chiedono" infrastrutture e politiche che risolvano il problema del traffico e della mobilità: è, questo, un circuito autoalimentante per il quale nessun "progetto di futuro" è praticabile, ma si danno solo risoluzioni di emergenze, tramite il ricorso, spesso, alla via più veloce ed economica (nel breve termine): quella dell'asfalto. Da qui, da questo ritardo nella progettazione del territorio, sono nate caotiche e conflittuali infrastrutture, spesso inefficaci, che allontanano continuamente l'attenzione e gli impegni pubblici dalle politiche per la mobilità collettiva: nelle città come nei territori del Paese, il trasporto pubblico di massa è spesso la cenerentola degli investimenti.
La terza categoria di problemi ha a che fare con l'universo della fiscalità locale e del sistema tributario. L'orientamento che lo Stato ha preso da diversi lustri è quello di agganciare al territorio, alle sue dimensioni costruite e urbanizzate, una parte, progressivamente sempre più importante, del gettito degli enti locali: un sistema che doveva garantire servizi ai cittadini e alle imprese. Una condizione che poteva sembrare in equilibrio se fosse continuata nel tempo la compartecipazione sostanziale dello Stato, tramite i suoi trasferimenti, al bilancio degli enti locali; condizione che invece, come è noto, non si è verificata, per seguire gli obiettivi del decentramento, del federalismo e della riduzione delle tasse, con la conseguenza di indurre - più o meno implicitamente - gli enti locali a "costruire nuova base imponibile", con previsioni di sviluppo territoriale capaci - ma solo in modo effimero - di non ridurre il livello di servizi offerto alle comunità e alle imprese. L'impatto più evidente di questa condizione è leggibile nella disarticolazione tra costruzione del territorio e interesse pubblico: il territorio è "merce", e la sua valorizzazione monetaria è lo scopo; conflitto nel quale l'interesse pubblico rimane profondamente leso.
La quarta categoria problematica è relativa alla casa, come simbolo di uno "stato sociale" in progressivo declino, e come emblema di un sistema politico/amministrativo non più in grado di fornire prospettive esistenziali non subalterne al mercato capitalistico. Anche qui si prende atto di una condizione: che ormai i tre quarti degli italiani siano proprietari della casa in cui abitano e che, di conseguenza, la collettività debba dedicarsi esclusivamente alle emergenze e mai più a costruire un progetto organico di un futuro desiderabile. Ma il fatto è anche che la promozione della "residenzialità" sta impedendo la mobilità e la flessibilità pretesa dai nuovi paradigmi di sviluppo; sta riducendo progressivamente la possibilità di investire e consumare risorse; non ultimo, per conseguenza della mercificazione di questo diritto, la casa è sempre più un canale di rendita, capace, come si sta vedendo in questi ultimi anni, di drenare investimenti dai settori produttivi del mercato.
Politica del territorio
A partire da quest'ultima osservazione è utile annotare quanto contenuto squisitamente politico vi sia nelle questioni che afferiscono all'urbanistica e al governo del territorio; e quanti valori primari siano qui rintracciabili per contribuire a costruire una nuova idea di società, e da qui un nuovo progetto di governo.
Oggi, Rifondazione Comunista partecipa al governo di molti enti territoriali, con la prospettiva di aumentare questa presenza, fino alla sfera nazionale. Ma questa attività non sembra essere sufficientemente accompagnata dal lavoro di costruzione di una "visione" forte e condivisa circa i temi del governo del territorio; una visione capace di dare contenuto ad un progetto di società, ad una nuova "ideologia".
Sembra perciò terribilmente importante trovare uno spazio di discussione non occasionale e non autoreferenziale, all'interno di Rc e magari nell'alleanza che si prospetta nel centro-sinistra: una sorta di "forum permanente" in cui cominciare a costruire valori e progetti per il governo del territorio, a partire certamente dalle esigenze contingenti che gli amministratori si trovano ad affrontare; e a partire anche da una seria critica alla proposta di legge urbanistica, del governo di centro-destra, che oggi giace alla Camera.
Marco Guerzoni, urbanista; hanno aderito: Carla Colzi, Assessore alla Casa e LLPP del Comune di Reggio Emilia; Gino Maioli, Assessore alla Mobilità e Trasporti della Provincia di Ravenna; Andrea Mengozzi, Assessore all'Ambiente della Provincia di Ravenna; Fabio Poggioli, Assessore all'Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune di Ravenna; Maurizio Zamboni, Assessore alla Mobilità e LLPPdel Comune di Bologna
Superare in voti la CdL e liberare il paese dalla presenza dell'attuale governo è, più che un obiettivo politico, una prescrizione di igiene democratica. Sono rilevanti i temi in discussione, dalla ricostituzione di una sinistra (con aggettivi o senza), al metodo con cui si costruisce democraticamente una proposta, tema che ha ricevuto notevole impulso dalle ultime prese di posizione di Fausto Bertinotti. Per essere ottimisti sull'esito dello scontro mi pare manchi non un leader credibile ma piuttosto una idea guida forte. L'arricchitevi di Berlusconi, anche se non credibile, ha emanato un tale «fascino» da portarlo due volte alla vittoria. Il programma dovrebbe essere facilmente delineabile, la restaurazione democratica: giustizia; distinzione dei poteri; scuola pubblica; pluralismo nell'informazione e ruolo del servizio televisivo pubblico. Sta dentro tale «restaurazione» una normativa costituzionale che vieti ogni possibile legalizzazione di comportamenti illegali («condoni» fiscali, edilizi, ambientali, ecc.) e se un federalismo dovesse proprio esserci, che sia temperato e solidale.
Più problematici sono ancora gli aspetti economico-sociali: meno flessibilità nei rapporti di lavoro (si è dimostrato serve solo a esercitare un maggior sfruttamento sulla forza lavoro); garanzia di una stato sociale più allargato, migliore emeno costoso per gli utenti; un programma di lotta alla povertà e all'emarginazione; il mezzogiorno ancora una questione aperta; la politica di governo delle città come caposaldo della convivenza civile, dello sviluppo economico e dell'allargamento della democrazia. Oscura, infine, appare la questione fiscale. Che la situazione imponga un nuovo patto fiscale, tra cittadini e stato, è evidente. Che esso si debba basare sulla trasparenza, pare condiviso dai più, incerta è l'accettazione del fisco non come un carico sui cittadini, ma piuttosto quale contributo finalizzato ad accrescere il valore reale delle disponibilità di ciascuno e di tutti. Una ipotesi di questo tipo non può che partire dalla definizione delle necessità finanziarie dello Stato, in ragione dei servizi offerti e ritenuti essenziali, e quindi prospettare, non una riduzione delle imposte, ma piuttosto una migliore distribuzione progressiva delle aliquote tra le diverse fasce di reddito e una lotta determinata all'evasione. Anche un'imposta patrimoniale, dopo anni di redistribuzione del reddito a favore dei «ricchi», non ci starebbe male.
Pare indispensabile, tuttavia, che l'opposizione assuma anche (e prioritariamente?) in tutto il suo spessore l'obiettivo di riconciliare la società con l'industria. Solo i ciechi non vedono il declino rilevantissimi dell'apparato industriale del nostro paese. Questo mentre molti intellettuali della sinistra (magari ex-operaisti) cincischiano con la fine del lavoro industriale, la smaterializzazione della produzione, il piccolo è bello, e via di questo passo. Certo che il lavoro è cambiato, in questi venti anni più rapidamente che nel secolo precedente, ma il rapporto sociale di produzione non si è modificato, la rivoluzione passiva operata dalle forze del capitale ha teso a cambiare la forma ma non la sostanza di tale rapporto, ne ha, di fatto, peggiorato la condizione. Su questo terreno forse è possibile cogliere passi indietro secolari, con l'emergere sempre più vistoso del «lavoro servile». Se l'economia del paese non deve fondarsi su camerieri, bagnini, maestri di sci, ecc. allora è necessario mettere mano ad una vigorosa politica industriale. L'apparato della grande impresa è in crisi ed è centro di corruzione e malaffare (non importa se privata o pubblica: Parmalat, Cirio, gruppo Eni, per citare solo i più grossi). Appena si soleva un poco il coperchio della loro gestione si viene investiti da fetori pestilenziali di corruzione, di appropriazioni, ecc. (magari qualcuno dei responsabili ha ottenuto una laurea honoris causa in «etica degli affari»). Ma della grande industria non si può fare a meno; tuttavia si tratta di cosa molto importante per lasciarla in mano agli industriali o ai manager; c'è necessità di sviluppare forme appropriate di controllo pubblico e collettivo, si può pescare per questo in vecchi modelli, si può innovare, ma la necessità è questa (si può ripensare all'economia mista che tutti ci invidiavano, ecc.). Ma una tale e vigorosa politica industriale ha bisogno, come già detto, della riconciliazione della società con l'industria. Un'industria rinnovata, innovata, attenta all'ambiente ma anche ai rapporti di lavoro, una società che assuma il lavoro industriale non come un male da sconfiggere, ma come un'occasione di crescita economica, sociale e culturale.
Ma insieme va assunto il rapporto sociale di produzione come terreno di conflitto e di suo superamento in una prospettiva reale, collettiva e di interesse per tutta la società. Sta dentro tale riconciliazione ogni riferimento a un nuovo modello di produzione e di società, così come la difesa ambientale ha al suo centro non l'industria ma il rapporto sociale di produzione che le è costitutivo. Dentro tale riconciliazione è possibile un nuovo patto keynesiano, del tutto impossibile oggi per lo sfaldamento dell'industria e per la sua natura sempre più corrotta, speculativa e appropriativa. Si tratta di una battaglia culturale che la sinistra non può non fare sua, infatti, insieme alla scienza, per la quale vale lo stesso problema di una riconciliazione con la società, ci si riferisce al dato costitutivo dell'organizzazione della società e alla base per il suo superamento. Senza tale vigorosa battaglia culturale, sociale e politica si rischia una deriva «gestionale» con l'illusione di controllare le derive economiche e sociali.
Esattamente 35 anni fa, il 28 novembre del 1969, Roma - che li conosceva poco - fu invasa dai metalmeccanici. Le cronache dell'epoca raccontano di due cortei giganteschi che per sei ore sfilarono da piazza Esedra e dalla Piramide fino a piazza del Popolo. Li ricordo anch'io quei cortei: per noi studenti romani che uscivamo dal sessantotto fu il primo vero incontro con la mitica classe operaia del nord. Giornata memorabile. Noi capimmo una cosa che fu decisiva per la nostra formazione: la classe operaia non era solo un concetto, un ragionamento dei libri, e neppure soltanto un ceto o uno strato sociale: era una forza concreta e formidabile, formata da migliaia e migliaia e migliaia di persone, in carne ed ossa, tenaci, intelligenti, combattive, fantasiose, che potevano cambiare il corso della politica, vincere delle battaglie, modificare il nostro futuro. Mi ricordo la sensazione persino fisica di forza - e di serenità - che ci dava quel fiume di tute blu: era un autunno di grande tensione politica, dieci giorni prima in un corteo a Milano era stato ucciso un agente di polizia, in ottobre a Pisa la polizia aveva ammazzato due studenti, ogni volta che scendevamo in piazza, o che occupavamo una facoltà universitaria, o una scuola, avevamo paura di essere attaccati dalla celere, di essere picchiati, feriti, messi in prigione. Quel giorno no, fu un corteo splendido e tranquillo, sotto il sole, non temevamo nulla, circondati da quella specie di esercito operaio. Eravamo protetti, forti, spavaldi. Partimmo alle nove di mattina, arrivammo a piazza del Popolo nel pomeriggio, e non si riusciva nemmeno ad entrare, perché era piena come un uovo, era piena via del Corso, via del Babbuino, piazzale Flaminio, e le rampe di Villa Borghese su su fino al Pincio e a Trinità dei Monti. Dal palco parlarono due giovani sindacalisti, Bruno Trentin, comunista, che era un quarantenne, e Giorgio Benvenuto, socialista, poco più che un ragazzo, e poi parlò anche quello della Cisl, cioè il democristiano, un po' più vecchio degli altri due, Luigi Macario.
Noi, in quell'epoca, per intendere la controparte, dicevamo: la borghesia. Bene, la borghesia restò impressionata da quella prova di forza, e iniziò a cedere. Il contratto nazionale di lavoro, che sembrava irraggiungibile, fu firmato un mese dopo e fu un grande contratto, che aumentava i salari, riduceva il cottimo, diminuiva l'orario di lavoro, introduceva in fabbrica la democrazia (si chiamava "democrazia consiliare") e spezzava un decennio di sconfitte sindacali. Fu l'inizio di una spettacolare riscossa che durò diversi anni e si estese rapidamente: ai chimici, ai tessili, poi via via a tutte le altre categorie. In gennaio fu approvato lo statuto dei lavoratori, e fu una sconfitta sonora e travolgente per il padronato stile anni-cinquanta. Nel '72 per i metallurgici ci fu un contratto ancora migliore di quello del ‘69, che stabilì le 150 ore, cioè un periodo dell'orario di lavoro da dedicare gratuitamente all'istruzione. A spese delle aziende e dello Stato. Le 150 ore cancellarono in Italia l'analfabetismo. Due anni dopo ci fu l'accordo sul punto unico di contingenza, che fu una spinta formidabile a quello che per noi era egualitarismo, e oggi, nel pensiero unico, si chiama appiattimento salariale.
Non furono pacifiche quelle conquiste, si sa. Una parte della borghesia in realtà era decisa a trattare con questa classe operaia che avanzava, maturava, era sempre più seria e sicura di se. E che era rappresentata dalla sua stessa autonomia, e poi dai sindacati e dai partiti tradizionali, soprattutto dal Pci, ma anche dalle forme nuove di sindacalismo dal basso, come i Cub, e da nuove e piccole organizzazioni politiche, Potere Operaio, Lotta Continua, il Manifesto, Avanguardia operaia, tutti gruppi che nascevano allora, soprattutto nelle cinture operaie di Torino e di Milano. Ma c'era anche una parte della borghesia che non intendeva trattare, non cercava la via politica e fece la scelta eversiva. Due settimane dopo la marcia delle tute blu su Roma, scoppiò la bomba a piazza Fontana, a Milano, in una banca, fece sedici morti, furono arrestati gli anarchici, uno fu portato in questura a Milano, probabilmente preso a botte, ucciso, gettato dalla finestra, si chiamava Pino Pinelli, era assolutamente innocente. Ci vollero tre anni per stabilire con certezza che gli anarchici con quella strage non c'entravano niente. Chi l'aveva realizzata la strage di piazza Fontana? Ancora nessuno ce l'ha detto, forse i fascisti, forse i servizi segreti, forse gli uni e gli altri di comune accordo; sicuramente la ordinò quella parte della borghesia italiana che non voleva trattare con gli operai e preferiva eventualmente rinunciare alla democrazia.
Gli anni '70 sono stati sanguinosi. Il terrorismo nero (o bianco, o quello dei servizi segreti) ha riempito di bombe il paese, ha ucciso a tradimento centinaia di persone. Tranne poche eccezioni, e cioè i giovanotti dei Nar (Fioravanti, la Mambro, qualcun altro) per il resto è rimasto totalmente impunito. Anche il terrorismo rosso ha seminato morti, senza bombe, con le rivoltelle strumenti più "virili" ma altrettanto ignobili, e ha rovinato l'esistenza dei parenti delle vittime e anche delle migliaia di ragazzi che hanno creduto nella lotta armata e poi hanno passato decine di anni nelle carceri e altre decine con il rimorso che li rodeva dentro. Il terrorismo rosso ha pagato per i suoi sbagli, ma questo non cambia molto le cose.
Se però immaginate gli anni '70 come il buio periodo della violenza, commettete un errore grandissimo. Sono stati anni straordinari, meravigliosi, è stato il decennio nel quale l'Italia è uscita dal suo medioevo fascista e post fascista, ha trovato se stessa, ha inventato i diritti di massa, ha conquistato più libertà, più giustizia, più uguaglianza, un'idea meno corporativa, ed egoistica, e padronale di società, una capacità di liberarsi dalle oppressioni, delle istituzioni totalizzanti, dell'idea ottocentesca dello Stato padrone. In quegli anni l'Italia è stata un paese all'avanguardia. Sono gli anni delle grandi conquiste sociali e delle riforme, avviate proprio in quell'autunno caldo del '69 che era culminato con il 28 novembre dei metalmeccanici. L'Italia del '79 era un paese molto più giusto di quello di oggi. Dove il senso comune era avanzato ed egualitarista, mille miglia lontano dal berlusconismo e dalla marmellata meritocratica dello spirito pubblico di oggi.
Avete letto in questi giorni gli anatemi contro gli anni '70? Non è vero che i conservatori hanno paura che torni il terrorismo e la violenza. E' chiaro a tutti che quel rischio non esiste. Temono che torni lo spirito politico, la passione di massa, la politica-politica che ha reso unico quel decennio. Speriamo che i loro timori siano fondati.
Prima che sull'articolo sul Settantasette di Giampaolo Pansa su la Repubblica di sabato, varrebbe la pena di interrogarsi sulla pervicacia con cui la medesima testata ha deciso, fin dalla domenica precedente, di presentare la «spesa sociale» al supermercato e alla libreria Feltrinelli fatta dai disobbedienti durante la manifestazione sul precariato come una funesta replica delle «cupe violenze» del Settantasette e un sicuro annuncio di efferate violenze prossime venture. Guerra preventiva della sinistra perbene contro ogni possibile collusione con la sinistra permale? Chissà. Quanto a Pansa, c'è poco da aggiungere al commento che ne ha fatto su di domenica Piero Sansonetti, compresa l'autodenuncia di quanti libri ci siamo «procurati» furtivamente da giovani tradendo, prima che le leggi del mercato e i controlli dei librai, le legalitarissime educazioni di padri specchiati che mai ci avrebbero perdonato quelle piccole illegalità pur commesse in nome del désir de savoir. A proposito, perché non ne parliamo? Perché nessuno si applica a considerare il piccolo problema che il circuito librerie-biblioteche è fatto apposta, in Italia, per ostacolare invece che incoraggiare il consumo specialmente giovanile di pagine scritte? Neanche Carlo Feltrinelli, che a latere di Pansa difende giustamente la «ragione sociale» del proprio marchio ma glissa su questo punto come sull'altro, spinoso, del carattere precario dei posti di lavoro che, come egli rivendica, le stesse librerie Feltrinelli creano. Ci si applica invece con inveterata passione a fare cattiva storia e cattiva memoria del Settantasette, riducendo quella che è stata una delle più complesse stagioni della vicenda politica italiana a una collana di morti ammazzati, un campo di battaglia da guerra civile, una sequenza senza soluzione di continuità fra espropri proletari, rapine, P38, ammazzamenti e terrorismo. Bizzarra approssimazione, nel paese del manierismo politico in cui un mediocre cronista ha il dovere di imparare subito a distinguere con acribìa le virgole delle dichiarazioni di mezza sera di Fassino e Rutelli o di Fini e Casini. Col Settantasette invece andiamo all'ingrosso: «un anno miserabile e sporco di sangue», Lama dixit e Pansa sottoscrive con l'aggiunta dell'«inquietante parallelismo» con l'oggi. Mettiamola così: i disobbedienti, con la «spesa sociale», del `77 ci mettono una citazione, gli obbedienti un fantasma. Non sarebbe il caso di analizzare il fantasma?
Sarà il caso, prima o poi. Anche a partire dalla domanda che si pone a un certo punto Sansonetti, perché tanta parte del giornalismo e dell'intellettualità italiana sia diventata sempre più conformista e sempre meno critica rispetto al potere. Questione che con quel fantasma c'entra eccome, non poche ottusità nell'analisi della società e della politica italiane essendo riconducibili precisamente a una mancata comprensione della cesura - anche violenta e tragica, ma non solo violenta e tragica - che il Settantasette ha operato sulla vicenda italiana. Se si smettesse di ridurlo a un fascio di insensate efferatezze, si riuscirebbe forse finalmente a capire che in quel complicato movimento c'era l'annuncio di trasformazioni sostanziali che nei decenni successivi hanno travolto il paradigma tradizionale della politica, rivoltate di segno e impugnate da poteri (e figuri) non meno violenti dei militanti dell'epoca. La trasformazione in senso postfordista del sistema produttivo, la crisi senza ritorno della rappresentanza, lo slittamento sui massmedia della comunicazione politica, la crisi della razionalità politica classica fecero irruzione sulla scena allora e da allora non l'hanno più abbandonata. Anche il problema della violenza di alcune pratiche (e anche l'esodo femminile - di cui nessuno si ricorda, a cominciare da Bertinotti - dalla violenza di alcune pratiche). Questione da sdoganare anch'essa nella discussione della sinistra estrema di oggi. Se i fantasmi alla Pansa non lavorassero tanto attivamente a renderla tabù.
Il primo libro di politica che ho letto, a 16 anni, me lo procurai alla Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. Costava 300 lire. Io però non avevo 300 lire e allora lo rubai. Era il "manifesto del partito comunista". Lo lessi, era bellissimo. E soprattutto era assolutamente convincente, ed io diventai comunista. Non credo che il mio piccolo furto sia stato un tremendo crimine. Negli anni seguenti rubai altri libri: Lenin, Marcuse, Che Guevara, forse anche Stendhal. Il vecchio direttore della libreria, del quale non ho mai scoperto il nome, era un uomo molto simpatico e faceva finta di non accorgesene. Bastava non esagerare. Un libro alla volta, sotto il cappotto, non di più. D'estate niente.
Sono sinceramente stupito di fronte al possente fiume di indignazione che da una settimana sta travolgendo le coscienze degli opinionisti italiani, terrorizzati dalla spesa a basso costo (loro dicono "esproprio proletario") dei disobbedienti che sabato scorso hanno portato via un po' di merce da un supermercato di Pietralata e poi dalla Feltrinelli di piazza Esedra. Pagandola pochissimo e successivamente distribuendola alla gente. I disobbedienti hanno spiegato che quella era una forma di lotta contro il carovita. Questo giornale ha già spiegato - in modo assai netto - perché giudica sbagliata quella forma di lotta. Però, santo cielo, una cosa è dire che è una lotta sbagliata e una cosa un po' diversa è stracciarsi le vesti e paragonarla alle azioni della malavita, della mafia, della camorra, del terrorismo internazionale e delle Brigate rosse. Il ministro Pisanu ha gridato ai quattro venti che era pronto alla repressione più severa: "tolleranza zero", ha giurato tra gli applausi dei giornali (c'è in giro un sacco di gente che si gloria di essere intollerante. Gli pare una virtù: povero Voltaire...). Giampaolo Pansa ieri su Repubblica ha scritto un lunghissimo articolo intitolato: "Quegli espropri proletari che portarono alla P38". (Per chi non lo sa, la P38 è una pistola). Poi c'è un sottotitolo: "Nei blitz dei disobbedienti lo spettro del '77". Nelle fotografie, d'epoca, che accompagnano l'articolo di Pansa (inizia in prima e poi riempie l'intera pagina 17) si vedono varie pistole in mano a giovani manifestanti e ad agenti di polizia.
L'articolo è composto da una ampia intervista postuma a Luciano Lama (mitico capo della Cgil negli anni settanta, morto otto anni fa), e poi da un dettagliato racconto di tutti gli episodi di violenza e di tutti gli omicidi politici del 1977, intervallato da alcuni riferimenti a Luca Casarini, Francesco Caruso, Guido Lutrario e Nunzio D'Erme, cioè i capi dei disobbedienti di oggi. Non c'è nessun sottinteso nell'articolo, nessun ammiccamento. E' un articolo assolutamente esplicito, che sostiene candidamente questa tesi: i disobbedienti sono quelli che avviano un ciclo vizioso, e questo ciclo finisce con la lotta armata e il terrorismo. In uno dei titoletti che corredano l'articolo di Pansa c'è scritto proprio così: "Inquietante parallelismo". Non starò a spiegare perché la tesi di Pansa è del tutto inconsistente e anche un po' buffa. Ogni lettore di Liberazione è in grado di capirlo di se. Anche Pansa è in grado.
Ho sempre stimato Gianpaolo Pansa, che per molti di noi - quelli che sono arrivati al giornalismo proprio durante i cosiddetti anni di piombo - è stato un po' un maestro. Facevamo a gara ad imitare la sua capacità di scrivere, di raccontare, di trovare il dettaglio più suggestivo, di coinvolgere il lettore nelle cose di cui lui parlava. Bravissimo. So che le sue recenti posizioni politiche - soprattutto dopo il breve periodo dell'anti-dalemismo - oggi sono di feroce ostilità verso la sinistra radicale, verso Rifondazione e specialmente verso Fausto Bertinotti: ma questo è un suo pieno diritto professionale e personale, e non c'è niente da ridire. Però di fronte ad una operazione giornalistica come quella di ieri non posso non farmi una domanda seria: cosa spinge una parte consistente del nostro giornalismo - e della intellettualità italiana - ad assumere posizioni sempre meno critiche verso il potere, sempre meno impegnate nella ricerca e nella analisi politica, e sempre più insofferenti, arroganti, aggressive, verso ogni forma di lotta che rompa gli schemi del conformismo e del pensiero uniforme? Perché i grandi giornalisti, e gli intellettuali pensanti, non si sono mai misurati, in questi anni, con problemi come - per esempio - le leggi europee sul lavoro che azzerano i diritti e dimezzano i salari, o come il protezionismo agricolo, o come le normative internazionali che privatizzano i servizi (l'acqua, la scuola, la sanità), o come i prezzi delle medicine che arricchiscono le case farmaceutiche e mietono milioni di vittime in Africa, o come la sciagurata riforma della scuola della Moratti, o la politica della Confindustria (e dei governi italiani) che in un decennio ha ridotto del 15 o del 20 per cento gli stipendi di quasi tutte le categorie più deboli? Perché la nostra intellettualità e i nostri giornalisti - come ha scritto giorni fa su queste pagine Marco Revelli - si sono arresi? Perché hanno abbandonato ogni aspirazione a mettere in discussione l'ordine costituito? Al massimo riescono a lamentarsi per un eccesso di potere di questo o quel pezzo di borghesia, riescono a prendersela col prevalere del potere politico su quello giudiziario o viceversa, riescono genericamente a protestare per il basso profilo culturale e umano del berlusconismo: niente di più. L'intellettuale-contro, il giornalista-contro sono figure praticamente scomparse. E se qualcuno ha ancora voglia di indignarsi trova come sfogo l'invettiva da scagliare sui disobbedienti. Fabrizio De Andrè diceva: "Signori benpensanti... ".
Il fronte degli intellettuali è uno dei punti più deboli della sinistra di oggi: la sinistra è scoperta su quel lato. Negli anni sessanta non era così. Dobbiamo capire che c'è questo problema e non possiamo sottovalutarlo, perché è difficile vincere le grandi battaglie, e imporre idee nuove, se la stragrande maggioranza della intellettualità non ne vuole sapere. Per fortuna c'è ancora qualcuno che ha voglia di pensare: leggete l'intervista a Marcello Cini che pubblichiamo a pagina due e vi rincuorerete un po'.
SI RESPIRA una strana aria, nel centrosinistra. Un´aria frizzante, quasi euforica, che ne influenza il clima (d´opinione). Si è convinti, a centrosinistra, che il "futuro è nostro". Che le prossime elezioni siano largamente segnate. A proprio favore. Il voto alle recenti suppletive (7 a 0, tre collegi espugnati al centrodestra) ha rafforzato questo sentimento. Mentre, fra gli altri episodi, il "dimissionamento" di Mentana dal Tg5 viene letto come un´ammissione di debolezza dell´altro schieramento. Il premier deciso a investire tutto sul marketing e sulla comunicazione, perché costretto a navigare controcorrente.
Questa convinzione appare diffusa. Nel giugno del 2003 solo una quota minoritaria della base elettorale di centrosinistra pensava che la propria coalizione avrebbe vinto le elezioni. Oggi (secondo le indagini dell´Ipsos) è salita al 75%. Tre elettori di centrosinistra su quattro, in altri termini, si sentono già vittoriosi. Ma la percentuale, probabilmente, cresce ulteriormente nel ceto politico e nella classe dirigente. Le cui dichiarazioni pubbliche, al proposito, non palesano incertezze. Non tanto, sospettiamo, per motivi tattici. Ma per "convinzione convinta". Incoraggiati, anzitutto, dai sondaggi. Che continuano ad attribuire al centrosinistra un vantaggio molto netto nella competizione maggioritaria. E, in misura più ridotta, anche in quella proporzionale. Complice, una memoria selettiva, che induce a rivisitare la storia passata, anche quella più recente, in modo coerente con le proprie aspettative attuali. Così, si tende a leggere quanto è avvenuto nel giugno scorso isolando il voto amministrativo. Dove, effettivamente, il centrosinistra ha prevalso in modo netto.
Ma si glissa sul voto alle europee, che, pur confermando la ripresa del centrosinistra, ha sancito - in parziale contrasto con le stime dei sondaggi - un sostanziale equilibrio fra i poli. Confermando ancora una volta che il centrosinistra "rende" meglio nelle competizioni su base amministrativa. Dove dispone di personale politico credibile, organizzazione radicata e, contrariamente a quanto avviene a livello nazionale, può lasciare sullo sfondo le differenze di programma e identità.
Si trattasse di "credulità demoscopica", denoterebbe solo imprudenza; e una certa dose di assimilazione del modello berlusconiano. Ma l´impressione è che si tratti di un vizio più radicato. Di un pregiudizio ideologico, che induce a leggere nel cambiamento, profondo, che coinvolge, da qualche anno, il paese, un processo destinato a produrre effetti prevedibili, quasi scontati, anche sul piano del comportamento elettorale. Trascinandolo, naturaliter, a sinistra.
D´altronde, i modelli e i riferimenti che avevano caratterizzato gli anni novanta oggi sono declinati. Il mito dell´imprenditore e del mercato, il privato efficiente opposto al pubblico necessariamente dissipativo. La protesta politica dei ceti medi fondata sull´interesse locale e fiscale. Il ripiegamento della partecipazione e dell´organizzazione, in politica, a favore della comunicazione e della personalizzazione. Tutti questi orientamenti da qualche anno hanno svoltato. E tutti, ormai, se ne sono accorti. È appassito il mito dell´imprenditore, mentre il mercato riserva più incertezze che motivi di speranza. Al richiamo individualista è subentrata, impetuosa, una diffusa domanda di comunità, di integrazione e interazione sociale. E la voglia di privato si è appannata. Mentre riprende la domanda di pubblico. E di stato. Anche in politica, le cose sono cambiate rapidamente. La protesta sociale si esprime attraverso la mobilitazione e la partecipazione "visibile". Cui contribuiscono in modo consistente, a differenza del passato recente, i giovani e gli adolescenti. La personalizzazione e la televisione, contano, ma non bastano. A volte giocano contro, suscitando saturazione e rifiuto. Riacquistano, invece, importanza la presenza sul territorio, la stessa "professionalità" politica.
Tutte queste tendenze contrastano con la fase precedente, interpretata dai partiti di centrodestra e soprattutto da Berlusconi. Il motore del suo successo - la speranza nel miracolo economico e nel benessere diffuso - si è decisamente inceppato. Visto che oggi tutti si sentono più poveri; e tutti guardano al presente e ancor più al futuro con inquietudine. Tutti: ma soprattutto i cosiddetti "ceti medi" privati. Fondamentali per il successo del centrodestra.
In mezzo a tanta incertezza "materiale", infine, la società cerca motivi di identità, invece che di utilità. Insegue i valori, non solo gli interessi. Si mobilita per la pace, per i diritti, per l´ambiente.
Da ciò la "fiducia", che si respira nel centrosinistra. Riflette la certezza che il "mondo" sia destinato a spostarsi verso la sua sponda. Spinto dal "cambiamento" dei comportamenti, dei miti, dei valori. Perché la partecipazione, l´insoddisfazione economica, la richiesta di "pubblico", la domanda di identità piegano a sinistra il vento della storia. Una convinzione quantomeno discutibile. Perché molti di questi cambiamenti riflettono paura e delusione. La paura della guerra, l´incertezza economica e dei mercati. Spingono a rivalutare il "pubblico" e lo Stato, come fonte di tutela e protezione. La delusione. Riflette le cattive prestazioni della classe imprenditoriale e di quella politica (sedicente dilettante). In fiero contrasto con le promesse degli anni precedenti. Peraltro, l´individualismo, la competizione di mercato, generano solitudine e senso di vulnerabilità. In tempi di minacce globali. La partecipazione diventa, essa stessa, una sorta di terapia, contro lo spaesamento e la solitudine.
Insomma: i miti degli anni novanta si sono spezzati. E nessuno più crede alla felicità privata, al mito dell´imprenditore - in economia e in politica. Mentre la partecipazione soddisfa più della protesta rancorosa e silenziosa. E i valori dimostrano una crescente "utilità" agli occhi e al cuore della gente. Ma questa corrente sociale e d´opinione non segue un corso obbligato. Può, invece, orientarsi diversamente. Perché ha bisogno di risposte adeguate, in grado di incanalarla.
Si guardi al voto degli Usa. Che, certamente, riflette le specificità del caso americano. Ma serve, anche a noi, a dimostrare come la "domanda di valori e di comunità" possa essere soddisfatta dai repubblicani (secondo il nostro schema: la destra) invece che dai democratici. In base a un´offerta di "protezione" e di ordine, alimentata dalla paura del terrorismo. In base a una mobilitazione della risorsa "comunitaria" presente nella periferia americana, che coincide con la gran parte del territorio degli Usa.
Peraltro, il voto degli Usa serve ad allertare circa un altro pregiudizio, particolarmente diffuso in Italia. Che la partecipazione e la mobilitazione elettorale premino il centrosinistra. Non è vero. La capacità di mobilitazione dei partiti di centrosinistra è tanto più efficace quanto più basso è il grado di partecipazione degli elettori in generale. Quando, come alle elezioni suppletive di ottobre, vota il 50% degli elettori. Allora, il peso dell´organizzazione e dell´identità del centrosinistra diventa preponderante. Ma quando la campagna riesce a mobilitare l´elettorato nell´insieme, coinvolgendo i settori più disincantati, distaccati e periferici, la competizione diventa sicuramente più aperta.
Fa male, allora, il centrosinistra a pensare che la delusione, la domanda di valori, la partecipazione, da sole, siano in grado di spingere i voti verso le sue sponde. Sbaglia a pensare di "avere la ragione dalla sua parte". E, se anche così fosse, sbaglia a pensare che sia sufficiente per vincere. Le ragioni, le parole di "destra", funzionano ancora. Perché ciò avvenga, deve dare agli elettori "buone ragioni". Esprimere valori diversi. Fondativi di un´identità diversa. Attraverso un linguaggio diverso. Rispetto al centrodestra. In grado di rispondere all´incertezza, alla paura, al disagio concreto e al disorientamento dei cittadini. Oggi non è (ancora) così. E le ragioni, le parole della destra continuano a funzionare.
Dovrebbe, il centrosinistra, insistere, sulle "sue" parole. Solidarietà, sicurezza e benessere "sociale", equità. Che oggi (ce ne accorgiamo mentre le scriviamo; e, ancor più, mentre le pronunciamo) appaiono largamente "svalutate". Anacronistiche. Fuori moda.
Tali rischiano di restare anche le attese del centrosinistra. E le sue pretese. Di essere sospinto verso la vittoria (annunciata) dal "vento della storia". Senza disporre di vele capaci di domarlo. Di parlare agli elettori delusi, in modo persuasivo.
Senza trovare le parole.
Sul "manifesto" si è aperta una discussione sul futuro della sinistra radicale. Cioè di quei gruppi - o partiti, o parte di gruppi o partiti - che alle ultime elezioni europee hanno raccolto quasi il 15 per cento dei voti, che si collocano alla sinistra dell'asse Prodi- Fassino- D'Alema- Rutelli, che si oppongono ai valori del "liberismo" duro o temperato, che innalzano la bandiera del pacifismo e della resistenza alla globalizzazione americana, che credono nel valore-lavoro. Cosa devono fare per dare un senso alla propria forza? Cioè: quali sono i loro problemi strategici, politici, di programma, di comunicazione di massa? Come devono fare per mettere a frutto quel 15 per cento, e per usarlo in modo da spostare a sinistra l'Italia, visto che più o meno è questo il loro obiettivo comune?
Il problema lo ha posto Alberto Asor Rosa, storica colonna della intellettualità politica di sinistra da un più o meno quarant'anni. Asor Rosa ha scritto un articolo nel quale ha sostenuto quattro tesi. La prima è che quel 15 per cento di voti non può essere lasciato allo sbando e deve essere messo al riparo dalla litigiosità, dalle incomprensioni e dai piccoli dissensi che separano i vari partiti e gruppi che lo hanno raccolto. Dunque occorre una operazione di unificazione politica. Un partito? Non corriamo troppo, vedremo. La seconda tesi di Asor Rosa è che questa unificazione politica diventa sempre più urgente nella misura in cui si sta realizzando una operazione di unificazione della sinistra moderata. Un centrosinistra serio ha bisogno di due gambe, e la gamba di sinistra deve essere robusta, e deve essere parte organica dell'alleanza. La terza tesi è che nessuna unificazione politica è possibile se prima non si compie una unificazione culturale. Cioè se non si risponde a questa domanda: "può esistere una cultura di sinistra nelle condizioni date della globalizzazione? E quale può essere questa cultura di sinistra?" Infine Asor Rosa sostiene una quarta tesi: tutto questo deve avvenire nel rispetto del bipolarismo, e cioè in uno schema di alleanze organiche e di alternanza tra i due blocchi di destra e di sinistra al governo del paese. Asor Rosa dice che se si cedesse alla tentazione di rinunciare al bipolarismo per tornare al proporzionale, la sinistra radicale perderebbe tutta la sua forza e la possibilità di incidere nel governo dell’Italia.
Su queste quattro tesi è iniziata la discussione. Molti consensi per Asor ma anche molte critiche e molti distinguo. Oliviero Diliberto, il segretario dei “comunisti italiani”, ha sposato in pieno le tesi di Asor Rosa, ponendo in questo modo la questione: è all'ordine del giorno la battaglia per sconfiggere le destre. La sinistra radicale deve partecipare in modo unitario a questa battaglia se poi vuole avere un peso adeguato nel centrosinistra che sarà chiamato ad assumere il governo del paese. Rossana Rossanda e Marco Revelli - due intellettuali molto influenti nella sinistra - hanno ragionato su un altro aspetto della questione. E cioè sull’analisi del Berlusconismo e della sua crisi. La Rossanda ha fatto osservare che ci troviamo di fronte a una singolare situazione politica: la destra è messa in difficoltà politica, e forse addirittura è sconfitta, da una iniziativa del centro moderato; mentre la sinistra e il centrosinistra restano alla finestra e fanno politologia (nel migliore dei casi) invece che politica. Naturalmente questo fatto cambia la natura e la qualità della sconfitta della destra.
Revelli - con una analisi simile - ha paventato la sconfitta di Berlusconi e la sopravvivenza del berlusconismo. E cioè ha avanzato l’ipotesi che la fine dello schema politico di questi anni (con la persona di Berlusconi al centro di tutte le reti di potere del centrodestra) non significhi la fine del berlusconismo, come ideologia capitalistica moderna (”arricchitevi e ponete l’aumento del successo e della ricchezza personale come valore centrale e interclassiste dell’Occidente”). Revelli teme che il centrosinistra si candidi ad una guida temperata del berlusconismo, che ne elimini gli eccessi e ne salvi l’anima e la sostanza.
Cosa c’entrano queste analisi con la questione posta da Asor Rosa? C’entrano, perché Rossanda e Revelli approvano la richiesta di unità avanzata da Asor, ma non ritengono che questa richiesta possa precedere una operazione di chiarezza sulle strategie della sinistra radicale, e cioè sul progetto di società deberlusconizzata e sulle vie per realizzarla (del resto lo stesso Asor Rosa aveva posto il problema, domandando: quale cultura per la sinistra di alternativa?). Qui Revelli e Rossanda si dividono, perché Revelli si pone essenzialmente il problema di creare valori nuovi dal basso (a partire dal territorio, dalle città, dalle amministrazioni, dalle reti di solidarietà) mentre Rossanda chiede soprattutto di incidere sulle istituzioni, anche sulle più alte, dunque pone la questione del governo.
Vedete bene che tutta questa discussione avviene con idee e anche con terminologie politiche così lontane da quelle della politica ufficiale, da rendere molto difficile una unificazione tra questo dibattito e quello che si svolge all’interno dell’Ulivo. Se quello di Asor era un tentativo di avvicinare le due sfere di discussione, non è riuscito.
Nel dibattito aperto da Asor Rosa è intervenuto anche Fausto Bertinotti. Il quale approva il richiamo alla necessità di ricercare una cultura della sinistra che tenga conto dei dati nuovi della globalizzazione. Contesta però ad Asor Rosa sia la sua idea di porre la sinistra radicale organicamente all’interno del centrosinistra - come una sua componente fissa e riconoscibile - sia la proposta di rendere eterno il bipolarismo. Bertinotti pensa che il bipolarismo sia una gabbia dalla quale uscire, e che la sinistra radicale non può rinunciare alla sua autonomia politica come prezzo da pagare ad una alleanza organica di centrosinistra. Bertinotti dice che il problema di come la sinistra possa partecipare eventualmente al governo, e di come possa influire sul governo, è un problema vero e attuale. Ma oggi - dice - si tratta di sciogliere questo nodo: quale è il fuoco del progetto della sinistra? E’ il governo, cioè il raggiungimento di uno strumento di potere, o invece il fuoco sta nei movimenti, e cioè nel rapporto fluttuante con un insieme di mondi, di idee e di conflitti che non è possibile “fissare” in una organizzazione, nè subordinare a interessi superiori e a ragioni di Stato?
Naturalmente per Bertinotti il fuoco sta nei movimenti. Lui pensa che l’avvicinamento, o l’ingresso, nell'area di governo, possa essere un passaggio, ma deve restare uno strumento del progetto e non diventare il progetto stesso. Per questo - sembra - il leader di Rifondazione comunista non sente come urgentissima la necessità di una unificazione politica o organizzativa di partiti e gruppi, ma sollecita invece una unificazione di programmi e idee. Propone una costituente della sinistra per l'alternativa, che sia un luogo di elaborazione e di alleanza programmatica tra gruppi, partiti, individui, pezzi di sindacati.
Dunque l’ipotesi della creazione di un partito di sinistra del 15 per cento che si affianchi all’alleanza riformista (del 30 o del 35 per cento) non è una ipotesi concreta? Probabilmente no. Molti nella sinistra iniziano a pensare che i partiti hanno ancora un ruolo e un senso nella politica moderna, ma non più il ruolo fondamentale ed esclusivo e totalizzante che avevano una volta. E che persino la politica delle alleanze (caposaldo di tutta la politica italiana da De Gasperi, a Togliatti, a Moro, a Berlinguer) che è sempre stata intesa come politica delle alleanze tra partiti, possa cambiare la sua natura. Possa diventare una politica di alleanze tra correnti di pensiero, che attraversa i partiti, senza scomporli, senza metterli in crisi, senza scinderli. Forse la “scissione” - categoria politica principe nella politica del ‘900, attorno alla quale ruota l’intera storia dei partiti politici - è ormai decaduta e morta. Chi si attarda a evocarla, esaminarla, temerla, minacciarla, perde tempo.
In vista delle elezioni, per esempio, potrebbe realizzarsi una alleanza di programma di sinistra tra uomini e gruppi di molti o tutti i partiti del centrosinistra. Che imponga all'alleanza dell’Ulivo di fissare un programma di governo molto diverso da quello del 1996. (disarmo, apertura delle frontiere, fine della flessibilità, reddito di cittadinanza, Europa sociale eccetera...). In questo modo, pur lasciando aperta la questione organizzativa, la sinistra radicale potrebbe trovare lo spazio per dire delle cose sulla via lungo la quale superare il berlusconismo, come chiede Revelli.
si chiede come superare la frammentazione di quel 15% che ha votato alla sinistra del listone. Il quale persegue una formazione, federativa o unitaria, di tutte le sinistre moderate. Operazione che Asor definisce anche intrinsecamente logica: se Prodi e D'Alema la pensano allo stesso modo, se mirano a un'alternanza democratica e rispettosa delle regole, senza Berlusconi Bossi e Fini, nell'orizzonte del liberalismo compassionevole della Carta europea competitivo e privatizzatore, tanto vale che si mettano assieme. Ma perché quel 15% che non la pensa così non fa lo stesso? Non ha condiviso con i moderati la scelta delle guerre, non considera che basti una copertura dell'Onu per ricorrervi, è contrario alla flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che il governo di centrosinistra aveva covato con Treu, insiste per la priorità di alcuni beni pubblici (scuola, sanità e previdenza) sul privato. Non sono convergenze da poco. Perché non si danno un'iniziativa comune che farebbe pesare quel 15% più di quel che pesi ora sul quadro politico? Non sarebbe «organico» all'opposizione o a un governo di centrosinistra avere due gambe? Bertinotti, che pur persegue un accordo elettorale con la sinistra moderata per far uscire di scena la Casa delle libertà, obietta che anzitutto una fisionomia della sinistra radicale non è organica al quadro di centrosinistra, e fin qui ha ragione: non è la stessa cosa formare una maggioranza elettorale o anche di governo - tipici oggetti di mediazione - e ricostruire una forza di sinistra coerente. Ma questa obiezione sembra rivolta, più che ad Asor Rosa, alla proposta di costituente di tutte le sigle che hanno concorso al famoso 15%, avanzata da Diliberto. Obietta Bertinotti che queste sigle non rappresentano la ricchezza dei movimenti e che è impensabile costruire un'alternativa senza di essi; e in secondo luogo che questa comporta un rivolgimento delle categorie politiche classiche della sinistra, rivoluzione culturale che già sta nei movimenti ed esclude un progetto compatto sul che fare. Questo, aggiunge, è il lavoro che Rifondazione ha avviato con il gruppo della sinistra europea.
Discuterei questa ultima affermazione, conoscendo i partiti che vi sono confluiti. Ma più importanti sono i ragionamenti che la precedono. E' certo che sarebbe folle definire un'alternativa anche a breve termine senza tenere conto della grande sollevazione dell'opinione fra i popoli che da alcuni anni costituisce la vera novità del quadro politico e non è stata prodotta dai partiti. Ma è altrettanto certo che ne è costitutivo il rifiuto a darsi una rappresentanza. Come il femminismo, i movimenti sono antipolitici e non è difficile scorgerne le ragioni, quindi nessuno delega nessuno, ed è il motivo per cui una costituente dei movimenti, cui Bertinotti lavora da tempo, non è avvenuta. Neanche a prescindere dalle sigle che hanno coaugulato il famoso 15%. Non so se questo atteggiamento sarà una costante. So che esso comporta oggi la rinuncia ad affrontare il blocco dei poteri proprietari, economici, militari sul terreno istituzionale, che è poi quello sul quale si decidono i grandi rapporti di forza, guerre incluse. Puntano i movimenti su un'azione molecolare che disgregherà dall'interno questo blocco? Sta di fatto che Bertinotti non può pensare di metterli attorno a un tavolo per definire un'alternativa alla Casa delle libertà o a un eventuale centro. Essi sono una presenza essenziale alla quale i partiti della sinistra dovrebbero fungere da sponda, senza pretendere né di assorbirli né di esserne assorbiti. In verità mi pareva che Rifondazione fosse già giunta a questa conclusione. Ma essa lascia totalmente aperta la necessità di una iniziativa politica loro, dei sindacati, dei gruppi che si vogliono rappresentativi.
Bertinotti aggiunge che un'alternativa implica affrontare un rivolgimento culturale che i movimenti avrebbero già costruito, che sarebbe autosufficiente, che non abbisognerebbe di programmi, tantomeno se venuti da altri e si esprimerebbe in un molteplice work in progress rifuggendo da compattezze e compiutezze. Non sono convinta che sia così. I movimenti rompono con il metodo della politica attuale ma riprendono molti elementi della politica moderna, quelli che Tronti chiama il grande `900. Quando rifiutano la guerra come soluzione dei conflitti, fanno propria e diffusa la dichiarazione delle Nazioni unite del secondo dopoguerra - la domanda cui né essi né noi rispondiamo è perché questa acquisizione comune sia andata perduta. Analogamente, Melfi o Terni non sono una nuova invenzione della lotta di classe, né Scanzano è una rivolta popolare «neoidentitaria» (fortunatamente): sono grandi riscoperte e riattraversamenti dopo la caduta conflittuale degli anni `90. Insomma una elaborazione fra politica, cultura e soggetto sociale diretto è da fare.
E rispetto a questa urgenza la diatriba sul vecchio e il nuovo non ha grande interesse. Proporrei di passare dal metodo: chi ha diritto e possibilità di darsi da fare per l'alternativa? al merito: in che consiste l'alternativa? E vedo due problemi. Il primo è che la costituzione di una sinistra deve ridiscutere la rappresentanza - pena la riproduzione dei propri vizi o la dissoluzione in una forma di populismo o la mera ripetitività dello slogan «la politica è in crisi». E questo rimanda anche a grandi e irrisolte questioni di teoria (e di storia). Ma non impedisce alle forze politiche in campo, anzi, di esporsi subito. Infatti, come si può affermare sul serio, per esempio, una priorità del pubblico sul privato senza riproporre il problema di chi decide? Dei diversi livelli delle istituzioni e del loro rapporto con una partecipazione non istituzionalizzata? Si possono difendere i diritti del lavoro o avanzare un programma di pieno impiego senza definire le istanze decisionali pubbliche e non solo legate al conflitto sui luoghi di lavoro ma ormai perfino continentali? Su questo punto si sfugge sempre per paura di essere accusati di statalismo. Il secondo problema è che un'alternativa esige una presa di posizione, con relative tappe e alleanze, sul tema se essere antiliberisti (cosa che tutti affermano) non significhi anche essere anticapitalisti, almeno nel medio termine, almeno nell'orizzonte che ci si dà. Anche su questo le sinistre sfuggono. Per molti di essi il potere sul modo di produzione è indifferente, il lavoro non è più «al centro» (espressione sempre un po' ridicola); il conflitto non sarebbe più che un esercizio ginnico. Con i codicilli che ne conseguono, la libertà viene prima dell'uguaglianza, la persona prima della società, e avanti di questo passo. Qui sta il nodo gordiano che divide la sinistra radicale da quella moderata, ma investe anche la maggioranza dei movimenti. Penso non solo a Galtung e a Latouche ma ai miei amici e compagni di Carta, a certe tesi negriane, a tutto l'ecologismo.
Un'alternativa agibile che non sia soltanto un'affermazione di dover essere ha questo orizzonte e insieme deve mediarlo subito. Il 15% di cui parla Asor e le sigle che lo hanno raccolto e i movimenti che lo hanno da lontano o da vicino sorretto sono costretti a porsi ambedue questi problemi. Che Berlusconi se la cavi o no, per il governo delle destre è suonata la campana. L'ha suonata il centro. Tutte le sinistre sono rimaste assenti. Restarlo nel passaggio che si va delineando sarebbe una responsabilità grave.
Avrei voluto scrivere questo articolo prima delle ultime consultazioni elettorali (europee e amministrative). Anzi, avrei dovuto: perché qualcuno potrebbe ora pensare che il mio discorso ne risulti influenzato. Invece no: quel che è successo con le elezioni (andate abbastanza bene, comunque) e quel che dopo, cioè ora, sta succedendo come effetto di quelle, ha al massimo accelerato i processi e aumentato la confusione in atto: non ha modificato alcuna delle tendenze di fondo e soprattutto non ha risolto nessuno dei problemi che ci stanno sul collo da almeno quindici anni (che è, in politica, un tempo infinito). Anzi: come ho già detto, la confusione invece di attenuarsi è al massimo, e per giunta in ambedue i campi contrapposti. L'esito non del tutto irrealistico potrebbe essere il crollo della Seconda Repubblica prima ancora che sia nata e un ritorno, per giunta degradato e sotto tono, alla Prima (cui molti stanno già lavorando). Verrebbe voglia di dire: fermiamoci un momento e riflettiamo: dove stiamo andando? e soprattutto: dove vorremmo andare? Farò un ragionamento in punto di logica e non di fatto. E' vero: i padri fondatori del pensiero moderno ci ammoniscono che la politica non ha a che fare con la logica ma con il fatto. Tuttavia: possono sussistere e per giunta esser guardati con favore fatti deprivati di qualsiasi logica? Il mio contributo aspirerebbe a verificare la possibilità di riaccostare le due sfere invece di rassegnarsi a darle per costitutivamente separate, anzi contrastanti.
Parlo del centro-sinistra, ovviamente. Io continuo a pensare che, sul piano della logica, la soluzione migliore sarebbe una federazione di forze di sinistra, dai Ds a Rifondazione, che dialoghi, dentro un quadro organico e irrinunciabile, con la componente più moderata del centro-sinistra (la Margherita, e quant'altro). Devo ammettere, però, che in questo caso, la divaricazione tra logica e fatto sembra ormai irreversibile. La maggioranza dei Ds tende a federarsi, e secondo taluni a fondersi, con la Margherita. Il fatto è che ad una logica formale si contrappone qui una logica più sostanziale: Prodi, Fassino e D'Alema sono attratti l'uno verso l'altro da una visione moderata sempre più condivisa (quindi, il mio appello alla logica funzionerebbe in definitiva anche in questo caso). Gli si oppongono infatti, significativamente, le componenti più schiettamente Dc della Margherita, capeggiate, udite, udite!, da un singolare democristiano di recentissimo completamento, Francesco Rutelli, le quali pensano in questo modo, per l'appunto, di favorire un ritorno alla Prima Repubblica.
In questo quadro, scartata la prima ipotesi come troppo irrealistica per esser logica, io trovo che il tentativo confederativo (e forse fusionale) degli «Uniti per l'Ulivo» (ossia il partito prodiano) sia da guardare con favore. Se la pensano davvero allo stesso modo, se nutrono più o meno gli stessi valori, perché non dovrebbero stare insieme? Si tratta di quella federazione o concentrazione o partito del 30 per cento, che costituirebbe la consistente (ma non schiacciante) ala moderata del centro-sinistra italiano. Condizione ne sarebbe che la manovra distorsiva rutelliano-democristiana sia battuta (e questo, come dirò più avanti, sarebbe già un bel guadagno).
Ma, naturalmente, io contemplo le vicende dell'ala moderata del centro-sinistra in maniera ormai distaccata, da osservatore imparziale, che si sforza di apprezzare le prospettive logiche dovunque esse si manifestino (e questa mi sembra tale). Sarei più interessato a introdurre elementi di logica nella sinistra del centro-sinistra, che in questo momento m'interessa di più.
Qui, se possibile, la situazione è molto più confusa e caotica che nell'ala moderata del centro-sinistra, il che è tutto dire. Nonostante gli innegabili passi avanti compiuti da Rifondazione comunista con l'operazione Sinistra europea, a me pare che le divisioni organizzative, i risentimenti personali, i crediti elettorali acquisiti (che a chi s'accontenta possono sembrare anche un cospicuo patrimonio), la forza inerziale di sopravvivenza dei vari personali politici, disegnino una situazione di frammentizzazione e di debolezza, che rappresenta il ricalco automatico e del tutto sterile di frammenti minoritari storici del mondo politico della Prima Repubblica. Dobbiamo ammettere che nel campo moderato del centro-sinistra un'ipotesi strategica è emersa; qui nulla.
Il rischio è che, in caso di auspicabile vittoria elettorale, ognuno dei cespugli della sinistra faccia da partner, contrattabile, alla federazione moderata, in tal caso necessariamente egemone. Al contrario, la forza elettorale di questo ambito (che va dal Correntone Ds a Rifondazione ai movimenti) è stimabile realisticamente, come s'è visto, intorno al 15%: una forza enorme se presa nel suo complesso, in grado di determinare diversi rapporti di forza all'interno del centro-sinistra e d'influire in maniera decisiva sulla formulazione dei programmi di governo.
Sarebbe logico, dunque, che nascesse una confederazione di sinistra organicamente collocata nel centro-sinistra, come ne sta nascendo una moderata. Però... Però io penso che su questo versante la domanda non possa non essere maggiore e più impegnativa: rappresenta uno dei punti d'onore (e dei rischi peggiori) della sinistra di tutti i tempi non accontentarsi delle mere convenienze. La domanda dunque diviene la seguente: esistono le condizioni minimali comuni perché questa confederazione vs fusione si possa realizzare come nel caso dei moderati del centro-sinistra?
Per dare una risposta a questa domanda, com'è sempre stato nelle tradizioni migliori della sinistra italiana (ed europea), bisognerebbe spostare il campo d'osservazione dalla politica alla cultura, e la domanda dovrebbe essere ulteriormente riformulata in questo modo: cos'è una cultura di sinistra oggi in Italia (e in Europa)? a quali interessi intende rispondere? quali convinzioni ideali la tengono insieme? Più radicalmente ancora: può esistere una cultura politica di sinistra nelle condizioni date della globalizzazione?
Su questo non una parola seria (solo slogan) nel corso dei famosi ultimi quindici anni. Per forza che ci ritroviamo solo piccoli scheletri organizzativi e militanze molto solide ma molto chiuse, legate alla forza residuale delle rispettive tradizioni. Qui non basterebbe la confederazione delle piccole forze esistenti, così come sono, ci vorrebbe una riflessione comune sui fondamenti. Se a qualcuno interessa, si può tentare di farla.
Infine. Tutto il ragionamento sta in piedi solo se non si torna indietro dal sistema bipolare al sistema proporzionale. Questa è la cartina di tornasole che evidenzia la distanza enorme tra chi intende ancora approfittare delle opportunità offerte tutto sommato dall'impianto istituzionale della Seconda Repubblica e chi vuole tornare al metodo della contrattazione permanente e multilaterale di ognuna delle forze nei confronti di tutte le altre. La logica anzi vorrebbe che, proprio per portare avanti il disegno rinnovatore del centro-sinistra, di tutto il centro-sinistra, il sistema bipolare fosse rafforzato in senso maggioritario. C'è qualcuno disposto ad ascoltarlo nella sinistra del centro-sinistra? Se non c'è, inutile parlare di nuova cultura mentre in politica stiamo tornando vertiginosamente alla vecchia.
La discussione aperta da Asor Rosa sul e - con toni diversi e in altri luoghi - da Bertinotti e da Mussi prima e Occhetto e Ingrao poi mette in fila alcuni punti chiari e alcune ipotesi programmatiche nette. Soprattutto avanza un «metodo» di lavoro originale nel modo di intendere i rapporti a sinistra. I punti chiari di analisi - mi scuso per lo schematismo - sono strettamente connessi con la ridefinizione del quadro politico italiano: alla luce dello sfaldarsi del blocco berlusconiano (uno sfaldamento che non è ancora un «tutti a casa») dovuto anche all'azione dei movimenti e alla luce del progetto politico della Federazione dell'Ulivo. Processi legati tra loro più di quanto si pensi, con una scelta chiara da parti del gruppo dirigente dei Ds e della Margherita di concentrare, versus un fantomatico centro, una proposta politica e programmatica più moderata dell'intera coalizione. Una scelta quest'ultima dal doppio effetto: rendere più complessa una definizione cultuale, identitaria e programmatica della grande alleanza democratica; consegnare ad altri - tutti da venire - il compito di rappresentare quelle istanze più radicali del lavoro, del welfare universalista, della supremazia del pubblico in materia di beni comuni, nonché di una pace come scelta politica definitiva in un contesto unipolare. L'ipotesi di lavoro originale è infine nell'idea che si lavori nel costruire un vasto schieramento politico e culturale, a partire dalle proprie «postazioni», rimanendo ognuno nelle proprie realtà (partitiche, sociali, di movimento) in un modo nuovo di essere ed esprimere soggettività complesse. Un metodo, aperto e partecipativo, che è al contempo prassi ma anche fine (la democrazia).
Da qui l'esigenza di un profondo sforzo per definire idee, progetti, valori condivisi in quella che per definizione è una sinistra ampia, presente in molti partiti, ma soprattutto nella società (sindacato, associazioni, movimenti). Un'esigenza resa ancora più forte a partire dalla «lezione americana» che vede non solo Bush vincere alla grande, ma soprattutto come i ceti più popolari - quando non trovano un'offerta politica attenta ai loro bisogni sociali - divengano preda di una sindrome di «insicurezza» e di abbandono, che trova poi nella destra la risposta più efficace.
Un'esigenza infine che va interpretata nell'immediato in una doppia direzione: da un lato impedire che si porti a compimento un processo che scaverebbe un solco difficilmente colmabile tra i cosiddetti esponenti del Partito Riformista e i radicali, impedendo una più ampia partecipazione ai mille soggetti sociali, della società civile e dei movimenti che si riconoscono esclusivamente nella Grande Alleanza Democratica; dall'altra produrre quell'esplosione di idee, progetti e partecipazione che permetterebbero non solo di sconfiggere Berlusconi, ma di delineare un progetto e una forma della politica alternativa al berlusconismo, a quel mix di provincialismo e autoritarismo che in questi anni, dai luoghi di lavoro, alla scuola, fino alle istanze costituzionali abbiamo visto dispiegarsi con una forza e coerenza impressionante.
Credo che quest'ultimo processo, più complesso di una semplice sommatoria di gruppi dirigenti diffusi e di illustri pensatori, possa non solo dare quella legittimità reale che la ledearship di Prodi necessita, ma soprattutto possa delineare un «campo da gioco» nuovo dove tutti, con le proprie diverse autonomie e diversi ruoli, siano in grado di portare quell'elaborazione e quella pratica democratica che ha caratterizzato gli ultimi anni di mobilitazioni e iniziative.
Superando quella empasse in cui gli stessi movimenti, le organizzazioni sociali, i tanti cittadini e lavoratori si trovano quando sono chiamati a un confronto a più dimensioni, un confronto che - come ben sottolinea Ingrao su Liberazione di sabato - non può eludere la questione del potere e della rappresentanza istituzionale.
Dentro questa cornice la proposta di Asor Rosa non solo è la benvenuta, ma esprime una necessità evidente: quella di offrire in modo nuovo e non gerarchico un processo di discussione collettiva aperta a tutti. Definire parole d'ordine comuni, programmi che siano espressione di un alterità anche valoriale è oggi l'urgenza più sentita da chi in questi anni ha alimentato non solo una forte e popolare opposizione al modello neoliberista internazionale e nazionale (con tutte le peculiarità populiste tipiche del nostro paese), ma anche di chi non si accontenta di battere Berlusconi per «consunzione dell'avversario».
Come sindacalista e uomo di sinistra ovviamente sentirei l'esigenza di immettere in questa discussione l'importanza fondamentale di una ricostruzione di identità a partire dal lavoro, dalla buona e stabile occupazione (strumento di emancipazione sociale e di libertà, prima ancora che semplice strumento economico), della giusta redistribuzione dei saperi e delle tecnologie, della costruzione di una rete più ampia di diritti di cittadinanza oltre l'egemonia di un mercato selettivo. E la grande questione della pace, come precondizione per un progresso amico dei più, dei popoli e dei lavoratori.
Ma se avremo tempo per approfondire questi temi di cui cito soli i titoli, oggi l'urgenza è definire chiaramente il come, il fine e il quando dar vita a questa nuova avventura di idee e speranze. La sinistra sociale non potrà non esserne partecipe e interessata.
Quel che mi interessa nella proposta di Alberto Asor Rosa è che si crei una Camera di consultazione permanente della sinistra «radicale» - quella che ha espresso il famoso 13,5 per cento dei voti ma poi non si è più neppur consultata. E' importante che essa e il suo settore più rilevante, Rifondazione Comunista, abbiano stabilito con Romano Prodi un accordo per battere la Casa delle libertà e per far fronte alla spinosa eredità che questa lascerà a un eventuale governo delle sinistre. Questo accordo è non solo necessario per togliere di mezzo Berlusconi, ma per assicurare che un governo delle sinistre non sarà perpetuamente in crisi. Nessuna delle due condizioni è finora garantita. Il vento che tira non è progressista e tantomeno riformatore o rivoluzionario. La vittoria di Bush dice che oggi l' appeal è quello di una destra dura, decisionista, ultraliberista, che risponde all'insicurezza con la guerra e considera un'anticaglia che le controversie internazionali siano affrontate con mezzi politici e discusse in un foro come l'Onu. E davanti al voto plebiscitario del 2 novembre, le sinistre europee sono colpite e disorientate. Da noi, Ds e Margherita esortano a indagarne i motivi, ed è giusto, ma aggiungono che si tratta di andare loro incontro, ed è sbagliato. Non tutto quello che esprimono le viscere di un paese arroventato da un leader bellicoso è da coltivare: si rischia di ripetere l'errore di considerare un passo avanti tutto quel che avviene apparentemente dal basso, come a suo tempo D'Alema considerò progressista il populismo della Lega. E dedurne che quel che occorre è conquistare un «centro», zona incerta né di destra né di sinistra ma un po' di tutti e due, che vorrebbe dire ripetere l'errore dei governi Prodi, D'Alema, Amato del 1996-2001 e della campagna elettorale di Kerry. L'opposizione deve avere un progetto che agli stessi problemi non da' le medesime risposte della destra: siamo un paese di interessi divisi, la Casa delle libertà ha ulteriormente approfondito la divisione, occorre dire a chi, su chi e a quale fine la Gad si rivolge, e da qui cercar di conquistare una maggioranza. Così del resto hanno fatto, da parte loro, Berlusconi e Bush. Se no si è perduto in partenza.
Ma precisare questo progetto non è semplice. Io credo che le divergenze fra le sinistre non dipendano dalla mancanza di buona volontà o da piccoli calcoli di partito. Da oltre venti anni la sinistra è in sofferenza, sotto l'assalto di una restaurazione che ne ha messo in luce le debolezze (nell'implosione dei socialismi reali e nel terremoto tecnologico e politico dell'occidente capitalistico), ha mutato strutture materiali e composizione delle classi, ha modificato la percezione delle possibilità e dei bisogni. Insomma, la sinistra paga aspramente una sconfitta storica. E' inutile negarla. Non si spiega altrimenti né l'impaurita flessione moderata dei Ds, né la tormentosa ricerca di referenti in Rifondazione comunista. E per questo gli appelli emotivi e apparentemente di buon senso all'«uniamoci tutti», che partono ora di qua ora di là, concludono ben poco. Meglio ricordare che la stessa riscossa antifascista partì da un riesame della situazione che aveva di fronte, dei suoi paradigmi e dai punti sui quali doveva essere incardinata la repubblica da conquistare.
Oggi l'opposizione fatica e nell'analisi e nella proposta. Mi limito soltanto a tre esempi.
Primo. Nessuno dava per scontato il secondo mandato di Bush, mentre è stato un trionfo. Esso da' la misura esatta del mutamento dei rapporti di forza e dell'idea di convivenza nel mondo che erano seguiti alla seconda guerra mondiale: nel 1946 si concluse che la guerra sarebbe stata bandita dalle controversie internazionali (che nessuno era così sciocco da ritenere finite) e che il governo delle contraddizioni e dei fini andava discusso da un direttorio che avrebbe rappresentato tutti i popoli e gli stati. Non si disse, ma era giudizio comune, che era anche il metodo per regolare il conflitto delle due grandi potenze rappresentanti due diverse idee di società.
Caduta l'Urss, virato quel che restava dei socialismi reali verso forme di autoritarismo politico e capitalismo economico, la sinistra europea si è limitata all'inizio a sperare che la sola grande potenza rimasta, gli Stati Uniti, si desse il ruolo di una sorta di giudice di pace. E' avvenuto il contrario e non soltanto dopo l'11 settembre, che ha offerto un sanguinoso pretesto in più: nel corso degli anni Novanta gli Stati Uniti hanno deciso che spettava a loro governare il pianeta al di qua o al di là di ogni assise internazionale di diritto, e a questo fine si sono riservati la decisione di imporre con la guerra il proprio modello. E affermando di battere il terrorismo, come prima frontiera, hanno spedito armi ed eserciti nel braciere del medioriente. Di fronte alla conferma popolare del 2 novembre, l'Europa è rimasta interdetta e la sinistra si divide fra una «accettazione moderata» della linea di Bush e una protesta che, anche quando mobilita le masse, non incide sui poteri se non riesce a cambiare i governi (Zapatero). I richiami alla carta dell'Onu e alla Costituzione italiana restano inoperanti: anche per la maggior parte delle sinistre la priorità del diritto stabilita nel 1946 e nel 1948 è più o meno tacitamente abbandonata. Ne deriva anche l'incertezza della fisionomia di una Europa appena nata e le spaccature al suo interno sulla collocazione internazionale.
Eppure proprio in questo mutamento degli equilibri mondiali l'Europa sarebbe in grado di avere un ruolo decisivo, costituendo una regione più grande per popolazione e bilancio degli Stati Uniti, se assumesse come strumenti politici l'interdizione della guerra e l'opera della diplomazia e della mediazione politica. Non si tratta di separarsi conflittualmente dagli Stati Uniti, ma di affermare una differenza dalla linea dell'attuale amministrazione americana, che fra l'altro non sarà eterna. Per prima cosa, oggi come oggi, rivendicando una funzione principe nel medioriente, con il quale confina, chiudendo sulla linea di Ginevra almeno il primo focolaio dei conflitti, quello fra Israele e Palestina.
Secondo problema. Non credo che a riemergere sia, come si usa dire, la questione del «lavoro» ma quella dei «diritti del lavoro». La prima passa ovviamente la mano alle imprese, sole in grado di offrire o ritirare occupazione, precaria o meno, in una globalizzazione ingovernata, salvo che dalle multinazionali, che permette loro di giocare su tutti i tavoli del pianeta il minor costo della manodopera. Anzi competizione e concorrenza quasi ve le costringono. I «diritti del lavoro» - bisognerà pur dirlo - non stanno nella logica dell'impresa, né del mercato, né della competizione, né della concorrenza. La piena occupazione non è una priorità, ma una variabile assoluta nella logica della libera circolazione dei capitali, sulla quale alla sfera politica, statuale o continentale, è impedito di mettere mano. Possibile che nessuna delle sinistre abbia finora il coraggio di dire che è su questa, e dunque sulle regole di Maastrischt e di Amsterdam, che occorre intervenire? E non limitarsi a dirlo ma ad elaborare un tragitto, delle alleanze, delle tappe? Vale quello che su queste colonne ha scritto Emiliano Brancaccio, e non è faccenda del solo sindacato, né di quello di un solo paese: esige che sia fatta pressione sulla struttura puramente monetaria sulla quale la Ue finora si tiene. E' un progetto di lunga lena, cui nessuna lotta isolata, per quanto significativa - e tantomeno i sussulti gestuali di piccolissime minoranze - può far fronte. Tocca al complesso della sinistra radicale e non, in maggioranza, in minoranza e nei movimenti, ripensare gli assetti del capitalismo, le formule delle socialdemocrazie e quelle dei socialismi. E' urgente, e non è affatto già dato nel senso comune delle società complesse. E' da questo soltanto che possono uscire in forma non politicista e fragile i programmi con le loro interne mediazioni e tappe.
Per terzo, la crisi della politica, che si esprime nell'indifferenza, nel ritiro al privato e nel crescente astensionismo. C'è una situazione paradossale: le masse sembrano mobilitabili solo dalla destra più tradizionale, tipo le ultime elezioni americane, o all'opposto da un levarsi fortemente critico della politica da parte delle coscienze dei movimenti. Questi ultimi contraddicono la tendenza alla spoliticizzazione, ma contestano tutte le forme istituzionali, che sono poi i meccanismi della democrazia. Diamo a questo problema il suo vero nome: è una crisi della democrazia nell'occidente, cui da fa contraltare il ritorno, nei paesi terzi, del ripiegamento su soggettività arcaiche, come i fondamentalismi religiosi e le etnie. Contro le istituzioni vanno oggi sia la sottovalutazione dei poteri propria della generosità ma anche dell'incultura di molti movimenti, sia la seduzione che esercitano anche su soggetti smaliziati i vecchi «valori».
Non basta. Se la rappresentanza ha la febbre dovunque, è una ferita aperta sul versante del pensiero femminile più avanzato della fine del secolo scorso. Esso correttamente imputa al pensiero politico moderno l'assenza di un «contratto» fra i sessi, anzi ne rimuove il conflitto. Asor Rosa lamenta l'assenza dal dibattito delle femministe: ma non ricorda che a uno dei più importanti rivoluzionamenti del paradigma politico e antropologico degli anni recenti, le sinistre non hanno dato alcuna reale attenzione. Un abisso rimane fra le categorie del politico e la riflessione femminile, e produce uno stallo da una parte e dall'altra.
Mi sono limitata a ricordare tre nodi cui si connettono molti altri. Li sottopongo al dibattito solo per dire che ci sono fasi nelle quali analisi, elaborazione ed azione politica sono la stessa cosa. Uno spazio non solo per confrontarsi ma per lavorare assieme è essenziale.
Concordavo con l'articolo di Asor Rosa pubblicato all'inizio dell'estate, concordo ora con la sua proposta d'incontro «tra quelle forze della sinistra che, sebbene disperse, continuano a resistere alla manovra riformistico-moderata». Un autorevole esponente del Manifesto mi ha sgridato perché non intervenni allora. Non lo feci per non tediare: avevo scritto qualcosa di analogo sulla Rivista del Manifesto di quel medesimo mese di luglio, e l'Associazione per il Rinnovamento della Sinistra, cui partecipo, aveva, subito dopo le elezioni europee - in verità anche prima di esse - espresso una propria posizione indirizzata a quel medesimo fine unitario. Anzi, per merito di alcuni sindacalisti tra cui primo era Claudio Sabatini, scomparso proprio mentre si preparava quell'iniziativa, avevamo lavorato per molti mesi in quel «Forum per un'alternativa programmatica di governo» che vide insieme Verdi, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, sinistra d.s., oltre che la Fiom, la sinistra della Cgil, esponenti più o meno ufficiali di alcuni sindacati e di numerose associazioni dei movimenti. Dopo molte assemblee si arrivò alla stesura di documenti su lavoro, politiche istituzionali, ambiente, politica internazionale. Sono testi assai poco noti ma che rimangono come testimonianze di quel che Asor Rosa ha ricordato: la concordanza politica su molti punti tra quelle forze che si collocano alla sinistra della federazione riformista , una concordanza che rende più difficile spiegare le divisioni.
Dopo le elezioni europee - che avevano rafforzato la sinistra e impoverito la lista composta da Ds, Margherita e Sdi - quella esperienza anziché continuare sia pure modificandosi, magari radicalmente, si interruppe. Apparentemente, un paradosso. In sostanza fu la prova che l'incontro tra gruppi dirigenti, pur necessario, non solo non basta ma non tiene e non può tenere se l'accordo programmatico suggerito, o imposto dai fatti non si radica sugli elementi essenziali di una comune cultura politica di visione della realtà, che ancora manca. La litigiosità o anche i personalismi sono l'effetto di questa mancanza, che nasce dalle sconfitte passate e dallo sfondamento culturale da destra.
E' ben chiaro, naturalmente, che ci troviamo comunque in una situazione più avanzata di qualche tempo fa. E' un fatto grandemente positivo la costituzione di quella alleanza democratica che viene sorgendo dichiarando di volersi fondare su una intesa politica e un programma comune e non, come fu nel `96, su un accordo elettorale di desistenza. Ed è ormai una frase fatta l'affermare che, non basta proporsi di battere questo governo indecente, poiché si tratterà, poi, se si vince, di guidare il Paese in una situazione certamente difficilissima come quella creata in ogni campo dal berlusconismo, dalle guerre, da una generale incertezza economica, dai pesanti vincoli esterni. Ma, proprio perciò, sarebbe essenziale il costituirsi di quell'incontro a sinistra ora proposto da Asor Rosa e poi accolto e ulteriormente precisato dal direttore di questo giornale. Il bisogno di un tale incontro a me pare, non risiede soltanto in un desiderio abbastanza diffuso di superare, per quanto gradualmente, una frammentazione che è in se stessa motivo di debolezza della sinistra nella coalizione e della coalizione medesima. C'è - assai di più e di più decisivo - il fatto che quello che viene oggi chiamato «riformismo debole» (ma che ha scarsa parentela anche con il riformismo «debole» di cui si discusse in passato) non ce la può fare dinnanzi ai problemi che vengono posti dalle trasformazioni profondissime di cui siamo testimoni e partecipi.
Quella che chiama se stessa «sinistra di governo» in realtà soffre di una profonda arretratezza, come dimostrò la sua sbandata neoliberista, ancora oggi non superata. Non so se Blair riuscirà a sostituire una parte dell'elettorato laburista con un po' di elettorato conservatore per vincere le prossime elezioni, ma mi pare evidente che la sua visione (quella di Gyddens) è in ogni modo pienamente fallita e non solo per la terribile colpa della guerra in Iraq. La comprensione del valore fondante dell'immaginario e del simbolico (basta pensare ai poveri degli Stati Uniti che votano Bush), la consapevolezza delle trasformazioni nella produzione e nel lavoro, l'insegnamento femminile sulla differenza - e tanto ancora - chiedevano e chiedono un ripensamento radicale del contrasto tra gli interessi e le classi, non la sua negazione. Per la sinistra italiana (compresa quella che veniva dal Pci) il problema non era la scoperta della democrazia, cui si era stati sempre fedeli nella teoria e nella pratica, o nella scoperta del mercato, mai avversato in economia. Il problema della sinistra era ed è come rendere vivente la democrazia in una società di così grandi disparità economiche e di come affrontare i temi che il mercato non vede o i guasti che in esso medesimo determina la pretesa della sua assolutezza.
Il problema era e rimane quello della comprensione della insufficienza del compromesso socialdemocratico fondato sulla idea della redistribuzione della ricchezza creata da uno sviluppo che le forze economiche dominanti avrebbero continuato a promuovere. Quando questo sviluppo, pur nella piena vittoria del modello capitalistico sul piano mondiale , ha incominciato a manifestare le sue ineliminabili contraddizioni (il limite delle risorse, l'impossibilità di rendersi universale), è venuto diventando più chiaro che senza un nuovo compromesso che intervenisse anche sul modo di formazione della ricchezza, la stessa politica della redistribuzione avrebbe subito colpi mortali come sta avvenendo puntualmente sul piano delle retribuzioni, dei diritti e dello stato sociale. E si sarebbero create - come è oggi visibile - nuove tendenze antidemocratiche e nuove spinte alla guerra. La mancanza del fondamento sul lavoro e dunque della sua rappresentanza ostacola il bisogno di ripensare criticamente un modello di organizzazione della società che se è lasciato al potere assoluto del capitale tende ad una paurosa involuzione. E da quel fondamento che può nascere non solo una nuova idea di giustizia sociale, ma una nuova ansia di libertà per tutti in luogo dell'asfissia delle libertà per i pochi. La riorganizzazione del moderatismo progressista è utile. Ma senza una sinistra critica e propositiva esso stesso è condannato alla sconfitta, come abbiamo già visto, dopo cinque anni dal governo del centro-sinistra. Certo, il fatto che si sia registrato uno scacco ogni qualvolta si sia cercato di raccogliere le energie disperse può indurre alla sfiducia. «La pazienza e le forze sono al limite» dice Asor Rosa. E' un sentimento comune a molti (tra cui sono anch'io). Conforta, però, il vedere che tutto questo provare e riprovare non è invano. E, infatti, nell'idea che una grande coalizione democratica abbia necessità di una sinistra autonoma, unitaria, capace di pensiero alternativo e di attitudine al governo, ci si ritrova oggi anche tra compagni che si sono aspramente divisi nel passato. Buon segno. Credo di conoscere bene le difficoltà, anche solo per un laboratorio di idee. Le abitudini mentali e le collocazioni concrete più o meno consolidate fanno ostacolo non già alla immaginazione dei modi di un possibile incontro, quanto ai contenuti di quel «modo nuovo» di far politica senza cui, si afferma giustamente, non ha senso incominciare una esperienza con qualche ambizione. Una ricerca di fondamenti condivisi implica anche una discussione sulle pratiche politiche, a partire dai molti vizi comuni. Il burocratismo, le piccole e grandi contese di potere, il fastidio per la democraticità e per il lavoro collettivo non sono patrimonio negativo di una parte sola. C'è da riscrivere molte convinzioni, ma c'è anche da ripensare i comportamenti. Le piccole cose sono quelle più dure da affrontare. Dirsi di sinistra, come si sa, non basta più in alcun modo senza dimostrare di esserlo.
"La mia idea è una "camera" di discussione, verifica e dibattito. Una "camera permanente" dove le sigle della sinistra radicale siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte e, naturalmente, anche di distinguersi ma a ragion veduta". Questa è la veste organizzativa che Alberto Asor Rosa immagina per l'ipotesi di una ricomposizione della sinistra alternativa, lanciata dalle pagine del "manifesto" in due articoli, l'ultimo dei quali pubblicato sabato scorso.
Esiste oggi in Italia un'area raggruppabile sotto la definizione di "sinistra radicale"? E la sua capacità di condizionare la vita politica è pari oppure inferiore - come è ragionevole supporre - alle potenzialità virtualmente contenute nelle classi sociali cui fa riferimento? E quale partita, infine, si profila per questo universo di partiti, correnti organizzate, sigle sindacali, movimenti e associazioni all'interno della coalizione di centrosinistra e del futuro scontro elettorale con le destre?
Tutti questi interrogativi aleggiano nella sollecitazione di Alberto Asor Rosa, la cui formulazione non sfugge però alla regola della chiarezza: "far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc)". Un primo livello del ragionamento riguarda il profilo di un programma allo stato attuale ancora indefinito e che una sinistra radicale capace di "agire unitariamente" potrebbe contribuire a rendere più chiaro. Si può, anzi, facilmente prevedere un indirizzo programmatico tanto più di rottura con il neoliberismo di stampo berlusconiano, quanto più la sinistra alternativa sarà in grado di portare le proprie idee nel confronto con la sinistra riformista-moderata. L'intesa elettorale contro le destre non significa indistinzione di progetti politici e strategici, né l'azzeramento, per causa di forza maggiore, di identità culturali differenti. Va da sé che lo stato di frammentazione attuale delle forze anticapitalistiche riduce la possibilità di incidere nella scrittura del programma.
Preso sotto l'aspetto più evidente il ragionamento svolto da Asor Rosa sul "manifesto" esprime il bisogno elementare - ma non per questo scontato - di mettere ordine in un quadro politico altrimenti frastagliato e decisamente sfavorevole, quanto a rapporti di forza, alla sinistra alternativa. Ma non c'è soltanto l'urgenza del passaggio elettorale a sollecitare la riflessione. Parlare di una ricomposizione della sinistra radicale significa, anche, riconoscere l'esistenza di un problema "oggettivo": restituire uno spazio politico alle classi popolari - quelle maggiormente colpite dalla crisi economica - e spostare una parte dell'elettorato a sinistra. Cos'altro tradisce il distacco tra politica e società se non il fatto che larghi strati sociali - le "classi subalterne", si sarebbe detto un tempo - hanno finito per essere esclusi dalla rappresentanza politica?
Mettere assieme i pezzi della sinistra alternativa richiede anche un disegno strategico. Quali sono i fattori "oggettivi" che rendono l'operazione necessaria, oltre che possibile?
Nella mia proposta ci sono due livelli. Il primo riguarda la prospettiva di un cartello elettorale, di una presenza più forte nelle istituzioni di questo settore del sistema politico italiano che attualmente è frammentato e più debole rispetto alla forza sociale che virtualmente rappresenta. L'altra faccia è strategica e di più lunga durata. Consiste nell'interrogarsi se all'evoluzione socio-economica del mondo globalizzato, e anche dell'Italia in questo ultimo ventennio, non debba corrispondere un soggetto politico, diverso da tutti quelli esistenti allo stato attuale delle cose, che interpreti a più alto livello, al di là delle formule organizzative, la contraddizione fra capitale e lavoro. Quel lavoro che oggi è sottorappresentato. Ognuno può scegliere e interpretare l'una o l'altra faccia come se fossero due momenti di un processo. Oppure può rovesciare la direzione: invece di cominciare dal discorso organizzativo-elettoralistico si può iniziare dal riflettere sulle grandi questioni di fondo. Ma nell'uno come nell'altro caso, oppure in tutti e due - visto che sono collegati - è necessario avviare la discussione e un confronto paritario tra le varie forze interessate perché prenda inizio il processo. In molti - molti di più di quanto pensassi - diamo un valore positivo all'inizio di questo percorso.
I problemi organizzativi riflettono i problemi teorici. L'universo della sinistra alternativa è frastagliato non solo per sigle e partiti, ma anche per paradigmi teorici: l'ambientalismo, il femminismo, il marxismo, il pacifismo... Come ricondurre tutti questi discorsi alla contraddizione principale tra capitale e lavoro?
Questo è un problema necessariamente ricorrente in tutte le fasi di transizione. Mi stupirei che non ci fosse un dibattito su questi temi. E' nell'ordine naturale delle cose. La discussione è ricorrente in tutte le fasi storiche di transizione nel movimento operaio. Quello che io osservo è che la fase di transizione della quale stiamo parlando, dura da tanto, da troppo tempo: ha il suo punto di partenza nell'89, ma comincia da prima, dagli anni '70. Io porrei il problema in questi termini: in che forma è pensabile una sinistra - se è pensabile, perché anche questo interrogativo più radicale è legittimo - in una situazione di classe come quella che stiamo vivendo da venti o trent'anni a questa parte? Contraddizioni di fondo, contrasti insanabili, opzioni contrapposte all'interno di questo mondo della sinistra radicale o alternativa - come talvolta è già accaduto in passato nel movimento operaio - io francamente non ne vedo. Sono culture diverse, anche tradizioni organizzative diverse, che nella situazione globale attuale tendono più a convergere che a divergere. Parlo, ad esempio, delle due opzioni culturali che potrebbero apparire più divaricate: quella ambientalista e quella marxista classica che punta sullo sviluppo anche in termini di denegazione ambientalistica - anche questo è accaduto talvolta in passato. Ma le due cose, allo stato attuale dei problemi, tendono a convergere, non a contrapporsi. Bisogna ragionare a livello mondiale sul rapporto che esiste tra sviluppo e ambiente. Questo è uno dei tre o quattro problemi di fondo.
Si profila quindi una fase di battaglia culturale, per l'egemonia si potrebbe dire, tra la sinistra radicale e la sinistra moderata, spesso incantata dalle sirene dell'ideologia liberista?
Non c'è dubbio che esista anche questo aspetto. Tuttavia quando sento il termine "egemonia" rabbrividisco perché viene spesso evocata - non in questo caso - in termini scorretti e dispregiativi. Preferisco parlare di identità culturali. Se la seconda faccia della proposta emergesse di più - come io spererei - allora dovremmo parlare di idee, culture, di atteggiamenti progettuali e costruttivi. Ora, questo si può fare solo se si smette di soggiacere supinamente a una fase di "liberismo mentale" che ha contagiato anche larghi settori della sinistra italiana ed europea.
Che fisionomia potrà avere questa ricomposizione della sinistra alternativa dal punto di vista delle formule organizzative? Iniziative comuni dal basso su singoli temi unificanti oppure un processo di avvicinamento "dall'alto", per opera dei ceti politici?
Bertinotti, non io, ha parlato di "contenitore". La mia proposta è più modesta, dotata sicuramente di minore capacità propositiva. Io penso che la convergenza su singole iniziative sia troppo poco. Preferirei la creazione di una "camera" di discussione, verifica e dibattito, una "camera permanente", dove le sigle - ma anche quello che non è ancora siglato, che sta oltre le organizzazioni frammentarie di cui stiamo parlando - siano in grado di confrontarsi per elaborare proposte. Naturalmente anche di distinguersi ma a ragion veduta.
Quindi, non una semplice sommatoria, ma la nascita di una soggettività politica diversa dalle parti che la compongono?
Secondo me è uno strumento di riorganizzazione dell'esistente ma anche di mutamento dell'esistente. Ho una "illuministica" fiducia nel fatto che la creazione di uno strumento cosiffatto tenderebbe più a fare evidenziare gli elementi di convergenza che non quelli di divisione.
Prima ancora di mettere in cantiere la nascita di questo soggetto emergono però anche le critiche di chi paventa il venir meno della coalizione di centrosinistra. L'alleanza con le forze democratiche e riformiste rimane nell'orizzonte della proposta?
La dò per scontata. Il presupposto del ragionamento che io credo d'aver fatto con estrema chiarezza in ambedue gli articoli pubblicati dal manifesto , è che questo semmai va concepito come uno strumento di rafforzamento del centrosinistra - io continuo a preferire questa dizione all'"orribile" Gad. Perché dovrebbe mettere in crisi la coalizione? Se uno si organizza, lo scopo è di rafforzare le posizioni della sinistra radicale rispetto a quelle della sinistra moderata. Questo fa parte di qualsiasi gioco politico che si rispetti.
Al di fuori dei calcoli geopolitici il consolidamento dell'area della sinistra radicale potrebbe persino riconquistare alla politica settori della società che finora sono sprovvisti di rappresentanza. E' così?
Il primo atto che dovrebbe assumere questa camera della sinistra radicale non è rinchiudersi in se stessa, ma stabilire fili di collegamento e sollecitazione con l'esterno.
E' qui che i vecchi organismi stentano a farcela, nonostante si siano posti il problema. Rifondazione sicuramente se l'è posto. Non è una critica schematica a quanto è stato fatto finora, ma è l'idea che ci sono i margini per fare di più.
Questa "camera permanente" potrebbe funzionare nell'immediato anche come luogo di elaborazione di un programma comune alle forze della sinistra alternativa da portare in dote in un ipotetico, futuro governo antitetico a quello del centrodestra?
Assolutamente sì. Finora si è discusso poco di contenuti programmatici. Dovrebbe essere il luogo altresì rispetto al lungo periodo, in cui questa sinistra radicale si chiarisce le idee sul pacchetto di proposte da portare al confronto con il resto del centrosinistra. Naturalmente con quella flessibilità che è necessaria in tutte le alleanze, ma con una maggiore chiarezza di idee e anche con una maggiore uniformità di proposte, il che - mi pare incontrovertibile - rafforzerebbe la posizione.
La costituente delle idee
ACHILLE OCCHETTO
Caro Alberto Asor Rosa, vedo che da un po' di tempo le nostre posizioni si sono sensibilmente avvicinate. Ben lungi da me l'intenzione di dare alle nostre persone più valore di quello che effettivamente hanno, tuttavia mi sembra che anche questo avvicinamento sia un segno del fatto che i tempi sono profondamente cambiati, che le differenze non sono più quelle di 15 anni or sono, e soprattutto che è matura l'esigenza di una mossa del cavallo capace di scompaginare i vecchi giochi, una mossa che saltando le pedine più vicine vada a coprire una casella vuota dalla quale sia possibile guardare a nuovi orizzonti. Per questo dico anche a te quanto ho già scritto a Bertinotti in una mia recente lettera aperta, nella quale ho commentato positivamente la sua disponibilità a un incontro in un nuovo contenitore: sono ormai superate le divisioni della svolta e ora dobbiamo sapere guardare avanti. Lo stesso processo che ha avuto inizio nell'89 si è diviso in due tronconi: quello che riteneva e ritiene necessaria una fuoriuscita da sinistra dal crollo del socialismo reale, e quello che si è mosso nella direzione di un riformismo moderato, guidato prevalentemente, come la signora Verdurin nella ricerca del tempo perduto, dall'ansia di essere accolti nel «salotto buono». Gli eventi sempre più drammatici che ci sovrastano rendono ancora più evidenti le differenze tra un riformismo radicale e un riformismo moderato. Ciò sta a dimostrare che è ormai matura la necessità di una riorganizzazione complessiva della sinistra, che naturalmente non deve fermarsi alla mera ingegneria organizzativa, ma deve, al contrario, prendere le mosse da una nuova svolta progettuale della sinistra, da un salto culturale, dalla messa in campo di un sapere rinnovato che tutti insieme siamo chiamati ad elaborare. Tu ti sei domandato nell'importante dibattito che hai aperto sul , e che io ho seguito con grande interesse, se esiste lo spazio di questa nuova sinistra. Rispondo affermativamente a questa tua domanda. Se si guarda bene alla realtà circostante ci si accorgerà che è presente un vasto settore democratico e di sinistra, laico e cattolico, che guarda oltre i parametri della sinistra, e, direi, della politica del Novecento, recando dentro di sé una sua del tutto originale alterità rispetto ai modelli di sviluppo e culturali delle società capitaliste. Questo settore, in una democrazia che sta diventando sempre più ristretta, e non solo per via del crescente astensionismo, rischia di non essere rappresentato. Ciò appare tanto più vero se si tiene conto che siamo dinnanzi ad una crisi strutturale della democrazia, che richiede un ripensamento radicale del rapporto tra partecipazione, rappresentanza e decisione, capace di farci uscire dall'attuale regime oligarchico trasversale, fondato sempre di più, a partire dalla grande democrazia americana, sul censo.
In questo contesto, come tu sottolinei nel tuo recente articolo apparso su questo giornale, diventa centrale determinare e influenzare il rapporto capitale-lavoro a partire dall'esigenza di dare rappresentanza a un mondo del lavoro che l'ha ampiamente persa. Lo stesso atteggiamento verso la guerra sta disegnando, ancora una volta, la grande discriminante tra le due sinistre. C'è una parte della sinistra che non ha ancora messo radicalmente in discussione la considerazione della guerra come una continuazione, con altri mezzi, della politica, e che respinge con sdegno tutte quelle forme di pacifismo intransigente che considerano la guerra stessa un tabù, esattamente come lo schiavismo e l'incesto. Non è un caso che il riformismo moderato sia molto riluttante a denunciare le spinte interne al sistema verso la guerra e a valutare tutta la portata della tremenda alternativa che si è aperta, per l'incapacità degli Usa di garantire la crescita globale in forme sostenibili, tra democratizzazione della global governance e militarizzazione della globalizzazione. Con questo intendo dire che sono ormai maturati i tempi perché la ricerca possa andare oltre le ragioni che ci videro su fronti diversi al momento della svolta. Riformismo non è necessariamente sinonimo di moderatismo: esiste una radicalità riformatrice che ha il coraggio di sperimentare strade nuove, di liberarsi dal tallone culturale del pensiero unico monetarista, di riprendere, in modi diversi dal passato, il percorso che conduce a un diverso modello di sviluppo. A questa esigenza non si fa fronte intrecciando in vario modo tra di loro sempre le stesse sigle, frutti, a volte avvelenati, di un partitismo senza partito. Occorre fare entrare in campo forze ed esigenze che fanno politica in modo diverso, anche al di fuori dei partiti.
Tu ti chiedi perché nel dibattito da te aperto su queste colonne ci siano state tante latitanze. Rispondo che uno dei motivi sta nelle gelosie di parte, nell'attaccamento ostinato alle ragioni e divisioni di un tempo ormai remoto. No, non si può andare avanti così. Bisogna che tutti sappiano abbandonare le proprie rendite di posizioni, le gelosie reciproche riconoscendo con umiltà che la sinistra non è la risposta, è il problema, e che occorre ritornare a ridiscutere i fondamenti dell'idea stessa di sinistra e di democrazia. In questo senso è necessario immaginare e progettare nuovi luoghi della politica.
Uno di questi luoghi cercherà di essere il «Gruppo del Cantiere» per la ricostruzione della democrazia, della politica e della sinistra che prenderà vita nei prossimi giorni, sulla base di una carta di intenti che consegneremo venerdì prossimo, per primo, a Romano Prodi. Ti voglio fin da adesso dire che gli intenti di tale gruppo sono molto simili a quelli da te delineati nei tuoi recenti articoli. Accanto ai partiti e per la loro riforma devono vivere luoghi che si pongono come un servizio democratico che fornisce i terreni di confronto, apre tavoli programmatici, suscita e coordina iniziative. Noi ci proponiamo di essere uno di questi servizi democratici. Questi luoghi, non strettamente legati all'immediatezza del potere e della reciproca concorrenza, potrebbero fare saltare vecchie ruggini, rivalità di bottega. Ed è proprio sulla base di questa ispirazione che ritengo possiamo dichiararci fin da adesso interessati alla tua proposta di dar vita ad una assemblea della sinistra non moderata, e aggiungerei della vasta zona democratica dei movimenti, a partire da quelli pacifisti.
Questa tua iniziativa coincide con la nostra proposta. Cioè di dar vita ad un'area che senza chiedere a nessuno di lasciare la propria organizzazione, si rivolga, attraverso un lavoro a rete tra partiti, associazioni e gruppi, a quel settore di cui ho parlato e che rappresenta potenzialmente la nuova sinistra. In sostanza un'area formata da movimenti, singole personalità, partiti, associazioni al cui centro si collochi non il partito guida, o la forza numerica, ma il Progetto in continua elaborazione. Già questa sarebbe una bella riforma della politica. Proprio per questo credo che saremo tutti ben lieti di partecipare e di promuovere assieme ad altri l'assemblea da te propugnata. Incominciamo dunque con il luogo del Progetto, con la costituente delle idee, per vedere solo in un secondo tempo se ci sono le condizioni di nuove unificazioni sul terreno della rappresentanza politica. Se sei d'accordo, in partenza la proposta dovrebbe essere rivolta a tutti coloro che riconoscono la necessità di una ricerca che si muova al di fuori di ogni ipotesi di riformismo moderato e subalterno. Il punto di arrivo potrà essere, anche sul piano dell'organizzazione politica, qualcosa di inedito. Ma lo vedremo dopo.
L'intervento di Alberto Asor Rosa
Si è riaperta la discussione, a sinistra, sulla leggendaria domanda di sempre: "Che fare?". Fausto Bertinotti ha accennato alla possibilità di costruire un "contenitore" politico nuovo, che tenga insieme gruppi, partiti, movimenti, correnti di pensiero e di partito. Cioè uno strumento che "unifichi" e dia una forza maggiore, un peso politico più grande a quello schieramento di forze e di menti - vasto - che si colloca alla sinistra del campo riformista classico. Molti gli hanno risposto di sì. Giorni fa Asor Rosa, uno degli intellettuali più prestigiosi della sinistra radicale, ha scritto sul "manifesto" un articolo importante, nel quale ha posto alcuni problemi politici molto seri, e ha avanzato una proposta. La proposta è più o meno questa: convochiamo una assemblea nazionale, o qualcosa del genere, che metta insieme partiti, movimenti, circoli politici e intellettuali, e verifichiamo la possibilità di realizzare forme nuove di unificazione politica. Il problema fondamentale che Asor Rosa ha sollevato - e che precedeva la proposta - era un po' più complicato. Lo riassumiamo così: come si affronta il riemergere prepotente, in Italia e in tutto il pianeta, della contraddizione tra "Capitale" e "Lavoro"?, e come si costruisce una rappresentanza politica adeguata del "Lavoro"?
Il problema e la proposta di Asor Rosa sono molto connessi. Derivano una dall'altro. Sulla sua proposta, che assomiglia parecchio a quella di Bertinotti, Asor Rosa ha incassato molti sì. Bertinotti, Salvi, Diliberto gli hanno già detto di essere pronti a questa assemblea, ed è probabile che ci sia una ampia disponibilità dei movimenti e di pezzi di sindacati, di partiti, di organizzazioni culturali. Sarebbe importante a questo punto procedere, cioè andare avanti spediti ed evitare il rischio che la discussione diventi un po' come quelle inutili discussioni che negli ultimi tre o quattro anni (anche di più) hanno tormentato la vita dell'Ulivo: che regole ci diamo? Chi decide che regole ci diamo? Quando decidiamo chi decide che regole ci diamo? Chi decide quando decidiamo che regole ci diamo? Quando decidiamo chi decide che regole ci diamo? Chi decide quando decidiamo che regole ci diamo?
Procedere e non impelagarsi in noiosissime discussioni formali vuol dire affrontare il merito della questione. Qual è? E abbastanza semplice: dato che l'obiettivo è quello di mettere insieme una coalizione di centrosinistra che sconfigga la destra e il "berlusconismo", si tratta di vedere quale sarà l'asse politico di questa coalizione, e cioè quale sarà il progetto di società, il progetto per l'Italia che questa coalizione contrapporrà al berlusconismo. Non basta un progetto elettorale, serve un progetto di futuro. La grande debolezza della sinistra classica, fino ad oggi, è stata questa: non riesce a fare politica senza far coincidere la sua politica con vicende elettorali. Le scadenze elettorali contano, contano molto, ma non sono tutto. Sconfiggere Berlusconi ma non avere in mano nulla che sostituisca il berlusconismo - cioè quel sistema economico, sociale, morale, di pensiero, basato su un idea di società che ha al centro il profitto e mette tutto il resto in secondo piano - non sarebbe una grande vittoria e comunque non sarebbe duratura.
Francesco Rutelli, ieri, sul Corriere della Sera, ha indicato, seppure in modo molto generico, quelli che a lui sembrano i tratti essenziali di un programma riformista: in politica estera amicizia con l'America, in politica interna riforma e contenimento del Welfare e misure che rilancino la competitività delle aziende, e dunque i margini del profitto. Non è un programma che possa essere sposato, non vi sembra? Ma non basta strepitargli contro. La sinistra radicale cosa propone? Siamo in grado di mettere giù due, o tre, o quattro punti, e su questi costruire una unità reale, da fare poi pesare al momento in cui il centrosinistra dovrà decidere il suo programma di coalizione?
Per esempio: abolizione della legge "30" (quella che viene chiamata Legge-Biagi) e realizzazione di nuove leggi sul lavoro che stabiliscano forti rigidità, anziché flessibilità, vale a dire più diritti garantiti, niente precarietà e licenziabilità, sistemi automatici di aumento dei salari, eccetera.
Per esempio: abolizione della legge Bossi-Fini, apertura delle frontiere e regolamentazione dell'immigrazione in modo che i migranti diventino i titolari di diritti, anche di diritti speciali (persone deboli da proteggere) e non oggetti da respingere o comunque da controllare e rendere inoffensivi. Realizzazione dell'obiettivo, posto dall'Onu, di riservare lo 0,7 per cento della ricchezza nazionale a finanziare i paesi poveri.
Per esempio: ritiro delle truppe dall'Iraq e avvio di una politica di riduzione drastica delle spese militari che porti in tempi ragionevoli al disarmo dell'Italia.
Per esempio, rifiuto del modello politico piramidale e decisionista, basato sul premier forte e sulla riduzione della rappresentanza, anzi rovesciamento di questo modello, da realizzare contrapponendo alle riforme costituzionali del Polo una idea di democrazia partecipativa.
Questi propositi, se realizzati, costano. Prevedono una diversa distribuzione delle risorse tra Capitale e Lavoro, e tra Nord e Sud del mondo. Questi propositi sono il terreno vero della battaglia.
Resta il grande problema dell'identità della sinistra. E' una questione molto alta, quasi filosofica, resa drammatica dagli eventi della fine del secolo scorso e ora dal progredire spedito e feroce della globalizzazione. Non credo che sarà mai risolta se non si comincia dalle cose. Dalle cose da fare. Fare queste cose, porsi degli obiettivi, studiare i modi per ottenerli - in tutto o in parte - vuol dire semplicemente fare politica. E affrontare dalla parte giusta il problema più scivoloso: cos'è la sinistra di governo se non è solo un pezzo di mondo politico che si adegua alla realpolitik, agli schemi, alle idee dell'avversario…
Partito il 14 luglio con un mio articolo, che non aveva (davvero) nessun'intenzione di aprire una discussione; proseguito nei due mesi o poco più che ci separano da quella data con una trentina di interventi, alcuni dei quali molto autorevoli (segretari di partito ed esponenti di varie frazioni politiche, importanti dirigenti sindacali e intellettuali di grido): il dibattito svoltosi sul sulle forme di una possibile, diversa unità della sinistra italiana si potrebbe definire un successo. Io ne ho avvertito soprattutto i limiti. Constato ad esempio che non è intervenuta nessun'esponente dei gruppi e movimenti femminili e/o femministi. Non sono intervenuti neanche i rappresentanti del cosiddetto «correntone», forse risucchiati nel gioco interno Ds. Non sono intervenuti (salvo un'eccezione) neanche i verdi: pensano che le tematiche ambientalistiche siano ancora autosufficienti? Non sono intervenuti neanche gli esponenti del riformismo moderato: forse pensano che non sia affar loro l'eventuale costituzione di un raggruppamento di sinistra distinto dal loro oppure lo guardano con sufficienza, pensando che l'idea sia fuori del mondo? Ma il limite più grande lo dirò alla fine.
Ripartirò dall'inizio, che a me era parso molto semplice, fin troppo elementare (e che del resto costituiva solo una minima parte del discorso): far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc) ne aumenterebbe la forza e attenuerebbe il rischio di compromessi di basso livello. Aiuterebbe anche i movimenti - che la sinistra hanno contribuito in passato e continuano a rinnovare - a preservare la propria autonomia. Contribuirebbe a chiarire l'indirizzo programmatico dell'intero centro-sinistra, indirizzo che rimane ancora indefinito nonostente il «ritorno» di Prodi e l'annuncio di un'opposizione più chiara al governo di cui la programmata manifestazione del 6 novembre costituisce per ora il solo punto forte. Vorrei esser molto chiaro su questo punto: non si tratta di mettere in dubbio l'alleanza di centro-sinistra, che non ha alternative.
Si tratta al contrario di renderla più credibile e di rafforzarla in settori molto delicati dell'elettorato (quelli più colpiti dalla crisi economica), influenzandone il programma e spostandola al tempo stesso, come si diceva una volta quando esisteva una sinistra, a sinistra. Rafforzare e riequilibrare l'alleanza di centro-sinistra in questo momento è particolarmente essenziale, perché a metterla davvero in dubbio ci pensano le componenti moderate, che, anche dall'interno dell'Ulivo, lavorano sempre più alacremente per riaprire il capitolo del centrismo. Questo, mi permetto di dire, lo capirebbe anche un bambino. Ma spingiamoci di qui in poi un po' più in là di una semplice, limitata, per quanto utile, razionalizzazione del quadro politico della sinistra italiana. A me pare che il problema del rapporto fra le «due sinistre» è destinato a presentarsi prima o poi, anzi, si sta già presentando, mutatis mutandis, in tutta Europa. La distinzione (più o meno profonda) tra le due ali del riformismo poggia infatti su fattori oggettivi, addirittura di classe, oserei dire (anche se non proprio alla vecchia maniera), tipicissimi in questa fase proprio della situazione europea.
L'assenza di una formazione, magari confederale, che renda esplicita tale distinzione, senza necessariamente (anche in senso tecnico) estremizzarla, significa in parole povere che un pezzo della società occidentale è politicamente sottorappresentato: sia che ciò si manifesti nella forma della disaffezione alla politica; sia che il tasso di astensionismo nei ceti deboli resti elevato, nonostante tutti gli appelli; sia che si verifichino, in presenza di condizioni particolarmente negative, paurosi spostamenti di questo elettorato verso destra; sia che, quasi infallibilmente, i programmi dei vari centro-sinistra europei appaiano egemonizzati dalla componente moderata del centro-sinistra medesimo.
L'incontro tra le diverse frazioni (organizzate o no) di questa «parte» della sinistra (componente dialettica, a sua volta, ma non necessariamente antagonistica di uno schieramento più largo), sarebbe davvero impossibile, solo se fra esse (e soprattutto nella fetta di società che esse dicono di rappresentare) ci fossero differenze ideali e strategiche insormontabili. Ma è così? Nessuno può pretendere che si faccia qui l'elenco delle questioni su cui un'unità sostanziale, non estremistica e non ideologica, appare già oggi operante. Eppure un primissimo tentativo, di entrare nel merito bisognerà pur farlo.
Quando si dice - e lo dicono ormai anche alcuni dei riformisti moderati, e persino qualche centrista del centro-sinistra, - che non è più possibile sostenere la linea di un liberismo senza freni, spesso non ci si accorge di dire che il rapporto (nesso, conflitto, persino compromesso, lo si dica come si vuole, purché lo si dica) tra capitale e lavoro, invece di aver fatto il suo tempo, prepotentemente riemerge. Riemerge con esso il problema di una rappresentanza politica del lavoro. E con esso riemerge il problema del rapporto fra rappresentanza politica del lavoro e sindacato, rapporto entrato da più di dieci anni verticalmente in crisi in tutta Europa.
Una situazione del genere non è un residuo del passato (come qualcuno dice) ma nasce (o rinasce) precisamente all'interno di quel contraddittorio e tormentato processo che chiamano globalizzazione. Influenzare, spostare, determinare il rapporto capitale-lavoro (e di conseguenza quello fra capitale e ambiente, capitale e salute, capitale e sottosviluppo: da qui l'importanza del rapporto organico rossi-verdi), significa influenzare e determinare la globalizzazione e cambiarne il segno. E' per me del tutto evidente che la scintilla che ormai periodicamente incendia tutto il mondo, nasce dall'interno del sistema, perché all'interno del sistema non sono cresciuti gli anticorpi necessari a spegnerla. Non si può essere contro la guerra, se non se ne comprende e non se ne combatte la genesi profonda (che è dentro il sistema, non solo nel suo illimitato delirio espansivo).
La mancanza di regole, lo sfrenato avventurismo dei conservatori, l'incerta sempre più balbettante risposta dei riformisti moderati, fanno correre il rischio che una crisi politica si trasformi in una crisi di civiltà (la nostra) e che questa investa in maniera catastrofica la sfera dei valori, dei diritti e della stessa democrazia. La demoniaca volontà dell'Occidente capitalistico-democratico d'esportare all'esterno il proprio modello, svuota il modello e lo riduce ad un guscio vuoto, sempre più facilmente modificabile. La battaglia per i diritti torna a essere a sinistra di una portata epocale: la civiltà la difende la sinistra, perché non c'è più nessun altro che lo faccia. Lo dimostra ad abundantiam il radicale rifiuto della guerra, che solo a sinistra affonda senza ostacoli le sue radici (mentre il riformismo moderato su questo punto continua paurosamente ad oscillare).
Basta questa modesta sintesi a disegnare una linea di confine abbastanza precisa tra riformismo moderato e riformismo radicale e a precostituire le condizioni perché il riformismo radicale unisca le sue forze attualmente disperse? Può darsi che non basti: ma allora bisognerebbe dire onestamente perché e cos'altro serva perché basti. Bisognerebbe non aggirarsi intorno al problema, ma affrontarlo. O no?
Insinuo un'ipotesi negativa. Ecco qual è il limite più grande del nostro dibattito. Agostinianamente si potrebbe argomentare che il non potere discende dal non volere. Dubito fortemente che i protagonisti del dibattito sulle possibili forme dell'unità della sinistra sarebbero tutti disposti, messi alla prova dei fatti, a tradurre le parole in realtà. Se le cose stessero così, vorrei dichiarare una mia personale difficoltà. Sono anni che, a scadenze periodiche, si apre un dibattito sul modo di ripensare la sinistra, l'organizzazione politica, la realtà italiana ed europea, ecc: e poi si assiste inerti, ogni volta, alla dispersione in terra carsica del rivolo che sembrava essersi creato.
Beh, la pazienza e le forze (non solo mie, immagino) sono al termine. Ripropongo, in termini altamente e seriamente problematici, la questione iniziale: esiste o non esiste questa famosa sinistra diversa da quella che ora c'è ma che anch'essa domani potrebbe del tutto scomparire? E' pensabile, è tollerabile una situazione in cui non ci sia «sinistra»?
Se non faremo la prova, continueremo a non saperlo. E per saperlo dobbiamo almeno per una volta «materializzare» (sì, proprio nel senso letterale del termine) quella sinistra che dice di esserci e non vuole scomparire consensualmente nel nuovo raggruppamento moderato.
Propongo che ci sia, a breve scadenza, un momento e un luogo d'incontro per tutti coloro che si dichiarano e si sentono (e forse effettivamente sono, ma questo potremo saperlo solo dopo) a favore di un processo di avvicinamento e d'incontro (e forse di unificazione, ma anche questo potremo saperlo solo dopo) tra quelle forze della sinistra, che, sebbene disperse, continuano a resistere alla manovra riformistico-moderata.
Ma sia chiaro: non ci bastano più gli Stati maggiori (per quanto necessari), persino le forze organizzate esistenti ci appaiono in sé e per sé, per quanti meriti gli si debbano riconoscere, più come la struttura cristallizzata del nostro passato che come la prefigurazione vera e propria del nostro futuro. Se l'iniziativa serve a quella massa che sta al di qua e al di là di quella linea che separa attualmente una «politica organizzata» da una «politica non organizzata», e cioè (ripeterò questa parola fino alla nausea) serve fin dall'inizio a fare politica in modo nuovo, sarà utile, altrimenti no. Perciò dico che in casi del genere la quantità fa la massa critica e la massa critica precede il pensiero (e, forse, ahi, lo determina). Bisogna lavorare sulla massa critica che precede e determina la nascista di una nuova sinistra.
Prodi ha lanciato l’idea delle elezioni primarie, all'americana; sull’Unità del 27 luglio Occhetto ha rilanciato l’idea di un nuovo Ulivo che abbia un progetto preparato da tutti i partiti e gruppi di opposizione; Veltri sull’Unità del 26 ha rilanciato per l’ennesima volta l’idea di una Costituente per un nuovo Ulivo.
È da molto tempo che fa questa proposta e più di una volta l'abbiamo fatta insieme: molti i consensi ed anzi Pietro Scoppola, che ha organizzato i “cittadini per l'Ulivo”, ci ha invitati più volte alle riunioni per preparare la Costituente del Nuovo Ulivo. Ma di concreto non si è concluso nulla. Forse questa è la volta buona, poichè la gente ha compreso che senza unità e senza progetto c'è il rischio di non battere Berlusconi, nonostante la caterva di prepotenze e di misfatti che compie ogni giorno. Oramai tutti si stanno rendendo conto di chi è Berlusconi. Ma è grande il rischio che abbia luogo un ulteriore aumento delle astensioni, che già rappresentano il maggiore partito italiano. Ed è essenziale che i leader superino i personalismi e le idiosincrasie. Se questo non succede sarebbe la finis Italiae. È importante la formula ed è importante il contenuto: il progetto; ha ragione Occhetto.
Con tutti i vassalli di cui dispone il Cavaliere - l'espressione gentile è di Violante, io parlerei di servi nel libro paga, sparpagliati in tutti i partiti del casino delle libertà - non possiamo sperare che se ne vada in tempi brevi. Ma i tempi non saranno neppure troppo lunghi. Dobbiamo prepararci. Le proposte di Prodi, di Occhetto e di Veltri, che convergono, mi sembrano utili.
Giuseppe De Rita ha posto il quesito: a quale blocco sociale il centro-sinistra intende far riferimento. Si può rispondere: neppure al tempo del Partito comunista e della “lotta di classe” c'era un blocco sociale di riferimento. Sul finire degli anni 60 secondo le mie stime, puramente indicative ma suffragate anche da esperti di quel partito, gli elettori erano solo per il 60% operai, gli altri appartenevano ai ceti medi, compresi non pochi membri della borghesia intellettuale. La democrazia cristiana, partito dichiaratamente interclassista, aveva come elettori il 45% di operai. Allora la “classe operaia” rappresentava il 45% della popolazione attiva, oggi la quota è scesa a un terzo - la tendenza persiste. L'orientamento politico dei ceti medi ha dunque un peso decisivo sui risultati delle elezioni. Ma non è affatto un peso costante né volto in una direzione predeterminata, essendo assai differenziati i loro interessi economici e le loro preferenze culturali. Contano, beninteso, le conquiste dello stato sociale, conta la pressione fiscale - sebbene la massima parte degli elettori abbia compreso che i tributi servono in primo luogo a fornire servizi sociali - e conta la corrispondenza fra promesse e azione politica: gli elettori non possono essere ingannati a lungo. Emerge dunque una sorta di mercato che da un lato ha i partiti che offrono vantaggi, economici e non economici, e cittadini, che votano per questo o per quel partito, cambiando anche partito o astenendosi dal voto se perdono fiducia in tutti i partiti. La fiducia la possono perdere se si convincono che nei partiti al potere dominano i ladri. Certo, ci vuole tempo per rendersi conto degli effetti dei ladrocini. Ma prima o poi succede: il tempo dipende dal grado di cultura e di civiltà di un paese. In tutto questo prevale l'indeterminatezza e il Progetto acquista un ruolo essenziale.
Come obiettivi di lungo periodo, ma da perseguire fin da ora, possiamo indicarne quattro. Non pensare solo all'altezza delle retribuzioni, ma anche al contenuto dei lavori. Bisogna mirare alla rapida crescita dei lavori gradevoli. È un'aspirazione già adombrata da Adam Smith, il fondatore della scienza economica moderna, e, più compiutamente, portata avanti dagli utopisti francesi del principio dell'800. Le vie principali sono due: sviluppare la ricerca, che moltiplica i lavori altamente qualificati e quindi non monotoni e non ripetitivi; promuovere la partecipazione dei lavoratori: una formula con diversi significati. In primo luogo la partecipazione deve riguardare la piccola ricerca applicata che si svolge nell'impresa in cui il lavoratore opera: vanno incentivate le sue proposte volte a migliorare la tecnologia e l'organizzazione. C'è poi la partecipazione alla gestione dell'impresa o solo agli utili o ai guadagni di produttività. La partecipazione alla gestione, prevista dalla Costituzione ma mai applicata, crea un clima di collaborazione che può far bene all'impresa e consente un controllo degli amministratori che può ridurre, ben più efficacemente di organi pubblici o di società di certificazione, i gravi abusi che hanno portato, egli Stati Uniti, al fallimento della Enron e, in Italia, della Parmalat. La partecipazione alla gestione nel caso delle grandi imprese va introdotta utilizzando ciò che di valido è emerso dall'esperienza tedesca. Nelle piccole e medie imprese la partecipazione può essere incentivata favorendo gl'imprenditori leader, che hanno la capacità di guidare, animare, motivare gli uomini e indurli ad amare il loro lavoro. Il “capitalismo” non è il Bene ma non è neppure il Male: è un sistema che può essere indirizzato in una direzione o nell'altra. Alla fine, il trionfo del lavoro gradevole significa la fine dell'alienazione, che ha costituito e tuttora costituisce la tara peggiore del capitalismo.
Secondo obiettivo di lungo periodo - seconda “utopia”: l'Europa. Oggi si dibatte in difficoltà che sono gravi soprattutto per noi e per la Germania. Rilanciamo l'Europa per il progresso civile di tutti e per la salvaguardia della stessa pace del mondo. Avendo cessato di essere teatro di frequenti sanguinose guerre civili, l'Europa può diventare portatrice di pace proprio per la sua millenaria cultura. Così, per l'Iraq l'Europa dovrebbe inviare una missione di persone competenti ed autorevoli col compito di studiare a fondo la situazione, stabilire relazioni coi paesi confinanti, con la Turchia e con l'Egitto e preparare in tempi brevi un rapporto da presentare al vertice europeo con proposte preliminari concrete. La via è lunga e terribilmente difficile. Ma l'Europa deve assumere una posizione propria. Facendo leva sull'Europa, ma da principio operando autonomamente, dobbiamo rilanciare la ricerca nelle sue tre articolazioni - libera, di base, applicata - collegando un tale rilancio con quello dell'industria. Nel gruppo coordinato da Occhetto ci sono persone con cui io mi trovo in sintonia: anche altri economisti, esterni al gruppo, si trovano in sintonia e sono pronti a dare il loro contributo per una strategia di rilancio industriale. Stiamo lavorando.
Terzo obiettivo: l'ambiente. La critica che mi sento di muovere ai Verdi è che sono pronti ad opporsi ad opere che, a torto o a ragione, giudicano nocive per l'ambiente. Ma di proposte in positivo non ne fanno quasi mai. Faccio due esempi: sono possibili drastici risparmi nel consumo di petrolio: altri paesi, come la Germania, li hanno ottenuti: nulla è accaduto da noi. Secondo esempio: era stato avviato, con un certo successo, l'impiego di auto a motore ibrido: perché non si va vanti? Certo, la via maestra è d'individuare fonti di energia alternative sufficientemente abbondanti. Bisogna incalzare governi ed imprese.
Quarto obiettivo: sradicare la miseria. Ciò non è avvenuto né da noi, né negli Stati Uniti né in altri paesi avanzati. Ma è avvenuto, per esempio, nei paesi scandinavi, almeno se ci riferiamo alla miseria come fenomeno sociale. Dunque: è possibile. Ma la miseria più terribile è quella che troviamo in certi paesi dell'Asia e nell'Africa sub-sahariana.
Ben difficilmente questi paesi possono sradicarla senza l'aiuto dei paesi avanzati. Bisogna però evitare come la peste gli aiuti puramente finanziari, fonte di corruzione e di sprechi. Bisogna invece puntare sugli aiuti organizzativi, da fornire con tre centri: per l'Africa sub-sahariana i centri debbono essere creati in Europa e debbono organizzare, ciascuno, una rete di unità operative dislocate sul territorio, Il primo centro dovrebbe riguardare la lotta all'analfabetismo, il secondo la formazione di esperti agrari e industriali, il terzo la sanità, creando produzioni locali per i farmaci volti a combattere i tre grandi flagelli di quei paesi, l'Aids, la malaria cerebrale e la tubercolosi; questo centro dovrebbe rafforzare ed estendere le unità dell'Organizzazione mondiale della sanità.
Le unità dei tre centri richiederebbero molti volontari disposti ad andare sul posto. Ma la recente esperienza dimostra che i volontari non mancano. I “realisti” debbono ricordare che i giovani hanno un bisogno addirittura biologico d'ideali.
Il nostro gruppo elaborerà delle proposte col contributo di altri intellettuali e ci auguriamo di poterle offrire al Progetto del centro-sinistra che è urgente preparare.
La crisi del berlusconismo porta con sé quella del cripto-berlusconismo. I cripto-berlusconiani sono di due specie. Ci sono i maitres à penser che in nome di un olimpico imparziale liberalismo, in questi anni, hanno, con stomaco di ferro, ingoiato tutti i rospi, ma proprio tutti, dell´illiberalismo berlusconiano: dal populismo euroscettico al neo protezionismo "colbertiano", dal padanismo antinazionale ad alto grado alcolico alla impudica ostentazione del conflitto d´interessi (con lo spettacolo di un premier che minaccia un leader della sua maggioranza di scatenargli addosso le sue televisioni). E tutto ciò, senza neanche un ruttino, senza un fremito che turbasse la loro gravitas; seguitando a dare tre colpi al cerchio della sinistra e un colpettino alla botte della maggioranza. Ci sono poi i "migranti", per lo più delusi della sinistra, ma apparentemente titubanti (tranne eccezioni, s´intende). Si tratta di degne persone (tranne eccezioni, s´intende) che si sono fatte sedurre da un certo vitalismo neurovegetativo, che forse compensava le troppe "corazzate Potemkin" sofferte nei cineclub della sinistra; e, più seriamente dai rancori, spesso fondati, per i torti subiti dalla burocrazia comunista.
Ora, di fronte a una crisi della maggioranza così impietosamente esibita, la reazione comune di queste due categorie di "compagni di strada occulti" è di natura terzista: se Sparta piange, Atene non ride; se Berlusconi sta messo male, anche Prodi non si sente bene; insomma, tutti e due i poli sono in crisi: ambedue sono falliti, meglio tornare al buon tempo antico.
Eh no, maestri liberali e migranti delusi, le carte di riconoscimento storiche e le performance delle due coalizioni sono ben diverse, non fosse altro che per questo: che la coalizione di centro sinistra ha impedito che il Paese si staccasse dall´Europa, salvandolo dal baratro finanziario; mentre quella di centro destra, governando in questi tre anni con incompetente leggerezza, ha fatto quanto poteva per risospingervelo.
Ciò che è vero, invece, è che il Paese, dopo tante strepitanti fanfare, si trova in una condizione di angosciosa incertezza. Sarebbe ovvio che, dopo la sbornia berlusconiana, si rivolgesse decisamente all´opposizione, non fosse altro che per il divario di qualità professionale del suo personale politico, ampiamente dimostrato dall´esito delle elezioni amministrative. Se ciò non avviene ancora se non in parte a livello politico nazionale, a che cosa è dovuto?
Giuseppe De Rita risponde: a incertezza sul "blocco storico di riferimento". Francamente, non credo che De Rita intenda resuscitare l´antica e a suo tempo significativa metafora gramsciana, in questo nostro tempo di grande frammentazione degli aggregati sociali e intensa mobilità dei loro componenti (non era proprio lui, tra i più acuti interpreti di questo fenomeno?). Assistiamo, nel campo della gravitazione sociale, a una mutazione simile a quella che si è verificata nella politica economica: lo spostamento dell´asse dalla domanda all´offerta. Detto alla buona: non è più la domanda dei blocchi sociali a disegnare la risposta politica efficace; ma è un´offerta politica efficace a configurare il disegno dei blocchi sociali.
Se questo è vero, il problema della sinistra, in Italia, non è quello di individuare il blocco storico di riferimento, concetto divenuto sfuggente: ma di individuare l´offerta politica - le riforme sociali e istituzionali, i cambiamenti - capaci di mettere insieme pezzi e pezzetti della società: di suscitare il consenso necessario per aggregare un nuovo blocco sociale e politico.
È possibile, questo, costruendo nuove combinazioni delle forze politiche in campo? Nuovi partiti? Nuove spartizioni e ripartizioni di partiti vecchi? Questo è certo un esercizio appassionante per politologi iperspecializzati. Ma temo che questa micropolitica non susciti il minimo sex appeal nella gente comune.
Ecco allora riproporsi il vecchio indiscreto fantasma del grande programma? Vade retro! Un grande zibaldone onnicomprensivo non ci serve a niente.
Si tratta di presentare al Paese una proposta forte, di poche grandi operazioni di riforma ispirate a una filosofia umanistica e moderna, dell´equità efficiente, che quelle riforme rendano credibile e mobilitante. Una strategia non dissipativa, di attacco (o di difesa) debole su tutto il fronte, ma selettiva e concentrata, che lasci grande spazio alle tattiche di adattamento del tempo e del luogo. Giuliano Amato ha già offerto un valido contributo in questo senso.
Si tratta di raccogliere attorno a questo "pacchetto di punta" il massimo di unità politica delle forze politiche progressiste e riformiste, invertendo arditamente una deriva storica nazionale di divisioni gelose e rissose, devastante per lo sviluppo del Paese, come quella di cui la ex maggioranza di centro destra sta dando un così esemplare spettacolo. Senza pretendere accordi preventivi e patti onnicomprensivi, ma riconoscendo in premessa l´esistenza di zone sulle quali l´accordo non è (ancora) possibile.
Si tratta però, nella scelta dei temi, di non aggirare quelli ritenuti intoccabili perché scabrosi, ma fondamentali per l´avvìo di una autentica politica di sviluppo. E qui bisognerebbe passare dalla politica perdente del "non si tocca" a quella audace della ricerca di compromessi con contropartite vincenti: come si dice, compromessi a somma positiva. Due soli accenni. L´allungamento della vita di lavoro è necessario per l´equilibrio dei conti previdenziali in una condizione di invecchiamento; ma si devono ottenere garanzie concrete sulla qualità del lavoro degli anziani. La flessibilità del lavoro è accettabile nella misura in cui sia compensata da una piena e buona occupazione concretamente garantita dallo Stato attraverso politiche attive di formazione e di ricollocamento, non affidata alle speranze del mercato.
La scelta di queste riforme strategiche va fatta usando un potente rastrello che riduca la complessità delle istanze, rinunciando a un´illusoria completezza. Il rastrello più ovvio è quello del tempo disponibile: una legislatura non tollera, al massimo della sua efficienza, più di cinque o sei grandi riforme.
L´agenda delle riforme dovrebbe essere preceduta da un piano di breve periodo diretto a far uscire il Paese dall´emergenza creata dall´attuale governo. E dovrebbe essere accompagnato da "strategie del contesto": proposte che l´Italia dovrebbe avanzare in sede europea, per il rilancio politico ed economico dell´Unione; ed in sede internazionale, per la governance dell´ordine mondiale.
Dovrebbe identificare inoltre i principali "benchmarks", gli indicatori economici e sociali che il governo si propone di raggiungere in tempi determinati, non con le chiacchiere ma con le cifre. Dovrebbe, infine, predisporre le linee di quella riforma modernizzatrice di un´amministrazione programmatica e "in tempo reale", che richiederà certo più di una legislatura, ma che è la madre di ogni riforma, la riforma dello Stato: un obiettivo finora in gran parte mancato, anche dal centro sinistra.
Last but not least, c´è il problema della comunicazione politica. Forse, il più importante. Qui si inserisce la mia "modesta proposta" avanzata su questo giornale e ripresa positivamente da Piero Fassino, da Fausto Bertinotti e da altri autorevoli esponenti del centro sinistra: quella di aprire, su uno schema elaborato dai partiti del Centro Sinistra, una Convenzione Programmatica aperta a tutte le istanze rappresentative delle forze economiche sociali e culturali del Paese. Un Convenzione nazionale che abbia tutto il tempo per discutere, approfondire, rielaborare. Per giungere a una Proposta finale, da sottoporre alla coalizione, e da quella al Paese.
Non si tratta solo di una procedura tecnica. Si tratta di una scelta politica, diretta a fondare la coalizione di Centro Sinistra non sulle combinazioni geopartitiche, ma su una grande esplicita seria scommessa di rilancio dello sviluppo, ispirata al primato dell´interesse pubblico.
Questo Paese si è affidato per tre anni a una gestione privatistica, ispirata alla concezione dello Stato come Supermarket, del popolo come gente, del cittadino come cliente, del politico come attore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È tempo che si riconosca nel volto umano, solidale e civile di una Repubblica.
Certo riformismo post-comunista è un po' come quel vecchio gatto che porta nel suo imprinting originario lo stigma del cacciatore, per cui quando vede un topo si mette «in presa», ma non sa più perché lo fa e dunque finisce per mangiare dallo stesso piatto con la sua potenziale preda, ormai tranquilla che nessun pericolo le potrà venire da tanto azzardo. Non paia questa metafora troppo irriverente, perché è provato che quando passi al sodo e discuti di salario, di precarizzazione del lavoro, di pensioni o di democrazia sindacale, scopri che il perimetro concettuale nel quale la sinistra moderata si muove è -sostanzialmente - quello imposto dalla vulgata liberista che ha fatto della compressione del lavoro la chiave della competitività d'impresa. Può allora capitare che se Epifani abbandona il confronto con Confindustria perché alle aperture del suo nuovo presidente corrisponde una proposta in cui «il morto afferra il vivo», Fassino - del tutto disinteressato al merito di quel contenzioso - si precipiti in Cgil per scongiurare che non si rompa l'idillio con il neonato fronte antiberlusconiano aperto, come si sa, alle più strabilianti cooptazioni. Non spiace, ovviamente, che Berlusconi perda consensi anche nel suo campo, il problema è semmai su quali basi programmatiche le forze che gli si oppongono intendano guadagnare i propri. Ora, che nella sinistra moderata stia ormai consolidandosi una strutturale sussunzione culturale ed ideale al «centro» è cosa talmente chiara da rendere superfluo ogni indugio sull'argomento. Dichiarata dissolta la classe (anzi, le classi), sterilizzato il partito dei suoi compiti di rappresentanza sociale, derubricato il conflitto a patologia ed espunto il tema dei rapporti di produzione, rimane un blando e ammorbato riformismo, anch'esso peraltro riclassificato come sfida per la modernizzazione nella quale competono e si alternano al potere elites più o meno competenti: il tutto rigorosamente circoscritto entro le compatibilità date.
Al riformismo della sinistra moderata, che si presenta - per dirla con linguaggio gramsciano - come rivoluzione passiva, occorre contrapporre una coalizione delle forze di sinistra sufficientemente coesa e rappresentativa, capace di costruire con l'opposizione moderata un serio compromesso programmatico che tracci, in positivo, una linea di discontinuità con il presente, ma anche con la precedente esperienza di centrosinistra. Questo comporta innanzitutto una volontà politica preliminare, la disponibilità del variegato mondo della sinistra radicale ad abbandonare la rincorsa di piccole, velleitarie, mediocri rendite di posizione; poi a ricostruire in termini non propagandistici il profilo di una rappresentanza sociale che individui nel lavoro e nella ricomposizione di esso il suo baricentro; quindi a ripensare i fondamenti (come suggerisce Asor Rosa), mettendo le acquisizioni più feconde del marxismo in tensione con la realtà attuale e con le soggettività che la innervano, dal pacifismo all'ambientalismo, dalla lotta contro le multinazionali e il diritto di proprietà intellettuale a quella contro le transazioni finanziarie speculative e l'esproprio dei beni comuni, fino alla critica dello sviluppismo e della crescita senza limiti.
L' irruzione sulla scena di nuovi, socialmente eterogenei soggetti non comporta affatto la rimozione di un'analisi che scavi più in profondità o il ripiegamento della teoria su un sincretismo culturale di breve respiro ma, al contrario, richiede uno sforzo di totalizzazione dialettica che non si identifica con la giustapposizione acritica delle diverse esperienze e neppure con la pretesa saccente di mettere le brache al mondo. Questa fatica deve essere ancora compiuta. Abdicarvi comporta le seguenti, gravi conseguenze: a) che le forze di tradizione marxista si limitino a cercare nella realtà la conferma dei propri schemi teorici, mentre l'azione diretta, concreta, rimane prerogativa di quanti si muovono deliberatamente in una sfera adattiva, oppure è svolta da una parte del sindacato (quando è ispirato) che dilata alla sfera politica la propria rappresentanza sociale, oppure ancora è assorbita dall'iniziativa feconda, ma inevitabilmente parziale e sussultoria dei movimenti; b) che il tema del potere politico, il tema dello stato, della trasformazione istituzionale e quello dell'egemonia, intesa come organizzazione della democrazia partecipata, come costruzione sul campo di diversi modelli di vita comunitaria solidale trovino più punti di tensione e di incomprensione che di sutura; c) che questa perdurante dicotomia renda più complicata l'individuazione di un denominatore comune e, soprattutto, la costruzione di un programma con cui rendere esplicito ciò che si vuole creare, senza la qual cosa diventa scarsamente credibile anche ciò che si intende distruggere. Di tutto questo ci si dovrebbe sommamente preoccupare. Non basta dire che è necessario abolire la legge 30, la legge Bossi-Fini, l'ennesima manomissione delle pensioni, la legge Moratti, la «riforma» istituzionale devoluzionistica, la riduzione delle tasse ai ricchi, la pratica aberrante dei condoni, la detassazione delle grandi eredità... e si potrebbe continuare. Non basta cioè pensare a un puro ritorno allo status quo ante rispetto al governo di centrodestra. E' indispensabile delineare un progetto riformatore che abbia al suo centro, nelle parti e nell'insieme, un nuovo corso della politica e dei rapporti sociali: impostare una grande riforma del welfare (dalle pensioni agli ammortizzatori sociali alla sanità) da finanziarsi con una tassazione fortemente progressiva che coinvolga anche la ricchezza finanziaria e patrimoniale e fare del sistema di protezione sociale e della spesa pubblica per la casa, la scuola , l'assistenza il volano di uno sviluppo fondato sui consumi sociali; rilanciare l'intervento pubblico come investimento e orientamento strategico, come intervento diretto nei settori nevralgici dell'economia e ridare dignità al concetto di programmazione; fare del salario, del contrasto alla precarizzazione l'enzima e la via virtuosa di un rinnovamento della stessa cultura d'impresa; favorire la diffusione della democrazia a tutti i livelli della società, promuovendo l'estensione dei diritti e delle tutele del lavoro alle piccole aziende e varando una legislazione di sostegno all'accertamento della rappresentatività sindacale e alla legittimazione dei contratti collettivi attraverso il voto di tutti i lavoratori interessati; fondare una politica di accoglienza dei migranti che affermi senza titubanza una cittadinanza di prossimità, non legata al diritto del sangue o del luogo di nascita.
Ecco un terreno sul quale tentare di ricostruire una soggettività politica del lavoro capace di superare la dimensione corporativa e di parlare a tutta la società. Dico ricostruire perché - come si sa e come duramente ci conferma l'esperienza- l'identità sociale non è un presupposto, un dato di partenza, ma un punto d'arrivo che deve essere costruito con pazienza, intelligenza e determinazione, altrimenti si rischia di imbattersi, sempre di più, in una singolare figura di operaio, costretto dalle circostanze a sussulti improvvisi di autodifesa, ma strutturalmente prigioniero dell'ideologia dominante ed in essa destinato a rifluire. Se di questo si potesse ragionare insieme per aprire una prospettiva finalmente convincente, varrebbe davvero la pena di essere della partita.
Radicale immaginario, per il presente
Stimolante riflessione, a partire da uno studio di Brett Neilson che propone di dare peso, nella politica della sinistra, ai sentimenti e all'immaginario. Su il manifesto, 28 luglio 2004
In un articolo scritto per la neonata rivista «Studi culturali» del Mulino, Brett Neilson, un giovane docente della University of Western Sydney molto vicino al pensiero radicale italiano e autore di un interessante saggio sulla politica dell'immaginario ( Free trade in the Bermuda Triangle... and Other Tales of Counterglobalization, University of Minnesota Press, 2004), traccia alcune note provocatorie, a suo dire provvisorie e a mio avviso molto stimolanti, sui rapporti che il potere intrattiene oggi con la sfera dei sentimenti e dell'immaginazione e su quelli che una politica alternativa dovrebbe a sua volta imparare a intrattenere. Mi permetto proditoriamente di anticiparne alcune intuizioni (l'articolo non è stato ancora pubblicato), perché mi sembrano rilevanti anche come contributo indiretto al dibattito sulla sinistra radicale che si sta svolgendo in questo scorcio di luglio sulle pagine del manifesto. Niente meglio dell'Italia berlusconiana, osserva infatti Brett e io concordo con lui, mostra lo scarto fra una politica del potere che usa la manipolazione dei sentimenti e dell'immaginario come parte integrante delle tecniche di governo di una democrazia post-costituzionale, e una politica di opposizione ancorata a categorie puramente razionali e istituzionali che della mobilitazione dei sentimenti e dell'immaginario si ostina a sottovalutare l'importanza. Anche se, come sempre, il laboratorio italiano fa luce su una situazione più generale. Non è Berlusconi ma l'intero quadro della politica globale a imporre la centralità del tema. L'11 settembre e il successivo trattamento dell'evento da parte dell'amministrazione americana e dei grandi network televisivi; l'11 marzo e il successivo conflitto fra la versione televisiva di Aznar e la controinformazione degli elettori spagnoli via Internet; la gestione a effetto delle immagini della guerra in Iraq, fra bombe «shock and awe» e statue di Saddam decapitate; la via fotografica alla denuncia delle torture di Abu Ghraib; la diffusione in Rete della decapitazione degli ostaggi occidentali da parte dei terroristi islamici: sono tutti esempi di come il potere fa leva su sentimenti elementari e fa politica dell'immaginario usando le tecnologie dell'immaginario, e di come a sua volta il contro-potere - caso 11 marzo, caso Abu Ghraib - riesce a vincere quando agisce sugli stessi terreni e con le stesse tecnologie, ma a modo suo e per fini suoi. Non si tratta solo, sottolinea giustamente Neilson, di analizzare la potenza del visuale nelle società postmoderne. Si tratterebbe di analizzare le complesse strategie del potere e del controllo che si formano all'incrocio fra visuale e tecnologico (quante tracce lasciamo ogni volta che andiamo in Rete?), fra livello cognitivo e livello emozionale della ricezione dei messaggi, fra ideologia e senso comune, fra razionalità degli enunciati e corporeità dell'esperienza. E di rispondere a queste complesse strategie del potere con pratiche alternative altrettanto complesse, e altrettanto emozionali.
Che la sinistra radicale, continua l'autore, si trova però a dover interamente reinventare, oltre le vie classiche della rappresentanza e oltre l'illusione di poter contrastare la «falsità» delle rappresentazioni del potere contrapponendole la «verità» del contropotere. Rappresentanza politica e rappresentazione linguistica, i due potenti bastioni della razionalità del Politico moderno, vacillano entrambi quando a politicizzarsi, sul versante del potere, sono il corpo, i sentimenti, le emozioni, la percezione, l'immaginario. A quel punto non bastano, sul versante dell'opposizione, dei razionali progetti di ingegneria istituzionale o costituzionale. Ma non basta neanche rispondere con l'immaginazione di «un altro mondo possibile», con un movimento reattivo di rifiuto del presente che rinvia il problema a un domani migliore. Ci vorrebbe, dice Neilson parafrasando Marx, «un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti», a partire dalle condizioni materiali e immateriali in cui siamo immersi, mobilitando verso l'azione i corpi e le menti, la razionalità e l'emotività, il sapere e l'immaginario. Qualcosa di non molto diverso da quello che il femminismo italiano ha chiamato «politica del simbolico». Perché invece la sinistra radicale, italiana e non solo, continua a discutere di contenuti programmatici, formule organizzative, mondi a venire, come se la razionalità politica non c'entrasse niente con i sentimenti e l'immaginario, e come se i sentimenti e l'immaginario fossero diventati per sempre una colonia di Silvio Berlusconi?
23 luglio 2004
Il merito dell'alternativa
Sostanza Una costituente che si qualifichi su un progetto di fondo
GIUSEPPE CHIARANTE
E'mia impressione che nel dibattito che ha opportunamente aperto, a partire dalle sollecitazioni di Alberto Asor Rosa, attorno alla prospettiva della cosiddetta «sinistra radicale» (uso anch'io, per comodità, questo termine, che in realtà propone un tema che è esso stesso per tanti aspetti da discutere) in gran parte degli interventi siano considerati come impliciti, cioè praticamente fuori discussione, due presupposti che invece sono tutt'altro che assodati. Il primo è che la crisi dello schieramento di centro-destra, e in particolare l'evidente calo dell'egemonia del berlusconismo, siano tali da indurre a giudicare scontato che tale schieramento sia destinato a uscire perdente dalle prossime elezioni politiche. Il secondo, che al primo è strettamente collegato, è che sia ormai per tutti acquisito (e non vi sia da temere che qualcuno voglia rimetterlo in forse) che sarà una larga intesa elettorale di tutte le forze del centro-sinistra e della sinistra, per intenderci da Mastella a Bertinotti, a proporre nelle future elezioni la propria candidatura al governo del paese. Pare a me che questi presupposti corrispondano più alla situazione politica esistente prima delle ultime elezioni che a quella che si è determinata dopo tale evento. Infatti l'esito delle elezioni più propriamente politiche, ossia le europee (andrei molto cauto, per le ragioni che ho esaminato sulla Rivista del manifesto di luglio, nel sopravvalutare, ai fini del nostro ragionamento, l'indubbio successo del centro-sinistra nelle amministrative), ha confermato, in contrasto con le previsioni, una situazione di sostanziale parità fra i due schieramenti: con un netto cedimento di Forza Italia a favore dei suoi alleati, ma senza un travaso di voti di un qualche rilievo da destra verso sinistra. La controprova è l'insuccesso della lista «Uniti per l'Ulivo», che non è per nulla riuscita a consolidarsi al centro, come si proponeva; mentre il lieve avanzamento complessivo dell'opposizione è stata possibile solo grazie alle liste a sinistra del cosiddetto «triciclo» che hanno raggiunto il 13 per cento dei voti. Un risultato che non è però gran cosa e che non rappresenta affatto - come diversi indizi stanno a segnalare - il pieno recupero di tutto o quasi tutto l'astensionismo di sinistra.
La contesa fra centro-destra e centro-sinistra, che elettoralmente rimangono in parità, resta dunque più che mai aperta. Ma a ciò si aggiunge il fatto che proprio perché il mutamento dei rapporti di forza è avvenuto soprattutto all'interno della maggioranza di governo ed essenzialmente a favore delle liste di orientamento più moderato, nella crisi politica che è seguita alle elezioni si è manifestato quel desiderio di «ritorno al centro» di cui tanto si è parlato. Ciò in primo luogo ad opera dell'Udc di Follini; ma anche ad opera di settori di centro dell'Ulivo, da alcuni gruppi di ex-democristiani allo stesso Rutelli. Tanto da indurre più di un osservatore a ipotizzare che qualcuno pensi, per il dopoelezioni, a una situazione in cui sia praticabile l'andreottiana «politica dei due forni» : ossia con la possibilità, per una federazione moderata neocentrista, corrispondente alla «lista Prodi», di governare preferibilmente con un'alleanza di sinistra - dai Verdi a Rifondazione- ma disponendo anche di un ricambio al centro verso destra (Follini, Casini, ecc.).
Ho voluto sottolineare questi dati di fatto non per togliere importanza alla discussione sui compiti e sulle responsabilità di quel «15 per cento» di cui ha parlato Asor Rosa (al contrario, da queste considerazioni tali compiti e responsabilità risultano, se mai, molto accresciuti), ma perché mi pare che un dibattito sulle prospettive della sinistra abbia tutto da guadagnare se è ben chiara l'analisi della situazione in cui occorre operare. Quest'analisi ci dice che il centro-destra non si sconfigge con una doppia operazione di carattere essenzialmente tattico. Ossia , da un lato, coltivando - alla maniera del «triciclo» - un neocentrismo moderato che si differenzierebbe da quello dell'attuale maggioranza solo perché darebbe maggiori garanzie di buon governo, di rigore finanziario, di rispetto dei diritti dei cittadini (l'esperienza dimostra che questo non basta a toglier voti alla destra); e d'altro lato sperando di consolidare ed estendere il consenso a sinistra attraverso una semplice somma o aggregazione o federazione di sigle, che potrebbe forse servire a dare alla cosiddetta «sinistra radicale» un maggior peso all'interno dello schieramento di centro-sinistra, ma poco inciderebbe sugli umori più generali dell'elettorato. Non credo, in sostanza, che il fatto risolutivo sia la politica delle «due gambe», una moderata e una di sinistra. Il vero problema, invece, è contrastare le tendenze di fondo che hanno favorito in questi anni lo scivolamento verso destra del senso comune e degli orientamenti di massa della società italiana. Per questo è essenziale - torno ai compiti della «sinistra radicale» - un impegno non solo programmatico ma di elaborazione politico-culturale che su temi come quelli indicati da Rossanda (le forme della rappresentanza, l'affermazione di una sfera pubblica contro la moda del privatismo, il nesso tra liberismo e capitalismo, il lavoro e i diritti, il no radicale alla guerra) riaffermi nell'opinione diffusa una visione dei rapporti sociali più consona a una politica che possa definirsi di sinistra. Ed essenziale è dare avvio a un processo costituente (in cui si ritrovino, come scrive Bertinotti, «forze politiche, loro componenti, sindacati, forze sociali, del volontariato, intellettualità diffusa, associazioni, comitati, singoli) che dia rappresentanza a chi oggi rappresentanza non ha - innanzitutto tanta parte del lavoro dipendente - e insieme offra una sponda a movimenti che non chiedono una rappresentanza politica, può non solo ridare consistenza a una «sinistra radicale», ma può incidere sugli orientamenti più generali, favorendo uno spostamento anche elettorale da destra verso sinistra. E può consentire di stabilire, tra le forze più avanzate e la sinistra moderata, un'alleanza che sia davvero qualcosa di più di un'intesa tattica, oggi ancora troppo simile a una semplice «desistenza»: una vera alleanza che è necessaria - ritorno all'analisi di partenza - sia per recuperare tutti i voti necessari a vincere sia per evitare che, vincendo, manchi quel minimo di terreno comune che è indispensabile, come l'esperienza del '98 insegna, perché un governo possa essere incisivo e duraturo.
Non credo invece che sia utile, per costringere a stare insieme democratici moderati e sinistra radicale, insistere sul maggioritario. A parte il fatto che un unione in virtù dei meccanismi elettorali è più facile a destra che a sinistra, c'è una questione di sostanza: l'esperienza dimostra che il maggioritario riduce la democrazia e la partecipazione democratica, e questi sono invece «valori» che sono coessenziali a u