Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è improntato a un prorompente «ottimismo della volontà». Com'è noto, Antonio Gramsci raccomandava che i due elementi della fatidica coppia - «pessimismo dell'intelligenza» e «ottimismo della volontà» - procedessero sempre insieme. Meno noti i motivi che secondo lui renderebbero raccomandabile, anzi inevitabile, l'accoppiata: «Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche». D'altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltano a ogni sciocchezza». Per cui, appunto: «Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà».
Riguarda in qualche modo la citazione gramsciana gli estensori del suddetto «Manifesto»? No, assolutamente no: volevo soltanto che il pensiero gramsciano fosse almeno una volta richiamato, per intero). Mi predisporrei perciò a introdurre qualche elemento pessimistico nel ragionamento del «Manifesto», cercando al tempo stesso di guardarmi dallo spingermi troppo nella direzione opposta, cosa che, ahimè, in casi del genere capita di frequente. Utilizzerò di volta in volta argomenti concettuali ed esempi pratici: le mie esperienze degli ultimi dieci anni me lo consentono (cosa che non a tutti i miei interlocutori accade).
1. Politica. Un perno del «Manifesto», assolutamente condivisibile, è che «democrazia rappresentativa» e «democrazia partecipata» dovrebbero integrarsi e ri-equilibrarsi profondamente. L'idea, invece, che uno dei due versanti, quello della «democrazia rappresentativa», rappresentato essenzialmente dal sistema dei partiti, sia attualmente tutto da buttare e l'altro, quello della «democrazia partecipativa», tutto da esaltare e valorizzare, è completamente sbagliata, e fortemente autolesionistica. Ci sono realtà istituzionali e politiche, con le quali è possibile/necessario mantenere un livello alto di confronto, di scontro e comunque di serio rapporto; e ci sono realtà di base totalmente catturate all'interno del sistema dello sfruttamento e dell'utilitarismo individualistico. In alcune Regioni d'Italia (molte, direi), se si facesse un referendum sull'abusivismo vincerebbero gli abusivisti.
La stessa cosa si potrebbe dire del rapporto fra centro e periferia. In taluni casi, l'auspicato decentramento del potere funziona alla grande; in certi altri assolutamente no. Alcuni Comuni sono virtuosi; gli altri (la maggioranza, io penso) no, anzi sono spesso i manutengoli degli interessi privati più sporchi. In casi come questi, oltre che battersi in ogni modo con la denuncia, bisogna ricorrere in un modo o nell'altro alle istanze «superiori»: le Regioni, lo Stato.
L'idea che il quadro sia omogeneo in tutte le sue componenti e su tutti i suoi versanti è distruttiva. Attualmente il quadro è invece frastagliato, poliforme e multicentrico. Al tempo stesso, tutto si tiene. L'idea giusta, appunto, che la «democrazia partecipativa» spinga per una riforma profonda della «democrazia rappresentativa» e del «sistema dei partiti» comporta che nessuna opportunità, nessuna chance sia cammin facendo ignorata e trascurata, e tutte invece siano volte all'unico obiettivo che meriti oggi perseguire: una diversa nozione e pratica della politica.
Il sistema - il sistema tutt'intero, intendo - si può riformare solo se si salva. E si salva solo se viene coinvolto tutt'intero, dalla A alla Z, per quanti sforzi questo comporti, e quanta pazienza e sobrietà richieda. Occorre violentemente attirare l'attenzione sul presente così com'è, se si vuole trasformarlo.
2. Principi, ideologia. È fuor di dubbio che siano fortemente cambiati forme e attori del conflitto. Mi chiedo però fino a che punto il gigantismo del sistema - la globalizzazione, appunto - abbia tolto di mezzo il fondamentale antagonismo fra capitale e lavoro: lo ha se mai anch'esso ingigantito, a livello planetario. Di questo non c'è traccia nel «Manifesto»: si direbbe che i protagonisti del conflitto siano, in questo quadro, attori di una diversa separazione/contrapposizione sociale (e politica, e culturale). Si lotta, infatti, per qualcosa di profondamente diverso dagli obiettivi tradizionali: si lotta per i cosiddetti «beni comuni».
Dei «beni comuni» Stefano Rodotà, che ne è l'interprete al tempo stesso più innovativo ed equilibrato, dà una definizione che io accolgo e faccio mia. Essi «sono quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». E cioè: ci sono beni, esattamente definiti dal punto di vista delle caratteristiche dominanti, delle possibili fruizioni e delle possibili forme di governance, la cui «proprietà», per così dire, è comune, cioè appartengono «a tutti e a nessuno». Detto così, va benissimo: questi «beni comuni» rientrano perfettamente nel quadro di un programma di «democrazia partecipativa», la quale, oltre a valere per sé, preme sulla «democrazia rappresentativa» per mutarne obiettivi e metodi ed eventualmente per ottenere un sistema di governance giuridico-istituzionale, che sia rispettoso della natura speciale di quel bene (mi riservo di porre a Rodotà una domanda, ma lo farò più avanti).
Ma i «beni comuni» divengono nel «Manifesto» il programma di massima del «nuovo soggetto politico». La cosa mi pare abnorme. Non solo per il pericolo successivamente segnalato dallo stesso Rodotà: «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità d'individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (il manifesto, 12 aprile). Ma soprattutto perché, se i «beni comuni» assurgono a orizzonte ideologico e di valore del nuovo movimento, ci si dovrebbe chiedere più trasparentemente (una delle richieste basilari di una vera «democrazia partecipativa») non solo dove va ma anche da dove viene un movimento così orientato.
La risposta sarebbe lunga e problematica: ma qualcosa si può cominciare a dire. Uno dei punti di partenza possibili è senza ombra di dubbio Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri: Comune (titolo originale dell'opera, molto più significativo di quello della tradizione italiana: Commonwealth), apparso nel 2009 (trad. ital. 2010), che porta il sottotitolo anch'esso estremamente significativo di: Oltre il privato e il pubblico. Lo chiamo in causa per almeno due motivi: perché il «comune» negriano è, esplicitamente, il frutto del palese rifiuto e superamento da parte dell'autore del vecchio operaismo e, più specificamente ancora, della teoria marxiana del valore; e perché i «beni comuni» sono obiettivi strategici logicamente comprensibili e accettabili, solo nella prospettiva biopolitica di una «democrazia della moltitudine», che veda anch'essa il superamento del conflitto di classe di fronte ai bisogni del più indeterminato ma appunto perciò meno obsoleto e più possente soggetto rivoluzionario: «Oggi potremmo dire: "Sta sorgendo una razza multitudinaria"» (Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 409).
Ogni volta, però, che ci si allontana dall'idea che questa sia una società divisa in classi - ossia ci si allontana dalla persuasione laica che esistono sfruttati e sfruttatori, percettori di un enorme surplus di potere a danno di altri che ne hanno poco o punto, a causa del meccanismo economico dominante (lo so, lo dico in maniera troppo rozza e approssimativa, ma qui non posso fare altrimenti) - si aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che la radice della nozione di «bene comune» è teologico-cristiana. Ne ragiona infatti con profondità niente di meno che Tommaso d'Aquino (riprendendo in parte, come soventi gli capita, definizioni aristoteliche): il quale, nella Summa Theologiae (I-II, 90, 3), scrive (traduzione improvvisata, e forse zoppicante): «...Come l'uomo è parte della casa, così la casa è parte della città; e la città è la comunità perfetta, come si dice in Aristotele, Politica (Aristotele, infatti, lì parla della "polis"). E perciò, siccome il bene del singolo uomo non è l'ultimo fine, ma è ordinato in funzione del "bene comune" (ad commune bonum); nello stesso modo, il bene di una casa è ordinato in funzione del bene di una città, la quale è la comunità perfetta».
Tommaso è un autore che i «benecomunisti» non amano citare (solo un piccolo cenno polemico in U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011, pp. 41). Nelle opere di Negri, ad esempio, non ce n'è traccia. Eppure è di fondamentale importanza. Il ritorno al Medio Evo, di cui si parla a proposito dei «benecomunisti», è tutt'altro che banale: significa la riappropriazione, in funzione apparentemente anticapitalistica, di un intero universo concettuale e ideale pre-capitalistico. Insomma: se la società divisa in classi non fosse alla fin fine altro che una «comunità», ovviamente non potrebbero esserci «beni comuni». I cittadini, les citoyens, in lotta per due secoli e mezzo per contendere all'avversario di classe ciò che a loro spetta, diventano «persone», prive di connotazione sociale (secondo un dettame che la teologia cristiana farebbe volentieri proprio): «Unire le persone per bene» intorno a un metodo è molto più agevole che farlo nel merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati...» (U. Mattei, , 4 aprile). «Superare i vecchi steccati» è ciò che cercano di fare proprio oggi tutte le forme di «antipolitica».
Sorprende che molti dei firmatari del «Manifesto», che sono stati o sono ancora o si dicono ancora marxisti, non abbiano notato che in questo testo non viene mai nominato, nonché la «classe», neanche il «popolo». La soggettività politica viene trasferita a altre entità per ora poco chiare, autodefinentesti e autordinantesi, quali che la lotta politica fosse il frutto selezionato, alla fin fine, di alcuni gruppi intellettuali, che, come si diceva scherzando una volta, «danno la linea». E naturalmente, insieme con «classe» e con «popolo», spariscono le categorie di «destra» e di «sinistra» (anch'esse mai nominate nel «Manifesto»). I «benecomunisti» stanno più avanti, anche in questo caso, di queste obsolete distinzioni: stanno là dove «le persone per bene» - operai, impiegati, funzionari, banchieri, capitalisti, pensionati, sfruttatori, purché «per bene» - decidono di stare tutte insieme per meglio governare il loro «comune» destino.
Il riferimento a Tommaso d'Aquino non deve però far pensare a una discussione e a un rinfacciamento puramente dottrinari, destituiti di esiti pratici e politici immediati. La dottrina di Tommaso cala infatti di peso in quella attuale, e perfettamente operante, della Chiesa cattolica. Come si fa a non accorgersi di un dato così clamoroso? La filologia in certi casi conta più della logica (ma è anche più rara, molto più rara). Nel Catechismo della Chiesa cattolica (Edizioni Piemme, Città del Vaticano, 1993), la dottrina del «bene comune» occupa il posto centrale nella conformazione dell'agire sociale e pastorale della Chiesa nel mondo (III, II: La comunità umana; 2. La partecipazione alla vita sociale; II. Il bene comune). Il «bene comune», secondo l'ammonimento di Tommaso qui puntualmente richiamato («Non vivete isolati, ripiegandovi, in voi stessi ... invece riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti (bonum commune), è «l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (pp. 361). Non si potrebbe dir meglio in un contesto nel quale il conseguimento del «bene comune» rappresenta il nuovo Sovrano. Ma certo stupisce che il «messaggio» che esce dal progetto di un «nuovo soggetto politico» sia così vicino a quello uscito dal Consiglio Vaticano II (cui il Catechismo fondamentalmente attinge).
3. Comportamenti e passioni. Potremmo ancora citare a lungo dal Catechismo, e anche da molti altri e diversi autori del medesimo orientamento. Siccome le analogie sono indubbiamente clamorose, sarebbe interessante ascoltare una spiegazione del perché, sopprimendo la categoria analitica e pratica del conflitto di classe, tornano a manifestarsi prepotentemente e a dilagare visioni del mondo in cui l'ultraterrenità, e il discorso teologico-scolastico, tornano a farsi dominanti. In attesa che una qualche risposta venga (ma se uno usa gli stessi termini e concetti di un altro, qualcosa di «comune» dev'esserci), osservo che il lungo capitolo che conclude il «Manifesto» sui «comportamenti» «e sulle passioni» non fa che accentuare, ai limiti del disagio, le reazioni che si provano di fronte alla teoria fin qui esposta dei «beni comuni». Un universo di buoni sentimenti - «la compassione e la gioia, l'amore e la speranza, la generosità e il rispetto degli altri», «il sentimento dell'empatia» - dovrebbe prendere il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti - quello delle «passioni negative, l'invidia, l'odio, l'orgoglio, l'ira... la rivalità, la voglia di sopraffare...». Allora, nel nuovo universo, « a predominare sarebbero le virtù sociali delle mitezza e della fermezza...». Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di affrontare l'incredibile violenza dell'attuale sistema di sfruttamento globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte (naturalmente, anche Negri impernia la sua ideologia multitudinaria sull'«amore»: se no, che biopolitica sarebbe? Anche il male, tuttavia, secondo lui, può impadronirsi dell'amore. Il conflitto sarebbe allora fra un amore malato e «cattivo» e un amore buono, autentico. Interessante).
4. «Beni comuni» e «Pubblico». Torno alla domanda che qualche colonna fa avrei voluto rivolgere a Rodotà. Ho citato la sua definizione di «beni comuni», che ora per chiarezza del lettore ritrascrivo: «(Essi) sono quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali, e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». La domanda è: non potrebbe esser questa anche una buona definizione di «pubblico?» E cioè: lo Stato democratico-capitalistico moderno, nella sua complessa strutturazione, è il frutto di spinte contrastanti nelle quali la funzione e l'indirizzo loro impresso da esigenze, interessi e modalità di vita propri delle classi cosiddette subalterne, hanno lasciato un segno consistente. Il «pubblico» oggi non s'identifica certo con lo Stato Leviatano; se mai si potrebbe dire che, nei casi migliori, lo Stato è stato (e in parte ancora è) un'articolazione del «pubblico» - il «pubblico», che tra le proprie funzioni più specifiche e prestigiose ha quella di proiettare la tutela dei beni d'interesse comune «nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». Sanità pubblica, Scuola pubblica, Università, ricerca, sistema delle pensioni, diritti del lavoro, solidarietà sociale, tutela del territorio, sistema della giustizia «imparziale» e nei limiti delle umane abitudini) «uguale per tutti», sono i principali requisiti di un sistema imperniato sul «pubblico» (e non sul «privato»). È la materia, del resto, chiarissimamente descritta e regolata negli artt. 2, 3 e 4 della nostra Costituzione (che forse andrebbero tenuti più presenti).
Se le cose stanno così, non sarebbe meglio, invece che procedere negrianamente «oltre il privato e il pubblico», considerare la battaglia per i «beni comuni» un allargamento e un rafforzamento di quella per il «pubblico», in una visione più dinamica e articolata di quella praticata presentemente?
La cosa è tutt'altro che facile, ma è decisiva. Quel che io vedo è che il «pubblico», costruito prevalentemente con le lotte di generazioni e generazioni di cittadini italiani ed europei, è minacciato, frantumato, reso subalterno da una colossale invasione del «privato». Il governo Monti in Italia, politicamente, ideologicamente ed economicamente, ne rappresenta un esempio di prim'ordine. Allora, se le cose stanno così, all'ordine del giorno oggi non c'è la reclusione insieme di «pubblico» e «privato» nel medesimo cassetto di vecchi arnesi ormai inutili: c'è una gigantesca battaglia per la difesa del «pubblico», che, invece di fermarsi all'esistente, eventualmente si rafforzi e s'allarghi con l'individuazione e la conquista di nuovi territori. Per questo i partiti sono ancora necessari, in Italia e in Europa.
Quel che è accaduto recentemente in Francia dimostra eloquentemente che la forza di organizzazioni centralizzate e ben dirette è essenziale alla causa del mutamento. Se, come si spera, il candidato socialista riuscirà a prevalere, l'intero assetto europeo dei prossimi anni ne risulterà influenzato.
In Italia stiamo molto peggio, lo so, ma le coordinate del lavoro da fare sono molto simili.
5. Il «metodo» viene prima del «merito?» Il metodo adottato dai promotori del «Manifesto», come già s'è detto, appare sul il 29 marzo. Dopo le prime battute, assai interessanti, di dibattito, due degli organizzatori (Alberto Lucarelli, Ugo Mattei) dichiarano aperta la consultazione per la scelta del nome del «nuovo soggetto politico» (il manifesto, 17 aprile), dando per scontato che a Firenze il prossimo 28 aprile il «nuovo soggetto politico» si faccia (ignorando del tutto riserve e precisazioni come quelle emerse negli interventi già citati di Stefano Rodotà e in quello di link http://eddyburg.it/article/articleview/18849/1/155 Piero Bevilacqua> (13 aprile). Un dibattito è serio se serve a determinare le conclusioni. Se le conclusioni sono già date, il dibattito non è serio.
Io spero che a Firenze i promotori ci ripensino: che non nasca un «nuovo soggetto politico» su basi così fragili. Ci sono cento, mille, diecimila cose da fare per un'organizzazione che pratichi seriamente il verbo autentico della Rete: ossia, molti soggetti collocati liberamente all'interno di un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più) dell'insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per una Rete di Reti: ma di questo eventualmente parleremo un'altra volta).
Ma l'obiettivo fondamentale e strategico è riconquistare il «pubblico», sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le dimensioni originarie (ad esempio, io provo un grande interesse per la riflessione di Guido Viale sulla «riconversione ecologica dell'economia»: ma anche in questo caso mi chiedo come affrontare una gigantesca problematica del genere limitandosi a praticarla dal basso, e su segmenti limitati di territorio).
Su questo percorso incontreremo molti ostacoli e molti diversi interlocutori: e, se sarà necessario, dovremo usare anche molta astuta e consapevolissima cattiveria.
Una domanda rimane. Lo sfruttamento del capitale sul lavoro si è allargato a un ambito (sia topograficamente che geograficamente che socialmente) ben più vasto della fabbrica. La sua evidenza non appare ancora a tutti gli sfruttati con l’immediatezza con cui appariva all’operaio. Non occorre forse ridefinire il conflitto di classe (e o stesso concetto di lavoro) in un ambito diverso da quello delineato dalla critica marxista, e individuare in tal modo l’antagonista del mondo di oggi?
Caro direttore, con l’abituale sua nettezza, di cui sempre dobbiamo essergli grati, Alfredo Reichlin solleva la questione dell’attacco ai partiti e, in sostanza, della stessa sopravvivenza della democrazia in Italia (e non solo, visto che giustamente volge lo sguardo ad una crisi assai più generale). E scrive che «non si può sfuggire alla necessità di tornare a dare alla sinistra quella ragione storica che è la sua e che non può che consistere in una critica di fondo degli assetti attuali del mondo». Proprio da qui bisogna partire, e proprio qui è la difficoltà, perché questo indispensabile rinnovamento culturale e politico deve avvenire in un tempo che pone scadenze così pressanti da schiacciare tutti sul brevissimo periodo.
Vivo con la sua stessa angoscia lo stillicidio quotidiano delle notizie sui fatti di corruzione, un terribile bollettino di una guerra che rischia d’essere perduta non da corrotti e corruttori, ma proprio da chi è rimasto estraneo a queste pratiche. Questo è l’esito d’una saldatura tra decomposizione morale e destrutturazione del sistema politico. Era già avvenuto. Mani pulite venne dopo una stagione all’insegna dell’«arricchitevi» e della «Milano da bere», scambiati per tratti liberatori d’una nuova modernità che tutto consentiva e che, quindi, aveva bisogno di sottrarsi al vincolo della legalità, come puntualmente avveniva nelle aule parlamentari con il rifiuto delle autorizzazioni a procedere contro quelli che le vicende successive avrebbero rivelato responsabili della corruzione.§
Dobbiamo chiederci perché, con il passare degli anni, quel fenomeno, lungi dallo scomparire e dall’essere ridimensionato, si sia poi ingigantito. La ragione è tutta politico-istituzionale, e richiederebbe una analisi di dettaglio che qui appena accenno. La caduta di Berlusconi e di Bossi non ci parla di fallimenti personali, ma è la rivelazione del fallimento del modello che ha accompagnato gli ultimi venti anni, fondato sulla forzatura bipolarista, la democrazia d’investitura, l’accento sul bene della decisione che ha legittimato l’eclisse dei controlli. Molti si stracciano le vesti di fronte alla possibilità che il bipolarismo si appanni. Ma in politica i modelli non si giudicano in astratto, ma valutandone gli effetti. Che sono davanti ai nostri occhi, e si chiamano personalizzazione estrema della politica, appannamento della rappresentanza, rafforzamento delle oligarchie, insignificanza della partecipazione delle persone.
Di fronte a tutto questo si avverte forte un bisogno di «diversità». Parola a molti sgradita, lo so. Ma io che mai sono stato iscritto al Pci, e con il quale tuttavia ho percorso un tratto significativo della mia vita continuo ad essere convinto che Enrico Berlinguer fosse stato lungimirante quando indicò nella questione morale un tema capitale per la politica. Una indicazione assolutamente realistica, come le vicende successive hanno dimostrato. E che, se pur voleva sottolineare una diversità del Pci, la traduceva in un di più di responsabilità che incombeva sul suo partito.
Proprio perché oggi il Pd ha più carte in regola di altri, su di esso incombe una responsabilità maggiore, non tanto per sottrarsi a un discredito generalizzato, ma soprattutto perché è politicamente essenziale la ricostruzione dello spirito pubblico, sulla cui mancanza l’antipolitica costruisce le sue fortune. Ma nella società non vi è solo antipolitica. Dico da tempo che è cresciuta un’«altra politica», di cui si possono discutere forme e contenuti, ma che è un fatto vitale di cui il Pd dovrebbe prendere piena consapevolezza senza restare prigioniero della vecchia diffidenza verso il movimentismo, che si rivela sempre di più come una mossa conservatrice. Bersani ha avuto il grande merito di schierare il Pd a favore dei referendum dell’anno scorso, pur conoscendo le resistenze diffuse e «autorevoli» esistenti nel suo partito. Quel successo non è stato capitalizzato (anzi permangono incredibili resistenze contro l’attuazione del risultato riguardante l’acqua), non ci si è resi conto che lì vi era uno spunto di critica degli «assetti attuali del mondo» ed una manifestazione di quelle soggettività politiche che si stanno costruendo, e con le quali un partito rinnovato deve intrattenere un rapporto, sia pure fortemente dialettico. Un nuovo blocco di forze è necessario, gli antichi steccati devono essere abbattuti. Tornano antiche parole con forza rinnovata. Che cos’è l’eguaglianza nel tempo della disuguaglianza strutturale? Che cos’è la libertà nel tempo della tecnoscienza? Che cos’è la dignità nel tempo della riduzione a merce di lavoratore e lavoro? Che cos’è la solidarietà nel tempo della negazione del legame sociale? Quale antropologia della persona si sta costruendo? Domande che la politica deve rivolgere a se stessa, pena la sua irrilevanza.
Tutto questo mi porta a ribadire quel che dico da sempre sull’indispensabile ruolo dei partiti nello spirito dell’articolo 49 della Costituzione e sulla necessità di risorse pubbliche per la politica, perché questa non sia consegnata ad una forza del denaro sempre più prepotente. Una rinnovata legittimazione del finanziamento pubblico viene oggi proprio dalla pervasività della logica economica, che vuole sottomettere la politica anche attraverso la sua dipendenza solo dal capitale privato, che è cosa assai diversa dalla buona contribuzione dei cittadini. Di nuovo, però, questo non può significare arroccamento intorno al presente stato delle cose. Anche una fase di transizione esige una diversa visione del contributo pubblico (ne ha discusso assai bene Gaetano Azzariti sul manifesto). Le rendite di posizione sono finite, tutte. E proprio qui il Pd deve fare le sue prove.
Un nuovo soggetto politico non si traduce in liste elettorali. Nelle forme (democrazia di prossimità) e nei contenuti (beni comuni) il testo-manifesto spiega le buone ragioni e il bisogno urgente di fronteggiare la crisi di questi partiti
Cari amici del manifesto, ho aderito al "Manifesto per un nuovo soggetto politico" con un messaggio nel quale, considerandolo un documento aperto, annunciavo alcune mie riserve e una vera e propria «opinione dissenziente». Vista la piega assunta dalla discussione, provo a rendere esplicita questa mia adesione in qualche modo "condizionata".
Tra il 2010 e il 2011, nel peggior tempo del berlusconismo e quando sembrava che tutto fosse ridotto a duello tra politica e antipolitica, ha preso corpo un insieme di iniziative che mostravano come un'altra politica fosse possibile, non in astratto, ma attraverso azioni comuni dei cittadini. Ricordiamo tutti le molte, grandi manifestazioni delle donne, degli studenti, dei lavoratori; il successo grande e inatteso della raccolta delle firme e poi del voto referendario con il quale ventisette milioni di elettori hanno detto no alla privatizzazione dell'acqua, al nucleare, all'uso privato della legge; la campagna contro la "legge bavaglio", che ha contribuito in modo determinante a bloccare una aggressione alle libertà; il ritorno della Costituzione come riferimento forte e comune. Tutti movimenti senza leader, senza i quali non sarebbero stati possibili i successi del centrosinistra alle elezioni amministrative (e, prima, l'affermazione nelle primarie dei candidati non di partito: una conferma è venuta dalle primarie di Genova).
E Ilvo Diamanti ha documentato come nelle campagne elettorali amministrative vi sia stata una partecipazione spontanea senza precedenti.
I partiti non hanno colto la novità, anzi hanno preso le distanze, sono tornati i vecchi inviti a non cedere al movimentismo. Bersani, sia pure all'ultimo momento, aveva compiuto un atto politico significativo, schierando ufficialmente il Pd a favore dei referendum. Ma poi tutto è finito lì, nessuna attenzione è stata prestata ai protagonisti di quella vicenda, anzi si è concretamente operato per cancellare il risultato del referendum sull'acqua, tentativo contro il quale si sta organizzando un movimento di "obbedienza civile". Il necessario riconoscimento dei partiti e del loro ruolo non può convertirsi in contemplazione passiva. Il patrimonio accumulato in questi ultimi due anni non può essere disperso, e questo esige una iniziativa nuova, perché i movimenti sono sempre esposti al rischio del dissolversi, soprattutto quando si tratta di single issue mouvements, di movimenti con un unico e dichiarato obiettivo, raggiunto il quale sembra quasi che la loro esistenza non abbia più senso. Questo è vero, almeno in parte, quando il sistema politico è in buona salute. Così non è nei tempi di crisi profonda quando, invece, è indispensabile valorizzare e mobilitare tutte le energie presenti nella società. Dai partiti non sono venuti segni significativi in questa direzione. Si sono così creati due circuiti politici, tra i quali è indispensabile trovare una connessione, pena una generale perdita di senso e di capacità di cambiamento della politica. E anche per evitare che un impegno politico significativo sia ricacciato nello scoramento, dell'abbandono, della rabbia. E questo impone che non vi sia alcuna compiacenza verso le prassi degenerate dei partiti, alle loro derive oligarchiche, se si vuole ricondurli al modello costituzionale che li vede attori della determinazione dell'indirizzo politico con metodo democratico.
Il movimento dell'acqua
E' enfatico, e polemico, parlare di un "soggetto politico nuovo"? Ma questa non è una forzatura politica e linguistica. E' la registrazione di un dato di fatto, di un patrimonio che, nell'interesse comune, non può essere disperso. Questa realtà molteplice deve trovare una propria forma di riconoscimento e organizzazione che, lo dico subito, non può essere finalizzata alla creazione di liste elettorali, per gli enormi rischi che ciò comporta, a cominciare dalla tentazione offerta a chi cerca un'occasione per riscattarsi da passati fallimenti, a chi è sempre alla ricerca di contenitori per realizzare ambizioni personali, non per ottenere risultati politici. Per la sua origine, assai legata anche all'uso delle reti sociali, questo nuovo soggetto deve piuttosto muoversi verso una organizzane a rete, mettendo in particolare a frutto l'esperienza del movimento per l'acqua bene comune, che ha consentito a realtà diverse di collegarsi, dialogare, agire d'intesa. Ma questo è l'opposto di leadership provvisorie, itineranti. Queste parole sono comprensibili come reazione alla personalizzazione estrema della politica, alla chiusura oligarchica dei partiti. E dunque sono benvenute quando sono il segno dell'apertura di cui parlavo all'inizio, come riconoscimento che in politica v'è posto per tutti, che la partecipazione non deve essere ridotta a subordinazione, ad una semplice affiliazione Tuttavia l'indispensabile capacità di produrre direzione politica non può essere affidata unicamente ad una spontaneità colorata da passioni, da emozioni, che certamente hanno peso, ma non possono connotare interamente il campo del politico. E' il problema delle nuove soggettività politiche, ineludibile nel tempo della crisi della rappresentanza (vale la pena di dare un'occhiata ai due numeri di "Filosofia politica" dedicati appunto al soggetto, in particolare a ciò che scrive Nello Preterossi in apertura del numero 3 del 2011).
Non mi preoccupa una certa nebulosità della proposta iniziale, comunque necessaria per non disperdere esperienze rilevanti e per contribuire ad un rinnovamento della politica di cui sarebbero gli stessi partiti a beneficiare. Nel "Manifesto" è correttamente impostato il rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, anche facendo riferimento alle nuove opportunità offerte dall'articolo 11 del Trattato di Lisbona. Meno limpido è il modo in cui viene delineato il rapporto tra il soggetto politico "vecchio", il partito, e quello "nuovo", perché per quest'ultimo è necessaria una elaborazione ulteriore, che dovrebbe consigliare analisi meno trionfalistiche sul nuovo e meno liquidatorie del vecchio. E' comprensibile che ciò avvenga, poiché a questo spingono molte iniziative di questi mesi, il fascino del locale, di Cattaneo, della "democrazia di prossimità". Ma i movimenti già ricordati andavano anche oltre il locale, ponevano l'ineludibile domanda di una nuova organizzatore dei poteri che non può germogliare solo dalla dimensione locale, anche se proprio qui può trovare nuovo impulso, cominciando a rimuovere le chiusure che hanno caratterizzato il potere centrale in tutte le sue diramazioni.
Non buttiamo il Novecento
E poi. Per radicare un nuovo soggetto politico davvero è necessaria quella tabula rasa che compare nel "Manifesto"? Via il Novecento, via tutto il diritto borghese, via l'ingannevole Europa. Ricordiamo l' "Indirizzo" di Karl Marx ai critici del suo sostegno alla legge delle dieci ore: «per la prima volta, alla chiara luce del sole, l'economia politica del proletariato ha prevalso sull'economia politica del capitale». Il Novecento non è stato soltanto il secolo breve, il secolo tragico del totalitarismo. E' stato il secolo in cui, nell'Europa continentale soprattutto, un nuovo soggetto politico, la classe operaia, è stata all'origine del nuovo costituzionalismo aperto a Weimar, con la prima delle "lunghe costituzioni" che avrebbero modificato profondamente un quadro istituzionale fino a quel momento dominato soprattutto dal prodotto di un altro soggetto politico, la borghesia con il suo il codice civile. Non buttiamo via il compromesso socialdemocratico e il Welfare State, che non sono riducibili ad una astuzia del capitalismo, ma sono il risultato del ruolo giocato dai partiti di massa. Non regaliamo ad interpretazioni regressive la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, di cui si indicano ombre, ma si trascurano del tutto le molte luci.
Certo, oggi il quadro è cambiato, drammaticamente. Ma proprio per questo è necessaria una nuova ricomposizione delle forze, non dirò un nuovo blocco sociale, alla quale un soggetto politico nuovo può dare un impulso finora mancato. E sono necessarie analisi politiche ed istituzionali non approssimative. Se si vuol difendere la democrazia parlamentare, non si può cadere in una tipica trappola berlusconiana sostenendo che il governo Monti non è legittimato perché non è passato da un voto popolare: questa è la logica populista e della democrazia d'investitura che ha devastato nei due decenni passati il nostro sistema politico. Né si può affermare che siamo di fronte ad una mortificazione del Parlamento. Abbiamo dimenticato la Camera chiusa per mancanza di lavoro e il voto a grande maggioranza su Ruby nipote di Mubarak? Per amor di polemica rischiamo di dimenticare altre questioni, davvero centrali come l'autoritario governar per decreti e il modo in cui si costruisce l'agenda politico-parlamentare.
La questione proprietaria
Tocchiamo così i contenuti dell'azione politica, alla quale mi pare che il "Manifesto" dia un contributo significativo con la sottolineatura dell'importanza del riferimento ai beni comuni, come dato che caratterizza la fase attuale. Non è una bizzarria, né un tema marginale. Con esso, finalmente, torna in tutta la sua rilevanza la questione proprietaria. E qui è indubbio il merito dell'altra politica, così come è indubbia la permanente insensibilità della politica ufficiale. I partiti secondano l'offensiva contro i risultati del voto referendario, che hanno indicato nell'acqua un bene comune e hanno abrogato la norma che prevedeva che la sua gestione potesse essere oggetto di profitto. Il Parlamento ignora le proposte di legge sui beni comuni e sull'acqua presentati da suoi componenti, da regioni o d'iniziativa popolare. Qui la presenza organizzata dei cittadini può trasformarsi non solo in pressione significativa perché di quelle proposte di legge si discuta, ma può divenire richiesta di modifiche, anche costituzionali, perché le iniziative legislative popolari vengano prese in considerazione e ai loro promotori sia riconosciuto un potere di iniziativa ed una presenza nel corso della discussione nelle commissioni parlamentari. Una connessione istituzionale importante. Certo, va evitata l'eccesso di riferimenti ai beni comuni. L'inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell'espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità "comune" di un bene può sprigionare tutta la sua forza. E tuttavia è cosa buona che questo continuo germogliare di ipotesi mantenga viva l'attenzione per una questione alla quale è affidato un passaggio d'epoca. Giustamente Roberto Esposito sottolinea come questa sia una via da percorrere per sottrarsi alla tirannia di quella che Walter Benjamin ha chiamato la «teologia economica».
Veniamo così agli strumenti da adoperare e progettare. Il "Manifesto" ne elenca molti: la Convenzione di Aarhus e l'esperienza di Porto Alegre, quella di Party, dell'Open Space Technology, dei Town Meetings. L'elenco può essere facilmente allungato, ma da esso escluderei i referendum on line, di cui non si sottolineerà mai abbastanza l'ambiguità, o la pericolosità, per l'ingannevole sensazione di passaggio di sovranità che può generare, mentre sono strumenti congeniali alla democrazia plebiscitaria, a alle manipolazioni, anche se proprio nella dimensione locale alcuni di questi rischi possono almeno essere ridotti. Di nuovo, comunque, siamo di fronte a un tema ineludibile, che è poi quello di come si governa la democrazia continua.
Beni comuni e democrazia continua sono indicazioni che impongono una rottura, ma sono soprattutto questioni ineludibili se si vogliono seriamente affrontare le questioni del mercato e della crisi delle procedure democratiche. E' stata, ed è ancora, l'altra politica ad aver costruito questo pezzo di agenda, che può divenire un momento di connessione tra i due circuiti politici, se quello ufficiale, o almeno alcuni dei partiti che lo compongono, si renderanno conto che qui si gioca una partita decisiva. Che ci porta dritti alla Costituzione, al lavoro fondamento della Repubblica democratica, ai diritti come elemento costitutivo della democrazia.
Si può davvero parlare a questo punto di soggetto senza progetto, di neutralizzazione dei conflitti? O siamo proprio sul terreno dove il progetto può cominciare a prendere una nuova forma, e proprio per questo esige lavoro e contributi larghi? E le questioni prospettate ci portano nel cuore dei conflitti di oggi, nella dimensione nazionale, sovranazionale, globale. Certo, il "Manifesto", oltre ad avere limiti, ha molte lacune. Ma apre una discussione vera, che spero possa proseguire.
Vedo tutti i rischi di una democrazia senza partiti. Vedo pure quelli di una democrazia progressivamente svuotata dal ridursi della sua capacità rappresentativa, svincolata da una cittadinanza forte.
Rispondendo all'articolo di Rossana Rossanda pubblicato su questo giornale il 5 aprile scorso, vorrei chiarire innanzitutto che il nostro «Manifesto» non è un documento di contenuto socio-economico ma di metodo politico.
In prima istanza il nostro scopo era, ed è, di affrontare l'emergenza causata dal fallimento storico dei partiti (non solo italiani) nella loro forma attuale - un fallimento greve di conseguenze per la democrazia. Non passa giorno che non si veda l'ennesimo esempio grottesco dei metodi e delle pratiche dei partiti attuali. Per contrasto noi abbiamo provato a proporre soluzioni radicalmente diverse di organizzazione della vita politica. Un'idea dello spazio pubblico politico allargato e la creazione di un soggetto politico nuovo dove l'appartenenza non sia esclusiva, la struttura non sia verticistica, il potere sia decentralizzato al massimo, i limiti di mandato siano rigorosamente rispettati e si eserciti la massima trasparenza nella gestione economica (rendiconto attuale: reddito zero, spese molte, tutte personali e non restituibili, ancora meno con il sistema utilizzata da tutti i partiti per le loro attuali spese elettorali).
Abbiamo iniziato con la sfera politica - non solo i partiti ma anche le due forme classiche della democrazia, quella partecipativa e quella rappresentativa - "la libertà degli antichi e quelli dei moderni". È di fondamentale importanza che questo dibattito sulle forme della democrazia si intensifichi e si arricchisca in tutt'Italia. In questo contesto vale la pena riaffermare che non abbiamo una visione distorta ed idealizzata della società civile 'buona' da contrastare con i partiti cattivi. Tutti noi portiamo le ferite di un decennio di tentativi di far funzionare democraticamente e far sopravvivere i social forum, i girotondi, e altre espressioni della società civile. Il nostro argomento è altro: serve uno spazio pubblico politico allargato che vada oltre i confini del vecchio "palazzo", uno spazio ben regolamentato dalle istituzioni democratiche ma vivo, in cui cittadini singoli, soggetti politici, movimenti e associazioni della società civile possano incontrarsi, criticarsi e aiutarsi. Solo così, in un mondo dominato da modelli di consumi privatizzanti e dalla lenta agonia della scuola statale, possiamo sperare di creare cerchi sempre più ampi di cittadini informati, partecipanti e dissenzienti.
Abbiamo iniziato con la sfera politica ma vorremmo passare subito ad altri campi - sociale, economica e culturale. Lontanissima da noi la voglia di togliere di mezzo il conflitto sociale. Una certa familiarità con le statistiche - quelle sulla povertà e sulla drammatica e crescente disuguaglianza di ricchezza, per nominarne solo due - una certa conoscenza della storia della Repubblica, una collaborazione costante con il mondo del lavoro, portano direttamente all'analisi del conflitto sociale. Non potrebbe essere altrimenti. Parlare di e lottare per i beni comuni significa immediatamente aprire pratiche di conflitto con chi riduce tutto a merce e al calcolo costi-benefici. Significa anche aprire un varco nelle istituzioni europee. Nasce ora il progetto di una 'Carta Europea dei Beni Comuni' che si propone di inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell'Unione e di fronteggiare la dimensione puramente mercantile del diritto comunitario. Alla fine del nostro Manifesto si legge: «Si rompe con questo modello neo liberista europeo che vuole privatizzare a tutti i costi, che non ha alcuna cultura dell'eguaglianza, che minaccia a morte lo stato sociale, la dignità e sicurezza del lavoro». Più chiaro di così...
Naturalmente, rimane un grande sforzo di elaborazione da compiere. Il gruppo di lavoro iniziale ha potuto vantare alcune competenze ma non altre. Speriamo tanto che chi ha migliori e diverse capacità e preparazione adesso ci dia una mano e che il gruppo si allarghi e si diffonde sul territorio nazionale. In poco più di una settimana siamo sopra 3,000 adesioni (http://www.soggettopoliticonuovo.it), in molti casi accompagnate da articolati commenti.
Finisco con una considerazione strettamente personale. La recente presenza a Firenze di Rossana Rossanda, fragile ma lucidissima, mi ha commosso. Vorrei tuttavia far notare che il metodo del straw man, dove l'altro viene presentato in modo caricaturale, "uomo di paglia" facile da bruciare subito, non è affatto il modo migliore di condurre una conversazione politica.
Ecco il primo soggetto politico che toglie senz'altro di mezzo il conflitto sociale: è quello proposto dal documento di Firenze e Napoli, pubblicato sul manifesto del 29 marzo e argomentato il giorno dopo da Marco Revelli. Come Revelli, altri amici e compagni vi hanno rapidamente aderito.
È un "soggetto senza progetto". La sua idea di società, alquanto mal ridotta dai traffici di Berlusconi e dalla contabilità di Monti, non va oltre la vasta quanto vaga esigenza di far esprimere in forme dirette la società civile, la quale è fatta di tutto fuorché dallo stato, dalle istituzioni e dagli attori della politica. Da tutti e da ciascuno di noi - padroni e dipendenti, banche e depositari e speculatori, uomini e donne, ricchi e poveri, nord e sud - in quanto messi in grado di esprimersi con la scheda sui loro bisogni e le soluzioni per risolverli. Quindi una democrazia più diffusa, una rete di relazioni svincolata dal ceto politico, non più solo "rappresentativa" di qualcuno ma "partecipata" da cittadini che non rilasciano deleghe.
Questo modello non è quello della Costituzione del 1948, che punta sui partiti come corpi intermedi, mediatori fra cittadini e stato, luoghi di elaborazione degli interessi diversi di una società complessa. I partiti - è la premessa del documento - non godono più di alcuna fiducia degli italiani, chiusi come sono in se stessi e nelle loro diatribe, mancando di ogni trasparenza anche quando, raramente, non sono sospettabili di frodi. Essi costituiscono l'impermeabile e impenetrabile "Palazzo" di pasoliniana memoria, e l'ombra o penombra che vi domina sono il miglior brodo di coltura per germi di ogni tipo. Metterli sotto pressione e controllo dal basso è l'operazione di igiene che si impone, nonché cortocircuitarli quando si può chiamare a un referendum.
Per il "nuovo soggetto" questo - trasparenza e apertura ai cittadini - è il vero problema del paese. Occorre sfondare le mura di quelli che non sono più corpi "intermedi" ma corpi "separati", e come tali non sono in grado né di capire né di comunicare con l'Italia, per cui si prevede un massiccio voltare loro le spalle con l'astensione. Il nuovo soggetto promette di essere l'opposto, tutto un'iniziativa di apertura delle barriere e di messa a confronto degli uni con gli altri, insomma un partito - non partito ma sostitutivo dei partiti.
Per fare che cosa, oltre che questa operazione di schiarimento delle acque? Non è detto. Certo ci sono in Italia gigantesche inuguaglianze di condizioni materiali, di cultura e di status ma l'esprimersi di tutti sui "beni comuni", le abolirà o ridurrà attraverso la presa di parola dei più deboli. Non scomodiamo dunque Marx, né il movimento operaio, né il vecchio concetto di lotta di classe, e tanto meno l'utopia pericolosa che ha portato ai defunti "socialismi reali". Non che il capitalismo sia morto, anzi non ha mai così totalmente dominato il pianeta, ma si tratta - se ho ben capito - di proteggere la gente dalle sue crisi stabilendo un vasto terreno di beni fuori mercato. Agganciandosi ai Comuni in quanto - lo dice la parola stessa - essi sono l'istanza elettiva più vicina al territorio e quindi in grado di controllarlo ed esserne controllata.
Il "nuovo soggetto politico" non si perde sull'analisi dello stato e dei poteri forti, politici ed economici. Né nelle teorie sociali del movimento operaio o, all'opposto, del liberismo: le prime neppure le nomina, al secondo i beni comuni, terreno di convinzione generale, tagliano le unghie. In questo senso il documento di Firenze presenta una tranquilla riedizione della spontaneità, l'universalmente umano bastante a se stesso, che il '68 aveva portato avanti polemicamente ma adesso, rifiutando assalti al cielo troppo pericolosi, sarebbe in condizione di attuarsi attraverso una saggia rete di relazioni e consultazione popolare permanente.
Di avversari il "nuovo soggetto" non ha che la privatizzazione di beni comuni, contro la quale si batte ma non meno che contro la statalizzazione o il loro "restar pubblico" nelle forme attuali, di "merce non ancora messa in vendita". Che sia intrinseco al capitale il trasformare tutto in merce, umani compresi, non interessa il "nuovo soggetto"; esso sospetta anzi che questa tesi sia un residuo delle culture politiche del Novecento, inchiodate sul conflitto capitale-proletariato. Così come non scava troppo in quello fra uomini e donne, concedendo la parità di valore tra la razionalità che sarebbe maschile, e l'emozione o la passione che sarebbero femminili. Alle passioni ed emozioni finora si affidava soltanto il populismo, ora entrerebbero fra i parametri del politico moderno. Anche l'ecologia troverebbe vantaggio in questa filosofia: chi può negare che il pianeta sul quale siamo appollaiati sia un bene comune?
E i beni comuni possono essere molti. Non è più forse il caso dei pascoli, ma non è bene comune che l'Italia produca automobili, meglio se elettriche? Basta persuaderne Marchionne e Landini. Che il voto dell'uno conti da solo nelle relazioni industriali quanto il voto di tutti i seguaci dell'altro (anzi in ogni caso di più, perché sua è la proprietà) è un dato di sistema sul quale non vale la pena di soffermarsi. Così come su alcuni diritti - al posto di lavoro o alla casa, e alla scuola, alla sanità, alla cultura, rimasti ottativi anche nella Carta del 1948. Chi non li desidera? Ma non evochiamo le idee fisse novecentesche. È vero che le vicende e le trasformazioni della proprietà, per non parlare del mercato, avvengono così lontano dal nostro sguardo da parere, al documento di Firenze, testualmente, «astratti».
È evidente che alle spalle del "nuovo soggetto" sta l'esito delle ultime elezioni parziali, e del referendum sull'acqua, avvenuti perlopiù fuori dal circuito dei partiti e considerati quindi come uno schiaffo loro assestato da parte della società civile. Che essi non abbiano scalfito il muro dei poteri forti, al nuovo soggetto politico non importa: non era nel suo obiettivo. Né che a Berlusconi sia seguita non già una spinta di sinistra, ma il liberismo oltranzista del governo Monti. Colpa della politica - si dice -, come se non fosse l'opinione pubblica ad avere votato ben tre volte il primo, senza protestare per l'indecente legge che ne canalizzava e blindava a suo favore il voto anche se non era di maggioranza. E quindi incapace di liberarsene.
Giusto, ma chi si vorrebbe liberare di Monti? La Fiom, le sinistre radicali già messe fuori dalle Camere, i nostalgici del marxismo o almeno di una forte regolazione del capitale, come la sottoscritta. Monti, un po' feroce ma onestissimo, ci fa fare, con Merkel e Sarkozy, buona figura all'estero. Che vogliamo di più?
L’appello per un “nuovo soggetto politico” apparso sul manifesto di giovedì 29 marzo merita risposte favorevoli e molto lavoro per andare avanti: compresi alcuni chiarimenti. Indica la direzione giusta quando afferma che non si tratta di aggiungere un’ennesima sigla a quelle esistenti (né, sembra, di sottoporre agli elettori un’ulteriore opzione tra le altre) ma, piuttosto, di concorrere insieme all’aggregazione e all’auto-riconoscimento di una “nuova soggettività”, unificata e unificante. Questa nuova soggettività non dovrebbe comprimere le diverse esperienze e le diverse culture dell’opposizione antisistemica in Italia ma, al contrario, farne un patrimonio da valorizzare.
Il lavoro che resta da fare insieme (insieme, innanzitutto, con i promotori dell’appello) consiste allora nel chiarire come concretamente realizzare queste intenzioni. E’ chiaro (e sembra chiarito) che non si tratta di competere con i partiti del “centro-sinistra” classico (FdS, Sel, IdV, fino allo stesso PD), ma di rimettere a nuovo lo “spazio pubblico” in cui tutti ci muoveremo. Questo, però, può avere molti significati. Il successo dell’operazione dipende dalla capacità di individuare concretamente il significato giusto. E’ vero che i partiti (tutti, piccoli e grandi, dentro e fuori il parlamento, più o meno, per una ragione o per l’altra) non stanno bene e non sono del tutto salubri. Soprattutto, non rappresentano ormai che in minima parte i sentimenti e i bisogni delle persone. Tuttavia esistono; e di ciò si deve tenere conto in un modo o in un altro. Se si chiede loro di collaborare al proprio superamento (e non sarebbe la prima volta), non si può certo aspettarsi che rispondano con entusiasmo. Proprio questo, dopotutto, è stato il dramma del pur generoso tentativo di imporre una lista unitaria dal basso, e non dal vertice, che rappresentasse veramente il sentire comune dell’opposizione antisistemica, in vista delle elezioni europee del 2009 (una generosità da non dimenticare, e un fallimento su cui meditare). Si dovrebbe dunque semplicemente ignorare i partiti esistenti? E come evitare che una tale scelta porti proprio dove si afferma di non volere andare, cioè a una sigla ulteriore, e a una lista concorrente?
L’appello muove dal presupposto che lo spazio pubblico non coincida necessariamente con lo spazio politico. Si rivolge a una rete civica che già da tempo fa a meno della politica organizzata così come oggi si presenta, e su questo terreno ottiene successi quasi esaltanti come nei referendum sui beni comuni, e nell’elezione dei sindaci di importanti città, lo scorso anno. L’operazione è interessante, e l’analisi che l’Appello ne fa non lo è meno. Cercando di andare un po’ oltre, vi si può riconoscere un tentativo di contrastare il blocco storico dominante a livello globale con i suoi stessi metodi. Infatti, da quando esistono cose come la Commissione Trilaterale, i portatori degli interessi esclusivi del capitale e della proprietà hanno trovato e usano il modo di passare attraverso uno spazio politico depotenziato e svuotato (malgrado talune sue apparenti e formali blindature) con sovrana indifferenza. E’ interessante e stimolante considerare che i portatori degli interessi del lavoro e dei beni comuni, che sono la maggioranza perdente e disgregata da alcuni decenni, possano e dovrebbero forse cercare di fare qualcosa di simile. E’ improbabile, però, che abbia senso fare esattamente la stessa cosa; si deve temere che ci sia un’insuperabile sproporzione di forze.
Quale ruolo possono avere gli esistenti partiti, che in questo o quel modo echeggiano il superato ma non insensato modello novecentesco di organizzazione politica dei non proprietari (per le cui esigenze, in fondo, i partiti novecenteschi furono innanzitutto inventati, per essere poi imitati dagli avversari in un primo tempo)? Di essi si può e si deve dire molto di negativo, oggi. Ma deve esserci un modo in cui le energie e le esperienze che ancora contengono (al limite, alcune fondate esigenze di cui sono portatori in modo più o meno stanco e irrigidito) siano chiamate e sollecitate a concorrere. In un modo o nell’altro, l’opposizione antisistemica ha bisogno di essere più organizzata (al limite un po’ più “pesantemente” organizzata) di quanto il potere del capitale possa concedersi di non essere. Le forme possono e certamente devono essere nuove, più mature, più ricche e più cariche di libertà, di diversità e di autonomie. Ma il problema resta.
L’esperienza del 2009 resta ancora, in questo senso, da studiare fino in fondo: la domanda, cioè, che la sinistra diffusa nella società civile rivolse allora ai partiti per essere ascoltata, e per avere uno spazio entro cui rappresentarsi e rendersi efficace dentro e fuori di essi, in tutta la sua vastità e in tutta la sua complessità. Perché, allora, i partiti (nello specifico, la “Sinistra e Libertà” di allora, Rifondazione, e il PdCI) non capirono? Come evitare di ripetere oggi quello scontro sterile? La strada maestra del nuovo spazio pubblico democratico può consistere nel caricare, riempire, alimentare lo spazio politico (e in particolare i partiti) di impegni e parole d’ordine vincolanti, in modo trasversale. Si tratta cioè di un’operazione formalmente analoga a quella vittoriosamente condotta dal capitale nel corso degli ultimi decenni. Mentre però il capitale poteva (e forse doveva) effettuarla svuotando e depotenziando la politica, noi dobbiamo effettuarla, al contrario, mirando a darle nuova vita.
prima idea, per muoversi in questa direzione, può consistere nel proporre e al limite imporre ai partiti della sinistra un rapporto nuovo con il loro elettorato potenziale. Le liste elettorali siano cioè il prodotto di un’ampia consultazione (vere e proprie primarie), e i candidati, quale che sia il simbolo sotto il quale correranno, siano legati da un patto tra loro e con gli elettori che equivalga a un vero e proprio vincolo di mandato, su un breve ma chiaro decalogo delle semplici e grandi cose in cui l’opposizione antisistemica si riconosce. Perché non volerlo? Perché non tentare?
Siamo a qualche mese dall'attacco internazionale al debito pubblico italiano (stabile da molti anni), la risposta alla propria messa in scacco dalla primavera referendaria italiana. Vale la pena soffermarsi a riflettere sullo stato del conflitto fra diverse visioni del mondo simbolicamente rappresentato nella campagna di giugno. La riflessione ha valenza costituzionale perché la partita in corso coinvolge lo stesso patto fondante la nostra Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Essa coinvolge la stessa concezione della giuridicità nei due campi contrapposti, quello del governo tecnico e quello dell'orizzonte di senso evocato dalla proposta del nuovo soggetto politico.
Due sono le norme costituzionali formalmente coinvolte nel conflitto. L'art. 41 (iniziativa economica privata) e l'art. 82 (pareggio di bilancio), ma ben più fondamentale è la partita costituente in corso, perché coinvolge direttamente l'art.1 (il lavoro come fondamento primario del patto costituzionale) e l'art. 3, soprattutto nel secondo comma, che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di fatto che rendono meramente formale l'uguaglianza di cui al primo comma. Si tratta dunque di una partita che colloca al centro la giustizia sociale e la distribuzione dellee risorse.
Due punti erano pacifici fra i costituenti e possono considerarsi il nucleo del nostro ordine costituito: l'Italia aderisce a blocco capitalista e tutela tanto la proprietà (art. 42) quanto l'iniziativa economica privata (art. 43). La Repubblica tuttavia, si schiera dalla parte del lavoro (art 1) nel suo conflitto storico col capitale, utilizzando il diritto (pubblico e privato) come strumento a tutela del più debole (il lavoratore) nei confronti del più forte (il datore di lavoro), qualora quest'ultimo abusi del proprio potere mettendo in campo pratiche oppressive o di sfruttamento. In quest'ordine di idee i diritti sono baluardo del debole nei confronti del forte ed il diritto è lo strumento attraverso cui la Repubblica può controllare l' attività privata (per modo che non si svolga in modo contrario alla sicurezza e alla dignità umana). Con lo stesso strumento lo Stato italiano dovrebbe autolimitare il proprio potere (di datore di lavoro, di imprenditore o di proprietario pubblico) facendosi pienamente carico dei propri doveri nei confronti della collettività e del territorio.
Questo equilibrio costituzionale, che ha informato per decenni la sensibilità dei giuristi e delle forze politiche di tutto l'arco costituzionale, è stato sovvertito nel ventennio neoliberale. Il diritto, sempre più di frequente si è trovato dalla parte del più forte tornando ad allontanarsi dagli orizzonti tracciati dalla sua lettura costituzionalmente orientata. Naturalmente, tale scelta di campo, prodotta dalla supremazia del potere economico internazionale nei confronti degli Stati, ottenuta attraverso la corruzione di gran parte del ceto politico professionale, comporta una vera e propria trasformazione della stessa funzione del diritto. Esso non deve che lasciar fare affinché il più forte naturalmente prevalga. Si tratta della visione sostenuta in America dagli economisti raccolti nei più prestigiosi (e corrotti) dipartimenti, da ultimo denunciati nello splendido documentario di Ferguson, Inside job.
Quest'ideologia, all'opera instancabilmente nella produzione del consenso per il nostro modello di sviluppo suicida, presentato invece come salvifico e necessario, era stata rigettata in Italia tramite i referendum sui beni comuni. Essa ha tuttavia irretito il Presidente Napolitano il quale, piuttosto che operare per il rispetto della volontà popolare, ha ritenuto di istituire motu proprio un sistema costituzionale semipresidenziale, promuovendo allo scranno senatoriale prima e poi a Palazzo Chigi, un autentico esemplare di economista neoliberale il quale si è circondato di altri esemplari della stessa rspecie, come la sua ministra del lavoro. Le conseguenze sono disastrose soprattutto in materia di lavoro, settore in cui Monti si era fatto le ossa offrendo alla Commissione Europea la sua consulenza con un rapporto del 2010 che proponeva la cancellazione in toto della giurisdizione sui diritti a favore di mediazioni informali dei conflitti. Tale proposta era così sovversiva della stessa idea di un diritto del lavoro da non esser neppure ripresa per intero dalla recente proposta di regolamento comunitario. Che, tuttavia, giunge a porre sullo stesso piano la libertà di iniziativa economica ed il diritto di sciopero, obbligando le Corti nazionali a «armonizzare questi diritti» quando configgono.
Porre sullo stesso piano capitale e lavoro fu un'intuizione del ventennio fascista ed in Italia annienterebbe il residuo senso del già ricordato art. 41 della Costituzione. Del resto Monti ha già cercato di modificare tale norma costituzionale per decreto legge. Per ora la proposta di regolamento comunitario ispirata da Monti è limitata almeno formalmente al c.d. "posting" dei lavoratori (ossia al loro trasferimento a seguito di un'impresa dislocata) ma è abbastanza chiaro che esso costituisce un altro passo avanti nell'attacco al lavoro a favore del capitale e della sua libertà di scorazzare liberamente per il più grande mercato del mondo sperimentando sempre nuove pratiche di sfruttamento.
L'idea forte tratta dallo studio di Monti è quella per cui le differenze di potere contrattuale fra capitale e lavoro non possano più essere prese in considerazione dal diritto. Il diritto non può più schierarsi dalla parte dei più deboli ma le corti devono essere neutrali nell'armonizzare i diritti confliggenti dei lavoratori e dell'impresa. Si supera così un nuovo tabù come l'art. 18 o prima di esso il modello Pomigliano. In effetti, il ritorno alla piena mercificazione ottocentesca del lavoro che la conquiste del diritto avevano progressivamente superato è già una realtà. I lavoratori svantaggiati possono oggi esser dati in affitto con lo sconto, grazie a una convenzione fra Fornero e una nota agenzia interinale, restituendo dignità a quella figura di locatio operis con cui i giuristi romani duemila anni fa inquadravano il contratto di lavoro.
In un tale quadro reazionario è difficile non prevedere che la riforma dell'articolo 18 ed il licenziamento per ragioni economiche, siano volti principalmente a preparare licenziamenti massicci nel settore pubblico quando la troika ci chiederà di farlo, come già avvenuto in Grecia. Se a questo aggiungiamo la quasi avvenuta modifica dell'art. 82 Costituzione per l' introduzione del pareggio di bilancio (che un Parlamento con la fiducia di meno del 10% degli Italiani sta per approvare in seconda lettura con una maggioranza tale da escludere il Referendum costituzionale confermativo), ben possiamo comprendere la drammatica urgenza democratica di cui parlava Marco Revelli sul manifesto di venerdì.
Alcuni di noi, che da ormai oltre due anni stanno sul territorio italiano, praticando la politica di movimento sono ben consci del potenziale politico della resistenza contro il montismo, vissuto da tante persone normali come un nuovo fenomeno postfascista italiano ormai più pericoloso dello stesso berlusconismo. Per noi è giunto il momento di mettere in campo un Comitato di Liberazione Nazionale dalla tirannia del pensiero unico e di farlo con tutte le forze che ancora credono che il diritto debba governare l'economia e non esserne dominato. Unire le persone per bene intorno ad un metodo per superare una situazione drammatica è più agevole che farlo sul merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati. Di qui il senso di una soggettività politica nuova che sappia stare sempre dalla parte del lavoro e dei beni comuni.
Monti, da Tokio, ci fa sapere che lui è popolare, i partiti no, sono solo oggetto di disprezzo. Pirani, solitamente molto politically correct, scrive che il bello del nuovo nostro primo ministro sta nel fatto che è autonomo dalle fluttuazioni parlamentari, dalla dialettica dei partiti e dalle pressioni della società. (Voglio sperare che non si sia reso conto di cosa ha teorizzato). La traduzione a livello popolare del concetto è quanto si sente sempre più ripetere: «A che mi serve la democrazia? Costa troppo. Perché debbo pagare tanti soldi perché una cricca vada a chiacchierare dei fatti suoi in un parlamento?».
A livello alto, invece, nelle istituzioni europee e fra insigni studiosi, si dice che siamo entrati nella post democrazia parlamentare, che i problemi sono ormai troppo complicati per lasciarli a incompetenti istituzioni rappresentative. Ricordo queste cose per avvertire che quando si cominciano a denunciare classe politica e, indifferenziatamente, i partiti in quanto tali, bisogna stare un po' attenti. L'attacco alla democrazia non viene più da bande neofasciste ormai poco più che folcloristiche, ma da una minaccia più raffinata: dall'uso capzioso che ormai apertamente viene fatto dell'oggettivo fastidio, della distanza che si è scavata fra società civile e istituzioni politiche. Cui inconsapevolmente concorre anche il neo anarchismo che percorre ovunque i movimenti.
D'accordo quindi con "il manifesto per il nuovo soggetto politico" pubblicato il 29 marzo scorso su questo giornale (e firmato da molti miei amici di cui ho la massima stima) quando dicono che per salvare la democrazia bisogna arricchirla e trovare nuove forme di partecipazione e anche di democrazia diretta. Ma, vi confesso di provare anche molta preoccupazione per il tipo di nuovo soggetto politico di cui si auspica la nascita in sostituzione della forma partito novecentesca. Certo, è vero, anche i partiti di sinistra o presunta tale sono pessimi. Anche i più recenti. Bisognerebbe rifarli daccapo e naturalmente questa non è operazione che si fa sulla carta: i buoni partiti nascono sempre da un movimento reale. Ma può servire a questo scopo il descritto nuovo soggetto?
Innanzitutto non si può mettere fra parentesi il fatto che se i partiti sono diventati così è perché le istituzioni rappresentative nazionali in cui sono chiamati a far sentire la loro voce sono state da tempo svuotate di un potere decisionale che peraltro non è stato nemmeno trasferito ad altri livelli ma semplicemente assunto, extra legem, da chi stabilisce accordi privati sul mercato globale. In questi anni sono state privatizzate non solo le centrali del latte o le aziende di trasporti, ma anche la sovranità, il potere decisionale.
La crisi dei partiti dipende dunque anche dalla drastica perdita di influenza che hanno subito in conseguenza di questa perdita di potere delle istanze rappresentative a tutti i livelli, anche comunale. Per questo la gente avverte la loro superfluità. Nessun soggetto politico può pensare di essere efficace se elude questo problema pensando di potersi limitare a produrre un po' di partecipazione locale. A meno di non reinventarsi l'impero ottomano, dove ai califfati veniva lasciato qualche potere locale, mentre restava saldamente in mano a Costantinopoli ogni opzione generale e decisiva. L'idea che il sistema possa esser cambiato solo dal basso, da una rete orizzontale che, pur non negandolo, sospende la sua attenzione al problema del potere centrale e ritiene che basti una frammentata pressione dal basso per cambiarlo, credo non vada lontano.
Né un progetto collettivo si definisce senza aver fatto crescere conoscenze e cultura comuni, che non sono la somma dei pareri di ciascuno, magari raccolti in rete come fa la tv con l'auditel, sicché alla fine vengono fuori, come opzioni maggioritarie, le telenovelas. Questa sacralizzazione dell'opinione pubblica, in nome della quale la maggioranza ha comunque ragione, è il peggior portato di Internet: la scelta giusta è il risultato di un confronto prolungato e sofferto, tanto più in presenza di movimenti che non sono più socialmente omogenei, come era quello operaio, ma popolati dalle figure destrutturate e contraddittorie prodotte dal capitalismo in crisi. Funzione di un soggetto politico è costruire senso, non raccogliere la medietà del consenso, peggio di un indistinto borbottio. A meno che non ci si contenti di conservare l'esistente anziché di cambiarlo.
E veniamo alla proposta di abolire una leadership centralizzata, sostituita da «coordinamenti transitori e itineranti». Badate che il peggior leaderismo si produce di fatto quando non si stabiliscono regole precise per una selezione collettiva dei dirigenti: vi dicono niente i leaderini del '68, dominatori di assemblee, sopraffattori dei più deboli, o solo meno arroganti? O il Partito radicale che, grazie alla sua assoluta informalità, ha lasciato alla ribalta da 50 anni Marco Pannella (che non si chiama narciso, ma, guarda caso, all'anagrafe è iscritto come giacinto)? Una massa atomizzata è sempre manovrabile. Per questo servono sedi stabili in cui ci si possa raccogliere, collegamenti a tutto campo per non chiudersi nel localismo (per questo è reazionario pensare di poter togliere finanziamenti ai partiti, o trovare illecito che un deputato viaggi al di fuori del suo collegio). Solo se c'è un'organizzazione la base può esercitare potere, altrimenti, al massimo, può dire sì o no a un referendum. Selezionare democraticamente una leadership è difficile ma necessario se si vuole consolidare un'organizzazione politica e non abbandonarla alle fluttuazioni caratteristiche dei movimenti spontanei.
E, infine, basta partecipare alle scelte, stabilire cosa è bene comune, o serve conquistare anche la loro stabile gestione? Il glorioso referendum sull'acqua non rischia forse di esser compromesso proprio sul terreno della sua applicazione? Non occorre dunque, allora, costruire organismi che strappino poteri allo stato e ne prefigurino la graduale estinzione, capaci di assolvere alle sue funzioni sì da evitare il rischio della separazione burocratica, del potere arbitrario, della casta? Gramsci, che pure ha sempre ricordato quanto più necessaria al proletariato rispetto alla borghesia sia la politica, consapevole delle sue degenerazioni aveva ipotizzato la creazione di consigli in grado di giocare questo ruolo. All'inizio degli anni '70 i consigli di fabbrica, e poi di zona, si sono avvicinati a questa indicazione. Non pensate che si tratti di una prospettiva più ricca che non quella di moltiplicare indefinite e instabili forme di raccolta di consensi?
Ben vengano nuove forme di partecipazione, dunque, ma innanzitutto facendo tesoro delle esperienze novecentesche che non sono roba da buttar via come dice il Manifesto: quando il Pci, con tutti i suoi difetti, aveva più di due milioni di iscritti e una capillare organizzazione radicata sul territorio e però anche forte della soggettività di una appartenenza ad un grande movimento internazionale che aveva sconfitto il fascismo vi assicuro che si è raggiunto il punto più alto di democrazia conosciuto dal nostro paese. Quella esperienza non è ripetibile e aveva i suoi limiti, ma per favore non sputateci sopra!
A me piace tuttora l'invocazione di Mao Tse Tung, che tanto ci conquistò nel '68, quando disse che occorreva bombardare il quartier generale. Perché i partiti si burocratizzano e separano e vanno quindi continuamente investiti dai movimenti della società. Ma Mao aggiungeva che occorreva distruggerli per rifondarli, non per farne a meno. In Cina non ci si è riusciti, non ho remore a dire che in Italia bisogna provarci.
"Tutti i nostri problemi, dalla crisi all´ambiente, sono problemi del vivere insieme: io questo senso parlo di comunismo" "Su Occupy Wall Street sono cauto, anche se ha avuto il merito di essere il primo movimento che non cavalca un solo tema" Il filosofo sloveno racconta, in una lunga intervista di cui pubblichiamo un estratto, le sue posizioni politiche
Perché lei, Slavoj Zizek, si interessa tanto alla psicoanalisi?
«Per un solo, unico motivo! Arrivare a una nuova comprensione di Hegel. Questo è il vero nucleo del mio lavoro: il mio maniacale entusiasmo per Hegel. Ho appena scritto un libro su Hegel, lo stanno stampando ora, uscirà in inglese tra circa tre mesi. È una roba da matti, più di mille pagine su Hegel».
In un suo libro, afferma che il comunismo rappresenta l´unica via d´uscita dall´attuale crisi sociale…
«Davvero ho detto questo?».
In che senso il comunismo è la soluzione?
«Okay, ecco la mia posizione ufficiale a riguardo. Innanzitutto, so di avere un piccolo problema di pubbliche relazioni. Molti miei amici, ma anche persone con cui non ho rapporti di amicizia, mi chiedono: perché non lasci finalmente perdere questo stupido concetto di comunismo, che porta con sé così tante implicazioni infelici?».
E perché non lo fa?
«Posso darvi tre motivazioni. Da buon freudiano, so che quando si danno troppe motivazioni ci si rende subito sospetti (ride). Primo: vorrei sottolineare che, nonostante tutto, esiste una ben definita tradizione del comunismo che non ha proprio nulla a che fare con lo stalinismo. Ad esempio la linea radicale ed emancipativa rappresentata dal millenarismo, con la sua credenza nella fine dei tempi. Il regno eterno è qui! È possibile trovarla nel cristianesimo, nella rivolta spartachista, nella guerra dei contadini e così via. Ritengo questa tradizione molto importante, mi piacerebbe portarla avanti».
E la seconda motivazione?
«Il problema di tutti gli altri concetti, ad eccezione del comunismo, è che sono compromessi nel senso esattamente opposto: sono troppo leggeri da digerire. Prendiamo il concetto di "solidarietà". Perfino Hitler avrebbe potuto parlare di solidarietà. O "dignità" – ma è chiaro, tutto dipende da cosa intendiamo per "dignità". Vedete, la parola comunismo almeno è destabilizzante: fa capire che non stiamo qui a prenderci in giro, a parlare di concetti onorati e vuoti, come quello di "maggiore giustizia"».
E la terza ragione?
«Forse è addirittura un bene che questo concetto sia gravato da una storia così spaventosa. Essa ci ricorda che progetti di una tale portata pratica sono sempre intrisi di pericolo. (...) Ma la mia vera risposta, quella definitiva, è: la parola "comunismo", come sottolineo più volte nel mio libro, non è il nome della soluzione, bensì quello del problema».
Di quale problema?
«Se si esaminano le questioni di fronte a cui ci troviamo oggi – l´inquinamento dell´ambiente, il capitalismo finanziario, la biogenetica, la difesa della proprietà intellettuale – tutti questi sono "problemi del vivere insieme, in comune": riguardano un ambito che sfugge sia al controllo dello Stato che alle soluzioni pensabili nell´ambito privatistico dell´economia di mercato. Il concetto di "comunismo" (dal latino communis) per me, quindi, identifica il problema. (...)».
Parliamo del movimento Occupy Wall Street. Secondo lei contribuisce, sia pure per piccoli passi, a cambiare le cose, o invece è parte del problema?
«Chi vivrà vedrà, sono molto cauto. La mia opinione su Occupy Wall Street però è la seguente: l´esistenza di esso è significativa, dato che si tratta del primo movimento, negli Stati Uniti, che è riuscito a ottenere una vasta eco sociale e non si occupa di un unico tema, ad esempio solo di razzismo o solo dell´indebitamento creato da speculazioni finanziarie. La gente si è accorta che c´è qualcosa che non va nel sistema. Ma non mi piace la formula "è colpa del capitale finanziario"».
Perché no?
«Il problema è in realtà: qual è la logica alla base dell´odierno sistema capitalistico che permette al capitale finanziario di agire così? Si tratta di una coazione sistemica. I banchieri sono cattivi da sempre – che strano, eh? Non bisogna dare la colpa solo ai banchieri di oggi! È un´idiozia! E penso che l´errore più grave che si possa commettere sia moralizzare questa crisi» (...).
Lei affermerebbe che la nostra attuale forma di democrazia non è in grado di combattere il capitalismo?
«No, no, no, direi quasi il contrario! Certo, la libertà di cui disponiamo è solo formale – ma questo è comunque l´unico ambito in cui la libertà può esistere. Nel momento in cui si abolisce la democrazia formale, non si ottiene la vera democrazia. Piuttosto, si perde la democrazia in quanto tale. Il solo spazio di libertà che abbiamo si trova nel campo intermedio tra la democrazia formale e le forme effettive della nostra illibertà... Si deve cominciare a pensare la politica al di là delle ristrette definizioni proprie dello Stato multipartitico. Voglio dirlo in questi termini: io odio il Sessantotto. Troppa libertà, troppo divertimento. Ma almeno una cosa l´hanno capita: il personale è politico e tutta quella roba là. Non sono cose che vadano sopravvalutate, sia ben chiaro, ma naturalmente sono giuste: l´oppressione delle donne, le strutture famigliari, quello che succede nelle fabbriche… anche in questi ambiti si pongono questioni di libertà, di politica. E qui, a mio parere, si innesta il problema più serio: non si dovrebbe far fuori la democrazia formale. Però, allo stesso tempo, come fare a includere questi ambiti nel processo politico?».
Traduzione di Eleonora Piromalli. © Philosophie Magazin
Un gruppo di intellettuali, tra i quali molti nostri preziosi collaboratori, firma un documento politico-culturale, che già nel titolo ne illustra la finalità: «Manifesto per un soggetto politico nuovo, per un'altra politica nelle forme e nelle passioni». Il lungo testo sostiene che non c'è più tempo, né speranza di cambiare questi partiti, spesso causa prima della crisi di democrazia che dovrebbero interpretare e risolvere. Dunque la partecipazione ha bisogno di altre forme, altri uomini, altre donne, altre ragioni e altri sentimenti.
I contenuti che animano questo manifesto politico fanno riferimento al "benecomunismo" elaborato negli ultimi anni a partire dalla battaglia sull'acqua pubblica. La riflessione sui beni comuni, le esperienze di movimento che ne sono seguite, sono lo scheletro, il perno su cui poggia l'opposizione radicale al bagaglio teorico e alla pratica politica delle attuali formazioni della sinistra, descritte come vuote oligarchie che nutrono leadership malate di narcisismo. In questa critica si sfondano porte spalancate. La rottamazione è ormai un risentimento di massa.
Più interessante la parte costruttiva, il percorso, l'habitat, le procedure, le suggestioni di una partecipazione del cittadino alla cosa pubblica. L'idea di superare lo sfogatoio qualunquista del «sono tutti uguali», la necessità di sperimentare una nuova delega, strutture intermedie, comunali, territoriali, che l'esperienza della rete dei «Comuni per il bene comune» stanno scoprendo e valorizzando. Compresa la ricerca di nuove parole per indicare nuove speranze.
Se il progetto si risolverà nell'aggiungere una nuova sigla all'attuale spezzatino della sinistra o invece sarà l'epicentro di una scossa per terremotare l'attuale geografia dei partiti, lo capiremo strada facendo. Nell'uno o nell'altro caso, le culture politiche e le esperienze sociali che oggi precipitano nel documento che pubblichiamo hanno animato le nostre pagine, le nostre campagne. Spesso in sintonia con il punto di vista del giornale, altre volte in contrasto con l'analisi e le soluzioni che suggerivamo nella crisi globale. Ed è facile prevedere qualche scintilla, per l'autorevolezza delle firme e l'eterogeneità delle culture e dei mondi che rappresentano. Se l'iniziativa provocherà una discussione sarà già un buon risultato. Che merita attenzione.
Mettere in campo «un'altra Italia, lavorare per un'altra Europa» è un progetto ambizioso, un vasto programma. Come del resto è sempre avvenuto quando, nel suo processo di scissionismo acuto, la sinistra si è fatta in mille pezzi, sempre più piccoli e sempre meno rilevanti. Da tempo si è capito che rimettere insieme i cocci non è possibile, né utile. Del resto chi firma il testo che pubblichiamo non fa parte di nomenklature partitiche, rappresenta l'anticorpo di un intellettuale collettivo sempre critico, e per questo mal digerito dal ceto politico.
Nei dibattiti che intorno alla sorte del nostro giornale si svolgono nei circoli degli amici del vediamo spesso la litigiosa famiglia della sinistra tornare a parlarsi. E siamo contenti di essere usati come un campo non neutrale, un laboratorio pienamente partecipe nuove connessioni, di un modo gentile di parlarsi. Ci piace esserlo anche nei confronti del tentativo di questo partito-movimento. Con la curiosità e l'autonomia di chi non ha mai rappresentato la voce di un partito.
Pochi giorni fa è comparso, con ovvio rilievo di stampa, un appello italo-tedesco ai rispettivi parlamenti nazionali perché questi ratifichino nello stesso giorno, e comunque prima del Consiglio europeo previsto per fine giugno, il cosiddetto fiscal compact, ossia il nuovo accordo che, dopo il Six Pack e il Patto Euro Plus, intende inferire un nuovo colpo al residuo brandello di sovranità nazionale sui bilanci in favore di una «sovranazionalità» retta da organismi del tutto a-democratici. Naturalmente, secondo i proponenti l'appello, tale ratifica andrebbe accompagnata da una dichiarazione politica «per un nuovo passo in avanti verso una forte Unione politica con un governo federale», ma si capisce che si tratta del fumo che accompagna l'arrosto, visto che lo sciagurato patto rimarrebbe tale e addirittura rafforzato, alla faccia dello stesso Hollande che ha dichiarato l'intenzione, una volta vinte le elezioni francesi, di rinegoziarlo. Il che comporta anche un ulteriore sostegno alla maggioranza bulgara che sta approvando a tappe forzate la revisione dell'articolo 81 della nostra Costituzione per introdurvi l'obbligo del pareggio di bilancio, in modo tale da precludere anche un referendum confermativo.
L'appello in questione è firmato da eminenti personalità, alcune delle quali fanno parte del milieu della sinistra con ambizioni radicali. La giustificazione fornita è che non si può rinchiudersi in una nicchia di opposizione, che bisogna «scendere in campo», che si tratterebbe quindi di stabilire una nuova tappa nella costruzione dell'Europa da aggiustare poi in seguito. Argomentazioni infantili, potremmo dire, se non provenissero da persone assai avvertite e politicamente esperte. Bisogna quindi interrogarsi sulle ragioni che ci hanno condotto sino a questo punto. Perché siamo tornati indietro alla destra hegeliana, per cui tutto il reale (banalmente equiparato all'esistente) appare razionale? Perché si è interiorizzato un principio in virtù del quale ogni atteggiamento oppositivo è in partenza considerato di nicchia nel migliore dei casi, suicida nella maggioranza dei medesimi?
Sono domande che non dovrebbero lasciare nessuno indifferente, poiché sono rivolte in primo luogo a noi stessi. Potremmo anche riformularle nel modo seguente: perché la «società civile» europea, pur umiliata, taglieggiata, impoverita e deprivata di un futuro credibile, rimane - al di là di rilevanti e meritori sussulti, come quello greco - sostanzialmente passiva di fronte a quella che, col suo consueto aplomb, Mario Draghi ha definito la «fine del modello sociale europeo»? E perché anche i migliori intellettuali, che pure - come Ulrich Beck, tra i firmatari del citato appello - sono stati in passato tra i cantori di questo modello, si accodano ora, come in un nuovo tradimento dei chierici, al suo funerale?
Non crediamo ce la si possa cavare con risposte che pure facciano riferimento a una corretta contestualizzazione storica, né osservando che il neoliberismo, ideologia portante e inverata del moderno capitalismo, ha subito una vera e propria falsificazione. Se il sistema capitalistico nella sua ipertrofica dimensione finanziaria è ancora saldamente in piedi, ciò è dovuto al fatto che negli Usa e in Europa - e, mutatis mutandis, in Cina - lo Stato è intervenuto a piene mani nell'economia finanziaria e in quella produttiva. Sta di fatto che neppure di tale protagonismo del «pubblico» la sinistra ha saputo avvantaggiarsi. E rispondere che la ragione di ciò sta nella sua estinzione come pensiero politico autonomo sarebbe accontentarsi di tautologia, benché purtroppo vera.
Se questo è vero, allora il problema è prima di tutto culturale - o, se vogliamo, ideologico. L'inazione e la passività dei corpi sociali dipendono dal fatto che questa crisi è letta, quindi subita, come la conseguenza di comportamenti errati: come la punizione per presunti errori commessi. Ed è con ciò giustificata. Per questa ragione - crediamo - si tende a non reagire: si mugugna, tutt'al più si eccepisce su aspetti marginali (bisognerebbe far pagare di più questo piuttosto che quello), ma non ci si contrappone in radice allo schema interpretativo (il «debito», lo sbilancio tra bisogni sociali e risorse disponibili) che, nella rappresentazione diffusa da politici e media, legittima le misure draconiane imposte al grosso dei corpi sociali, cioè al lavoro dipendente.
Quello che così scompare del tutto è la consapevolezza della causa immediata della crisi, che risiede proprio in uno dei pilastri del neoliberismo: la contrazione delle retribuzioni. Il detonatore è stato il debito privato, non certo quello pubblico. Quest'ultimo è giunto solo attraverso la "pubblicizzazione" del primo, cioè con l'aiuto al sistema bancario da parte degli Stati. Ma la diffusione capillare dell'indebitamento, nonché la presenza attiva dei fondi pensione - cui tanti lavoratori avevano affidato la sicurezza del loro futuro - sui mercati finanziari, ha congiunto interessi collettivi e individuali alla sorte di questi ultimi. Questo non solo ha reso in fondo desiderabile anche a livello di massa che gli istituti bancari venissero salvati dal denaro pubblico, malgrado il loro comportamento spesso delinquenziale, ma anche che il debito privato accumulato venisse percepito dalle singole persone come una colpa derivante da un eccesso dei propri desideri rispetto alle proprie possibilità. Quando dalla crisi del debito privato si è passati a quella del debito pubblico - il che è ciò che contraddistingue l'attuale fase soprattutto in un'Europa renitente politiche anticicliche - quel senso di colpa si è dilatato, introiettando la convinzione che interi popoli e nazioni fossero «vissuti al di sopra dei propri mezzi». Il tutto nel bel mezzo di una sovrapproduzione di merci tradizionali. I sacrifici diventerebbero quindi la penitenza per gli eccessi passati. E il pareggio di bilancio la medicina salvifica pronta a prevenire prima ancora che curare.
Un capolavoro ideologico, non c'è che dire, fondato su una fitta rete di cointeressenze materiali radicate e diffuse ma conseguente anche alla subalternità della sinistra moderata (così, del resto, sono state giustificate tutte le «riforme» pensionistiche) e - riconosciamolo - all'inadeguatezza culturale e politica della cosiddetta sinistra "radicale", rivelatasi incapace di contrastare, nel senso comune, la prospettiva egemone. Non potendo far credere che sia la scarsità di risorse a rendere necessarie le sacrificali politiche di rigore, le classi dominanti si sono con successo adoperate per fare discendere i sacrifici dall'eccesso di opulenza. C'è di più. Per riproporsi, il neoliberismo aveva bisogno di un lavacro purificatore. La sua contaminazione con lo Stato ne aveva compromesso l'immagine in modo preoccupante. Bisognava chiarire che l'intervento statuale era solo transitorio e che comunque veniva limitato alla salvezza degli istituti finanziari, lasciando inalterata la struttura e le modalità di funzionamento dell'economia reale. Per fare ciò erano e sono necessarie due grandi operazioni.
La prima si muove più su un terreno ideologico e consiste nel rilancio in grande stile della polemica contro le dottrine di John Maynard Keynes, individuato dagli attuali protagonisti e interpreti del sistema capitalista mondiale come un pericolo addirittura peggiore del ritorno a Marx, poiché considerato, a differenza di quest'ultimo, prossimo e interno al sistema. Il disarmo culturale prima che politico della sinistra ha lasciato spazio a sciocchezze di questo genere, facendo persino dimenticare che a spalancare le porte al nazismo non fu la grande inflazione dei tempi di Weimar - domata già alla metà degli anni Venti - bensì la sciagurata politica deflazionistica del «cancelliere della fame» Heinrich Brüning.
La seconda operazione cui il neoliberismo affida il proprio rilancio riguarda la capacità del soggetto impresa di fornire una ricetta per uscire dalla crisi. Il marchionnismo è niente altro che questo. Il tentativo di rilanciare la competizione e la catena del profitto al di là e indipendentemente dalle politiche statuali, quando non contro di esse. Per questo non solo Marchionne rivendica un nuovo carattere "apolide" per la Fiat, ma vuole imporre un sistema di relazioni e di regole specifico del gruppo tale da prescindere dai quadri legislativi nei vari paesi in cui opera. A questo scopo servono autorità sovranazionali che si preoccupino della stabilità monetaria e del rigore di bilancio, lasciando tutto il resto all'impresa. Questo è il senso della attuale governance europea e del suo ultimo prodotto, il fiscal compact.
Si sente spesso dire, anche nel campo della sinistra "radicale", che bisogna andare «oltre Keynes», visto che al tempo suo questioni oggi cruciali e corresponsabili della crisi, come il disastro ambientale, non occupavano la scena con l'attuale ineludibile centralità. Il guaio è che questo oltrismo ha la stessa vaghezza di quello che, ancora più tempo addietro, predicava la necessità di andare «oltre Marx». Allora, piuttosto che evocare improbabili orizzonti salvifici, varrebbe forse la pena di rimettere i piedi per terra e di tornare a declinare il ragionamento critico incentrato sulla potenza distruttiva di un modello sociale che impedisce l'impiego delle forze produttive sociali (oggi virtualmente sufficienti a garantire all'umanità intera adeguati standard di vita) se (nella misura in cui) esso non comporta la remunerazione del capitale privato. Insomma, se, invece di precipitarsi «oltre», si tornasse intanto a Marx e a Keynes, tentando anche inedite e fertili contaminazioni, forse si opererebbe utilmente per la ricostruzione di un pensiero di sinistra.
Già altri, aderendo all'invito cortese di Valentino Parlato, hanno detto dei loro stati d'animo nell' intervenire sui temi proposti da Rossana Rossanda. Poiché Rossana incita il manifesto a guardare in se stesso per intendere la propria crisi, a Tronti è venuta in mente la lunga storia della introspezione com'è maturata nella cultura cui apparteniamo, dalle Confessioni di Agostino in poi. Posso confessare anch'io, dunque, un imbarazzo e un timore. Temo il ripetersi di una consumata discussione sul "nome e la cosa", anche se "la cosa" questa volta non è un partito ma un giornale. E avverto l'imbarazzo di chi, compartecipe della caduta delle sinistre italiane, sente di non aver proprio niente da sentenziare, ma al tempo stesso non vuol fare la parte di chi evita il tema scabroso posto dalla parola "comunismo".
Penso che la discussione di oggi sul declino della sinistra e dei suoi giornali dovrebbe concentrarsi sui motivi della crisi delle sue culture, resa manifesta dalla cattiva prova che hanno dato e stanno dando davanti al disastro economico, poco o per nulla previsto ieri e, oggi, fronteggiato senza proposte realmente alternative a quella del tentativo di ricominciare come prima. Questo è logico per quella parte della sinistra che ha fatto proprio il pensiero neoliberista, sia pure temperato. Lo è apparentemente di meno per quella sinistra che ha sempre denunciato il neoliberismo: ma se non si entra nel merito con conoscenza effettiva, il "cambiamo tutto" diventa sinonimo del non cambiare niente. Può darsi che nei toni palingenetici ci sia di mezzo la parola «comunismo». Se suscita discussione il dire, come ha fatto Rossana, che il comunismo è cosa di domani significa che c'è qualcosa di rimosso di cui occuparsi e che non basta dire che c'è "ben altro" di cui discutere. È vero, c'è ben altro, ma, soprattutto chi ha vissuto la vicenda che è alle nostre spalle ha il dovere di pronunciarsi.
Quando, ormai più di venti anni fa, si ragionava di come intendere la parola "comunismo" nella mozione congressuale che si opponeva a quello che ci sembrava, e fu, la dissoluzione del Pci, Cesare Luporini si pronunciò, e ne scrisse sul , per definirla come un "orizzonte" - cioè, com'è ovvio, un luogo irraggiungibile - e si ebbe una severa replica del giornale in nome della effettualità del termine. Per fortuna Valentino, caro compagno e amico, che si era assunto l'onere della risposta a Luporini, non si accorse in quella occasione che io avevo fatto di peggio, proponendo (e ottenendo, se non ricordo male) che si definisse il comunismo non già come una soluzione, ma come un "punto di vista sulla realtà". Un punto di vista, nutrito dalla lunga storia del pensiero critico, che individua nella costituzione economica della società una origine determinante, seppure non unica, di molti dei problemi e dei drammi con cui la realtà contemporanea si è trovata e si trova a fare i conti. E che, dunque, propone volta a volta soluzioni ispirate dal bisogno di rimuovere quelli che appaiono i motivi degli ostacoli posti alla libertà e alla uguaglianza, sapendo di essere una posizione tra le altre in una competizione democratica.
Mi sembrava questo il vero senso della parte migliore della tradizione dei comunisti italiani, quella che ne aveva fatto il maggiore partito della sinistra rendendolo utile ai lavoratori e al paese nella resistenza al fascismo, nella costruzione della democrazia italiana, nelle lotte del lavoro. Era, certo, un'esperienza già in crisi per tanti motivi, ma temevo, assieme a molti altri, che negando anche ciò che a me sembrava giusto conservare di quella tradizione, piuttosto che venirne un'innovazione ne sarebbe venuta solo una frattura insanabile in una comunità umana, certo piena di contrastanti passioni e di molti errori, ma tuttavia fertile e utile per le classi lavoratrici e per il paese. È quello che in effetti è avvenuto. Ma quella posizione appariva - ma non avrebbe voluto esserlo - come la difesa di una eccezione.
È vero, infatti, che quel nome fu usato, ovunque diventava potere, solo come marchio di assolutezza dogmatica, il marchio tipico di tutte le vicende collettive (religiose e no) che ritengono di fondarsi su verità indiscutibili. Ne vengono gli scismi (le scissioni), le reciproche scomuniche, le lotte fratricide, le guerre intestine, l'assassinio dei fratelli di ieri. Il primo tentativo di fondare una economia sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, trasformatasi rapidamente in proprietà statale e poi in dominio burocratico, approdava al capitalismo selvaggio. La speranza di una possibile riforma di quel sistema si dimostrava perdente. Quel nome può assumere un significato diverso e opposto? È astrattamente possibile, ma non da questa discussione può nascere un'alternativa alla destra e può essere ricostruita la nuova sinistra di cui ci sarebbe bisogno.
Di un punto di vista critico, però, c'è necessità più che mai : ciò che si è dimostrato alla lunga fallimentare non è l'analisi marxiana (oggi tornata in voga). Il vecchio Marx aveva ragione scrivendo, undici anni dopo la delusione delle speranze nutrite nel '48, che un sistema economico e sociale «non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa offra spazio sufficiente». E aveva ragione sia nella esaltazione della potenza del capitalismo sia nel ricercarne, quali che siano stati i suoi limiti, le possibili contraddizioni interne. La fragilità o l'assenza di una capacità di analisi critica di quello che andava succedendo nella economia reale e la totale ignoranza di quel che accadeva nel mondo della finanza dopo la grande svolta conservatrice degli anni '80 e dopo la scelta del mercato unico dei capitali e delle merci ha lasciato la sinistra europea, in ogni sua parte, disarmata di fronte al sopravvenire di un fallimento economico di straordinaria proporzione. È perciò che la via di uscita dalla crisi è interamente affidata a quelli che l'hanno generata e, in più, si va estendendo il pericolo dell'avanzare di una destra estrema, già al governo di alcuni stati europei e in espansione in altri.
A me sembra che il compito urgente di oggi, cui tutti dovrebbero dare una mano, è la costruzione di una alleanza credibile e sufficientemente ampia per contrastare la destra becera e quella più signorile, anche in vista delle elezioni che in ogni caso non sono lontane. Uno dei guasti più pesanti indotti nella cultura della sinistra è la trascuratezza delle distinzioni. Non tutto è identico. Non è vero che chiunque vinca le elezioni è la stessa cosa. Certo, non deve decadere l'obiettivo della ricostruzione di una grande sinistra, ispirata dalle idee di trasformazione sociale e capace anche di proposte per il breve periodo. Ma non mi pare che sia una meta vicina. Credo che sia giusto dire - come, se non sbaglio, dice Rossana - che non si può pensare nessuna sinistra senza la consapevolezza che il conflitto di classe non è una escogitazione d'altri tempi ma un dato essenziale della realtà in atto. Il recupero di questa consapevolezza, anche a mio parere, è essenziale, ma non basta.
Credo che oggi sia più chiaro di quanto non fosse qualche anno fa che, se non si vuole costruire sulla sabbia come è già accaduto, la rinascita di una sinistra degna ha bisogno di un accordo su nuove fondamenta morali, economiche, politiche. Queste si vengono costruendo nella vita reale di tante esperienze e lotte diverse ma molto faticosamente e lentamente: anche la concordanza su singoli obiettivi - per esempio quelli referendari - non indica una comune visione d'insieme, come si vede nel mondo della rete. Ma vi sono pure sentimenti e passioni comuni, e molte riflessioni e analisi simili.
Per aiutare il coagulo di queste esperienze, per togliere ciascuna di esse dall'isolamento e dalla chiusura in se stesse, ma anche per vedere incongruenze e contraddizioni reciproche, un giornale può fare molto. Perché, se sono convinto che le nuova fondamenta nascono entro i movimenti reali, come è sempre accaduto, è anche vero che la riflessione aiuta. Il mondo è radicalmente cambiato, come tutti sappiamo. Se si desidera trasformarlo bisogna prima di tutto conoscerlo nelle sue novità, tutte da interpretare, e nelle sue permanenze, mai eguali a ciò che era prima. E non c'è avvenire se si lasciano indistinte le parole della propria speranza, se non le si analizzano una per una, o, peggio, se diventano una affabulazione confusa.
Il manifesto, che ha rispecchiato - se non ho letto male le sue pagine - una molto vasta e varia parte delle molteplici sensibilità e tendenze presenti nella sinistra che vuole essere alternativa ha molto aiutato nella costruzione di una nuova cultura, anche se non sempre sono state rese esplicite le differenze di accento tra le diverse pagine, come se non comunicassero tra di loro. Non saprei indicare un altro quotidiano più sensibile alle parole delle minoranze senza voce, alla denuncia delle vergogne dell'esclusione e della emarginazione sociale, alle culture nuove e a quelle di confine. Come lettore ho sempre avuto molto da imparare.
Forse, però, non è stato utilizzato tutto lo straordinario patrimonio di collaboratori, di militanti e di amici per informare prima di altri sui problemi che per i mutamenti indotti dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione nascevano nella vita dei più, entro le classi lavoratrici e gli strati produttivi. E, forse, sul funzionamento reale del poter finanziario ai danni della collettività o sulla degenerazione dei centri di potere, c'è stata una attenzione critica minore che in altri campi lasciando così troppo spazio al populismo o ad una indignazione poco costruttiva di una politica realmente nuova. Ma di ciò che è necessario al Manifesto per rinnovarsi i suoi artefici, da Rossana ai redattori a chiunque vi lavori, ne sanno più di ogni altro. Intanto, cerchiamo di garantire tutti insieme che la sua voce non venga soffocata.
L'articolo di Rossana Rossanda a cui si fa riferimento è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2), Luciana Castellina (28/2), Valentino Parlato (29/2), Luigi Cavallaro (1/3), Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo (2/3)
Un ideale al quale la società avrebbe dovuto conformarsi o il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente? Una risposta a Rossanda, Ruffolo, Ciocca, Tronti
Non possiamo più dirci comunisti, perché è cambiato il mondo e non abbiamo sufficientemente aggiornato né gli strumenti d'analisi né le proposte: ha scritto così Rossana Rossanda, invocando «un esame di noi stessi» (il manifesto, 18 febbraio).
Giorgio Ruffolo è stato anche più drastico: tranne che in alcune società arcaiche, il «comunismo» non è mai esistito e non è proponibile in alcuna società moderna e complessa «se non come pura aspirazione ideale alla comunione dei santi» (21 febbraio).
Di certo, non era «comunista» quel sistema sociale venuto fuori attraverso mille tragedie dalla Rivoluzione d'Ottobre: anzi, secondo Pierluigi Ciocca (22 febbraio), il «merito storico» del manifesto è proprio quello di averlo capito e denunciato per tempo e con chiarezza. E men che meno aveva a che fare con il comunismo il «keynesismo postbellico» del trentennio 1945-1975, sebbene - rileva ancora Rossanda - la critica che se ne è fatta abbia lasciato spazio solo a «spinte liberiste». E dunque, cosa siamo? E soprattutto, cosa vogliamo?
Se davvero il manifesto vuol essere un giornale capace di tener insieme riformismo propositivo e utopia concreta, sono domande che non possono essere eluse. Ha ragione Mario Tronti (26 febbraio) a suggerire che, se non ci si può più dire comunisti nei tempi brevi, non lo si può più fare nemmeno nel tempo lungo. Anche perché, se le cose stessero così come sostengono Rossanda, Ruffolo e Ciocca (e innumerevoli altri con loro), si dovrebbe far fuori non solo la testatina di questo giornale, ma la stessa testata: troppo legata a Marx, e troppo legato Marx all'idea che il comunismo non fosse «un ideale» al quale la società avrebbe dovuto conformarsi, ma «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».
Vale allora la pena di ricordare che la costituzione materiale dello stato borghese, ovunque vigente all'epoca in cui Marx visse e teorizzò, interdiceva ai pubblici poteri qualsiasi intromissione nell'ambito del processo produttivo: la stessa distinzione fra «politica» ed «economia» non ne era che il precipitato ideologico. Per quanto già a quei tempi gli stati si occupassero variamente della tremenda povertà in cui l'accumulazione originaria aveva gettato intere popolazioni, tuttavia essi si erano arrestati alle misure amministrative e caritative, o non ci erano nemmeno arrivati. Né ciò era da ascriversi (soltanto) a insipienza o malevolenza dei governanti: il problema era un altro, e cioè che era consustanziale alla «società politica» scaturita dalla rivoluzione borghese il non poter ammettere che ciò che non funzionava nella vita della «società civile» andasse ricercato proprio nella condizione di separatezza in cui veniva trovarsi lo stato rispetto al processo sociale di produzione, e di rintracciare piuttosto l'origine dei mali sociali in «leggi naturali» cui nessuna potenza umana poteva comandare.
Di fronte a quella situazione, già nelle sue opere giovanili Marx enuncia con chiarezza un punto dal quale non si discosterà più: la rivoluzione non può avere carattere «solo» politico, non può cioè mirare a prendere il possesso delle leve di un pubblico potere così strutturato; al contrario, dovrà sopprimere l'indifferenza della politica nei confronti delle condizioni materiali degli individui. «Imposta fortemente progressiva», «accentramento del credito nelle mani dello stato tramite una banca nazionale con capitale dello stato e monopolio esclusivo», «accentramento di tutti i mezzi di trasporto nelle mani dello stato», «aumento delle fabbriche nazionali», «miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo», «uguale obbligo di lavoro per tutti» e «istruzione pubblica e gratuita per tutti i bambini», per limitarci solo ad alcune delle celebri misure proposte nel Manifesto comunista del 1848, servono appunto a questo.
Ma è proprio questo che si è cominciato a fare da quando, con la Rivoluzione d'Ottobre prima e l'avvento del «keynesismo» in Occidente poi, i pubblici poteri hanno preso a produrre valori d'uso e ad attribuirli ai cittadini in regime di «non-rivalità» e «non-escludibilità», per dirla con le categorie concettuali della scienza delle finanze (che non a caso da allora in poi hanno subito una torsione fortissima, fino ad approdare alle moderne trattazioni di economia pubblica). È questo che si è cominciato a fare da quando i pubblici poteri - burocrazie, partiti politici e associazioni sindacali - hanno preso a concertarsi reciprocamente per giungere a scelte che non riguardavano più soltanto la gestione delle risorse proprie del settore pubblico in senso stretto, ma altresì l'andamento generale della società, che veniva così sottratto così al moto «anarchico» tipico del modo di produzione capitalistico per diventare (almeno tendenzialmente) oggetto di consapevole scelta politica - di una politica economica. Sul finire degli anni '60 lo dovette ammettere perfino sir Karl Popper: «che sia assolutamente assurdo identificare il sistema economico delle democrazie moderne con il sistema che Marx chiamò "capitalismo" risulta evidente al primo sguardo, confrontandolo con il suo programma in dieci punti per la rivoluzione comunista (...). La maggior parte di questi punti è stata messa in pratica, o completamente o in considerevole misura».
Non dovrebbe indurre in errore il fatto che uno sviluppo del genere abbia avuto forme diverse di realizzazione, talora essendo stato frutto di rivoluzioni «giacobine», per dirla con Gramsci, più spesso essendo stato effetto di «rivoluzioni passive», cioè di trasformazioni delle strutture economiche analoghe a quelle che, dopo il Congresso di Vienna (1815) e la Restaurazione, corsero per tutta Europa, ammodernandone le strutture economiche e sociali. Bisognerebbe piuttosto riconoscere che l'auspicio di un sistema economico in cui il denaro cessasse di essere (unicamente) la forma di esistenza del capitale e in cui l'attribuzione di certi beni e servizi venisse resa indipendente dai vincoli dell'appartenenza di classe si è ampiamente inverato nelle nostre società grazie all'azione dei pubblici poteri, che hanno affrancato un'ampia (e talvolta amplissima) categoria di valori d'uso dalla forma di merce e dunque dai vincoli della riproduzione capitalistica, cioè della valorizzazione del denaro stesso. Ed è indubbio che i comunisti (e i socialisti) siano stati parte integrante, ancorché non unica, di questo processo: basta rileggere Ceto medio e Emilia rossa di Togliatti (1946) per scorgervi la lungimirante anticipazione di ciò che l'Italia sarebbe diventata di lì a qualche decennio, soprattutto nelle sue regioni più avanzate dal punto di vista della consapevolezza politica e della vita civile - le «regioni rosse», et pour cause.
In questo senso, è assolutamente vero che, storicamente e teoricamente, il comunismo ha implicato la soppressione della proprietà privata (dei mezzi di produzione) e, per conseguenza, la pianificazione statale. Hanno però torto quanti sostengono che ciò meni di necessità al partito unico e al totalitarismo: l'esperienza occidentale insegna proprio il contrario, cioè che il «collettivismo egualitario» imposto dalla pianificazione statale può concernere amplissimi settori della vita sociale (sanità, previdenza, istruzione, trasporti, edilizia, perfino il credito) senza degenerare in partiti unici o totalitarismi o inefficienze - esemplare il caso delle socialdemocrazie scandinave.
Se si guardasse agli scritti di Marx con maggiore consapevolezza della «grande trasformazione» che il mondo in cui viviamo ha subito da novant'anni a questa parte, ci si potrebbe utilmente chiedere, piuttosto, come mai la «soppressione dello stato politico», cioè del carattere separato dei pubblici poteri, si sia storicamente accompagnata all'esistenza «viva e vitale» della politica, per dirla con le parole della Questione ebraica (1843). E proprio in quest'opera marxiana si potrebbero trovare delle penetranti risposte - filosofiche, certo, ma anche la filosofia parla della realtà, a saperci guardar dentro.
Il punto, però, qui è politico e non puramente storico-teorico. Il fatto che tramite l'azione dei pubblici poteri siamo riusciti ad affrancare la produzione di taluni beni e servizi dalla forma di merce non significa infatti in alcun modo che «c'è stata una storia e adesso non ce n'è più»: al contrario, la crisi che attraversano i nostri sistemi socioeconomici fin dagli anni '70, e specularmente quei bisogni sociali sottesi agli slogan sui «beni comuni» o sulla «riconversione ecologica dell'economia», evidenziano che quella statuale non sarà certamente l'ultima forma di «produzione socializzata». Ma di qui a negare che il comunismo sia stato e sia «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» ne corre, a meno di dimenticare che per «comunismo» Marx intendeva semplicemente (ma non banalmente) un sistema sociale in cui gli esseri umani riuscissero a portare le condizioni della propria riproduzione sotto il proprio controllo, invece di essere dominati dal proprio movimento sociale come da una forza cieca.
Per tutto questo, io credo, potremmo e dovremmo continuare a dirci «comunisti»: beninteso, senza dimenticare di provare a immaginare una politica economica altra da quelle dominanti e di scriverne su un giornale (per dirla ancora con Tronti) «di popolo e di cultura». Dubito che riuscirò a convincere qualcuno dei miei illustri interlocutori o la stessa redazione di questo mio amatissimo «quotidiano comunista». Ma alla fine questo è un articolo di giornale, e servirà almeno ad incartare il pesce.
Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo che richiede lavoro, organizzazione e cultura
Cara Rossana, dopo gli impegnati e utili interventi di Giorgio Ruffolo, Pierluigi Ciocca, Albergo Burgio, Mario Tronti e Luciana Castellina vorrei dire qualcosa anche io. Mi sembra d'obbligo. Il tuo scritto «Un esame di noi stessi», pubblicato il 18 febbraio, impone una seria riflessione sul nostro giornale, che da più di quarant'anni continua a definirsi «quotidiano comunista» e, ovviamente su di me e tutti quanti lavoriamo qui, se non da quarant'anni, da un bel po' di tempo, e che ora siamo piuttosto nei guai e anche con la Cassa integrazione.
Pensando al giornale tu scrivi «la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra», e questo mi convince: siamo a qualcosa di più della crisi di un quotidiano nato nel 1971 in un contesto politico e sociale, e direi anche culturale, del tutto diverso da quello attuale. Allora ci scontravamo con il Pci ed era una fase di crescita della lotta operaia. In tutti i modi questa tua affermazione un po' mi conforta: se il giornale va male non è solo colpa nostra (anche se rimane forte e deve crescere la nostra responsabilità).
Insomma si tratta di una crisi assai profonda e tu scrivi ancora «non è facile essere comunisti oggi; a più di trent'anni dal 1989. E, appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemo nel dirci comunisti ancora, o perché non lo si possa dire più». E ancora, si chiede e ci chiede «possiamo davanti a questo mutamento di scena conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971?». Cruciale mi pare l'interrogativo sugli strumenti di analisi. Insomma il capitalismo è sempre capitalismo, ma è cresciuto e anche cambiato: globalizzazione, finanziarizzazione sono due novità forti e complesse, specialmente la finanza che è diventata parecchio più complessa che ai tempi del buon Hilferding delle nostre letture giovanili. I cambiamenti sono profondi e complicati e anche in questo giornale occorre studiare e studiare: quel che scriviamo dovrà essere almeno contemporaneo.
Ma mi pare utile una considerazione sul presente. Le crisi capitalistiche hanno innanzitutto colpito, e duramente, il movimento operaio e la democrazia. Ricordo solo gli sbocchi di destra che ebbe in Europa la grande crisi del 1929. Il capitalismo in crisi diventa feroce. «L'autunno del capitalismo» è quasi sempre il duro inverno del proletariato. L'unico esempio, a mia memoria, di uscita a sinistra da una crisi è stato quello della Rivoluzione d'ottobre; ma in tutt'altro contesto; sconfitta militare e anche lotta armata.
Siamo in una situazione assai brutta, ma, come tu scrivi, la storia non è finita e c'è più di una ragione per continuare a dirsi comunisti e, aggiungerei con più ragioni che ai tempi di Marx. Vale qui ricordare che quando il capitalismo va in crisi, per sopravvivere chiede l'intervento pubblico, statale, che nega le sue ragioni di fondo e apre, non dico prospettive, ma lampeggiamenti, di gestione pubblica dell'economia. Dopo la crisi del '29 e sotto il fascismo, in Italia nacque l'Iri, che era una negazione dell'economia privatistica e la direzione dell'Iri non fu affidata a un fascista.
È in questo contesto che rinascono e crescono le ragioni del comunismo, che, forse, probabilmente, saranno ancora sconfitte, ma saranno nuove testimonianze dell'irrinunciabilità del comunismo. La realizzazione del comunismo non è cosa facile, né realizzabile in tempi brevi. Anche la presa del potere (l'Urss insegna) non bastò a realizzare il comunismo. Pensiamo solo per quanti secoli è durata la schiavitù e come ancora permangono forme di schiavitù civilizzata. E pensiamo a quanti secoli ci sono voluti per la nascita del capitalismo. Il comunismo è un obiettivo di lungo periodo, è una trasformazione storica epocale, che si realizza anche attraverso l'acculturamento degli umani.
E, proprio perché non vedo e non ho mai visto il comunismo dietro l'angolo, penso che sia giusto sentirsi comunisti. Il che non deve portare a ridurre il dichiararsi comunista alle solitudini idealistiche, ma deve comportare lavoro, organizzazione, contributo alla formazione di una forza politica che abbia sulle proprie bandiere il comunismo. E così dovrebbe essere anche per un giornale. E, soprattutto per il nostro giornale, il manifesto.
Certamente la sua attuale crisi va in parallelo con la crisi della sinistra, ma che cosa scriviamo noi su questa crisi e su come fronteggiarla, su come dare avvio alla costruzione di una sinistra forte e unita? Attualmente il nostro giornale è fatto giorno per giorno (sarebbe utile una riunione settimanale di programmazione), coglie i fatti, ne dà il significato, ma manca di un programma di medio periodo, non apre campagne sulle quali muovere e orientare l'opinione pubblica, tentare di costruire la nuova sinistra. C'è la crisi, ne denunciamo i danni, ma non analizziamo a fondo, non ci sforziamo di individuare i punti di rottura sui quali unire e accrescere un'opinione, e quindi anche una forza di opposizione. Non basta denunciare i danni, senza cercare di individuare anche i terreni sui quali si possa formare la nuova sinistra. Anche la crisi - che certamente colpisce e indebolisce i lavoratori - tuttavia crea punti di rottura nel fronte avverso, sui quali si può formare una nuova forza. Insomma un «quotidiano comunista» deve anche lavorare e far emergere la nuova sinistra. E, a tal fine, può essere utile dare più attenzione e rilievo alla crisi di quelle forze (direi debolezze) che si dicono ancora di sinistra, ma anche loro in seria crisi.
Certo, ora si tratta soprattutto di sopravvivere, ma questa sopravvivenza esige, per realizzarsi, una forte riaffermazione della funzione politica e culturale di questo manifesto, che non è solo nostro.
All'articolo di Rossana Rossanda cui si fa riferimento nel testo sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2), Alberto Burgio (24/2), Mario Tronti (26/2) e Luciana Castellina (28/2)
Rossana Rossanda, da lontano, ripetutamente, ci suggerisce, ci sprona, qualche volta ci sferza. È una fortuna, per tutti noi, avere una tale voce libera, oltretutto cara, di stimolo e di confronto. A volte, come nell'ultimo, «il manifesto» del 18 febbraio, «Un esame di noi stessi», viene avanti un discorso puro e semplice di verità. L'esame di se stessi, il tentativo di raggiungere un'autoconsapevolezza delle proprie ragioni di vita, è una dimensione alta dell'essere umano, purtroppo ancora privilegiata, a disposizione dei pochi che possono permettersela. Dimensione eterna. La modernità l'ha poi declinata e assai complicata nella forma dell'agostiniano inquietum cor nostrum, o nello scetticismo libertino alla Montaigne. E tra Otto e Novecento è andato a cercarla negli abissi insondabili dell'inconscio. Comunque, è indubbio che il fermarsi un momento per chiedersi: a questo punto, chi sono, o che cosa sono diventato, è un buon esercizio di intelligenza di sé e del mondo. Ancora più necessario, e forse più difficile, quando si tratta di dire: chi siamo e che cosa siamo diventati.
Ma la smetto subito con queste supponenti considerazioni e passo a vie di fatto. Mi pare che Rossana Rossanda abbia fatto un discorso di questo tipo: ha preso le difficoltà recenti e crescenti del giornale per leggerle come metafora delle difficoltà recenti e crescenti, non di quella sinistra come parola ormai «assai vaga», ma di quella precisa sinistra che ha insistito fin qui a chiamarsi comunista. Ho colto nella voce di Valentino Parlato, quando mi invitava ad intervenire sulla questione, una preoccupazione, che è, penso, di molti compagni e compagne. Che comunisti non ci si possa dire più nei tempi brevi, porta come conseguenza, come ne ha rapidamente dedotto Giorgio Ruffolo, che non ci si possa più dire tali anche nel tempo lungo, quando, come si sa, saremo tutti morti? È un bel problema. Non si risolve qui. Non si risolverà negli anni immediatamente a venire. Lasciamo alle generazioni del XXI secolo la questione aperta. Sui nomi di senso, di significato simbolico, io applico quella categoria somma della politica moderna, che è la Prudenza. Non abbandono un nome finché non ne ho trovato un altro al suo livello di espressività, mutate tutte le circostanze. Non dimentichiamo che la nostra parte sta scontando il purgatorio di aver opposto alla «distruzione creatrice» del capitalismo la decostruzione dissolutrice del socialismo.
Una volta si diceva che per raggiungere un certo obiettivo, ci voleva «ben altro». Oggi si dice che bisogna andare «ben oltre». Dietro le voci soliste che cantano la canzone dell'andare oltre la sinistra, c'è il coro numeroso e chiassoso che ripete il ritornello: non c'è più né destra né sinistra. Nella loro lingua, non c'è vuol dire che non ci deve più essere. Lì abbasso il volume e smetto di ascoltare. C'è, pronto all'uso, un altro nome per definire e per far vedere quel campo di forze che sta di fronte all'interesse capitalistico in modo autonomo, centrato sul mondo del lavoro e con intorno tutte quelle figure, e quelle domande, e quelle questioni, e quelle dimensioni, che solo in riferimento ad esso acquistano senso e soprattutto prendono forza, come soggettività alternativa? Linke, Gauche, Left, Izquierda: fosse per me, direi di questo soggetto, politico, solo Sinistra, con un rosso di bandiera e nessun altro simbolo. Tutti capirebbero, senza bisogno di pubblicitari della comunicazione. E comunque non è dal nome e dalla bandiera che bisogna ripartire. Prima ancora del famoso «che fare», c'è oggi di fronte a noi un inedito «chi essere».
Due obiezioni, di fondo. Una. Quelli che si dicono sinistra, oggi, nella parte maggioritaria, danno un'immagine, appunto, molto più vaga, non riconoscibile nel senso forte detto sopra. Risposta: ma allora non si tratta di cambiare il nome, si tratta di cambiare l'immagine di chi lo porta, ceto politico, programma, azioni, intenzioni. Due. Quella rossa Sinistra potrebbe mai essere partito a vocazione maggioritaria? Risposta: e perché, no? Basta, anche qui, non ascoltare la cantilena: vecchia, residuale, la testa rivolta all'indietro, novecentesca, che poi è sempre il massimo dell'insulto, e tutto il fuoco di sbarramento dell'egemonia dominante.
Se c'è, qui e ora, nella contingenza e nell'epoca, un bisogno storico è il bisogno di Sinistra. La crisi, generale, di questa forma di capitalismo lo ripropone in grande. E questa crisi lo ripropone sulla spinta del fallimento di tutto intero un ciclo che si è approssimativamente definito di globalizzazione neoliberista, ma che è stato in realtà nient'altro che un'età di restaurazione per un comando assoluto del capitale-mondo su tutti i mondi della vita, che nei trent'anni gloriosi avevano preso parola di autonomia, di rivendicazione, di conflitto, e di speranza non per l'innovazione ma per la trasformazione. Il fallimento sta nel risultato di società sempre più insopportabilmente divise tra l'alto e il basso, tra privilegi e povertà, tra mito del benessere e disagio dell'esistenza. Non passa quasi giorno che istituti vari di rilevazione non ci informino sul divario crescente tra redditi di lavoro e profitti di capitale. E allora? È una legge di natura o è un difetto di società?
Che cos'è Sinistra se non, su questo, alzare la voce e chiamare alla lotta? Abbiamo di fronte un anno, due anni, decisivi. Qualcosa può accadere nel direttivo di testa dell'Europa. Il signor Sarkozy e la signora Merkel potrebbero non essere più al loro posto di comando. E il famoso dopo Monti sarebbe bello e risolto. L'ambiguo Obama troverebbe alleati più sicuri. Un fronte di resistenza al super potere che la gabbia d'acciaio delle compatibilità finanziarie impone ai movimenti della politica, potrebbe assicurare più agevoli percorsi di governo. Perché questo è il vero problema. Non tanto portare al governo le sinistre, ma rendere praticamente, cioè appunto, politicamente, possibile un governo della Sinistra. In questo contesto, la discussione se dirci o meno ancora comunisti, non mi sembra proprio la cosa più urgente. Figuriamoci! Oggi spaventa perfino la parola socialdemocratico, che non ha mai spaventato nessuno, nemmeno i capitalisti, che hanno benissimo convissuto con quelle esperienze di governo, e che pure, in tempi recenti, hanno spinto le terze vie a dirsi liberaldemocratiche. Oggi l'unico spettro che si aggira per l'Europa è il rischio di default dei loro conti in rosso, derivati, è il caso di dirlo, da un'improvvida gestione dei loro interessi. È qui, in questo anello debole, che bisognerebbe andare a colpirli, se ci fosse in campo una forza anche per poco con memoria, orgogliosa, di quello che è stato il movimento operaio. Ricostruire questa forza, è il programma massimo che ci sta di fronte. La cosa semplice, difficile da farsi, più o meno come il comunismo, nelle disperate condizioni attuali. Abbiamo letto gli atti di un incontro, in quel di Londra, sull'idea di comunismo: ecco, lì, pensatori che parlano oscuro, non sapendo che fare in politica l'hanno buttata in filosofia, ricominciando da Platone. Il comunismo che riconosco è quello: Manifest der kommunistischen Partei, 1848. Lì comincia una storia. La fine della storia, per quanto mi riguarda, coinciderà con la fine di un'esistenza. Nel frattempo - viviamo politicamente nel frattempo - c'è da combattere e possibilmente sconfiggere un avversario di classe. Quando vedo incedere la figura del professor Monti, non ho dubbi. Poi, posso anche stringere con lui un compromesso, provvisorio. Ma dalla parte opposta: la parte del torto, come recitava un bello slogan di quest'altro manifesto, in quanto parte di una sacrosanta ragione.
Il problema è di far vivere il giornale, non quello di cambiare la ragione della sua vita. La ricostruzione di una forza politica, di un soggetto unitario, per una Sinistra modernamente popolare, armata di idee e riconosciuta dalle persone, richiederà anche un giornale unico, di popolo e di cultura. può giocare qui la sua di storia: che è quella delle origini, ma anche quella che in questi decenni ha visto generazioni di lettori in diretto colloquio con generazioni di collaboratori, con diverse idee e sensibilità e culture, però, appunto, viste da una parte. È stato il laboratorio di quello che adesso può esserci. Non è per domani, forse è per dopodomani. Ma per il dopodomani deve lavorarci da oggi. E' un filo, che non va spezzato, va ricongiunto al prossimo punto d'attacco.
L'articolo di Rossana Rossanda a cui fa riferimento Mario Tronti è uscito il 18/2. Sono seguiti gli interventi di Giorgio Ruffolo (21/2), Pierluigi Ciocca (22/2) e Alberto Burgio (24/2)
Dopo la riscoperta di Marx è la volta di Lenin, interpretato come un agit prop del capitalismo di stato. La crisi sbriciola la messianica fiducia nel mercato e rende così attuali cassette degli attrezzi teorici troppo rapidamente considerate obsolete Un recente numero dell'«Economist» affronta il rinnovato protagonismo dello stato nella vita economica
Nell'ottobre 1921, Lenin tenne alcuni discorsi in cui spiegò il significato della svolta nella gestione dell'economia sovietica inaugurata nella primavera precedente, dopo gli anni del «comunismo di guerra». Lenin la chiamò «Nuova politica economica», donde l'acronimo «Nep» con cui è passata alla storia e poi nel dimenticatoio.
La sua idea di fondo era che, accentrando la produzione e la distribuzione nelle mani dello stato, i bolscevichi avevano commesso l'errore di voler passare direttamente alla produzione e distribuzione su basi comuniste, dimenticando che a ciò si arriva attraverso un lungo e complicato periodo di transizione. La «Nuova politica economica» muoveva dal fatto che avevano subito una grave sconfitta e iniziato una ritirata strategica.
Era senz'altro comprensibile che molti si sentissero sgomenti, perché la svolta della Nep, implicando la possibilità per i produttori di scambiare liberamente sul mercato tutto ciò che dei loro prodotti non era assorbito dalle imposte, significava in buona misura restaurazione del capitalismo. La questione fondamentale, dal punto di vista strategico, era anzi proprio quella di capire chi avrebbe saputo approfittare della nuova situazione: avrebbero vinto i capitalisti, ai quali i bolscevichi stavano aprendo le porte prima serrate della produzione pubblica, e avrebbero cacciato i comunisti, oppure il potere statuale, continuando a regolare la moneta e la produzione, sarebbe riuscito a tener ferme le redini al collo dei capitalisti, creando un capitalismo subordinato allo stato e posto al suo servizio? Molto sarebbe dipeso dal partito comunista: se gli fosse riuscito di organizzare i produttori immediati in modo da sviluppare le loro capacità e di garantire a questo sviluppo il sostegno dello stato, bene; altrimenti, essi sarebbero stati presto asserviti al capitale.
Globalizzazione burrascosa
Così, grosso modo, scriveva Lenin in La Nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica. Si potrebbe facilmente rilevare che, rilette oggi, le sue parole sembrano una gigantesca metafora del «secolo breve», quasi che cent'anni di evoluzione e rivoluzioni in Europa (e non solo) fossero stati lì contratti in meno di un decennio. Ma non è su questo che qui vorremmo richiamare l'attenzione. Il punto è che nell'analisi di Lenin sta racchiusa l'intera problematica del «capitalismo di stato»: che è questione nient'affatto tramontata, se perfino l'Economist ha sentito il bisogno di dedicarvi un corposo inserto (quattordici pagine!) nell'ultimo numero del mese scorso. Per metterla in forma di domanda: davvero il capitalismo di stato rappresenta un modello che - come scrive il settimanale inglese - sta emergendo a livello mondiale come alternativa al capitalismo liberale di marca angloamericana? E prima ancora, che cos'è il «capitalismo di stato»?
Da un punto di vista fenomenologico, possiamo descriverlo con le stesse parole dell'Economist: il capitalismo di stato «cerca di fondere le forze dello stato con le forze del capitalismo». La promozione della crescita economica è affidata all'azione dei governi, ma essi nel perseguirla si avvalgono anche di strumenti tipici del capitalismo, ivi comprese aziende statali quotate in borsa che nuotano come pesci nel mare della globalizzazione. Una miscela apparentemente contraddittoria che però funziona: a fronte della crisi economica in cui sono drammaticamente precipitate le economie capitalistiche occidentali, il capitalismo di stato può infatti contrapporre il più grande successo economico degli ultimi trent'anni, ossia quel «miracolo cinese» fatto di tassi di crescita del Pil del 9,5% all'anno. Lo stato cinese - ci ricorda l'Economist - non è soltanto il maggiore azionista delle 150 aziende più grandi del Paese, né semplicemente una guida o un pungolo per migliaia di altre: specialmente attraverso il potente Dipartimento dell'organizzazione del Partito comunista, esso plasma nell'insieme il mercato attraverso la gestione della moneta e delle politiche creditizie, indirizzando i flussi di denaro coerentemente con le scelte di politica industriale, e per di più lavora a stretto contatto con le aziende cinesi che si stanno espandendo all'estero (specie nel continente africano).
Lo Stato va in Borsa
Non si tratta, peraltro, di un'esperienza unica nel mondo industrializzato. Le aziende pubbliche costituiscono l'80% della capitalizzazione della borsa cinese, ma anche il 62% di quella russa e il 38% di quella brasiliana: come dire che è in gran parte del «Bric» (l'acronimo che designa Brasile, Russia, India e Cina) che il capitalismo di stato sta celebrando la sua marcia trionfale. Per non parlare dell'espansione dei «fondi sovrani» cinesi e arabi (ma anche norvegesi, russi, australiani), attraverso i quali il Leviatano statale, dopo aver vestito i panni del capitalista industriale, assume anche le sembianze del capitalista finanziario.
Ad una più attenta analisi, tuttavia, la fenomenologia del capitalismo di stato rivela un doppio paradosso. Soprattutto (anche se non solamente) in Cina, le aziende di stato sono diventate più efficienti e più potenti proprio mentre il settore statale complessivamente considerato si restringeva; d'altra parte, la capacità dei governi di incidere sulle leve fondamentali dell'economia si è accresciuta proprio mentre il settore privato si espandeva. L'Economist lo rileva, ma non riesce a darne una spiegazione. Affermare che, in un regime di capitalismo di stato, «i politici hanno di gran lunga più potere che sotto il capitalismo liberale» è semplicemente tautologico: il problema è infatti proprio quello di spiegare che cosa conferisca loro questo potere di «utilizzare il mercato per promuovere fini politici».
C'è un'impegnativa e assai poco meditata affermazione di Lenin dalla quale possiamo prendere le mosse per spiegare il paradosso. Risale ad un testo scritto nei giorni immediatamente precedenti la rivoluzione d'Ottobre e suona così: «il capitalismo monopolistico di stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo». Non è un caso che Lenin la riprenda testualmente in uno intervento (Sull'imposta in natura) che appare proprio nell'anno della svolta verso la Nep: letta insieme ad un'altra che di poco la precede e che spiega il senso della topica («Non significa forse, quando si riferisce all'economia, che nel regime attuale vi sono degli elementi, delle particelle, dei pezzetti e di capitalismo e di socialismo?»), essa mette in chiaro che, nell'opinione del leader bolscevico, l'espressione «capitalismo di stato» nasconde in realtà una duplice problematica: 1) se, e a quali condizioni, la proprietà statale dei mezzi di produzione possa dar luogo a nuovi rapporti di produzione di tipo «socialista»; 2) se, e in che modo, codesti nuovi rapporti di produzione possano coesistere con quelli preesistenti di tipo capitalistico.
Volgendo lo sguardo indietro allo sviluppo economico sovietico degli anni Venti del Novecento, possiamo in effetti apprezzare la pregnanza dell'ipotesi leniniana. La Nep fu bensì connotata da un ampio sviluppo del commercio, dal ristabilimento del ruolo allocativo della moneta e più in genere dall'influenza che i movimenti dei prezzi tornarono ad esercitare sulle scelte di consumo e investimento. Ma fu altresì caratterizzata dall'espansione di un insieme di apparati statali che sottraevano parzialmente la riproduzione allargata dall'influenza diretta dei rapporti mercantili, grazie soprattutto al ruolo svolto dalla pianificazione, dalla centralizzazione del bilancio pubblico e dalla realizzazione di programmi pubblici di investimenti.
Tra Mosca e Weimar
Per altro verso, la spinosa querelle che a metà del decennio si accese all'interno del partito bolscevico circa il carattere «genetico» o «teleologico» della pianificazione, nascondeva la questione (non meno decisiva) se codesta sfera di attività produttive finalmente sottratta all'imperio dei rapporti mercantili dovesse essere complessivamente subordinata al funzionamento del sistema capitalistico o posta, viceversa, in posizione relativamente dominante. Fintanto che si fosse limitato a riflettere le tendenze «spontanee» del sistema economico, il piano non avrebbe mai potuto assurgere a criterio orientativo delle scelte produttive fondamentali a prescindere dalla loro redditività monetaria: per liberare le scelte di politica economica (a cominciare da quella relativa all'industrializzazione) da un impiccio del genere, occorreva al contrario spezzare la logica del pareggio di bilancio, il che a sua volta richiedeva un sistema bancario capace di assecondare le crescenti esigenze di espansione monetaria, evitando al contempo che quest'ultima degenerasse in un'inflazione rovinosa come quella che, giusto in quegli anni, affliggeva l'esperimento socialdemocratico di Weimar.
Il laboratorio di Shenzen
Sta qui, in questo complesso mix di misure reali, monetarie e finanziarie, l'arcano che può consentire allo stato di sottrarre le condizioni d'impiego dei mezzi di produzione (ivi compresa la forza-lavoro) alle esigenze di valorizzazione del capitale. E sta nella duplicità dei rapporti che vengono a presiedere il processo complessivo di produzione e riproduzione sociale il segreto del movimento inversamente oscillatorio della disoccupazione e dell'inflazione che, molti anni dopo, A.W. Phillips avrebbe formalizzato nella sua famosa curva. Già all'epoca della Nep, il prevalere dell'una o dell'altra avrebbe infatti costituito una spia della (relativa) dominanza assunta dall'uno o dall'altro sistema di rapporti di produzione: quelli capitalistici ovvero quelli statuali.
Si racconta che nel 1980, all'indomani del varo della prima «Zona economica speciale» di Shenzhen, i dirigenti cinesi si affannassero a cercare nelle Opere complete di Lenin un qualche appiglio che potesse giustificare la scelta di concedere a privati cittadini diritti di uso e di trasferimento che concernevano il lavoro, i mezzi di produzione, gli edifici e perfino la terra. Non c'è da stupirsi che, alla fine, l'abbiano scovato proprio in alcuni testi redatti all'epoca della Nep, né che Chen Yun - che tra i leader storici del Pcc è stato forse il maggior esperto di pianificazione economica - abbia fin da subito proposto di circoscrivere l'esperimento riformatore iniziato nel 1978 nell'ambito dell'«economia dell'uccello in gabbia»: nella capacità di suscitare le forze dello sviluppo capitalistico e al contempo di controllarle in modo che «non volassero via» possiamo in effetti scorgere la principale realizzazione della strategia trentennale dei comunisti cinesi.
Messa la cosa in questi termini, risulta certo più chiaro il significato di certe espressioni ossimoriche così tipiche dei dirigenti cinesi, a cominciare da quella di «economia di mercato socialista». Il fatto è che il «mercato» è semplicemente un proscenio, ovvero (e più precisamente) una delle istituzioni sociali in cui si manifesta il nesso di dominanza/subordinazione concretamente esistente fra i rapporti di produzione capitalistici e i rapporti di produzione statuali («socialisti»). E il fatto che al momento siano questi ultimi ad essere saldamente attestati in posizione dominante è ciò che consente di giudicare la formazione economico-sociale cinese come irriducibilmente altra rispetto a quelle «capitalistiche» occidentali: non già perché all'interno di queste non si diano forme di cooperazione produttiva non più condizionate dal perseguimento del profitto monetario (basti pensare agli apparati pubblici preposti al welfare: scuole, ospedali, ecc.), ma semplicemente perché esse non sono (più) dominanti. L'infinita e stolida giaculatoria sull'«insostenibilità» del debito pubblico ne costituisce probabilmente la migliore conferma.
Il mercato del pubblico
Lascia perciò perplessi l'Economist allorché, a conclusione del suo rapporto, afferma perentoriamente che «la battaglia che definirà il XXI secolo non si combatterà fra capitalismo e socialismo, ma tra differenti versioni del capitalismo»: quel Lenin suggestivamente ritratto in copertina suggerisce piuttosto che la partita che si gioca intorno al «capitalismo di stato» è affatto aperta e per nulla predeterminabile nei suoi esiti ultimi.
Certo, si può sempre ritenere che il comunismo andrebbe ripensato «a partire dalla distanza dallo statalismo e dall'economicismo», come hanno sostenuto (quasi) tutti i partecipanti ad un importante convegno sull'«idea comunista» svoltosi proprio a Londra qualche anno fa. All'estremo opposto, dei comunisti che volessero prendere sul serio gli insegnamenti del «miracolo cinese» dovrebbero interrogarsi sulle ragioni del consenso di cui hanno goduto in Occidente quelle politiche economiche che hanno progressivamente smantellato analoghi strumenti di controllo e governo pubblico dell'economia capitalistica, che risalivano agli anni '30. Mi rendo conto, però, che è difficile credere che si diano parentele di sorta tra il Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e lo Statuto del Partito comunista cinese approvato giusto 160 anni dopo. Se poi si è anarchici, è perfino impossibile.
Ho dato la mia convinta adesione alla campagna di sostegno al manifesto soprattutto perché ritengo che una società democratica non possa fare a meno delle ragioni e delle voci del dissenso che non siano espressione di interessi particolari ma di una concezione politica generale.
Rossana Rossanda si rivolge ("Un esame di noi stessi", il manifesto 18/2) ai compagni e collaboratori del manifesto per chiedergli di riflettere sulle loro ragioni: che è un modo per ripensare le ragioni della sinistra e particolarmente di quella che continua a riconoscersi nel "comunismo".
Lo fa in modo aperto e spregiudicato, senza usare i mezzi termini del linguaggio politico convenzionale. E va diritto al tema: «Che cosa intenderemmo nel dirci comunisti ancora o perché non si possa dirlo più». La risposta è netta: «Io penso che nei tempi brevi non si possa dirlo più». La ragione? Da quando il manifesto è nato, tutto è cambiato. L'asse del mondo ruotava attorno al duopolio Usa-Urss.
Ora, gli Stati Uniti non sono più l'indiscussa potenza dominante del mondo capitalistico. Quanto all'Urss, non esiste più. Nel mondo di ieri quella contrapposizione aveva un senso, anche per quelli, come i comunisti del manifesto, che denunciavano la deriva stalinista del comunismo sovietico. Si trattava "soltanto" di ricondurre il comunismo dalla contraffazione del "socialismo reale" ai principi marxisti originari. Oggi "sostituire" politicamente il capitalismo con il comunismo non ha più alcun senso. Il primo si è disarticolato. Europa, paesi terzi, hanno preso strade diverse. Il secondo è sparito. La Cina è diventata un capitalismo selvaggio con base politica burocratica. Non possono quindi essere usati gli strumenti di analisi e le proposte di ieri. Ma quali allora?
Quanto all'Italia, anch'essa è cambiata radicalmente. Si sono moltiplicati i soggetti sociali. Non solo operai e studenti. Donne, ambientalisti, eccetera. Ma la sinistra non è stata capace di unire questi soggetti in un fronte capace di presentare un'alternativa al capitalismo. La società politica si è sfarinata, rigettando le vecchie forme politiche di potere senza introdurne di nuove, col risultato di aprire ampi spazi all'individualismo e al mercatismo, anche a sinistra. Berlusconi è nato da questa dissoluzione.
Senza nuove battaglie da combattere, la sinistra ha perso quella antica delle lotte operaie, non più centro strategico del conflitto sociale e quindi considerate da molti vecchie e superate. Si capisce che il manifesto, pur restando una voce intelligentemente critica, non evochi echi e non susciti successi di stampa, ma piuttosto frustrazioni, come quella con la quale Rossanda termina il suo articolo.
Pur condividendo alcuni dei suoi argomenti e comprendendo i sentimenti da cui nasce quella frustrazione, vorrei fare qualche brevissimo commento critico che a mio parere può giustificare qualche speranza.
Anzitutto, il più critico. Il comunismo non esiste come modello sociale concreto se non come pura aspirazione ideale alla comunione dei santi. Non è mai esistito tranne che in alcune società arcaiche e non è proponibile in alcuna società moderna e complessa nella quale interessi individuali e di gruppo debbano essere mediati rispetto all'interesse collettivo. È diventato una connotazione politica priva di qualunque contenuto. Non è dunque che non sia "più" proponibile nel periodo breve. Non è proponibile fino a quanto può la vista.
Il capitalismo non è affatto eterno anche se "ha i secoli contati". E può essere ampiamente modificato e riformato. Le cose sono cambiate, tutte, così come afferma Rossanda, dal tempo in cui nacque il manifesto. Il capitalismo è cambiato. Ha fatto il passo che il proletariato non ha potuto realizzare: proletari di tutto il mondo unitevi. Si è mondializzato. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione (la mercatizzazione dello spazio e del tempo) ha costruito un sistema di potere unificato (il mercato finanziario mondiale) che si impone a quello degli Stati. E ancor più: al potere delle classi lavoratrici. Se le lotte operaie hanno perso la loro centralità nel conflitto sociale, è perché alle loro rivendicazioni le imprese capitalistiche possono rispondere con le loro migrazioni. Andandosene. Vedi il ricatto Fiat.
Ciò sposta l'asse del conflitto tra capitale e lavoro dallo spazio nazionale a quello internazionale, da quello sindacale a quello politico. La battaglia per l'unificazione europea assume, da questo punto di vista, un'importanza primaria nel confronto con il capitalismo, nel ridurre, almeno in Europa, e non è poco, il divario di potenza tra economia e politica, oggi tutto a favore del capitalismo.
Le società moderne, inoltre, hanno sviluppato, insieme a formidabili capacità di produzione, altrettanto formidabili poteri di distruzione, che danno luogo a nuovi formidabili conflitti, ecologici e migratori.
La sinistra, se vuole rappresentare le ragioni dei più deboli e del futuro, deve collegare le lotte operaie a quelle che consentono di fronteggiare il capitalismo su fronti sui quali esso deve piegarsi alla volontà di più ampie forze sociali. Si tratta, per così dire, di prendere il capitalismo alle spalle. Ciò significa, ad esempio, affrontare il problema dei limiti quantitativi alla crescita e della promozione dello sviluppo qualitativo; promuovere con iniziative sociali la diffusione di imprese del terzo sistema delle relazioni gratuite; promuovere la costituzione della scuola permanente a tutti i livelli di età.
In senso generale, ciò significa impegnare la sinistra su tutti i fronti sui quali si promuove lo sviluppo dell'essere piuttosto che la crescita dell'avere. Significa una sinistra impegnata non nell'abbattimento del capitalismo o, come oggi avviene, ridotta all'acquiescenza fattuale e alla contestazione verbale, ma nel suo superamento storico.
Magari c’è un obiettivo che non si può raggiungere finchè il capitalismo non viene storicamente superato: un obiettivo a cui qualcuno è interessato. E’ quello di una società nella quale lo sviluppo non consista nella crescita del PIL, la sua molla sia costituita dall’arricchimento dei più potenti, e in cui il lavoro non sia una merce utilizzata per la produzione di merci ma lo strumento universale per comprendere il mondo e governarlo, e l’economia sia governata dalla politica e definita in modo da consentire a ciascuno di consumare beni secondo i suoi bisogni e produrli secondo le sue capacità.
E’ certamente un obiettivo che non è dietro l’angolo, ma non sarà mai raggiunto se viene abbandonato, o se viene considerato metastorico. Occorre dare un nome a questo obiettivo? Chiamiamolo, se vuoi, comunismo; ma più importanti dei nomi sono i contenuti che con essi si vogliono esprimere (e.s.).
Della libertà di stampa al governo Monti non potrebbe importar di meno. Da buon liberista è convinto che un giornale è una merce come un'altra; se vende abbastanza ai lettori e agli inserzionisti di pubblicità, viva, se no muoia. Lo strangolamento è stato bene illustrato l'altro ieri da Valentino Parlato. Ed era visibile dai nostri bilanci. La nostra asfissia è della stessa natura di quella che si tenta di applicare ai beni comuni non meno urgenti. A noi sembra importante anche la presenza di una voce fuori dal coro come la nostra, perché in un paese che ha mandato tre volte Silvio Berlusconi al governo, qualcosa non funziona. Né funziona che tanti amici si rallegrino che al posto d’un faccendiere impresentabile sia venuto un onesto e distinto liberista. Onesto personalmente, s’intende. L'onestà sociale non si sa più bene che cosa sia, e non importa più alla stampa salvo che a noi. Che siamo non solo un pezzo della sinistra, ma addirittura comunisti. Anzi, più che comunisti, nel senso che il comunismo dei “socialismi reali” non ci andava né su né giù. Per questo fummo esclusi dal Pci, ma per non essersi posti le nostre domande sui socialismi reali i partiti comunisti non esistono praticamente più.
Che al governo una voce come la nostra non interessi è comprensibile: del manifesto è rimasta l’immagine di un quotidiano di sinistra, anzi di estrema sinistra. Ora è facile giurare sulla libertà di stampa finché questa non è dalla parte di chi ti attacca. E in Italia chi attacca il governo? E noi dove siamo? Come Parlato ricorda, il manifesto vende sempre meno da otto anni a questa parte. Il calo si è accelerato negli ultimi due. La media in cui ci eravamo tenuti nei nostri primi trenta anni è stata, poco più su poco più giù, di trentamila copie, non molto alta, eravamo un giornale di nicchia. Ma solida e rispettata nicchia. Ora si è circa la metà.
Dovremmo chiederci perché. Era nostra abitudine fare un punto almeno un paio di volte all’anno. Ma negli ultimi tempi la direzione non ha più convocato un'assemblea che faccia il punto sullo stato del mondo e dell'Italia e sul nostro orientamento in esso. Né la redazione, che può esigerlo, sembra averne sentito il bisogno. Neanche un attimo prima di arrivare a quella forma di liquidazione, non proprio un fallimento ma quasi, cui siamo costretti.
Non è stata una buona scelta. Non è infatti per nulla ovvio che cosa sia oggi un giornale
di sinistra, tanto meno uno che, sempre secondo Parlato, dovrebbe ancora definirsi comunista. Nel senso che dicevamo sopra, un comunismo che poco ha a che vedere con i “socialismi reali”, ma che realizzi un cambiamento del vivere e del produrre e che facendolo realizzi un più di libertà politica. Lo abbiamo detto in questi anni ancora? Si poteva dirlo? Si poteva crederlo? Questa è la domanda cui abbiamo smesso di rispondere cessando fra noi persino di farcela. Io tendo a credere che da questa reticenza venga il dimezzamento dei nostri lettori. Ma è una domanda cui non è semplice rispondere. Non è facile essere comunisti oggi, a più di trenta anni dal 1989. E appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemmo nel dirci comunisti ancora, o perché non si possa dirlo più.
Io credo che, almeno nei tempi brevi, non si possa dirlo più. E non perché il sistema mondializzato sia diventato più umano, condiviso e condivisibile, meno feroce, più pacifico perché libero e un po' meno inegualitario, cosa che non vuol dire conformizzato. Non abbiamo mancato di scrivere che dal 1971 non sono soltanto passati molti anni, ma sono cambiate molte cose. Quasi tutte. Ma non ne abbiamo tratto ed esplicitato le conseguenze. In questo la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra, almeno – sinistra essendo ormai parola assai vaga di quella parte della sinistra che si proponeva un cambiamento del modo di produzione. Si può essere anticapitalisti oggi?
Il manifesto è nato quando una parte del mondo, sotto l’egemonia degli Stati Uniti, era capitalista e imperialista, e una parte che aveva già abolito la proprietà privata del capitale si diceva socialista ed era sotto l'egemonia dell’Urss. Il mondo si ridefiniva fra due campi e mezzo: perché restava una parte sospesa in un “postcolonialismo”, vago come tutti i post, che chiamavamo paesi terzi. Oggi non è più così; gli Stati Uniti non sono più la indiscussa prima potenza capitalista, e non è sicuro che il loro fine si possa definire, come prima, imperialista. L’Unione Sovietica non esiste più. La Cina ha un governo che si dice comunista ma un sistema produttivo capitalista spinto. Cuba non sembra più affatto socialista. Il terzo mondo ha percorso, tra stati e sotto l'influenza di potenze diverse, un itinerario mai visto prima. Allo stesso tempo l’Europa ha formato una grande area a moneta unica e a direzione liberista che da anni è traversata da una crisi, economica e politica, più acerba di quella degli Stati Uniti da cui aveva preso radice. Insomma, è cambiato tutto. È cambiato il capitalismo? Possiamo dire di sì, nel senso che ha articolato le sue forme e non ha più uno stato che ne sia indiscutibilmente la leadership. Dobbiamo dire di no, nel senso che ha mondializzato, appunto articolandolo, il suo modo di produzione. Possiamo, davanti a questo mutamento di scena, conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971? Non credo. Andrebbero almeno verificati.
Anche l’Italia è cambiata. Nel senso che forse nel paese dove il movimento del '68 è stato più lungo e più esteso a vari strati sociali, non solo operai e studenti, ha anche – ha ragione Mario Tronti – più destrutturato le forme
classiche del socialismo e della democrazia di quante forme nuove abbia prodotto. Ha investito nuove figure sociali e anche qualcosa di assai più che una forma sociale, le donne e i femminismi. Questa molteplicità di oggetti ha avuto in comune il rigetto delle forme di potere cui era, visibilmente o invisibilmente, sottomessa, nello stesso tempo dividendosi acerbamente. Risultato, all’ampiezza del rigetto ha risposto una reazione opposta, un individualismo piatto, un rifiuto di ogni cambiamento di società, di ogni collettività che non sia locale o comunitaria. La incomunicabilità delle differenze ha prodotto una crisi della politica, il cui esito è stato il berlusconismo e il crescere del populismo.
Ma di questo neanche noi abbiamo dato una mappa e una topografia approfondita e comune. Abbiamo denunciato i limiti del keynesismo post-
bellico con l'intento di andare oltre, ma di fatto abbiamo lasciato spazio a spinte liberiste. Meno stato più mercato, è uno slogan che piaceva anche a sinistra. Per un paio di decenni abbiamo messo da parte il rapporto di lavoro, analizzando le nuove soggettività e le molte contraddizioni che ne erano fuori, finendo col dichiarare lo sbiadimento se non addirittura l’irrilevanza della contraddizione fra lavoro e capitale. Fino allo scoppio della crisi e dell'offensiva padronale alla Fiat abbiamo dato poca attenzione alla struttura sociale, come se fosse un problema puramente sindacale. Non siamo stati convinti, e quindi non siamo stati capaci di convincere, che come ci ricorda il segretario della Fiom il modo di produzione non investe soltanto la fabbrica ma tutta la società. Il lavoro? Roba del secolo scorso. L’operaio? Non c’è più. Il sindacato? Vecchiume. Del resto non gorgheggiavano ogni giorno i padroni che il lavoro costituiva orami una parte minima del processo di produzione?
Oggi i padroni dicono tutto il contrario, strillano che per essere competitivi nella mondializzazione bisogna ridurre i salari italiani a quelli dell’Indonesia o della Cina, un terzo, un quarto del livello che i lavoratori erano riusciti a spuntare da noi. Così siamo arrivati, come il resto del mondo occidentale, a una stretta in cui i redditi si sono divaricati al massimo, il dieci per cento della popolazione guadagna quanto il novanta per cento, e di questo dieci, l’un per centro guadagna più di tutti gli altri. Nella stretta si dibattono anche le nuove soggettività.
In questo ribollire di bisogni e nella loro incapacità di trovare un dialogo, il manifesto non è riuscito a suscitare più interesse ma meno. Eppure non c’è giorno che esso non proponga un pezzo interessante e che sarebbe impossibile trovare altrove, un'interpretazione di una notizia che l’altra stampa offusca. Forse che quel che scriviamo non si capisce, non è detto bene? Non è chiaro? Non è rapido e divertente? Qualcosa non ha funzionato neanche da noi. Siamo stanchi, perché – per favore non lo si dimentichi – coloro che ogni giorno hanno confezionato questo foglio e lo hanno spedito in giro non ne possono più di un successo che lentamente viene meno e perdipiù di essere pagati meno che in qualsiasi altro giornale, e a singhiozzo, a volte aspettando il salario per mesi. Affidarsi per anni agli introiti del marito, della moglie, dei genitori, a un altro lavoretto è facile da dire, non facile da vivere.
Io insisto perché nel chiedere solidarietà facciamo anche un esame di noi stessi. O pensiamo che la storia sia finita e che “io speriamo che me la cavo” sia diventato il solo slogan veramente popolare?
A ragione Alberto Asor Rosa ha lanciato l'allarme e chiesto una sosta di riflessione. Siamo di fronte a novità formidabili, figlie di svolte e derive di lunga durata. Per contrastarle o padroneggiarle bisogna accumulare una nuova «saggezza» con riflessione e lavoro di lunga lena, da condurre per «decenni» e con adeguata organizzazione. La ramazza della «tecnopolitica europea», del «financapitalismo» ci ha liberato dell'immondizia berlusconiana, ma ci instupidisce ora «avanti ai fari abbaglianti» di Mario Monti, al soft power delle sue «lacrime e sangue», di ricette rinforzate dall'assenza di alternative.
L'eccezione e la regola.
Meno convincente è l'aura di eccezionalità che spira tra le righe del suo argomentare. A tratti, come tanti nelle settimane scorse, evoca uno «stato di eccezione», la straordinarietà di eventi e processi, della «decisione». In generale, lo sguardo è fisso sul teatro nazionale, sempre unico ed eccezionale, sia che si sottolinei l'ennesima manifestazione del «caso italiano», sia che si esalti il potere di «anticipazione» delle nostre vicende. Per spiegare ricorre a paragoni storici con altri periodi e figure: l'interregno di Luigi Luzzatti. Altri ha accennato alla fatale meteora di Heinrich Brüning.
Ne siamo sicuri? Ma da quanto tempo non ci sono più lo Stato, la politica, l'autonomia: la sovranità, insomma, del tempo che fu? E non solo in Italia. Cos'è la Francia di Sarkozy, cui si affiancherà la Merkel in campagna elettorale? Certo, si vedrà se l'innovazione o l'azzardo funziona. Intanto, nessuno - forse Marine Le Pen - grida allo scandalo, ai tedeschi arrembanti, les Boches! La Grandeur è in soffitta per decisione o presa d'atto unanimi. Non siamo forse tutti in Europa alle prese con la lezione del Belgio? Un paese dilaniato da strappi secessionisti, ma rimasto senza governo per più di un anno, appeso senza tracolli alla respirazione artificiale garantita dalla macchina comunitaria.
Vale ancora l'etichetta dell'eccezione, quando parliamo delle ricette di Monti? Ma non sono dettate ormai da un ventennio dalla cogenza della Costituzione scolpita nei trattati di Maastricht e sempre confermata da tutti, tra scossoni politici e referendari, con convenzioni e trattati a Amsterdam, Nizza, Lisbona, fino al fiscal compact dei nostri giorni, vagliato e varato, nel disinteresse generale, già da Commissione e Parlamento europei, ancor prima dei diktat di Angela Merkel? Vent'anni or sono.
Per prendere le misure a Monti, in realtà, bisogna aguzzare lo sguardo, dargli profondità, e magari rammentarsi che il grido di Asor Rosa non è una novità assoluta. Anzi. Già in altri tempi, all'alba di quest'ultimo ventennio, un grido analogo si levò di fronte ad altri affondi presidenziali, ad altri tecnici - Carlo Azeglio Ciampi - chiamati a reggere e traghettare il paese in Europa, nel silenzio e nella mancanza di iniziative della sinistra, con l'astensione all'epoca del Pds. Anche per protesta contro di essa e l'asfissia dei partiti Pietro Ingrao si dimise dal Pds e chiamò, già allora, ad un lavoro di costruzione di nuovi fondamenti. E qualcosa iniziò. Ne nacque allora la riflessione a quattro mani con Rossana Rossanda consegnata in un volume, Appuntamenti di fine secolo e nel tentativo, abortito, di analisi e iniziative addirittura europee.
È bene sgombrare subito il campo da ogni farsesca tentazione di sminuir tutto in uno storico deja vu. Ma sarebbe suicida non riconoscere la tragedia di una sinistra china a investigare su un nuovo delitto senza riconoscere il serial killer all'opera, alle prese con analisi e appuntamenti già mancati una volta, esausti copioni di recite già celebrate. È utile forse allora ricordare che Appuntamenti di fine secolo prendeva le mosse da un carteggio che appuntava le sue righe iniziali sulla «questione del debito pubblico italiano», sulla sua «patologia» e sulle forme in cui essa era finita nei comandamenti di Maastricht. Ecco il debito pubblico, una chiave indispensabile per comprendere Monti e le dinamiche di lungo periodo che gli hanno dato forza crescente. Per troppo tempo si è visto in esso e nella crescita irresistibile della spesa pubblica la naturale dinamica di una società in declino, vittima dei suoi egoismi corporativi e delle cure clientelari amministrate dalla Dc o, peggio, dalla consociazione catto-comunista.
Pochi analisti hanno affondato davvero il bisturi nelle scelte compiute all'inizio degli anni Settanta. Allora - mentre il mondo era scosso nei suoi piloni portanti: dollaro e petrolio - l'Italia fu costretta a chinare il capo nella tempesta delle monete. La bancarotta fu evitata nel 1974 con l'apporto finanziario del Fmi e con l'oro italiano dato in pegno alla Bundesbank del tempo. Dietro l'apparente non governo a deriva Dc, di fronte ad una dialettica sociale e sindacale sempre più vivace, la Banca d'Italia di Guido Carli aveva da tempo deciso di sanare in modo particolare «la ferita» subita dall'economia italiana con la «decadenza del sentimento della disciplina sociale»: aveva scelto di «alimentare il circuito della spesa nella misura necessaria a finanziare scambi che si svolgono a prezzi sempre più alti» (Banca d'Italia, Relazione sull'anno 1970).
La contesa con Carli
All'unisono, nelle loro memorie, Guido Carli e Mario Monti fanno ascendere a quella scelta l'inizio di un reciproco dissidio. Le critiche di Monti a Carli e al suo «dirigismo creditizio», al suo pilotaggio della «spesa pubblica in disavanzo», valsero all'economista milanese crescente notorietà e il ruolo di capofila critico nell'establishment e nell'intellighentzia del tempo. Più in ombra rimase la sapiente gestione da parte di Carli del doppio registro di spesa pubblica lasca, accompagnata da periodiche svalutazioni della lira, specie dopo la conquista del punto unico di scala mobile. Si forniva generosamente corda all'impiccato: la competitività dell'industria veniva ricreata artificialmente, mentre il resto dell'organismo sociale si spappolava per egoismi corporativi e rincorse competitive alimentati da una spesa pubblica in continua dilatazione. Carli avrebbe provveduto poi a Maastricht a riregolare la dinamica del sistema e sanare quel dissidio.
Allora, edotti dal lavorio ai fianchi compiuto dalla Trilateral e dalle teoriche della governabilità, si scelse, in concorde discordia con i tedeschi della Bundesbank allarmati da Kohl e dalla sua unificazione con il marco alla pari tra Est e Ovest, di mettere una mordacchia permanente alla nuova Europa, di affidarla ad esecutivi e eurocrazie, di stirare spesa pubblica e welfare nelle presse dei criteri di convergenza e del successivo patto di stabilità. Inizia allora il volo di Mario Monti, come figura più rappresentativa di quell'atto creativo che metteva capo all'euro e alla Bce, all'Ue e ai suoi inediti comandamenti.
Limpidi sono nella sua figura i tratti distintivi del neoliberismo anglosassone o dell'ordoliberismo di stampo tedesco: un orientamento pragmatico, ma tenace, che non demonizza più lo Stato e il suo intervento. Semmai lo esalta come amplificatore della competitività e regolatore della dialettica sociale. Oggi, a vent'anni e passa dal primo volo dell'Unione Europea, il grido di Asor Rosa ci coglie come trapassati in un altro mondo. Non siamo riusciti a prendere nemmeno le misure del Monti che fu e già siamo chiamati a misurarci con la sua reincarnazione, con il nuovo ciclo aperto dal fiscal compact. Oggi il globo - mutato radicalmente nel metabolismo tra Nord e Sud, Est ed Ovest - si è riassestato su nuovi cardini: nel Pacifico e non più in Atlantico. La stagione della «guerra al terrorismo», in cui l'unilateralismo americano aveva pensato di disporsi per eternarsi, si è chiusa con un rinculo di storiche proporzioni. Ma ad archiviarla definitivamente ci prova, e a fatica, il solo Obama. L'Europa a stento e a tratti si dispone sulle sue orme.
Emblematica la vicenda tutta dei rivolgimenti arabi o quell'accenno di dialogo, quel guatarsi guardinghi ma attenti che si è instaurato tra Obama e Occupy Wall Street. Anche qui non v'è nulla di simile sul Vecchio Continente, in nessuna delle sue terre. L'euro e i suoi comandamenti sono da tempo oggetto di dileggio e preoccupazione non più solo di premi Nobel e della dirigenza americana. Per gironi meno blasonati, la somministrazione quotidiana del rating da parte delle agenzie ammonisce senza sosta sulle illusioni mortali della via penitenziale allo sviluppo più o meno socialmente virtuoso, più o meno frugale. McKinsey e S&P's ci dicono che la lotta al debito non funziona se fatta solo di tagli, se non mobilita i popoli, ma li mette alla frusta.
Un potere corrosivo
Imperterrito l'euro corrode welfare dei popoli e legittimità delle élites, scassando armature sociali collaudate. È dubbio però che la stretta ulteriore promossa con il fiscal compact segni solo il trionfo della Merkel e l'indebolimento di Monti. Tutt'altro. In quella rigida scansione di regole e soglie, nella piena, compiuta e non più zoppa, costituzionalizzazione del «vincolo esterno» sta l'esaltazione, ad altissima cifra politica, del tecnico Monti, il segreto della sua forza politica. A patto naturalmente di conquistare una visione larga della scena europea, libera da ogni ingenua e meccanica trasposizione tra degrado delle condizioni sociali, marcescenza del pantano politico e procedere della crisi.
La recessione potrà senz'altro approfondirsi con i suoi danni incommensurabili ma non è detto che si tramuti in crisi del sistema o dell'euro. Ancor più se a sinistra si continuerà ad indugiare nella catastrofica attesa del collasso, in un attendismo che non fa che amplificare lo iato tra le possibilità offerte dallo scontento e la capacità di metter capo ad una fattiva mobilitazione, alla configurazione di un reale blocco riformatore. Da questo punto di vista il panorama è desolante, ancor più laddove l'attizzarsi delle contese elettorali dovrebbe stimolare ad afferrare il toro per le corna. Né ci si aiuta, provando ad assolversi dalle proprie mancanze e imputando tutto alla prepotenza tedesca e di Angela Merkel.
Anzi, guardando all'allestimento delle scene elettorali proprio il panorama tedesco è quello più promettente. Rispetto al millimetrico e allusivo riposizionamento, pieno di reticenze, di Hollande, in Germania si prova a mettere con più decisione i piedi nel piatto. L'ultimo documento di Spd e Verdi, il protocollo in 12 punti offerto a dicembre come contributo a tutta la sinistra europea, disegna con tratti decisi la scena e le poste europee, e non solo tedesche. Vi si contesta con una nettezza altrove sconosciuta la pretesa della Merkel e dei suoi di imporre risanamenti a senso unico, con «i compiti a casa» degli Stati cicala, dei Pigs. Perseverare su questa strada può portare solo ad ingessare colpevolmente Uem e Ue, fino allo scasso e al suicidio finali. All'ordine del giorno è un mutamento di strada indirizzato non tanto a colmare i vuoti lasciati a Maastricht, ma a raddrizzare la barca sbilenca lì attrezzata e poi via via puntellata.
Nella «storia dell'Europa di oggi vi è la possibilità solidale di un nuovo inizio». Non si afferra il bandolo del caso italiano né di nessun altro paese europeo senza uno sguardo maturo sull'Europa tutta e le sue sfide, se non si prova nemmeno ad immaginarsi lievito di nuove speranze su scala continentale, se non si azzarda un atto di igiene mentale: schiodare intanto nella propria testa l'Europa dalla costituzione monetaria in cui è stata ripetutamente trafitta.
Una versione più ampia di questo intervento su www.sbilanciamoci.info
Serve una gestione controllata delle economie. La sinistra non può stare in difesa C’è bisogno di innovazione, le formule keynesiane oggi non funzionerebbero
È in corso da qualche tempo un dibattito sulla crisi del capitalismo cosa che non può certo sorprendere dopo tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni. Il 1 ̊ novembre scorso, proprio su questo giornale scrivevo: «... si affaccia un problema...di legittimità dei sistemi economici attuali e cioè del capitalismo liberista: infatti l’accettabilità di un sistema economico-sociale richiede la sua capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, cioè di produrre reddito, occupazione, crescita, opportunità e di farlo in modo accettabile dal punto di vista dell’equità». Che una crisi dei nostri sistemi economici esiste è evidente, e da questo non pochi a sinistra stanno traendo motivi di compiacimento e soddisfazione: «noi lo sapevamo», «noi lo avevamo detto», «noi avevamo ragione». Un approccio di questo genere rischia tuttavia di produrre una regressione politico-culturale pericolosa.
Vediamo. Il fatto che il sistema capitalistico soprattutto quello nella sua forma pura, privo di regole, controlli, limiti e contrappesi sia pericolosamente instabile è ben noto almeno dai tempi in cui Marx descriveva i meccanismi dei collassi economici dell’800 (tragicamente identici a quelli che abbiamo sperimentato nel 2008). Lo stesso problema fu al centro della riflessione e dell’analisi di Keynes, e non è un caso che nel periodo compreso tra il secondo dopoguerra e gli anni 80 del secolo scorso, quando fu in vigore il “compromesso keynesiano”, il sistema risultò molto più stabile, pur in presenza di fluttuazioni cicliche. In sostanza il capitalismo liberista è cosa ben diversa dal capitalismo regolato di matrice keynesiana (o socialdemocratica). Così come il capitalismo americano individualista e flessibile, è sempre stato diverso (in ambedue le versioni, liberista e keynesiana) da quello europeo molto più solidale, assistenziale, corporativo, oligopolista, ma anche esso oggi in difficoltà per ragioni demografiche e di sostenibilità del welfare. Il capitalismo fascista e nazista era a sua volta diverso da quello americano dirigista e programmato il primo, liberale il secondo.
Analogamente il nuovo capitalismo russo (che non a caso piaceva molto a Berlusconi) appare simile alla versione predatoria e monopolista dei robber barons americani nell’800 che non a caso fu transitoria, mentre il durissimo capitalismo cinese che coniuga il mercato nella sua forma più spinta con un dirigismo autoritario di ultima istanza che garantisce il sistema, la sua tenuta e la sua coesione, è esperienza diversa da tutte le altre, e a sua volta diversa da quella del Giappone, o di altri Paesi orientali. In sostanza è oggi in crisi quella forma di capitalismo in cui i mercati finanziari (banche, borse, intermediari vari) prendono il sopravvento e diventano autoreferenziali, un fine e non un mezzo, vale a dire quella variante del capitalismo che fu responsabile della crisi degli anni 30, e che si è riaffermata negli ultimi decenni fino al collasso attuale ma che è stata anche alla base di enormi fasi di crescita compresa l’ultima globalizzazione.
Sia lo sviluppo accelerato che i crolli improvvisi provocano traumi e sofferenze, ma la regressione economica collegata al collasso di una precedente fase di sviluppo può facilmente diventare socialmente insopportabile e rischia di precipitare in una crisi politica anche perché, di fronte ai problemi inediti che la crisi pone, le classi dirigenti appaiono inadeguate, impotenti, incapaci. È necessaria quindi una grande capacità di innovazione che negli anni 30 fu rappresentata da Roosvelt in America, ma ahimé da Hitler in Europa. Anche oggi il rischio di una svolta verso una forma di capitalismo autoritario (di tipo cinese) non è da escludere.
È anche bene ricordare che dopo la seconda guerra mondiale la classe dirigente dei Paesi occidentali erano ossessionate dalla minaccia sovietica il cui modello alternativo di società appariva credibile, e quindi erano ben disposte a venire a patti con i sindacati e i partiti socialisti e a introdurre limiti e vincoli agli «spiriti animali» del sistema. Oggi non vi sono minacce esterne (se non fosse quella, puramente distruttiva dell’integralismo islamico), e non vi sono modelli alternativi di società, mentre la riproposizione di formule keynesiane a livello nazionale si scontra da un lato con le dimensioni dei disavanzi e i debiti pubblici degli Stati, e dall’altra con il fatto che per essere veramente efficaci esse oggi andrebbero introdotte a livello sovranazionale, se non globale (non esiste la possibilità di un keynesismo in un solo Paese).
E ben vediamo la difficoltà dell’impresa: a livello europeo la signora Merkel sta riesumando un vecchio, pericolosissimo, approccio nazionalistico se non pangermanico, creando fratture, sofferenze e risentimenti negli altri Paesi europei. A livello G-20 dopo la felice collaborazione del 2009 prevalgono oggi le divisioni su tutti i problemi: dal coordinamento (e dal mix) delle politiche economiche da adottare, a quelle dei tassi di cambio, dagli squilibri macroeconomici globali, al sistema monetario internazionale, dal commercio internazionale, alla regolamentazione del sistema bancario e finanziario, dal riscaldamento globale alla sicurezza nella fornitura di energia e cibo a livello mondiale, ecc.
La crisi del sistema economico si trasforma in crisi politica: il sistema potrebbe essere “aggiustato” ma gli interessi contrapposti e la visione corta creano la paralisi politica. Del resto ciò è inevitabile in un mondo privo di luoghi di riflessione ed elaborazione collettiva, e dominato da un sistema informatico ipertrofico e criminale nel senso che impedisce una riflessione sul passato e sul futuro e lascia la gente in balia di contraddittorie impressioni strettamente limitate al presente.
Inoltre non va dimenticato che il riaffermarsi negli anni 80 del ’900 del modello di capitalismo liberista dipese non solo dal crollo dell’Unione Sovietica, ma anche dal fatto che il precedente sistema regolato era entrato in crisi anche a causa dei propri abusi ed eccessi, e delle sistematica pretesa di utilizzare e depredare risorse future (ambiente, risparmi) per consumarle nel presente. Questo fenomeno spiega anche perché in Italia (ma non solo) all’interno della stessa sinistra vi siano gruppi minoritari, ma consistenti, favorevoli sia di fatto che per scelta culturale a un approccio liberista all’economia: essi infatti temono il ritorno a teorizzazioni e a pratiche intrise di ideologismo, forzature e talvolta prevaricazioni che in passato hanno prodotto l’accumulo del debito, l’inflazione, e un diffuso rancore nei confronti della sinistra da parte di consistenti strati della popolazione.
La crisi del modello di capitalismo che ha dominato degli ultimi 30 anni esiste, e va sottolineata, riaffermando la validità di una gestione controllata (programmata) delle economie. Ma è necessario trovare modalità e strumenti diversi dal passato e soprattutto convergenze e soluzioni da porre in essere a livello sovranazionale. Occorre ridare ruolo alla politica ma evitare gli abusi passati. Si tratta insomma di innovare, cambiare, riformare ribadendo le ragioni della sinistra, ma evitando il rischio di difesa e rivendicazione di un passato che non tornerà.
Misurarsi con il governo Monti sul suo terreno non è saggio. Monti comanda ma non governa. Comanda perché i partiti che lo sostengono (sempre più infelici) glielo lasciano fare e gli elettori che essi pretendono di rappresentare non hanno forze né strumenti per fermarlo. Per tutti il movente è unico: la paura di un disastro che non si sa valutare. Ma a governare non è né Monti né l'Europa, ma la finanza internazionale che decide per entrambi. Le misure adottate - "salvaitalia" e "crescitalia" - non avranno alcun effetto di stabilità, come non lo avrà il nuovo pacchetto ammazza-lavoro cucinato dalla prof. Fornero. Le cifre sparate sui futuri effetti di quei decreti (Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18) ricordano più la tombola che le discipline accademiche di cui la compagine governativa mena vanto. Se oggi la speculazione sul debito italiano sembra placarsi è perché Monti le ha dato un altro po' di succo da spremere, esattamente come era successo in Grecia, fino a nuovo ordine. D'altronde Draghi ha spiegato che lo spread serve proprio a questo: rendere possibile quella spremitura che il lessico economico-politico chiama "riforme" e "modernizzazione". Ma con un debito di 1900 miliardi e un patto di stabilità che pretende di dimezzarlo a nostre spese, gli agguati della finanza continueranno a restare alle porte. E finché la finanza internazionale potrà contare su risorse che valgono 10-15 volte più del prodotto lordo del mondo non c'è governo che ne sia al sicuro; nemmeno erigendo una muraglia cinese contro i suoi assalti.
Il confronto con il governo Monti, con questa Europa e con il potere della finanza internazionale va quindi condotto su un diverso piano, che è quello della vita e delle condizioni di esistenza della maggioranza della popolazione, dei rapporti che ci legano all'ambiente fisico e sociale in cui viviamo, dei diritti inalienabili di cittadinanza che ne discendono in quanto abitanti di questo pianeta (tutte materie totalmente estranee alla cultura del governo, ma dimenticate anche da molti dei suoi commentatori e dei suoi critici). Quei rapporti rendono indissolubile il nesso tra ambiente ed equità sociale (e intergenerazionale: esisterà, si spera, un mondo anche dopo gli alti e bassi dello spread). Se la crisi economico-finanziaria e la crisi ambientale segnalano, con la loro dimensione globale, l'urgenza di una svolta per tutto il pianeta, questa non può prescindere, e non può distinguersi, da una radicale conversione ecologica del modo in cui consumiamo (e quello che consumiamo, alla fine, è l'ambiente) e del modo in cui produciamo (e quel che produciamo è soprattutto diseguaglianza e sofferenze superflue). E siccome la conversione ecologica riguarda in egual misura i nostri atteggiamenti soggettivi verso l'ambiente e gli altri esseri umani, e l'organizzazione delle nostre attività "economiche" (che cosa produciamo, come, dove, con che cosa e perché lo produciamo), è un imperativo concreto partire da quello che ciascuno di noi può fare, o intende fare, qui e ora.
Quello che lega il nostro agire localmente - il nostro "progetto locale" - al pensiero globale che deve informarlo è la sua replicabilità: la possibilità che venga riprodotto, adattandolo alle diverse situazioni con la dovuta intelligenza del contesto, senza che le realizzazioni degli uni vadano a detrimento di quelle di altri; e sviluppando invece una potenza sinergica.
Solo così i legami che si creano possono costituire la base - a diversi livelli, fino a ricoprire con una rete l'intero pianeta - sia di un programma generale, sia della formazione di una cittadinanza attiva (intersettoriale, interconnessa, internazionale, intergenerazionale), sia di organizzazioni che si candidino a esautorare, sostituire o integrare le strutture esistenti: a piccoli passi e a macchia di leopardo, per lo più; a salti improvvisi, a volte; ma sempre più spesso in contesti conflittuali, e fronteggiando rischi crescenti. Il "soggetto politico" di cui si è discusso - senza dirlo - nel recente convegno di Napoli sui beni comuni è parte di questo percorso, i cui pilastri mi sembrano questi:
1. La conversione ecologica è un processo di riterritorializzazione, cioè di riavvicinamento fisico ("km0") e organizzativo (riduzione dell'intermediazione affidata solo al mercato) tra produzione e consumo: processo graduale, a macchia di leopardo e, ovviamente, mai integrale. Per questo un ruolo centrale lo giocano l'impegno, i saperi e soprattutto i rapporti diretti della cittadinanza attiva, le sue associazioni, le imprese e l'imprenditoria locale effettiva o potenziale e, come punto di agglutinazione, i governi del territorio: cioè i municipi e le loro reti, riqualificati da nuove forme di democrazia partecipativa. Le caratteristiche di questa transizione è il passaggio, ovunque tecnicamente possibile, dal gigantismo delle strutture proprie dell'economia fondata sui combustibili fossili alle dimensioni ridotte, alla diffusione, alla differenziazione e all'interconnessione degli impianti, delle imprese e degli agglomerati urbani rese possibili dal ricorso alle fonti rinnovabili, all'efficienza energetica, a un'agricoltura e a una gestione delle risorse (e dei rifiuti), dei suoli, del territorio e della mobilità condivise e sostenibili.
2. Per operare in questa direzione è essenziale che i governi del territorio possano disporre di "bracci operativi" con cui promuovere i propri obiettivi. Questi "bracci operativi" sono i servizi pubblici, restituiti, come disposto dal referendum del 12 giugno, a un controllo congiunto degli enti locali e della cittadinanza, cioè sottratti al diktat della privatizzazione. Per questo le risorse destinate alla conversione ecologica - cioè, tutte quelle non necessarie a sostenere i compiti di una supplenza centralizzata, nell'ambito di un approccio fondato su una vera sussidiarietà - dovrebbero essere restituite agli enti locali e sottoposte ad adeguati controlli, non solo di legalità, ma soprattutto ad opera della cittadinanza attiva. Nell'immediato è decisivo che vengano sottratti ai vincoli del patto di stabilità gli investimenti destinati al welfare municipale e alle conversioni produttive. Il debito pregresso contratto dalle amministrazioni locali, o dalle Spa che rientrano nel perimetro dei servizi locali del cui controllo deve riappropriarsi il governo del territorio, come il debito pubblico dello Stato nazionale dovranno essere ridimensionati, in forma contrattata, in misura sufficiente a non essere di ostacolo alla conversione produttiva. Le responsabilità di un rifiuto di questa negoziazione ricadono su chi la respinge, ma vanno studiate e predisposte fin da ora tutte le misure per attenuarne le conseguenze sulla cittadinanza. D'altronde è impensabile che si possa uscire dal caos in cui il liberismo ha precipitato l'economia del pianeta senza un radicale ridimensionamento della bolla finanziaria che sovrasta l'economia mondiale. Quali che ne siano le conseguenze.
3. Il terzo pilastro è l'arresto del consumo di suolo: le nostre città e tutti i centri abitati, di qualsiasi dimensione, sono già sufficientemente costruiti per soddisfare con le strutture esistenti o con il recupero dei suoli occupati da strutture inutilizzabili, tutte le esigenze di abitazioni, di attività produttive e commerciali, di socialità e di promozione della cultura e del benessere di cui una comunità ha bisogno. Se queste strutture e questi suoli non vengono resi disponibili dal vincolo che lega il bene al suo proprietario occorre procede con una politica di espropri e rivendicare una legislazione che la renda praticabile. Se si vuole combattere la rendita che, come sostengono tutti gli economisti liberisti, abbatte la produttività, ecco un buon punto da cui cominciare.
4. Il suolo urbano libero da costruzioni e quello periurbano possono essere valorizzati da un grande progetto di integrazione tra città e campagna, tra agricoltura e agglomerati residenziali. Un'integrazione che è stata il pilastro delle civiltà di tutto il mondo prima dell'avvento della globalizzazione che ha preteso - grazie al basso costo del trasporto reso possibile dall'abuso dei combustibili fossili - di fare dell'agricoltura di tutto il pianeta il "contado" dei centri urbani, con il degrado progressivo sia degli uni che dell'altra. Le municipalità hanno molti strumenti (alcuni a costo zero) per promuovere una riconversione di questo rapporto: orti urbani, disseminazione dei Gas, farmer's markets, mense scolastiche e aziendali, marchi di qualità ecologica per la distribuzione, gestione dei mercati ortofrutticoli: quanto basterebbe per cambiare l'assetto dell'agricoltura periurbana e per ri-orientare l'alimentazione della cittadinanza con filiere corte.
5. La mobilità sostenibile (attraverso l'integrazione intermodale tra trasporto di linea e mobilità flessibile: car-pooling, car-sharing, trasporto a domanda e city-logistic per le merci) e la riconversione energetica (attraverso la diffusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e la promozione dell'efficienza nelle abitazioni, nelle imprese e nei servizi) costituiscono gli ambiti fondamentali per sostenere le imprese e l'occupazione in molte delle fabbriche oggi condannate alla chiusura. La riterritorializzazione delle attività in funzione della domanda creata dalla conversione ecologica è una vera politica industriale che può salvaguardare e promuovere occupazione, know-how e potenzialità produttive in settori quali la fabbricazione di mezzi di trasporto, di impianti energetici, di materiali per l'edilizia ecosostenibile, di macchinari e apparecchiature a basso consumo. Crea domanda vera perché risponde alle necessità degli abitanti di un territorio, ma richiede condivisione e può essere sostenuta solo attraverso rapporti diretti tra produttori ed enti locali. (ha fatto qualcosa di analogo la Volkswagen producendo impianti di microcogenerazione piazzati direttamente in case e imprese attraverso un accordo con una società di distribuzione dell'energia. Lo possono fare i comuni italiani senza alcuna violazione delle norme sulla concorrenza).
6. La conversione ecologica è innanzitutto una rivoluzione culturale che ha bisogno di processi di elaborazione pubblici e condivisi e di sedi dove svilupparli. La cultura non può essere solo un passaporto per l'accesso al lavoro o uno sfogo dopolavoristico. Può e deve tornare a essere l'ambito di una riflessione sul senso della propria esistenza, della convivenza civile, della riconquista di un rapporto sostenibile con l'ambiente: tutte condizioni indispensabili di una adesione convinta alla conversione ecologica. Questa riflessione ha bisogno di sedi, di strumenti, di promotori, di risorse: nelle scuole e nell'università, nell'educazione permanente, nelle istituzioni della ricerca, nel tessuto urbano, nei mezzi di informazione, sulla rete.
L'idea di mercato globale certamente "libero", ma regolato, che incarna Monti non è la stessa coltivata da Berlusconi, basata sul mito della sua autosufficienza. Oggi, nel pieno di una crisi capitalistica, per l'Europa è venuto il tempo della politica. Risposta all'articolo di Asor Rosa
La discussione aperta da Alberto Asor Rosa è quanto mai opportuna (sette pilastri della saggezza, il manifesto 19/1). Interrogarsi su Monti e sull'atteggiamento politico da assumere nei confronti del suo "strano" governo significa infatti verificare se si è capaci - come direbbe Tronti - di formulare un giudizio critico forte sulla "fase", e misurare così l'esistenza o meno di una cultura politica, a sinistra, in grado di elaborare una proposta credibile. Anch'io penso che si sia aperto per la sinistra italiana «un terreno più avanzato di lotta e di proposta» con l'operazione politica voluta da Napolitano - ma non dimentichiamo che vi hanno contribuito i leader europei e lo stesso Obama, tutti molto e giustamente preoccupati per l'Italia (e di conseguenza l'Europa) in bilico nelle mani di Berlusconi. Non condivido quindi certi giudizi venuti da sinistra, in parte presenti anche nell'analisi di Rossana Rossanda (il manifesto 20/1), che insistono sulla "continuità", se non peggio, tra il governo di Berlusconi e quello di Monti. Pur senza sottovalutare il fatto che il partito del Cavaliere fa parte della maggioranza che sostiene i "tecnici", ma non per caso, mi sembra, con l'atteggiamento di chi deve trangugiare una medicina sempre più amara.
Per me la differenza non è solo nella "presentabilità" e "sobrietà" dei tecnici, ma proprio nella posizione politica e nella cultura di Monti e di molti dei suoi ministri e ministre. A cominciare dalla scelta per un'Europa forte non solo economicamente, ma politicamente. Questa a me pare una discriminante fondamentale per qualunque politica di sinistra. Bisognerebbe dire molto più chiaramente e con decisione che per contare qualcosa nella globalizzazione - per contare anche in favore di chi ha meno potere e meno reddito - servono gli Stati Uniti d'Europa. Questo non significa naturalmente esser d'accordo con l'ideologia liberista e monetarista che sorregge ancora molte delle scelte che oggi prevalgono in Europa. Ma andrebbe valutato sino in fondo lo strano paradosso di una costruzione europea che dai tempi della Ceca, allo Sme, a Maastricht e all'Euro, ha scelto - quasi seguendo un principio marxisticamente ortodosso - di far sì che fosse la "struttura" economica a spingere la "sovrastruttura" dell'unificazione politica. Oggi, dopo la moneta unica e nel pieno di una crisi capitalistica inedita, emerge in primo piano che per l'Europa è venuto il tempo della politica. Il centrodestra italiano è sempre stato - e sostanzialmente resta - tiepido se non apertamente ostile verso l'Europa unita. Ancora oggi l'ineffabile Tremonti rimpiange il ruolo delle nazioni, come fossimo ancora nel mondo di Adam Smith. E l'idea di mercato globale certamente "libero", ma regolato, che incarna Monti non è la stessa coltivata da Berlusconi (e dai suoi alleati e "amici" internazionali Bush, Putin, Gheddafi).
Si dice che con i "tecnici" la politica e la democrazia sono state messe in mora. In realtà la politica è stata svilita e rimossa nei due anni abbondanti in cui la cronaca italiana, con diffusione globale, è stata dominata dalle feste di Arcore, anni coronati da quella sciagurata maggioranza di parlamentari nominati che ha accettato la favola della nipote di Mubarak. Ida Dominijanni era stata la prima a capire che, con le crude parole di Veronica e la testimonianza di Patrizia D'Addario, si era aperto l'inizio della fine della parabola berlusconiana, metafora di una più generale crisi dell'autorità maschile in un mondo segnato dal tramonto del patriarcato. E a questo vuoto di politica ha contribuito una sinistra sostanzialmente incapace di offrire, nel tempo della "biopolitica", una visione della vita e della società realmente alternativa alla verità messa in scena dal Cavaliere e al mito dell'autosufficienza del mercato. Perché questo è un altro punto che non mi sembra ancora chiarito: la forza del Cavaliere, forse non ancora del tutto esaurita, era, pur tra tante menzogne, quella di dire sostanzialmente la verità su se stesso, il suo mondo, l'idea di società da lui spettacolarmente incarnato.
Napolitano ha esercitato la spinta finale risolutiva per insediare Monti, nominandolo senatore a vita, ma mi sembra sbagliato rimuovere il fatto che Berlusconi aveva perso di fatto la sua maggioranza almeno tre volte. Rimediando all'abbandono di Fini con il miniribaltone Scilipoti, e poi ottenendo proprio dal Colle generosi tempi supplementari. Alla fine ha dovuto arrendersi all'evidenza e al rischio di legare il suo nome a una catastrofe finanziaria e politica italiana e europea. Non c'è stata alcuna sospensione della democrazia - lo dice bene Aldo Tortorella nell'editoriale ("La doppia immagine") dell'ultimo numero di Critica Marxista - giacché i partiti hanno votato il nuovo governo e la sinistra non se l'è sentita di tentare l'alternativa pur con qualche probabilità di vincere le elezioni. Altro discorso è l'insufficienza sempre più grave dei nostri modelli istituzionali democratici: ma di crisi della rappresentanza non si parla forse da alcuni decenni?
Credo - per concludere - che la riflessione dovrebbe di più insistere sulla crisi verticale che nel "laboratorio italiano" subiscono i vecchi dispositivi della sovranità e della produzione di autorità. Il senso comune ormai lo avverte acutamente, come dimostra il discorso pubblico sul disastro della nave Concordia e del suo capitano. È qui che la cultura politica della sinistra, e non solo della sinistra, presenta il deficit più grave. Asor Rosa ha ragione nel sottolineare il peso di una certa cultura cattolica nello "strano" governo Monti. La legittimazione dei "tecnici", a differenza di quanto è accaduto in altre fasi di governo tecnico, avviene in presenza della più grave crisi in assoluto dell'immagine dei partiti, e deriva da un input squisitamente politico sovranazionale, dalle competenze economiche, e da quelle radici cattoliche. Da questo punto di vista la Chiesa di Bagnasco è in parte altra cosa da quella di Bertone. E il voto sulle radici cristiane e giudaiche dell'Europa esprime, al di là delle strumentalità politiche, anche il senso di una ricerca dell'autorità perduta rivolta al passato. Come d'altra parte la popolarità finora eccezionale del Presidente della Repubblica ha una radice - come egli stesso ha evocato nel discorso di fine anno - in quell'antica vicinanza al mondo del lavoro del vecchio Pci e ai suoi meccanismi di produzione di credibilità politica.
Ma si tratta di luci che brillano ancora provenendo da grandi "stelle spente". Non credo che la risposta a questo enorme vuoto possa venire da una nostalgia per le tradizionali forme della politica "di professione" e dei vecchi partiti. Nella tradizione della sinistra mi sembra da recuperare quasi soltanto l'ispirazione "internazionalista", cosmopolita. Quando Derrida scrisse, già negli anni '90, quel libro profetico sul ritorno dello "spettro" di Marx lo sottotitolò significativamente sull'esigenza di una "nuova internazionale".
Ma le cose nuove da pensare e agire ce le ha mostrate il femminismo: un'idea e una pratica della libertà e dell'identità fondate nelle relazioni personali e che si allargano alla dimensione universale senza le astrazioni fatali sull'"individuo" o sulla "comunità" elaborate dal liberalismo (e liberismo) e dal comunismo. La stessa "centralità del lavoro" andrebbe radicalmente ripensata alla luce del venir meno della tradizionale divisione tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e lavoro di cura. È la scoperta della potenza degli spostamenti simbolici: il patriarcato finisce se le donne - come sta avvenendo ormai in tutto il mondo - gli tolgono credito. Forse anche questo capitalismo finanziario impazzito finirà se donne e uomini, in tutto il mondo solo ora unificato in un mercato globale, gli toglieranno credito. Forse sta già avvenendo, da Zuccotti Park a Davos. Il punto è saperlo vedere, nominare, comunicare.
Alberto Asor Rosa si è doluto che io abbia interpretato il suo articolo del 19 gennaio scorso come un appoggio al governo Monti. Ebbene sì, confesso di averlo letto appunto in questi termini, dando poca attenzione a qualche aguzzo segnale sparso nel testo. Asor Rosa invece mi ha spiegato che nelle sue intenzioni la sottolineatura della compattezza marmorea e super partes dell'accordo fra presidenza della Repubblica, governo e parlamento, che ha sbarcato Berlusconi, mirava invece a metterci in guardia dalla speranza di cavarcela senza opporgli un altrettanto solido programma. Non posso quindi che dare atto ad Asor Rosa di questa "bevuta", supplicandolo di non contare troppo, d'ora in poi, sulle mie capacità di decriptare, leggendola al secondo grado, una scrittura deliberatamente paradossale.
Ma mi chiedo anche perché l'ho letto in questo modo. Prima ragione: il vedere tante persone, e di assoluta serietà, sollevate dal vedersi levar di torno il cavaliere e di avere a palazzo Chigi un esecutivo di una correttezza privata cui erano disabituate. Fino a prendere sul serio per neutre le misure che esso decide. È super partes tassare in uguale proporzione ricchi e poveri, più il lavoro che il capitale, più il capitale produttivo che la finanza, privatizzare i residui servizi pubblici, fingere di non capire il senso del referendum sull'acqua? Era ai ragazzini che don Milani spiegava come nulla sia più ingiusto che offrire la stessa tazza di minestra a chi è affamato e a chi si è stancato del caviale. Noi adulti ce lo siamo scordato?
La seconda ragione è che non apprezzo affatto l'improvviso decisionismo del presidente della Repubblica. Fino a mezzora prima di scaricare Berlusconi, Giorgio Napolitano esortava implacabilmente destra e sinistra a non confliggere, e si difendeva da qualsiasi richiesta di prendere posizione.
Né aveva usato il messaggio alle camere per richiamare al rispetto della divisione dei poteri chi vituperava i magistrati una volta alla settimana, se mai invitava i magistrati a maggior temperanza. Ha preferito disinnescare il parlamento basandosi su qualche «allora vado a casa» farfugliato dal cavaliere, e scegliendo fulmineamente senza troppe consultazioni il professor Mario Monti, piuttosto che sciogliere le Camere come è forse in suo potere. Lasciandovi Berlusconi e i suoi che, fra un anno, in campagna elettorale, giocheranno ancora una volta sul populismo rifiorente in tutta l'Europa proprio contro le politiche di rigore.
Terza ragione, non penso che fossimo un mese fa all'ultima spiaggia. Ma su questo, come del resto sugli altri punti, sono largamente d'accordo con gli articoli di Ida Dominijanni ("Effetti collaterali", il manifesto 12/11 e "Baciare il rospo?" 19/11). Sotto il profilo politico l'erosione è avvenuta da un pezzo, da quando l'Urss è saltata e il Pci è saltato a piedi uniti sul carro liberista, come è avvenuto con Occhetto e D'Alema (ed era vagheggiato ben prima dai fautori dell'unità nazionale). Sotto il profilo economico se è vero che l'Italia è molto in basso - tre miseri BBB, rispetto agli sgargianti tre AAA della Germania e ai due della Francia - il suo indebitamento non s'è formato ieri, non per colpa precipua di Berlusconi, non è tutto in preda alle banche estere come quello greco, sarà un poco alleviato dalla manovra con la quale la Bce si svincola dalla stupida proibizione tedesca di finanziare i debiti degli stati. E soprattutto non si può ignorare che il rigore prediletto da Monti, a sua volta prediletto dal nostro Presidente, ha paralizzato la crescita - siamo dovunque in recessione (perfino la Germania rallenta), cresce dovunque la disoccupazione e calano le entrate pubbliche.
I sette pilastri della saggezza borghese vacillano non perché non seguano Bruxelles, ma perché la seguono come pecore. Basta guardare le misure, identiche, che nella crisi si prendono in Francia e in Italia. Se invece che Monti ci si fosse rivolti a qualcuno dei molti che del liberismo non ne possono più, non saremmo a goderci una reazione tanto onesta quanto spietata. Su questo siamo d'accordo?
Come si poteva sospettare, nel giudizio sul segno politico del governo Monti, Rossanda e Asor Rosa sono d’accordo. Non a caso il 20 gennaio presentavamo su eddyburg.it il testo di Rossanda, dal tono accentuatamente critico nei confronti di AAR, chiedendoci «Non scopriremo che dicono lq stessa cosa?».
Mi sembra peraltro che ci sia qualcosa che Asor Rosa vede e gli altri no (mi riferisco anche alle lettere aspramente polemiche comparse il 21 gennaio sul ). Mi riferisco al fatto che (1) il tandem Napolitano-Monti ha liberato l’Italia, almeno momentaneamente, da quella presenza inqualificabile del precedente premier, che rendeva impraticabile il confronto politico; (2) con il governo Monti ci troviamo di fronte a una chiara e “seria” proposta politica di destra. E’ con questa bisogna confrontarsi per combatterla. Non ci troviamo più di fronte a un guitto straccione con il quale si può dibattere soltanto alzando più forte la voce, ma a un avversario alle cui idee e proposte bisogna argomentatamente proporre le proprie. A mio parere (ma è un’opinione certamente opinabile) un avversario migliore obbliga noi stessi a essere migliori.
Ma proprio qui casca l’asino. Dov’è, oggi, una sinistra che abbia un’idea, una proposta politica, capace di rappresentare non solo i desideri e le speranze di molti (e le ricette di piccoli gruppi tra loro divisi), ma la base di una piattaforma politica capace di aggregare forze sociali significative? Il percorso da compiere, per arrivare dalle intelligenti analisi e dalle generose sperimentazioni a un disegno capace di diventare egemonico è ancora lungo. L’ideologia del neoliberismo ha conquistato il pensiero comune, a destra, nel centro e nella vecchia sinistra. E il nocciolo politico dell’articolo di Asor Rosa sta a mio parere proprio nell’immagine che egli suggerisce del PD e nella drammatica ambiguità che il grifone rappresenta. Finchè quella “sinistra” non si scioglie e non se ne ricompone una nuova sarà difficile vedere un nuovo inizio.
Ragioniamo. Ho letto così il discorso di Asor Rosa ("I sette pilastri della saggezza", il manifesto....). Dai pezzi sparsi - proponeva - cerchiamo di ricostruire il puzzle, mettendo in fila eventi e fatti, ciò che di nuovo è accaduto e sta per accadere. Un saggio da rivista, più che un articolo di giornale. Ma il manifesto è un giornale pensante. E dunque sta bene così. Il passaggio è inedito. Il salto rispetto all'immediato passato c'è stato. È compito di ognuno di noi riposizionarsi sul nuovo terreno, nell'analisi e nell'iniziativa.
Forse non era proprio adatto il titolo, credo dello stesso autore. C'è già troppa saggezza attribuita al professor Monti da parte dei suoi molti improvvisati amici, da potergliene attribuire, sia pure ironicamente, una buona dose anche da parte nostra. Io credo che i professori al governo raramente siano saggi. E quando poi si tratta non del filosofo-re, ma del tecnico economista, voi capite che le cose non sono destinate ad andare per il meglio. E tuttavia questa è la soluzione trovata, bisogna dire con abile mossa da vecchia cara politica, per sbalzare di sella, dopo tanti falliti tentativi, il malefico Cavaliere. Se per più di quindici anni si è fatta politica per raggiungere questo unico salvifico obiettivo, è pressoché inevitabile che il mutamento acquisti i segni di una sorta di miracolo di S. Gennaro. Questo spiega una cosa di cui bisogna tener conto: non è solo il ceto politico, è il popolo di centrosinistra, entrambi monotematicamente antiberlusconiani, a guardare con moderato favore a questa soluzione finalmente trovata. C'è già stato il dibattito sulla necessità o meno di baciare il rospo. Si tratta adesso di fare più che un passo in avanti. E il discorso di Asor Rosa ha il merito di cominciare a farlo. Come tutti i suoi discorsi, ci dà il modo di prevedere il tempo che fa, da parte di una cultura ancora e sempre impegnata.
Questo è un governo tecnico con una missione politica. Tecnicamente ha il compito di tirare fuori il paese dal momento acuto della crisi economico-finanziaria, politicamente ha il compito di traghettare il paese fuori dalla lunga deriva della crisi politico-istituzionale. Su ambedue i fronti occorre marcare una presenza, autonoma, critica, propositiva, alternativa anche. Questo vale, magari con ricette diverse, per l'intera sinistra. Abbiamo guadagnato un terreno più avanzato, di lotta e di proposta. L'opportunità va sfruttata. Torniamo a parlare di problemi veri: di come è strutturata questa società, non solo di individui ma di ceti, di quali rapporti di forza tra le classi la attraversano, di quali vincoli effettivi impediscono la crescita, di quale ruolo deve avere il lavoro nel modello paese, di quale futuro non precario per le giovani generazioni.
Insomma, questo governo è destinato, suo malgrado, a riaprire, in grande, fino a farla esplodere, una questione sociale, che nell'immediato passato era stata nascosta come la polvere sporca sotto un tappeto trapuntato. E lo sta facendo, direi, non con saggezza ma con insipienza: creando conflitti, come è tipico della mentalità tecnocratica, con le categorie di nicchia invece che con gli interessi di fondo.
Loro non sanno che alla fine decisivi non sono i numeri ma gli uomini, e le donne, alla fine quelle che contano non sono le cifre ma le esistenze. Il governo non è l'amministrazione di un'azienda, è il luogo politico della decisione, sociale, e poi economica, e poi finanziaria: in quest'ordine di gerarchia. Per fare questo, non ci vuole l'Università Bocconi, ci vuole il partito politico. Non ci vuole la tecnocrazia come supplenza, ci vuole la politica come professione. Senza rivincita dell'istituzione Stato, cioè del potere politico, nazionale o sovranazionale che sia, non ci sarà rilancio del meccanismo economico. I capitalisti moderni lo sapevano, l'avevano capito sull'urto di crisi ben altrettanto devastanti. Non lo sanno questi capitalisti postmoderni, e infatti non riescono a gestire la loro crisi, tanto meno sanno come uscirne.
Qui, si apre lo spazio per l'irruzione in campo di una sinistra del lavoro, di intelligenza e di potenza tale da poter dire: noi sappiamo come rimettere in sesto le cose, ma dovrete prima di tutto pagare voi la vostra crisi. L'utopia di un rovesciamento del rapporto di forza può vestirsi oggi di lucidi realistici panni. Ma guardate come volano basso e con quale scarsa immaginazione! C'è questa sorta di governo mondiale di coalizione - internamente rissosa come tutte le coalizioni di governo - tra Banche centrali, Fondo monetario internazionale, agenzie di rating, e qualche spezzone rimasto di capitalismo reale dominato da corporations, e poi c'è l'intendenza che seguirà dei governi nazional-provinciali. Ebbene, tutta questa immane superpotenza non sa fare altro che usare la crisi come un tempo gli Stati usavano la guerra. Il debito, a rischio default, è il nemico esterno che ci minaccia. I fondamentalisti col temperino impallidiscono di fronte a questa potenza di fuoco.
A combatterlo, questo nemico totale, sono, siamo, chiamati tutti, senza distinzione di condizione sociale, per garantire un superiore interesse. Il capitalismo non sa fondare un ordine sociale con la politica, lo deve fare con la guerra, previa mobilitazione, appunto, totale. E siccome siamo in piena pace dei cento anni, più o meno come nell'Ottocento, al posto degli eserciti combattono i mercati. Noi tutti, per esempio, vecchi lavoratori colpevoli di essersi conquistata una pensione di anzianità e giovani precari senza lavoro ma con la possibilità di spendere un euro per diventare imprenditori, ognuno e tutti dobbiamo indossare l'elmetto e combattere arruolati nell'esercito del supermercato Eurozona.
A questa guerra "in forma", con tanto di resuscitato jus publicum europaeum, va opposta, anch'essa possibilmente "messa in forma", una resistenza di massa. Indignarsi col megafono davanti ai portoni del Palazzo è generoso ma insufficiente. Cercare di introdursi, disarmati, nella stanza dei bottoni è inutile e perdente. Vanno rivisitate e aggiornate ambedue le postazioni, quella di lotta e quella di governo. Accordarle non è più possibile senza prima destrutturarle e ricostruirle. La risposta di movimento gridava: non pagheremo noi la vostra crisi. Quelli stessi che gridavano, quella crisi la stanno pagando. La risposta di governo delle varie esperienze di centro-sinistra, in Italia e in Europa, non è stata, essa, a mettere in crisi la fase neoliberista. Alla fine, in crisi ci si è messa da sola.
E'un dramma storico, di repliche dei fatti alle intenzioni, non più sopportabile. Bisogna assolutamente trovare la leva per sollevare il gigante che dorme. Questo corpo è un'opinione di sinistra, potenzialmente maggioritaria, che non riesce a marcare la propria forza e presenza. E perché? Perché, o non ha voce: l'assenza dal voto si può ragionevolmente pensare che esprima in buona parte questo orientamento. Oppure, ha troppe e troppo diverse voci: lasciando dietro di sé la tradizionale immagine del circo Barnum. Va messo in campo un potente processo di inclusione a sinistra: di strati, ceti, lavori, professioni, generi, culture. Costruito su un polo unitario magnetico. Finché ci saranno più sinistre, non ci sarà nessuna sinistra: con la forza di contare, e la determinazione a vincere. Nessuna volontà di omologazione delle differenze, ma la presa di decisione di farle vivere dentro un soggetto unico. È la condizione indispensabile per riprendersi quanto ci è stato sottratto: autonomia e iniziativa, più precisamente, autonomia culturale e iniziativa politica.
Sta maturando il tempo, passo dopo passo, di un abbandono, per questo nostro paese, delle sue anomalie. In fondo quello, alto-borghese, del Professore e dei suoi tecnici è, per ragioni diverse, un governo non meno "strano" di quello del Cavaliere e della sua corte feudale. Né dell'uno né dell'altro c'è stata e c'è traccia nei paesi avanzati, in Europa e in Occidente. Qualcuno disse che dovevamo avviarci ad essere un paese normale. E' il momento che si faccia il passo decisivo. C'è la fortunata coincidenza di un disfarsi, per consunzione, di questa sciagurata cosiddetta seconda Repubblica e del dissolversi, per via di crisi, di un'economia sregolata, infettata dagli spiriti animali mercatisti. Le due vicende hanno proceduto di pari passo. Prendiamo il governo Monti come l'atto finale della transizione. Quando ti arriva una scelta di sistema, che si presenta come obbligata, devi sapere subito come utilizzarla. Abbiamo capito che su di essa si esplicherà una manovra di ricomposizione centrista del fronte moderato. In questo senso, c'è una funzione politica del governo tecnico. Va esplicata una contromanovra di ricostruzione di un bipolarismo virtuoso, contro quello vizioso sperimentato fin qui.
La legge elettorale acquista allora un'importanza strategica. Un grande centro e una grande sinistra, depurati delle tradizionali espressioni ideologiche, sono gli interlocutori ideali di un confronto politico alto, all'altezza delle forze politiche che hanno fatto non la prima Repubblica, hanno fatto la Repubblica e basta. A destra, emarginate, le pulsioni populiste antipolitiche. Riconquistare la nobiltà della politica è possibile per questa via? Vediamo. Proviamoci. La svolta non è dietro l'angolo. Abbiamo un anno per seminare. E poi una legislatura costituente per raccogliere.