loader
menu
© 2024 Eddyburg

Giuseppe Chiarante, La fine del PCI. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo Congresso (1979-1991), Carocci, Roma 2009. Fa seguito a Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta (2006) e a Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (2007), con lo stesso editore.

[…] Cominciava in sostanza a far breccia, anche nel Partito comunista italiano o almeno in settori rilevanti del partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che negli anni Ottanta – favorita sia dal precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa occidentale – si sviluppò con tanto impeto in Europa come in America, nei paesi dell'Est come in quelli dell'Ovest. È in questo modo che andò maturando per la sinistra, anche nella realtà italiana, una grave sconfitta che era e sarebbe stata culturale e ideale ancor prima che politica.

Mi sembra opportuno richiamare almeno altre tre questioni (se non altro a titolo esemplificativo) per mettere in luce come in pochi anni, anche in un paese come l'Italia, questa offensiva abbia modificato in modo radicale idee e convinzioni diffuse nell'area dell'opinione democratica, compresa buona parte della sinistra di opposizione, con conseguenze negative che presto si sarebbero manifestate anche sul piano delle scelte e dei comportamenti politici.

In primo luogo, raccoglieva crescenti consensi, e trovava ascolto anche in settori assai estesi della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione o programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi comunisti dell'Est europeo, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze dello Stato sociale) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell'impraticabilità di serie alternative alle regole del liberismo, del privatismo, del libero mercato. Non a caso l'idea di riaffermare o ricostruire un "punto di vista di sinistra" in economia (a partire, per esempio, dai problemi della cooperazione col Sud del mondo o da quelli della tutela ambientale e dell'affermazione di una diversa gerarchia di priorità e finalità nella produzione e nei consumi, come aveva proposto Berlinguer nel discorso sull'austerità) incontrava difficoltà via via più estese e anzi veniva rigettata quasi pregiudizialmente, nell'opinione più diffusa, come astratta e velleitaria. La conseguenza è che diventava quasi un luogo comune affermare che il banco di prova per dimostrare la maturità di governo della sinistra stava nella capacità di far valere come scelta prioritaria, senza concessioni a ideologismi solidaristici o a interessi di categoria, il rispetto dei vincoli "oggettivi" delle regole di mercato e delle compatibilità finanziarie e monetarie.

È comprensibile che il diffondersi di simili posizioni, anche al di là dell'area moderata - tanto più in una fase di intense ristrutturazioni che già tendevano a ridurre o rendere più precaria l'occupazione, ad accentuare la flessibilità della risorsa lavoro e della risorsa ambiente, a diminuire i vincoli e i costi sociali che pesavano sulla produzione -, abbia avuto il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela della classe operaia e di modificare a suo svantaggio i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale. Non per nulla si è potuto parlare, appunto a partire da questi anni, dell'affermazione di una sorta di "pensiero unico" di ispirazione neoliberista. Si ponevano così le basi di quell'«eutanasia della sinistra» (riprendo questa espressione dal titolo di un recente libro di successo[1]) che avrebbe portato all'affermazione della destra politica ed economica e al successo del berlusconismo.

In secondo luogo, non si può sottovalutare il peso che ebbe, nel modificare negli anni Ottanta gli orientamenti dí larga parte dell'opinione pubblica, l'insistente campagna sulla "crisi" e anzi sulla "morte" delle ideologie. È quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse e vi sia alla base di una simile tesi. Ma è un fatto che essa finì con l'essere largamente accettata, anche a sinistra, non solo come critica dei "partiti ideologici" (e partiti ideologici per eccellenza erano ovviamente considerati, in Italia, la Democrazia cristiana e il Partito comunista), ma anche e soprattutto come negazione dell'idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell'azione politica.

Nella polemica corrente, alle "finalità" e ai "finalismi" - e al loro retroterra ideologico - veniva sempre più di frequente contrapposta la vera o presunta "concretezza" dell'apertura al nuovo, al moderno, all'innovazione, sino a giungere all'assunzione ideologica del "nuovismo" come criterio di commisurazione della validità dell'iniziativa politica. Non c'è bisogno di ricordare quale peso abbia avuto una simile posizione nella fase di passaggio dal Pci al Pds, cioè dal vecchio "partito ideologico" alla "cosa" di cui non si conosceva né il nome né il programma, e neppure le finalità o i contenuti, e che non a caso non avrebbe mai neppure raggiunto una effettiva consistenza politica.

Va rilevato, infine, come la critica alla degenerazione del sistema dei partiti abbia subito nel corso di quel decennio, anche in settori via via più estesi del gruppo dirigente comunista, un cambiamento di segno: sino a porre capo non più a una domanda di "rinnovamento della politica" - così come era stata formulata da Berlinguer - ma a una proposta di mutamento del solo "sistema politico" (inteso in senso stretto), ossia come cambiamento delle regole istituzionali o elettorali. Veniva in tal modo spalancata la strada alla deriva decisionista. In particolare, all'idea che bastasse "sbloccare" il sistema politico per realizzare l'alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno. E per sbloccare il sistema politico chi doveva compiere il primo passo era naturalmente il Pci, mettendo in discussione se stesso, ponendo fine al "partito diverso", omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del partito comunista italiano.

Si tratta soltanto di alcuni esempi. Ma sono esempi significativi per porre in evidenza come il declino del PCI nella seconda metà del decennio abbia avuto come fondamento una debolezza culturale e ideale ancor prima che politica. Il che trova riscontro, del resto, nella crisi delle idee di sinistra, che si estende in quegli anni anche sul piano mondiale. Basti pensare al collasso dei regimi comunisti dell'Est, alla crescente afasia delle grandi socialdemocrazie, all'involuzione pressoché generale dei movimenti progressisti e indipendentisti dei paesi del Terzo Mondo.

[1] R. Barenghi, Eutanasia della sinistra, Fazi, Roma 2008

La parabola della sinistra dallo scontro nell'XI congresso al Sessantotto, al compromesso storico di Enrico Berlinguer, quando il maggior partito della classe operaia chiude gli occhi sulla società italiana, aprendo così la strada al suo scioglimento.

di Lucio Magri (Saggiatore, pp. 442, euro 18) è una riflessione seria e serrata, forse la prima, sulle scelte che hanno guidato il Pci dalla seconda guerra mondiale sino alla fine. Volontaria. Altro sarebbe stato imporsi nell'89 una riflessione di fondo su di sé, altro dichiarare la liquidazione. Magri ne cerca le cause nella problematica che si apriva negli anni Sessanta e nelle divisioni del gruppo dirigente davanti ad essa. Questa è la tesi de Il sarto di Ulm.

Lucio Magri è una figura singolare. Era entrato nel Pci negli anni Cinquanta, poco più che ventenne, alle spalle l'esperienza della gioventù democristiana a Bergamo, assieme a Chiarante, nella temperie dei Dossetti e soprattutto di Franco Rodano, figura atipica di cattolico acuto e fuori dei ranghi. Viene accolto nella segretaria di Bergamo e poi nel regionale lombardo, e di là scenderà a Botteghe Oscure. Quando entra nel Pci molto è avvenuto dal 1945. L'Italia ha avuto una grande resistenza, nessun tribunale alleato ha processato i suoi crimini di guerra, il Pci ha partecipato da una posizione forte alla Costituente, il più della ricostruzione è stato fatto, e anche del partito. Era ancora sotto botta per il 18 aprile, quando un folle attenta alla vita di Togliatti. Attentato che suona, e non era, comandato dal governo, gli operai occupano le fabbriche in uno sciopero generale illimitato. Togliatti e Longo ordinano il ritorno al lavoro. Il furore di quella massa di operai è qualcosa che chi l'ha vissuta non scorderà: non era la conclusione di una protesta ma la dura introiezione d'un limite che non si sarebbe potuto superare. Togliatti lo subiva o ne profittò? I fatti militano per la seconda ipotesi. Perché su di esso - obbligato dai rapporti di forza mondiali, e confermato dall'infelice guerriglia greca - fondava la scelta del partito nuovo e lo innestava del «genoma gramsciano».

E' il tema della prima parte del volume; l'analisi di Magri è persuasiva. Anche se si può discutere su Gramsci, e non per le speculazioni sulla prima edizione delle opere che - Magri ha ragione - rese accessibili i «Quaderni», ma per la curvatura del gramscismo assunta dal partito, la lunga sottovalutazione della «sovrastruttura» avendo indotto all'offuscamento della «struttura», sbrigativamente definita «economicismo». E si potrebbe discutere sul governo interrotto nel 1947, che Magri non conobbe se non per quanto si rifletteva nella Democrazia cristiana, alla quale oggi l'Istituto Gramsci preferirebbe che il Pci si fosse alleato da subito - ipotesi fantasiosa. E sulla Costituente, nella quale le scelte comuniste sull'art.7 fecero chiasso, mentre sulla pochezza delle proposte sul terreno economico non si sollevò sopracciglio alcuno.

L'interpretazione che Magri ne dà nel 2009 è, grosso modo, quella che il Partito dette di sé con alcune sfumature critiche. Ne esce rafforzata, rispetto al giudizio che formulammo negli anni '70, la figura di Togliatti nella costruzione di un partito diverso da quello leninista, mirato a un rivoluzionamento dei rapporti sociali e «utilmente costretto» alla legalità. Non è un paradosso. Soltanto un punto non mi persuade: Magri considera obbligata e positiva l'adesione incondizionata all'Unione Sovietica, questione che, a distanza e visto l'esito, andrebbe discussa più che egli non faccia, salvo la nota (che è anche la più seria di François Furet): il leninismo non ha «lasciato eredità».

Su quel legame ci sarebbe molto da chiedersi. Non se schierarsi dall'altra parte o restare neutrali nella guerra fredda; lo spazio di Tito in Italia non c'era. Ma si poteva mantenere - almeno dopo la svolta all'est del '48 - uno sguardo critico che, riannodando con gli anni Venti e con il pensiero di Lenin sullo stato, tenesse aperta una problematica che già presentava i suoi conti. Peggio di come è andata non poteva andare; Togliatti era un uomo accorto, non era scomunicabile, il suo partito era il più forte d'occidente e aveva frontiere strategiche. È che sperava ancora nell'Urss, come Isaac Deutscher, ma sbagliava, come Deutscher. Il 1956, conseguenza del '48-'49, segnava una spaccatura irrimediabile, non solo nell'estate polacca e nell'insurrezione ungherese (forse meno diverse di quanto Magri ritenga) ma nell'impossibilità di Gomulka o Kadar di riannodare un qualsiasi filo con le loro società.

È vero che una critica al modello dell'est traspariva attraverso Gramsci, ma anche a Gramsci dovettero sfuggire le dimensioni del disastro fino al '34, quando Piero Sraffa poté parlargliene senza testimoni. Di quel che si dissero non sappiamo nulla. E non appare gran che, a distanza, la famosa intervista di Togliatti su Nuovi Argomenti e tragico il suo «non sapevamo, non potevamo sapere». Avrebbe aperto il discorso soltanto nel 1964, andando più a fondo di Berlinguer nel 1981, nel memoriale che voleva discutere con Krusciov. Ma in quegli stessi giorni morì. Il solo che ebbe il coraggio di pubblicare il memoriale fu Longo. Poi tutto si richiuse. E a Longo fu spesso informalmente vicino Magri negli anni seguenti - quando la sua testimonianza diventa diretta e, per così dire, interna corporis.

Al centro stanno gli anni Sessanta. È allora che si decide la successione a Togliatti, e soprattutto che cosa deve essere il Pci quando il dopoguerra è finito, Kennedy sembra allentare la guerra fredda, la Chiesa si spalanca al Vaticano II, l'avanzata del Pci nel 1963 fa piangere Moro, la crescita è trainata dall'edilizia, le automobili e gli elettrodomestici, il paese ha cambiato composizione sociale con le grandi migrazioni e l'entrata delle donne nell'industria, mentre radio e tv sono ancora più mezzo di comunicazione che di spappolamento. E tutto questo in un crescere di popolo convinto di avere dei diritti e deciso a conquistarli con le sue braccia, il suo sindacato e il suo partito. Di questa, che è la vera egemonia dei comunisti, è prova la proletarizzazione dei contadini che vanno al nord. Sono loro a formare l'«operaio massa», sul quale disquisiremo assieme ai francesi André Gorz e Serge Mallet, la Cfdt più che la Cgt, agli inizi del decennio.

Nel 1962, al Convegno sul capitalismo italiano del Gramsci si evidenziano due ottiche, quella di Amendola e quella di Trentin e Magri, appoggiata da Longo. Oggi Magri sottolinea i limiti delle posizioni difese anche da lui, ma è un fatto che per la prima volta viene contestata la tesi amendoliana di un capitalismo italiano torpido e tendenzialmente fascista. Così mentre la Dc capisce la dimensione del cambiamento, si apre al Partito socialista, e si affiderà d'ora in poi più a La Malfa che alla Coldiretti, il vertice del Pci si limita a constatare «bene, ora passano i socialisti, domani passiamo noi».

Così mi accolse Botteghe Oscure nel 1963, e mi parve un umore delirante (se formalmente contavo più di Lucio, ne sapevo di meno, salvo qualche colloquio mattutino con Togliatti, che non era uomo da dire mezza parola più che non volesse. E che mi calò un fendente quando intervenni contro Amendola su «Rinascita»). Ma, per grezze che fossero, le critiche alla linea amendoliana non cessarono più e si andarono aggregando - Magri lo descrive esattamente - in modo informale attorno a Ingrao, che è tutto fuorché un capocorrente. Ad ogni modo il Pci al centrosinistra non aderisce e non sabota. Ma Togliatti si è appena spento che Amendola propone di cancellare l'errore del congresso di Livorno e unificare Pci e Psi.

Inimmaginabile Togliatti vivente. Il Partito sobbalza, il gruppo dirigente non approva ma non attacca. Amendola non pagherà alcun prezzo. Da allora all'XI Congresso, due anni, il partito è determinato a distruggere qualsiasi alternativa al centrosinistra nel quale punta a inserirsi da una posizione forte: Ingrao, che non non è d'accordo, è il bersaglio. Al congresso Ingrao oppone all'unificazione fra Pci e Psi un coinvolgimento delle sinistre dei partiti e dei sindacati e i movimenti sociali nonché la breccia aperta, più che nella Dc, fra i cattolici - solo possibile blocco storico delle «riforme» di struttura. E termina con il diritto al dissenso, accolto da un'immensa ovazione della sala e da un immenso gelo della presidenza. Seguirà un fuoco di contestazioni, il suo isolamento e la diaspora dei sospetti di ingraismo. Magri, non difeso da cariche elettive, viene scaraventato fuori.

Oggi egli considera che è stata la domanda di legittimare il dissenso a riuscire indigeribile per le Botteghe Oscure. Ne dubito, il dissenso più clamoroso era venuto da Amendola, e senza conseguenze per il reo. La resistenza più spessa, come diranno gli anni seguenti, è di linea. E comporterà il progressivo perdere di peso di Longo.

Sul quale cadono due sessantotto, quello degli studenti e quello cecoslovacco. Non è vero che il Pci abbia favorito il primo, non fosse che per la differenza radicale di cultura, ma è vero che non lo ha attaccato. Amendola e Sereni obiettano, ma le federazioni si sono aperte agli studenti e Longo li riceve. L'anno seguente, quando esplode l'«autunno caldo» in contenuti e forme del tutto fuori dalla tradizione del partito e del sindacato, il Pci è occupato nel cacciare «il manifesto», pratica che il segretario avrebbe volentieri evitato. Già l'anno prima si erano dovuti registrare molti voti contro le Tesi del XII congresso, in centro e in periferia, e il districarsi malamente dall'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Ed è con questo pretesto che il manifesto viene fatto fuori. E' di Magri l'editoriale «Praga è sola» nel settembre 1969 e saremo radiati in capo a tre comitati centrali.

Magri spende poche parole sul «manifesto», ma senza di lui non sarebbe nato, come senza Pintor non avremmo il giornale. Non credo per le divisioni e amarezze che conoscemmo nel tempo: sono passati quarant'anni da quando fummo messi fuori dal Pci e una trentina da quando alcuni di noi separarono il giornale dal Pdup. Anni che non hanno risparmiato nessuno. La verità è che gli iniziatori del «manifesto» sono stati sconfitti nell'essenziale: non ci è mai bastata la buona coscienza, volevamo cambiare il corso delle cose, e la strada più percorribile sembrava quella di costringere, da dentro o da fuori, il Pci a elaborare i fermenti del '68 e del '69; insomma indurvi un cuneo profondo. Questo avrebbe salvato il comunismo da pesanti continuità e salvato dalla fragilità e dalle derive le spinte del '68 e del '69. Magri sperò che saremmo stati per il Pci come il Vietnam per gli Stati Uniti, Pintor puntò sul quotidiano come la forma politica più capace di penetrazione, i compagni spinsero per mietere un trionfo nelle elezioni del '72. Non mietemmo trionfi, non dividemmo il Pci, non costruimmo fuori di esso una grossa alternativa. Oggi Magri riconosce le ragioni di Natoli, che si oppose a ogni accelerazione, insistendo perché lavorassimo sui tempi lunghi. Concordo. Ma avremmo dovuto essere assieme più compatti ed aperti. Magri vide via via nel manifesto delle concessioni all'estremismo che avrebbero impedito ogni ascolto nel Pci, io vedevo nel Pci un ostinato chiudersi alle forze che dovevano esserne il blocco sociale moderno. Minacce di intervento esterno erano ormai da escludere.

Sta di fatto che dagli anni Ottanta il Pci tracolla, nessuna sinistra fuori di esso riesce a durare, il manifesto scivola verso la figura attuale di libero giornale di diverse opinioni.

Poteva non andare così, sostiene Il sarto di Ulm. Anzi per quanto riguarda il Pci, forse non è andata così fino alla morte di Berlinguer. Che aveva accumulato molti errori, specie con il compromesso storico e la politica dell'unità nazionale, ma nel 1979 tentò una svolta di 180 gradi, e ne fu impedito dalla maggioranza del gruppo dirigente. Magri rifiuta la tesi che fa delle Brigate Rosse l'artefice del suo destino: uccidendo Moro avrebbero precluso al Pci la strada al governo. Moro - egli ritiene - al governo non ve l'avrebbe portato, né andarvi gli avrebbe evitato la crisi, che veniva dal non intendere il mutare delle condizioni interne e internazionali. I fatti parlano: se la scelta del '73 a lungo covata (e Il sarto di Ulm lo documenta) era già «senza avvenire», l'astensione del 1976 al governo Andreotti è uno sbaglio rovinoso. Come la sordità ai movimenti sociali, anche più convulsi: per inaccettabili che fossero i gruppi armati, bisognava chiedersi perché si fossero formati allora. E che senso aveva gettare sul '77, che rovinoso non era, l'accusa di diciannovismo?

Più grave è nel Pci di allora la ormai insufficiente attrezzatura intellettuale e il dubbio su di sé. Se si aggiunge che le scelte diventano interamente di vertice e affidate a diplomazie segrete e snervanti, è chiaro che Berlinguer cerca di cambiar rotta fuori tempo massimo.

Volere o no una riflessione seria riporta al '64 e al '66. E il metodo seguito da Magri - l'attenzione ai mutamenti internazionali, macroscopici dal 1974 in poi, e alle condizioni interne, sociali e di governo - lo porta a prenderne atto.

L'89 segna una conclusione, non un capovolgimento. Anche se egli cerca fino all'ultimo i margini che eviterebbero la catastrofe: il documento del 1987, in appendice al volume, poco prima della caduta del Muro, è ancora una proposta. Che non trova portatori, come non li troverà la sua relazione ad Arco, sulla quale Ingrao scarta. E comincia male la vicenda di Rifondazione comunista.

La domanda che il suo lavoro induce è fino a quando c'era realmente tempo e se il materiale, di cui era fatta la proposta di cambiamento non era logorato. Lo era, risponderei oggi al compagno ed amico di tanto lavoro e tante zuffe. E a me stessa. Magri no, pensa che non tutto era giocato, anche se il suo giudizio su Berlinguer è non meno definitivo del mio. Specie sugli anni '70 e i guasti che vennero dal compromesso storico, al quale non si oppose nessuno, salvo un Longo inascoltato, e c'è chi lo difende ancora. Il gruppo dirigente che bloccò il tardivo cambio di politica del segretario nel '79 ne è un frutto. Berlinguer che va ai cancelli della Fiat, in appoggio a un movimento destinato a perdere, pare a me l'immagine di una solitudine. Sbagli, oppone Magri, era determinato; e non aveva con sé Lama ma la base popolare del partito. E la leva giovane? Gli Occhetto? Obietto. Così continua fra noi la discussione di una vita.

Che ne è dell'intellettuale novecentesco nell'era dei massmedia e nell'evo di Berlusconi, quando si rompe il rapporto fra politica e cultura e il capitalismo postfordista cancella operai e borghesia.

«Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d'Italia. Più del fascismo? Inclino a pensarlo». Così Alberto Asor Rosa il 4 giugno 2008 su questo giornale, non senza scandalo. Quel giudizio e le sue ragioni ricompaiono ora ne Il grande silenzio, la sua lunga intervista sugli intellettuali che Simonetta Fiori ha raccolto per Laterza (giocando, va subito detto, un ruolo tutt'altro che secondario nell'andamento del discorso). Ai tre criteri di misura che in quell'articolo motivavano quel giudizio - senso dell'unità nazionale, rapporto fra cittadini e istituzioni e fra presente e tradizione - se ne aggiunge dunque un altro, lo stato in cui versa la questione degli intellettuali nell'«evo berlusconiano», stato che a sua volta riporta all'analisi della «civiltà montante» massmediatica e globalizzata in cui viviamo. La diagnosi del presente è l'approdo e non l'inizio dell'intervista, che per tre quarti procede lungo un asse di ricostruzione storica della questione nella vita della Repubblica; ma è lecito partire da qui, credo, e poi andare a ritroso, perché Asor Rosa è l'incarnazione della funzione intellettuale incardinata sul rapporto fra politica e cultura che nel libro mette a fuoco, e dunque è il problema tutto politico del «che fare oggi» che lo muove e lo tormenta, pur mentre di quella funzione dell'intellettuale politico decreta l'estinzione.

Che fare dunque oggi, e com'è fatta la «civiltà montante»? A fronte della nitidezza della panoramica sul passato, qui lo sguardo si fa più esitante, e perciò più stimolante. Non per quello che riguarda il giudizio politico su Berlusconi, che è nettissimo: «il prodotto finale di una lunga decadenza del sistema liberaldemocratico», che persegue, facendo tabula rasa della storia nazionale dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituzione, «un assetto politico-istituzionale di tipo monocratico», forte della «devastante anomalia» che unisce in lui «il padrone dell'immaginario collettivo e il dominus della cosa pubblica». L'esitazione riguarda piuttosto l'epoca che al berlusconismo fa da cornice, la «civiltà montante», appunto, dei massmedia. Della quale, dice Asor, «mi rendo conto di essere portato a cogliere più gli aspetti negativi che quelli positivi», e tuttavia «il grande dilemma è se il nuovo Moloch porti con sé valenze positive che il vecchio sguardo non è in grado di cogliere».

Totalitarismo democratico

Proviamo dunque ad addentrarci nel dilemma a partire dagli aspetti negativi: omologazione intellettuale, appiattimento dell'immaginario, prevalenza del criterio commerciale su quello culturale; metafisica dell'apparire contro l'essere; rappresentazione della realtà secondo il gradimento dell'audience; assolutizzazione della verità contro il giudizio critico, che invece «non si fonda su verità assolute ma sul senso del relativo»; epidemia dilagante di quella «peste del linguaggio» che Italo Calvino denunciava nelle sue indimenticabili Lezioni americane. Lucidamente Asor Rosa ne trae le conclusioni per i destini non solo dell'intellettuale - «la funzione intellettuale tradizionale, fondata su spirito critico, spiccata individualità, riconoscibilità pubblica, appare inesorabilmente destinata al tramonto» - ma della stessa democrazia: «E' una fenomenologia non immune da inclinazioni totalitarie, nel senso che le sue conseguenze, seppure ottenute con mezzi radicalmente diversi, non sono dissimili dall'appiattimento voluto e praticato con strumenti coercitivi dal totalitarismo novecentesco: omogeneità di giudizio, conformismo di massa, uniformità dei consumi». La diagnosi è giustamente spietata, in linea con altri contributi (Tronti, Cacciari, Badiou, Rancière, Nancy) che sfidano il fondamentalismo della fede nella democrazia oggi imperante strappando all'homo democraticus la maschera di sovranità e autodeterminazione che ne copre dipendenze e manipolabilità. Ma Asor Rosa diffida delle sue tentazioni catastrofiste, e di fronte a queste derive del presente vorrebbe piuttosto ritrovare la capacità marxiana («sono forse l'unico al mondo che ha letto tutto Marx e tutto Dante, virgole comprese») di cogliere non solo la distruttività ma anche la carica innovatrice dell'ingranaggio capitalista, per capire come smontarlo e come sovvertirlo. Eccoci dunque al dilemma di poco fa: dove trovare nel Moloch della «civiltà montante» le valenze positive su cui fare leva per il «che fare»?

Lasciamo sospesa la domanda e procediamo all'indietro, sulle tracce di quella figura dell'intellettuale novecentesco che oggi rischia l'estinzione come , scherza Asor, i dinosauri che pretendevano di restare uguali a se stessi in presenza di un mutamento ciclopico del clima e dell'ambiente. Con ogni evidenza, nel ritratto che Asor Rosa ne traccia, l'intellettuale novecentesco è figura del rapporto fra politica e cultura. Di un rapporto non organico - Asor conferma qui la sua distanza da Gramsci - bensì critico, ma comunque strettissimo e imprescindibile. Fuori da questa posizione schierata, partigiana e militante, quella figura svanisce o nell'isolamento individualista dell'uomo di cultura o nell'opportunismo degli «apoti», quelli che oggi come nell'Italia prefascista e fascista non si schierano né di qua né di là, avallando di fatto il potere costituito. Invece, «da Max Weber fino a Bobbio l'intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e lo usa come strumento per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l'antropologia circostante». Presente sia a destra che a sinistra, a destra l'intellettuale viene cancellato dal totalitarismo fascista e nazista, mentre a sinistra sopravvive in forme eretiche al totalitarismo comunista. La sua storia è intimamente intrecciata quindi con la storia della sinistra.

Di questo inteccio Asor Rosa fornisce un resoconto completo e convincente, ripercorrendone tutti gli snodi princiali: il trauma del '56 e la crepa che aprì nell'ortodossia comunista, il riformismo del primo centrosinistra, il ciclone degli anni Sessanta («il deprezzamento del '68-'69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni»), la stagione del consenso intellettuale più vasto, ancorché tutt'altro che compatto, al Pci berlingueriano fra il '72 e il '78, il «dramma» del '77 (organizzare la visita di Lama alla Sapienza fu «un clamoroso errore»), il terrorismo e l'assassinio di Moro, la «mutazione morfogenetica» del Psi craxiano in macchina di potere, infine la svolta del Pci nell'89. L'impronta spiccatamente autobiografica aggiunge verità al racconto, punta su alcuni momenti peculiari (l'esperienza delle riviste operaiste negli anni Sessanta, quella di Laboratorio politico negli Ottanta), ne chiarisce altri (la rottura fra Asor, allora direttore di Rinascita, e Occhetto, non tanto sul che cosa quanto sul come della svolta: «La verità è che mi sentii tradito. L'operazione di Occhetto, inattesa e fulminea, improvvisata ed estemporanea, era passata come un ciclone sul lavoro culturale condotto in quegli anni insieme»), invita a un confronto con vissuti e giudizi diversi su altri momenti ancora (il '77, ad esempio). Ma più che insistere sulla storia dei decenni passati, è sul suo esito che il libro ci sospinge, e ci inchioda.

Sull'esito - il «più del fascismo» da cui siamo partiti, e al suo cospetto «il grande silenzio» degli intellettuali italiani o di ciò che ne resta - gravano tre processi incrociati. In primo luogo l'impoverimento della politica, dagli anni Ottanta sempre più autoreferenziale e incapace di ascoltare l'apporto di specialismi e voci critiche. In secondo luogo il cambiamento della composizione di classe della società: se l'intellettuale novecentesco si definisce nel suo rapporto con la borghesia o, dove questo spostamento si è dato o è stato tentato, con la classe operaia, un rapporto dello stesso tipo non pare ad Asor ripetibile nel panorama sociale senza classi del postfordismo. In terzo luogo, la furia di cancellazione delle radici storiche e delle tradizioni politiche che imperversa - coltivata da ondate successive di revisionismo - su tutta la scena pubblica italiana: a destra, dove vige «l'ideologia onnivora del presente» di Berlusconi, ma anche a sinistra, dove dopo l'89 hanno trionfato o una autocritica liquidatoria della tradizione (tanto più zelante proprio negli intellettuali che le erano stati più organici) o una sua riaffermazione acritica.

Zone di resistenza

Ma se è così, è dall'interno di questa stessa diagnosi che si possono trovare i punti di leva per il «che fare» che Asor Rosa lascia aperto. Lasciamo perdere l'appello a una qualche riforma o a un qualche risveglio della politica ufficiale, che il ceto politico attuale non sembra in grado di recepire, e guardiamo piuttosto alle «zone di resistenza» da cui lo stesso Asor invita a ripartire, indicandone una nella scuola pubblica e nell'università, a suo giudizio corrose ma non distrutte dalla decadenza degli ultimi decenni. In questa ricerca delle zone di resistenza può essere proprio il panorama sociale postfordista di cui Asor Rosa diffida a venirci in soccorso, se è vero com'è vero che uno dei suoi tratti distintivi è proprio la crescita esponenziale di una intellettualità diffusa, diversa per composizione sociale dall'intellettuale novecentesco, priva delle (e distante dalle) sue forme di mediazione politica nonché linguistica, e tuttavia non riducibile all'omologazione conformista prevalente nella «civiltà montante». Non per caso, del resto, il neo-operaismo di oggi vede nel lavoro intellettuale postfordista potenzialità analoghe a quelle che l'operaismo degli anni Sessanta vedeva nella classe operaia di fabbrica. E non per caso è nelle pieghe dell'ingranaggio multimediale, dentro e contro di esso, che si combatte ogni giorno e ogni minuto quella battaglia sul senso e l'interpretazione del presente un tempo affidata - ma anche delegata - alle grandi ideologie.

Vero è invece che anche questa battaglia minuta, diffusa e quotidiana rischia di farsi fagocitare dall'«ideologia onnivora del presente» che non è solo un tratto del berlusconismo, ma è inerente alla forma stessa della razionalità massmediale della nostra epoca. E vero è dunque che anche questa battaglia si gioverebbe assai di quel recupero del senso della storia a cui Asor Rosa ci richiama. In questa direzione, il dialogo fra lui e Simonetta Fiori ha un valore esemplare. In fondo, quello che Asor si propone con la sua diagnosi dell'estinzione dell'intellettuale novecentesco è l'elaborazione di un lutto: l'ennesima a sinistra, potremmo chiosare malinconicamente, se non fosse che per una volta qui non è la tonalità malinconica né quella nostalgica a prevalere, e l'intenzione non è di crogiolarsi nella perdita ma di mettere un punto a capo per ripartire. Sapendo però che alle spalle non c'è un usato da liquidare ai saldi, ma un grande patrimonio di cui farsi eredi. E infatti, malgrado la sua denuncia sulla pochezza dei tempi in corso, Il grande silenzio riesce a farci sentire a fine lettura non più deprivati, ma più ricchi di chi ci ha preceduti.

Il socialismo nasce in Europa, ha un’infanzia difficile in Russia e raggiunge la maturità in Cina. Nel sessantenario della fondazione della Repubblica popolare cinese, a Pechino si celebra in gran pompa il successo di un’ideologia agonizzante in casa nostra. Ma il Sol dell’Avvenir in Europa sta calando da vent’anni e a contribuire a questo lunghissimo tramonto è stato, paradossalmente, proprio il partito comunista cinese. Più che il crollo del muro di Berlinosono i fatti diTienanmen ha mettere in moto un processo inarrestabile, che porta alla disintegrazione della sinistra europea. Nell’immaginario collettivo occidentale il sangue degli studenti trasforma la Cina nel nuovo nemico dell’umanità.

Sommersi dalle macerie sovietiche i partiti socialisti non hanno più un punto di riferimento reale. Nessuno osa guardare alle riforme di Den Xiaoping e al modello cinese - infinitamente più flessibile rispetto a quello sovietico ed anche a quello nostrano - come un esempio di marxismo che si adatta alla globalizzazione prendendo in prestito dall’economia di mercato ciò che serve per mantenere in vita il socialismo. Piuttosto osservano le metamorfosi del partito laburista britannico.

TonyBlair lo reinventa abbracciando il nuovo dogma:il neo liberismo. E così sposta l’asse completamente al centro e s’impossessa della retorica della signora Thatcher. Trasforma l’Inghilterra nel paradiso fiscale dell’alta finanza e si allea con i neo-conservatori di Bush in una guerra ingiusta. Attira voti grazie ad un benessere economico fittizio, che poggia sull’indebitamento. Oggi tutti lo sanno e il Regno Unito paga lo scotto di questa politica più degli altri. È infatti tra i pochi paesi occidentali dove non si intravede alcuna ripresa economica, con una contrazione del PIL del 5.5%.

Eppure è il modello edonistico di «New Labour» che gran parte della sinistra storica europea abbraccia. Blair è infinitamente popolare tra quella classe media allargata che si pensa sia ormai il nocciolo duro dell’elettorato del vecchio continente.

Così il socialismo si spoglia delle sue origini operaie. In Germania e Italia, dove un tempo esisteva una sinistra operaia, va a braccetto con i «venture capital», le banche d’affari e gli «hedge funds». L’operazione funziona per qualche anno, fintantoché la bolla finanziaria distribuisce ricchezza a tutti. Uniche voci fuori dal coro la Spagna, la Norvegia e il Portogallo, dove ancora oggi il socialismo resiste, ma il club degli amici di Blair le snobba. Poi tutto improvvisamente cambia.

Alla fine del 2006 l’economia mondiale inizia a rallentare per entrare in recessione l’anno dopo. Il socialismo «alla Blair» è la prima vittima. In Inghilterra tornano alla ribalta i conservatori che nel 2009 sconfiggono «New Labour» nelle elezioni amministrative. In Francia e in Italia sale la destra che si accaparra la maggioranza anche alle elezioni europee. L’Europa torna conservatrice, titolano i giornali questa settimana quando riportano la vittoria della Merkel in Germania, come sempre nei momenti di crisi, pensano tutti. Ma in realtà a rivitalizzare la destra non è la crisi quanto l’essersi appropriata di quei valori che il socialismo, quello vero, ha sempre difeso: la protezione del cittadino, il suo benessere, la cura dell’ambiente in cui lavora e vive e così via.

Forse è vero che la lottadi classe è «passé» ma le classi esistono e sono più che mai distanti tra di loro. E la destra lo sa bene. Il reddito reale di quella media è oggi più basso che negli anni 70, ed è di questo che la Lega parla, non certo degli indici di borsa, quando fa propaganda politica nelle ex zone rosse dell’Italia. Dall’altra parte del mondo il socialismo cinese trionfa perché ha mantenuto il contatto con la propria base e ne ha fatto gli interessi. Il partito ha decentralizzato il proprio potere economico facilitando la crescita economica e il benessere. Mentre ai paesi del blocco sovietico era applicata la terapia d’urto, e cioè la trasformazione da un giorno all’altro in economie di mercato, la Cina comunista faceva piccoli passettini e li faceva da sola. Ed ecco i risultati in poche cifre: negli ultimi 60 anni la popolazione è crescita da 542 milioni ad un miliardo e 300 milioni, l’età media è salita da 35 a 73 anni, il PIL per capita è passato da 51 a 2770 dollari, le riserve bancarie da quasi zero a 2 mila miliardi di dollari (le più alte al mondo), gli studenti universitari da117 mila a 20 milioni, la mortalità per parto da 1.500 ogni 100 mila nascite a 34. La democrazia è solo dietro l’angolo. Il socialismo in Europa sarà anche morto ma l’ideologia vive. Se vogliamo vedere la sua versionemoderna possiamo andarla a cercare in Cina dove ancora sorge il /sol dell’avvenir/.

Lui, l’inventore del Partito Democratico, quello vero e non uno dei tanti epigoni, si chiama Walter Veltroni e non spera neanche più nel Sol Levante. La sua massima aspirazione è quella di trarre un film dalla sua ultima fatica letteraria, per il resto si accontenta di quel che passa l’Italia. Gli altri, quelli che hanno contribuito a costruire, mantenere, e anche un po’ a distruggere il Pd, guardano al Giappone come alla Terra Promessa. Certo, a voler essere cattivi, si può dire che i Prodi e i Fassino che inneggiano alla vittoria del centrosinistra versione asiatica si stiano attrezzando a un’opposizione lunga 55 anni, perché in Giappone è andata proprio così: ci è voluto più di mezzo secolo prima che i democratici vincessero in quel di Tokyo. Ma sarebbe ingeneroso. Come sarebbe oltremodo capzioso sottolineare il non ottimo gusto di quanti nel Pd nostrano inneggiano allo tsunami democratico provocato da quelle elezioni visto che in Asia il maremoto ha provocato distruzione e morte e augurarsi un cataclisma per far fuori Silvio Berlusconi appare francamente eccessivo. Ma queste, tutto sommato, sono disquisizioni che riguardano il costume in voga presso i nostri politici, i quali amano dipingere le altrui vittorie come le loro e soffrono di nostalgia per l’Ulivo mondiale di clintoniana memoria. Quel che stupisce — e fa riflettere — è che dopo la sconfitta delle europee la classe dirigente del centrosinistra continui non a gettare il cuore oltre l’ostacolo ma, piuttosto, a buttare il pallone fuori campo. Spargere centinaia di parole sul Giappone rischia di essere un modo per non misurarsi con i veri problemi del Paese. Forse sarebbe bene se Fassino e soci ricordassero che dopo Obama per il Pd c’è stata la sconfitta elettorale delle europee. E dopo il successo di Yukio Hatoyama, che ci sarà? Potrebbe esserci sul serio l’onda lunga democratica invocata da Prodi. Ma il pericolo è che, alla fine, ci sia la presa d’atto dell’incapacità, da parte del Pd, di costruire una forza politica in grado di governare l’Italia e non di limitarsi a sognare l’«altrove».

Il voto tedesco di domenica - che ha visto una perdita oltre il previsto della Cdu e la spettacolare crescita della Linke in due laender dell'est e, ben più sorprendente, anche in uno dell'ovest (sia pure patria del proprio Leader Oskar Lafontaine - si presta a qualche considerazione più generale.

La prima, che ci riguarda più da vicino: quanto in Italia non è riuscito ai gruppi a sinistra del Pd (che pure è assai peggio della Spd), in Germania ha funzionato. Eppure le tradizioni culturali, e anche la collocazione sociale, delle due principali forze che l'hanno costruita, la Pds, erede diretta della certo non gloriosa Sed che ha governato per quasi mezzo secolo la Repubblica democratica, e la sinistra di un partito socialdemocratico (la Spd) e di un sindacato fortemente anticomunista, non avrebbero potuto essere più lontane, ben più di quelle che in Italia hanno cercato di dar vita all'Arcobaleno, quasi tutte originariamente provenienti dal Pci. Espressione, l'una, di un elettorato insediato all'est, e, l'altra, di un pezzo di movimento operaio radicato nelle grandi fabbriche dell'Occidente. Sono riuscite, certo non senza travagli, non solo a costruire un'alleanza elettorale, ma addirittura un partito che ha ormai vinto più di una sfida negli ultimi anni.

Varrebbe la pena che da noi il fenomeno fosse meglio studiato e forse si vedrebbe che lì hanno giocato, diventando forza, elementi che da noi sono debolezza: una generale e più radicata identità di sinistra e, che al di là di storiche e tragiche divisioni, nessuno - per la verità neppure la Spd - si è mai sentito di liquidare con faciloneria in nome di abbagli nuovisti; un'attenzione centrale ai problemi sociali del lavoro dipendente; l'impegno posto nel costruire assieme una nuova cultura comune, un compito affidato essenzialmente alla Fondazione Rosa Luxemburg, che conta ormai molte sedi anche all'estero, e che svolge un ruolo prezioso nello stimolare nuove analisi e nuove riflessioni collettive, un lavoro che somiglia assai poco a quello delle proliferanti omologhe italiane.

Certo non mancano neppure nella Linke settarismi, idiosincrasie, bisticci, tensioni fra chi sta al governo, come nel land di Berlino, e chi all'opposizione. Inevitabili quando a lavorare assieme si trovano vecchi quadri sindacali, giovanissimi no-global (specie nella ex Pdf), anziani abitanti della Repubblica democratica, vittime della colonizzazione occidentale. Ma, fin d'ora, l'esperimento ha retto alla grande.

La seconda considerazione riguarda la Spd che ha continuato a perdere ovunque, sia pure senza che si verificasse il crollo che tutti si attendevano. E però la crisi di questo partito non potrebbe apparire più grave. Il suo leader Frank-Walter Steinmeier, vice della Merkel nel governo di coalizione e a questa formula particolarmente affezionato, l'uomo che ha sostituito il precedente presidente del partito, liquidato per aver manifestato qualche apertura nei confronti di una possibile alleanza di governo con la Linke in Assia, si trova ora a gestire una situazione nella quale brandire il no a ogni eventuale contaminazione coi «comunisti» gli sarà molto più difficile. Ieri ha cantato vittoria, in nome di questa perdita che, sebbene minore del previsto, resta pur sempre sostanziosa. Ma è ormai chiaro che adesso non potrà fare a meno di fare i conti con la nuova sinistra, cresciuta nonostante ogni tentativo di delegittimarla, compiuto anche a costo - come è accaduto in Assia - di mandare in rovina la Spd di questo Laender, imponendole di rinunciare al governo pur possibile e così di aprire la strada alla rivinciata conservatrice.

Le elezioni di domenica hanno reso esplosivo lo scontro già aperto nel partito, anche se - a un mese dalle elezioni politiche federali - tutti si guarderanno bene dal renderlo pubblico. Ma è quasi certo che nella Sahr, nonostante gli anatemi del centro, il leader della locale Spd finirà per fare un governo con Verdi e Linke; che in Turingia, invece, questa coalizione non si farà perché è la Linke che avrebbe eventualmente il diritto alla presidenza del land perché forte del 10 per cento di voti in più dei socialdemocratici. Ed è facile che, qui come in Sassonia, si scelga alla fine l'impopolare riproduzione della Grosse Coalition al potere a Berlino.

Questo zig-zag non indebolisce solo il prestigio della Spd, la espone a una brutta avventura nelle elezioni del 24 settembre: a livello federale più che un voto di scelta partitica conta il voto per un'alternativa possibile. La Merkel, pur bastonata dall'elettorato, nonostante i suoi tentativi di smarcarsi dal conservatorismo del proprio stesso partito, un'alternativa ce l'ha: la coalizione con i liberali che hanno aumentato considerevolmente i propri voti. Non è una certezza, ma un'ipotesi credibile sì. È la Spd che non sa che dire se rinuncia a priori a un progetto che unisca anche Verdi e Linke. La conseguenza sarà che, di fronte alla posta in gioco del governo federale, una bella fetta dell'elettorato tutt'ora rimasto fedele alla Spd, e che però non vuol sentir parlare di una nuova edizione dell'allenza con la Cdu, privo di ogni altra scelta, finisca per non recarsi alle urne. Da trent'anni la proporzione delle astensioni corrisponde in Germania a quelle che misurano la crisi interna alla Spd, le sue incertezze e i suoi opportunismi. Gli elettori socialdemocratici non tradiscono, ma si arrabbiano.

Da noi, com'è noto, tutto è meno lineare. Ma anche in questo le elezioni tedesche di domenica sono istruttive.

Nei decenni a cavallo del XX e del XXI secolo, la sinistra è stata sconfitta culturalmente. La sua ragion d'essere è stata contraddetta, manipolata, negata, poi mistificata, infine snervata, svuotata e rielaborata e, così contraffatta, inoculata nella testa dei dirigenti, ma non solo. Lo dimostra l'accettazione continuata, mai perplessa, entusiasta e senza riserve, del neoliberismo da parte di tutte le socialdemocrazie (leggasi: Pse) del nostro continente come canone fondante dell'Unione europea, l'entità istituzionale preminente che regola i due terzi dei rapporti interindividuali concreti di 500 milioni di europei.

Questa entità ha assunto come suo obiettivo supremo l'economia di mercato aperta ed in libera concorrenza ma «non raggiunge alcuna forma che esprima il livello di legittimazione di una democrazia costituzionale». Ad usare tale definizione non è più solo qualche giurista «estremista» - come da trenta anni chi scrive - ma è il Tribunale costituzionale della Repubblica federale di Germania, grazie ad un ricorso proposto, significativamente e meritoriamente, dal gruppo parlamentare della Linke al Bundestag. Quale concezione della democrazia nutre, propone, propugna la socialdemocrazia europea, se quella cui aderisce per l'Ue è giudicata inferiore alla soglia da raggiungere per potersi legittimare come tale dal massimo organo giurisdizionale della maggiore potenza industriale europea? Quale socialità ha dimostrato a fronte dei costi umani della crisi globale dell'economia globale? Quale socialità dimostrerà tra pochi mesi, come conseguenza di tale crisi, la scelta di un sistema economico che avrà prodotto, in Europa, livelli di disoccupazione mai lontanamente raggiunti prima che l'Unione si formasse e si consolidasse? Concezione della democrazia, concezione del sistema economico. È su questi temi che la sinistra è chiamata a definirsi come tale. E su di essi che ci si può unire o dividere.

Qualche precisazione si impone. Il mercato autoregolato è fallito. Non poteva che fallire. Si configurava, e si configura, come una idiozia assoluta. Perché mai, in base a quale logica, a quale principio, a quale esperienza, le azioni di tutti gli individui della specie umana che producono conseguenze interoggettive devono essere (e sono) regolate e quelle degli agenti di borsa, dei dirigenti di banca, dei possessori di capitali, no, non lo devono? Perché autonomamente, spontaneamente, armonicamente, provvidenzialmente confluiscono a determinare la felicità della dell'umanità intera? Sembra impossibile, ma evidentemente lo si è pensato, lo si è imposto, sancito. La massima parte della normativa europea è stata prodotta infatti per assicurare l'anarchia degli agenti e dei possessori di capitali, la libertà del capitale, questa sopra ogni altra.

La si vuole lasciare intatta, garantire, perpetuare? O si vuole attrarre la finanza, gli investimenti, l'iniziativa economica, la produzione di merci e servizi, i rapporti che vi sono sottesi e quelli che ne conseguono, alla disponibilità, alla regolazione democratica? Quella degli stati? Ebbene, sì. Degli stati, se democratici. A condizione, cioè, che lo siano, potendo disporre di, e regolare, tutti i rapporti umani con la sola ed inderogabile esclusione di quelli che attengono ai diritti universali. A quei diritti, cioè, che possono essere esercitati da tutte e da tutti, che abbiano come titolare ogni persona umana in quanto tale, quei diritti che mai possono implicare subordinazione di un essere umano ad un essere umano, come, ad esempio, il rapporto di lavoro salariato. Una democrazia che aborra la personalizzazione del potere, che faccia della partecipazione la concreta, costante, verificabile e progredente dinamica del potere popolare, che renda la pluralità, perché identifica nella struttura del demos, l'indefettibile composizione di ogni istituzione.

È divenuta fallace la massima "una testa, un voto". Va riformulata: ad ogni testa un voto da esprimere in tante ed in tanti, mai però per istituzioni composte da una persona sola.

La diagnosi dello stato della politica in Italia è semplice: metà dei cittadini si è astenuta alle elezioni, e al ballottaggio e al referendum molto di più. Il quadro è simile in tutta Europa. I socialisti hanno perduto ovunque, il parlamento europeo è largamente di centro destra. Le sinistre radicali sono più deboli del previsto, quelle italiane sono scomparse di scena. In Italia è assente una socialdemocrazia, indebolita altrove. Dovunque spunta o si rafforza una destra estrema. Il segnale è opposto a quello venuto dagli Stati uniti, infatti in Europa per nulla raccolto.

In Italia Berlusconi non supera, come sperava, il 35% ed è meno forte di un anno fa. La Lega va al 10, sono inseparabili. Fini gioca un gioco suo. Se questo porterà a una crisi di governo, sarà prodotta e gestita dalla maggioranza (e appoggiata dal Vaticano, via Casini). La minoranza è divisa fra un Pd in calo, diviso e confuso e una sinistra radicale in briciole. Neanche i Verdi sembrano fuori dalla crisi, malgrado che Obama negli Usa e molti in Europa vedano nell’ecologia un investimento necessario e un valore-rifugio. L’opzione bipartitica che era stata comune a Berlusconi e Veltroni è caduta.

Se su questo quadro sintetico siamo d’accordo, resta da vedere se si condivide il perché di questo esito.

1. A mio avviso per l’Italia esso va cercato lontano, nell’arco della mia generazione, che d’altronde non è più di un momento storico. Infatti il disastro di oggi appare tanto più grande in quanto la sinistra del dopoguerra è stata più forte che altrove. Essa non è mai stata maggioranza, come ha osservato Norberto Bobbio, ma anche perché era rappresentata, in un paese tenuto fuori dal crogiuolo degli anni venti e trenta in Europa, da comunisti e socialisti e da un forte sindacato, che hanno schiacciato, fra se stessi e la Dc, una interessante terza forza (Giustizia e Libertà).

Questa forma presa dalla sinistra dalla Resistenza al 1956 è alquanto diversa dalle altre in occidente. I socialisti e i comunisti, liberi dalle contese degli anni trenta coperte dal fascismo, sono ancora uniti e i comunisti appaiono - salvo che alla dc e al ”partito americano” - abbastanza svincolati dall’Urss (percepita peraltro anch’essa non come un pericolo incombente). Così dopo il 1956 e la divisione con il Ps, il Pci supererà gradualmente in quantità e qualità di ascolto il già più forte Pcf, facendo propria una larga frangia d’opinione. E’ difficile separare da esso la messa a fondamento del senso comune repubblicano, costituzionale, antifascista; e questo, perlopiù, colorato di un'ombra di concezione classista (vivissima nella resistenza anche in Giustizia e Libertà e poi nel cattolicesimo di Dossetti e della corrente di Base della Dc).

2. Il quadro muta negli anni sessanta-settanta, in corrispondenza con la grande modernizzazione del paese nella composizione sociale, produttiva e culturale. Il Psi ha mutato fronte, nel Pci si apre un dibattito, il sindacato cresce e muta la sua struttura di base, un’area di sinistra radicale comincia a apparire separata dai comunisti, che però crescono di peso.

Il corto circuito è determinato dal movimento del 1968. Diversamente dal resto d’Europa, esso si verifica in presenza di un forte partito comunista che non lo attacca frontalmente, ma del quale esso chiude l’egemonia.

Il 1968 ha in Italia una coda lunga un decennio, come in nessuna parte altrove ha modificato diversi parametri della cultura, ha prodotto la densa politicizzazione dei gruppi extraparlamentari – diversa da quella del movimento comunista - ha indotto un vasto associazionismo di base e professionale che si vive come controcultura e contropotere. E' una seconda e tumultuosa modernizzazione del paese che si colloca a sinistra del Pci ma non riduce la sua forza nell’opinione di massa, anzi. I comunisti arriveranno a un terzo dei voti, il sindacato è forte, l’intellettualità è come non mai politicizzata e diffusa. Il “movimento” critica Pci e Cgil ma trascina l’appartenenza al sindacato (il più modificato) e il voto al Pci: le elezioni del 1975 danno alla sinistra tutte le grandi città.

Questa tendenza non sembra intaccata dal compromesso storico (1973), poco percepito a livello di opinione . E’ come se soltanto l’astensione comunista del 1976 verso il governo Andreotti ne rivelasse il vero senso. E’ in quella estate che si spezza ogni speranza delle minoranze di movimento, il movimento stesso si divide e una piccola parte di esso (non occorrono molti per sparare) va davvero sulle armi (omicidio di Coco a Genova).

Tuttavia l’elettorato sosterrà sempre maggiormente il Pci fino alla morte di Berlinguer: il quale peraltro compie, negli ultimi anni e isolato dal resto del gruppo dirigente, una virata a sinistra. Tardiva. Sul piano mondiale il 1968 non è sfuggito alle classi dominanti, che si riattrezzano. Il Pci non ha compreso il senso dell’abolizione del gold standard, né quello della crisi dell’energia del 1974 e tanto meno i mutamenti strutturali del capitale e delle tecnologie in atto e la ricomposizione delle strategie che ne conseguono (la Trilateral).

Né ha capito realmente le soggettività che si dibattono contro di esso. Non intende neppure, se non in un breve sussulto concernente le donne, la rivoluzione passiva che si compie fin dall’inizio fra generazioni, nei rapporti familiari e d’autorità. Non capisce la portata ideale dell’anticonsumismo del movimento.

Del tutto estraneo gli è il 1977 italiano, assai reattivo ai mutamenti del lavoro ma errato nella previsione, come non aveva capito prima il formarsi dell’estremismo, delle Brigate rosse e Prima Linea, di cui non vede che il pericolo che costituiscono per il suo accreditamento come forza di governo. Berlinguer pratica duramente l’emergenza inseguendo Moro, anch’egli incerto e isolato nella Dc.

Negli anni ottanta il salto tecnologico è avvenuto, specie nell’informazione e quel che ne deriva per il movimento dei capitali e la finanziarizzazione, ma i comunisti leggono solo in termini di politica antisovietica la restaurazione di Thatcher e Reagan, sottovalutano la stagnazione dell’Urss di Breznev, non capiscono il tentativo di Andropov, esitano su Solidarnosc in Polonia come avevano esitato su Praga; la berlingueriana “fine della forza propulsiva” del 1917 arriva quando la decomposizione del Pcus è ormai avanzata e tutti i rapporti con il dissenso ancora di sinistra dell’est sono stati mancati. Così fino a Gorbaciov.

Con Craxi e poi con la morte di Berlinguer è gia andata molto avanti, anche se non in termini elettorali, la crisi del Pci; e comincia quella della Cgil. La fine della prima Repubblica è soprattutto la fine loro.

3. Negli anni ottanta il movimento del 68 si chiude del tutto, abbattuto assieme alle Brigate Rosse, con le quali pur non aveva avuto a che fare, il radicalismo e anche l’estremsimo essendo una cosa, passare alle armi un’altra. Si forma e struttura, di nuovo, soltanto il filone del secondo femminismo.

Con il 1989 la crisi del Pci semplicemente si compie, la ”svolta” induce un altro partito, idealmente e organizzativamente, e si fa senza una rivolta di base. Rifondazione nasce come un ritorno a ieri e si dibatterà senza pace sul come diventare una chiave per il domani; né il Pds né Rc fanno un bilancio storico, né del comunismo né della loro stessa funzione in Italia. Quella che era stata l’intera area della sinistra resta fra disincanti e fibrillazione mentre precipitano socialisti e comunisti.

Bruscamente va in pezzi quel che era parso per venti anni senso comune, il rifiuto del “sistema”. Le sinistre si restringono in piccoli gruppi, alcune si affinano, non riusciranno o forse non vorranno più unificarsi. Da allora una perpetua discontinuità produce spezzoni di movimento puntuali e perlopiù incomunicanti. Il sussulto di quello enorme per la pace e poi del sindacato al Circo Massimo non daranno luogo a una ripresa costante, anche per il senso di impotenza che deriva dalla nullità del loro risultato.

4. L’89 è tutto gestito dalla ripresa del capitale, nella sua forma prekeynesiana. L’ideologia dei Fukujama e degli Hutchinson – fallimento ab aeterno del socialismo e inevitabile scontro di civiltà – colpisce a fondo la sinistra storica, che patisce i fallimenti dei socialismi reali, non li affronta e si arrende; le socialdemocrazie altrove e gli ex comunisti in Italia praticano con zelo e pentimento le politiche liberiste.

Ma anche le culture diffuse delle sinistre radicali galleggiano a fatica. Molte percezioni del 68 si rovesciano su se stesse nel risentimento verso quel che il movimento operaio, già venerato, non ha compreso: ha sacrificato la persona alla collettività, l’individuo al partito, il conflitto dei sessi all’ “economicismo”, la terra allo sviluppo devastatore. Ha sottovalutato la dimensione del sacro, dell’etnia, dei cicli. Ha glorificato la ragione contro l’emozione, l’occidente contro le diversità, l’avvenire rispetto al presente. Il postmoderno ha dato una mano. Questa è la tendenza maggioritaria. Restano, ma molto minoritari, alcuni movimenti. La trasmigrazione verso l’ecologia è il piu forte.

La precipitazione della politica nella corruzione e nella bassezza, l’emersione di Berlusconi non trovano freno. L’area già comunista e socialista non tenta neppure un ripiegamento verso la solcialdemocrazia. La spoliticizzazione segue alla delusione; si vive nell’oggi perché è dannata la memoria del passato e non si sa che cosa volere per il futuro. Incertezza, risentimento, paura. Protezionismo degli ancora occupati davanti a una crisi che non intendono. Mai, per parafrasare Guicciardini, la gente italiana è stata così infelice e così cattiva.

5. Se “sinistra” ha avuto un senso nel XIX e XX secolo, era libertà, eguaglianza, fraternità, declinate nell’eredità della rivoluzione francese. La prima nell’idea di democrazia, la seconda da Marx, la terza (diversamente dal senso che aveva avuto nel 1789) come solidarietà fra gli umani. Esse percorreranno fra le tragedie tutto il XX secolo.

Il loro rifiuto non significa che sia avvenuta una rideclinazione; significa il ripiegamento dalla libertà all’individualismo e il volgere il bisogno di appartenenza verso categorie metastoriche (religioni, nazionalismi, etnie e altre presunte origini). Significa negare l’eguaglianza di diritti (e non solo né tanto nella interpretazione che ne dà parte del movimento delle donne) e fare dell’affermazione del più forte il principio e motore della società. Significa affogare la fraternità nell’odio e nella paura dell’altro e del diverso. Berlusconi e Bossi sono inimmaginabili negli anni ’60.

Questa è oggi la metà dell’Italia che parla. L’egemonia è passata a destra. La sua affermazione segnala una rivoluzione antropologica prima che politica. La degenerazione della politica ne è concausa e conseguenza. Almeno se politica significa, non marxianamente ma arendtianamente, “preoccuparsi del mondo”.

Di questo rozzo tentar di delineare il quadro, vorrei discutere.

Con molti altri ho provato per ben tre volte a mettere insieme la sinistra: la prima volta nel 2003-4 con Gian Paolo Patta e «Lavoro e società» della Cgil; la seconda nel 2004-5 con Alberto Asor Rosa e la Camera di Consultazione della sinistra, la cui storia è stata riassunta in modo impeccabile da Asor Rosa stesso su queste pagine (19 giugno); la terza volta con la Sinistra Arcobaleno del 2007-2008. In quest'ultima occasione non dimenticherò mai la discrepanza tra le promesse dei leader di aprire una vera fase costituente e innovatrice e la squallida realtà successiva del loro blindare tutte le scelte - le candidature per le elezioni in primo luogo - in una disperata ricerca di auto-conservazione.

Ora non ci provo più. Mi sembra più facile convincere i bambini piccoli a mangiare spinaci che persuadere la sinistra italiana a stare insieme. Di fronte a un comportamento reiterato, che privilegia sempre gli elementi di distinguo a scapito di quelli dell'unità, non bisogna fare finta di nulla o continuare a provarci. Piuttosto bisogna cercare di spiegare perché tutto questo è successo, per poi trarne le conseguenze.

Perché la sinistra italiana, invece di conservare e rinnovare la profonda cultura di sinistra del paese, è riuscita finora solo a sperperare? Una prima spiegazione va cercata nella mancata analisi del rapporto tra partiti e società civile. Norberto Bobbio scrisse nel 1983 che «nel gioco politico democratico ... gli attori principali sono dati, e sono i partiti». Ma la realtà storica di questi ultimi 30 anni è quella di una progressiva atrofia dei partiti e una costante invenzione di forme di organizzazione politica promosse dai cittadini stessi - laboratori, comitati, social forum, gruppi di difesa ambientali e territoriali. L'atteggiamento dei partiti di sinistra verso queste forme di auto-organizzazione è sempre stato strumentale e sospettoso: sono un pericolo, possiamo penetrarle, incorporarle, guidarle, distruggerle? O addirittura renderle in istanze metafisiche ('il movimento dei movimenti') che misteriosamente dettino la linea più conveniente al particolare partito o gruppo.

Dietro tali atteggiamenti risiede la consueta forma della politica, l'agire dall'alto attraverso un centralismo democratico riverniciato. Al livello identitario, l'individuo-militante rimane fortemente legato alla sua formazione politica che può anche offrirgli possibilità di impiego e di carriera. I comportamenti personali verso quelli che non fanno parte della formazione (o corrente) sono spesso aggressivi, perfino incontinenti. Il nemico è vicino. La sinistra è stata incapace di elaborare un codice di comportamento nella sfera pubblica che premi il rispetto reciproco, la collaborazione, l'uguaglianza al posto della competizione, del predominio maschilista, del disprezzo.

Quest'insieme di fattori - atteggiamento strumentale verso la società civile, competizione tra piccoli gruppi politici portatori di carriere individuali, assenza di una cultura di pace praticata a casa e non solo predicata per l'estero - sono alcuni degli elementi più pregnanti per spiegare il fallimento storico della sinistra.

E le conseguenze? Mi concentro qui solo sull'aspetto organizzativo, ovvero sulla forma della partecipazione. Ci sono due possibilità, tutte e due di grande rottura rispetto a un passato fallimentare. La prima sarebbe davvero di ricominciare daccapo. Cioè, di invitare tutte e tutti a procedere a un'assemblea costituente, basata sul principio di una persona un voto; preparare l'assemblea attraverso un lungo lavoro territoriale, scrivere decaloghi di intenti programmatici e di comportamento individuale nella sfera pubblica. Bisogna capire che un nuovo soggetto politico, radicalmente diverso dal passato, ha necessità di tempo per crescere e di radicarsi prima di portare frutti. Durante il processo occorre rispettare le scelte di altri che optano per una strada diversa, ma cercare costantemente punti di contatto e condivisione. Lavorare tra i ceti popolari colpiti dalla crisi ma anche tra i ceti medi spesso dimenticati dalla sinistra, e accompagnare il lavoro sociale e culturale con una costante attenzione all'elaborazione teorica.

La seconda possibile scelta è diametralmente opposta alla prima e si basa sull'ammissione che l'attuale sinistra italiana è semplicemente incapace di inventarsi qualcosa di nuovo. Meglio allora abbracciare il Pd e cercare di portare un contributo di sinistra dentro un partito che ha molte anime e pecche ma rappresenta il perno di qualsiasi opposizione al regime di Berlusconi. In questo caso si cerca di difendere la democrazia e al contempo di rinnovarla, dentro e fuori il partito, introducendo temi e culture che, pur sembrando all'inizio troppo radicali, con il tempo possano diventare cultura comune. In questo caso si tratta di agire senza illusioni, sapendo della necessità di compromessi, riconoscendo il pericolo storico di venire più facilmente cambiati dal partito che cambiarlo. Molti grideranno (come sempre) al «tradimento». Non la vedo necessariamente così.

Idealmente, sono attratto dalla prima opzione; anagraficamente, e perché siamo in un'emergenza democratica, dalla seconda. Chiedo solo una cosa : di non ballare il vecchio minuetto per la quarta volta.

La discussione a sinistra, dopo il risultato delle europee, non poteva incominciare in modo peggiore. Rifondazione e i suoi alleati ora brandiscono il vessillo dell'unità a sinistra per sventolarlo non contro la destra ma contro una possibile ricostruzione di un nuovo centrosinistra, senza nemmeno un briciolo di autocritica rispetto al fatto che nel corso di quest'anno quella unità ha contribuito più volte ad affossarla. Gli esponenti di Sinistra e Libertà per lo più alzano steccati a sinistra in nome del rinnovamento, proclamano orgogliosi la loro autosufficienza, affermano che quel 3,1% è tutta la nuova sinistra e da lì bisogna ripartire, mentre malignamente gli altri più o meno apertamente insinuano che molti di loro sarebbero ormai pronti a passare armi e bagagli al Pd.

Se l'Italia e l'Europa non fossero, come le europee hanno messo in luce, in una situazione drammatica, in cui la pochezza delle risposte dei governi dell'Unione di fronte alla crisi, e soprattutto l'assenza di una comune politica, lasciano libero sfogo alle paure e alle reazioni xenofobe, ci sarebbe di che sorridere. Sembra di essere alla fine degli anni Venti del secolo scorso, quando socialdemocratici e comunisti impegnati in una lotta fratricida senza quartiere non videro che il fascismo, con l'imminente avvento di Hitler al potere in Germania, si accingeva e diventare un fenomeno europeo. Solo che quando la storia si ripete da tragedia si trasforma in farsa.

Ha ragione quindi Fausto Bertinotti, quando intende suggerire che se si vuole ricostruire la sinistra in Italia e in Europa bisogna avere uno sguardo più largo che vada oltre la sua attuale configurazione e rivolgere l'attenzione all'intero sistema politico e alle sue dinamiche. Ma egli stesso rischia di alimentare equivoci e contribuire allo smarrimento imperante a sinistra, quando oscilla tra l'attesa passiva di un'implosione del nostro sistema politico e la ricerca di un'improbabile confluenza in un unico soggetto di un arco di forze che va da Rc ai radicali, passando per l'Idv e il Pd.

Mi chiedo: perché non è possibile, per rifondare la sinistra, partire dalla società italiana, dalle sue contraddizioni e problemi, e da una rinnovata centralità del lavoro, invece che da noi e le nostre dispute? Perché per rifondarsi la sinistra non punta a una riforma dell'agire politico e della rappresentanza per contribuire a rilegittimare la politica democratica, che rischia di essere affossata dal discredito prima che dalle manovre e dalle intenzioni eversive di Silvio Berlusconi?

Insomma, l'Italia ha bisogno di una sinistra che sappia rimettere al centro la costruzione di un'opposizione efficace alla destra e quindi di un'alternativa di governo. Non c'è contraddizione tra autonomia della sinistra e politica delle alleanze tesa alla costruzione di una nuova coalizione democratica. Chi si sottrae al secondo compito, per timore che il primo ne sia compromesso e chi, in nome del secondo obiettivo, è disposto a sacrificare il primo, ambedue condannano alla sconfitta sia l'una che l'altra prospettiva.

Il 26 giugno a Bologna coloro che avevano promosso l'appello per una lista unitaria alle europee propongono di collocare la ricostruzione della sinistra politica nel quadro di una discussione che anteponga l'analisi dei problemi e delle condizioni reali di economia e democrazia nel nostro Paese a formule politiche astratte. E lo fanno senza frapporre limiti e steccati. Sono gli stessi che avevano dato vita all'incontro di Firenze del luglio scorso, dove era stata lanciata la manifestazione unitaria della sinistra, tenutasi poi nell'ottobre.

La proposta di presentare un'unica lista alle europee, lungi dall'essere un anacronistico omaggio a vecchie concezioni dell'unità della sinistra, come sembrano credere alcuni esponenti di Sinistra Democratica, era la maniera per realizzare l'ipotesi di Gabriele Polo che la sinistra «saltasse un giro», in modo da non sottoporre al vaglio del raggiungimento della soglia di sbarramento le diverse prospettive strategiche in campo, per affidarle alla verifica di un tempo più lungo. È sinonimo di vecchia politica l'idea che i gruppi dirigenti debbano brandire come verità assolute le proprie convinzioni, perché ciò rassicurerebbe il corpo dei militanti e lo ricompatterebbe, quando i tempi che attraversiamo consiglierebbero che esse fossero vissute e fatte vivere con spirito critico e senso del limite. Non dobbiamo nascondercelo: la formazione delle due liste ha costituito una sconfitta politica per quelli che hanno tentato di evitarla soprattutto perché era facilmente prevedibile che dopo le elezioni la discussione si sarebbe ulteriormente avvitata su se stessa. Vi sono le condizioni per invertire la rotta? Le vicende di quest'anno inducono al pessimismo. Quel che è certo è che questa inversione di rotta costituisce l'unica prospettiva per cui vale la pena lottare.

L’articolo ci è stato segnalato e tradotto da Dario Predonzan

Il successo dei Verdi, in Francia, alle elezioni europee non dev’essere né sopravvalutato, né sottovalutato. Non dev’essere sopravvalutato, perché deriva in parte dalle carenze del Partito socialista, dalla scarsa credibilità del MoDem e delle piccole formazioni di sinistra. Non dev’essere sottovalutato perché testimonia anche il progresso politico della coscienza ecologica nel nostro Paese.

Quella che però resta insufficiente è la coscienza del rapporto tra ecologia e politica. Certo, molto giustamente, Daniel Cohn-Bendit parla in nome di un’ecologia politica. Ma non basta introdurre la politica nell’ecologia; bisogna anche introdurre l’ecologia nella politica. Infatti, i problemi della giustizia, dello Stato, della disuguaglianza, delle relazioni sociali, sfuggono all’ecologia. Una politica che non inglobasse l’ecologia sarebbe mutilata, ma una politica che si riducesse all’ecologia sarebbe ugualmente mutilata.

L’ecologia ha il merito di portarci a modificare il nostro pensiero e le nostre azioni rispetto alla natura. Certo, questa modificazione è lungi dall’essere compiuta. Alla visione di un universo di oggetti che l’uomo è destinato a manipolare ed asservire non si è ancora davvero sostituita la visione di una natura viva di cui bisogna rispettare le regole e le diversità.

Alla visione di un uomo “sopra-naturale” non si è ancora sostituita la visione della nostra interdipendenza complessa con il mondo vivente, la morte del quale significherebbe la nostra morte.

L’ecologia politica ha in più il merito di condurci a modificare il nostro pensiero e le nostre azioni sulla società e su noi stessi.

Infatti, ogni politica ecologica ha due facce, una rivolta verso la natura, l’altra verso la società. Così, la politica che punta a sostituire le fonti energetiche fossili inquinanti con fonti energetiche pulite è nel contempo un aspetto di una politica della salute, dell’igiene, della qualità della vita. La politica del risparmio energetico è nel contempo una politica che evita gli sprechi e che lotta contro le intossicazioni consumistiche delle classi medie.

La politica che fa indietreggiare l’agricoltura e l’allevamento industrializzati, disinquinando in questo modo le falde freatiche, disintossicando l’alimentazione animale corrotta da ormoni e antibiotici, l’alimentazione vegetale impregnata di pesticidi ed erbicidi, sarebbe nel contempo una politica dell’igiene e della salute pubblica, della qualità degli alimenti e della qualità della vita. La politica che punta a disinquinare le città, avvolgendole con una cintura di parcheggi, sviluppando i trasporti pubblici elettrici, pedonalizzando i centri storici, contribuirebbe fortemente ad una riumanizzazione delle città, la quale comporterebbe inoltre la reintroduzione della promiscuità sociale sopprimendo i ghetti sociali, compresi quelli di lusso per privilegiati.

In effetti, c’è già nella seconda faccia dell’ecologia politica una parte economica e sociale (di cui fanno parte le grandi opere necessarie allo sviluppo di un’economia verde, compresa la costruzione di parcheggi attorno alle città). C’è anche qualcosa di più profondo, che non si trova ancora in nessun programma politico, cioè la necessità di cambiare le nostre vite, non soltanto nel senso della sobrietà, ma soprattutto nel senso della qualità e della poesia della vita.

Questa seconda faccia non è però ancora abbastanza sviluppata nell’ecologia politica. Innanzitutto, quest’ultima non ha ancora assimilato il secondo messaggio, di fatto complementare, formulato nella stessa epoca del messaggio ecologico, agli inizi degli anni ’70, quello di Ivan Illich. Questi aveva formulato una critica originale della nostra civiltà, mostrando come un malessere psichico accompagnasse il progresso del benessere materiale, come l’iperspecializzazione nell’educazione o nella medicina producesse dei nuovi accecamenti, come fosse necessario rigenerare le relazioni umane in quella che lui chiamava la convivialità. Mentre il messaggio ecologico penetrava lentamente nella coscienza politica, il messaggio di Illich ne restava escluso.

Il fatto è che il degrado del mondo esterno diventava sempre più visibile, mentre il degrado psichico sembrava appartenere alla sfera privata e restava invisibile alla coscienza politica. Il malessere psichico aveva ed ha a che fare con medicine, sonniferi, antidepressivi, psicoanalisi, psicoterapie, guru, ma non è percepito come un effetto della civiltà.

Il calcolo applicato ad ogni aspetto della vita umana occulta ciò che non può essere calcolato, cioè la sofferenza, la felicità, la gioia, l’amore, in breve ciò che è importante nella nostra vita e che sembra extra-sociale, puramente personale. Tutte le soluzioni proposte sono quantitative: crescita economica, crescita del PIL. Quando dunque la politica prenderà in considerazione l’immenso bisogno d’amore della specie umana sperduta nel cosmo?

Una politica che integri l’ecologia nell’insieme del problema umano affronterebbe i problemi posti dagli effetti negativi, sempre più importanti in confronto agli effetti positivi, degli sviluppi della nostra civiltà, tra cui il degrado delle solidarietà, il che ci farebbe capire che l’instaurazione di nuove solidarietà è un aspetto capitale di una politica di civiltà.

L’ecologia politica non dovrebbe isolarsi. Essa può e deve radicarsi nei principi delle politiche emancipatrici che hanno animato le ideologie repubblicana, socialista e poi comunista, e che hanno alimentato la coscienza civica del popolo di sinistra in Francia. In questo modo, l’ecologia politica potrebbe entrare in una grande politica rigenerata e contribuire a rigenerarla.

Una grande politica rigenerata s’impone, tanto più che il Partito socialista è incapace di uscire dalla sue crisi. Esso si rinchiude in un’alternativa sterile tra due rimedi antagonisti. Il primo è la “modernizzazione” (cioè l’allineamento alle soluzioni tecno-liberali), mentre la modernità è in crisi nel mondo. L’altro rimedio, lo spostamento a sinistra, è incapace di formulare un modello di società. Il sinistrismo oggi soffre di un rivoluzionarismo senza rivoluzione. Denuncia giustamente l’economia neoliberale e lo scatenamento del capitalismo, ma è incapace di enunciare un’alternativa. Il termine di “partito anticapitalista” tradisce questa carenza.

Se l’ecologia politica porta la sua verità e le sue insufficienze, i partiti di sinistra portano, ciascuno a modo suo, le loro verità, i loro errori e le loro carenze. Dovrebbero tutti decomporsi per ricomporsi in una forza politica rigenerata che potrebbe aprire delle strade. La strada economica sarebbe quella di un’economia plurale. La strada sociale sarebbe quella della diminuzione delle disuguaglianze, della sburocratizzazione delle organizzazioni pubbliche e private, dell’instaurazione delle solidarietà. La strada pedagogica sarebbe quella di una riforma cognitiva, che permettesse di collegare le conoscenze, più che mai spezzettate e disgiunte, al fine di trattare i problemi fondamentali e globali del nostro tempo.

La strada esistenziale sarebbe quella di una riforma della vita, in cui verrebbe alla coscienza ciò che è oscuramente sentito da ognuno, e cioè che l’amore e la comprensione sono i beni più preziosi per un essere umano e che l’importante è vivere poeticamente, cioè nell’illuminazione di sé, nella comunione e nel fervore.

E se è vero che il corso della nostra civiltà, diventata globale, conduce verso l’abisso e che dobbiamo cambiare strada, tutte queste strade nuove dovrebbero poter convergere per costituire una grande strada che conduca più che ad una rivoluzione ad una metamorfosi. Perché, quando un sistema non è capace di trattare i suoi problemi vitali, o si disintegra, o produce un metasistema più ricco, capace di trattarli: cioè si metamorfosa.

L’inseparabilità dell’idea del cammino riformatore da quella di una metamorfosi permetterebbe di conciliare l’aspirazione riformatrice e l’aspirazione rivoluzionaria. Essa permetterebbe la resurrezione della speranza senza la quale nessuna politica di salvezza è possibile.

Non siamo neppure all’inizio della rigenerazione politica. Ma l’ecologia politica potrebbe innescare e animare l’inizio di un inizio.

(traduzione di Dario Predonzan)

Il 15 gennaio 2005, preceduta da una campagna di stampa sul durata sei mesi, alla quale parteciparono le personalità più rilevanti della sinistra italiana, politici e intellettuali, si riunisce alla Fiera di Roma una grande Assemblea nazionale.Un'assemblea, affollatissima ed entusiastica, che darà vita a quella che qualche giorno più tardi si definirà, - modestamente e ambiziosamente insieme - «Camera di consultazione della sinistra».

Compiti espliciti e teorizzati del neonato organismo sono: a) la riformulazione di un organico programma della sinistra radicale italiana, quale non era ancora uscito dalla fase convulsa post-1989; b) l'intenzione di mettere a confronto continuo ed organico società politica e società civile, politici e intellettuali, partiti e associazionismo, secondo una modalità, da tutti a parole auspicata, di «democrazia partecipativa»; c) l'avvio di un processo di fusione delle forze organizzate della sinistra radicale, allora molto più consistenti di oggi (nel titolo redazionale del mio articolo del 14 luglio 2004, con cui il manifesto dette inizio alla campagna suddetta, vi si accennava in forma interrogativa ma chiara: «Che fare di quel 15%?»). Aderirono in maniera attiva, oltre a molte associazioni politiche e culturali di base (mi piace ricordare con particolare rilievo il fiorentino «Laboratorio per la democrazia»), Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, una componente significativa dei Verdi (Paolo Cento e altri). Vi svolsero un ruolo non irrilevante la Fiom e l'Arci. Vi partecipa attivamente Occhetto. Dà un contributo insostituibile Rossanda. Alle riunioni tematiche intervengono o collaborano Rodotà, Tronti, Ferrajoli, Dogliani, Magnaghi, Ginsborg, Serafini, Bolini, Lunghini, Gallino e altri.

Quando nell'aprile 2005 si tratta di fare un passaggio decisivo, - quello che consiste nel «mettere in comune» un certo numero di temi da discutere e di decisioni da prendere («dichiarazione d'intenti»), - nel corso di un'animata riunione presso la Casa delle culture di Roma, Fausto Bertinotti, improvvisamente e calorosamente, se ne chiama fuori. Una gentile signora, sua fedelissima, abbandonando la sala, mi passa accanto e affettuosamente mi sibila: «Bella come esperienza intellettuale ma la politica è un'altra cosa».

Mi rendo conto, naturalmente, che ognuno che abbia preso parte, attivamente e convintamente, ad una qualche esperienza, sia spinto ad attribuirle un'importanza eccessiva. Mi pare però che, obiettivamente, sia legittimo, a partire da questa, anche personale, disfatta, porre almeno due domande: 1) Quale altro serio tentativo di perseguire l'«unità della sinistra» è stato fatto successivamente? (spero che a nessuno venga in mente di tirar fuori l'aborto elettoralistico dell'Arcobaleno, che è esattamente il contrario di quel che io pensavo si dovesse fare); 2) è mai possibile che ci si ripropongano di volta in volta gli stessi problemi e non ci si chieda mai quale esperienza ne abbiamo già fatto, positivamente o negativamente, nel (talvolta immediato) passato? (sicché non si sa mai bene di chi e di cosa si parla).

La scelta bertinottiana, giusta o sbagliata che fosse (a me pare, naturalmente, che fosse drammaticamente sbagliata), consisteva nello scegliere senza esitazioni le «ragioni del Partito», del «suo» Partito, ovviamente, che, in base al sacro principio dell'autoreferenzialità del ceto politico italiano (di qualsiasi colore esso sia), coincidevano con quelle sue personali. I risultati delle elezioni del 2006, cui egli guardava, sembrarono perfino dargli ragione. Ma su di un periodo appena un po' più lungo, sono risultate catastrofiche.

Cercherò di dire ora, a scanso di equivoci, perché lo schema logico-politico della «Camera di consultazione», così nostalgicamente richiamato nelle righe precedenti, non sia più oggi riproponibile. Quello, in realtà, era un semplicissimo schema binario: bisognava costruire una sinistra radicale unitaria da affiancare in maniera tutt'altro che subalterna ad una sinistra moderata altrettanto unitaria, allo scopo di governare decentemente il paese, arginando la possente ondata berlusconiana.

Oggi le cose rispetto ad allora si sono estremamente complicate, da una parte come dall'altra (ha ragione Parlato a farlo rilevare). Lo schema binario non regge più, se non nei termini assolutamente generali della coppia «progresso-reazione» (sulla quale tuttavia tornerò più tardi). Le ragioni mi sembran queste: 1)fra le due componenti più consistenti (si fa per dire) della sinistra radicale le divergenze sono strategiche, e dunque incomponibili; 2)le forze che hanno dato vita alla lista «Sinistra e libertà» promettevano all'origine di rappresentare una seria alternativa riformista al, presunto, riformismo della cosiddetta sinistra moderata; da come stanno andando le cose, rischiano di fungere solo, al centro come, soprattutto, in periferia, da gambetta di sinistra del Pd; 3)il Pd non è, come dichiarava di voler essere, il partito della sinistra moderata, o di un centro-sinistra moderato o di un moderato riformismo: è invece un qualcosa che rischia sempre più di sparire come tale per la sua organica incapacità di darsi una fisionomia e un'identità, quali che siano; contemporaneamente, non è più neanche in grado di egemonizzare la sinistra (?) moderata (crescita del dipietrismo); 4)l'autoreferenzialità del ceto politico della sinistra - tutto - è cresciuto in misura feroce in ragione diretta della lotta che esso conduce per la propria sopravvivenza.

Contestualmente, il caso italiano, da «anomalo» qual era, rischia di diventare, come è accaduto altre volte nella storia, «esemplare» a livello europeo. La deriva di destra del Vecchio Continente, che rappresenta la sua patetica ma dura e inquietante risposta ai rischi e alle incertezze, contemporaneamente, della globalizzazione e della crisi (in controtendenza, e questo ne costituisce un ulteriore motivo di debolezza, con le scelte americane), dovrebbe costituire attualmente il vero tema di riflessione per la costruzione di una «nuova sinistra» in Italia e in Europa. Anzi, più esattamente: cosa s'intende per «programma di sinistra» oggi in Italia e in Europa? Come si organizza e «si rappresenta», al di là di ogni ulteriore qualificazione, una «forza di sinistra» oggi in Italia e in Europa?

La domanda è così radicale (e io desidero consapevolmente che lo sia) da riguardare nella stessa misura, anche se con modalità diverse, forze di sinistra moderate e forze di sinistra radicali: i socialdemocratici tedeschi, i socialisti francesi e spagnoli, i laburisti inglesi, i democratici (?) italiani; e la Link in Germania, i verdi in Francia, i «comunisti» e tutti gli altri in Italia. Insomma, nel suo insieme, il «blocco» politico e sociale di forze cui è affidata in Europa la possibile alternativa (qui torna alla fine, naturalmente molto semplificato per ovvii motivi, lo schema binario, che però, lo ribadisco, in questa parte del mondo è ineludibile).

È chiaro che s'apre in questo modo un orizzonte sconfinato di problematiche e di riflessioni, frutto, oltre che della complessità dei problemi, anche dell'immenso e disastroso ritardo con cui vengono affrontati (ammesso che, ora, lo siano). Io penso seriamente che i milioni di astenuti a sinistra si astengano esattamente perché non hanno una risposta a queste domande. C'è un'alternativa già oggi operante, che sostituisca alla lenta e seria fusione una qualche miracolosa formula alchemica? Fatemela vedere, e cambierò opinione.

Un paese che secoli di sudditanza a una religione controriformatrice e a conquistatori stranieri hanno reso conformista e abituato a cercare soluzioni di ripiego, strade oblique. In un articolo apparso il 12 marzo scorso sulla London Review of Books, Perry Anderson, storico dei movimenti politici di sinistra, ascrive questi vizi alla sinistra italiana, accusandola di aver sperperato un patrimonio di potenzialità a causa di un’endogena disposizione al compromesso. Egli mette sotto processo tutta la sinistra del dopo-guerra, quella comunista, quella socialista e quella radicale, ma soprattutto la prima, le cui mancanze si sono rivelate più gravi perché proporzionate alle più grandi aspettative che aveva destato a partire dalla guerra di Liberazione. Infine, e soprattutto, la sinistra più recente, per quella insistenza autodistruttiva a perseguire la politica della mediazione a dispetto di tutto, e soprattutto della natura dell’avversario, la quale non consente compromessi. Una sinistra dunque senza spina dorsale perché senza coraggio di scelte forti e chiare anche se all’apparenza o nell’immediato impopolari. A mancare non sono state le idealità di giustizia, ma lo stile culturale, quello storicismo paralizzante che cerca la giustificazione ai propri errori e non educa alla responsabilità della scelta; che vuole l’assoluzione e teme il rischio. A mancare non è stata la cultura politica civile e morale, quella ineguagliata educazione alla politica come servizio che la vita dei partiti ha consentito a milioni di italiani, ma invece la struttura anti-democratica e oligarchica dei partiti che si è mostrata non appena la corazza ideologica si è rotta.

La rappresentazione che offre Anderson è impietosa, il giudizio a tratti risentito, a tratti sommario; ma non inutile a chi voglia con mente libera cercare di trarre qualche indicazione che serva alla rinascita dell’opposizione e al suo radicamento nel paese e nella cultura politica diffusa. Almeno tre osservazioni sono meritevoli di riflessione.

La prima riguarda la frattura tra cultura d’élite e cultura popolare, sulla quale si è edificata la fortuna di Mediaset prima e di Forza Italia poi. Questa frattura non è un fatto nuovo nella storia nazionale. L’ha studiata in maniera illuminante Antonio Gramsci, un autore canonico per la sinistra anche se la canonizzazione lo ha reso un mito invece che una fonte di ricerca sociale e una guida pragmatica. Anderson fa perno su questa frattura per spiegare il paradosso di come si sia prodotta una sinistra invertebrata da quella che è stata senza ombra di dubbio la sinistra più importante dell’Europa occidentale, capace di stimolare energie culturali e civili straordinarie, di ispirare la cultura letteraria e quella cinematografica, la storiografia e la filosofia per almeno due decenni. Capace tuttavia di cadere proprio sotto il peso di quella "straordinaria congerie di energie sociali e morali". Il pregiudizio umanista della classe intellettuale della sinistra italiana, innamorata delle "battaglie delle idee" ma poco capace di studiare le trasformazioni prodotte dal consumismo e dalla cultura di massa nella mentalità popolare, ha facilitato la separazione a tratti abissale tra un’élite raffinata e d’avanguardia e un popolo sempre meno acculturato e informato, giudicato dall’alto e spesso disprezzato. Da questa Italia popolare ignota alle élite della sinistra è partita l’ascesa del populismo leghista e dell’anti-civismo berlusconiano. E ancora oggi, a ogni sconfitta elettorale, si rinnova l’incredulità della sinistra per un "fenomeno" che le appare permanentemente strano ed estraneo. La scomparsa dal Nordest è il segno della persistenza nella sinistra di una cultura politica che è insofferente verso la democrazia (non sempre esteticamente attraente), tarda nella comprensione della cultura liberale e della sua tensione con i processi identitari e comunitari, timorosa dell’incontro con culture diverse, e infine non sufficientemente convinta della necessità di avere un sistema informativo nazionale sganciato dalle coalizioni politiche e davvero pubblico.

La seconda osservazione è conseguente alla prima. Essa riguarda il risvolto pratico-politico della cultura idealista e storicista che ha animato molta parte (benché non tutta) della sinistra italiana: la refrattarietà a comprendere e praticare il conflitto politico, e al contrario, la ricerca della mediazione e del consenso. Antagonismo e conflitto come segno di contraddizioni insolute e non invece anche come opportunità per cambiare scenari politici. Eppure, questa prudente radicalità è stata spesso scambiata per populismo o cieco radicalismo. La timidezza dimostrata dalla sinistra nei mesi successivi all’ultima sconfitta elettorale, la sua incapacità a vedere nella politica dell’opposizione, sociale oltre che istituzionale, una forza positiva ha le sue radici in una cultura politica che Sartori ha associato all’abito gesuitico alla mediazione compromissoria. Anderson dice una cosa giusta: la politica, anche quella ordinaria e parlamentare, deve saper usare strategie da "guerra di posizione" e da "guerra di movimento". Ciò significa per esempio che il dialogo a volte deve essere interrotto, che sul conflitto di interessi, su una riforma della giustizia che favorisce gli interessi del capo della maggioranza, sulle leggi liberticide e razziste, sulla distruzione della scuola pubblica, sulla laicità dello Stato non si può transigere, non si può cercare il compromesso. Interrompere il dialogo è parte della dialettica democratica tanto quando aiutarlo.

E questo ci porta alla terza osservazione, quella relativa al valore dell’intransigenza in politica, un valore che non si addice con l’essere invertebrati. L’intransigenza non è radicalismo fanatico, ma strategia di coerenza quando è in gioco non tanto o semplicemente l’identità politica di un partito o di una coalizione, ma soprattutto il patto costituzionale, la natura dell’ordine politico, i fondamenti del nostro vivere civile. La Costituzione non è un oggetto di compromesso e sulla sua difesa non si può transigere. La politica costituzionale e l’intransigenza che essa ispira sono la spina dorsale di una sinistra democratica, ciò che la distingue e la oppone alla destra. Libera dalle ingessature dogmatiche, più diretta e chiara nel linguaggio e negli obiettivi, essa è il naturale asse portante di una politica coraggiosa e non invertebrata.

Poiché l’appello per una lista unica della sinistra non è riuscito a convincere tutti coloro che era necessario convincere, partiti e gruppi della sinistra italiana sconfitta e quasi cancellata dallo spazio pubblico nell’aprile scorso stanno presentemente seguendo strade che porteranno loro, e tutti i cittadini e i lavoratori che hanno bisogno anche di loro, a un ulteriore insuccesso. Quei cittadini e lavoratori sono alcuni milioni. Alcuni di questi milioni (prevalentemente giovani, ma molti ormai non troppo) sono lavoratori potenziali cui il sistema vigente dice ogni giorno che non c’è bisogno di loro, di fatto anche come persone. Perciò non hanno le stesse possibilità di permettersi un altro insuccesso come gli autori di articoli, i professori universitari e (sia permesso) molti dirigenti di partito. Siamo tutti responsabili di fronte a loro: autori dell’appello che non sono risultati convincenti finora, aderenti all’appello che forse non sono stati abbastanza numerosi o abbastanza attivi finora, dirigenti politici che hanno detto di no all’appello finora. Possiamo ancora parlarne? Sembra proprio che dobbiamo.

C’è ancora un filo di speranza. Perché non si spezzi è indispensabile affermare che nessuno vuole vincere senza gli altri o contro gli altri, che nessuno vuole misconoscere o negare le differenze, che a nessuno si chiede di rinunciare alle proprie ragioni anche perché veramente ciascuno ha ragione su alcuni punti che non si riesce ancora a tenere insieme (ma non è detto che non ci si riuscirà mai). Bisogna fare qualcosa insieme per il 7 giugno proprio per mantenere viva la possibilità di proseguire ciascun distinto progetto, da confrontare con gli altri e con i cittadini e i lavoratori, dall’8 giugno in poi.

Si presuppone, infatti, che stiamo parlando di diversi progetti per un’impresa comune, non di imprese diverse o, tanto meno, contrapposte quanto agli scopi e ai valori. Se non sapessimo che tutti lavoriamo per una civiltà della pace, del lavoro e della libertà, della fraternità e dell’eguaglianza, non ci parleremmo (in fondo, non litigheremmo neanche). E in questa situazione eccezionale, con un regime in corso di consolidamento, si tratta di affrontare un passaggio stretto, di scongiurare una comune rovina. La lista unitaria deve essere una lista di garanzia per tutti, che riconosca la pari dignità di tutte le ipotesi in campo per il futuro della sinistra. Per competere fin da ora, dopo tutto, ci sono le anche le amministrative.

Mettere l’accento su ciò che unisce in vista del voto nazionale per il parlamento europeo non significa dunque rinunciare a competere né ad affermare contemporaneamente, ciascuno, tutte le proprie ragioni, le proprie convinzioni circa la via da seguire, i propri simboli. Si può concorrere, sotto i propri simboli e con le proprie ragioni specifiche, a un fronte popolare del lavoro e dei diritti, che offra alla spontanea e diffusa protesta sociale, al diffuso rifiuto di pagare il prezzo della crisi del capitale, un segno di fiducia, di unità e di forza.

Per aderire a quale gruppo parlamentare di Strasburgo? Bisogna domandarsi se una tale questione appassionerà veramente gli elettori, molti dei quali (ma sempre pochi) forse apprenderebbero soltanto durante la campagna elettorale dell’esistenza del Gue (pur importantissimo), e verosimilmente non per affrettarsi a saperne di più. Ma se si dice semplicemente che si va a Strasburgo per dire no a questa labile, fasulla e antidemocratica costituzione europea e alla moneta delle banche che dirige i governi, e per dire sì invece a un governo europeo eletto che metta la moneta e le banche al servizio del lavoro, avremo o sostanzialmente indicato il Gue o comunque eletto persone (scelte, non dimentichiamo, innanzitutto mediante primarie) che lotteranno per questo (in rari casi) anche in altri gruppi, e saranno utili anche là.

Naturalmente questo significa avere fermamente come segno di riferimento il diffuso rifiuto di pagare per la crisi del capitale, cioè sapere che questa crisi è l’occasione per rovesciare l’egemonia culturale degli ultimi trent’anni. In altre parole, per smascherare quell’incompatibilità del capitalismo con la democrazia che fu fondatamente riconosciuta a suo tempo sotto l’impulso dei Reagan, dei Craxi, dei Blair e dei Giddens, e appunto mascherata spacciando per democrazia qualcosa che lo diventava intanto sempre di meno. In America, proprio in America, lo hanno fatto. Ci rendiamo conto di ciò?

Una rinuncia, quindi, certamente s’impone: la rinuncia a concedere spazio e credito a chiunque abbia ancora legami con quei deleteri, fallimentari e decrepiti “nuovismi”. Coloro che insistono sull’ “unità dei comunisti” esprimono in qualche modo questa esigenza innegabile, salvo tradurla in azioni che – nel contesto storico reale, che non sarebbe da marxisti ignorare – non uniscono ma separano, oggi, i proletari in carne e ossa, di antico e di nuovo genere.

Un fronte popolare elettorale per le europee, sostenuto dai partiti nella loro piena e riaffermata identità, ma indicato intanto agli elettori mediante le bandiere rosse del lavoro, unite con quelle arcobaleno dell’amicizia con la natura e tra i popoli, è ancora possibile, ed è soprattutto indispensabile. I milioni di proletari di antico e nuovo genere che scenderanno in piazza il 4 aprile lo meritano.

Se tutto continuerà ad andare come sta andando, ad alcuni milioni di persone, che potrebbero e vorrebbero votare a sinistra nelle elezioni europee di giugno, sarà probabilmente presentata la scelta tra una sinistra unita comunista o una sinistra unita non comunista in concorrenza e in polemica tra loro (e, fino a un momento fa, ciascuna non troppo unanime al suo interno), con il probabile risultato di rendere entrambe meno efficaci. Si tratta delle stesse persone che frattanto avranno dato vita a una delle più intense stagioni di mobilitazione sociale per il lavoro e i diritti nella recente storia italiana, e avranno pertanto largamente meritato molto meglio.

L’appello per una lista unica deve quindi essere sostenuto e rilanciato con forza, fino a quando ci sarà un filo di speranza. Questi cittadini e questi lavoratori non possono continuare a essere delusi. Il regime autoritario di massa che è in corso di consolidamento non aspetta altro che quello al fine di estendere ancora di più la base mista di rassegnazione, risentimento, e micro-conflitto tra interessi immediati e più o meno urgenti, su cui il suo richiamo plebiscitario si fonda.

Dove e perché l’appello per la lista unica non è penetrato, non ha persuaso, ha suscitato reazioni negative forse evitabili? Certo, pretendere che suonasse immediatamente gradevole ai dirigenti e ai quadri di partito, cui si chiede esplicitamente di fare un passo indietro, sarebbe stato troppo. Ma forse non è stato sempre abbastanza chiaro che si può chiedere loro di farlo proprio perché la loro funzione è riconosciuta, le loro qualità intellettuali e morali anche, e proprio perciò è lecito aspettarsi molto da loro. Troppo spesso si è dovuto constatare un forse frettoloso ma forse anche evitabile fraintendimento dell’appello, come se si trattasse ancora dell’ennesima contrapposizione di una qualche società civile a una qualche politica degli “apparati”, o altre simili superficialità. Non così, certamente, è da intendere. E conviene continuare a chiarirlo senza stancarsi.

In realtà, quadri e militanti di partito più o meno a pieno tempo, più o meno volontari o professionalizzati, svolgono nel complesso una funzione preziosa per la democrazia, ciascuno più o meno coerentemente e più o meno bene, ma in ogni caso senza giustificare giudizi liquidatori generalizzati. Semplicemente, non sono superuomini né superdonne e non possono esercitare tutte le funzioni che sono da svolgere.

Queste persone non sarebbero sminuite, ma al contrario confermate nella loro autorevolezza, se contribuissero a sollecitare le innumerevoli energie e le innumerevoli qualità disponibili ad emergere così da rispondere su tutto il fronte alle esigenze precise che sono da riferire all’appuntamento di giugno: costituire una forte e largamente sostenuta rappresentanza dell’Italia del lavoro e dei diritti a Strasburgo, e richiamare al voto una frazione significativa di quella estesa quantità di cittadini che diserta le urne (aumentando finora con regolarità ad ogni elezione) così da cominciare a dare finalmente un segno elettorale in controtendenza rispetto al regime (e alla fantomatica opposizione parlamentare che si concede).

Osservando la curva storica della percentuale dei non votanti, si può concludere che la democrazia italiana ha perduto quasi un venti per cento di sostenitori, ossia di cittadini politicamente attivi, nel corso di poco più di una generazione. La tendenza è in crescita. I due raggruppamenti che si stanno formando separatamente a sinistra mediante trattative tra gruppi dirigenti dovrebbero spiegare come e perché queste loro iniziative abbiano probabilità di cambiarla.

Appare fortemente improbabile che due distinte liste di candidati, inevitabilmente composte secondo complesse operazioni di bilanciamento di gruppi di personale politico tra loro, avrebbero un tale potere. La domanda è: i milioni di cittadini e di lavoratori che si mobilitano nelle piazze da mesi – prima nel movimento di difesa della scuola pubblica e adesso anche nel sempre più ampio movimento di rifiuto a pagare la crisi del capitale – hanno speranza di conquistare qualcosa attraverso una rappresentanza politica frammentata e divisa, o una che sia forte e unita? Meglio ancora: se le domande di giustizia e di diritti che essi pongono in questa crisi hanno qualcosa di comune e di essenziale, perché la loro rappresentanza politica dovrebbe essere divisa? Chi è certo che, se consultati, vorrebbero essere divisi (in particolare, tra comunisti e non)?

Si tratta, appunto, di consultarli: di chiamarli, cioè a formare la lista che andranno a votare – una lista che rappresenti l’intera fortissima opposizione sociale al regime – attraverso elezioni primarie. Dare loro questa possibilità è ciò che appare lecito attendersi da dirigenti politici che tutti conosciamo e stimiamo.

Tutto ciò è qualcosa di meno rispetto alla nascita di nuove formazioni politiche, ma è anche molto di più. Bisogna infine prendere atto che la struttura dell’offerta di rappresentanza politica in Italia (il suo “sistema dei partiti”) è ancora caratterizzata da onde lunghe di assestamento, di durata e di intensità commisurate alla vera e propria catastrofe politica che la sconvolse negli anni novanta del secolo scorso. La lista unica non sarà certo una risposta definitiva a questo processo. È un progetto umile, e proprio per questo può avere una grande efficacia, prefigurando finalmente la casa di tutti coloro che sentono e cercano il lavoro come bisogno, diritto e dovere comuni a tutti, e intendono vivere in amicizia con la natura e con i popoli. Una casa che possa essere riconosciuta come propria da chi chiama tutto ciò comunismo e da chi preferisce chiamarlo altrimenti, in piena libertà e in piena fraternità.

Katciu-martel, un piccheiitio di spunti per ricminciare a pensare

Giorni fa Marco d'Eramo scriveva su questo giornale che Obama si è aggiudicato le elezioni presidenziali quando è riuscito a convincere gli elettori che il cambiamento, il futuro, stavano dalla sua parte. La sua stessa candidatura era di per sé il simbolo del cambiamento. Su queste basi è riuscito a costituire un movimento di milioni di persone, che si sono mobilitate, anche contribuendo finanziariamente alla campagna elettorate. Invece la nostra sinistra dà un'idea di vecchio, di ripetitivo, mentre un partito autoritario come Forza Italia non ha perso l'attrazione del nuovo. Per tornare a parlare con il paese, per tornare a vincere, la sinistra deve comunicare un forte segnale di discontinuità con le pratiche politiche del passato, e incominciare a sperimentare un modo diverso di fare politica, al di là delle attuali divisioni.

Le prossime elezioni europee sono una necessità stringente di rivincita e anche un'occasione unica; ma per coglierla la sinistra deve rinnovarsi, attirando l'attenzione degli italiani, prima ancora che sui programmi, sul suo modo di procedere. Deve fare qualcosa di mai tentato in Italia, che stupisca, che attiri attenzione, simpatia e interesse, che faccia venir voglia di partecipare anche a tutti coloro che sono disgustati «da riti congressuali, notabili, conteggi di tessere, quote alla Cencelli per correnti, sottocorrenti e gruppi, e di tutte quelle pastoie da casta politica». Solo se la sinistra cambia profondamente se stessa, rompendo i ponti con le prassi del passato, riuscirà a presentarsi in modo credibile come un soggetto politico davvero capace di cambiare profondamente questo paese.

È incominciato in questi giorni il dibattito politico sulla presentazione delle liste alle elezioni europee, e il tema che attira di più l'attenzione è come si aggregheranno i vari partiti e movimenti che costituiscono la sinistra. Penso che questo sia un falso problema. Sono convinto che sia destinata alla sconfitta qualsiasi soluzione - con uno, due o più raggruppamenti - che, dopo trattative ai vertici produca liste aventi in posizioni dominati segretari di partito, ex parlamentari... L'inserimento di qualche faccia nuova non cambierebbe di molto il risultato finale.

Se la sinistra non riesce a far vedere agli elettori che il cambiamento sta dalla sua parte, ha perso. Il problema centrale del dibattito dovrebbe essere come formare liste della sinistra il più possibile unitarie, dando vita a un processo partecipato, che non abbia quell'odore di cartello elettorale, di spartizione delle poltrone tra i partiti, che aleggiava attorno all'Arcobaleno. Vorrei contribuire al dibattito con una proposta esplicita per la formazione di una lista, appoggiata dai vari partiti e movimenti della sinistra, basata sui seguenti punti:

1. non possono candidarsi alle elezioni europee tutti coloro la cui fonte principale di reddito in questi ultimi anni proviene da attività politiche o sindacali, per esempio ex Deputati o Senatori, assessori regionali, provinciali o di grandi comuni, funzionari di partito.

2. Non possono candidarsi alle elezioni europee i membri delle direzioni nazionali dei movimenti o dei partiti della sinistra.

3. Fatte queste eccezioni, le candidature sono aperte a tutti coloro che condividono il programma elettorale, indipendentemente dal fatto se siano iscritti o no a partiti o movimenti della sinistra. Le candidature (accompagnate da un curriculum di attività politiche che verrà reso pubblico) saranno vagliate da un comitato di garanti, col mero scopo di verificare la coerenza con gli ideali del programma.

4. Successivamente i candidati verranno scelti mediante primarie (includendo quote riservate per ciascun sesso) e verranno messi in lista in ordine alfabetico. Ovviamente se venisse abolito il voto di preferenza, l'ordine non sarebbe alfabetico, ma frutto delle primarie.

5. Il programma deve essere molto sintetico e basato su proposte oncrete e valori condivisi (per esempio avere una legislazione europea in accordo con i principi della nostra bella Costituzione). Ci si può concentrare su qualche punto chiave come l'intervento pubblico per garantire un reddito minimo a chi perderà il posto a causa della crisi, o lo sviluppo delle energie rinnovabili (ricerca e nuove tecnologie). Le primarie stesse possono anche essere utilizzate per determinare le priorità dei punti chiave.

Vorrei essere molto chiaro. Io penso che i politici di professione siano una grande risorsa per la sinistra, ma non sono l'unica. Trovo disgustosi, e segno di imbarbarimento, gli attacchi che sono stati fatti recentemente in televisione a Vendola, al quale va tutta la mia solidarietà. Ho una grande stima per le persone che ho qui proposto di escludere dalle liste (alle quali io stesso appartengo): il loro contributo è cruciale e non possiamo pensare di fare a meno della loro esperienza anche tecnica.

Tuttavia in queste elezioni è in gioco la capacità della sinistra di dimostrare di essere in grado di finirla con le pratiche di spartizione pesate dei posti di potere, e di riportare la scelta dei candidati nelle mani del popolo della sinistra. Bisogna far arrivare a tutti gli italiani il messaggio che lo si sta facendo già in queste prime elezioni dopo la catastrofe. Le primarie da sole non bastano: un dirigente politico partirebbe troppo avvantaggiato rispetto a chi fa politica al di fuori dei partiti.

Per uscire da una grave crisi di rappresenza la sinistra deve dare adesso un segno chiaro. In successive elezioni le liste si potranno fare differentemente, con una ponderata combinazione di politici di professione e di coloro che fanno politica nella società. Ma il primo appuntamento nazionale dopo la sconfitta delle politiche deve testimoniare la capacità della sinistra di fare politica in maniera nuova, per recuperare tutti coloro che le hanno voltato le spalle alle elezioni precedenti. In questo modo si otterrebbe anche il vantaggio non trascurabile di spazzare via tutte le discussioni e trattative in atto sull'organizzazione delle liste per le europee, discussioni che rischiano di avvelenare il clima politico e - anche se finissero con una lista unitaria - lascerebbero l'amaro in bocca.

Il metodo che propongo, se fatto adeguatamente conoscere, avrebbe una forte risonanza: le candidature aperte, le primarie con risultato non precostituito, la partecipazione di tutta la società, le discussioni politiche a ampio spettro, tutti questi fattori attirerebbero l'attenzione sulla sinistra, che potrebbe giustamente e orgogliosamente dimostrare di essere sostanzialmente diversa dagli altri partiti. Molti la voterebbero, anche al solo scopo di incoraggiare la politica italiana a muoversi con modalità nuove. Sarebbe una campagna elettorale che potrebbe mobilitare un gran numero di persone; non so se sarebbe il punto di partenza per nuove aggregazioni politiche, tuttavia sarebbe almeno l'inizio di un nuovo modo di fare politica. In un momento in cui i partiti della sinistra stanno riflettendo sul loro futuro, conviene a tutti fare un passo indietro e far entrare nell'arena della politica nazionale energie nuove.

Recentemente il movimento degli studenti ha mostrato come la richiesta di cambiamenti di metodo continui a essere forte e come sia possibile organizzarsi con grande successo senza ripercorrere pedissequamente le tracce dei precessori; la sinistra dovrebbe ispirarsi al loro esempio.

Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?

Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.

«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.

Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.

Erano due percezioni di sé e del mondo su piani affatto diversi, che di comune hanno soltanto la contemporaneità (sulla quale varrebbe la pena di riflettere) e lo sfondamento rapido di un minoritarismo; risuonavano immediatamente sul reale. E non si aggiungevano al movimento operaio, lo accusavano di averle ignorate pretendendo la sola sua centralità; l'uno nega le altre e viceversa, inclinando ciascuno a porsi come «la» contraddizione principale.

Attaccate nella loro base sociale dall'offensiva liberista, incerte nel cogliere l'evolvere dell'organizzazione capitalista della proprietà e del lavoro, colpevolizzate dall'accusa di non avere inteso i nuovi conflitti, le soggettività di origine operaia o si sono irrigidite o hanno dubitato delle proprie ragioni. Tutti i filosofemi sul Novecento, per quanto diversamente conditi, affermano la fine della loro ragion d'essere. Paradossalmente il capitalismo si è esteso, è il sistema unico dominante, l'ineguaglianza dentro alle singole società e fra paesi dominanti e dominati, nord e sud, non sono mai state così grandi e percepite, ma i motivi di opporvisi non ci sarebbero più. O almeno non gli stessi. Addio al proletariato scriveva una ventina di anni fa un amico scomparso, André Gorz.

Qualcosa di analogo si può dire per le molte ricerche sulle innovazioni che sarebbero intervenute nel capitalismo rendendo obsoleto il conflitto di classe; ancora di recente uno dei nostri più stimati compagni, Marcello Cini, è tornato a insistere sul «luogo» di accumulazione del capitale, negando con buone ragioni che essa avvenga ormai soprattutto sul tempo di lavoro, ma scordando che non è sul dilemma di dove si formi ma sulla mercificazione della forza lavoro, la sua spersonalizzazione e riduzione a cosa, che è cresciuta la rivolta del proletariato industriale. E questa mercificazione si è estesa, se mai, ben oltre il secolo scorso e il fordismo, sull'insieme della produzione, materiale e immateriale, su gran parte della riproduzione e sul complesso dei rapporti umani.

In Italia il problema è esploso su Rifondazione comunista dopo il disastro delle elezioni. Già era del tutto scomparso dall'orizzonte del Partito democratico, che neppure più si definisce di «sinistra» e non certo perché il termine è diventato equivoco, ma perché al conflitto sociale ancora in qualche modo allude. Del dilemma che ancora agita i socialisti francesi, ancorarsi alla questione sociale o al centro, il Pd ha scelto il secondo corno fin nella sua composizione. Mentre è diventato dirompente in Rifondazione. E non poteva non esser così per un partito che si era proposto di «rifondare» il comunismo, recuperando lo spazio che il Pci aveva lasciato deserto, ma non superava mai una soglia assai minoritaria di ascolto e di colpo non ne raggiungeva, istituzionalmente parlando, più nessuna.

Al Congresso di Chianciano, la vecchia robusta minoranza è diventata maggioranza accusando la dirigenza di Bertinotti e poi la mozione Vendola di dismettere ogni lotta sociale con la prospettiva di finire prima o poi nel Pd; mentre la mozione Vendola accusava la linea Ferrero-Grassi di arroccarsi su una inerte ripetitività del passato. Negli articoli di Paolo Ferrero e Nichi Vendola sull'ultimo numero di «Alternative per il socialismo» (che, per essere stati scritti a settembre, non percepiscono le mutazioni della scena internazionale, né la crisi apertasi nel capitalismo) le posizioni restano immutate. Ferrero, preso dall'angoscia che tutti conosciamo, del venir meno d'una soggettività sociale punta a ricostruirla «in basso e a sinistra», cioè come esperienza diretta degli individui ora atomizzati attorno a un bisogno ravvicinato da affrontare assieme. E insiste sui simboli, nome del partito e falce e martello come salvagente per non precipitare in grembo al Pd. Vendola, nell'appassionata mappa dei conflitti e sofferenze del presente - con la sensibilità umana rara e che gli è avvalsa la vittoria in Puglia - stenta a dare una collocazione alla lotta di classe, una delle molte ferite della società. E anche lui insiste, in altra direzione, sulla priorità del simbolico. Ora il simbolico, quando venga assunto a sua volta come piano principale o unico, può essere devastante del «materiale reale». I due piani o si tengono stretti, diciamo così, per il bene e per il male, o si mutilano.

Adesso Bertinotti interviene affermando, con ragione, che non esiste sinistra senza il conflitto sociale, mentre il movimento degli studenti gli suggerisce, ed è discutibile, che può darsi il contrario. Nega sia l'autonomia del sociale sia quella del politico. La proposta di Ferrero è povera, quella di Vendola stenta a individuare i nessi, conclude chi legge, che aveva individuato già, in una sua più vasta analisi della disaggregazione delle soggettività, Maria Luisa Boccia (in sintesi anch'essa in «Alternative per il socialismo»).

In verita tutta Rifondazione comunista si dibatte, da quando esiste, sul bandolo dal quale afferrare la matassa dopo il 1989. Esponendosi agli scacchi: alcune affermazioni che egli ora giustamente discute sono derivate dalla sua iniziativa. Non penso tanto alla scelta di stare o non stare nella maggioranza di governo, quanto all'aver puntato sulla Sinistra Arcobaleno come a qualcosa di più che una coalizione elettorale, il nucleo di un partito «plurale». Che una opposizione al berlusconismo e al centro raccolga culture e sensibilità differenti mi pare d'obbligo, ma che la stessa possa costituire un partito nel quale il conflitto di classe sarebbe un optional è un altro paio di maniche.

Ne sono derivate reazioni opposte e assai dubbie, come il disinvolto articolo sul comunismo di Rina Gagliardi su Liberazione e, all'opposto, l'accusa di liquidatore indirizzata a Vendola.

Le tesi di questi giorni dovrebbero far giustizia delle battute avventate e costituire una trama sulla quale lavorare. Esse hanno dovuto aggiornarsi sulla realtà aperta negli ultimi mesi; che modifica le carte del mondo come si presentavano un anno fa. Danno fin troppo ragione a chi si opponeva alla «fine della storia» e all'autosufficienza del mercato come ordinatore dell'economia e della società.

Ma, nuovo paradosso, gli apologeti dell'una e dell'altra, davanti alla cui protervia non si poteva aprir becco senza essere dileggiati, chiedono affannosamente aiuto all'intervento pubblico, mentre la sinistra non sa che dire davanti alla crisi, non solo «finanziaria», nella quale il capitalismo si dibatte. Noi, sinistre critiche, sembriamo un gatto nella notte, abbacinato dai fari d'un camion di cui preconizzavamo l'arrivo ma che ci prende di sorpresa.

C'è molto da rivedere nella nostra cassetta degli attrezzi e anche nelle nostre rivendicazioni. Come avanzare un piano o un partito del «lavoro», quando è il sistema che sta traballando? Certo non possiamo attardarci nelle beghe fra noi. La rivoluzione non è all'ordine del giorno ma un corto circuito del liberismo è in corso. Non dovremmo avere qualcosa da dire? Almeno sulle misure di intervento, quante, come, destinate a chi e da parte di quale «pubblico»?

Se non l'abbiamo, la nostra scomparsa da contingente rischia di diventare definitiva.

Non c’è molto da rallegrarsi della prima festa «democratica» organizzata dal Pd a Firenze. Questa manifestazione è subentrata alle tradizionali feste dell’Unità, che hanno sempre rappresentato momenti importanti per il Partito comunista italiano: i militanti prestavano la loro opera per assicurarne il successo, i simpatizzanti affluivano numerosi, i discorsi dei dirigenti venivano ascoltati con attenzione. Era un rituale politico grazie al quale i comunisti si ritrovavano tra loro proclamando la propria identità, davano prova di coesione, affermavano la loro forza e attingevano nuove energie. La prima festa del Pd avrebbe dovuto mobilitare gli iscritti, dare visibilità al partito e rilanciarne l’attività politica.

Ma in questo mese di settembre il Pd ha varie ferite aperte da curare dopo la sconfitta elettorale dello scorso aprile, e molte preoccupazioni per il suo futuro. Lungi dal mostrare l’unità del partito, la festa di Firenze ha esposto in piena luce le discordie tra i suoi dirigenti, venuti a saggiare la propria popolarità e a posizionarsi nella competizione interna. La piccola guerra tra i capi deprime gli elettori di sinistra e lascia indifferente la maggioranza degli italiani, i quali d’altra parte si rendono conto che la crisi di leadership del Pd ne cristallizza molte altre.

Innanzitutto, una crisi di strategia: l’opposizione contro il governo va fatta con intransigenza, o in maniera più morbida, in vista di un dialogo? E una crisi delle alleanze: con quali forze il Pd deve trovare un accordo? Con un alleato scomodo e intransigente come l’Italia dei valori? Con la sinistra radicale, che ha subito un tracollo ed è scomparsa dal parlamento? Con l’Udc, tuttora inaffidabile?

Una crisi d’identità e di progetto, contrassegnata dall’interrogativo posto fin dalla sua nascita: cos’è il Pd? Quali sono i suoi riferimenti, la sua cultura, il suo disegno?

Infine, una crisi organizzativa del partito: come strutturarlo e farlo vivere? Come assicurare un rinnovamento non solo degli iscritti, ma anche dei dirigenti?

In verità il Pd, nato dalla volontà di superare le frontiere classiche della sinistra, non è il solo a trovarsi in cattive acque. I problemi che sta affrontando sono gli stessi della sinistra europea nel suo insieme. In quest’inizio della stagione autunnale, la sua situazione è del tutto simile a quella del partito socialista francese, che si sta inabissando nella lotta tra i capi. Sulle questioni di fondo non vi sono divergenze insormontabili tra Ségolène Royal, Bertrand Delanoë, Martine Aubry e Pierre Moscovici, che però se le inventano, per controllare il partito e in vista delle prossime presidenziali. Allo stesso modo, il Pd e il Partito socialista mettono in scena contrasti sorprendenti. Da un lato, queste formazioni dispongono di un vero capitale elettorale: reti di simpatizzanti, grandi riserve di talenti e dirigenti locali e regionali di qualità; ma dall’altro si rivelano politicamente impotenti, con lacerazioni ai livelli più alti e l’incapacità di proporre un progetto attraente. E soprattutto, rimangono muti davanti a una domanda fondamentale che si pone oramai sia in Francia e in Italia che nel resto d’Europa: perché mai la destra ha la meglio nel momento stesso in cui tutto ? la crisi del capitalismo finanziario, l’esaurirsi delle ricette liberali, il deterioramento del potere d’acquisto, l’aggravarsi delle disuguaglianze d’ogni tipo, il radicato attaccamento al welfare degli italiani e dei francesi così come della grande maggioranza degli europei ? dovrebbe spingere gli elettori verso sinistra? La spiegazione va ricercata soprattutto nella capacità della destra di intercettare e sfruttare politicamente altre dinamiche di fondo delle nostre società: l’individualismo crescente, le paure reali o immaginarie suscitate dall’immigrazione e dall’insicurezza, le ansie per il futuro, la diffidenza nei confronti delle istituzioni politiche, gli interrogativi sul divenire dell’Europa, l’angoscia davanti alla globalizzazione, un forte bisogno di identificazione collettiva, la ricerca di valori e di senso. I discorsi politici più popolari e diffusi si nutrono delle argomentazioni della destra su questi temi.

Ecco perché il periodo attuale è di una gravità estrema per la sinistra, in particolare in Italia e in Francia; tanto più che si presenta con caratteristiche di lunga durata. In questi due Paesi, dal 1947 in poi la sinistra è stata per lo più minoritaria in termini elettorali, a causa di molteplici fattori che in parte sono comuni ai due Paesi: l’influenza del cattolicesimo (più accentuata in Italia, dato che la Francia ha una robusta tradizione laica), il retaggio della cultura rurale, l’importanza della proprietà privata, un forte anticomunismo nei due Paesi che hanno avuto i maggiori Partiti comunisti del mondo occidentale, l’incidenza dell’individualismo, ancorché concepito in maniera diversa da un Paese all’altro. Esistono però anche fattori specifici: in Italia, il peso e le strutture della famiglia, una frontiera in comune con un Paese comunista per quasi mezzo secolo, la forza di alcuni ceti, come i piccoli imprenditori, i commercianti e gli artigiani, il ruolo della Dc. In Francia, per molto tempo la figura di De Gaulle e le istituzioni della quinta Repubblica hanno tenuto la sinistra sulla difensiva.

Tutto ciò non significa affatto che la sinistra sia condannata a restare all’opposizione. Nulla, in politica, è ineluttabile. Alle attese degli elettori la sinistra ha già dato risposte adeguate per vincere. In Francia, ad esempio, negli anni ‘70 e ‘80 François Mitterrand ha saputo rifondare il Ps con una nuova dinamica, unendo a una programmazione economica contrassegnata da un arcaismo marxistizzante una serie di proposte sociali e culturali libertarie e «moderne», in un mix capace di sedurre sia il mondo operaio che quello dei dipendenti pubblici e del terziario.

Dal 1996, per uscire dal suo isolamento, la sinistra italiana si è alleata con una parte del centro. Questa formula ha consentito di battere Berlusconi a due riprese, ma si è rivelata fragile e inefficace per governare.

Oggi più che mai, il compito prioritario della sinistra è dunque quello di portare a buon fine i cantieri della sua rifondazione. E di analizzare, per comprendere infine la natura del radicamento profondo dei suoi avversari ? il sarkozysmo in Francia e il berlusconismo in Italia ? le complesse mutazioni della società, cogliendo le attese reali degli elettori per elaborare proposte chiare e ricostituire un corpus di valori mobilitanti.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Siamo a uno dei punti più bassi della nostra storia: Alberto Asor Rosa ha ragione. Siamo a una crisi intellettuale e morale degli italiani - metà dei quali hanno votato per la terza volta una banda di affaristi ex fascisti e separatisti e l'altra metà si è divisa. Occorre dunque, scrive Asor, un soggetto politico nuovo, pulito e con un'idea di nazione che guardi a sinistra e non insegua fisime comuniste. Nel documento del Crs, Mario Tronti diceva qualcosa di analogo precisando che deve essere una grande forza popolare.

Non che mi piaccia essere una fisima, ma pazienza. Però, allo stato delle cose, non vedo dove questa forza politica sia. Veltroni direbbe: ma come, quella forza sono io, e il Pd. Abbiamo il 34 per cento dei voti, non siamo una combriccola di affaristi, abbiamo un'ipotesi riformista e una moderna icona morale in Robert Kennedy, abbiamo chiuso con ogni tipo di comunismo. Già, solo che l'opposizione a Berlusconi il Partito democratico non la sta facendo. Solo che raramente si è veduto un partito di sinistra così monocratico e poco popolare, se per democratico e popolare si intende un minimo di democrazia partecipata. Solo che, per dirla tutta, che cosa sia il Pd non si è capito ancora: gli avevano dato vita la Margherita e i Ds, ma della Margherita mancano ormai Prodi e Parisi, e Rosi Bindi sembra tenere più per coerenza che per persuasione. Neanche i Ds sembrano un blocco: D'Alema giura per il Partito democratico ma la sua fondazione ha accenti alquanto diversi da quelli di Veltroni. Chi può giurare che al primo congresso questa chimera diventi un animale affidabile?

Fuori del Pd le cose non vanno meglio. La frettolosa coalizione della sinistra Arcobaleno è stata addirittura espulsa dal Parlamento, il suo proprio elettorato avendole giurato vendetta per essersi fatta trascinare nell'avventura di governo. La Sinistra democratica di Mussi ha perduto qualche foglia invece che guadagnarne. I Verdi lo stesso. Rifondazione si è spaccata in due tronconi che neppure si parlano: la maggioranza di Ferrero punta tutto sul conflitto sociale dal basso, la minoranza di Niki Vendola su una raccolta di aree radicali fra le quali quella comunista potrebbe essere una cultura fra le altre, dell'ambientalismo che è più vasto dei Verdi, del femminismo, dei movimenti.

Non vedo perciò, allo stato dei fatti, un soggetto in grado di fare fronte alla slavina di destra. Vedo una quantità di orfani che vorrebbero questo soggetto ma sui quali da diversi anni passano grandinate che li disperdono vieppiù. Ma qual è la causa delle grandinate? Sta soltanto nella risolutezza e la sfacciataggine di Berlusconi? Non credo. La banda che ci governa ripete esattamente forme, metodi e misure di tutti gli esecutivi europei dagli anni '80: la potente spinta alla disuguaglianza, all'arricchimento di pochi, all'impoverimento dei più, cioè l'ondata neoliberista che ha seguito i «trent'anni gloriosi». È una ripresa della linea che era già stata sconfitta in Europa e negli Usa dopo gli anni '20.

Ma ora, osserva Asor, essa è già arrivata a un punto morto. Vero, ma non per la forza della sinistra. È nei guai con se stessa. Dal liberismo si oscilla al protezionismo, dal mercato unico alle guerre commerciali simili a quelle del XIXmo secolo - ecco dove stiamo ritornando. Gli Stati uniti hanno l'egemonia militare ma non più economica; questa gli è contestata dalla Cina e dall'India in poderosa crescita. E l'arroganza di Bush ha infilato la sua supremazia militare nella trappola del Medio oriente, mentre l'Europa è insabbiata in una moneta relativamente forte, in un'economia debolissima e in un'iniziativa politica pari a zero.

Questo è il quadro cui siamo davanti. Crediamo davvero che si potrà batterlo con i conflitti sociali dal basso o con l'adunata dei renitenti al veltronismo? Non lo penso. Se vogliamo non solo battere Berlusconi ma dirci dove l'Italia può andare, su quali basi si può ricostruirne una fisionomia intellettuale e morale bisognerà pur passare dalle proteste divise e poco comunicanti a un progetto capace di credibilità, persuasione e mobilitazione. Per questo non serve il Partito democratico, che del liberismo condivide gli orizzonti, né bastano le due anime di Rifondazione: la vastità dell'impegno implica una raccolta di forze che vada molto oltre la sinistra Arcobaleno e la natura dell'impresa implica una dimensione del conflitto che non si risolve dal basso. Del resto, qual è il basso della globalizzazione?

E qui torna la mia fissazione: se siamo, come credo, una tessera di una tendenza mondiale, prima di tutto ad essa dobbiamo dare un nome e di essa definire la mappa. Il nome è il capitalismo dall'ultimo quarto del Novecento agli inizi del Duemila. La mappa è quella dell'intero pianeta. Finiamo di balbettare che tutto è cambiato e perciò niente si può dire, e cominciamo a precisare che cosa questo capitalismo è diventato. Non ci sono più vittorie puramente locali contro di esso. Come i dipendenti di una fabbrica non possono battersi da soli contro la delocalizzazione dell'azienda così un paese europeo non può battersi da solo contro la recessione, quali che siano le pensate protezioniste di Tremonti. Ma quando alla crisi delle classi dirigenti si somma il caos della sinistra il rischio è di essere trascinati via tutti.

Può questo rischio trasformarsi in occasione? Questa è a mio avviso la domanda vera. Credo che sì, per l'ampiezza dei soggetti coinvolti e per la profondità non solo materiale e pecuniaria del disastro ma appunto intellettuale e morale - non è per caso che all'apatia culturale dell'Occidente ormai non si oppongano che nazionalismi o fondamentalismi.

Ma nel medio termine temo che non si possa dare una parola d'ordine rivoluzionaria, almeno nel senso che abbiamo dato a questa parola fino a poco tempo fa: l'esito del '68 dimostra quanto eravamo già arretrati e quel che è seguito all'89 impedisce anche ai più ostinati di sognare una riedizione dei socialismi reali. Ma la sofferenza sociale e l'ampiezza delle ineguaglianze sono diventate così forti da rendere fragile la stessa tenuta e coesione di ogni singolo paese. Non è con le riforme istituzionali che si può aggiustare la baracca. Potrebbe essere aggiustata, per difficile che sia, con una inversione di tendenza: un intervento che restituisca il primato alla politica piuttosto che ai meccanismi dell'economia, che dia luogo a linee di sviluppo, incluso uno «sviluppo di decrescita», che ridistribuisca la ricchezza a sfavore delle zone forti e a favore di quelle deboli, che decida il taglio dei privilegi sociali, il rilancio su un piano mondiale dei mercati interni (l'impossibilità di procedere del Wto parla chiaro).

Non sarà un'operazione indolore, ma può non essere impossibile. Chi non si ritroverebbe in questo progetto? Soltanto i boss delle stock option d'oro. Non sarà la rivoluzione, ma oggi come oggi sarebbe certamente una rivoluzione culturale.

Il terzo Governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo. Il fascismo, con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obbiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo assai circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni. Berlusconi invece non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza, quella del sistema liberaldemocratico, cui nessuno per trent'anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo: è il figlio naturale del craxismo; è il figlio naturale dell'affarismo democristiano ultima stagione (ben altri titoli d'onore si possono inscrivere nel blasone storico della Dc); è il figlio naturale dell'incapacità dimostrata nella politica in questo paese di rappresentare gli «interessi generali» e non quelli, inevitabilmente affaristici, anche quando non personalmente lucrativi, di piccoli gruppi autoreferenziali, che pensano solo a se stessi.

Berlusconi, dunque, prima che essere fattore di corruzione, nasce da una lunga, insistita, fortunata pratica della corruzione: rappresenta fedelmente la decadenza crescente del pianeta Italia; per forza di cose non sa che governare attraverso la corruzione: la diffonde spontaneamente intorno a sé; crea un vergognoso sistema giuridico per difendersi quando sia stato colto in passato con le mani nel sacco e per continuare a farlo impunemente; modella l'Italia secondo il suo sistema di valori e, man mano che l'Italia degrada, ne viene alimentato.

In un articolo apparso sul Corriere della sera (13 luglio), come al solito intelligente ed acuto, Ernesto Galli della Loggia se la prende con il «moralismo in un paese solo», che sarebbe il nostro e che consisterebbe nel pensare che «L'Italia che politicamente non ci piace è fatta di gente moralmente ottusa guidata da un malandrino». L'accusa di moralismo astratto e vaniloquente - Galli della Loggia con la sua intelligenza dovrebbe ammetterlo - sarebbe molto meno pungente se la situazione italiana fosse quella da lui descritta. Insomma, il moralismo vano è fastidioso (lo dico con cognizione di causa, avendo studiato a lungo, e con analogo rigetto, gli antigiolittiani). Però alla lunga può diventare ancor più fastidioso che i critici del moralismo non ci dicano se al centro del problema non ci sia la corruzione dominante, e insieme con questa il suo principale rappresentante e beneficiario.

Per corruzione non intendo soltanto, e neanche principalmente, l'appropriazione indebita di denaro pubblico e privato e il culto quasi parossistico del proprio interesse personale: ma la degenerazione del sistema dentro cui il gioco politico, sempre più solo formalmente, continua a svilupparsi: il malcelato disprezzo della Carta costituzionale; l'evidente estraneità alle «forme» (cioè alla «sostanza») della democrazia; la denegazione crescente della separazione dei poteri; l'incapacità dei politici - tutti - di sottrarsi al gioco mortale della pura autoriproduzione; la tendenza in atto a sottomettere tutto a un potere unico. E accanto a questo, la pulsione - per usare una vecchia ma non del tutto inadeguata terminologia - a connotare in senso sempre più ferocemente classista i valori cosiddetti condivisi della morale pubblica e le scelte di politica economica.

È altresì evidente, come giustamente osserva Galli della Loggia, che vedere le cose in questo modo significa mettere all'ordine del giorno anche una riflessione sullo stato attuale della «democrazia rappresentativa» in Italia. Se infatti è per il voto degli elettori italiani che questo scempio può continuare ad ingrandirsi, questo non ci autorizzerà a buttare a mare per intero il sistema ma neanche a giustificare o ignorare lo scempio perché è il voto popolare, fatto in sé astrattamente positivo, a convalidarlo e produrlo. Se, ripeto, le cose stanno così, è evidente che c'è qualcosa (parecchio?) da cambiare o da aggiustare.

Arrivo a una prima conclusione. Io mi sentirei di dire che questo è uno dei momenti della storia italiana in cui «questione sociale» e «questione nazionale» fittamente s'intrecciano, fino a costituire un unico «nodo di problemi» da affrontare insieme. Questo vuol dire che il bisogno di «unità», per quanto tormentato e difficile, è altissimo. Uno degli errori strategici più gravi che si siano commessi nel corso dell'ultimo ventennio è l'essere andati separati - riformisti e radicali - alle ultime elezioni: gli uni, vantandosene come della scoperta del secolo; gli altri, consentendovi con pallida e autolesionistica tracotanza.

Per affrontare questo «nodo di problemi» è fin troppo evidente che le forze politiche dell'attuale opposizione risultano inadeguate. Perché la difficoltà attuale sia superata bisognerebbe che tutte le forze interessate, sia pure da angoli visuali diversi, guardassero fin d'ora a questo traguardo: sto parlando dunque di un processo, non di un arrangiamento fra capi e capetti.

Del Pd non saprei che dire se non che dovrebbe imparare presto a far bene il suo mestiere, che sarebbe quello, se non erro, di un partito moderato che guarda a sinistra (perché se decidesse, da partito moderato, di guardare a destra, il berlusconismo oggi tanto deprecato ci apparirebbe solo una tappa verso precipizi ancora peggiori). Sulla sinistra, che c'è e non c'è, e che in mancanza di altro si dilania, mi sentirei di fare alcune considerazioni di massima.

Il recente congresso di Rifondazione comunista ha avuto il merito di separare più nettamente che in passato i «comunisti» da tutti gli altri. I «comunisti» - per carità, bravissimi compagni, con cui non sarà impossibile mantenere rapporti - vanno per una loro strada, che non porta da nessuna parte. E gli altri? Gli altri dovrebbero porre alla base del loro futuro quel profondo ragionamento critico e autocritico, che finora è mancato e che lo stesso Bertinotti, se si escludono gli ultimi, disperatissimi mesi pre-elettorali, ha accuratamente evitato di affrontare. La cosa riguarda nello stesso modo l'intera galassia di quella parte della realtà politica italiana (che esiste, e come), la quale non s'adatta né alla formula corruttiva berlusconiana né all'opposizione moderata del Pd né alle risposte, piene di pathos, ma programmaticamente e ideologicamente assai deboli del dipietrismo (e di altri fenomeni analoghi ma deteriori).

Se mai ci sarà una Costituente di sinistra (come io mi auguro), mi piacerebbe che i suoi promotori tenessero conto che esistono tre comparti di problemi, uno programmatico, uno strategico e l'altro organizzativo, con cui - quali che siano le soluzioni da proporre - non si dovrebbe evitare di confrontarsi.

Il comparto programmatico è di gran lunga il più importante, ma qui posso evocarne solo il principio ispirativo. Se non si è comunisti, si è riformisti: bisogna accettare l'inevitabilità di questo décalage storico. Ma ci sono molte forme di riformismo: e ciò che le distingue è il programma (di cui non c'è traccia alcuna nei recenti dibattiti, anche quelli congressuali!).

Quella cui io penso è una forma molto radicale di riformismo, che preme su tutti i gangli della vita sociale, va più in là, s'occupa in modo più generale della «vita», delle collettività ma anche di ognuno di noi individualmente inteso, e propone soluzioni che spostano i rapporti di forza. Il cambiamento è in atto da quando lo si inizia, non c'è bisogno di arrivare al risultato finale per conoscerne tutti gli effetti. Dal punto di vista strategico non si potrà fare a meno di comporre in un quadro unitario «questione sociale» e «questione ambientale».

La cosa, se si entra nel merito, è tutt'altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s'è vista ma neanche s'è visto un militante ecologista capace di «pensare» la «questione sociale» contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall'intreccio del «rosso» e del «verde».

Infine: se qualcuno pensa che la crisi della sinistra si risolva creando un nuovo piccolo partito dei frantumi dei vecchi, farebbe bene a cambiare opinione il più presto possibile. Ciò a cui sembra opportuno pensare è un vasto e persino eterogeneo movimento di forze reali, che sta dentro e fuori i vecchi partiti e per il quale vale la parola d'ordine che l'unica organizzazione possibile è l'autorganizzazione: una rete di istanze e rappresentanze diverse, collegate strategicamente e non gerarchicamente, che assorba e rivitalizzi le vecchie forze piuttosto che viceversa.

Certo, perché il discorso funzioni è necessario ammettere che tutte le volte in cui in Italia si riaffaccia una «questione morale» - cioè, come ho cercato di spiegare, un problema di degrado e di corruzione della vita pubblica e della democrazia - torna ad affiancarlesi l'ancora più stantia e veramente obsoleta parola d'ordine di una «rivoluzione intellettuale e morale». È questo cui pensiamo quando diciamo che la lotta al berlusconismo è al tempo stesso «questione sociale» e «questione nazionale»? Siamo retro al punto di rispondere tranquillamente di sì a questa domanda. In fondo tutto si riduce a questa semplicissima prospettiva: cambiare i tempi, i modi, le forme, i valori, i protagonisti dell'agire politico in Italia. Il resto verrà da sé.

«Per la componente mainstream della tradizione comunista, il fare (e quindi la politica) non ammette incertezze sui presupposti fondamentali. Si è trattato di una vera e propria fede ideologica nella capacità e possibilità dell'azione umana di fabbricare la realtà, di fare la storia. E l'imperativo del fare poggia sulla certezza delle proprie ragioni e sulla teologia secolarizzata dei fini». Così in passato. Oggi, invece, «Nella disfatta elettorale della sinistra convergono ragioni e processi diversi. Tra questi, l'appannarsi di un pensiero che offra un'autonoma lettura della realtà, e tragga da qui senso ed efficacia dell'agire politico». In altre parole: dall'ideologia basata sulla «certezza dei presupposti» e degli obiettivi a un vuoto di senso sospeso su una base culturale incerta e su una prospettiva opaca. Si può e si deve leggere anche così l'attuale precipitazione della crisi della sinistra - fatta salva l'avvertenza, non secondaria, che la storia della sinistra italiana non coincide con quella della componente mainstream della cultura comunista, né con le sue certezze ideologiche e relativi scacchi. Ed è in questo scarto fra le certezze di ieri e le incertezze di oggi che guarda il testo elaborato da Maria Luisa Boccia, Giacomo Marramao e Aldo Tortorella (Pensare a sinistra. Proposte in forma di appunti) come traccia di discussione per il seminario che si tiene oggi e domani a Firenze. Una traccia aperta, in progress, che ben si addice alla pratica di aggregazione «a rete» propria del laboratorio «Pensare a sinistra». E che si segnala, fra le svariate riflessioni che punteggiano l'elaborazione della sconfitta, per un deciso spostamento dell'ordine del discorso che propone, e per alcuni intrecci che finalmente opera, primi fra tutti quello fra il livello culturale e il livello politico della sconfitta e quello fra la crisi della politica e la crisi del patriarcato e delle relazioni fra i sessi.

Porre in primo piano il livello culturale è tanto più necessario in quanto, come il testo argomenta, la sinistra di oggi non si trova ad avere a che fare con un vuoto, ma al contrario con un eccesso di sapere - «tanti saperi, tante analisi e conoscenze, ricche e competenti» - che però non orienta e non aggrega, e al contrario tende a segmentare e diasporare quello che chiamiamo sinistra: nome peraltro ormai incerto, come tutte le voci del suo vocabolario, da «lavoro, uguaglianza, libertà, differenza, diritti, pace, giustizia» a «capitalismo, democrazia, patriarcato, globalizzazione, laicità, etica, potere» a «comunismo/socialismo, pacifismo, ambientaliso, femminismo, culture glbqt, altermondialismo». Riconoscere che i significati di queste parole sono diventati incerti è già un primo passo per spiegare la «strana miscela di ovvietà ed enigmaticità» che sembra avvolgere oggi i discorsi della sinistra. Il che non comporta, sottolineano Boccia, Marramao e Tortorella, né l'accettazione della cultura del frammento, né viceversa l'evocazione nostalgica di una ormai impossibile sintesi unitaria. Occorre piuttosto salvare la costruzione di senso dando «al pensiero e al liguaggio una forma aperta e radicata nell'esperienza», ritrovando la capacità perduta di lettura della complessità sociale e delle connessoni d'insieme.

Il testo ci prova inoltrandosi nell'analisi di alcuni capitoli cruciali - capitalismo, globalizzazione, proprietà, liberismo, economia della conoscenza, lavoro, desiderio, consumo, violenza, democrazia - e proponendo per ciascuno di essi significative correzioni rispetto alle analisi correnti. Si tratta, ad esempio, di restituire al termine capitalismo il significato marxiano di rapporto sociale, di distinguere l'analisi del capitalismo contemporaneo da quella delle dinamiche storiche e culturali della globalizzazione, di guardarsi dall'assimilare i modi di produzione asiatici al capitalismo occidentale. Di articolare l'analisi del neoliberismo - per più di un decennio parola pass-partout della sinistra critica - rispetto al liberalismo e alla libertà, o meglio al «consumo di libertà», che la governamentalità liberale analizzata da Foucault comporta. Di reimpostare dalle fondamenta l'analisi del lavoro leggendo la sua femminilizzazione non come un particolare aggiuntivo ma come un cambio di paradigma che domanda un cambio di strategia per le donne e per gli uomini. Di riportare al lavoro, e al conflitto nel lavoro, l'attenzione da troppo tempo spostata sulla redistribuzione statale e sul tamponamento per via legislativa delle disuguaglianze. E ancora, di leggere l'egemonia dell'economia politica liberal-liberista in relazione alla mobilitazione e al consumo del desiderio di cui è capace. Di confrontarsi con l'economia della conoscenza con la consapevolezza che «oggi il senso è prodotto da un'industria, e produce plusvalore», il che modifica le analisi del passato sull'egemonia e sulla produzione di ideologia. Di aprirsi a una critica della democrazia che interrompa quella recitazione di sinistra del mantra democratico che non impedisce, come sappiamo dalla cronaca quotidiana, la degenerazione costante della democrazia reale e il capovolgimento delle sue promesse.

Per ciascuno di questi capitoli il testo fornisce una traccia importante di approfondimento. Due tuttavia sembrano i punti di particolare rilevanza per lo spostamento di metodo che suggeriscono. Il primo riguarda l'analisi della «violenza simbolica», ovvero di quella violenza implicita nella norma che garantisce la (relativa) stabilità e l'interiorizzazione dell'ordine simbolico come ordine «naturale»: qui il lavoro femminista sul simbolico torna prezioso, tanto più in un contesto in cui il patriarcato tenta di reagire alla propria crisi (o fine) indotta dalla libertà femminile con un rigurgito di violenza fra gli uomini e degli uomini sulle donne. Il secondo riguarda la scollatura fra dimensione simbolica e dimensione materiale che ha depotenziato il discorso della sinistra dagli anni '70 (ovvero dall'avvento del femminismo) in poi, scollatura da suturare tanto più in un momento in cui la destra marcia precisamente sull'incollatura fra le due dimensioni, come dimostra il suo discorso sull'insicurezza. Ma ricomporre materialità e simbolico altro non significa che ritrovare il nesso perduto fra obiettivi e soggettività, fini ed esperienza, progetto e narrazione. Rimettendo in funzione il circolo prezioso del lingaggio: saper ascoltare, e saper parlare.

«C'è un compito politico che ci impone, nel tempo medio, di chiudere il dopo '89. Che vuol dire superare la dispora che ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in avanti». Il senso della proposta di Mario Tronti all'Assemblea del Crs di ieri e ai molti ospiti eccellenti presenti in rappresentanza dei vari spezzoni della sinistra, da D'Alema a Bettini, da Mussi a Alfonso Gianni a Cuperlo, si può sintetizzare in questa citazione. E' una proposta politica, che «nel tempo medio» comporta una ristrutturazione del campo, oltre quella divaricazione fra un partito di centrosinistra moderato e un'aggregazione della sinistra radicale che è l'esito attuale del processo iniziato con la svolta del Pci dell'89. Ma è anche una proposta culturale, che fin da subito comporta una tematizzazione di lungo periodo della crisi della sinistra tutt'intera nel contesto storico e internazionale, e uno scatto antidepressivo per uscirne. Malgrado la sconfitta infatti, sostiene Tronti, «questo è un momento favorevole, perché c'è un cambio di fase» che domanda iniziativa. Si è esaurito il ciclo neoliberista, avviato dalla Trilateral nel '73, proseguito con Thatcher e Reagan negli anni 80, con la globalizzazione selvaggia nei '90 e con la rivoluzione conservatrice dei neocons negli Usa di Bush jr. E si è esaurito anche l'esperimento della «terza via» blairiana, «tentativo subalterno» delle sinistre occidentali di competere con l'egemonia liberista facendosi centro. Sul campo, fra le macerie, resta l'esigenza di ricostruire «una sinistra moderna, autonoma, critica, autorevole, popolare» che contrasti la destra «democratica e illiberale», non fascista o autoritaria, sedimentatasi in Italia dal '94 a oggi. Come, Tronti l''aveva già scritto nelle «Undici tesi dopo lo tsunami» del Crs (www.centroriformastato.it) e lo riarticola di fronte all'Assemblea: rilanciando il primato della politica sulla società, puntando cioè a «fare società con la politica» e non a rincorrere populisticamente gli umori e le viscere del sociale, convincedosi che è solo con «l'organizzazione del conflitto sociale, della lotta politica, della battaglia culturale» che si può di nuovo conoscere quella società che il risultato elettorale ci consegna opaca e distante. E ancora: ricostruendo delle elite politiche, contro il populismo di destra e la dequalificazione del ceto politico di destra e di sinistra; riformando rappresentanza e decisione, contro la deriva presidenzialista; associando alla «guerra di posizione» nello scenario nazionale stagnante una «guerra di movimento» nello scenario mondiale in trasformazione.

Resta aperta, per Tronti, l'alternativa tra fare «un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra». Che non è, s'intende, un gioco di parole. L'una e l'altra ipotesi, del resto, sono appunto da «tempo medio» e non sono realisticamente a portata di mano oggi o domani mattina: D'Alema sosterrà che la strada del Pd, «grande partito riformista di centro sinistra», è tracciata, Cuperlo che «la sua implosione sarebbe oggi un danno drammatico», ma entrambi insisteranno su una politica di alleanze a sinistra che archivi le velleità di autosufficienza del Pd, di cui Goffredo Bettini archivia peraltro qualcosa di più, la rincorsa della destra sulla «inciviltà» del mercato senza politica. Prevedibilmente, d'altro canto, risposte positive alla traccia di Tronti arrivano da Mussi e da Alfonso Gianni. Ma aldilà, o forse al di qua, dei passi politici più o meno cauti e felpati, incerti o paralizzati, qualcosa si mette finalmente in moto, e secondo linee non scontate, nella discussione del dopo-sconfitta, se è vero che, come sintetizza Cuperlo, la giornata mette sul tavolo «questioni che da anni abbiamo scelto colpevolmente di rimuovere». E restituisce, come dice Beppe Vacca proponendo un seguito della discussione, «una dimensione temporale, storica e teorica dei problemi che nessuna sede politica da sola è in grado di ordinare». Questione di cultura politica, prima che di agenda politica. Senza la quale, denuncia Alfredo Reichlin, il Pd, nel quale lui pure continua a credere, non fa «il salto di qualità» necessario a uscire dallo «spiazzamento» che lo accomuna alla sinistra europea. Manca qualcosa? Sì, dice Aldo Bonomi, un'analisi sociale della «fabbrica a cielo aperto» che ridisloca sul territorio glocal il conflitto capitale-lavoro. E certo, uno sguardo capace di uscire dal campo limitato del ceto politico della transizione, e di imparare qualcosa dalle esperienze di movimento che - vecchio vizio di partito - tutti oggi, da D'Alema a Bertinotti allo stesso Tronti, trascinano nell'orbita della sconfitta. Ma l'aria riprende a circolare. Non è poco.

«Dopo lo tsunami». Tutti uniti dal Crs, per un giorno

Come si riapre una «prospettiva di ricostruzione di un grande sinistra moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare». Domandone del secolo nuovo, non solo alle nostre latitudini, quello che ha posto il filosofo Mario Tronti. E voglia di ragionare intorno all'argomento, c'è. Per lo meno tra i politici e gli intellettuali che si sono riuniti ieri all'assemblea annuale dal Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato. Parterre d'altri tempi, passati. Qualcuno si augura futuri. Tra gli altri, Massimo D'Alema, Fabio Mussi, Alfonso Gianni, Pierluigi Bersani, Goffredo Bettini, Alfredo Reichlin, Miriam Mafai, Giuseppe Vacca. Tronti, presidente del Crs, ha svolto la sua relazione, quella delle '11 tesi dopo lo tsnunami'(vedi manifesto dell'11 giugno) e ha invitato a «chiudere il dopo '89, superare la diaspora che ha diviso la sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in avanti». Ora serve, ha detto, «riprendere la strada dritta e lunga. La cosa che lascerei in dubbio è se fare un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra». Ma il percorso è lungo, e la polemica con il Pd lo sta a testimoniare. Per Fabio Mussi quel partito è «l'ultimo atto della piece della crisi della sinistra», perché «l'idea che si dovesse occupare il centro è stata una idea sbagliata». Quindi, «bisogna lavorare per organizzare nella società e in parlamento una opposizione che si rispetti, poi a modificare il quadro politico per aprire un nuovo spazio per una sinistra moderna, popolare, autorevole». Per l'opposizione Pierluigi Bersani ha invitato a guardare al «tema del progetto, perché se vinci vinci da tutte le parti, anche al centro. Il che però non significa che non sei in un posto. Per me - ha aggiunto - è possibile avere un soggetto politico di una grande sinistra democratica che tolga il trattino del centrosinistra e che dica cose nuove». Alfonso Gianni, Prc, ha sottolineato che «la sinistra è un progetto politico, perché la politica deve parlare alla società, ed è per questo che un progetto politico serve. Ma è strano che chi, invece, dice che la sinistra esiste in natura poi la espelle dal proprio nome». Oggi, ha proseguito - tutti quelli che vogliono un cambiamento del sistema hanno il dovere di creare un nuovo soggetto, sapendo che le forze esistenti, di tutte le cromature, non sono sufficienti».

Della fine dell'illusione dell'autosufficienza ha parlato anche Massimo D'Alema, semnza risparmiare critiche all'indirizzo della prima gestione del Pd. «Non abbiamo avuto la forza di condurre a esito la transizione, il coraggio di fare innovazione politica». Però, visto che la destra è fragile e comunque ben lungi dall'aver vinto la partita, l'opposizione ha ancora più motivi per organizzarsi. «Adesso si sta creando, io spero che si crei, un grande partito riformista di centrosinistra. Ce n'era bisogno in Italia, purché questo non pensi di essere autosufficiente».

Attenzione a non confondersi dietro Berlusconi. L'avvertimento di Mario Tronti arriva alla vigilia dell'assemblea del Crs nel momento in cui torna alto l'allarme di tutta l'opposizione per le iniziative del premier e anche il Pd che si era aperto al dialogo strilla al «ritorno del caimano». Tronti obietta: «Non ci sarà un passaggio di regime. Berlusconi è sempre lo stesso, le sue iniziative fanno molto rumore però poi vengono recuperate nell'andamento lento delle cose, il problema è non confondersi, è capire bene cosa è questa nuova, antica destra che si afferma in Europa».

Non c'è un caso italiano?

In Italia abbiamo di fronte questo personaggio con i suoi interessi personali, ma quando il ceto politico si misura soltanto sulla sua persona ci fa perdere di vista l'analisi di fondo. Berlusconi è un animale politico di una certa capacità intuitiva e ha improvvisamente tagliato i ponti con Veltroni per tornare sul terreno che predilige. Se non ci fosse questo antiberlusconismo enfatizzato fino al limite del dramma italiano la sua figura verrebbe ridimensionata e probabilmente verrebbe fuori un discorso di destra più profondo che potrebbe persino emarginarlo.

Destra italiana senza Berlusconi?

La destra è un dato organico che adesso si trova a una svolta. Il ciclo neo liberista è arrivato a conclusione e torna una destra più tradizionale, neoconservatrice. E la destra italiana si sta compattando. Ha molte delle caratteristiche della destra mondiale, a prescindere da Berlusconi. Una delle spie è la personalità di Tremonti. La destra sociale che pensavamo fosse una piccola porzione post fascista diventa invece una caratteristica della destra nel suo complesso. Di fronte a questa destra profonda c'è una sinistra leggera, dunque non c'è partita.

E gli operai votano Lega?

Su questo ho sentito troppi ragionamenti semplificatori. Come se il problema fosse quello di capire e non di spostare il voto di questi operai. La politica, dicono tutti, deve ascoltare, capire. Seconde me deve soprattutto parlare, dare risposte e intervenire. Se non lo fa la società si autogoverna ed è tanto peggio per chi vuole cambiarla.

Guardare al sociale è però uno slogan molto in voga nella sinistra uscita con le ossa rotta dalle elezioni. E anche il Pd vuole «tornare al territorio».

Il Pd e le formazioni che gli sono alla sinistra hanno peccato della stessa mancanza di iniziativa, sono stati incapaci di far parlare la politica. Sono rimasti chiusi in un'idea passiva della rappresentanza che magari era possibile quando avevi già nella società le grandi classi con una loro sostanza strutturale e dunque grandi interessi. Si possono rappresentare solo i grandi interessi, i piccoli bisogna orientarli e correggerne il particolarismo. Tornare al territorio è una scappatoia nel senso che non si tratta di rispondere ai singoli territori ma di riacchiappare tutto interpretandolo creativamente.

Un partito nazionale che sappia far parlare la politica con un'idea precisa della società. Vasto programma di fronte alle macerie elettorali.

Paradossalmente è un momento favorevole. Sono cadute le due illusioni che hanno dettato l'ordine del giorno della politica di sinistra negli ultimi venti anni. E' caduta l'illusione delle terza via tra sinistra e destra, con il suo ideatore Blair ma anche con il suo epigono tedesco Schroeder. L'idea che la sinistra dovesse farsi centro per gestire il ciclo neoliberista meglio della destra mi pare esaurita anche negli Usa, Obama non è Bill Clinton. Anche lì finisce la competizione al centro e le primarie indicano una polarizzante divaricazione.

Destra e sinistra categorie «emergenti»?

Per questo il partito democratico in Italia è arrivato fuori fase. Quando la fase in cui poteva essere protagonista è già passata e questo è il motivo per cui il progetto non marcia, anzi mi pare di vederlo già al capolinea.

L'altra illusione crollata?

E' finita la fase neomovimentista. Durante la quale l'egemonia culturale nella sinistra radicale era esercitata dal movimento no global. E' finita proprio perché è finita la fase neoliberista e la contrapposizione tra movimenti e grandi organismi economico finanziari mondiali non si ripropone. Anzi, ora c'è di fronte una destra neo conservatrice che torna a fare politica, contesta lei stessa l'autorità di questi organismi internazionali, torna protezionista.

Se è così, e se davvero il Pd è al capolinea, si può ipotizzare una ricomposizione a sinistra?

Si riapre un tema grande. Perché in questo paese non c'è più una forza che si dichiara di sinistra? L'anomalia italiana del più forte partito comunista dell'occidente finisce nel suo contrario. E' un problema che devono porsi tutti, sia quelli che stanno nel Pd sia quelli che stanno alla sua sinistra. La soluzione non può essere rimettere insieme i pezzetti di una piccola sinistra, ma ricomporre una forza politica a vocazione maggioritaria.

Cioè tu dici che dalle elezioni è uscita sconfitta l'illusione del fare da soli, non solo del Pd ma anche della sinistra di alternativa?

La sinistra alternativa non può concedersi il lusso di essere minoritaria. Tra l'altro è contro la nostra tradizione vorrei dire bolscevica. E non serve a fare gli interessi della nostra parte, l'operaio è costretto a votare per la Lega.

Ma l'idea di ricomporre la sinistra con un pezzo del Pd pare fuori dall'orizzonte politico. Anche i meglio disposti tra i democratici - D'Alema è annunciato all'assemblea del Crs - non si spingono oltre l'auspicio di nuove alleanze.

Non è un processo di breve periodo e per il momento credo sia giusto passare da una fase di aggregazione della sinistra, giusto incoraggiare chi ci sta tentando come Vendola dentro Rifondazione. Ma io credo che sarebbe sbagliato considerare questo soggetto unitario della sinistra come autonomo per i prossimi decenni di fronte a un Pd centrista. Questa nuova formazione di sinistra dovrebbe invece avere un ruolo per spostare gli equilibri interni del Pd in modo tale che si riapra il processo. E' una prospettiva, lo ripeto, che non esclude affatto che intanto si componga un soggetto di sinistra. Ma non bisogna considerarlo un approdo definitivo. Sarà quello che è oggi il Pd, una tappa.

.

Scrivere oggi domenica 13 aprile, a meno di 24 ore dai risultati delle elezioni, è scrivere non al buio ma in una fitta penombra. Non al buio perché le possibilità non sono molte, arriveranno in testa Veltroni o Berlusconi, e la sinistra sulla quale la maggioranza di noi punta misurerà la sua consistenza. Ma ci sarà una grande differenza se Berlusconi vince solidamente, Veltroni non ce la fa e la sinistra non raggiunge il fatidico 8 per cento che questa legge elettorale impone, oppure se Veltroni ce la fa e la Sinistra Arcobaleno si consolida su quella frontiera. E un'altra negativa differenza se Veltroni ce la facesse ma la sinistra restasse esclusa dalla scena istituzionale.

Nel primo caso vorrebbe dire che la destra più rozza dell'Europa occidentale s'è impadronita della mente degli italiani, facendo del nostro un paese egoista e miope, nel quale ognuno si è chiuso in quel che crede il suo interesse più immediato mentre d'una democrazia decente più nulla importa; nel secondo caso, se Veltroni la spunta con infinitamente meno mezzi del suo avversario, significa che l'Italia si attesta sugli spalti d'una democrazia moderata ma ancora praticabile e che una sinistra, minoritaria ma ragionata e consistente, può interpellare e incalzare. Se invece questa sinistra scomparisse dalla scena, vorrebbe dire che l'americanizzazione è andata così avanti, che qualsiasi spinta avanzata all'interno di una egemonia liberista sarebbe ridotta al silenzio e alla marginalità.

L'arretramento è già stato grave e la discesa dura da rimontare. Quanto resta del paese che era stato il più interessante e inconcluso d'Europa fino a quasi quaranta anni fa? Per questo ci siamo battuti contro l'astensionismo che oggi significa non l'ennesima protesta ma la prova d'una immaturità e rancorosa impotenza, dalle quali qualsiasi società non solo non procede ma rischia guasti insanabili.

Non so se ce li saremmo meritati. Certo nessuno potrebbe dichiararsi innocente. Il fatto stesso che siamo oggi a questo rischio, per la prima volta dal 1945, ci costringe a chiederci perché siamo arrivati a tanto e verificare i nostri strumenti, le storie e gli obiettivi. E' un'urgenza, qualunque sia il risultato di queste elezioni; anche se si dovesse verificare l'ipotesi più favorevole. Resterebbe comunque che quasi metà degli italiani guarda a una destra senza più remore, neanche elementarmente antifasciste, e che a una generosa conflittualità sociale s'è sostituito in gran parte dell'elettorato, in forme diverse, un modello di ineguaglianze e marginalizzioni, giudicato inevitabile. Siamo già oltre la società dei due terzi che qualche decennio fa prevedeva - e non ci pareva possibile - il socialdemocratico tedesco Peter Glotz.

Per questo alcuni di noi chiamano a confrontarsi subito con quella parte del paese che ha votato e fatto votare per la Sinistra Arcobaleno, in modo da mettere in atto subito un processo più allargato della somma delle sue sigle. Essa ha raccolto non una delega ma un voto che punta a qualcosa di più e che manca. E' fin evidente per quelle sensibilità diffuse che non stanno in una organizzazione, come la coscienza sempre più pressante del problema ecologico, che sta stretta in un partito per quanto valoroso, e li interpella tutti, e in tutta Europa. E' fin ovvio, ma più complicato, per le culture femministe, che non per caso non si danno una struttura di partito, e che dai partiti vengono regolarmente lusingate e offese; esse attengono a un conflitto millenario irrisolto, che si è affacciato con prepotenza a molte donne e inquieta l'altro sesso. E attraversano tutte le sigle e nessuna. Per ultimo non è altrettanto ovvia l'inquietudine e irresolutezza che attraversa tutto un popolo attorno al movimento operaio, che ha conosciuto vicende gloriose e scontri terribili e - salvo il rispetto per la corrente di Mussi, e i partiti di Diliberto e Bertinotti - non si riconosce nelle sigle di parte del Pci, del Pdci e di Rifondazione comunista. Che ci si appelli a una «identità» inequivoca per opporsi alla deriva dell'ex Pci, si può capire, ma è una posizione difensiva che non riesce a dar conto né della propria debolezza né delle innovazioni fin convulse impresse dal capitalismo diventato ormai il solo modo di produzione mondiale. E più che mai proteiforme e come sempre portatore di quella negazione assoluta dell'umano che è la guerra.

Questo è un problema per molti. Prendo ancora una volta un caso che conosco bene - il mio. Io sono una vecchia comunista, convinta della validità e dei limiti di quella critica del modo di produzione che è il marxismo. Da quando sono stata esclusa dal Pci e dopo la fine del Pdup ho sempre votato per una sinistra alternativa ma non ho mai aderito a una delle sue organizzazioni. Non per essermi convertita, ma al contrario per aver radicalizzato la mia riflessione sul conflitto sociale. E insieme per essere stata interpellata drasticamente come donna dal femminismo, e come essere (per quanto può) pensante dall'ecologia - due dimensioni delle quali la prima non stava nella mia formazione di emancipata, e la seconda non era ancora visibile sul volto del pianeta. Come non intrecciare queste tematiche nella sinistra alternativa che si auspica? Diciamo la verità, ora come ora al di là di qualche benintenzionato riconoscimento, ognuna di queste culture esclude l'altra dal proprio giardino.

Non si tratta di cattive volontà, penso, ma di paradigmi diversi che non si sono incrociati, salvo - e sembra assurdo - nella vita concreta di ciascuna e ciascuno: questa sì li ha incontrati, o vi è inciampata. La questione dei sessi, quella dell'ecosistema, e anche il dolore - come chiamarlo altrimenti - della lunga vicenda e poi sconfitta comunista. Da quando esiste ho votato Rifondazione, l'ho detto, ho stima per molti dei compagni che vi militano, ma non sono mai stata una di loro, perché neanche Rc, nella sua strada talvolta a zig zag, esprime tutte le urgenze «politiche» che il mondo mi scaraventa addosso. Né mi contenterebbero agevoli sommatorie; a fasi differenti e differenti paradigmi politici e culturali - i due piani non sono separabili - o fa fronte una rielaborazione che li assume e ne rompe la separatezza, o non c'è formula in grado di avere un reale impatto.

So bene che non sarà un lavoro facile, è un travaglio - come ogni volta che si cerca di imprimere una svolta dall'interno della ricchezza del vivente, senza tentare scorciatoie. Elaborazione è cosa diversa da una tesi proposta ai più da un gruppo o qualcuno di illuminato, ed è anche diversa dal suo reciproco, cioè un contenitore di voci che non si parlano. Di questa seconda cosa è diventato un esempio preclaro, spero di non offendere nessuno, il manifesto - non solo per un vizio ma anche per una virtù, non precludersi di essere una sonda nelle diversità che esplodevano dalla crisi dei comunismi (e non soltanto dall'89). Non nell'averle troppo sondate sta la debolezza nostra che, spero di nuovo di non offendere nessuno, è innegabile.

Per questo bisogna cominciare a confrontare tesi e ipotesi. Tenendo come obiettivo un fare, un intervento - anche se ogni tanto sarà un semilavorato - contro la tendenza alla catastrofe che si è riaffacciata. Vorrei non essere fraintesa né esprimermi in modo ingeneroso verso chi ha tirato in tempi difficili minoritarissime carrette. Dico soltanto, e non sommessamente, che stanchezze e depressioni o autogiustificazioni sono comprensibilissime, umanissime, eccetera, ma non è davvero il caso di proporre alla gente i risultati di incontri preliminari a porte chiuse, ciascun gruppo per sé, intento a partorire gruppi dirigenti divisi e paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Come la maionese impazzita, la sinistra non si coagulerà senza uno o più tuorli freschi. E molto olio di gomito.

So che, simile a una Cassandra - e le Cassandre, ahimé, finiscono male - sto scrivendo da un pezzo che non abbiamo molto tempo davanti a noi. Ma qualcuno mi dimostri che non siamo in affanno e ritirata. Ne vogliamo derivare qualche insegnamento? Vogliamo smettere di nobilmente miagolare sulla crisi della politica altrui e provarci nello sperimentarne noi forme diverse? Affrontando un percorso sicuramente accidentato ma tendendo almeno a sedimentare un corpo di analisi e progetti e azioni condivisi? Condivisi e non precludenti? Portandovi ogni esperienza, collettiva o personale, compiuta o in progress, pur che sia disposta a guardarsi in faccia ed esporsi. Partiti, sindacati, movimenti, culture, singoli che abbiano voglia, anzi bisogno, di parlarsi e ascoltarsi. Non c'è nessuno che non porti su di sé qualche livido, che non conosca l'amarezza di essere stato battuto. E magari qualche risentimento per ingiustizie patite. Ma francamente che cosa importa rispetto alle dimensioni dell'urgenza che ci sta davanti?

Quel che ci ha fatto mettere nell'urna in queste ore la stessa scheda, e senza soverchie illusioni semmai ne abbiamo avute, è che non abbiamo deposto le armi (della critica, tranquilli, sono una pacifista). Vadano in pace coloro che dichiarano la guerra finita. Saranno svegliati fin troppo presto.

© 2024 Eddyburg