Qualche osservazione. Prima. Dunque l'assassinio del nemico non è un opzione perseguita dalla sola Israele ma dalle Nazioni Unite e da queste trasmessa alla Nato nell'accordo di tutti i governi. Giovedì sera, nel caos di informazioni e disinformazioni sulla fine di Gheddafi, una cosa era certa, che Gheddafi è stato catturato, ferito, trascinato per strada, linciato e, già coperto di sangue, ucciso. Dai ribelli, con la benedizione del loro comando e il "via" della Nato e dell'Onu.
Qualche mese fa gli Stati Uniti avevano spedito un commando di addestrati alla demenza, a penetrare urlando nella casa dove l'alleato Pakistan ospitava Bin Laden, e ad ammazzarlo, infermo e inerme, in camera da letto, senza che potesse far un gesto. Tutto lo stato maggiore di Obama assisteva all'operazione, il commando essendo dotato di cineprese. Obama s'è rallegrato sia dell'uccisione sia dei rottweiler del comando speciale, e nessuno si è vergognato. Che terroristi e dittatori vadano ammazzati da prigionieri e senza processo deve essere un nuovo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Le virtuose democrazie danno licenza di uccidere piuttosto che consegnare i loro nemici al Tribunale penale internazionale, dove potrebbero rivelare i molti intrallazzi fatti assieme. Resta da qualche parte un lembo di diritto internazionale? Non lo vedo.
Seconda. Non credo da un pezzo, e l'ho scritto, alle dittature progressiste. Come il "socialismo di mercato", sono un ossimoro che anche il manifesto ha fatto proprio. Si dà il caso che io sia fra i fondatori di questo giornale, ed è fra noi una divergenza non da poco. Viene da lontano, dagli anni '60 e '70 quando abbiamo creduto che alcuni paesi, specie "arretrati", potessero svolgere un ruolo mondiale positivo con un regime interno indecente. Famoso l'assioma dei "due tempi": prima demoliamo i monopoli stranieri e poi vedremo con la democrazia. Fino a sembrare una variante del pensiero socialista, l'antimperialismo. Concetto sempre più confuso dopo lo sfascio dell'Urss, la Russia restando "altro" dal comando Usa, la Cina diventando un gigante del capitalismo mondiale con relativo supersfruttamento della manodopera, Cuba restando soltanto antiamericana perché, ha detto sobriamente Fidel Castro, il modello cubano non ha funzionato. Anche i regimi latino-americani sono in genere antimperialisti sì, socialisti no. Chissà che cosa vuol dire, in un mondo dove delle due superpotenze ne è rimasta una sola ma i candidati all'egemonia mondiale nei commerci, sulla schiena dei popoli propri e altrui, si moltiplicano. Non siamo ancora alle guerre commerciali ma alla corsa a chi arriva primo nella spartizione del bottino dei paesi terzi, diretti da qualche satrapo che ha preso l'eredità del colonialismo. Storie bizzarre di degenerazione, specie in Africa, dove diversi leader anticolonialisti, tolto di mezzo lo straniero, piuttosto che far crescere il loro paese si sono occupati di liquidare senza esitazione gli avversari interni.
Terza. Che una parte consistente dei relativi popoli sia venuta a sentirsi oppressa è non solo comprensibile ma giusto. Che nelle rivolte di una popolazione giovane, nella quale un pensiero politico non ha potuto circolare, si inseriscano le potenze predatrici esterne era da attendersi. Non è stata la sinistra ad abbattere i dittatori. Essa non abbatte più nessuno. La mancanza di un pensiero e una struttura capace di assicurarsi libertà politica e protezione sociale, si rivela drammatica una volta abbattuto o fuggito il "tiranno", perché c'è sempre un esercito, o una nuova borghesia, un vecchio fondamentalismo pronti a prenderne il posto. I popoli in rivolta sono presto spossessati, vedi Tunisia e Egitto.
L'Europa lo sa, ma di quel che succede sull'altra sponda del Mediterraneo si occupano gli affaristi, non i residui delle sinistre storiche né i germogli della sinistra nuova che cercano di emergere fuori dai muri delle istituzioni. Un vecchio amico ha protestato quando chiedevo che si riformasse qualcosa come le Brigate internazionali - ma che dici, la rivoluzione spagnola era una cosa seria, queste rivolte sono derisorie. Non ne sappiamo molto e ce ne importa ancora meno.
Anche noi abbiamo dovuto contare su alleati più potenti per abbattere il fascismo. Ma qualche struttura politica, qualche partito ha innervato la resistenza che ha potuto anche presentarsi alle forze alleate come possibile nucleo di una dirigenza democratica. Queste strutture politiche dovevamo aiutarle a formarsi, accompagnarle. Invece ieri sulla Tunisia, oggi sulla Libia, domani magari sulla Siria diamo i voti a chi sia il peggio: Gheddafi o la Nato? Il meglio ai non europei non appartiene.
Sconfitto è chi aveva capito da subito che non si poteva essere governati dalla ghenga che ha fatto i primi soldi derubando una ricca orfana indifesa e malata, continuando poi senza limite e ritegno
Su La Repubblica del 2 luglio, in anticipazione di un numero di Alfabeta2 dedicato agli sconfitti, Umberto Eco scrive: «È ancora materia di discussione chi siano stati i veri vincitori delle elezioni comunali, specie a Milano e Napoli. Quello che non ci si è chiesti abbastanza è chi siano gli sconfitti, perché ci si è arrestati all'evidenza più immediata, e cioè che chi ha subito la "sberla" sono stati Berlusconi e Bossi, il che è innegabile. Ma c' è qualcun altro che, se non sconfitto, dovrebbe sentirsi messo in causa dal risultato delle amministrative. Io ritengo che sia stato messo in causa, almeno come rappresentante eminente di una tendenza, Massimo D'Alema.»
Non sto a riprendere il lungo articolo ormai diventato quasi un oggetto di culto, se non per richiamare la tesi centrale e cioè che D'Alema (e con lui un certo modo di fare politica che ha caratterizzato la sinistra) negli ultimi vent'anni ha accumulato una serie davvero rimarchevole di sconfitte, in grazia delle quali il berlusconismo ha potuto compiere il suo devastante ciclo ventennale.
L'analisi di Eco è condivisibile e del resto non fa che riproporci con la usuale lucidità e penetrazione alcuni dei giudizi negativi che da tempo e da molte parti si esprimono sulla filosofia politica impersonata da D'Alema - e dal resto della leadership del Centrosinistra. Ma dissento decisamente dall'idea che D'Alema sia uno sconfitto. Gli sconfitti dell'ultimo ventennio (oltre agli italiani tutti, e oggi anche gli europei, che cominciano ad assaggiare l'amaro sale dei costi di questa devastazione) siamo noi, noi che costituiamo quella metà, e oltre, del paese che, da subito, aveva capito che non potevamo essere governati dalla ghenga che ha fatto i primi soldi derubando una ricca orfana indifesa e malata, continuando poi alla grande senza alcun limite e ritegno. Sconfitto è Prodi, con i pochi altri che si sono opposti al berlusconismo, continuando a operare per una Italia diversa e civile. Sconfitto è Fini che, sia pur tardivamente, ha cercato invano di costituire una destra vagamente legalitaria e quanti altri che condividevano progetti simili, alcuni sperando, con maggiore o minore buona fede e perspicacia, che Berlusconi e Bossi fossero gli araldi di tale "destra moderna" (ammesso e non concesso che questa dizione non sia, come io penso, un ossimoro). Ma d'Alema sconfitto non è: è uno dei vincitori, in questa era, vincitore per sé e per i suoi, alla grande, certo non per noi, ma pur sempre vincitore.
Lo storico futuro che guarderà a questo periodo troverà facilmente tre nomi che se la sono passata straordinariamente bene: Berlusconi, Bossi e D'Alema. Più una pletora di berluschini e dalemini che si sono divisi la torta durante il ventennio. Davvero d'Alema ha fatto qualcosa di percepibile e decisivo per contrastare Berlusconi e il suo regime? Qualche eroica battaglia in Parlamento e nel Paese? E quando? L'unica Grande Impresa, miseramente fallita, è stato il tentativo di fare un accordo con, non una battaglia contro il Caimano. Ogni mobilitazione è stata annacquata, assopita e disprezzata, come raccomandava il famoso preside del Maestro di Vigevano «quieta non movere, mota quietare». Chi si agitava veniva subito tacciato di «antiberlusconismo», «estremismo» e comunque di insipienza politica («Non possiamo raccontarci queste storie tardo-sessantottesche»). Perché, in vent'anni, la sola sapienza politica tollerata è stata quella di arrovellarsi su una equazione irresolubile, come quelle della quadratura del cerchio o del decimo problema di Hilbert, e cioè come fare una politica (e proiettare una immagine) sufficientemente di destra per conquistare l'elettorato di centro. Filosofia politica espressa con il massimo della lucidità da uno dei suoi maggiori teorici quando ha proposto ai milanesi di candidare contro la Moratti l'ex sindaco Albertini (a suo tempo personalmente scelto da Silvio Berlusconi con molta intelligenza politica, beninteso come candidato della destra).
Ma questa politica dell'acqua nel mortaio, che dura ancora oggi, nonostante importanti segni di cambiamento nel paese, la obbrobriosa agonia del berlusconismo e la catastrofe economica incombente, non è frutto di insipienza o ingenuità: è frutto di calcolo, perché ha permesso a D'Alema e a buona parte della dirigenza politica nazionale e locale del Centrosinistra, di prosperare serenamente per vent'anni, facendo i propri affari e accumulando potere.
Non mi riferisco qui ad affari sporchi, anche se dalla famosa battuta di Guido Rossi su Palazzo Chigi come merchant bank in poi i segni inquietanti si sono moltiplicati; non ho le conoscenze e la competenza di un Travaglio e non è comunque questo il profitto di cui parlo. Il profitto è tutto politico, finché c'è Berlusconi e fin che è in atto una sorta di drôle de guerre in cui si fa finta di combattere, ma tutte le volte che il regime è in difficoltà invece di suonare l'assalto si suona la ritirata (last but not least l'astensione sulle Province), non c'è bisogno di dire agli italiani cosa si farebbe se si va al governo, soprattutto, dio non voglia, se sull'onda di una ondata di indignazione popolare.
È una opposizione che disprezza (e teme) i movimenti e la società civile contrapponendoli ai partiti, come fa appunto D'Alema con sussiegosa altezzosità nel discorso di Gargonza. «Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali. E finora questo momento non si conoscono società democratiche che hanno potuto fare diversamente». Come è avvenuto per molte altre affermazioni apodittiche di questo leader, del tipo «La Lega è una costola della sinistra», anche questa cozza sonoramente contro l'evidenza dei fatti, ma che importa? Qualsiasi leader politico che avesse accumulato come D'Alema una serie tanto significativa di incontri poco felici con la realtà, si considererebbe sconfitto e, anche senza ritirarsi a vita privata, manifesterebbe qualche segno di umiltà; se però non fosse intimamente e fermamente convinto - e credo proprio che sia così - di essere lui il vero vincitore.
Caro Cervellati, non ho trovato un modo migliore di questa lettera aperta per dirle il dispiacere e lo sconcerto dopo il suo annuncio di votare Lega Nord alle prossime elezioni comunali di Bologna.
Sentimenti i miei che derivano dalla stima grande che le porto da circa 30 anni. Ero segretaria del pci di Lugo quando la incontrai per la prima volta assieme al sindaco di quella città, affidammo infatti a lei il progetto di restauro e recupero del teatro Rossini e non ce ne pentimmo perché lei restitui a noi e alla città un vero gioiello. Poi il mio impegno si spostò a Bologna e dopo a roma nella segreteria nazionale dei ds come responsabile ambiente e territorio e in parlamento. In quegli anni hanno lavorato con me Vezio De Lucia, Edoardo Salzano, Campos Venuti e molti altri e a qualche convegno nazionale di urbanistica ogni tanto abbiamo avuto il piacere della sua presenza. Cosi come nelle innumerevoli battaglie per contrastare i tanti condoni dell abusivismo fatti dai governi berlusconi/lega, e i tanti provvedimenti di deregolazione del governo del territorio. Io ho sempre letto i suoi articoli e i suoi libri,per me lei é un maestro. Mi sono studiata diversi dei suoi piani regolatori a partire da quello storico fatto a Bologna a quelli di molte altre città. E quando qualcuno degli amministratori locali chiedeva a me indicazione e pareri su quali fossero gli urbanisti che avevano più a cuore il nesso ambiente territorio e i temi centrali della sostenibilità e del recupero urbano il suo nome, assieme a quelli che ho citato prima, era sempre presente.
So bene che a Bologna il centro sinistra non fornisce, da tanti anni , prove brillanti e che ciò che é mancata di più é stata proprio un’idea della città, della mobilità, della qualità urbana. Conosco e condivido con lei i giudizi pesanti su alcune delle scelte fatte ( come il Civis) e anche io ho perso spesso le speranze perché non vedevo rinascita culturale,pensieri e progetti adeguati ad una città che tanto aveva saputo dire alle altre e precorrere riforme importanti con coraggio.
Ma basta la delusione per rivolgere il proprio voto ad una formazione politica come la Lega Nord? Lei ha parlato di fine delle ideologie e dunque di un voto che valuta solo il merito. Ed é appunto al merito che io cerco di stare. Anche se i principi per me sono importantissimi e non mi pare mai possibile metterli tra parentesi.
Ma torniamo al merito. A quello più recente. Quella Lega che lei sarebbe intenzionato a votare, proprio ieri, nel consiglio dei ministri ha dato il suo voto favorevole ( come sempre ha fatto su tutti i provvedimenti di questi anni) ad una norma che introduce di nuovo il silenzio assenso su un piano casa che ha tutti i difetti che sappiamo e ,cosa ancora più grave,alla privatizzazione per circa un secolo della gestione delle spiagge demaniali. Non posso pensare che lei non abbia sobbalzato come me nel leggere quei provvedimenti. Oltre a questo a me sembra che quella Lega che lei vorrebbe votare sia un partito solo apparentemente pragmatico.
Si possono forse ignorare la xenofobia, i proclami contro l unità nazionale, una idea niente affatto solidale della convivenza,le ronde antimmigrati? Per quanto io mi sforzi non riesco a trovare nulla che accomuni la sua visione della città, della pianificazione e la sua raffinata idea di recupero della nostra storia e dei nostri beni culturali ai proclami della Lega e alla sua pratica concreta.
Io ho continuato a fare politica in modi diversi in questi anni, non ho aderito al Pd che trovo ancora un partito indeterminato e senza slancio, e la politica ha deluso parecchio anche me. Ma ci sono momenti bui e bisogna saperli attraversare ,continuando a cercare e senza perdere la propria storia. Lei professore ne ha una, ed é una storia che a me pare segnata da principi,idee e progetti ( che in tante città ha saputo concretizzare) che nulla hanno a che vedere con la Lega Nord. Mi auguro che lei ci ripensi .Perchè questa sua decisione potrebbe alimentare, pur non volendolo, astensionismo e disinteresse, che purtroppo sono già molto estesi.
So bene che con questa lettera ho forse troppo pesantemente interferito su di una scelta che é solo sua,ma lei é stato ed é un punto di riferimento per tante e tanti che con il mio stesso sconcerto hanno letto la sua dichiarazione. Non potevo far finta di nulla. Non é nel mio carattere disinteressarmi. La saluto con la stima di sempre,che non verrà meno qualunque scelta lei decida di fare. cordialmente
Vedi qui l'intervista di Cervellati
È una notiziona.
«Beh...» .
Leggo il titolo di «ItaliaOggi» : «L’architetto rosso diventa verde» .
«E va bene, sì, ammetto possa essere una notizia il fatto che il sottoscritto, Pier Luigi Cervellati, assessore all’Urbanistica di Bologna fra il 1964 e il 1980, alle prossime elezioni amministrative voterà per il Manes Bernardini, candidato sindaco leghista...» .
Architetto, lei è stato molto di più di un assessore: lei è stato il più famoso e apprezzato urbanista del Pci, il creatore di quella Bologna pedonalizzata e vivibile, molto comunista e però anche molto ammirata, studiata, imitata...
«E adesso vuol sapere se a 74 anni sono diventato leghista? No, leghista no, perché su tanti temi, dall’immigrazione alla sicurezza, con quelli del Carroccio non mi trovo.
Ma poiché qui dobbiamo eleggere un sindaco, io penso che sia giunto il momento di andare al di là delle ideologie e di dare fiducia a un giovane di 38 anni, il Bernardini appunto, che, da tempo, con i fatti e con serietà, dimostra di avere a cuore le sorti di questa città, che vive un inesorabile declino culturale ed economico» .
Lei perciò pensa che...
«Io sono assolutamente deluso da ciò che ha combinato da questa parti, negli ultimi anni, il centrosinistra, prima con Cofferati e poi con Delbono... Vede, io sono un urbanista, e perciò sono sensibile ad alcune faccende. Una di queste è quella che riguarda quei giganteschi autobus Civis, quei filobus che dovrebbero essere a guida ottica e che rappresentano un follia per questa città, così grossi, difettosi, mostri d’acciaio che non risolvono il problema del traffico di Bologna e che rischiano solo di far venire giù, con terribili vibrazioni, le Due Torri.
Ecco: su questo problema, il Bernardini s’è impegnato, ci ha portato a Roma dai suoi amici ministri leghisti, insomma ha dimostrato di essere sensibile a un problema che, per i bolognesi, è grosso, serio» .
La Lega, tra la gente, come faceva il Pci. Sta pensando a questo, vero?
«Sì, sto pensando a questo. E senza un filo di nostalgia» .
Non ci credo.
«E invece deve crederci! È solo, tragicamente, un problema pratico. Il punto politico, si sarebbe detto una volta, è che la Lega affronta le questioni che riguardano la città, il bene comune, cercando di mettersi dalla parte del cittadino. Mi creda: questi della Lega ti ascoltano, cercano di capire, valutano con te, stanno con te. Mentre...» .
Continui, architetto.
«Ma no...» .
Ma sì.Coraggio.
«No, dico: vogliamo parlare di tutte quelle aree militari che nelle promesse degli anni passati sarebbero dovute diventare magnifici parchi verdi e che invece si sono tramutate o stanno per tramutarsi in grandi alberghi?» .
Lei, architetto, pone anche la questione del cosiddetto Passante Nord...
«Che non riguarda, è chiaro, il cuore di Bologna, ma che è un segnale preciso, enorme, di come si cementifichi la pianura con un’opera altamente inquinante, con manovre economiche poco chiare, con i privati che partecipano a un fantomatico "financial project"...» .
Questi suoi ragionamenti così gravi, in un momento in cui la segreteria del Pd è guidata dall’emiliano Bersani.
«Pensa forse che quando c’erano Veltroni e Cofferati fosse meglio? Vede, qui siamo ben oltre la questione morale: qui deve tornare ad essere centrale l’attenzione al territorio e a chi vi abita. E la sinistra, purtroppo, ha dimenticato come si fa» .
(Canta Francesco Guccini nell’ultima strofa della canzone «Bologna» : «Bologna ombelico di tutto/mi spingi ad un singhiozzo e ad un rutto/rimorso per quel che m’hai dato/che è quasi un ricordo/e in odor di passato...» ).
“Lavoro, ambiente, beni comuni, dimensione nazionale e internazionale del conflitto sociale, interazione con i movimenti, temi della laicità, della lotta all’ omofobia e al patriarcato”. A questo modo, il 31 marzo scorso, il direttore Dino Greco ha annunciato i contenuti che saranno asse portante della “nuova Liberazione”: una rielaborazione imposta da pesanti difficoltà finanziarie, che - se i risultati risponderanno ai propositi - promette anche un significativo rilancio della qualità del giornale.
Non c’è dubbio infatti che quanto annunciato come “pietra angolare attraverso cui guardare alla realtà” rappresenti un catalogo pressoché completo dei problemi più urgenti e decisivi per il mondo, attuale e futuro. Tanto che, se potessi permettermi un suggerimento, proporrei di sostituire le virgole con un trattino (lavoro – ambiente – beni comuni – ecc.) a evidenziare nel modo più cogente la stretta relazione, spesso anzi l’immediata reciprocità di determinazione, tra categorie politiche e sociali troppo spesso invece considerate e affrontate separatamente, come materie ognuna a sé stante, prive di qualsiasi nesso. Cosa d’altronde dovuta anche al fatto che non di rado le ragioni di questi rapporti sono frutto di mutamenti prodottisi negli ultimi decenni, non ancora recepiti come decisivi fattori della Politica, quali in realtà sono. Ciò che vale ad esempio per i rapporti tra la politica e i “movimenti” nati e impostisi negli ultimi decenni; o per le problematiche ambientali, di fatto nate con il modo di produzione industriale-capitalistico, che però solo nella seconda metà del secolo scorso hanno rivelato la loro crescente, distruttiva pericolosità; o ancora per i “beni comuni”, di cui solo il loro progressivo accaparramento e sfruttamento da parte dell’industria privata, secondo le logiche neoliberistiche universalmente vincenti, ha messo in luce il senso e il valore della loro legittima appartenenza alla collettività… E così via.
Ma il “trattino” di cui più avverto la necessità è quello tra “lavoro” e “ambiente”. “Produrre inquina,” scrive Joseph Stiglitz, che non è un “verde” né un simpatizzante di Rifondazione, ma un economista americano, il quale duramente stigmatizza alcuni gravi “peccati” del sistema socioeconomico attuale (dalla vergognosa distanza di remunerazione tra manager e operai, al fatto che nel nostro mondo sprecone esista più di un miliardo di affamati, ecc.) e però non si sogna di augurarsene la fine. E la cosa non stupisce. Stupisce invece (o almeno io da gran tempo ne stupisco) che le sinistre siano state, e continuino ad essere, così poco sensibili alle problematiche ambientali, mentre più di ogni altro avrebbero dovuto avvertirne la gravità: innanzitutto perché le prime vittime del fatto che “produrre inquina” sono i lavoratori di ogni categoria, e perché sono sempre i ceti più deboli a soffrire le conseguenze di alluvioni e dissesti ecologici di ogni sorta, a pagare per temperature che inaridiscono i campi, inquinamenti che azzerano la pescosità di fiumi e mari, distruzione sistematica di ecosistemi millenari in cui da sempre vivono, e così via. Di tutto questo il fatto che, nel programma della “nuova Liberazione”, l’ambiente figuri subito dopo il lavoro, indica finalmente (così almeno io leggo la cosa) un’adeguata consapevolezza. E ciò mi induce ad accennare alcune riflessioni, anch’esse riguardanti le sinistre, che da tempo vado considerando.
Più volte infatti mi sono domandata come mai le sinistre non abbiano sfruttato, o abbiano sfruttato solo in minima parte, a favore dei lavoratori ciò che il progresso scientifico e tecnologico avrebbe potuto consentire, mediante un utilizzo adeguato di “macchine” via via più capaci di sostituire il lavoro umano, non soltanto fisico ma in misura crescente anche mentale. Eppure la “liberazione del lavoro e dal lavoro”, da sempre è stato non solo sogno di grandi utopisti, ma obiettivo dichiarato dei padri del marxismo; poi recuperato negli anni Venti da Keynes con l’annuncio della prossima possibilità di soddisfare i nostri bisogni con tre ore di lavoro al giorno; e negli ultimi decenni fatto proprio, in difesa di una riduzione generalizzata degli orari, da economisti come Gorz e Napoleoni…
Tutto questo a sinistra è stato rimosso, o così pare. Di fatto soltanto (o in misura in assoluto prevalente) la paura della disoccupazione tecnologica ha finito per governare le scelte delle sinistre. “Creare lavoro” era l’insistito slogan degli anni Novanta, in presenza di una produzione in crescita cui l’occupazione non rispondeva più come in passato: assurdo paradossale proposito (non dovrebbe il lavoro essere la risposta a una domanda di merci o servizi?), che però parlava di una tendenziale omologazione delle scelte delle sinistre alle logiche neoliberistiche. In obbedienza a quell’imperativo della “crescita”, che da un lato andava dilapidando il patrimonio naturale e in modo irrecuperabile squilibrando gli ecosistemi, dall’altro induceva una pericolosa assimilazione dell’intero corpo sociale agli obiettivi del mercato e delle sue regole.
Non ho qui spazio per affrontare le singole tematiche indicate (come accennavo sopra) quali linee portanti della “nuova” Liberazione. Ma in qualche modo, quanto detto finora, pur nelle strettoie di una stringatissima sintesi, credo possa aprire un breve discorso relativo agli altri obiettivi indicati: in particolare per quanto riguarda la “dimensione nazionale e internazionale del conflitto sociale”. Perché in effetti la velocità e la molteplicità del mutamento prodottosi nel mondo negli ultimi decenni, si è realizzato nei termini di un vistoso squilibrio.
Ha creato infatti una crescente omologazione tra tutti i popoli del pianeta dal punto di vista economico, nei modi di una vera e propria “globalizzazione economica” ad immagine del capitalismo neoliberistico, nel trionfo di logiche iperconsumistiche a convivere con intollerabili povertà . Ha creato un’altrettanto vistosa “globalizzazione culturale”, insistentemente imposta dai mezzi di comunicazione di massa, cui sempre più faticosamente resistono antiche consuetudini di carattere eminentemente religioso, ma specie tra i giovani destinate a prossima estinzione. Manca invece ogni traccia di “globalizzazione politica”: di fatto in una sorta di dichiarata resa della politica al mercato, tra disuguaglianze sempre più intollerabili e sconquassi ecologici sempre più insostenibili.
Non toccherebbe alle sinistre di affrontare questo “problema dei problemi” e magari farsene carico? Non era il mondo la dimensione del marxismo? E non significa nulla che l’inno dei lavoratori si intitoli (ancora) “L’internazionale”?
Se la prima vittima della guerra è la verità, la seconda, nel caso della guerra che infuria in Libia, rischia di essere quel che ancora resta dell'unità della sinistra anticapitalista in Italia e in Europa. Mai come in questo caso le differenze di valutazione sono apparse profonde, sino a tramutarsi in una sorta di conflitto intestino. Vale la pena invece, proprio in occasione dell'appuntamento contro la guerra «umanitaria» del 2 aprile, di riflettere su questo stato di cose. Perché la mancanza di chiarezza può contribuire all'estinzione di un un campo di forze critiche e alla dissoluzione di culture politiche che in questi vent'anni hanno orientato la lotta dei movimenti contro le «guerre democratiche» e la cosiddetta globalizzazione neoliberista.
Parlando di una inversione di ruoli (la sinistra sarebbe diventata interventista, la destra pacifista) la stampa alimenta la confusione. Ovviamente le cose non stanno così. Il centrosinistra ha una lunga tradizione guerresca (sin dai primi anni Novanta, quando contribuisce alla elaborazione del «nuovo concetto strategico» che trasforma in chiave offensiva la politica estera italiana e che mira a fornire una formale legittimazione all'intervento armato nei Balcani) mentre il centrodestra non è per nulla contrario alla guerra (la Lega ha brontolato solo per rafforzare la propria immagine di baluardo della «Fortezza Europa»). Ma qualcosa di nuovo è effettivamente avvenuto da quando la crisi libica è precipitata, Gheddafi ha reagito militarmente alla rivolta e si è cominciato a parlare di un intervento armato dei Paesi occidentali.
Vent'anni fa le cose andarono diversamente. Quando Saddam Hussein invase il Kuwait, Norberto Bobbio si schierò a favore dell'intervento della coalizione internazionale, di cui faceva parte anche l'Italia. I suoi argomenti somigliavano a quelli di quanti ora approvano l'intervento occidentale. Come oggi Gheddafi, così ieri Saddam era il bandito, il tiranno. Come la Libia di Lockerbie, anche l'Iraq era uno «Stato canaglia». La presa di posizione di Bobbio - il quale, suppongo, ignorava i retroscena della crisi (il voltafaccia del Kuwait, che prima aveva sostenuto l'Iraq contro l'Iran e poi pretese l'immediata restituzione dei prestiti di guerra, e, soprattutto, la garanzia di non-interferenza fornita a Saddam dagli Stati Uniti in caso di invasione del vicino) - fornì una patente di legittimità all'intervento (la prima guerra dell'era post-bipolare, motivata dall'esigenza di ristabilire la «legalità internazionale» e non dalla necessità di fermare l'avanzata del comunismo), destò scalpore e provocò divisioni anche tra i suoi allievi diretti. Ma vent'anni fa la sinistra critica fu sostanzialmente compatta contro quella tragedia (nessuno saprà mai quanti civili caddero sotto le bombe di Desert storm e quanti soldati iracheni finirono sepolti vivi nelle trincee spianate dai carri armati trasformati in bulldozer) e contro le altre che seguirono, sino alla seconda guerra irachena. Ora invece ci si divide e ci si scambiano, tra compagni, accuse pesanti. Perché? Che cosa è cambiato dal gennaio del 1991 ad oggi?
Una prima e parziale risposta può venire dal confronto tra le due posizioni in campo. Agli uni appaiono decisivi la natura dispotica del regime di Gheddafi e la brutalità della sua reazione contro una insurrezione popolare tesa - come in Tunisia e in Egitto, in Yemen, Giordania e ora in Siria - a instaurare un regime democratico. In questa prospettiva passa in secondo piano tutto il resto (la cifra politica del governo provvisorio di Bengasi; la composizione dello schieramento degli insorti; l'illegittimità della risoluzione del Consiglio di sicurezza e dell'intervento armato; le motivazioni strategiche ed economiche dei Paesi che hanno spinto per la guerra e si contendono la guida delle operazioni) che appare invece cruciale agli altri. Nella discussione le posizioni di irrigidiscono e si polarizzano. Pur di avere ragione dell'avversario, si ignorano le sue ragioni (che sussistono, da entrambe le parti).
Come accade, i toni si inaspriscono proprio per la vicinanza dell'interlocutore. I «democratici» accusano i «geopolitici» di cinismo («pur di denunciare la volontà di potenza degli Stati abbandonereste gli insorti sotto le bombe di Gheddafi») o, al contrario, di essere «anime belle», preoccupate solo di non farsi coinvolgere in un inevitabile conflitto. Accusati di essere «amici del tiranno», i geopolitici reagiscono trattando i democratici come «utili idioti» che, bevuta la favola della rivolta popolare, si sono fatti reclutare dagli impresari dell'ennesima guerra democratica. Eppure basterebbe poco per sottrarsi a questa tenaglia e far valere la verità interna a ciascuna delle due posizioni. Perché opporsi alla guerra dovrebbe implicare l'avversione nei confronti degli insorti, l'indifferenza verso la loro domanda di libertà e addirittura il sostegno a Gheddafi e alla sua azione militare? Perché mai affermare la necessità di proteggere l'insurrezione dalla controffensiva delle forze lealiste imporrebbe di ignorare il contesto internazionale in cui è maturata la decisione del Consiglio di sicurezza e gli inconfessabili propositi di Sarkozy e di Cameron? Perché risulta così arduo, questa volta, tenere la posizione di sempre: dire che Gheddafi va fermato ma che una guerra è inaccettabile? che la «comunità internazionale» ha (avrebbe avuto) un solo compito: interporsi e imporre immediatamente il cessate-il-fuoco e il negoziato tra le parti?
Non ho la pretesa di conoscere la risposta, quindi mi limito a formulare due ipotesi. La prima è che siamo rassegnati all'impotenza e per questo subiamo, prima ancora delle ragioni prevalenti (in questo caso, l'idea della necessaria difesa armata dell'insurrezione), la rappresentazione delle alternative sulle quali prendere posizione. Pesa a tal punto la sconfitta del movimento contro la guerra, che, pur di conservare un ruolo attivo nel dibattito pubblico, accettiamo - certo inconsapevolmente - di inscrivere i nostri giudizi nel quadro discorsivo imposto all'opinione pubblica. La seconda ipotesi, che non esclude la prima, chiama in causa la cultura politica di ciò che resta della sinistra.
Sbaglierò, ma ho l'impressione che i democratici imputino ai geopolitici di non essersi ancora sbarazzati della strumentazione concettuale della critica dell'imperialismo, che essi considerano arcaica e per di più contaminata dall'esperienza del movimento comunista novecentesco. Questa pervicacia intellettuale appare imperdonabile, nella misura in cui attesta il rifiuto di congedarsi senza riserve da una storia che anche a sinistra si considera in toto indifendibile. Se le cose stanno così, sarebbe il caso di discuterne seriamente, perché nessuno può illudersi che con la Libia il capitolo delle «guerre democratiche» si chiuderà per sempre. Nel 1983 Reagan creò un organismo (il National Endowment for Democracy) che aveva il compito di promuovere la «global democratic revolution» e mentre gli Stati Uniti attaccavano per la seconda volta l'Iraq qualcuno propose l'istituzione di un sottosegretariato di Stato per la «defenestrazione dei dittatori». Forse ha ragione chi sostiene che, andato a casa Bush, è cominciata un'altra epoca e che nella guerra contro Gheddafi l'imperialismo americano o franco-inglese non c'entra niente. O forse l'imperialismo, che non è una categoria etica, magari c'entra ancora, ma in modo diverso e perfino più cogente. Comunque, varrebbe la pena di vederci più chiaro.
Ringrazio Paolo Franchi che, sul Corriere della Sera di lunedì, dà conto in modo intelligente del dibattito che, a proposito della Libia, si è animato sulle pagine del manifesto. Nel suo articolo non gli viene infatti neppure in mente di accusare Rossana, Valentino e me di connivenza con Gheddafi e, riferendosi alla nostra domanda di riflessione sulla parabola tragica dei regimi nati dalla lotta anticoloniale, riconosce che effettivamente «esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche».
Franchi ritiene che nell'accapigliarsi attorno a questo problema emerga fra lettori e scrittori del manifesto una divaricazione generazionale: i giovani che gridano boia sempre, i vecchi che chiedono di ricordare un passato che quaranta-cinquanta anni fa ha riscosso enormi consensi popolari. Credo abbia ragione: anche in questo caso scopro con smarrimento le dimensioni della rottura che fra anziani e giovani si è verificata, in che misura la storia del Novecento sia stata cancellata, l'intero secolo scorso solo un cumulo di orrori. Non è solo fenomeno italiano: anche i ragazzi egiziani che hanno affollato piazza Tahrir e sono tutti nati molto dopo la morte di Nasser sembra che di quel raìs non abbiano più memoria e a loro è presente solo l'immagine del suo orrendo successore. E la stessa cosa si può probabilmente dire per i giovani libici che, forse, neppure sanno bene com'è che un gruppo di giovani ufficiali, usciti dalla sofisticata accademia militare britannica, abbiano preso il potere a Tripoli e a chi lo hanno strappato. Un po' più ricordano certo i ragazzi algerini, perché l'epopea della guerra di indipendenza ha avuto in quel paese ben altre proporzioni, ma anche lì il senso di quella storia appare ormai svilito da quanto le è succeduto. Niente indubbiamente ricorda Igiaba Scego delle vicende del suo paese, che ha conosciuto una parabola altrettanto tragica. Anche in Somalia all'origine, negli stessi anni '60, ci fu un golpe militare che cacciò un'èlite corrotta e servile e avviò un rinnovamento importante. Tant'è vero che ne furono protagonisti giovani ministri onesti e intelligenti. Finiti poi in carcere e persino condannati a morte per mano dello stesso generale Siad Barre che pure, nel quadro di una svolta positiva, aveva loro affidato responsabilità di primo piano (vorrei ricordare qui ancora una volta il nostro amico Mohamed Aden Schek, deceduto solo qualche mese fa, che di questa tremenda involuzione è stato vittima e protagonista).
Come è potuto accadere? Troppo facile è rispondere che non poteva che finire così perché un colpo di stato militare, anche il meglio intenzionato, non è una rivoluzione. Perché non è un caso se in tutta l'Africa a prendere il potere nell'era postcoloniale sono stati i militari, giacchè erano gli unici che allora, in quei paesi, sapevano leggere e scrivere, e che, in assenza di una società civile strutturata, rappresentavano la sola istituzione nazionale esistente. E facilone, lasciatemelo dire, è ritenere che abbiano fatto solo danni, sin dal primo giorno. Per ognuno dei paesi di cui stiamo discutendo la letteratura è ampia e di prim'ordine, la consiglio a chi abbia voglia, anziché di sputare sempre sul passato, di farsi un'opinione. E questo vale anche per il colonnello Gheddafi, che ho definito spavaldo ricordando come ha tenuto testa ad un'aggressività americana che è giunta sino a bombardare Tripoli e ad ammazzargli una figlia. Ho usato l'aggettivo anche ricordandolo - ero pure in questo caso lì come inviata del - ad Algeri, nel settembre 1973, in occasione del summit dei non allineati (e il ministro degli esteri cileno, Almeida, era rientrato precipitosamente in patria perché Pinochet stava già muovendosi). Dinanzi ad una platea di sceicchi petrolieri vestiti di bianco, e di uno spaurito drappello di rappresentanti di paesi obbedienti a Mosca, nel peggior periodo di una coesistenza pacifica intesa come rigido status quo, andò alla tribuna e disse: «Voi non allineati? Ma fatemi ridere, siete tutti allineati da una parte o dall'altra, siete un branco di mercanti». Perché Gheddafi era così, rozzo ma senza peli sulla lingua. Un amico algerino mi disse una volta di lui: «Non è la testa del mondo arabo, ma è la sua pancia» («entrailles», disse), con ciò volendo indicare proprio la sua selvaggia rudimentale protesta, che però coglieva un sentire profondo della sua gente.
Quella spavalderia di allora col tempo è diventata una maschera ributtante, le sue iniziative politiche da stravaganti sono diventate tragicamente ridicole. E se oggi ricordo - i vecchi servono del resto a questo - lontani episodi del genere, non è per amnistiarlo delle tante orribili cose fatte successivamente, ma perché proprio quei fatti rendono ancora più angoscioso l'interrogativo che ci siamo posti: perché, ovunque, è finita così male? Cosa è accaduto, in quelle società e a livello internazionale (perché si è prodotta una parabola catastrofica) perché ovunque è degenerazione? Sarebbe stato possibile un altro esito? E se sì cosa avrebbe dovuto esser fatto, da quei popoli e da noi?
Diffido sempre quando si invoca la libertà ma non ci si fa carico di disegnare un processo di liberazione, perché la libertà non è un concetto astratto, è una conquista storica che intanto è possibile se si fanno i conti con il proprio contesto. Analizzare il passato, con tutte le sue contraddizioni, serve a questo e c'è da augurarsi che questa dolorosa operazione venga fatta dai giovani che hanno avuto il coraggio di uscire dalla passività e dalla rassegnazione per porre fine a regimi ormai imputriditi. Nella prossima fase della loro lotta, forse ancora più difficile, sarà loro indispensabile rileggere il passato.
Riportiamo di seguito gli articoli di Luciana Castellina (il manifesto, 23 febbraio), Rossana Rossanda (il manifesto, 24 febbraio) e Paolo Franchi (Corriere della sera, 28 febbraio)
il manifesto, 23 febbraio 2011
Tragico epilogo
di Luciana Castellina
Ha finalmente parlato, il vecchio leone libico. Ancora spavaldo, ma un'immagine tristissima, patetica, di un uomo obnubilato dalla solitudine e dal distacco dal resto dell'umanità che solo il potere dittatoriale possono produrre. Fino a dire che le piazze gremite di libici pronti a farsi ammazzare perché il suo regime crolli, sono solo agenti stranieri. E, pronto a morire da martire, ha tragicamente incitato alla fine alla guerra civile.
Eppure non è stato sempre così. Tutti gli anticolonialisti gioirono quando il giovane tenente, assieme ai suoi amici usciti dalle accademie militari britanniche ma nati e cresciuti nel deserto, presero il potere, deposero re Hidriss, marionetta dell'Impero britannico, e posero fine ad un sistema feudale.
Era il 1969. Nel gennaio del '70 Muammar Gheddafi tenne la sua prima conferenza stampa internazionale. Partecipai all'evento con un gruppo di giornalisti italiani. Io ero lì per Noi Donne e ricordo bene il viaggio perché, bloccati da una tempesta di sabbia all'areoporto di Bengasi, a sera inoltrata, l'inviato dell'Unità, Arminio Savioli, guardò l'orologio e mi disse: «A quest'ora sei già fuori dal Pci». Proprio in quelle ore, infatti, la Commissione federale di controllo di Roma aveva varato l'ultimo atto del mio processo di radiazione, causa il manifesto.
A Tripoli l'entusiasmo popolare era incontenibile. Anche noi felici che un nuovo capitolo nella storia di un paese in cui l'Italia si è comportata nel peggiore dei modi, fosse iniziato. E infatti Gheddafi annuncia riforme profonde che cambieranno effettivamente in meglio la condizione dei libici.
Pochi mesi più tardi sono al Cairo - questa volta già per Il Manifesto rivista, per cui ho seguito ad Amman il «Settembre nero» - partecipe di un evento inatteso, luttuoso e forse non naturale: la morte improvvisa del comandante Nasser. Ho lasciato i palestinesi in lacrime, qui i funerali sono giganteschi, milioni di egiziani piangono, con commozione reale, l'uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo, nazionalizzato il canale di Suez, retto all'urto dell'intervento armato franco-britannico, artefice del progetto di unificazione della nazione araba.L'Algeria fu storia solo di poco precedente: per la mia generazione fu come il Vietnam per quella del '68.
Ricordo questi eventi di cui sono stata testimone perché è incredibile che oggi la sacrosanta ribellione popolare del Maghreb e del Mashrak, così come dei popoli più a sud del continente africano, sia dipinta come l'esplosione di un malcontento secolare di popoli che non hanno avuto luci e il cui passato sia stato solo fanatismo e oppressione. Non è così, negli anni '60, anche qui c'è stata una straordinaria mobilitazione in favore di una rottura che ha imbastito una svolta sostenuta da uno straordinario consenso. Che ha introdotto riforme modernizzatrici e laiche ( fra le altre anche quella alfabetizzazione che oggi consente la rivolta).Non solo localmente: questi sono i paesi che proprio in quegli anni sono stati - raggiungendo Tito, Nehru, Ciu en lai, Sukarno nel patto di Bandung - protagonisti di quel grande fatto che fu la nascita del movimento dei non allineati.
Se si vuole giudicare quanto avviene oggi occorre domandarsi perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, siano finiti così: con regimi dittatoriali brutali e corrotti, insidiati dal fondamentalismo, le speranze spezzate, l'unità frantumata, la solidarietà con la Palestina calpestata, la memoria della loro storia perduta, il solo miraggio la disperata traversata del Mediterraneo verso il nord ex colonialista e oggi arrogante reclutatore di schiavi.
Le risposte sono complesse, ma una cosa intanto va detta: anche in questo caso riemerge con incredibile evidenza la cancellazione della storia che è stata operata in questi decenni. Riesumarla sarebbe necessario per sottolineare, non solo i limiti fatali di ogni mutamento affidato a vertici che per una fase possono anche sembrare illuminati, ma presto diventano responsabili di inauditi rovesciamenti, ma anche per capire quanto nei meccanismi che hanno portato all'imbarbarimento abbiano giocato le tremende complicità occidentali, che non hanno nemmeno esitato ad alimentare il peggior fondamentalismo islamico pur di procedere alla riconquista di territori che si erano almeno parzialmente emancipati. Per non parlare dell'uccisione del premier Mossadeq, di cui quando piangono sull'Iran non fanno nemmeno un gesto per ricordarlo.
È stato detto da qualcuno che quanto accade oggi nel mondo arabo è l'equivalente dell'abbattimento del Muro, nel 1989: un'esplosione di libertà. Sì, certo, ma l'89 non è stato solo questo. Ha anche prodotto, sia all'est che al sud, l'appropriazione privata, da parte di famiglie o di élites già potenti, della ricchezza che il socialismo reale, pur con tutti i suoi gravi difetti, aveva reso patrimonio comune e che il nostro occidente si è subito premurato di dissolvere. Anche gli odierni oligarchi russi e le ricchezze dei Mubarak e Ben Ali sono frutto dell'89. Che ha riportato, sanguinosamente, l'attualità della guerra perfino nel cuore d'Europa e che ha significato il fallimento di ogni tentativo di autonomia da parte dei popoli del terzo mondo. Il loro incartarsi in difficoltà insormontabili e fatalmente nei tragici errori che queste hanno in gran parte determinato, è anche dovuto al mondo unipolare degli ultimi decenni, che non ha offerto più margini per liberarsi dal pensiero unico. Che in occidente ha una faccia democratica, altrove dittatoriale. Anche la rivoluzione sovietica non è finita gran che bene, ma, santiddio, per qualche decennio ha consentito a una parte del mondo - il terzo in particolare - di alzare la testa.
Non scrivo queste cose per attenuare le responsabilità dei rais arabi, ma al contrario per evitare semplificazioni che non aiuteranno i ragazzi che stanno sacrificandosi per la democrazia dietro le barricate di Tripoli e altrove.
il manifesto, 24 febbraio 2011
Illusioni progressiste
di Rossana Rossanda
Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.
Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.
Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".
Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o,peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.
E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.
Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.
Corriere della sera, 28 febbraio 2011
Un despota o antico liberatore?
Gheddafi imbarazza ancora la sinistra
di Paolo Franchi
M a chi è Muhammar Gheddafi? Una «bestia immonda» , come lo definisce la lettrice Iglaba Scelgo? Un «dittatore sanguinario» , come scrive l’abbonata Mariletta Calazza? Oppure il «vecchio leone ancora spavaldo» nonostante la sua immagine sia quella «tristissima e patetica di un uomo obnubilato dalla solitudine» di cui scrive Luciana Castellina? O il leader «invecchiato» e travolto dalla propria «vanità» , certo, e però a lungo protagonista «non solo in Africa di uno straordinario tentativo di innovazione, che andava apprezzato e sostenuto» , che Valentino Parlato continua a difendere? Il manifesto sta, si capisce, dalla parte della rivolta. E neppure sta troppo a chiedersi, come fa invece Liberazione, se per caso quella libica non sia «una guerra civile sponsorizzata dalle potenze capitalistiche» . Ma su Gheddafi al manifesto si discute. Anzi, ci si accapiglia. E si tratta di una discussione che potrebbe diventare molto istruttiva, e anche utile. Sin qui, somiglia a un conflitto generazionale. A rifiutarsi al giudizio sommario (e in certi casi, come quello di Parlato, a chiedere quanto meno l’onore delle armi al colonnello) sono soprattutto i grandi vecchi del quotidiano comunista; e sono soprattutto, anche se non soltanto, i redattori e i lettori più giovani a indignarsene.
Ha cominciato Luciana Castellina, ricordando che nel ’ 69, quando il «giovane tenente» prese il potere, «tutti gli anticolonialisti gioirono» , come avevano gioito per la vittoria di Nasser, «l’uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo» , e ancor più per l’Algeria, qualcosa di assai simile, per la sua generazione, a quello che fu il Vietnam per la generazione del Sessantotto. Non c’è dubbio, scrive Castellina, «la ribellione del Maghreb e del Mashrak è sacrosanta» , ma non si può rappresentarla come l’esplosione del malcontento secolare di popoli che hanno conosciuto solo «fanatismo e oppressione» . Per chi sta a sinistra, e soprattutto per chi ci è stato, guardando alla Libia, all’Egitto, all’Algeria, la domanda (terribile) è tutta diversa: «Perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, sono finite così?».
Ecco, esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche. Lo scrive apertis verbis Rossana Rossanda. Che allarga la domanda a un fallimento ancora più clamoroso, quello delle rivoluzioni comuniste: «Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler stessa razza, tesi degli storici post ’ 89), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e d’altronde non fa che spostare la domanda. Perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader?» . Rossanda azzecca, almeno in parte, anche la risposta. La prima illusione tragica (ma anche, alla lunga, colpevole, aggiungerei) è consistita, scrive, nell’affidarsi «in presenza di masse incolte, a un’avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e (…) lo difende non solo dagli avversari, ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente"un nemico» . E forse corre rischi analoghi anche «la folla generosa ma atomizzata» che affolla e insanguina del proprio sangue le piazze in Paesi in cui «un dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l’articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto» . Anche «il problema delle rivolte arabe (…) è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo» . Irritati dalle provocazioni di Parlato, che al Sole24Ore ha detto di considerarsi tuttora «un estimatore convinto del colonnello» , i lettori del hanno scritto parecchie lettere contro di lui, riservando invece sin qui un’attenzione tutto sommato modesta all’intervento «menscevico» di Rossanda. Capita, di questi tempi, anche sul quotidiano diretto da Norma Rangeri, a chi si ostina a inerpicarsi in ragionamenti complessi, che non si lasciano imprigionare in un’immagine televisiva. Per quel che vale, la speranza è invece che la riflessione impietosa sollecitata da Luciana Castellina, e avviata da Rossanda, si allarghi, e non solo sul manifesto. Arrivando sin là dove nell’ 89 non aveva saputo o voluto arrivare. Una sinistra incapace di affrontare coraggiosamente i suoi ieri ha poco o nulla da dire sull’oggi. E ancora meno sul domani.
Siamo al contraccolpo della spallata fallita. Scampato il pericolo della bocciatura parlamentare, Berlusconi e Bossi, Tremonti e Sacconi dilagano. L'università è sfigurata, la stampa libera ha un bavaglio che la soffocherà, il lavoro è messo in riga, pronto per il nuovo che avanza grazie a Marchionne e Bonanni. Può darsi sia il crepuscolo del piduismo in salsa berlusconiana, anche se la popolarità della cricca al potere non scema. Di certo è un tramonto velenoso. Devastante. Cupo come l'ultima macabra stagione del fascismo repubblichino, al quale il protagonismo dei Gasparri e dei La Russa rimanda.
Ci stiamo avvitando con rapidità vertiginosa in una crisi generale di inedite proporzioni. I dati sulla povertà di massa, la disoccupazione giovanile e la precarietà del lavoro dipendente mettono nero su bianco il senso di un'intera fase storica durata almeno due decenni, nel corso della quale i poteri forti hanno riconquistato con gli interessi il terreno perduto con le lotte degli anni Sessanta e Settanta. Ma se la destra trionfa, ciò accade anche per l'inerzia e l'inconsapevolezza del progressismo democratico.
Torniamo alla mancata spallata del 14 dicembre. Tutti facevano il tifo per Gianfranco Fini, inopinatamente assurto al rango di eroe dell'Italia democratica. Chi sia Fini ce l'hanno ricordato in questi giorni i documenti pubblicati da WikiLeaks sulle vicende seguite all'assassinio di Calipari. Ma perché tanta voglia di illudersi? Perché tutto questo bisogno di dimenticare? Forse perché non c'è molto altro in quei paraggi (parliamo del Palazzo) in cui riporre qualche speranza. Questo è il punto. C'è più o meno mezzo Paese che sogna un nuovo 25 aprile ma non sa a che santo votarsi.
La si giri pure come si vuole, ma questo fatto suona come il più impietoso atto d'accusa nei confronti del Partito democratico. Che non solo non è in grado di rappresentare l'ansia di liberazione che pervade quello che un tempo chiamavamo «popolo della sinistra», ma ne impedisce l'espressione, ne frustra le potenzialità, ne devia l'energia verso sentieri interrotti. La stessa scena dell'incontro tra gli studenti e il presidente della Repubblica lo dimostra. Si va al Quirinale perché non si scorge in nessuna delle forze politiche presenti in Parlamento chi voglia davvero ascoltare e raccogliere le ragioni della protesta. Dire tutto questo sarà poco corretto politicamente, ma le cose stanno in questi termini e la verità non va sottaciuta. È questo il nodo oggi al pettine. Venticinque anni di radicamento dell'ideologia neoliberale hanno stravolto la «sinistra moderata», che ora non riesce a prendere congedo dalla gestione reazionaria della crisi sociale e civile del Paese: dalla logica dei tagli alla spesa, del primato dell'impresa, della privatizzazione dei beni comuni. Anche l'ultimo ignominioso capitolo della distruzione dell'università pubblica sta dentro questo discorso.
La destra si è ripresa tutto il potere reale: il comando sull'economia e sul lavoro, il controllo delle risorse, il monopolio del discorso pubblico. Ma ancora oggi, come se nulla fosse, chi dovrebbe contrastarla ciancia di modernità e di merito, di guerre democratiche e di libero mercato.
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Sul filo di lana, sale sui tetti e urla nell'aula del Senato. Crede forse che la nostra memoria si sia a tal punto indebolita da cancellare il ricordo delle cose dette e scritte in tutti questi anni e ancora negli ultimi mesi in tema di università, dalla legge sull'autonomia che ha trasformato gli atenei in aziende al famigerato 3+2, dall'idea delle Fondazioni universitarie alla proposta di aprire i consigli di amministrazione alle imprese, dalla messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori all'idea della concorrenza tra università, come se si trattasse di fabbriche di salumi e non di una istituzione chiamata a svolgere un servizio pubblico fondamentale per l'intera cittadinanza?
Come uscirne? È senz'altro giusto dire che il Pd «dovrebbe sbrigarsi» e impegnarsi nella «battaglia generale» per la salvezza della democrazia italiana. È altrettanto sensato augurarsi che lo stesso coraggio dimostri la Cgil, che ancora tituba, rimandando a tempi migliori la proclamazione dello sciopero generale, come se tempi migliori potessero sopraggiungere senza mobilitare nello scontro tutte le forze ancora disponibili. Ma intanto questi giorni hanno impartito una lezione che sarebbe diabolico non imparare a memoria.
Due mesi fa il segretario generale della Fiom a piazza san Giovanni disse con chiarezza che quel maestoso movimento di popolo cercava un interlocutore politico che ne raccogliesse esigenze e domande. Le forze della sinistra erano in quella piazza, ma in Parlamento le parole di Landini sono rimaste senza risposta. Poi sono insorti gli studenti e il mondo del precariato universitario. Anche in questo caso la sinistra era nelle lotte, ma ciò non ha impedito che la controriforma dell'università divenisse legge dello Stato. Tutto ciò, ci pare, significa una cosa soltanto. L'unica speranza qui e ora riposa sul conflitto di classe, operaio e sociale, sulla forza dei movimenti e sull'unità delle forze del cambiamento: sulla loro capacità di imporre al Paese un'agenda politica e precisi obiettivi di lotta.
Carlo Galli
Marc Lazar
Anthony Giddens
Gianni Vattimo
Jürgen Habermas
Fernando Savater
LE PAROLE PER RACCONTARE
QUEL CHE RESTA DI UN´IDEA
di Carlo Galli
Fine delle ideologie, crisi del riformismo, globalizzazione: eppure c´è ancora chi scommette sul futuro di un concetto. Abbiamo chiesto a celebri pensatori e intellettuali europei di spiegare la loro visione e le prospettive possibili
La sconfitta della sinistra comunista, e le trasformazioni politiche ed economiche che sono seguite – la globalizzazione –, hanno reso il capitale più aggressivo (perché più esposto alla competizione), e hanno causato la crisi del compromesso socialdemocratico, cioè delle conquiste della sinistra riformista: i diritti sociali oggi sono visti come un costo e non come un valore. Ecco perché ha senso interrogarsi sulle prospettive di un´idea. Oggi il centro della società è il mercato, l´impresa e le sue esigenze di sviluppo, l´individualismo aggressivo; la frantumazione del ceto medio creato dalle passate politiche di welfare è già in atto, e la società si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri; anche le forme giuridiche dell´uguaglianza – la legalità, i diritti civili – sono minacciate dall´insicurezza e dalla paura, i nuovi messaggi biopolitici che vengono dallo Stato; la democrazia è sostituita dal populismo.
La sinistra deve quindi trovare la capacità di criticare il presente, e ne deve nominare apertamente le contraddizioni; deve essere convinta che a un problema non c´è solo la soluzione proposta da chi detiene il potere, ma almeno un´altra, alternativa, che ha come finalità l´emancipazione di chi non ha potere, e la liberazione delle sue capacità di sviluppo autonomo, di vitale spontaneità (e pertanto deve essere antiautoritaria e laica). Deve essere riconoscibile, cioè deve essere coerentemente "parte" – nel momento in cui la società si frantuma in parti, anche se non coincidenti con le "classi" tradizionali –, e deve quindi entrare decisamente nei conflitti reali; ma deve anche farsi carico delle questioni generali di uguaglianza formale e sostanziale – pur mettendo in conto che i conflitti non potranno mai cessare. Deve produrre una nuova idea di società, una nuova "egemonia", da contrapporre all´egemonia della destra. Ciò significa combattere la paura e la disuguaglianza con la legalità, la giustizia e la speranza; e lottare per un nuovo compromesso, molto meno squilibrato dell´attuale, oltre che meno burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra mercato e Stato, tra privato e pubblico.
QUELLE PAROLE CHE LA SINISTRA DEVE RISCOPRIRE
di Marc Lazar
La crisi della sinistra riformista europea oggi è oramai un´idea condivisa. Essa non ha motivo di vergognarsi del proprio passato. Ha contribuito a forgiare la democrazia e il welfare e, dunque, un´ampia parte dell´identità europea. Ciò nonostante, il suo modello di cambiamento graduale delle società nel quadro degli Stati-nazione è in via di esaurimento. La sinistra, più della destra, soffre la globalizzazione, le trasformazioni del capitalismo mondiale, il processo di individualizzazione, la sensazione sempre più ossessiva del declino del vecchio continente, le tentazioni di ripiegamento identitario sfruttate dai movimenti populisti.
La Storia dimostra che ciò che ha fatto la forza della socialdemocrazia è stata la sua capacità di adattamento alle evoluzioni delle società, il più delle volte generate esse stesse dalle metamorfosi del capitalismo. Un aggiornamento spesso difficile, nutrito da vivaci dibattiti interni sulle proposte definite "revisioniste", da Eduard Berstein (fine del secolo XIX) a Anthony Giddens (fine del secolo XX), passando per tanti altri pensatori e responsabili politici. E, tuttavia, con una domanda ossessiva dei nostri giorni al socialismo: il suo avvenire si iscrive nella linea dell´ideologia e dei suoi punti di riferimento, oppure suppone di varcare le frontiere tradizionali della sinistra e di esplorare altri orizzonti?
Per pensare la sinistra oggi e domani bisogna, più che mai, tornare alla famosa affermazione di Norberto Bobbio, per il quale il valore dell´uguaglianza traccia la linea di separazione dalla destra. La crisi economica del 2008 ha ricordato la pertinenza di quest´idea, adattata al mondo di oggi, che non significa egualitarismo, ma un´uguaglianza delle opportunità, rispettosa dei percorsi e delle aspirazioni individuali. Un´uguaglianza che deve rendere possibili non tanto degli Stati-forti, divenuti impossibili, quanto degli Stati ammodernati, regolatori e animatori, coordinati a livello europeo. Uguaglianza nel mondo e in Europa. Uguaglianza sociale tra i diversi gruppi e individui. Uguaglianza tra i sessi, mentre le donne rimangono sempre discriminate. Uguaglianza tra le generazioni, in un´Europa che subisce il complesso di Cronos, il dio greco che divorava i propri figli. Uguaglianza tra i territori, mentre oggi si approfondisce la divaricazione tra le regioni ricche e le zone più in difficoltà. Uguaglianza tra i cittadini e gli immigrati in regola che fanno ormai parte integrante della nostra Europa. Uguaglianza, ancora, in rapporto all´ambiente.
Ma c´è l´altro Bobbio, quello che nel 1955 constatava come gli intellettuali italiani sapessero perfettamente che cosa avrebbe dovuto essere la società italiana, ma ignoravano che cosa fosse. Cinquantacinque anni dopo, la sua riflessione si può allargare all´insieme dei partiti della sinistra europea, troppo chiusi su se stessi, in mano a oligarchie che stanno invecchiando, più che mai preoccupate di difendere i loro piccoli interessi. Conoscere la società nella sua complessità attuale, segnata da tendenze contraddittorie e antagonistiche, per ritrovare il popolo e, così, non lasciare più questa parola e ciò che comporta alle forze populistiche. La sinistra deve unirsi a lui in questo grido di dolore e di rabbia di cui parlava il sociologo Durkheim per definire il socialismo, ma anche in un grido di speranza, non per creare sogni che si trasformano generalmente in incubi, ma per ridare un senso alla politica. Per esempio, nell´accettare la forza della leadership nelle nostre democrazie, ma combinandola con l´estensione della partecipazione dei cittadini alla vita democratica.
(traduzione di Luis E. Moriones)
LA LIBERTÀ È UN VALORE SOCIALE
di Anthony Giddens
Nella politica di oggi la divisione tra sinistra e destra è assai meno netta che in passato, perché al capitalismo non si contrappone più un´alternativa socialista ben definita. Per di più, alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare - ad esempio il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti contemporanei - trascendono la divisione classica tra sinistra e destra.
Eppure la distinzione ha ancora un senso. Essere di sinistra vuol dire avere a cuore alcuni valori essenziali; credere nell´importanza della solidarietà sociale, dell´uguaglianza, della tutela dei più vulnerabili, e nella «libertà sostanziale»: non solo quella economica, o la libertà davanti alla legge, ma una libertà reale per tutti i cittadini.
E significa anche attenersi a un certo quadro politico, in cui si conferisca grande importanza all´attivismo e alla capacità di intervento dei governi, necessaria a controbilanciare la tendenza dei mercati incontrollati di produrre instabilità economica e macroscopiche sperequazioni sociali, sostituendo ai valori sociali parametri puramente economici.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
L´UGUAGLIANZA COME DIRITTO CULTURALE
di Gianni Vattimo
La distinzione tra destra e sinistra è ancora ben viva e consiste, come sempre, nell´opposizione tra chi prende le differenze - di ricchezza, di salute, di forza, di capacità - come differenze "naturali", e parte di lì per costruire un progetto di sviluppo, proprio utilizzandole ed esasperandole; e chi invece vuole garantire una competizione non truccata, correggendo le differenze "di natura". Di qui il darwinismo sociale che ha sempre caratterizzato la destra, fino al razzismo fascista; e quello che si può chiamare il "culturalismo" della sinistra, che va oltre il dato "naturale". Il problema della sinistra è sempre stato quello di riconoscersi francamente per quel che è, come "cultura vs. natura": quando ha creduto di essere più fedele alla natura (come difesa dei diritti "naturali" o come scienza economica "vera") è sempre diventata totalitarismo. La forza della sinistra sta nel difendere il diritto di chi non ha "diritti", di chi non è "legittimato" né dalla natura (quella che sempre anche il Papa invoca) né della scienza (per lo più al servizio del potere). Il proletariato di Marx non è l´uomo "vero", è solo la classe generale, la grande massa degli espropriati che merita di farsi valere anche solo in nome del (borghese) principio democratico.
SE LA SOLIDARIETÀ NON È MAI FUORI MODA
di Jürgen Habermas
Chi crede tuttora nella forza rivoluzionaria di autoguarigione delle crisi economiche gravita in nebulose profondità attorno al concetto del «politico», o soffia sulla «sollevazione prossima ventura». Il resto è disfattismo.
La «sinistra» deve il suo nome all´ordine degli scanni parlamentari all´Assemblea nazionale francese del 1789. Quanto al termine «socialismo», il suo significato era e rimane nient´altro che la messa in atto delle parole d´ordine della Rivoluzione francese. La libertà non può essere ridotta alla mera possibilità, per i soggetti partecipi di un sistema di mercato, di esprimere individualmente il proprio voto. Solo l´inclusione egualitaria di tutti i cittadini come co-legislatori, in un contesto di formazione di opinioni e volontà politiche informate, può assicurare a ciascuno gli spazi e i mezzi per determinare e plasmare autonomamente la propria personale esistenza.
L´uguaglianza non può essere solo quella formale davanti alla legge, ma deve comportare l´equa ripartizione dei diritti, che devono avere eguale valore per ciascuno, indipendentemente dalla sua posizione sociale. La solidarietà non deve degenerare in paternalistica assistenza agli emarginati; la partecipazione alla comunità politica con pari diritti non è conciliabile con la privatizzazione, che scarica i rischi e i costi originati a livello sociale complessivo su singoli gruppi o persone, senza indennità o risarcimenti di sorta.
E´ questo il modo in cui la sinistra intende i principi costituzionali, non certo spettacolari, che nelle nostre società democratiche informano il diritto vigente. La sinistra recluta i suoi aderenti tra i cittadini tuttora sensibili alle stridenti dissonanze tra questi principi di fondo e la realtà, da tempo accettata, di una società sempre meno solidale. Una società nella quale le élite si barricano, anche moralmente, nelle loro gated communities è fetida. I mali della sinistra rispecchiano il generale ottundimento di questo spirito normativo, e la crescente tendenza ad accettare come normale e ovvio un egoismo razionalista, che con gli imperativi del mercato è penetrato oramai fin dentro i pori di un ambiente di vita colonizzato.
Naturalmente il deficit della sinistra non è solo di tipo motivazionale, ma riguarda anche il piano cognitivo, ove si è mancato di affrontare tutta la complessità delle sfide reali - ad esempio, i rischi che corre oggi la moneta europea. Altrimenti la sinistra non si limiterebbe a lamentare la distruttività dei mercati finanziari incontrollati, ma ravviserebbe nella speculazione contro la moneta europea un´astuzia politica della ragione economica. Si attiverebbe contro l´asimmetria dell´UE, che a una completa unificazione economica affianca l´incompletezza di quella politica. E comprenderebbe infine che un´Europa democratica e solidale è un progetto di sinistra.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
LA SFIDA DELLA SCUOLA
UN´EDUCAZIONE PER TUTTI
di Fernando Savater
Oggi, la sinistra non può essere altro che quella che difende il concetto di società. Vale a dire, qualcosa di diverso dalla semplice giustapposizione di individui atomizzati e di interessi contrapposti in lizza. I membri di una società vedono se stessi come soci degli altri, vale a dire come collaboratori e complici di un beneficio che in qualche misura deve raggiungere tutti. La sinistra deve ricordare che la democrazia, in qualsiasi luogo del mondo, ha due nemici fondamentali: la miseria e l´ignoranza. Dove la miseria è tollerata, dove l´ignoranza non è combattuta, la democrazia si trasforma in una caricatura di se stessa. Pertanto, la sinistra - che ha già imparato che non può essere che democratica in un modo deciso e scrupoloso - deve tentare di mettere fuori legge le condizioni di povertà estrema - come a suo tempo si mise fuori legge la schiavitù - e deve far sì che l´educazione per tutti, pubblica, laica e senza esclusioni maliziose diventi il suo compito prioritario. Un´altra questione molto attuale che la sinistra deve affrontare è la crescita della corruzione sia politica che finanziaria (che normalmente agiscono insieme) e che minaccia di pervertire la democrazia in "cleptocrazia", mettendo le istituzioni o la sfera pubblica al servizio dei depredatori.
(traduzione di Luis E. Moriones)
“Tra l’altro, la maggior parte dei rifiuti è fatta di cose inutili.” Così qualche giorno fa concludeva il suo dire una signora intervenuta a “Prima pagina”, la benemerita rubrica di Radio 3, che si era ampiamente occupata di Napoli sommersa di immondizie.
Saggia e ineccepibile considerazione. Mucchi incalcolabili di buste, bottiglie, barattoli, scatole, contenitori di ogni sorta e misura, di plastica per lo più, ma anche di vetro, paglia, ecc., e massicci quantitativi di carta e cartone, anch’essi per gran parte plastificati, e innumerevoli materiali di difficile identificazione, “cose” per lo più illeggibili in una possibile funzione. Tutti destinati a vita brevissima quanto vana: tra la fabbrica e, raramente, il contenitore della raccolta selezionata; i più verso terminali di cui il cassonetto tuttofare è ancora il meglio, ma il più frequente è il mucchio indifferenziato e maleodorante di vecchia spazzatura per strade e piazze.
Cose inutili, diceva la su citata signora. Anzi dannose. Ma ciò che la signora non ha detto, e che d’altronde non dice quasi nessuno, è che questa assurda e all’apparenza inutile iperproduzione di cose-da-discarica, ha in realtà una sua funzione tutt’altro che immotivata, anzi decisiva nel sistema economico oggi imperante. Il quale - come noto – si regge sull’accumulazione di plusvalore, e dunque sulla crescita esponenziale del prodotto: cioè (come gli ambientalisti più consapevoli da sempre notano) su creazione e vendita di merci, non importa quali né con quali conseguenze, purché il prodotto aumenti.
Le tante “inutili cose” che ostruiscono e appestano le vie di Napoli e non solo, sono dunque tutt’altro che inutili secondo la razionalità vigente, e rappresentano al contrario un cospicuo contributo all’aumento del Pil, il sempre invocato Pil, che - secondo la totalità degli imprenditori, la quasi totalità dei politici, la larga maggioranza degli economisti, e fatalmente la grande massa del popolo - è la principale garanzia di salute e continuità dell’economia globale.
E’ vero che molte delle cose di fatto nate per la discarica possono (non tutte, ma in parte significativa) essere convenientemente trattate, in modo da ridurne la nocività e talvolta anche riportarle a funzioni utili. E’ questa la politica privilegiata da buona parte dell’ambientalismo militante. Politica positiva certo, ma ben lontana dall’essere risolutiva: non solo in quanto applicabile a una parte minima dei rifiuti, ma perché comporta procedimenti complessi e costosi, e dunque solitamente scartati; senza dire che quasi tutti comportano “avanzi” tossici, di difficile collocazione, che per lo più finiscono in mano a mafie e camorre, e per loro tramite vanno a inquinare il Sud del mondo, o magari vengono sistemati attorno a Napoli.
Tutto ciò di fatto risponde alla logica del capitalismo, e pertanto trova risposta conforme nell’agire economico, praticamente senza opposizione. Stranamente, neppure da parte delle Sinistre: le quali, certo, si battono per contenere quanto possibile le macroscopiche disuguaglianze sociali e difendere i diritti del lavoro, ma non sembrano in alcun modo mettere in causa l’impianto del “sistema” per combattere il quale sono nate.
E’ vero, le sinistre non godono oggi di gran buona salute, e affrontare un progetto di tale magnitudine non può non apparire fuori portata. Ma è anche vero che nemmeno il capitalismo appare troppo florido. E proprio la crisi ecologica planetaria potrebbe, forse dovrebbe, essere letta come ragione per gridare all’ormai evidente insostenibilità fisica dell’attuale sistema. Specie dopo un’estate in cui quello sconquasso del clima, eufemisticamente indicato come “maltempo”, ha provocato migliaia di morti e milioni di profughi; quando la comunità scientifica mondiale afferma che stiamo irreparabilmente consumando il patrimonio naturale, per cui presto l’invocata crescita mancherà di materia prima; e il New York Times della domenica dedica la prima pagina al rischio non lontano di sommersione di New York, Londra, Venezia, Il Cairo, Bangkok, Shangai…; e New Scientist a lungo analizza e mette in forse la reale utilità delle “rinnovabili”, nate per sostituire le energie fossili, ma ora rilanciate per sommarsi ad esse…
Accennavo alla mancanza di impegno delle sinistre in questa materia. In verità eccezioni non mancano. Ad esempio di recente Paolo Ferrero, delineando su Liberazione il progetto di unità della sinistra, indicava la necessità di rovesciare l’attuale politica economica e sociale, parlando anche di “riconversione ambientale dell’economia”. Lo scorso fine-settimana la “Federazione della sinistra” è ufficialmente nata. Il sabato non ho potuto essere presente, ma la domenica sì, per tutta la durata dei lavori. Ho sentito nominare l’ambiente solo da parte di una giovane donna, che ha ricordato la materia tra una serie di diritti, a suo avviso non considerati adeguatamente: e a lungo ha parlato di libertà personali, di omosessualità, di trans… L’ambiente non lo ha più ricordato.
Un pirata umanista si aggira per il paese. «Dice Marx che essere radicali significa andare alla radice delle cose, e alla radice di ogni cosa c'è l'essere umano», ha detto al recente congresso di Sinistra Ecologia Libertà. «C'è bisogno di un nuovo umanesimo», aveva detto già a settembre alla festa del Pd, citando un libro dell'ex-partigiano Alfredo Reichlin. L'iperliberismo che gira come una macchina impazzita, un'economia e un potere sempre più ridotti a tecnica nichilista - e Nichi Vendola col suo orecchino da pirata parla di umanesimo. Di una vita umana indisponibile alle centrifughe del mercato. Un visionario? Un illuso? Un leader coraggioso o un bravo paroliere?
Speranze e incognite intorno a quest'uomo hanno avuto un'impennata dalla scorsa primavera. Dalla rielezione come governatore, una serie di apparizioni pubbliche e di comizi in tutta Italia ha segnato un crescendo di carisma comunicativo. «Ho seguito il suo discorso per radio. Un nodo in gola dopo l'altro», mi ha scritto una conoscente all'indomani del congresso di Firenze.
È l'effetto che fa a molti Nichi Vendola. Un senso di improvviso ritrovamento. «Ci siamo smarriti e ci siamo ritrovati», ha sussurrato lui sul palco di Firenze. Smobilitare l'emotività di sinistra dopo due decenni di grande gelo non è impresa facile, ma la retorica di Vendola ha sviluppato, a questo scopo, un'impressionante potenza di fuoco. Nel suo tipico discorso, senza gobbo e senza appunti, il governatore sa scegliersi gli interlocutori: che sono di volta in volta il senso civile, il cuore e la testa di chi ascolta. Ethos, pathos e logos. Il linguaggio è suggestivo: vecchi termini da apparato comunista e altri da parabola evangelica, metafore poetiche e citazioni letterarie recenti, citazioni di canzoni e termini sociologici, parole sofisticate - come il celebre "ultroneo" pronunciato in più occasioni - e termini popolari - l'altrettanto celebre "vaffanculo" a Gasparri.
Ci sono parole sterilizzate da anni di berlusconismo. A una su tutte, "libertà", Vendola vorrebbe restituire peso legandola ai temi dello scontro sociale. A Padova, quest'estate, al festival di Radio Sherwood: «Il capolavoro del berlusconismo è stato aver compiuto la separazione di due parole che nel Novecento si erano intrecciate, lavoro e libertà». Questione ribadita in più occasioni. Fino al congresso di Firenze, rispondendo a distanza alla dottrina neomanageriale di Marchionne: «Il lavoro nell'epoca premoderna era pietra di scarto, nella modernità è diventato pietra angolare, misura di civiltà e democrazia. Da qui non possiamo fare marcia indietro, dobbiamo piuttosto fare marcia avanti».
A completare il quadro c'è un sottotesto di suggestioni spirituali. È questa la parte che irrita di più a sinistra, ma anche la componente che fa vibrare a fondo il racconto vendoliano, fornendone la tensione visionaria. Quindi, per sdrammatizzare, improvvisi lampi di ironia e un felice intuito pop: come quando, a Firenze, ha chiuso citando una canzone di Battiato. «Vorremmo dire a ogni persona che ci prenderemo cura di lei».
La suggestione del linguaggio sembra per Vendola una sorta di rompighiaccio, uno strumento per far breccia nell'auditorio e aprire la strada alla possibilità di nuove sintesi. Si può amare la famiglia tradizionale e accogliere quella alternativa, si può essere omosessuale e ispirarsi alla morale evangelica, si possono citare Gramsci e Aldo Moro, Fassbinder e Tonino Bello, si può essere radicali e dialogare a tutto campo, si può essere agguerriti contro i sostenitori del liberismo e restare perfettamente non-violenti. Gandhi rimane una stella polare dichiarata.
A proposito di sintesi. Prima del congresso di Sinistra Ecologia Libertà, la mia ultima volta a Firenze era stata per il Forum Europeo dei movimenti nel 2002, quello contro cui si era scatenata la Fallaci. Ed era proprio da quella volta che non vedevo una tale sintesi di presenze e di facce umane. Pacifisti e ambientalisti, ragazzi new global e vecchie stelle della sinistra, femministe e cattolici sociali, sindacalisti e cani sciolti. Militanti fedeli alle strutture e giovanissimi cresciuti nella socialità liquida del web. Il lavoro sincretico di Vendola si fa sempre più inclusivo. Anche se in questo quadro ecumenico non mancano le incrinature.
A volte, sotto la pioggia di ovazioni, viene il sospetto che il leader sia un poco solo. Chissà se davvero tutti accettano le sue sintesi. Quando parla di Israele, quando mette sullo stesso piano i diritti di Israele e quelli dei palestinesi, davvero tutti sono disposti a questa equidistanza?
Sul fronte degli scettici, c'è chi prova fastidio per le acrobazie linguistiche. Chi lo accusa di troppa poesia e pochi fatti. Chi lo accusa di essere pasoliniano - lo ha fatto Miriam Mafai - come se la cosa fosse sinonimo di scarso realismo. A volte i discorsi di Vendola suonano come un assolo di free jazz. Bellissimi e imprendibili. Sullo sfondo resta la differenza, per usare una vecchia distinzione di Umberto Eco, tra persuasione e suasione. Retorica costruttiva o spire di fumo?
A Nord, ci si chiede se Vendola saprà parlare agli imprenditori padani. Se saprà parlare a un elettorato sedotto dal discorso molto più livido, ma in qualche modo altrettanto caldo - un discorso che esprime insieme "rancore e calore", secondo una definizione di Gianfranco Bettin - della Lega. In realtà qualche incursione c'è già stata. Come quella al convegno di Confindustria di Vicenza, a giugno, dove Vendola ha sfoderato un tono affabile eppure poco accomodante, strappando applausi.
Ciò che forse manca, a questo punto della parabola vendoliana, è completare la forza simbolica delle parole. Non tutti ricordano l'impegno di Vendola nell'antimafia, il pacco-bomba sotto il palco, le missioni a Sarajevo, non tutti conoscono il lavoro fatto nella sua regione, le politiche energetiche. Il rischio è restare confinato allo stereotipo del bravo oratore. Grandi parole, ma saprà governare? Andare a Pomigliano e a Melfi sono atti extra-verbali di forte impatto. Ne servono di ulteriori. Anche Gandhi ebbe la sua Marcia del Sale. Qualunque forma prenda, qualunque cosa sarà, la grande marcia di Nichi dovrà essere verso il Nord e verso chi lo considera poco più di un paroliere.
SINISTRA IN CAMPO
di Norma Rangeri
A ridosso della probabile crisi di governo, sotto i tempi stretti di elezioni anticipate, quando la democrazia fatica a reggere la crisi di sistema, Vendola e Bersani si incontrano e mettono insieme due debolezze (un leader senza partito e un partito senza leader), per farne una forza. Stringono l'alleanza per un «governo di scopo» funzionale al cambiamento della legge elettorale. Ipotesi all'inizio esclusa dal governatore pugliese, che invece ora mostra di crederci.
Il segretario del Pd e il leader di Sinistra e Libertà siglano il «patto di consultazione per il programma» e alle primarie, qualcosa di meno di un accordo di governo, molto di più di cartello elettorale. È la sinistra che si muove e fa il primo passo.
Più che un cantiere di ristrutturazione o di rifondazione (se la parola non fosse stata nel frattempo consumata) servirebbe un atto di fondazione dell'alternativa. Per sostituire alla retorica del berlusconismo un progetto nazionale. Per capire cosa dire sulla pace e sulla guerra, sul nucleare, sulla lotta di classe ai tempi di Marchionne, sul pubblico e sul privato, sull'immigrazione, sulla rappresentanza delle domande che nascono dalla crisi quando il distacco tra politica e società ha superato i livelli di guardia e un astensionismo anomalo minaccia la tenuta istituzionale. Per riunificare il paese.
Un vasto programma senza il quale, a questo tornante della crisi politica, si rischia di perdere definitivamente e ritrovarsi un parlamento che elegge Berlusconi alla presidenza della repubblica. Un finale di partita che alla fine ha rotto il centrodestra e fatto uscire allo scoperto la Confindustria contro il governo.
Le forze della sinistra prendono l'iniziativa. Ciascuno nel suo campo. Bersani deve rendere credibile l'alternativa, coltivare il nuovo Ulivo con un partito che ha perso forza di attrazione fino al punto di vederlo scendere nei sondaggi proprio quando il centrodestra è lacerato dalla guerra tra i gruppi di interesse che lo compongono. Vendola deve stare molto attento a non immaginare fughe solitarie lasciando dietro di sé minoranze politiche e movimenti destinati a restare inascoltati e a perdere se non si costruisce uno sbocco politico.
Un passaggio complesso, «storico», come lo ha definito Bersani ieri quando, insieme a Vendola, è sceso in strada a dare l'annuncio ai giornalisti. È un primo passo (persino in ritardo), di buon augurio se questo pranzo romano allude a un ricco menu ricostituente, necessario per rianimare e nutrire l'esangue sinistra.
INCONTRO
La scelta di Bersani
di Daniela Preziosi
Da oggi abbiamo il dovere di parlarci per mettere in campo una strategia di salvezza per il paese. Dobbiamo cercare un punto di unità per impegnarci insieme a dare un'alternativa, una speranza all'Italia. Il segretario del Pd smette di aspettare l'Udc e stringe un patto di consultazione con Vendola. Primarie e Nuovo Ulivo aperto a Idv e verdi, chiuso ai comunisti. Con Casini intese in questo parlamento
Un Bersani rilassato, un Nichi Vendola più teso che via via si scioglie, infervorandosi sul tremontismo, i tagli alle regioni, il berlusconismo e i suoi pericolosi colpi di coda. La 'pace' fra il leader del Pd e il presidente della Puglia si stipula davanti a un piatto di pesce crudo, menù mediterraneo che però concede gioie misurate. Non c'è molto da festeggiare, la strada della prossima coalizione è tutta salita, figuriamoci quella della vittoria. Ma Bersani - lo dicono più i suoi avversari che i suoi amici - è tipo da affrontare la strada un passo alla volta.
E stavolta il passo l'ha fatto. Accentando l'incontro con il leader di Sinistra ecologia e libertà, pazientemente costruito da Francesco 'Ciccio' Ferrara, già responsabile dell'organizzazione del Prc e ora di Sel, ma che l'entourage di Bersani definisce «il più bersaniano dei vendoliani e il più vendoliano dei bersaniani». La richiesta era datata settimane, ma si era resa urgente dopo quel paragone del Pd come «anime morte», in un'intervista a Oggi, che poi Vendola ha più volte smentito. A Bersani non è piaciuto. E da Varese ha avvertito: «Chi tratta male noi si terrà Berlusconi».
Invece si sono trovati d'accordo, soprattutto sul metodo, che è quasi tutto. Sulla necessità di chiudere col tremontismo, sul fare qualcosa per «salvare il paese», e cioè costruire una «grande piattaforma di alternativa». Vendola incassa un impegno sulle primarie di coalizione, che si faranno «quando avremo pronta una proposta per il paese» non necessariamente a crisi di governo aperta. E un «patto di consultazione» che in sostanza è l'abbozzo di una discussione programmatica.
Bersani incassa il via libera su un «governo di scopo», dove lo scopo è la legge elettorale e solo quella, visto che Vendola di governi tecnici non vuole sentire parlare. Pareggiano sul Nuovo Ulivo: Bersani lo vuole costruire con le forze del centrosinistra, Idv, socialisti, verdi, presumibilmente anche radicali, con i quali - i primi tre - si incontrerà nei prossimi giorni. Ma anche in rapporto con le parti sociali, sindacati, Confindustria, associazioni, alle quali presto spiegherà il senso della «svolta» programmatica del Pd. Vendola invece di entrare nel Nuovo Ulivo non ci pensa: «Non mi interessa la replica di formule del passato, mi interessa tessere la tela del cambiamento». Ma sostanza è quella: un nucleo di forze unite da un programma riformista.
Poi c'è la delicata partita dell'Udc. E qui sta il senso politico dell'incontro di ieri. Bersani si rivolge prima ai suoi alleati di centrosinistra, ai quali chiede di non mettere veti (ma Sel non ne mette, tranne che su Fini). Poi, da leader, si rivolgerà all'Udc. Ma è un accordo difficile, a cui «lavorare con pazienza». E che in gran parte dipende dall'offerta politica a cui l'Udc si troverà davanti al momento del voto. Per ora i punti di contatto sono i fondamentali: legge elettorale, difesa del parlamento e della democrazia. Un rapporto si può costruire, ma anche no. E dopo gli inviti lanciati da Varese lo scorso week end, e gli ammonimenti a non replicare le divisioni del '94, ieri Bersani ha scelto di non restare appeso alle trame centriste, né dare l'idea di essere «l'utile idiota di qualcuno» (ancora Varese).
Non è un caso che le reazioni dall'Udc siano state agre: «Bersani e Vendola pranzano insieme a Roma. Vogliono rifare il Pci?», dice Rocco Buttiglione, veterano di accordi a pranzo. L'Udc guarda altrove: «Dobbiamo lavorare a una nuova forza. Fini potrebbe unirsi se crede, Rutelli penso che verrà. Certo sono fuori dai nostri schemi l'Idv e la Sinistra Alternativa».
E invece, e non è un caso, i centristi Pd accolgono benone l'incontro che consolida loro un ruolo nel partito, nel lato opposto della sinistra. Per Beppe Fioroni «l'incontro sancisce il principio delle primarie», per Paolo Gentiloni è stato utile anche se «il rapporto con il centro è fondamentale». No comment da Marco Follini, ma l'ex Udc Stefano Graziano: «La nostra battaglia per un centro forte nel Pd è appena iniziata». Fra gli alleati, freddini i verdi e l'Idv. E invece Paolo Ferrero, Prc, incalza. Vendola, più che Bersani: «Proponiamo alle forze di sinistra che saranno presenti al corteo del 16 ottobre, di concordare le proposte con cui aprire in confronto col Pd: dal ritiro delle truppe dall'Afganistan ad un intervento pubblico che tuteli i posti di lavoro e sconfigga la precarietà».
VENDOLA: SI AL GOVERNO DI SCOPO
Il centrosinistra deve cambiare
intervista di Iaia Vantaggiato
Giusto cancellare il porcellum. Ma ci siamo chiariti, anche su Tremonti. Non sono entrato nel nuovo Ulivo e non mi propongo di entrarci, non mi interessa la replica di formule del passato. A me interessano le risposte da dare ai grandi problemi del paese e vedere se il centrosinistra è in grado di capovolgere la cultura berlusconiana
Pace fatta con Bersani e «caso Boccia» definitivamente archiviato?
Non ci siamo mai fatti la guerra, in realtà, ma ieri abbiamo provato a uscire da quella bolla mediatica che rende difficile il dialogo e brucia un'energia da utilizzare nel cantiere dell'alternativa. Abbiamo voluto abbattere insieme un muro di sospetti, polemiche e risentimenti che abitano un po' in tutti i luoghi del centrosinistra.
L'asse del nuovo centrosinistra o l'avvio di un più generico processo unitario?
Mettere in campo un processo unitario è decisivo. L'unità più larga possibile di tutti coloro che intendono seppellire il berlusconismo e inaugurare una nuova stagione. L'unità è condizione indispensabile ma non sufficiente per vincere. L'altra condizione è la sfida innovativa, un'autentica scossa elettrica che aiuti ciascuno ad uscire dalle proprie pigrizie ideologiche e dalle proprie rendite di posizioni. Guai se apparissimo non il centrosinistra del futuro ma una coalizione del passato.
D'Alema già pensava di allearsi con Casini. Gliel'hai fatta un'altra volta?
Io non ragiono in questo modo, non faccio politica disseminando la strada di trabocchetti e immaginando di pugnalare un mio alleato. Credo piuttosto che sia interesse generale quello di cominciare a camminare concretamente verso l'obiettivo di restituire politicamente una speranza a questo nostro paese così sofferente e smarrito.
Così tu porti a casa le primarie e Bersani il «governo di scopo».
Insieme portiamo a casa la condivisione di una grande inquietudine. Crisi sociale e crisi democratica, acutissime e intrecciate, prospettano un autunno incandescente. L'Italia è un paese danneggiato nel suo spirito pubblico. La destra ha sfigurato diritto, reddito e speranze di intere generazioni.
Qui però parliamo di riforma elettorale.
Non è sfuggire dalla realtà concentrarsi sugli effetti nefasti dell'attuale sistema elettorale. Il «porcellum» ha realizzato un equilibrio perfetto tra riduzione del pluralismo e ingovernabilità. È interesse generale ritrovare un punto d'equilibrio tra la rappresentanza democratica e il diritto a governare.
Non «resta» che trovare una maggioranza parlamentare.
È necessario un governo che lavori solo su quest'obiettivo, un governo di scopo appunto. E per realizzarlo ci vorrebbero la volontà, la forza e il coraggio di trovare una nuova maggioranza in parlamento.
Sel in Parlamento non c'è. Ma in compenso ci sei tu che godi di grande popolarità nella base del Pd. Insomma diciamo che hai dato una mano a Bersani.
Dobbiamo ragionare non per posizionamenti simbolico-ideologici o secondo il mero calcolo delle convenienze di bottega, ma sulla base di ciò che è utile al paese. L'idea che abbiamo condiviso è che le primarie non sono un gioco di palazzo ma un inizio di riconnessione tra politica e società. Sono il terreno sul quale si misura la capacità di innovazione di ciascuno di noi.
Scompare la sinistra radicale o si radicalizza il Pd?
Il ragionamento sulla democrazia mutilata provoca conseguenze politiche anche interne allo schieramento di centrosinistra. Io penso che ritornare con una certa fissità alla disputa moderati-antagonisti rischi di essere soltanto una riproposizione delle proprie biografie più che un modo per andare alla radice dei problemi. Bisogna rendere più di merito il confronto tra le diverse anime del centrosinistra e tutti quanti, a cominciare da me, siamo chiamati a uno sforzo di innovazione culturale.
Tu, sinora, ti eri sempre dichiarato contrario a un governo di transizione.
E infatti parliamo di «governo di scopo». Io non ho mai osteggiato l'idea della riforma elettorale e sarebbe curioso che dopo un'intera vita di militanza proporzionalista venissi considerato il difensore di questo sistema elettorale. Piuttosto mi terrorizzava l'idea che un governo di transizione, inglobando altri obiettivi come la lotta alla crisi economica, potesse assumere il tremontismo come codice oggettivo e naturale.
Ancora Tremonti?
Non è la medicina ma la malattia di cui soffre l'Italia. Anche su questo punto con Bersani ci siamo molti chiariti.
Il patto di consultazione prelude alla possibilità di incontri periodici tra te e Bersani?
Intanto spero preluda a un incontro in piazza, sabato, al fianco della Fiom.
E poi?
Abbiamo bisogno di passare da un'intesa metodologica a una comunanza di intenti dal punto di vista del cantiere. Patto di consultazione significa come rimettiamo il centrosinistra in rapporto alla battaglia per la scuola pubblica, alla difesa del diritto al lavoro, ai soggetti sociali che stanno soffrendo inclusa la piccola impresa.
E se Idv alle primarie candida De Magistris?
Mi va benissimo. Le primarie non sono lo strumento dei furbi ma il mezzo per riaccendere una passione politica che possa proiettare il centrosinistra al successo.
Il mese scorso due eventi cruciali hanno segnato il mondo dei partiti socialdemocratici. In Svezia il 19 settembre quel partito ha subito una forte sconfitta elettorale, ottenendo il 30,9% dei voti, il risultato peggiore dal 1914. Dal 1932, aveva governato il paese per l'80% del tempo ed è la prima volta da allora che un partito di centrodestra è stato riconfermato alle elezioni. E per di più, per la prima volta è entrato nel parlamento svedese un partito di estrema destra, contrario all'immigrazione.
Perché la cosa è tanto drammatica? Nel 1936, Marquis Childs scrisse un libro famoso dal titolo Sweden: The Middle Way. Childs presentava la Svezia sotto il regime socialdemocratico come la virtuosa terza via tra i due estremi rappresentati dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica. In Svezia la redistribuzione egualitaria si combinava con scelte democratiche nella politica interna. Ed è stata, a partire dagli anni Trenta, il prototipo della socialdemocrazia, la sua bandiera. E così è stato fino a relativamente poco tempo fa. Ma questo non è più vero.
Intanto in Gran Bretagna, il 25 settembre, Ed Miliband è arrivato da una posizione di minoranza ad assumere la direzione del partito laburista. Sotto Tony Blair i laburisti avevano avviato una riforma radicale del partito: «The new Labour». Blair aveva a sua volta sostenuto che il partito avrebbe dovuto imboccare una terza via - non tra capitalismo e comunismo, ma tra quello che un tempo si definiva il programma socialdemocratico di nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia e il dominio incontrollato del mercato. Una via di mezzo ben diversa da quella imboccata dalla Svezia a partire dagli anni Trenta.
La scelta dei laburisti, che hanno preferito Ed Milliband al fratello maggiore David, sodale di Tony Blair, è stata interpretata in Gran Bretagna e altrove come un ripudio di Blair e un ritorno ad un partito laburista più "socialdemocratico" (più svedese?). Ma nella prima conferenza tenuta al convegno dei Labour qualche giorno dopo, Ed Milliband si è sbracciato a ribadire la sua posizione "centrista". Ha però comunque condito le sue affermazioni con allusioni all'importanza della «giustizia» e della «solidarietà». E ha dichiarato: «Dobbiamo liberarci dai vecchi schemi di pensiero e schierarci con coloro che credono che nella vita ci sia qualcosa di più della riga finale di un bilancio».
Cosa ci dicono queste due elezioni sul futuro della socialdemocrazia?
La socialdemocrazia - come movimento e come ideologia - viene convenzionalmente (e forse correttamente) fatta risalire al "revisionismo" di Eduard Bernstein nella Germania di fine Ottocento. Bernstein sosteneva che una volta ottenuto il suffragio universale (ovvero il suffragio universale maschile), gli «operai» avrebbero potuto usare il voto per fare entrare il loro partito, cioè il partito socialdemocratico (Spd), al governo. Una volta ottenuto potere in parlamento i socialdemocratici avrebbero potuto «attuare concretamente» il socialismo. E dunque, concludeva, parlare di insurrezione come modo per andare al potere era inutile e insensato.
La definizione data da Bernstein di socialismo era per molti versi poco chiara, ma ai tempi sembrava comunque includere la nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia. La storia della socialdemocrazia come movimento dopo di allora è stata quella di un allontanamento lento ma continuo dalla politica rivoluzionaria verso un orientamento fortemente centrista.
I partiti ripudiarono il loro internazionalismo nel 1914 allineandosi a sostegno dei rispettivi governi durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Seconda Guerra, poi, quegli stessi partiti si allearono con gli Stati Uniti nella Guerra Fredda contro l'Unione Sovietica e nel 1959, al convegno di Bad Godesberg, la socialdemocrazia tedesca ripudiò totalmente il marxismo, dichiarando che «da partito della classe operaia, il Partito Socialdemocratico era diventato un partito del popolo».
Quello che l'Spd tedesco ed altri partiti socialdemocratici avevano finito per rappresentare allora era il compromesso sociale che andava sotto il nome di "welfare state". In quell'ottica, nel periodo della grande espansione dell'economia-mondo durante gli anni Cinquanta e Sessanta, fu un successo. Fino ad allora era rimasto un "movimento", nel senso che quei partiti potevano contare sul sostegno attivo e sulla fedeltà di un gran numero di persone nel loro paese.
Quando però l'economia-mondo entrò nel lungo periodo di stagnazione iniziato negli anni Settanta e il mondo si avviò alla globalizzazione neoliberale, i partiti socialdemocratici andarono oltre, passando dalla difesa del welfare state al sostegno di una variante più morbida del primato del mercato. Ovvero al "new Labour" di Blair. Il partito svedese resistette a quella direzione più a lungo degli altri, ma alla fine dovette a sua volta soccombere.
La conseguenza di tutto ciò fu però che il partito socialdemocratico smise di essere un "movimento" capace di suscitare la forte adesione e il sostegno di larghe masse e divenne una macchina elettorale cui mancava la passione del passato.
Se la socialdemocrazia non è più un movimento, continua però ad essere una scelta culturale. Gli elettori ancora aspirano ai benefici del welfare state e continuano a protestare man mano che li perdono, cosa che oggi succede con una certa regolarità.
Infine, va detta una parola sull'ingresso del partito xenofobo di estrema destra nel parlamento svedese. I socialdemocratici non sono mai stati strenui difensori dei diritti delle "minoranze" - etniche o di altro tipo - e ancora meno dei diritti degli immigrati; anzi in generale sono stati il partito della maggioranza etnica del rispettivo paese, e hanno difeso il loro territorio contro altri lavoratori, visti come una minaccia per occupazione e salari. Solidarietà e internazionalismo sono stati slogan utili in assenza di concorrenza esterna. Problema che la Svezia non ha dovuto affrontare fino a tempi molto recenti.
Quando poi si è presentato, un segmento dell'elettorato socialdemocratico si è semplicemente spostato a destra. Allora, la socialdemocrazia ha un futuro? Come scelta culturale sì, come movimento no.
traduzione di Maria Baiocchi, Copyright by Immanuel Wallerstein, distribuito da Agence Global
Vent´anni dopo nella sinistra italiana non è come nei romanzi, non è cambiato quasi nulla. «La svolta dell´89, la fine del Pci nel ‘91, dovevano essere l´inizio di una storia nuova della sinistra italiana che poi non si è realizzata. Meglio, è stata impedita con ogni mezzo dalla nomenclatura». L´analisi di Achille Occhetto, l´ultimo segretario del Pci, è spietata. «Esasperata, direi. E´ esasperante una sinistra che impiega quattordici anni per tornare all´Ulivo, ucciso nella culla nel ‘96 per una manovra di palazzo. È come se il coraggio si fosse esaurito tutto alla Bolognina. Ma forse è vero che già allora, nel modo in cui i dirigenti affrontarono il dibattito, erano affiorati antichi vizi, un certo opportunismo»
Non sarà per caso pentito della svolta?
«Al contrario, ma tutto avvenne troppo in fretta. Io pensavo a un cambiamento epocale, a una grande svolta libertaria della sinistra. Non mi accorsi che il gruppo dirigente la considerava soltanto il male minore, un astuto stratagemma per mettersi al riparo e anzi garantirsi l´ingresso nei salotti buoni. Il lutto per la fine del comunismo venne elaborato con cinismo, come un via libera alla pratica del peggiore compromesso»
L´immagine era quella di un leader solitario, circondato dallo scetticismo, pure non dichiarato, degli altri dirigenti. Era così?
«Sì, quella scelta fu compiuta in parte in solitario, sfruttando in fondo il mito dell´obbedienza al capo tipica dei partiti comunisti. Pochi erano davvero convinti, uno di questi era Fabio Mussi. Molti altri si fermavano alla superficie, non dico al marketing, al cambio del nome e del simbolo, che infatti è stato poi replicato senza cambiare la sostanza»
Chi era i padri culturali della svolta?
«I grandi del pensiero libertario italiano, da Gramsci ai fratelli Rosselli, Gobetti, Salvemini. Fra i politici dell´epoca Brandt e Olof Palme, i maestri del pacifismo e dell´ecologismo. Ma anche qui m´illudevo. Nei fatti ha trionfato un vecchio modello togliattiano, l´ossessione del potere per il potere»
In quello che lei considera il fallimento della svolta è stata però decisiva la rovinosa sconfitta della «gioiosa macchina da guerra» nelle elezioni del ‘94.
«Ma la responsabilità di quella sconfitta era in gran parte dei centristi. L´ex Dc di Martinazzoli non accettò di far parte di una coalizione di centrosinistra. Come avrebbe dovuto fare due anni più tardi. Rimasero aggrappati alle macerie del Muro di Berlino, come del resto tutti in Italia continuano a fare, a destra e a sinistra. Conviene. Non esiste un paese dove la vita pubblica, al di là delle rutilanti apparenze, sia più bloccata su vecchi temi, oltre che vecchie facce. E non è soltanto colpa di Berlusconi, la sinistra ha dato il suo contributo»
Non è un giudizio ingeneroso nei confronti dei suoi ex compagni di partito, sono tutti conservatori mascherati?
«Ma guardiamo i fatti. Chiunque si sia allontanato dalle pratiche della nomenclatura, chiunque fosse considerato per un verso o per l´altro fuori dagli schemi, è stato usato per la sopravvivenza e fatto fuori appena possibile. Non parlo del mio caso, sarei un narcisista. Ma dello stesso Romano Prodi, di Sergio Cofferati, di Walter Veltroni»
È anche vero che sia lei che Prodi, Cofferati e Veltroni vi siete arresi piuttosto rapidamente, le pare?
«Vede, il problema è lo stesso di allora, dell´89. Mi ero reso conto benissimo che per affrontare un vero cambiamento bisognava aprire le porte alla società, uscire dalle fumose stanze dei vertici di partito. Ma l´ingresso degli esterni, il rinnovamento anche generazionale del partito, venne vissuto come una minaccia, un´intrusione, un´invasione di campo dell´antipolitica. Lo stesso è accaduto con i comitati per l´Ulivo di Prodi, con il rapporto di Cofferati con i movimenti e infine col progetto di Pd aperto di Veltroni. La questione centrale del Pd è identica a quella del Pds e sta nel rapporto chiuso con la società. Ogni volta si cambia il simbolo, il nome, l´immagine e per un po´ s´illude l´elettorato, ma poi la logica della nomenclatura prevale e i consensi tornano a disperdersi»
Nel rapporto con gli esterni si riferisce a Vendola, Di Pietro, Grillo, al popolo viola e in generale a un´area a sinistra del Pd che è oggi l´unica in espansione, insieme alla Lega?
«Certo. E chi fa il politico di professione dovrebbe pure domandarsi perché è in espansione e perché invece il Pd è inchiodato nei sondaggi intorno al 25 per cento. Mi colpisce soprattutto l´ostracismo nei confronti di Nichi Vendola. Posso capire che Di Pietro e Grillo vengano considerati lontani, in certo senso estranei alla storia della sinistra, ma perché Vendola? E´ uno che viene da una storia tutta dentro la sinistra e rappresenta comunque una grande risorsa. Che vinca o no le primarie, è l´unico in grado di portare a un´alleanza di centrosinistra milioni di voti che altrimenti andrebbero persi alla causa. È incredibile che i dirigenti del Pd considerino Vendola un fenomeno estemporaneo, una specie di fricchettone che gioca con Internet. Si vede che neppure le batoste insegnano loro nulla. E quella presa in Puglia era piuttosto sonora»
A distanza di vent´anni, dove pensa di aver sbagliato, di che cosa si sente responsabile?
«Abbiamo sbagliato allora per la fretta, nell´urgenza storica. Abbiamo sbagliato a non spiegare che il mondo era cambiato profondamente, non soltanto per il crollo del comunismo, e bisognava tornare a studiare la società. Ancora oggi la visione del mondo del lavoro della sinistra italiana è legata a vecchi schemi, a modelli sociali tramontati negli anni Ottanta. C´è un gran fermento di fondazioni che non studiano nulla e sono soltanto trucchi per fondare correnti. Nella storia del vecchio Pci, io che ho dovuto chiuderla, salvo tante cose e altre ne rimpiango. E quella che rimpiango più di tutte è questa, l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare per capire i grandi mutamenti sociali»
La lettera di Bersani a Repubblica colloca finalmente, dopo tante incertezze e ambasce, il Pd al centro di una proposta politica all'altezza della crisi democratica che rischia di seguire al dissolvimento del Pdl. Bersani propone, cioè, a partire da un'intesa tra le forze del centrosinistra, la costruzione di un'alleanza democratica capace di affrontare - prima delle elezioni, ma più probabilmente dopo - quella fase costituente di cui il paese ha bisogno per ritornare nell'alveo di una democrazia compiuta capace di lasciarsi alle spalle le tentazioni populistico-plebiscitarie di questi anni.
Ma Bersani avanza anche un'altra proposta che implicitamente, mi sembra, prende atto del fatto che il Pd così com'è rischia di non reggere alla crisi di sistema che la fine del Pdl ha portato alla luce. E contro l'illusione bipartitica che, con Veltroni, era stata alla base della nascita del Pd rilancia l'ipotesi di un nuovo Ulivo, cioè di quel partito-coalizione il cui abbozzo abbiamo visto nel corso dell'«era Prodi». È presumibile che Bersani speri in questo modo di guidare l'evoluzione del Pd verso un assetto che eviti che le tensioni interne superino il limite di guardia. Penso soprattutto al conflitto potenziale, nella principale forza del centrosinistra, tra un nord sedotto dai progetti federalisti della Lega e un sud che, di conseguenza, sarebbe attratto dal movimento suscitato da Nichi Vendola con la sua candidatura a eventuali primarie (a questo punto bisognerebbe capire di chi: del centrosinistra, di questo nuovo Ulivo, della auspicabile alleanza democratica capace di battere Berlusconi e il suo disegno autoritario?).
La fine del Pdl, dunque, rimette in discussione l'intero assetto del sistema politico italiano e quelle stesse forze che hanno preteso negli ultimi anni di rappresentare la soluzione della sua crisi e invece l'hanno condotta al suo punto più drammatico.
Ed è singolare che, mentre tutto il centrodestra e il principale partito del centrosinistra sono attraversati da una ricerca su quali nuove formazioni politiche debbano succedere al disastro di cui siamo stati insieme tutti spettatori e protagonisti, a sinistra si resti prigionieri delle soluzioni politico-organizzative che si sono imposte due anni fa a seguito della nascita di Pd e Pdl. E che non si avvii una discussione che, insieme all'appoggio che da sinistra può venire alla costruzione della alleanza democratica che oggi sembra essere l'obiettivo anche di Bersani, riaffronti il tema dell'autonoma e unitaria rappresentanza politica del mondo del lavoro quale essenziale contributo al ridisegno di un sistema di rapporti politici che sia alla base della ricostruzione della democrazia italiana.
È evidente che per tanti aspetti la nuova situazione evocata dalla lettera di Bersani e la proposta di un nuovo Ulivo interpellino, a sinistra, più direttamente Sinistra Ecologia e Libertà piuttosto che Rifondazione comunista e Federazione della Sinistra, che si sono già dette d'altra parte interessate al progetto di alleanza democratica proposto dal segretario del Pd. Vale a dire: la candidatura di Vendola alle primarie, a cui inevitabilmente Sinistra Ecologia e Libertà dovrà legare il suo destino, si colloca all'interno del processo di costituzione del nuovo Ulivo auspicato da Bersani e concorre a determinarne la leadership, oppure si pone al suo esterno, dialoga con tutti i soggetti di una possibile alleanza democratica, e non confligge quindi con l'obiettivo di costruire un soggetto politico autonomo della sinistra italiana? È un chiarimento che, di fronte agli scenari che si stanno definendo, Sinistra Ecologia e Libertà deve innanzitutto a se stessa.
Naturalmente se si avverasse l'ipotesi di una ricollocazione di Sinistra Ecologia e Libertà nell'ambito del nuovo Ulivo auspicato da Bersani, la ricostruzione di una sinistra politica autonoma e unita, rappresentativa del mondo del lavoro (che resta una necessità storicamente fondata e inderogabile) dovrebbe cercare strade e percorsi nuovi. Altre difficoltà si aggiungerebbero a quelle già enormi in cui versa la sinistra italiana. Ma non per questo l'impresa meriterebbe di essere abbandonata. Ne sarebbe compromessa la qualità del processo di ricostruzione democratica che speriamo possa vedere la luce dopo la crisi dell'attuale precario assetto dell'Italia.
Postilla
Il problema è proprio questo: come ottenere, insieme, un’alleanza che sia maggioritaria, e perciò capace di restaurare la democrazia e la Costituzione, e insieme una formazione di sinistra? Il confronto con i tempi del Coitato di liberazione nazionale e della Costituente reggono fino a un certo punto: a quei tempi c’era l’unità antifascista nata dalla Resistenza ma, al suo interno, c’era il PCI.
Grazie all'innovativa pratica politica delle lettere al direttore, che finalmente oltrepassa il soporifero grigiore delle relazioni dei segretari di partito della prima Repubblica e la seduttività glamour delle comparsate televisive dei leader della seconda, il Pd ha ritrovato la parola rapita dall'estate dei veleni berlusconian-finiana e, sembrerebbe, anche una bussola. E malgrado lo stile epistolare strettamente politichese non si meriti il Pulitzer per capacità comunicativa, la rotta tracciata dal segretario Bersani in risposta all'ex segretario Veltroni ha il merito di sciogliere alcuni nodi da anni in sospeso nel dibattito interno del Pd e di tutto il centrosinistra, e causa non ultima della loro paralisi.
Sul piano diagnostico, Bersani coglie che la crisi politica in corso non è di governo ma di sistema , e che la posta in gioco del proseguimento o della fine del berlusconismo non riguarda un'alternanza di governo ma un modello di democrazia. Sul piano strategico, ne consegue una proposta che tenta di tenere insieme quattro esigenze - il rilancio del partito e del centrosinistra, la spallata a Berlusconi, il ridisegno del sistema politico, la restaurazione della normalità costituzionale - , con uno schema a due soggetti - il "nuovo Ulivo" per il programma di governo, una "Alleanza democratica" le regole del gioco. E' chiaro l'obiettivo: fine del bipolarismo leaderistico-plebiscitario, a maggior ragione nella sua versione bipartitica berlusconian-veltroniana; ritorno a un sistema parlamentare, con i fondamentali corollari di una legge elettorale proporzionale e, verosimilmente, di una forma di governo non più basata sull'elezione o la designazione diretta del premier. E' un obiettivo che sarebbe stato meritorio dichiarare prima che la rottura del Pdl e il profilarsi del terzo polo gli spianassero la strada, ma che almeno tenta di mettersi alla guida del cambiamento in atto.
Assai meno chiari sono tempi, modi, praticabilità della proposta. Se il suo principale punto di forza consiste nel tentare di dare respiro strategico - la ricostruzione democratica - a un passaggio tattico stretto - l'apertura a tutte le forze interessate a dare la spallata a Berlusconi -, qui c'è anche la sua evidente debolezza: quando, come e con quale moneta di scambio? Tutto dovrebbe ruotare su un accordo per il proporzionale, ma Bersani sa bene di quanti ostacoli è lastricata la riforma della legge elettorale, in primo luogo nel suo stesso partito; bluffa quando la àncora a un governo di scopo o di transizione, perché per rifare la legge elettorale non c'è bisogno di un governo e basta un'iniziativa parlamentare (che è lecito a questo punto pretendere dal Pd fin dalla riapertura delle camere); e glissa sul problema numero uno, cioè che i tempi dell'agenda politica continua a dettarli Berlusconi. Il quale può sempre portarci alle urne e con la legge elettorale vigente.
Basterebbe in questo caso il "nuovo Ulivo" a fronteggiarlo? Qui la debolezza dello schema diventa fragilità, se non inconsistenza. Nel nome c'è la cosa, e per quanti prodiani di stretta osservanza quel nome possa rassicurare per le strade di Bologna, alle orecchie dell'elettorato di sinistra - o del "nuovo popolo" evocato da Bersani a Rimini - non suonerà come un nome propriamente innovativo, né come una cosa esaltante da rifare. Non c'entrano su questo i giochi tattici e strategici, c'entra la percezione del tempo che passa, delle generazioni che cambiano, dei problemi che si incancreniscono, dell'esigenza di idee nuove e di risposte diverse che non può essere continuamente compressa e repressa sotto formule, sigle e facce sperimentate e consumate. Naturalmente, dire "nuovo Ulivo" serve a ridare centralità e peso a un Pd che rischia di sgretolarsi sotto l'onda d'urto dello sgretolamento del Pdl, e a ricondurre allo stato di "cespugli" gli illegittimi pretendenti al trono della leadership della coalizione. Ma avrà pure un significato se il segretario del Pd esordisce, nella sua lunga lettera, con l'impegnativa affermazione che «per l'Italia la scelta non riguarda più solo un governo, ma finalmente un'idea di democrazia e di società», e prosegue con un'idea solamente restaurativa di democrazia e nessuna idea di società. A meno che anch'essa non sia affidata allo spettro che si aggira per tutto il testo di Bersani, e che si chiama primarie. Forse bisogna che lo spettro si materializzi perché si materializzino, con i candidati, i problemi di una società martoriata da Berlusconi, Tremonti, Marchionne, e qualche risposta.
Se si discute seriamente degli intellettuali, la prima cosa che conviene osservare è che è il dibattito sugli intellettuali che si è logorato, non la loro funzione. Anzi. L'efficacia degli intellettuali di destra è evidente a tutti. Nessuno di loro è un genio, sono rozzi anche quando sono colti, spesso sono servili e impudichi. Ma ci sono. Contano. Possiamo disprezzarli, non possiamo sottovalutare l'efficacia della loro funzione. Servono, appunto. Hanno la grande opportunità di potersi appoggiare a un regime, al potere, a una realtà strutturale, insomma, e questo li rende forti. I nostri sarcasmi non li scalzano. Conviene, anzi, riflettere sulla loro funzione, prima di discutere della funzione degli intellettuali di sinistra.
Il potere e il denaro
Essere organici, più che a un partito, al potere conferisce una forza e un'efficacia molto rilevanti, essenziali. Perché il potere di cui parliamo non è un potere metafisico. È una struttura nel senso di Marx, è un potere strutturale, strutturato. È fatto di giganteschi conflitti di interessi, di continue violazioni delle leggi e delle regole, di corruzione, di impunità. È fatto di un'enorme, pervasiva, penetrante capacità mediatica. È fatto di istituzioni corrotte e corrompibili, di grandi industrie, di sindacati docili quando non servili. E di danaro, molto danaro. A questa struttura cosa può contrapporre la sinistra? O meglio, cosa possono contrapporre gli intellettuali di sinistra, ché di questo posso e voglio parlare.
La sovrastruttura
Incominciamo con l'osservare che gli intellettuali di sinistra sono sovrastrutturali, non solo nel senso che la loro opposizione investe o piuttosto può investire soltanto, come è ovvio, delle realtà sovrastrutturali, ma anche nel senso che essi possono essere organici soltanto a organizzazioni partitiche, per di più esigue, fragili e litigiose, a una cultura, a delle idee, o meglio, se non si ha paura della parola, a delle ideologie. Possono essere organici, insomma, a qualcosa di immateriale. Mentre, oggi, è la materialità che conta, anche per chi finge di nutrire soltanto ideali.
Il punto che mi preme sottolineare, e che, credo, dovrebbe essere al centro di un dibattito, è l'organicità e la disorganicità dell'intellettuale. La disorganicità, elogiata da Umberto Eco, è facile da assumere e da praticare, può essere preziosa sul piano culturale, ma sul piano politico, o meglio sul piano strutturale, ben difficilmente produce risultati apprezzabili. L'intellettuale disorganico possiede di solito un'intelligenza lucida e penetrante, una cultura raffinata, è brillante, versatile, ironico, a volte sarcastico, spesso scettico, non di rado sfiora il cinismo. È libero e soprattutto si sente libero e si compiace della propria libertà. Vanta la propria funzione sociale e culturale, non manca di esibire i propri meriti.
La funzione dell'apparire
Esiste anche una disorganicità di sinistra, e non è meno raffinata di quella di destra. Sono gli intellettuali disorganici di sinistra che sostengono che gli intellettuali non esistono più, o sono diventati inutili, non contano, così come non serve discutere, perché non se ne può più di proposte astratte, sganciate dalla realtà, in conflitto fra di loro, che lasciano il tempo che trovano. Ma intanto loro discutono, sono presenti, non rinunciano a prendere la parola e ad apparire. E mostrano di aver ragione. Perché intellettuali come loro sono davvero inutili. Ma ha più ragione Massimo Raffaeli che invita a tener conto dell'esempio di Brecht e propone la via dell'umiltà. Sono le domande semplici e apparentemente ingenue che possono imbarazzare e mettere con le spalle al muro una cultura aristocratica e cinica.
Fiducia e coraggio
L'ottimismo è degli imbecilli, la fiducia è di chi ha coraggio, non si arrende e soprattutto non tradisce. Perché chi si vergogna o esita a dirsi comunista o marxista o di sinistra, tradisce. È fatta anche di tradimenti, di molti tradimenti, l'agevole ascesa di Silvio Berlusconi.
Ma, prima di concludere, non possiamo trascurare l'intellettuale organico. L'intellettuale organico chi è, oggi? Prima di tutto: esiste ancora? Certo che esiste, o che può esistere. Non può più essere organico a un grande partito di sinistra, ma può essere organico a una determinata cultura, a una determinata ideologia.
Serietà e coerenza
Una cultura non solo non conformistica, ma radicalmente antagonistica. Un'ideologia ben strutturata, razionalmente contestativa. Può essere organico, in primo luogo, a una classe sociale, se non crede alla favola fatta circolare dagli intellettuali reazionari secondo la quale le classi non esistono più. Gli operai di Pomigliano, e non solo loro, stanno a dimostrare il contrario. Organicità implica serietà, implica coerenza, implica fedeltà. A volte implica anche rinunce e sacrifici.
Per quanto mi riguarda, non ho paura a dire, o, se si preferisce, a ripetere, che organicità chiede disciplina intellettuale e morale. E chiede impegno. Saranno i sarcasmi degli intellettuali disorganici a disarmarci e a metterci a disagio? Chi ha detto che una cultura organica è incapace di ironia? Noi, che abbiamo perduto tutto, o quasi, noi, pessimisti organici, abbiamo imparato da tempo che è attraverso l'ironia che va guardato il mondo alla rovescia in cui ci tocca vivere.
«Il Sud non si salverà solo con un localismo virtuoso», dice Franco Cassano gustando una granita nel sole barese. Sociologo e anima storica della «primavera pugliese», Cassano osserva un Mezzogiorno privo di futuro, incurante del passato, a rischio di passare dalla «periferia» all'isolamento totale. «Non solo Bassolino ma in tanti negli anni passati hanno pensato che il Sud ce la dovesse fare da solo, magari con una Repubblica dei sindaci. Viesti scrisse addirittura Abolire il Mezzogiorno. L'idea era sfidare l'Europa e liberare il capitalismo meridionale».
Perché quell'idea non ha funzionato?
«Napoli è un caso a parte soprattutto per le sue dimensioni. Non c'è alcuna proporzione tra l'entità dei problemi e gli strumenti che ha. I suoi problemi non possono essere risolti a livello municipale. Bisogna prendere atto che il Sud è molteplice, che non esiste nessun punto di osservazione privilegiato. Se sei in una situazione periferica non ne puoi uscire solo con il localismo virtuoso, la puoi battere solo con la grande politica. Vivere in periferia vuol dire che tu sei lontano anche da chi ti è vicino, come Roma. Vuol dire che devi passare prima dal centro per muoverti e non hai un accesso diretto al mondo».
E quindi chi è l'attore della trasformazione?
«Il Mezzogiorno ha bisogno di grande politica, e non ce n'è. Dovrebbe riconnettere le sue differenze interne. Nel dopoguerra il Mezzogiorno ha avuto un ruolo nazionale, subalterno, ma ce l'aveva. Con la globalizzazione invece il Nord non ha più bisogno del Sud: gli bastano la Romania, la Bulgaria. Per questo nel Nord si fa strada alla fine degli anni '80 l'idea del Sud come peso e spreco di risorse, e si pensa che è meglio che vada a fondo».
L'Italia come un arcipelago di regioni che non comunicano più tra loro. Però mi pare che si assomiglino più di quanto appaia: la 'ndrangheta a Milano, il consumo del territorio ovunque, le piccole imprese nel Veneto o in Sicilia.
«Certo, le mafie hanno radici territoriali ma sono ormai pienamente globalizzate. Ma la differenza per me è tra centro e periferia. Il Nord non è il centro di un sistema europeo ma comunque è integrato. Il Sud no, e questo è considerato ormai un dato antropologicamente incorreggibile. Sono analisi molto semplicistiche. Le regioni non sono separate, tra di loro c'è un rapporto. Come fai a parlare della Lombardia senza considerare l'arrivo lì di migliaia di laureati che formiamo qui al Sud? Il punto sono le relazioni, non gli indicatori statici. Il pregiudizio antimeridionale vive da sempre nelle cantine di Bergamo. Ma il problema è che adesso prospera in tutto il paese anche per le colpe della classe dirigente meridionale».
Che fare allora?
«Il Sud avrebbe bisogno di grandi finanziamenti e di un'idea di sviluppo che lo faccia entrare in relazione con i suoi vicini. Gran parte delle risorse che vi arrivano invece sono destinate al consenso. O'Connor, un vecchio marxista californiano, diceva che la spesa pubblica deve scegliere tra accumulazione e legittimazione. Nel Sud gran parte di queste risorse servono a organizzare il consenso, anche con servizi o cose buone, ma non preparano il futuro».
Del federalismo fiscale dicono: è meglio perché se spendi male i miei soldi ti caccio via. Ma chi governerà gli enti locali non spenderà ancora di più per legittimarsi? Non si rischia un consenso ancora più perverso?
«È un meccanismo che si accentuerà. Ma il punto è come fai ad andare avanti con una coperta corta. Quando Tremonti dice «cialtroni» ai politici meridionali passa ad altri una bomba sociale pericolosissima. Col federalismo se un sindaco o un presidente dirà alla gente: non vi diamo più questi servizi - ospedali, borse di studio, etc. - perché dobbiamo programmare il futuro in altri settori, si brucierà. Che fai, prendi le mie tasse per darle a qualcuno tra vent'anni? Senza risorse si sta accendendo una grande polveriera sociale. Quale che sia il tipo di sviluppo a cui si mira, non si può fare senza investimenti che non siano destinati subito al consenso. La politica italiana fa poco o niente perché in Italia le masse sono entrate nello Stato, ma ci sono entrate in modo tale che tu dovresti togliere ad alcuni e dare ad altri e non lo puoi fare. Sono dilemmi tragici anche perché la politica ormai è totalmente a valle dei processi economici. È al massimo la politica del tappabuchi».
Anche Tremonti secondo te non orienta i processi?
«Tremonti fa l'interesse di alcune parti. Per lui il bene comune è il bene di alcune aree del Nord e che gli altri si rompano. È una politica malthusiana facile, piccola cosa anche se si muove su scenografie filosofiche o planetarie e si traveste di forza. Poi però voglio vedere che succede. Perché credo che le conseguenze non saranno indolori».
E la Puglia che ruolo può svolgere?
«È in corso un'esperienza interessate e importante. Ma la Puglia deve evitare la tentazione di fare «la più bella del reame». Non si deve illudere di poter fare da sola, deve lavorare insieme agli altri per trasformare il centro di gravità in un quadro policentrico».
Ma tu che ne pensi del Sud di «Gomorra»?
«Saviano va difeso ma credo che nel Sud ci sia anche altro. C'è una tendenza a proteggerlo in cambio dell'uso continuo della sua testimonianza. Anche dentro la logica di Gomorra il primo addendo può essere la presa di coscienza e la scelta dell'azione civile ma per fare una somma ci vuole cultura, sapere, risposte anche sui meccanismi di sviluppo. Ci deve essere insomma una prospettiva di uscita dal regime criminale. Devi inventare dei percorsi. Non è certo colpa di Saviano se non li offre altri dovrebbero farlo. La legalità è un problema grave e siamo grati a Saviano per averla messa al centro del discorso, ma da sola non basta. Leggevo sul Fatto un articolo che si chiedeva perché sia la Chiesa che Berlusconi eludono la legalità. E la tesi era: Berlusconi la elude in nome dell'investitura popolare e la Chiesa in nome del mandato divino. Al di là del moralismo è una tesi interessante. Ma la sinistra si deve ridurre tutta alla difesa della legalità? Non ha più un oltre? Un'esigenza di trascendenza rispetto alla legge? Le leggi si rispettano ma vanno anche cambiate, contestate. Nella legge ci sono dimensioni che vanno costruite e non si esauriscono nell'osservanza della legalità formale. La questione meridionale non è più una questione nazionale ed è amputato di qualsiasi prospettiva. Se vuoi cambiare le cose, devi cambiare le leggi esistenti e ispirare le leggi del futuro. E invece c'è una contrazione, soprattutto giovanile, sulla legalità. E' frutto del berlusconismo, certo, ma anche della scomparsa del futuro, dell'oltre, dei pensieri lunghi».
Anche i partiti però sono un problema serio.
«Una volta queste analisi si facevano nei partiti. Oggi invece sembrano competenze territoriali o chiacchiere da intellettuali. Spero che le fabbriche di Nichi si sintonizzino anche su questa lunghezza d'onda. Che non diventino un'isola in cui si sta bene perché c'è una comunità omogenea. Il problema non è solo di un leader o delle oligarchie di partito: ci devono essere luoghi di ragionamento collettivo. Altrimenti solo la via carismatica, passionale o creativa corre il rischio di non essere sufficiente. È necessaria, forse, ma per diventare sufficiente deve attrezzarsi a una pratica di relazioni che vadano anche oltre la fantasia o la creatività. Con uno sguardo strabico: un occhio alle emozioni e uno agli altri».
«Il capitalismo ormai non è solo incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita». Incontro Nichi Vendola nel suo ufficio alla regione Puglia sul lungomare di Bari. Alla vigilia degli stati generali delle «sue» fabbriche non si dà pace per la macelleria sociale, sadica, targata Tremonti: «L'anno prossimo in Basilicata scompariranno i treni».
Che cosa dirai alle persone che verranno domani (oggi, ndr)?
Non ho influenzato neanche per un secondo la costruzione del programma di questi stati generali. Mi sono accordato con gli organizzatori solo sul loro senso generale. Che è la raccolta di tutte le esperienze fatte e la possibilità di immaginare un loro sviluppo, un percorso. Per me ho ritagliato due discorsi in apertura e chiusura sul buio e sulla luce, come nella Genesi. Insisterò sulla necessità di dare parole alle cose e di non essere privi di vocabolario. Sono molto curioso anch'io di come sarà.
Nove anni fa in questi giorni eri a Genova. E' rimasto un qualche nesso tra quella stagione e «gli stati generali» delle «tue» fabbriche che iniziano a Bari?
Il movimento noglobal aveva rotto per la prima volta la tela dell'egemonia liberista e capovolto lo schermo su cui veniva proiettata la globalizzazione. Soprattutto aveva raccontato «un altro mondo possibile» all'opinione pubblica mondiale. Per questo la repressione fu così implacabile. Il garantismo di regime si rovesciò in una buia notte cilena. Il paradosso di oggi è che c'è per intero la narrazione di quel movimento ma non c'è più il narratore. Fu un errore in quel luglio del 2001 non aver chiesto a tutte le sinistre il salto di qualità che andava compiuto. Lì dovevamo rifondare il soggetto politico, nel punto più alto dell'onda planetaria. Oggi siamo costretti a questa fondazione per la ragione contraria. Perché siamo al massimo decadimento della politica e a un punto di crisi senza precedenti dell'etica pubblica e della coesione sociale. Ma in questo quadro la crisi travolgente del centrodestra vede un affanno drammatico delle forze di opposizione e in particolare del Pd. Tracolla il berlusconismo e il Pd perde consenso.
Appunto. Quindici anni di berlusconismo hanno devastato la sinistra fino a farla scomparire e hanno allontanato, forse definitivamente, i giovani dalla politica «praticata». Perché le tue fabbriche sono nate soprattutto da giovani?
Da un lato c'è una politica ufficiale che si avvita nella stanca reiterazione di vecchie formule come quella del governo tecnico o istituzionale e di tutte queste diavolerie. Dall'altro c'è il tremontismo che avanza e che mette in mora anche Berlusconi con la dittatura dei mercati. E' un paesaggio che assomiglia a una guerra mondiale. In cui un'intera generazione non potrà più darsi appuntamento col proprio futuro produttivo. Sono francamente inascoltabili sia il lessico cingolato di una destra che organizza comunità di rancore come visione generale del mondo, sia un centrosinistra che balbetta ricette di buon senso come un buone amministratore di condominio. C'è una destra che fa il tifo per Marchionne e un centrosinistra che gira la testa altrove come se tutte le culture della modernità non fossero convocate di fronte ai diritti sociali e individuali di un operaio di Pomigliano.
C'è un rischio però. Che il «nuovo inizio» cancelli genealogie col passato che invece ci sono e andrebbero articolate, se si vuole veramente «rigenerare» la politica. Non c'è narrazione senza esperienza.
E' una domanda aperta. I nodi della storia non sono nicchie di nostalgia, sono vettori di ricerca. Le fabbriche sono una lotta generazionale all'interno del vecchio centrosinistra. Ma sono un esodo dalla cattiva politica che puzza di morte. Questa è una generazione che può ricostruire una propria genealogia senza furbizie eclettiche e senza torcicollo. Gli alleati spontanei di questi giovani sono Gino Strada e Emergency, don Ciotti e Libera, Carlo Petrini e Slowfood. Tre punti di ribaltamento dell'egemonia borghese che falsificano il modello di sviluppo fondato sulla guerra, la violenza e la mercificazione della natura. E' una generazione che scopre in forme anche naif una narrazione femminista, magari attraverso il documentario di Lorella Zanardo.
Mi pare che i seminari che avete preparato siano molto attenti a Obama. Cos'è, la costruzione di un «Obama bianco»?
C'è una curiosità genuina. L'Europa si sta liberando della propria civiltà in maniera sbrigativa, quasi burocratica. E' un continente che si rimpiccolisce in una dimensione neocarolingia da fortezza assediata, che invecchia illividendosi. Perché è interessante l'America di Obama? Perché è il luogo in cui il principio-speranza è tornato a occupare uno spazio a sinistra che prima era occupato dalla realpolitik. E poi perché ha aperto nuovi codici della comunicazione politica. Noi, ma non solo noi, guardiamo con simpatia alla connessione tra Rete e piazza.
E' l'inizio di una campagna nazionale?
Sul piano politico è la mossa del cavallo. Ma le caselle della scacchiera non sono più la politica-politica ma tutte le zone di confine tra culture e corpi sociali, tra soggettività che provano a mettere in comune esperienze per rifondare una rete cooperante. Cooperare è la ragion d'essere della sinistra. Se resta la politica ma crepa la comunità, la sinistra muore. La sinistra del futuro deve essere innanzitutto un nuovo umanesimo. Deve contrastare il paradigma della competizione con quello della cooperazione. E deve farlo all'incrocio tra libertà, lavoro e sessualità, nella connessione tra corpo sociale e corpo individuale.
Ma poi c'è l'esperienza di governo. La vicenda Obama insegna che la Rete costruisce ma anche distrugge. Il suo discorso sulla «impotenza» di fronte alla macchia di petrolio dimostra che il punto non è costruire un leader quanto produrre quel cambiamento auspicato collettivamente.
Quel bellissimo discorso di Obama segnala il limite del riformismo. Dentro il recinto delle compatibilità date non c'è una risposta strutturale. Non lo dico per estremismo ma oggi bisogna costruire con radicalità un'idea alternativa dello sviluppo e della crescita. C'è un modello di capitalismo e di mercato che non soltanto è sempre più incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita. Questo è il radicalismo nuovo, universalistico. Il lessico di un'alternativa vincente.
Prima ancora di avere in mano l’ultimo numero di , sono stata interessata da quello che veniva annunciato come tema centrale: “La solitudine dei conflitti”. Per più d’un motivo. Basta uno sguardo al panorama politico del mondo per avvedersi della quantità e della varietà dei conflitti che lo agitano. Al di là del “conflitto dei conflitti”, quello tra capitale e lavoro, da un paio di secoli presente e attivo nella nostra società, e costitutivo della sua stessa forma, sono innumerevoli i momenti di critica esplicita nei confronti dei problemi più diversi, espressa nei modi - vecchi e nuovi, talora nuovissimi - della conflittualità politica. Sorti soprattutto nell’ultimo cinquantennio, a contestare una società intessuta di violenze, disuguaglianze, gerarchie antiche e nuove, sempre più di frequente si impegnano a esprimere pubblicamente le loro ragioni: di solito però ignorati da tutti i poteri e tendenzialmente cancellati, comunque obbligati alla solitudine.
E’ anche vero d’altronde che in qualche modo ogni conflitto dal canto suo tende a isolarsi, ad agire “in proprio”, all’interno e per mezzo del gruppo che lo rappresenta. Il quale discute, riflette, manifesta per gli obiettivi che si è dato, senza però mai (o quasi mai) rapportarsi e confrontarsi con altri analoghi soggetti. Al contrario spesso accade che dal corpo centrale di un movimento si distacchino filoni impegnati in tematiche parziali, finendo per concentrarsi su un unico aspetto del problema: a volte fino a perdere di vista l’obiettivo centrale, che tutti li contiene e da tutti è determinato.
Per fare un esempio, la sempre più grave crisi ecologica, di per sé ragione indiscutibile di contestazione del “sistema”, ha dato luogo a un folto gruppo di conflitti “secondi”: dal filone centrale delle ricerche scientifiche relative al fenomeno, alle tante iniziative spicciole impegnate a contenere l’inquinamento; all’importante settore di indagine, oltre che di dura contestazione, relativo al nucleare; al folto e combattivo movimento per il diritto all’acqua; alle tante vere e proprie rivolte popolari contro la cattiva o inesistente gestione dei rifiuti, o contro opere ritenute non solo ecologicamente inaccettabili (vedi Tav, Dal Molin, ponte sullo Stretto, ecc. per limitarci all’Italia); ai tantissimi gruppi di animalisti, vegetariani, anti-caccia, e così via. Fino al sempre più grosso e influente complesso (che coinvolge un numero crescente di grossi poteri economici) impegnato nelle energie rinnovabili e in genere nella cosiddetta “green economy”.
E’ in questo senso che il tema messo in campo da Alternative credo potrebbe farsi antefatto di una riflessione più larga e impegnata di quella (peraltro assai pregevole) già svolta; fino a investire i problemi connessi alla crisi in cui si dibatte l’umanità. Che è crisi totale. Crisi economica e finanziaria da un lato, e crisi dell’ ecosistema terrestre dall’altro. Crisi fatta di nuovi sfruttamenti e di crescenti distanze tra classi sociali; di mutati rapporti tra Nord e Sud del mondo; di scelte e abitudini, acquisite magari per via di migliori condizioni di vita. Crisi dell’intera cultura, o meglio della forma antropologica che a partire dal secondo dopoguerra si è andata definendo, in sintonia con l’esplosione di produzione e consumo; anzi facendosene strumento e funzione, fino a identificarsi sempre più compiutamente con la forma-capitale.
Di questa crisi non solo la moltitudine, ma anche la “solitudine” (a volte scelta) dei conflitti denunciano la vastità e la capillare complessità. Con lo sgomento che segue alla sua presa d’atto, e con il rifiuto (o l’incapacità) di affrontarla, o anche soltanto guardarla nella sua interezza; e dunque con la fuga nella “solitudine” del gruppo, di ciascun gruppo, concentrato nell’impegno relativo a un solo problema (o a un pezzo di problema); chiuso al confronto con soggetti portatori di altri, sovente assai prossimi, problemi e conflitti.
E però questi innumerevoli conflitti minori, che di fatto convergono nella totalità della crisi, non di rado si trovano affiancati, ed espressi, in manifestazioni pubbliche “totali”. Penso a due piazze romane, recentemente luogo di eventi in questo senso esemplari: Piazza del Popolo, straripante di gente che a gran voce chiedeva libertà di informazione, e Piazza San Giovanni, dove più di un milione di persone gridava contro il governo Berlusconi. Eventi creati per obiettivi diversi da due soggetti diversissimi: promosso dal quotidiano La Repubblica il primo, inventato da “Facebook” il secondo. Ma ambedue portati al successo dal comune sentire di persone di ogni sorta: disoccupati, precari, immigrati, cassintegrati, ambientalisti, femministe, intellettuali, studenti, insegnanti, pacifisti, no-global, vecchi e giovani militanti di varie sinistre, estreme e non.
Penso anche alla gigantesca mobilitazione pacifista del 2003, che nello stesso giorno, nelle piazze di tutto il globo, ha convocato folle bandiere inni e invettive, e di cui il New York Times ha parlato come della “seconda potenza mondiale”. E forse riflessioni non troppo dissimili si potrebbero fare a proposito delle manifestazioni antigovernative di Teheran; o del ripetuto, massiccio convergere di immigrati dalla banlieu parigina verso altre folle provenienti dai quartieri alti; o anche (sebbene il paragone possa sembrare improprio) dell’elezione di Obama a presidente Usa, voluta da ceti diversissimi, espressione molteplice di sensibilità, problemi e conflitti prima rimasti muti e separati. E ancora, anzi a maggior ragione, a proposito delle vere, profonde, spesso totalmente inedite, rivoluzioni in atto nel Sud del mondo, in America Latina in particolare (1).
Perché in realtà tutti i diversi fenomeni di questo tipo e i tanti altri che si potrebbero citare, per il loro numero e per la qualità che in qualche misura li accomuna, vanno assai oltre il valore del singolo evento e dell’obiettivo specifico, parlando non solo della moltiplicazione dei conflitti, ma di un nuovo senso del conflitto stesso e del bisogno di un mutamento profondo della politica. Come la drammatica crisi delle sinistre in tutto l’Occidente sta a dimostrare. E forse, se la ricerca aperta da avrà un seguito, potrebbe aiutare l’impervio tentativo di dar vita a una politica di sinistra capace di misurarsi con i problemi attuali. Che sono molto diversi da quelli storicamente affrontati e spesso risolti dalle organizzazioni del lavoro.
“Uscire dalla crisi”, è oggi l’insistito proposito di tutte le parti politiche. Le sinistre non fanno eccezione. In che modo uscirne, nessuno con chiarezza lo dice. Le sinistre nemmeno; ma il loro impegno (che naturalmente propone come obiettivo minimo immediato un significativo calo di disoccupazione, cassintegrazione, precarietà, ecc.) oggettivamente comporta ripresa di produzione e consumi, rilancio dei mercati, aumento del Pil, insomma la rimessa in funzione della realtà pre-crisi. In pratica insomma (non troppo diversamente da quanto a gran voce auspicato dal padronato e dalle destre in genere, oltre che dal comune “buon senso”) le sinistre si trovano ad agire per la rimessa in salute di un mondo in cui metà della ricchezza prodotta è detenuta dall’uno per cento della popolazione (2), un sesto degli abitanti è sottoalimentato (3), il consumo di natura da parte dell’organizzazione economica supera pericolosamente la quantità di materie prime da potersi usare senza danni irreparabili (4 ); in cui sono in corso trentacinque conflitti armati (5) e, nella generale caduta del Pil, l’industria degli armamenti è la sola a “tenere”.
Di tutto ciò d’altronde le sinistre - o quanto meno le più avanzate - sembrano consapevoli, quando, pur continuando ad auspicare “ripresa”, “uscita dalla crisi”, ecc., affermano anche che occorre cambiare radicalmente le cose. “Partiamo dal lavoro”, è la parola d’ordine che solitamente ne segue; e direttamente connessi appunto ai tanti gravissimi problemi del lavoro (fabbriche a rischio, delocalizzazioni, licenziamenti, ecc.) sono i temi centrali di dibattiti, convegni, seminari. Sacrosanto. Il mondo del lavoro è quello che più pesantemente soffre la crisi, e confrontarsi con le sue crescenti difficoltà, tentare di contenerne almeno le conseguenze più devastanti, anche interpretando e sostenendo la conflittualità che ne deriva, non solo è un dovere per le sinistre, ma addirittura una sorta di riflesso condizionato.
Sacrosanto e forse inevitabile. E infatti anche gli articoli (tutti peraltro di molto interesse) dedicati alla “solitudine dei conflitti” su , per lo più vertono appunto sull’isolamento degli operai nelle loro disperate proteste; e accusano politica, grande industria, organismi transnazionali, ecc. impegnati a immaginare la rimessa in moto del “sistema”, di fatto prescindendo dal lavoro e dalle sue sorti, quasi si trattasse di una variabile marginale, da potersi tranquillamente ignorare.
Sacrosanto, ripeto. Anche inevitabile? Non so. E provo a domandarmi se, nel mentre stesso in cui si impegnano a ridurre quanto possibile le ricadute della crisi sui lavoratori, non sarebbe utile che le sinistre provassero a sollevare dubbi non solo sulla utilità ma sulla stessa praticabilità dell’”uscita dalla crisi”, della “ripresa”, ecc. : a tale scopo allargando lo sguardo verso altri orizzonti, non meno carichi di interrogativi ma forse anche di “possibili”, magari soffermandosi a riflettere sul malessere di cui parlano proprio i mille conflitti in atto e la loro “solitudine”. E a tale scopo provando a rileggere la propria storia in una chiave diversa da quelle abituali alle numerose indagini retrospettive. Perché, insomma, se dopo un secolo e mezzo di protagonismo spesso vincente, e comunque determinante (in positivo o in negativo) nelle vicende del mondo, le sinistre dovunque sono oggi così malridotte, qualcosa debbono aver sbagliato. E anche le sinistre italiane debbono avere la loro quota di responsabilità.
E’ un discorso che vorrebbe ben più spazio di quello qui disponibile. Provo comunque a indicare alcuni dei momenti che, nell’ultimo mezzo secolo, secondo me hanno segnato una deviazione rispetto alle ragioni fondative delle sinistre, contribuendo a indurne lo smarrimento. E la stessa riflessione aperta da Alternative sui conflitti può aiutare. Soprattutto se si considera che, nella loro innumerevole diversità, i conflitti oggi presenti e attivi sono di fatto moti d’accusa nei confronti della realtà socio-economica imperante, del capitalismo cioè. E lo sono anche quelli che sembrano parlar d’altro, e magari lo credono.
Tralascio il conflitto storico capitale-lavoro. Anche se è difficile ignorare che oggi il rapporto non può non essere per più aspetti diverso dal passato: in un mondo un cui la regola consumistica, connessa al forsennato produttivismo della più recente forma-capitale, in qualche misura modifica lo stesso rapporto lavoratore-padrone, e paradossalmente ne crea una reciproca dipendenza, nei modi ambigui e pericolosi di una nuova alienazione. Senza dire del confronto con i lavoratori dei paesi cosiddetti “emergenti”, dove uno sfruttamento a livelli protocapitalistici, e il fenomeno migratorio che ne consegue, creano insorgenze razziste facilmente strumentalizzate da destra. Ecc. Tralascio anche quel gigantesco conflitto tra capitale e natura che si manifesta nella terrificante crisi ecologica planetaria. Non solo perché ad esso ho già qui dedicato qualche spazio, ma perché credo che a nessuno ormai dovrebbe sfuggire il nesso diretto e decisivo tra capitalismo e squilibrio degli ecosistemi: cioè l’aporia di un sistema economico fondato sulla crescita illimitata del prodotto, in un mondo che illimitato non è; il quale non è pertanto in grado né di fornirgli all’infinito le materie prime necessarie, né di assorbirne e neutralizzarne i rifiuti, liquidi, solidi, gassosi.
Certo meno facile riesce ricondurre alla forma-capitale tutti gli altri conflitti in atto. Eppure credo che, a un’osservazione attenta, il rapporto risulti non solo possibile ma evidente; in particolare, se si riflette sulla qualità sempre più invasiva del “sistema”, sul suo raggiungere ogni momento della vita, e orientare desideri e scelte ai fini di maggior consumo, mi pare sia non solo possibile ma ovvio leggere i mille conflitti d’oggi come forme di denuncia, o almeno di tentato rifiuto. Non posso qui parlare di tutto ciò in modo esauriente; mi soffermo un attimo solo su due “conflitti” di massima rilevanza.
Dopo momenti di risonanza mondiale, il movimento per la pace parrebbe oggi in calo. Ma in realtà il pacifismo continua ad essere un “valore” che, a prescindere dalla militanza specifica, accompagna e sottende la “protesta” nella sua totalità. Ciò che non stupisce in un mondo non solo (ne dicevo sopra) pieno di guerre piccole e grosse; ma in cui la guerra è ormai regola dell’intero agire umano, e aggressività, sopraffazione, violenze di ogni sorta, sono divenuti attrezzi quotidiani di esistenze votate solo a possesso e consumo di merci, per le quali la feroce competitività dei mercati è modello e pungolo. Secondo la linea imposta dai “grandi” del mondo.
Meno facile è connettere alla forma-capitale le ragioni del femminismo, e non solo perché il rapporto uomo-donna discende da una storia assai più lunga di quella del capitalismo. E però non si può dimenticare che la società industriale ha speculato sull’antichissima disuguaglianza tra i sessi, facendone propria la tradizionale divisione lavoro, e di fatto trasformando l’attività famigliare femminile in “produzione e manutenzione di forza lavoro a costo zero”. Ma anche per altri aspetti, meno ovvii, il femminismo (nella sua verità più profonda) non può non porsi contro una realtà sociale in cui i “valori” vincenti in quanto funzionali alla logica del “sistema” (forza, intraprendenza, sicurezza, audacia, capacità decisionale, ecc.) coincidono con i tratti psicologici storicamente identificati con “il maschile”; mentre, sotto l’apparenza di una nuova libertà, i modelli femminili imposti dalla cultura di massa (tv e pubblicità in primis), parlano del più convenzionale immaginario erotico maschile, tuttora prevalente e immutato, semmai solo banalizzato e involgarito.
Non mi pare insomma azzardato riconoscere al fondo dei tanti conflitti “solitari” d’oggi, una più o meno consapevole condanna del capitalismo, e dell’ordine simbolico che ad esso attiene. Una condanna che non appartiene alla grande maggioranza delle sinistre organizzate, nate proprio al fine di liberare il mondo dal dominio del capitale, ma oggi molto lontane dall’assumere una posizione netta in proposito e darsi programmi conseguenti.
So di rischiare indebite semplificazioni, eppure credo che proprio l’evolversi del rapporto tra sinistre e capitalismo sia alla base dell’impasse attuale. Per cui forse occorrerebbe innanzitutto riconsiderare quel momento della seconda metà del secolo scorso in cui la gran macchina industriale capitalistica, superate le strettoie del dopoguerra, rimise in funzione e spinse al massimo le sue potenzialità espansive; per un’accelerata occupazione di sempre nuove porzioni di mondo, e per la loro assimilazione a uno sviluppo identificato con la moltiplicazione dei consumi, che in quanto tale chiedeva un coinvolgimento sempre più profondo delle masse. Furono anni in cui la crescita esponenziale del prodotto, nella forma dell’ accumulazione capitalistica, parve spalancare all’umanità un futuro di crescente sicuro benessere; in cui poco a poco il capitalismo s’impose come una realtà insostituibile e immodificabile, quasi una sorta di fenomeno metastorico. E la rivoluzione anticapitalistica, poco a poco, benché mai esplicitamente rinnegata, fu posta “in sonno”.
In effetti le sinistre non parvero avvertire la portata di un mutamento che si andava imponendo come una nuova forma antropologica, fondata sul prevalere della dimensione economica e plasmata sulle ragioni di una crescita divenuta dogma. Con una continua dilatazione delle quantità di merci prodotte, da imporre ai desideri delle masse: nel dominio del mercato e nell’incontrastato prevalere di una scienza economica sempre più astratta e autoreferenziale, separata dalla concretezza dei problemi. D’altro canto le sinistre non parvero porsi domande su questa evoluzione del mondo nemmeno quando, sul finire del secolo, la storica regola del lavoro a traino della produzione cominciò a venir meno, e mentre il Pil continuava a crescere, riappariva e aumentava la disoccupazione. Quello avrebbe forse potuto essere il momento per un serio ripensamento, e magari per una presa d’atto di quelli che a me paiono i due più gravi “peccati” delle sinistre.
Il primo attiene al fatto che in nessun modo esse abbiano utilizzato a vantaggio del lavoro, quello straordinario progresso scientifico e tecnologico che fu qualità precipua e orgoglio della storia più recente. Forse paralizzate dalla paura della disoccupazione tecnologica, o forse condizionate da una deformazione mentale “lavorista”, non hanno comunque saputo leggere e usare le eccezionali possibilità offerte da tecnologie sempre più capaci di sostituire il lavoro umano, fisico e mentale. Hanno così interamente regalato le grandi conquiste dell’intelligenza umana al capitale: il quale con prontezza e determinazione le ha utilizzate secondo la propria logica solo per l’aumento del prodotto. Dimenticando quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” che è parte non secondaria della cultura di sinistra: sogno ricorrente dei grandi utopisti, ma presente anche in diversi passaggi di Marx; ripreso da Keynes nell’ipotesi di un futuro in cui dedicare al lavoro non più di tre ore al giorno; recuperato nel Sessantotto da un combattivo movimento per la riduzione degli orari, al fine di “lavorare meno, lavorare tutti”, ecc. Di fatto arrendendosi a una realtà insensatamente orientata ad aumentare ancora e ancora i tempi della produzione, e quindi la quantità dei prodotti, nella linea di quella crescita non importa di che cosa e perché, che già l’ambientalismo più qualificato indicava come responsabile della devastazione del Pianeta.
E qui incontriamo il secondo grave “peccato” di cui le sinistre sono state e sono tuttora responsabili. Alla pari di tutto il mondo politico infatti le sinistre hanno sostanzialmente ignorato il crescente dissesto dell’ecosfera, limitandosi ad occuparsene marginalmente, quando l’eccezionalità degli eventi lo imponeva; mai (fatto salvo l’impegno isolato di persone o piccoli gruppi) soffermandosi a considerare il fenomeno nella sua interezza e nelle sue cause. Alla pari di tutta la politica, ripeto. Con un’aggravante però, non secondaria. Dovunque, a pagare le conseguenze del guasto ecologico sono i molti milioni di persone in fuga da tornado, alluvioni, desertificazioni, inquinamenti irreversibili; sono operai avvelenati dal loro stesso lavoro; famiglie costrette a vivere in prossimità di fabbriche fortemente inquinanti; contadini tenuti a maneggiare quantitativi massicci di pesticidi, diserbanti, e altri materiali tossici, ecc; cioè proprio quelle fasce sociali che le sinistre sarebbero tenute a difendere. Ma tutto ciò non è mai stato considerato.
Da qualche tempo, è vero, di fronte all’ormai innegabile, sempre più catastrofica crisi ambientale, anche le sinistre - come l’intero mondo politico - dedicano al problema qualche attenzione. Ma - come tutti - occupandosi di fatto solo degli aspetti del problema che incidono negativamente sull’economia, e pertanto attivandosi in settori conciliabili con le esigenze della produzione: vedi la corsa alle energie rinnovabili, certo utili per ridurre le emissioni di gas climalteranti, ma non più quando diventano strumento di rilancio produttivo. Come è apparso evidente alla recente Conferenza di Copenhagen: fallita ai fini della riduzione di gas-serra, ma assai utile all’incontro tra grandi imprese, febbrilmente impegnate nel lancio mondiale della “green economy”, anzi del “green business”, fondato sull’uso crescente di “green energy”, così di approdare alla massima possibile “green growth”; usando cioè le “rinnovabili” secondo la stessa regola produttivistica contro cui erano nate.
Di fronte alla evidente insostenibilità della forma economica e sociale dovunque attiva, ma dovunque in sempre più grave affanno; di fronte alla non meno evidente impraticabilità delle politiche portate avanti dai grandi poteri, incapaci di immaginare qualcosa di diverso da altre centinaia di milioni di automobili da produrre ogni anno, altri miliardi di chilometri di strade autostrade trafori, ecc, onde farle circolare, altre migliaia di nuovi aeroporti per la moltiplicazione di scambi planetari di merci, altre foreste di grattacieli ad aumentare la cementificazione del mondo…. Il tutto senza risolvere i problemi dei miliardi di senza-casa, di disoccupati, di spietatamente sfruttati, che aumentano di pari passo con i disastri ecologici… Non toccherebbe alle sinistre (ciò che ne resta, ma anche ciò che ne sta nascendo, in America Latina, qua e là in Africa, Indonesia, ecc.) considerare che il capitalismo, così come è nato, prima o poi finirà… e - perché no - provare ad aiutarne l’esito? Magari recuperando quel “lavorare meno e tutti” che, sottoposto a una seria riflessione, potrebbe significare assai più di quanto letteralmente promette, e forse aprire una finestra su un possibile “mondo diverso”.
Utopia? Ma insistere ad operare per la sopravvivenza dell’attuale forma-mondo, che altro è se non una sorta utopia negativa, che andrebbe a coincidere con la catastrofe totale?
1) Sulla materia vedi anche l’articolo di Aldo Garzia e Franco Russo su N° 11
2) Dati OCDE 2008
3) Dati FAO 2009
4) Vedi ricerche del Footprint Institute, secondo cui per mantenere l’attuale livello di consumo dei paesi occidentali occorrerebbero 5,4 pianeti.
5) Dati Archivio Disarmo 2008
L'ultimo esito elettorale del centrosinistra rende impossibile eludere ancora il problema: la fase iniziata quasi vent'anni fa con la crisi verticale della "repubblica dei partiti" non ha visto consolidarsi una ipotesi riformatrice adeguata alle esigenze del Paese. Le difficoltà e le divisioni del centrodestra non offuscano questo nodo ma rendono ancor più urgente affrontarlo. Mai, forse, le forze progressiste o di sinistra erano state così isolate - culturalmente, prima ancora che elettoralmente - rispetto al cuore produttivo della nazione, e incapaci al tempo stesso di offrire riferimenti e prospettive alle inquietudini di vecchie e nuove povertà e precarietà.
Non è un giudizio troppo drastico: a quale idea-forza ci si può oggi richiamare per convincere un elettore indeciso, un astensionista amareggiato, un giovane deluso? Sembra quasi impossibile, inoltre, che la sinistra sia stata simbolo, in passato, di buon governo a livello locale. Abbia saputo mettere in campo - non solo nelle regioni rosse - capacità organizzative e pragmatiche, abbia contribuito a colmare forti deficit di democrazia del paese. Sia apparsa a una larga parte degli italiani, negli ormai lontanissimi anni settanta, come l'unica forza in grado di garantire il cambiamento. Sembra impossibile, infine, che tutto questo sia progressivamente scomparso dalla scena già nella fase immediatamente successiva, e che negli anni novanta gli eredi di quell'esperienza abbiano buttato al vento la possibilità di offrire al paese devastato da Tangentopoli esempi e prospettive di buona politica. Le questioni da affrontare erano certo enormi: la costruzione di una nuova idea di sinistra era compito difficilissimo, ma al tempo stesso indifferibile, sin dagli anni settanta e ottanta. Crollati, ben prima del 1989, i riferimenti internazionali, entravano allora in crisi anche altri capisaldi della tradizionale cultura della sinistra. La "centralità della classe operaia", ad esempio, veniva simbolicamente travolta dalla "marcia dei quarantamila" d e l 1980, mentre già la crisi petrolifera del 1973 aveva affossato, assieme all'idea di uno "sviluppo senza limiti", anche le culture progressiste e industrialiste che su di essa si erano fondate.
Nell'incapacità di misurarsi appieno con questi nodi la sinistra di formazione comunista iniziò a perdere identità e profilo, e a far emergere quella carenza di progettazione riformatrice che gli anni dei governi di "unità nazionale", dal 1976 al 1979, portarono pienamente alla luce. A ciò si aggiunga, infine, la difficoltà di comprendere le colossali trasformazioni sociali e culturali degli anni ottanta.
È una sinistra già in difficoltà, insomma, quella che giunge alla crisi dei primi anni novanta: elettoralmente indebolita e culturalmente gracile. Contagiata almeno in parte - alla periferia, ma non troppo marginalmente - dalle derive che le indagini dei giudici portavano allora alla luce. Di fronte al crollo degli altri partiti era ormai il momento di un rinnovamento profondo, capace di coinvolgere energie pur presenti nella società civile: e invece quel crollo, che sostanzialmente risparmiò i differenti eredi del Pci, sembrò favorire a sinistra il permanere delle vecchie prassi partitiche. L'unica società civile che entrò in campo fu quella chiamata a raccolta dall'antipolitica di Umberto Bossi e - per altri versi - dal "partito azienda" costruito in pochi mesi da Silvio Berlusconi. A fronte di questo discutibile "nuovo" la sinistra si presentò sempre più come il "vecchio", il residuo della "partitocrazia". Neppure lo shock del 1994 fu salutare: l'immediato fallimento della prima alleanza fra Berlusconi, Fini e Bossi alimentò l'illusione di poter ancora godere di rendite di posizione, di non aver bisogno di un forte profilo culturale e programmatico.
Questa incapacità di rinnovamento, e di ricambio dei gruppi dirigenti, è stata il vero scoglio su cui si sono infrante le esperienze pur avviate, le energie pur messe in campo.
Il primo governo Prodi, ad esempio, è certamente stato il governo migliore degli ultimi quindici anni: perché, però, anche quel governo seppe solo in parte parlare al paese? E perché la sua ispirazione più feconda non trovò continuazione? Non era inarrestabile la marcia del centrodestra. Subito interrotta nel 1994, essa sembrò di nuovo giunta al capolinea nel suo primo quinquennio pieno di governo: e già nell'estate del 2004 gli stessi giornali del centrodestra parlarono apertamente di "crisi del berlusconismo " . I n quello stesso torno di tempo un centrosinistra frastornato dalla sconfitta elettorale del 2001 trovava nuova forza - quasi suo malgrado - grazie alle spinte che venivano dal basso: si pensi al movimento dei Girotondi, che ebbe culmine nella manifestazione nazionale a Roma dell'autunno del 2002. Una festa della democrazia, per usare le parole di allora di Eugenio Scalfari: «Un vigorosissimo ritorno in campo di moltissimi che per molte ragioni si erano tirati indietro». Si pensi anche alle energie coinvolte dalla Cgil nella difesa dello Statuto dei lavoratori, o all'amplissima mobilitazione per la pace dell'anno successivo, che vide mescolarsi culture molto diverse. Si pensi anche ad altre risorse che il centrosinistra ha pur avuto: dall'esperienza dei sindaci alla grande speranza delle "primarie". Queste stesse spinte vitali appaiono oggi largamente inaridite: di nuovo, perché? Senza dare risposte convincenti a questi interrogativi sarà difficile riaprire realmente la discussione sul futuro. E senza dar vita a nuovi cantieri di riflessione, in cui convergano molteplici energie intellettuali e differenti centri propulsivi, sarà difficile frenare l'involuzione di un centrosinistra che ha bruciato leader e ipotesi di ricambio, e perso progressivamente una reale capacità di rapporto con la sua stessa gente.
L'inversione di tendenza di cui si avverte il bisogno implica un impegno di lungo periodo ma il tempo a disposizione non è moltissimo: le divisioni del centrodestra e i progetti sempre più espliciti del premier rendono questo compito ancora più urgente.
Lotta alla precarietà e difesa del bene pubblico a cominciare dall'acqua nonché avvio di una seria riflessione sulla crisi - data ormai per definitiva - del centrosinistra.
Qualcuno forse si aspettava che il primo coordinamento nazionale di Sinistra, ecologia e libertà - convocato all'indomani delle elezioni - si sarebbe «limitato» a celebrare la vittoria di Vendola in Puglia chiudendo gli occhi sul disastro abbattutosi nel resto dell'Italia, ma così non è stato. Certo resta grande la soddisfazione per il risultato pugliese ma non è dalla conta dei voti né dal numero dei consiglieri eletti che Sel decide di ripartire. I partiti sono finiti, consumati e inadeguati - aveva già dichiarato Vendola in un'intervista a Repubblica - e ora si apre una nuova fase: quella in cui strutture più leggere si attrezzino per transitare la sinistra verso una nuova rifondazione. E a Bersani risponde: «Sono d'accordo sulla necessità di costruire il cantiere della sinistra, purché sia chiaro che non si tratta di avviare operazioni di restauro. La mia opinione è che bisogna rifondare la cultura, la proposta, il progetto del centrosinistra». Non si tratta insomma di emendare alcuni aspetti ma di «ricostruire il vocabolario dell'alternativa. Noi non abbiamo sbagliato i comunicatori, abbiamo sbagliato il messaggio». La berlusconizzazione dell'Italia - conclude Vendola - è un problema culturale prima ancora che politico, sociale prima che elettorale. Bisogna essere all'altezza della sfida».
Insomma il punto di crisi del centrosinistra «in quanto tale» - nient'altro che una fredda aggregazione di alleanze incapace di dare risposte credibili - è irreversibile. Non i singoli partiti presi uno per uno né la loro sommatoria ma la logica che - anche in queste elezioni - ne ha consentito la (mancata) tenuta: con chi mi prendo, con chi mi alleo?
Di questa logica la Puglia ha fatto piazza pulita ed è questo che dalla Puglia - concordano le diverse anime di Sel presenti ieri alla riunione del coordinamento - va esportato. Prendere atto della crisi, insomma, e immaginare altre costruzioni di cultura sociale. Sel si rivolge a tutti, dal Pd ai partiti della Federazione ma a una condizione: si dialoga solo con chi prende atto che o il centrosinistra ritrova una sua capacità di essere credibile o non si va da nessuna parte. Esportare le «Fabbriche di Nichi» non basta se non all'interno di un progetto più ampio che rifiuti una volta per tutte le logiche partitiche e che faccia saltare in aria l'ormai asfissiante appiattimento della politica sull'organizzazione.
Questa la linea prevalente nell'incontro di ieri anche se Sinistra, Ecologia e Libertà è ancora in attesa di darsi una forma in vista del congresso che presumibilmente si terrà in ottobre. Nel mezzo due date intermedie: gli Stati generali delle Fabbriche e un nuovo aggiornamento previsto per la fine di aprile.
E sulla forma - se snella, meno snella o corpacciosa - certo ci sarà ancora da discutere ma anche qui sbaglia chi crede che all'interno di Sel esistano già due schieramenti predefiniti e con tanto di nomi cognomi: da un lato Bertinotti e Vendola, dall'altro Claudio Fava con tutta Sd. Più complessa e per fortuna meno personalistica è la questione perché le incertezze riguardo alla forma che Sel potrà assumere prima del congresso attraversano in realtà entrambi gli «schieramenti» e sono più legate alle esperienze soggettive delle singole persone che a eventuali atti di fede. «Quello che c'è di positivo - dice qualcuno uscendo dall'incontro - è che oggi anche le soggettività della politica sono venute fuori».
Bello sarebbe mettere la parola fine alle lotte intestine e magari riprendere a dialogare anche con la Federazione e con gli ex (ma non poi tanto) compagni di Rifondazione. Una strada percorribile, forse, se si accetta l'idea che essere una minoranza va bene ma che essere minoritari per vocazione suona ormai come una dannazione.
E se per il momento la Federazione tace - anche a causa di un infortunio che ha bloccato a letto il co-fondatore Diliberto - parla invece Rosi Bindi che non sembra però aver colto appieno il messaggio che arriva da Sel: «Attenzione a sciogliere i partiti per poi rifondarli, è da anni che lo facciamo, dentro una logica tutta interna al sistema politico». Proprio quello che Sel vorrebbe evitare.