Il manifesto, 24 ottobre 2013
A questo programma di massima le elezioni europee della primavera prossima, come hanno sostenuto Alfonso Gianni e Tonino Perna, potrebbero fornire una prima occasione per riproporlo in tutti i paesi dell'Unione. I capisaldi di quel programma sono infatti già largamente diffusi e condivisi da un ampio arco di organizzazioni, anche se finora non sono ancora stati oggetto di un confronto diretto e non hanno quasi mai trovato espressione e rappresentanza in sedi istituzionali. Riguardano innanzitutto i diritti indicati precedentemente; poi la revisione radicale dei vincoli finanziari imposti dalle politiche di austerity che hanno colpito le economie, l'occupazione e le condizioni di vita nell'Europa mediterranea (per ora, ma il disastro si sta estendendo anche all'Europa centro-settentrionale). Riguardano in terzo luogo la riconversione ambientale del tessuto produttivo: sia per arrestare, con nuovi prodotti e nuovi mercati - soprattutto, ma non solo, di prossimità - la perdita di milioni di posti di lavoro e la chiusura di decine di migliaia di imprese grandi e piccole, condannate a morte dalla crisi, dalle politiche di austerità, dalle delocalizzazioni, dalla perdita degli sbocchi tradizionali; sia per creare nuove opportunità di lavoro e di impresa in attività dal futuro sicuro, perché servono a contrastare la catastrofe ambientale che incombe sul pianeta.
Il quarto punto è la emersione di una nuova classe dirigente - già in gran parte all'opera nelle pieghe dei movimenti, del volontariato e delle organizzazioni civiche - che sia espressione diretta delle istanze di rinnovamento che provengono dalle comunità in lotta e che si sia formata - anche tecnicamente - in questa nuova temperie. Perché la crisi in corso non dipende solo da politiche sbagliate; è causata soprattutto dal deterioramento morale e culturale dell'establishment europeo: non solo quello politico, ma anche quelli manageriali, imprenditoriali e accademici.
Ma il problema principale non è il programma; è la forza per metterlo in marcia. Dove trovarla? Non si può contare sulle forze politiche esistenti, o su una loro svolta radicale, a meno di una dissoluzione che ne liberi le componenti che aspirano a un vero cambiamento di rotta. Solo una crescita quantitativa e qualitativa degli organismi e dei movimenti che alimentano il conflitto sociale giorno per giorno può costituire un riferimento solido.
Molte e importanti esperienze ci forniscono un filo conduttore per unire le rivendicazioni e le buone pratiche più avanzate dei movimenti alla possibilità di dare una formulazione sintetica al progetto di un radicale rinnovamento della politica e dei suoi obiettivi; e anche alla possibilità di raccogliere intorno ad esso molte forze, sia sociali che morali e intellettuali, ancora in gran parte disperse. Questo filo conduttore è la promozione di una politica fondata sui beni comuni.
In Italia e in gran parte dell'Europa abbiamo di fronte due problemi di fondo: da un lato, imprese che chiudono, licenziano e non assumeranno mai più, mandando in malora patrimoni giganteschi di conoscenze, di esperienza, di consuetudine alla cooperazione, di vite distrutte; dall'altro, la necessità di offrire nuove opportunità all'esercito degli esclusi dal lavoro e dal reddito, o costretti a condizioni umilianti di subordinazione nella palude di un precariato senza prospettive. Si tratta dei giovani, i cui tassi di disoccupazione sono astronomici nei paesi dell'Europa mediterranea, ma in crescita anche nelle economie più solide; ma è una condizione che riguarda tutte le fasce di età: tanti e tante trenta-quarantenni (TQ) che nella loro vita hanno conosciuto solo precariato e tante e tanti cinquanta-sessantenni espulsi dal lavoro, a cui viene progressivamente sottratta la prospettiva del pensionamento. E poi i profughi e i migranti che, inseriti nel lavoro e nelle società, potrebbero portare un contributo decisivo sia allo sviluppo economico e culturale dei paesi europei che alla pacificazione dei loro; per contribuire poi insieme, quando potranno ritornare nelle loro terre, alla formazione di un unico grande popolo mediterraneo.
Ora, non si può continuare a intervenire sulle aziende in crisi delegando ai governi il compito di trovar loro un nuovo padrone. I nuovi padroni, quando si presentano, lo fanno solo - è esperienza quotidiana - per depredare l'azienda dei suoi capitali residui, del suo marchio, del suo know-how, delle sue attrezzature migliori, per poi lasciare i lavoratori sul lastrico. Non si può puntare sulle nazionalizzazioni o sull'intervento statale; e non certo per il fatto che l'Unione europea lo vieta. Su molte di quelle imprese gli Stati hanno fatto disastri non meno gravi delle gestioni private o privatizzate. E poi lo Stato italiano non dispone più, con la dismissione dell'IRI, di manager in grado di gestire un'impresa (tanto che ricorre sempre all'ottuagenario Bondi, che di disastri ne ha già fatti molti). Quelle aziende hanno bisogno di una nuova governance, composta dalle maestranze e dalle loro rappresentanze, dai governi locali e dalle associazioni di cittadinanza dei territori che le ospitano, dalle competenze messe a disposizione da università e centri di ricerca, in un regime che le riconosca come "beni comuni", né private né pubbliche, ma a disposizione delle loro comunità di riferimento. Un programma che vale, a maggior ragione, per recuperare a una gestione condivisa i servizi pubblici locali: acqua, energia, trasporti, rifiuti, scuole, gestione del territorio; le chiavi della conversione ecologica.
L'altro problema centrale è la quantità di energie, intelligenza, creatività e aspettative degli uomini e delle donne escluse dal mondo del lavoro, che potrebbero contribuire alla rinascita culturale e produttiva dell'Europa e, innanzitutto, dei paesi dell'Ue più colpiti dall'austerity. Per recuperare quelle energie bisogna sottrarle ai ricatti della miseria, della disoccupazione e del precariato, garantendo a tutti un reddito di base incondizionato: le risorse per realizzarlo sono molte meno di quelle che vengono dissipate in armamenti, grandi opere inutili, interessi sul debito pubblico, evasione fiscale, costi della politica. Ma una volta sottratte al giogo di una vita senza prospettive, la riappropriazione in forme condivise di beni comuni oggi inutilizzati o ceduti a operatori privati grazie ai favori della politica - case, edifici, monumenti, beni culturali, suolo urbano, terre pubbliche o incolte, spiagge, biblioteche, teatri, fabbriche e capannoni - insieme al sostegno finanziario e tecnico a progetti autogestiti di avviamento di impresa potrebbe liberare le energie necessarie per fermare il degrado con programmi di conversione ecologica condivisi e gestiti dal basso.
Per la critica del presente il lessico politico del Novecento è messo alla prova per definire una sinistra non subalterna. Da qui la critica dell'autore ai movimenti sociali, ritenuti "un'istanza simbolica". Ma così facendo l'obiettivo di una "potenza politica organizzata" rimane una visione». Il manifesto, 26 settembre 2013
Voci e visioni.
Autonomia, dunque, è la voce decisiva, quella con cui tutte le altre debbono misurarsi. L'elemento fondativo che non si limita a regolare, ma abbatte e istituisce, distrugge e crea. Non c'è rottura dell'esistente senza scontro con il nomos che lo fonda. Ma «Autonomia» non unisce, divide. Non è semplicemente il punto di vista incondizionato di una parte, ma anche i punti di vista che la attraversano e la lacerano. Che si fronteggiano e si scontrano. È la politica stessa, non una sua prerogativa esclusiva. Non basta rivendicare l'autonomia della politica dai poteri economici che la hanno asservita o sostituita. Autonomia è anche dalla tradizione, dall'influenza di paradigmi logorati, dall'uso paralizzante della storia, da quel concetto di esperienza, oggi in gran voga, che ci sconsiglia dal tentare qualsiasi esperienza ulteriore. Individui e collettività, movimenti e partiti, classi e corporazioni, governanti e governati, stati e istituzioni sovranazionali si fronteggiano in nome della propria «autonomia», aspirano cioè a darsi la propria legge, all'esercizio in proprio della Politica. Dove sta, allora, il confine tra le pretese degli interessi particolari e la politica come autonomia? Sta appunto in quella determinazione a istituire altro, a costruire un diverso paradigma, a gettare le fondamenta di un nuovo assetto che il tempo presente ha escluso perfino dal campo del nominabile.
Gli incerti confini
Ma quale è la mano in grado di impugnare il martello? Una classe dirigente, una élite (una avanguardia?) - risponde Tronti - capace di trasformare il popolo impolitico del populismo nel popolo politico dei lavoratori e orientarne l'azione. I lavoratori dunque. Chi sono costoro? Un arcipelago dagli incerti confini, la piena occupazione tanto integralmente realizzata da includere financo il suo contrario, coscienza e inconsapevolezza, indipendenza e subalternità, competizione e coopeazione, rabbia e ottundimento. È il capitale, in primo luogo quello finanziario che scorre nelle vene dell'intero pianeta, a governare questo puzzle di contrasti, a impugnare saldamente il martello, e non per fare della filosofia. A imporre la prevalenza del «dentro» sul «contro», della rendita sui bisogni e le aspirazioni della collettività umana. Fuori da ogni contratto sociale e dunque da ogni mediazione. Il raggio di azione della mediazione politica si limita oggi a quanto dentro il patto sociale è rimasto, sia pure l'esagerazione simbolica del 99 per cento. È invece indifesa e inefficace nei confronti dei poteri che ne sono usciti verso l'alto, godendo della più piena autonomia. Ma fuori dal contratto sociale vi è solo un crudo rapporto di forze. Non si può mettere allora a tema la politica senza mettere a tema la violenza. Chiedersi di che cosa si tratti, quale sia la forza e il modo di esercitarla che vinca senza annientare chi la mette in campo e le sue ragioni. È una «voce» che manca, anche se tutte le altre (stato, partito, crisi), ne sono attraversate, nei loro geni e nella loro storia. E gran parte dell'umanità la subisce in forme quotidiane ed estreme. Voce roca o addirittura impronunciabile, che Luisa Muraro ha preso in esame non molto tempo fa con un coraggio inconsueto per i tempi che corrono.
I lavoratori e l'élite dunque. Ma come si configura questo rapporto a partire da una condizione disomogenea, stratificata, perfino contraddittoria? Forse il motore delle lotte e la soggettività che le organizza non possono più essere pensati come un gruppo dirigente (che si rivela, più che altro, rissosa estensione della politica personalizzata). Piuttosto come un luogo di elaborazione, un blocco teorico e un tavolo operativo al quale si sovrappongono e si susseguono diversi commensali, portandovi sapere diffuso e molteplice esperienza, all'altezza del tempo presente e a confronto con la vita reale. Autonomia che non germoglia dalla separatezza, dalla professione intesa come corporazione, ma dall'aver appreso a orientarsi tra i paradossi della contemporaneità.
Il cattivo nuovo
Si dice che le rivoluzioni divorino i propri figli, e anche i loro padri. Lo si è visto, sempre. Che se così non fosse non si tratterebbe di rivoluzioni. Tra Rivoluzione e Partito non c'è rapporto lineare, c'è attrito, c'è contraddizione. La fondazione travolge i fondatori, e forse sarà proprio per questo che nessuno intende fondare più nulla. Ma Rivoluzione di tutte le «voci» è la più impronunciabile, in un tempo in cui non vi è tecnologo, pubblicitario o mattatore che non annunci quotidianamente la sua «rivoluzione». Rassegniamoci, non è una faccenda all'ordine del giorno, se non in questa inflazione retorica del termine.
Partito non gode di miglior fama. «Casta» o forse, più precisamente, milizia mercenaria, quella di cui Machiavelli ci invitava a diffidare, pronta a tradire per maggior guadagno e incline a fingere di menar le mani senza farsi troppo male. Ma non è vero che i partiti non rappresentino - scrive Tronti - rappresentano fin troppo, riproducono l'esistente, rispecchiano, non hanno nulla da dire o da proporre, inseguono i vizi e i capricci della cosiddetta società civile. Vero. Eppure c'è un rispecchiamento «contro». Quello che rovesciava l'organizzazione di fabbrica nel partito operaio, l'esercito industriale in esercito rivoluzionario. E oggi? Quali caratteristiche, quali forme dei poteri che ci dominano possono essergli rovesciate contro? Questo è il problema del partito oltre il partito, della «macchina da guerra», quella vera, non quella «gioiosa» della guerra dei bottoni. Il problema di maneggiare la realtà, compreso il «cattivo nuovo» che la pervade. Qualcuno, guardando al capitale finanziario, indica la parte dei debitori, la loro organizzazione contro la rendita (Maurizio Lazzarato), il sacrosanto rifiuto di pagare i costi della crisi, di piegarsi alla potenza del denaro che produce denaro. È un terreno interessante, temuto dai padroni della finanza, ma accidentato, infestato di compromissioni, minacciato da derive nazionaliste.
Oggetto della visione è invece la sinistra. Ci vorrebbe Bernadette per carpirne i segreti. Ha perduto molto. Cultura, radicamento, qualità antropologiche, concezione del mondo. Le ha tentate tutte: strategie mimetiche, «alleggerimenti», lo smart e il cool. Ha preso commiato dal vecchio linguaggio, ma non ne ha creato uno nuovo oltre l'imitazione impacciata di quello del mercato. Si è arenata sulla secca della «responsabilità». Ecco: essere di sinistra è essere responsabili! Verso chi e che cosa? Verso i patti a cui il capitale ci vincola senza esserne vincolato? Verso la Nazione e l'idea di popolo che ne discende? Verso il sistema delle leggi esistenti? Verso le regole della competitività? Poco importa, la «responsabilità» è diventata una qualità senza referenti, una sacralizzazione del limite che lo sottrae alla contingenza e lo proietta verso l'eternità. È la mancanza di alternative come dogma e come identità. Ma sinistra non è solo questo. C'è una storia e un retaggio concettuale che la collocano dalla parte degli oppressi, che oppongono il basso all'alto, un pensiero che svela gli equilibri oligarchici del potere e ricerca gli strumenti per scardinarli. C'è o c'era? Sinistra può ancora significare questa scelta di campo?
L'impasse della ambivalenza
I movimenti dal basso - scrive Tronti - sono la domanda, non la risposta. Idea non realizzata, ma da realizzare, una «istanza simbolica». Non credo sia produttivo porre la questione in questi termini. Né l'una, né l'altra cosa. Nella domanda stessa c'è buona parte della risposta, nell'idea i criteri della sua realizzazione, nelle forme dell'agire un principio di organizzazione, non testimonianza simbolica, ma imposizione di stati di fatto, pratica dell'obiettivo, come si diceva una volta. Certo, i movimenti possono perdere e, da un bel pezzo, continuano a perdere. Ma non è così anche per le forze organizzate della sinistra? Da dovunque partiamo siamo nella stessa impasse. Ma se non altro i movimenti quando perdono la partita lo capiscono ed è solo questa comprensione che permette di ricominciare, di radunare le fila e andare avanti. Se vi è un luogo dove l'autonomia, del pensiero e della pratica, ha ancora cittadinanza, è lo spazio dei movimenti. L'unico nel quale la politica si sforzi di sciogliere le ambivalenze del presente. Non ci riesce? Non basta? Certo che non basta. Ma se continuiamo ad attenerci allo schema delle masse che chiedono, delle élites che ascoltano, raccolgono e traducono in programma, già per il fatto che tutto questo non è accaduto, non accade né promette di accadere, i contorni di una «potenza politica organizzata» resteranno una visione, per la quale, appunto, servirebbe la mediazione di Bernadette.
La Repubblica, 23 settembre 2013
A quarant’anni di distanza i nodi della storia si sciolgono senza smettere di aggrovigliarsi. Per cui dinanzi all’anniversario del compromesso storico, la formula coniata da Enrico Berlinguer al termine di tre successivi articoli pubblicati su Rinascita tra il 23 settembre e il 12 ottobre con il titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, l’irresistibile tentazione è di far partire il ricordo da come era ridotta l’automobile, enorme e sgraziatissima berlina della nomenklatura, dopo lo spaventoso incidente mentre portava il segretario del Pci all’aeroporto di Sofia. Le foto si vedono in Sofia 1973: Berlinguer deve morire, di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti (Fazi, 2005). Era il 3 ottobre, a missione conclusa, e in quel groviglio di vetri e lamiere rese informi da un camion militare, Berlinguer riportò diverse contusioni, ma volle ripartire lo stesso. Allora in diversi, anche molto vicini a lui, maturò il sospetto, reso noto da Emanuele Macaluso nel 1991, che i bulgari avessero tentato di fargli la pelle. Perché troppo “indipendente” dalla casa madre del comunismo.
Ma quel 3 ottobre né l’intransigente leader bulgaro Todor Zhivkov, né le varie correnti del Kgb sapevano ancora nulla del compromesso storico. Eppure, grazie proprio a quel misterioso incidente, una volta rientrato in Italia, il leader comunista si mise a riposo, anzi a letto, dove con calma, «rassegnato all’immobilità » come raccontò poi a Vittorio Gorresio, ebbe modo di finire la seconda puntata e di scrivere per intero la terza, nel cui ultimo capoverso è presente la fatidica espressione.
Dietro quelle due parolette c’era un mondo oggi del tutto sparito e in parte anche dimenticato, se non rimosso. Il golpe cileno, i colpi di Stato, l’imperialismo americano. Ma nel retroterra non era difficile avvertire la lezione “geniale” di Lenin, più volte richiamata nel testo. Poi la duttilità dottrinaria di Gramsci. Quindi la tradizione del realismo togliattiano alla luce dell’elaborazione di Franco Rodano secondo il quale la “rivoluzione” era da intendersi in Occidente come un processo interno allo sviluppo della democrazia. Anche in questo senso avere il 51 per cento, come Allende, non serviva più, o non serviva ancora. C’era infine un’attenzione assai viva al mondo cattolico, alle gerarchie ecclesiastiche, al Vaticano, alla Dc, i cui continui sommovimenti vedevano in quello scorcio prevalere una composita maggioranza di centrosinistra. Ma soprattutto c’era Aldo Moro, che in estate a proposito della “difficile democrazia” italiana con linguaggio ispiratissimo aveva annunciato: «Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa, l’evoluzione e i movimenti dello spirito umano potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione». Per la cronaca: c’erano in quel momento anche il colera, Amarcord, rivolte nelle carceri e Jesus Christ superstar.
Tonino Tatò, che aveva il senso della solennità e di Berlinguer era l’angelo custode, ha poi descritto nei dettagli il momento preciso in cui il compromesso storico venne al mondo, durante la convalescenza: «Lui sta seduto in pizzo in pizzo alla poltroncina, dinanzi al tavolo tondo del soggiorno, in canottiera, pantaloni di flanella, pianelle di cuoio ai piedi, sigaretta accesa tra le labbra (allora fumava le Turmac rosse), occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo, biro con inchiostro nero nella mano destra, davanti a parecchi fogli». Ha quasi finito, ma l’ultima frase è tanto decisiva quanto incompiuta. Tatò chiede il foglio e legge: «La gravità dei problemi, le minacce incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo un...». È qui che Berlinguer si è fermato. Ma la parola che gli ronza in testa è sempre quella: “Compromesso”. Solo, occorre affiancarla con un attributo che le assegni «un senso di durata strategica». Inutile rimarcare che a quei tempi le parole, in politica, avevano molto più peso di oggi.
Quando il compromesso storico venne fuori, non fu accolto con benevolenza dai più attenti osservatori. «Formula infelice», decretò Gorresio; «vaga e rozza», scrisse Enzo Forcella. In un incontro con gli studenti lo stesso Berlinguer riconobbe che si trattava di un’espressione provocatoria usata anche per «destare attenzione». Questo in effetti accadde. Poco dopo, incontrando a Ravenna gli operai dell’Anic, gli disse uno di loro che sull’autobus la mattina non si parlava più di calcio, ma di compromesso storico. Tutto lascia pensare che Berlinguer abbia risposto con uno dei suoi indimenticabili sorrisi. Per cui: «Io non credo che sia proprio così, credo che si parli ancora e anche di calcio», d’altra parte non c’era niente di male e anche lui - ma in verità disse “anche noi” e non era plurale maiestatis, ma il più profondo sintomo d’identificazione - parlava di calcio.
A pensarci bene, dopo tanti anni, il compromesso storico teneva insieme due termini in contrasto fra loro. Nella retorica questa figura ha il nome di ossimoro. Ma non solo per questo dispiacque, oltre che al Psi, anche nello stesso Pci. Giorgione Amendola, che guardava ai socialisti, e Pietro Ingrao, che puntava sulla spaccatura della Dc, rimasero perplessi. Luigi Longo, il presidente del partito, disse chiaro - e suonò inaudito - che la formula non gli piaceva «e non so nemmeno se rende bene l’idea». Avrebbe preferito, con Gramsci, «blocco storico» - ma a quel punto era un’altra cosa. Sia come sia, Maurizio Ferrara diede poi alle stampe, in sonetti romaneschi, Er compromesso rivoluzzionario. Più tardi il Bagaglino mise in scena I compromessi sposi. Ma quando intorno al 1975 partì la solidarietà nazionale, dal terreno coniugale la faccenda scivolò sul piano orgiastico con “l’ammucchiata”.
Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là, ma forse proprio per questo dovettero suscitare parecchi timori, anche molto lontano dall’Italia. Nelle sue asciutte argomentazioni ideologiche il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva. E soprattutto arrivava troppo presto, eppure forse era già troppo tardi. A riprova che non solo la politica, ma anche la storia, con i suoi nodi e garbugli, e in fondo la vita stessa vivono, se non di ossimori, di cose molto complicate e solo in apparenza inconciliabili. L’orrido “inciucio” era comunque molto di là da venire.
«L’Unità, 13 settembre 2013
Per il momento si sa che si troveranno in una grande piazza di Roma il 12 ottobre. E che l’obiettivo è riempirla di centinaia di migliaia di persone, un po’ come quella piazza San Giovanni dei girotondi nel 2002. Per stoppare il processo di revisione della Costituzione, innanzitutto. Per dire no alla guerra in Siria e soprattutto per rianimare una sinistra dispersa, che non si riconosce nel Pd e neppure nel M5S, ma che è pure stufa dei fallimenti come l’Arcobaleno e la Rivoluzione di Ingroia.
Alla guida di questo nuovo movimento, che non vuole farsi partito, ma diventare una «massa critica», sono in cinque: Stefano Rodotà, Maurizio Landini e la professoressa Lorenza Carlassare, Gustavo Zagrebelsky e don Luigi Ciotti (gli ultimi due assenti ieri). «Nessuno di noi ha ambizioni politiche», mette subito in chiaro Carlassare, seguita a ruota dal leader Fiom che, quanto a candidature, punta solo a quella per succedere a se stesso alla guida dei metalmeccanici. La folla radunata al centro congressi Frentani di Roma, è quella dei grandi occasioni: sala strapiena, maxischermi, gente in piedi. I reduci non mancano, da Ingroia a Ferrero e Cesare Salvi, Casarini e Agnoletto. Vendola fa un salto, con Fratoianni e Migliore, ma più per un gesto di cortesia: Sel non è in prima fila in questa operazione. «Ma siamo attenti a quello che succede», dice il governatore pugliese. Corradino Mineo e Vincenzo Vita sono i due dem che tentano di fare da pontieri: ma basta che Vita citi il Pd che partono i fischi. E non è un caso che l’applauso più fragoroso arrivi quando Paolo Flores D’Arcais spiega che «come Blair è stato la vera vittoria della Thatcher, così se Renzi sarà l’unica alternativa Berlusconi avrà vinto ancora».
Rodotà tra le righe benedice i grillini sul tetto di Montecitorio, e se la prende con chi «li accusa di eversione e intanto cerca di sabotare lo Stato di diritto per salvare Berlusconi». Il riferimento è al Pdl, ma nel mirino ci sono lelarghe intese, il governo e anche il Quirinale quando, come dice Guido Viale, «c’è uno scambio tra la manomissione della Costituzione e il tentativo di garantire stabilità a questo governo».
Rodotà non usa giri di parole: «Questa maggioranza non ha legittimità per cambiare la Costituzione. E il governo stesso è figlio di un grave azzardo politico. Il fatto che si stia proponendo una sospensione temporanea del 138 non è un’attenuante. Di sospensione in sospensione non si sa dove si arriva. Chi poi invoca il cronoprogramma sulle riforme istituzionali mi fa sorridere. Qui non si sa neppure se il governo arriva a domani...». «No, non si può più girare la testa dall’altra parte», spiega il Professore, fotografato come una star, «ci vuole coraggio e dobbiamo prenderci qualche rischio: dobbiamo rimettere in moto la politica, che può voler dire anche preparare il terreno per un nuovo soggetto, senza ripetere gli errori della Sinistra Arcobaleno e di Ingroia, come la lottizzazione dei posti».
Per il momento, l’obiettivo minimo è «indurre a un ripensamento» il Pd che vuole cambiare la Costituzione. «La Carta va cambiata, non deve prevalere lo spirito conservatore», manda a dire il premier Letta da Cernobbio. E Rodotà replica tra gli appalusi: «Qui da noi non troverà conservatori, semmai nella sua maggioranza. E se l’obiettivo è cambiare il bicameralismo non c’è bisogno di stravolgere il 138». Insiste Rodotà: «Non saremo una zattera per naugraghi, ma una casa per una sinistra vincente su temi come i referendum sui beni comuni».
«Un soggetto politico? La nostra ambizione è molto maggiore», dice Landini. «È cambiare questo Paese ripartendo dalla Costituzione. Ci sono milioni di persone che non votano più e si sentono sole. Vogliamo costruire un movimento di pressione». Il leader Fiom va ben oltre lo stop alle modifiche alla Carta. «Non siamo più disponibili a firmare accordi che chiudano le fabbriche», dice dal palco tra gli applausi. «Metteremo in campo gesti di difesa totale delle fabbriche e dei posti di lavoro. Se necessario, anche con l’occupazione delle fabbriche». «Il lavoro deve avere una nuova rappresentanza politica», incalza il giuslavorista Piergiovanni Alleva.
Dal palco Carlassare parla di un «risveglio delle coscienze» e dice che «a qualcuno fa comodo guidare un gregge ignorante». Flores parla di un «golpe bianco strisciante» in corso e avverte: «Nelle prossime settimane ci giochiamo la chiusura del ventennio berlusconiano. E se la piazza sarà inferiore a quella del 2002 saremo sconfitti». Si parla anche dell’ipotesi di grazia per il Cavaliere, «un insulto alla democrazia», secondo Landini. Ingroia è in prima fila: «Sono con i partigiani della Costituzione».
La Repubblica, 5 settembre 2013
Dalla finestra dello studio del senatore Mario Tronti si sbircia il Borromini: la sua cupola di Sant’Ivo, tutta una controcurva, è un’antinomia barocca, una stravaganza, eppure sta in piedi. Un po’ come la sinistra. «Strana e affascinante », la osserva appoggiato al davanzale il filosofo, teorico dell’operaismo, che a 82 anni è la personificazione del pensiero critico della sinistra italiana. Di sé ha scritto, autoironico: «Sono anch’io un’antichità del moderno », non si vergogna della sua nostalgia per il «magnifico Novecento», ma osserva le controcurve del nuovo millennio.
Ha mai detto di se stesso "«sono un uomo di sinistra"? Qualcosa mi fa supporre di no...
Ha indovinato. Non lo direi mai, mi sembra banale. Penso che “sinistra” sia qualcosa di cui c’è necessità forse più che in passato, per quel che ha significato e può significare ancora. Ma vede, io sono un teorico della forza e non posso non vedere la debolezza della parola».
È sopravvissuta a parole che sembravano eterne, una sua forza l’avrà pure...
«Sì, quella che dovrebbe avere. Metodologicamente sono contrario ad abbandonare una definizione vecchia prima di trovarne una nuova che la sostituisca. Mantengo questa, allora, consapevole dei limiti, perché per adesso non ne ho un’altra. La vado cercando».
Ipotesi?
«In autunno uscirà un mio libro il cui saggio finale, inedito, si intitola La sinistra è l’oltre. Ecco, la sinistra dovrebbe coltivare qualcosa che va al di là del presente, ricostruire una narrazione, ma io preferisco dire visione, di quel che può esistere dopo la forma sociale e politica del mondo che abbiamo».
Non è sempre stata questo? Un movimento che «abolisce lo stato di cose presente »?
«A questo si erano dati nomi più forti, socialismo, comunismo, e più efficaci, perché dicevano immediatamente anche all’uomo più semplice che si andava verso qualcosa al di là dell’orizzonte».
Mentre sinistra è uno “stato in luogo”?
«Di certo non ha la stessa capacità di evocazione, serve magari a criticare il presente ma non contiene il futuro. È rimasta in campo, ma non è riuscita a creare quella grande appartenenza umana, antropologica, che le vecchie parole suggerivano. Forse “sinistra” riflette proprio questo passaggio dalla prospettiva all’autodifesa, dal movimento alla trincea».
Ma si diventa di sinistra? O ci si nasce?
«Ognuno ha la propria risposta. Non amo parlare di me, ma posso dirle che nel mio caso è stato quasi un fatto naturale, da giovanissimo, diventare comunista. Perché quella è stata la mia parola, subito. Ha contato molto l’estrazione popolare della mia famiglia, mio padre comunista col quadro di Stalin sopra il letto, mi sono immesso in quell’orizzonte in modo naturale, ovviamente da lì è partito un percorso lungo e critico...».
Fino alla dramma del crollo. Lei ha scritto: fu uno strabismo, credevamo fosse il rosso dell’alba, era quello del tramonto...
«Ma prima di questo avevamo già declinato la categoria del disincanto. Quando sono caduti nome e forma del partito, ricordo bene che in quel travaglio mi sono affidato a una scelta: rimarrò un intellettuale comunista in qualunque partito mi troverò a militare. E così ho fatto. Resto in quest’area, con la mia identità».
Una volta non era concepibile essere comunisti senza il partito.
«È diventata una scelta libera dalle strutture. Io mi sono iscritto presto nel filone del realismo politico, lungo la linea anti-ideologica Machiavelli Hobbes Marx Weber Schmitt... Essere comunista in questa linea non è facile, ma le grandi idee vanno portate dentro la storia in atto. Tra la visione e la politica c’è la mediazione della pratica, io devo tener conto di quel che c’è, e di come c’è».
Lei ha scritto anche: basta con gli aggettivi, ai sostantivi. Cosa voleva dire?
La parola sinistra è stata aggettivata tantissimo. Questo capita alle parole deboli. La differenza tra socialismo e comunismo è che il primo a un certo punto sentì il bisogno di aggiungere “democratico”. Il comunismo non lo fece mai. Non so se sia stato un bene o un male, forse è stata una delle cause del suo fallimento».
Ma quale strada porta all’oltre? Fare qualcosa di sinistra oggi sembra ridursi a una deontologia civica di onestà, rispetto...
«Da un po’ di tempo dico che si è aperta nel mondo contemporaneo una grande questione antropologica: il senso dell’essere qui, in un mondo allargato e transitorio, in questo disagio di civiltà che non è solo politico e sociale o economico. Come essere donne e uomini in questo mondo? La domanda vera è questa. Rispondo così: è importante avere un punto di vista, partire da una posizione. Che può essere soltanto parziale. In una società profondamente divisa non è possibile essere d’accordo con tutti. Certo una volta era più semplice, le parti erano chiare e distinte, erano le classi. La parte ora te la devi andare a cercare».
E come si riconosce?
«Per essere riconoscibile come parte, la sinistra dovrebbe dire una cosa semplicissima: siamo gli eredi della lunga storia del movimento operaio. Lunga storia, ho detto. Abusivamente ridotta a pochi decenni, quelli del socialismo realizzato, mentre viene dalla rivoluzione industriale, si diversifica nell’Ottocento grande laboratorio, affronta nel Novecento la sfida della rivoluzione...».
La perde...
«Quella storia del movimento operaio ovviamente si è conclusa, ma la storia resta storia. La Spd non è il mio orizzonte politico preferito, ma ha appena celebrato senza imbarazzi i suoi 150 anni di vita. Ecco, quello è un partito! Non può essere partito quello che azzera tutto ogni volta che viene convinto a farlo dalla contintingenza politica».
Cosa resta di quella storia?
«Una parzialità. La parte del popolo attorno a un concetto che non è sparito con la fine del movimento operaio: il lavoro. Una sinistra del futuro non può che essere la sinistra del lavoro come è oggi, complicato frantumato in figure anche contraddittorie, il dipendente l’autonomo il precario, il lavoro di conoscenza, quello immateriale... La sinistra dovrebbe unificare questo multiverso in un’opzione politica. Ma essendo anche un teorico del pessimismo antropologico, la vedo difficile ».
La politica al tramonto. È il titolo di un suo libro recente.
«Io teorizzo pessimisticamente il tempo della fine. Viviamo in un tempo della fine, lo dico senza emozioni apocalittiche che non mi appartengono. Ma è forse anche la fine del grande capitalismo e delle sue ideologie. Vede, la maledizione della sinistra dopo il Pci è stata non avere avversari di rango. Per essere grandi ci vogliono avversari grandi. Altrimenti, per tornare alla sua domanda sulla deontologia civica, si cade nella la deriva eticista».
Può spiegare meglio?
«La cosiddetta sinistra dei diritti, maggioritaria oggi. Quella che si limita a difendere un certo elenco di diritti civili, presentandoli come valori generali. Finisce per essere un intellettualismo di massa, un consolatorio scambio al ribasso. Basta qualche battaglia contro l’immoralità e ti senti a posto dentro questa società ».
La rivolta contro la “casta” sembra verbalmente forte e gratificante.
«La famosa antipolitica... La sinistra non ha messo a fuoco il pericolo vero, la sua violenza, il suo obiettivo vero, che è deviare lo scontento popolare su una base che per il potere è sicura perché non minaccia davvero le basi della diseguaglianza. Se non trovi lavoro è perché i ministri hanno le auto blu?».
Un’arma di distrazione di massa?
«Un disorientamento politico di massa. Le grandi classi non ci sono più, il conflitto frontale non c’è più, i grandi partiti neppure, ma la lotta di classe c’è ancora. Di questo mi permetto di essere ancora sicuro».
Il manifesto, 3 settembre 2013
Lo si potrebbe definire come il paradosso della confusione. In questa fase, seguita alla caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011, la confusione è massima. Le «larghe intese» ne sono un paradigma. Eppure il quadro dei conflitti è netto e si chiarisce ogni giorno di più. La faccenda dell'Imu e quel che le va dietro è un ottimo esempio. Sul piano politico è una vittoria limpida del Pdl e del suo capo, la dimostrazione della sua capacità di rappresentare e proteggere gli interessi della propria base elettorale contro ogni principio di equità e ragione economica.
Ed è per questo una massiccia dose di tritolo scaricata sul governo, con buona pace del presidente del Consiglio (il quale non per caso si è affrettato a prendere distanza dal suo stesso ruolo). Quel che le larghe intese mascherano, l'Imu (e l'Iva) svela. Concordi nel considerare inevitabile l'austerità - cioè la riduzione della spesa pubblica sociale - i due pilastri del governo si fanno la guerra in vista delle prossime elezioni, che la condanna di Berlusconi sembra avvicinare. La destra incalza. Di fronte al rischio personale del Cavaliere è pronta anche all'autodafé. Di contro, il Pd in stato confusionale indietreggia. Strabico, guarda con un occhio al Quirinale, temendone le ire, con l'altro al proprio interno, dove divampano lotte intestine. Di fronte allo scontro tra interessi non c'è grande coalizione che tenga. E qui, con buona pace della retorica, di interessi si tratta. Difatti un conflitto sempre più duro scuote sottotraccia anche la società, umiliata da questa ennesima «riforma» che regala due miliardi e mezzo ai più ricchi e sparge sale sulle ferite di chi stenta a campare. Un conflitto sociale al calor bianco, a malapena dissimulato dalle perorazioni patriottiche dei governanti.
Mai, da cinquant'anni a questa parte, la forbice della ricchezza è stata così aperta. Mai è apparso tanto chiaro e mortificante il divario tra garantiti e precari, tra privilegiati e umiliati. Non è una guerra di posizione, ma di movimento. Che, sotto l'ombrello mediatico della crisi, radicalizza le ineguaglianze decretando una mutazione genetica del modello sociale. La società italiana (come quella europea) si americanizza, assume i tratti di una oligarchia, traduce in termini castali le appartenenze di classe. Non è un fatto inedito. La presenza di una borghesia gaglioffa e predatoria («rurale» diceva Gramsci) è un dato cronico nell'Italia moderna. Solo che oggi non c'è nessuno a ostacolarla nella sua corsa ad arraffare per tesaurizzare. L'Imu, si diceva, è un ottimo esempio, materiale e simbolico. Ma si pensi anche alla vicenda, che sarebbe sconcertante se non fosse invece coerente con il tutto, del gigantesco regalo fiscale agli impresari del gioco d'azzardo. 98 miliardi di euro evasi dalle slot machine, ridotti a una micro-contravvenzione di 650 milioni. Come se si trattasse di benefattori e non di mafie. Come se non si contassero a centinaia di migliaia le famiglie italiane distrutte dalle ludopatie e dai cravattari. Come se non vivessimo nella culla dell'evasione fiscale, dove lo Stato con una mano squarta chi non ha vie di fuga e con l'altra alliscia il pelo a chi gli nega il dovuto. Vale la pena di parlarne ancora?
Dunque il quadro è chiaro. Le ragioni della politica e quelle della morale (della giustizia sociale, della democrazia costituzionale) divergono. L'una costruisce consenso a spese dell'altra. La ripresa autunnale sarà durissima, anche se alle parole dei vertici sindacali - finalmente, da ultimo, concordi nell'attacco alle scelte del governo - non dovessero malauguratamente seguire fatti. Sarà durissima anche sul piano internazionale, coi venti di guerra che tornano a sconvolgere il Medio Oriente scatenando lo spettro di un conflitto globale.
Di fronte a questo quadro qual è il nostro problema? Nostro, del mondo del lavoro subordinato (salariato o eterodiretto), precarizzato in massa e rapinato sistematicamente (10 punti di Pil, 160 miliardi, nei soli ultimi dieci anni). Nostro, dei senza lavoro (tre milioni e mezzo di cittadini degradati a paria, soprattutto giovani, soprattutto nel Sud). Nostro, dell'Italia democratica che non si rassegna allo scempio della Costituzione repubblicana e alla degenerazione civile e morale di questo paese. Nostro, di chi assiste sgomento da un quarto di secolo alla devastazione delle istituzioni e del territorio e della stessa civiltà nelle relazioni personali. Berlusconi non nasce dal nulla né per caso: è l'interprete e il simbolo di un'Italietta volgare e prepotente, prima che il figlio del suicidio pianificato della parte politica che sino agli anni '80 aveva, bene o male, tenuto fede all'eredità della Resistenza antifascista.
Il nostro è evidentemente né più né meno che un problema, drammatico, di non-rappresentanza. O, se si preferisce, di non-voce. Siamo tanti a non riuscire a parlare più, da anni, sulla scena politica, e a vedere negate le nostre ragioni sul terreno sociale. Almeno il 15% del Paese. Potenzialmente il doppio (quanti voti grillini vengono dai settori sociali massacrati dal neoliberismo postdemocratico?). Forse la maggioranza assoluta degli italiani. Ma siamo ciò nonostante - forse proprio per questo - dispersi e senza interpreti. Ridotti a un pulviscolo impotente, il che retroagisce sul sistema politico, azzerandone credito e legittimità.
Abbiamo riflettuto più volte su questa condizione e chiamato in causa gli errori e le responsabilità dei nostri gruppi dirigenti. Errori gravi, responsabilità storiche, poiché nulla imponeva che le cose seguissero questo corso, nulla impediva che la fine della «prima repubblica» vedesse sorgere una sinistra forte e unita (forte perché unita) capace di tenere le posizioni conquistate e di trasmettere all'Europa una domanda pressante di giustizia e di partecipazione democratica. Sta di fatto che siamo più che mai, qui e ora, mentre la crisi politica si avvita su se stessa, prigionieri di una micidiale impotenza.
Se questo è vero, com'è vero, è il momento di alzare la testa, se non vogliamo che una condizione di estrema difficoltà si trasformi nella morte della speranza. L'8 settembre - data fatidica - si avvicina, e con esso l'appuntamento dell'assemblea generale della sinistra convocata da Maurizio Landini e Stefano Rodotà. Il loro appello, rivolto a quanti intendono riempire un desolante vuoto politico e sociale, dev'essere ascoltato e raccolto senza indugi, senza tentennamenti. Raccolto e rilanciato con la ferma determinazione a lavorare finalmente per l'unità della sinistra italiana, del mondo del lavoro, del popolo della Costituzione, della partecipazione e della pace.
Sappiamo da dove viene il pericolo. Conosciamo le riserve di chi aspira a proteggere la propria piccola riserva, traducendo la partita politica a misura dei propri destini personali o di consorteria. Ma confidiamo in un sussulto di intelligenza politica e morale. Non è chi non veda quanto alta sia la posta in gioco in questi mesi, in queste settimane. Non si tratta di suonare la campana apocalittica per suscitare qualche emozione. Se anche la prossima legislatura vedesse la sinistra relegata al rango di comprimario ininfluente, è molto probabile che anche in Italia il discorso si chiuda per sempre come nelle «grandi democrazie» occidentali, in cui l'opposizione sociale non è rappresentata e scade a semplice virtualità.
Questa volta ci giochiamo molto, forse tutto. Ritroveremo una speranza se sapremo vedere il molto che ci unisce, al di là di appartenenze ormai obsolete. Se invece prevarranno ancora spinte corporative avremo mancato un'occasione preziosa. E ci saremo anche noi aggregati - consapevoli o no - al seguito dei fautori delle larghe intese.
Insisto: conviene in questo momento, anzi bisogna, tenere ben separate la sfera dell'applicazione e difesa della legalità repubblicana dalla sfera delle opportunità politiche, vulgo sopravvivenza o meno del "governo delle larghe intese". Le due sfere non sono reciprocamente comunicanti: chi lavora per metterle in relazione, bilanciare, equilibrare, spossare, depotenziare, lavora per il Re di Prussia, ossia contro l'Italia.
La prima sfera viene oggi decisamente al primo posto, sia cronologicamente che logicamente, e va affrontata e risolta nella propria assoluta autonomia di competenze e di giudizio. Anche qui possono esserci, e di fatto ci sono, contrapposizioni e abili sfumature di giudizio, forse più pericolose delle prime. Tutto dipende dalla valutazione etico-politica che ognuno dà dei fenomeni che sono alla base dell'attuale dibattito. Noi ci sentiamo profondamente diversi (davvero un'altra Italia) da coloro che per anni non hanno imparato a considerare Berlusconi e il berlusconismo come un vero e proprio cancro che ha divorato in Italia le basi del diritto, la funzione e le prerogative della giustizia, la base morale del far politica, e ha avallato in ogni campo le strategie dell'avventurismo e del privatismo più sfrenato.
Se si vuole salvare la salute futura di un sistema di valori, democratico, repubblicano, costituzionale, messo in piedi dal sacrificio dei nostri padri, occorre mettere un punto fermo: anzi, dico io, il punto fermo.
Per ottenere questo, oltre tutto, la strada è assai semplice: basta che ognuno faccia la sua parte, nella distribuzione dei ruoli che l'assetto istituzionale prevede: assicurare la decadenza; sanzionare la ineleggibilità; nessuna grazia a posteriori, neanche di tipo semplicemente risarcitorio o consolatorio; garantire l'esecuzione della pena nelle forme previste dalla legge. E, per favore, ci sia risparmiata almeno questa volta la farsa penosa di un ricorso dilatorio (infondato e inutile) alla Consulta, che svelerebbe, forse ancor più drasticamente di quanto non farebbe una qualche forma di "assoluzione", di quale pasta sia fatto il cosiddetto tessuto politico italiano.
Dopo aver detto "sì" per vent'anni o, ancor più frequentemente, "nì", - vero simbolo del malcostume nazionale, - si decida per favore di dire con chiarezza "no": non si può discutere; non si può accettare; non si può fare. L'"agibilità politica" è una nozione che lo Stato di diritto ignora. Infatti: o c'è, perché le condizioni, giuridiche e politiche dell'interessato, la consentono; o, se le condizioni, giuridiche e politiche dell'interessato, non la consentono, non c'è. Non può essere reinventata a posteriori, sulla base del principio, in ogni caso molto dubbio, che il consenso popolare sottrae al controllo e ai rigori della legge.
Un'Italia in risalita, non solo nei mercati e nello spread, ma come tono pubblico generale, civiltà del confronto, libertà del pensiero e, se mi è consentita la parola forte, dignità nazionale (troppe volte evocata solo per lasciarla trascinare nel fango), può partire solo dal punto fermo che ipotizziamo. L'occasione ce l'ha offerta anche questa volta la magistratura; ma spetta ai politici e alle istituzioni di portarla rapidamente fino in fondo.
Non sarà facile, anche restando dentro i limiti rigorosamente fissati dalla "semplice" applicazione delle leggi (come io ipotizzo). Siccome la battaglia è decisiva, - e questo lo sa bene anche il principale protagonista della faccenda, - tutti i mezzi verranno usati, dal rovesciamento dell'attuale governo (esempio supremo di confusione delle sfere) a intraprese anche più dure. Sotto la scorza mediatico-plutocratica emergerà più chiaramente in questa fase finale il caudillo potenzialmente eversore. Verrà evocata senza mezzi termini la guerra civile; ne saranno messe in opera concretamente le premesse, magari attraverso l'alleanza con altre forse eversive incistate ormai da anni nel degradato sistema italiano.
Per fare fronte allo scarto d'irrazionale che s'introduce qualche volta e poi permane a tratti nella storia, l'esperienza insegna che l'unico strumento adatto alla bisogna, - si pensi al Novecento, - è l'assoluta fermezza: l'eloquente dimostrazione, fin dal primo momento, fin dalle prime battute, che l'eversione, il rovesciamento delle parti, lo stupido arrangiamento, il compromesso che posticipa al passaggio successivo l'inevitabile catastrofe, non hanno neanche una minima possibilità di fare il primo passo avanti.
Ci si aspetta perciò che, all'adozione della linea giusta, - il rispetto e la difesa della legalità repubblicana a tutti i costi, - segua al tempo stesso tutta la fermezza necessaria a portarla fino in fondo (anni fa evocai i carabinieri come forza utile/necessaria a render efficacemente praticabile lo scioglimento positivo di una situazione del genere, e fui subissato dalle indignate reazioni dei media: chissà se mi accadrebbe la medesima cosa, se ripetessi oggi il suggerimento e l'appello, in presenza delle occasioni di cui stiamo parlando).
Se il processo, andando per questo verso, producesse tutte le sue possibili conseguenze, forse uno spiraglio di luce si aprirebbe nell'annuvolato, anzi torbido e tempestoso cielo italiano. Che dire del possibile ritrovamento, imboccando questa strada, nel nostro paese di una prospettiva politico-istituzionale, in cui le forze politiche rappresentassero limpidamente grandi interessi sociali collettivi, diversi e/o contrapposti, e non quelli, privatistici e assolutistici, e per giunta le innominabili magagne, di un Capo proprietario?
L'Italia ne ha passate tante, uscendone ogni volta solo quando ha ritrovato le ragioni profonde, autentiche, del proprio essere nazione civile, coesa intorno all'unico verbo che fa unione: l'onestà dei propositi, dei comportamenti e degli obbiettivi. Prima di parlar d'altro, parliamo di questo. Questo è il punto.
«Il primo problema è che questa sinistra non vuole prendere atto dei propri errori strategici: non è un caso che l'Italia sia praticamente l'unico tra i grandi paesi europei che non abbia in parlamento una formazione che rappresenti l'ampio popolo della sinistra».
Il manifesto, 22 agosto 2013
Troppo spesso appaiono agli occhi della gente comune come politici di professione che difendono il loro orticello e la loro fettina di potere (istituzionale, accademico, sindacale o di qualsiasi altra natura). La sinistra a sinistra del Pd è scioccamente divisa, e soprattutto lontana dalle esigenze e dai movimenti popolari che, nella crisi, si radicalizzano e cercano interlocutori affidabili per le loro istanze di cambiamento. Ma non vedono ancora nuovi leader per la trasformazione sociale.
Che lo spazio a sinistra sia potenzialmente enorme lo dimostra il grande successo di Beppe Grillo. Beppe Grillo ha conquistato alle ultime elezioni quasi 9 milioni di voti; nonostante la sua ideologia estremista di democrazia diretta contro tutti i partiti, l'80% del suo programma è compatibile con quello di una sinistra radicale, a partire dalla difesa della Costituzione contro il presidenzialismo, dal reddito minimo garantito, dalla lotta contro il regime berlusconiano, contro gli F35 e la corruzione dilagante. Perché Grillo è riuscito a costruire un'opposizione potente e radicale e la sinistra cosiddetta alternativa invece no?
Grillo ha perso un'occasione storica rifiutando un nuovo governo con Bersani e il Pd. Poteva svoltare e formare un governo di cambiamento ma ha deciso invece di rifiutare ogni alleanza e ha favorito oggettivamente Berlusconi. La responsabilità è di Grillo, della sua prepotente autocrazia e della sua immaturità politica. Ma se la sinistra minoritaria continua così è destinata solo a fare testimonianza, a essere ininfluente, e forse alla fine a sparire del tutto.
Il primo problema è che questa sinistra non vuole prendere atto dei propri errori strategici: non è un caso che l'Italia sia praticamente l'unico tra i grandi paesi europei che non abbia in parlamento una formazione che rappresenti l'ampio popolo della sinistra. In Grecia Syriza ha conquistato il 26% dei voti ed è il secondo partito; in Germania la Linke ha preso l'11% dei voti alle elezioni federali; in Francia il Fronte di Sinistra di Jean-Luc Mélenchon ha preso alle ultime presidenziali l'11% dei voti.
Occorre quindi cominciare ad analizzare in maniera severa, e anche spietata, gli errori della sinistra, a partire da Sel, la formazione più significativa. Nichi Vendola si è posizionato come corrente esterna del Pd con l'obiettivo di fare come la mosca che vuole spostare l'elefante. Ha abbracciato l'alleanza con Bersani che cercava l'alleanza con Monti - l'austero rappresentante del mondo finanziario nazionale e internazionale-. Ma Bersani dopo avere perso clamorosamente l'occasione di andare al governo, oggi sostiene anche il governo Letta delle larghe intese promosso anche da Silvio Berlusconi. Attirando affettuosamente a sé Vendola, Bersani è riuscito comunque a raggiungere un obiettivo importante: quello di distruggere la possibilità di una forte formazione politica autonoma alla sua sinistra. Tuttavia, fallito l'obiettivo governativo di Bersani, è fallita anche la strategia di Vendola: conquistare la direzione del Pd a colpi di vittorie nelle primarie. Ma la scalata ai vertici del centrosinistra è palesemente mancata, e non poteva essere altrimenti. Le primarie rappresentano una novità ma caratterizzano i partiti elettorali americani e deprimono la militanza organizzata della base.
Occorre prendere atto che il Pd non è neppure un partito socialista, non aderisce al gruppo socialista europeo; pur composto da ex comunisti ed ex democristiani, è spostato al centro e certamente non si farà mai scalare dalla sinistra. Forse riuscirà invece a scalarlo con campagne mediatiche all'americana il rottamatore Renzi che in nome del nuovismo ripropone però la vecchia politica liberista. Vendola si trova dunque, suo malgrado, a fare opposizione a un governo, a guida Pd, moderato a parole, nei fatti garante della piena subordinazione all'austerità imposta dall'euro tedesco, pronto a modificare la Costituzione per introdurre un presidenzialismo autoritario.
Intendiamoci: il Pd, anche se complessivamente diretto da professionisti moderati della politica, ha un elettorato popolare che certamente è collocato a sinistra; e in prospettiva l'alleanza con il Pd e con il M5S di Grillo diventerà essenziale per formare un governo di sinistra. Ma subordinare tutta la politica della sinistra alternativa all'alleanza con il Pd è suicida.
Bisogna però sgombrare il campo da un'altra illusione un po' infantile: che sia possibile costruire una nuova formazione di sinistra solo grazie ai movimenti. Sono ovviamente la base di tutto: la storia dimostra però che tutte le formazioni politiche non nascono solo dal basso ma anche dall'alto. Le nuove organizzazioni politiche nascono dalle crisi dei regimi precedenti e dai movimenti sociali. Ma anche, e forse soprattutto, da nuovi ideali e visioni intellettuali, da nuove culture ed elaborazioni politiche, da nuovi ceti dirigenti che si organizzano dall'alto. E' per questo che anche le attuali organizzazioni politiche sono importanti. L'avversione di molte persone di sinistra verso le organizzazioni della sinistra radicale è in parte giustificata, ma, se diventa radicale e totale, dimostra primitivismo politico o anche settarismo intellettuale. La battaglia critica delle idee può essere spietata ma nessuno può davvero proclamarsi migliore degli altri. E dentro le formazioni politiche della vecchia "nuova sinistra" militano molte ottime persone che da anni lottano per un diverso mondo possibile: non esiste alcuna ragione per sbarazzarsi di loro e della loro esperienza.
Ben vengano le iniziative contro il fiscal compact, la precarizzazione del lavoro, il presidenzialismo e il pareggio di bilancio in Costituzione voluto da tutte le forze governative, Pd compreso. Ma per avviare un nuovo corso, occorrerebbe innanzitutto riconoscere i propri errori, riformulare le visioni e le strategie, superare i settarismi minoritari, elaborare programmi comuni. Difficilmente Paolo Ferrero riuscirà a rifondare il comunismo: ma, dopo essere stato scottato dall'esperienza affrettata e dilettantesca della lista Ingroia, il suo appello a superare rapidamente le divisioni è fin troppo giusto: infatti il governo Letta potrebbe cadere presto e già nel 2014 verrà eletto il nuovo Parlamento europeo. Prendiamo atto che ciò che unisce questa (finora deludente) sinistra è comunque molto più di quello che la divide.
La Repubblica, 8 agosto 2013
«Cosa vuol dire esseredi sinistra? È un impulso prepolitico, una radice antropologica che viene primadi una scelta di campo consapevole. Davanti alle disparità di classe o di censoo di condizione sociale, c’è chi si compiace, traendone la certificazione delproprio essere superiore. E c’è chi si scandalizza, come capitò a NorbertoBobbio quando scoprì da bambino la miseria dei contadini che morivano di fame.Lo “scandalo della diseguaglianza”, lo chiamò proprio così. Un’indignazionenaturale, che non è comune a tutti». Nella casa dove visse Gobetti, tra i libridi Antonicelli e i grandi faldoni dell’azionismo, Marco Revelli ci fa stradalungo i segreti cunicoli di un palazzo ottocentesco, da cui forse ha inizioparte della storia. Una storia di sinistra che nel caso di Revelli — classe1947 e una nutrita bibliografia tra storia, economia e sociologia — s’incarnaanche nella figura del padre Nuto, cantore del “mondo dei vinti” e miticocomandante di Giustizia e Libertà. «Una montagna troppo alta da scalare», diceil figlio con la mitezza di chi se lo può permettere.
Intervista di Eleonora Martini a StefanoRodotà: «Sto pensando a un modo di unire le forze di quei soggetti civili,politici e sociali tornati da tempo protagonisti e che ora non possono piùessere trascurati».
Il manifesto
La grazia a Berlusconi?
Mentre per il Financial Times «cala il sipario sul buffone di Roma», Sandro Bondi usa toni apocalittici minacciando la «guerra civile». Frasi che il Quirinale giudica come «irresponsabili». C'è da preoccuparsi o è solo un'altra farsa?
Ciò che sta avvenendo non è solo una reazione simbolica, rivolta a impressionare l'opinione pubblica. I comportamenti tenuti sono qualificabili come eversivi, nel senso che negano i fondamenti della democrazia costituzionale... La richiesta ufficiale del Pdl che, dicono, formalizzeranno nell'incontro con Napolitano, è di «eliminare un'alterazione della democrazia». Sono parole e comportamenti da valutare come rifiuto dell'ordine costituzionale. Al di là delle conseguenze, non si può cedere ancora all'abitudine di derubricare e sottovalutare quelle che vengono considerate «intemperanze verbali». Sono molto colpito dalla parola «irresponsabile» attribuita al presidente Napolitano, che di solito è molto cauto. Ma è evidente che la situazione configurata da Berlusconi e dal Pdl - considerare «un'alterazione della democrazia» una sentenza passata in giudicato - è eversiva. È un fatto di assoluta gravità che non possiamo sottovalutare.
Dunque i toni apocalittici vanno presi sul serio?
Assolutamente sì.
Ma non era tutto prevedibile?
Certo, il governo delle larghe intese è stato un grandissimo azzardo perché tutti sapevano che in pista c'era la vicenda giudiziaria di Berlusconi e che il Pdl non avrebbe certo mostrato responsabilità. Si è scelta questa strada nella speranza che non sarebbe accaduto, ma la storia di Berlusconi, fin da quando rovesciò il tavolo della bicamerale di D'Alema per sottrarsi al giudizio, testimonia esattamente che tutto era prevedibile. E allora oggi confidare in un ravvedimento operoso è pericoloso. Perché Berlusconi può continuare a condizionare pesantemente non solo il governo ma l'intero sistema costituzionale. Presidente della Repubblica, parlamento, magistratura: l'intero sistema costituzionale è in questo momento sotto ricatto.
Un ricatto che rischia di immobilizzare in ogni caso Napolitano. Secondo lei, il capo dello Stato dovrebbe concedere la grazia a Berlusconi?
No. Indipendentemente dai toni, penso che Napolitano non debba concedere la grazia. E sembra che il Quirinale vada prudentemente in questa direzione. Napolitano dovrebbe dire e dirà che una richiesta proveniente da Schifani e Brunetta è irricevibile dal punto di vista formale, anche perché per concedere la grazia vanno prese in considerazione una serie di condizioni, non ultima la condotta del condannato. Su Berlusconi invece pendono altri procedimenti e una condanna di primo grado nel processo Ruby. Rispetto a una persona che ha questo profilo, si può intervenire con un provvedimento di clemenza? Ma c'è di più: una grazia all'indomani della condanna assumerebbe la funzione di un quarto grado di giudizio, cioè una sconfessione della magistratura, facendo di Napolitano una sorta di super-Cassazione che elimina tutti gli effetti della condanna. È un rischio istituzionale che non va corso.
Ieri sul manifesto il presidente della Giunta per le autorizzazioni Dario Stefano ha ricordato l'iter istituzionale che seguirà la decadenza di Berlusconi da senatore. Non è un atto dovuto, dunque?Ricordiamoci che Alfano ritirò la fiducia al governo Monti dopo l'approvazione della norma sulla decadenza e sull'ineliggibilità. Naturalmente la decadenza dovrebbe essere un atto dovuto e questo passaggio previsto in Parlamento può apparire una singolarità. Ma la legge è molto chiara sul punto: il passaggio in Parlamento è una presa d'atto di un provvedimento operativo nei confronti di uno dei suoi membri. La procedura può essere anche macchinosa ma l'esito non può essere discrezionale.
Il voto non riserverà sorprese?
Forse, visto che la legalità per una certa parte politica è un optional. Ma al Senato c'è una maggioranza che va ben al di là dei numeri del Pdl; sarebbe un fatto davvero istituzionalmente inqualificabile.
Come mai ora sarebbe «necessaria» quella riforma della giustizia fin qui ritenuta «impensabile»?
Appunto. Questa riforma assume il significato della rivincita politica di Berlusconi nei confronti della magistratura. Riscrive - nella situazione drammatica che vive l'Italia - le priorità dell'agenda come condizione per far vivere il governo. Ma anche questa non è una novità. Faccio un solo esempio: quando si costituì la Commissione bicamerale D'Alema Berlusconi chiese che al primo posto fosse iscritta la questione giustizia. Non era compresa tra i compiti della commissione ma ne divenne l'architrave, per accontentare Berlusconi. E infatti, come ci ha rivelato alcuni giorni fa l'ex ministro Flick il suo pacchetto di riforma della Giustizia venne allora bloccato; D'Alema stesso glielo chiese con una lettera. Non si può continuare su questa strada.
Nemmeno con il lavoro dei «saggi»?
Considero quella commissione istituita solo per dare consigli, che non può diventare in nessun modo politicamente rilevante né tantomeno vincolante. E in più ritengo nel merito largamente inaccettabili le loro proposte.
Settembre è un tempo breve e lungo insieme. E il M5S ha smentito di essere disponibile a un governo, sia pur programmatico, con il Pd.
Indipendentemente dalle dichiarazioni del M5S, il Pd dovrebbe porre il problema di sciogliere le camere solo nel caso fosse accertata la mancanza di una maggioranza per costituire un governo, anche di breve durata, che si faccia carico immediatamente della riforma della legge elettorale. Ed è un problema che si presenta solo al Senato. Ma è un passaggio politico che richiede iniziativa, coraggio e lungimiranza politica da parte dei partiti; non ci si può solo chiedere cosa farà il capo dello Stato. Lui deve essere lasciato nella condizione di fare il suo lavoro ma non nel vuoto politico che si era determinato quando i tre responsabili dei partiti che oggi costituiscono la maggioranza, incapaci di eleggere un qualsiasi presidente della Repubblica, si ripresentarono da Napolitano facendo una mossa politicamente gravissima, dettata da debolezza politica.
Lei stesso ne fu protagonista...
Venni coinvolto ma oggi guardo alla vicenda con distacco. Piuttosto come allora in questo periodo, non solo in questi giorni, si è sedimentato attorno al tema della difesa della Costituzione - ma in senso alto: difesa dei valori e dei principi - un'attenzione di forze sociali politiche e civili che non può essere assolutamente trascurata. Ci sono state moltissime iniziative, tra le quali io metto anche l'ostruzionismo parlamentare di Sel e del M5S che ha inseguito la forzatura dell'approvazione ai primi di agosto della legge sulla revisione costituzionale. Ma in questo momento sono necessario iniziative non solo per sostenere la difesa di questi principi ma anche per porre le forze politiche davanti alla loro responsabilità.
Quali iniziative?
È ancora presto per dirlo, con altri abbiamo appena cominciato a pensarci, ma qualcosa è assolutamente necessario fare.
Potrebbe tornare lei stesso protagonista?
I discorsi da protagonista li ho sempre scartati. Dico solo che oltre alle responsabilità dei partiti, c'è una responsabilità propria di soggetti politici sociali e civili che in questo periodo si sono mobilitati - ne abbiamo visto un esempio a Bologna il 2 giugno - e che devono trovare forme di espressione. Non è questione di investitura, semmai l'investitura l'hanno ricevuta in molti e questo è il momento di unire le forze...
La Repubblica, 4 agosto 2013
Il Partito Democratico si aggroviglia in una diatriba che è sulle sue interne regole del gioco ma ha implicazioni ben più estese. Per questo le sue vicende convulse vanno seguite con attenzione e analizzate con occhio critico, con il pensiero rivolto alle ricadute sulla politica nazionale. La disputa su chi ha diritto di votare per il segretario (che per statuto sarà poi anche il candidato premier alle prossime elezioni politiche) riguarda tutti noi, non soltanto i democratici. Quando fu fondato, questo partito fu pensato e strutturato come se dovesse diventare il protagonista di una democrazia bipolare all’americana e con vocazione presidenzialista. Questa era la visione di Walter Veltroni. Liquidata la piramide di organismi che governavano iscritti/e e articolavano idee politiche sulle quali identificarsi e a partire dalle quali dare battaglia agli avversari, il nuovo partito doveva essere un’associazione leggera di simpatizzanti e soprattutto votanti di leader e candidati. Una macchina per registrare il consenso elettorale più che farsi promotrice di creare consenso sulle idee. Lo statuto del partito riflette questa trasformazione.
Ecco la definizione contenuta nel primo articolo: “Il Partito Democratico è un partito federale costituito da elettori ed iscritti”. Costituito da chi ha diritto di voto, cioè, quindi idealmente da tutti noi cittadini/e italiani/e. Non solo dagli iscritti. Potrebbe sembrare che questa visione inclusiva sia in sintonia con la natura democratica – non chiudere le paratie con la società, rendere il partito permeabile e aperto a tutti in ogni momento. È una visione peculiarmente post-partitica per la quale la figura più importante (quella che oggi fa più discutere) è quella dell’elettore, non dell’iscritto. Gli elettori possono certo votare questo partito quando lo ritengono opportuno, ma non sono per questo parte “del partito democratico” come lo sono invece gli iscritti. Questi, non i primi, sono i componenti del partito, perché questi, non i primi, hanno rinunciato alla segretezza del voto dicendo a tutto il mondo da quale “parte” stanno. È questa la ragione per la quale sarebbe ovvio pensare che le cariche del partito siano oggetto di decisione da parte di chi si dichiara pubblicamente legato alla “parte”. La scelta del segretario dovrebbe competere a chi è espressamente parte. Semmai, questa inclusione universale potrebbe essere adattata alla scelta del candidato premier (come avviene negli Stati Uniti), benché anche in questo caso le paratie dovrebbero poter essere abbassate in qualche punto del grande oceano del corpo elettorale, affinché destra e sinistra non si confondano come in un grande minestrone di idee e interessi pronti a salire sul carro dell’ipotetico vincitore.
Ecco dunque che lo statuto definisce anche gli “elettori/ elettrici” democratici. Lo fa al comma 3 dell’articolo 2: “Ai fini del presente Statuto, ove non diversamente indicato, per ‘elettori/elettrici’ si intendono le persone che, cittadine e cittadini italiani nonché cittadine e cittadini dell’Unione europea residenti in Italia, cittadine e cittadini di altri Paesi in possesso di permesso di soggiorno, iscritti e non iscritti al Partito Democratico, dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrate nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori”. L’elettore che dichiara il proprio voto e quindi rinuncia a quelle garanzie di segretezza di cui godono tutti gli elettori italiani secondo la Costituzione, viene a costituire un altro raggruppamento, diverso da quello degli iscritti. Gli “elettori/e” sono elencati in un Albo che è pubblico e per questa ragione possono, come gli iscritti, partecipare alle scelte elettorali – votare per il candidato segretario e per il candidato premier. Si intuisce quanta importanza possa avere per i candidati fare affidamento su pacchetti di “elettori/ elettrici”. Alla fine dell’elezione, gli iscritti contano assai meno degli “elettori/elettrici” in quanto il loro numero è molto più basso e poi non tende, come quello degli iscritti all’Albo, a variare in coincidenza con le elezioni del segretario o del premier.
Lo statuto del Partito democratico ha come si vede una vocazione plebiscitaria, per la quale il collettivo degli iscritti ha meno rilevanza del numero dei votanti (anche per questa ragione la sua vita politica interna è molto povera). Una vocazione che interpreta la partecipazione come plebiscito che deve confermare l’appetibilità di un leader e della sua immagine, piuttosto che mettere a fuoco un programma di governo. Questo si verifica già ora, quando i candidati che hanno annunciato di competere per il ruolo di segretario “ci mettono la faccia” ma molto meno le idee. È del resto il capo che deve essere oggetto di plebiscito non i programmi, troppo complessi e deliberativi. Il partito plebiscitario ha un deficit di rappresentatività a fronte di un eccesso di personalismo.
L’innamoramento di molti democratici per la forma semi- presidenziale di governo trova nella struttura del loro partito una ragione non peregrina. Il modello di partito che lo statuto del Pd propone induce a leggere la democrazia elettorale come democrazia plebiscitaria più che come democrazia rappresentativa, più radicata nel leader che nel Parlamento, più intenta a votare sì/no che a discutere e schierarsi per una qualche visione. Un partito poco deliberativo. E questo trova conferma anche nell’unificazione delle cariche di segretario e di candidato a premier, la quale impone che la scelta del primo venga fatta pensando non a che cosa propone e rappresenta rispetto all’identità del partito, ma a quanto attraente sia per l’opinione pubblica e il network mediatico, a quante. Chance ha di vincere le elezioni. Partito debole per una leadership forte, con molte inquietanti implicazioni che si distendono oltre via del Nazareno.
. un articolo di G. Bettin, L. Casarini, S. Dazieri, C. Freccero, U. Mattei. Il manifesto, 28 luglio 2013
Le sollecitazioni che giungono dagli interventi sul manifesto di Giulio Marcon, Giorgio Airaudo e Massimiliano Smeriglio ci inducono a intervenire. Ovviamente lo facciamo ben sapendo che il punto di vista nostro, che non siamo militanti di partito, è per forza diverso dal loro, anche se ci accomuna, oltre che l'amicizia, la stessa tensione a voler fare qualcosa per smuovere una situazione politica a sinistra a dir poco avvilente.
Così ci illudiamo e illudiamo di meno e forse, pensiamo più a dimostrare con i fatti ciò che siamo, piuttosto che descriverli senza riuscire poi a metterli in pratica. Noi, per questo, avanziamo una semplice proposta in primo luogo a Sel, da cui vengono queste importanti aperture, e a chiunque ci stia: considerare le prossime elezioni europee il terreno concreto per aprire uno dei molteplici percorsi costituenti possibili. Uno, e non il percorso, perché siamo convinti che l'alternativa non ha oggi né un motore unico né una ricetta già pronta. È fatta di conflitti giustamente contro le istituzioni, e anche di anomalie dentro le istituzioni. Ognuno dovrebbe provare a dare il proprio contributo, senza pensare che sia quello risolutivo, senza pensarsi autosufficiente.
È ora, per qualsiasi nuova sinistra, di considerare proprio l'Europa come spazio politico centrale del conflitto. Invece che trattare le elezioni europee come una specie di sottoprodotto di quelle nazionali, e dunque utilizzarle solo per posizionamenti tattici tutti in funzione di strategie locali, bisognerebbe rovesciare la questione: oggi in Europa si decidono le politiche da imporre agli Stati, e non viceversa. L'Europa degli spread e della Bce, della troika, della Merkel e di Draghi, quella dell'austerity e del pareggio di bilancio, è la plastica rappresentazione del feroce antieuropeismo conservatore dei poteri forti. Il solo pensiero che questo spazio politico e sociale, orfano di costituzione, possa prendere forma, trasformandosi in un terreno di conflitto e disseminandosi di nuove istituzioni democratiche contro i presidi autoritari delle dittature monetarie e finanziarie, fa tremare i polsi ai signori di Francoforte e Berlino. L'Europa degli stati a sovranità limitata è esattamente disegnata per essere retta attraverso differenziali interni: lo spread, i bilanci, il deficit, il default, il commissariamento. Che si traducono in differenziali sociali: diseguaglianze, impoverimento, razzismi, sfruttamento.
È un campo di battaglia vero, l'Europa, strategico e non tattico, per chi immagina un nuovo percorso di liberazione collettiva. Invece di fare tattica dunque, se si vuole contribuire al cambiamento, bisogna mettersi a disposizione. Ad esempio proponendo, Sel e tanti/e altri/e fuori da Sel, la costruzione di una lista euro-mediterranea, quasi di scopo, attorno aduna visione chiara e netta: no all'austerity, centralità della crisi ecologica e climatica e riconversione ecologica dell'economia, reddito di base incondizionato, liberazione e generazione dei beni comuni, opposizione alle grandi opere inutili, no al fiscal compact, ricostruzione del welfare e del pubblico, diritti, lavoro di qualità, cittadinanza. Questo significherebbe concretizzare quella partecipazione di cui si parla sempre attorno ad un possibile percorso costituente di qualcosa che oggi non c'è. Rifuggendo da qualsiasi logica di rassemblement degli sconfitti, minoritaria per vocazione, e allontanandosi allo stesso tempo dall'idea che la sfida che tutti abbiamo di fronte si possa giocare solo attraverso piccoli aggiustamenti del proprio recinto, che poi alla fine è un angolino nel recinto più grande di qualcun altro. Attorno a questa proposta va stabilito da subito che chi partecipa deve poterlo fare anche nel momento delle decisioni. Definirla lista euro-mediterranea avrebbe un significato preciso: il coinvolgimento nella sua costruzione, attraverso momenti di consultazione, dei movimenti e delle realtà dell'altra sponda del Mediterraneo, che sono la nostra Europa. Euro-mediterranea anche per dare centralità al rapporto con le popolazioni del sud Europa, dalla Grecia alla Spagna. Una lista da costruire attraverso primarie aperte, e che si giochi in Europa subito come anomalia: che parli a quella parte del socialismo europeo che è in sofferenza dopo anni di egemonia culturale e politica del neoliberismo, che si riferisca ai verdi e al pensiero ecologico come paradigma di un'alternativa che rifiuta l'ideologia della crescita, che si rapporti con Syriza e con la componente non antieuropea della sinistra anticapitalistica, che parli a quel mondo cattolico che ha fatto vincere in Italia il referendum sull'acqua. Che consideri finalmente una composizione del lavoro completamente diversa da quella del novecento, che non ha nessun contratto nazionale a tempo indeterminato a cui riferirsi, nessuna pensione da attendere, nessuna cassa integrazione. Una lista che produca momenti di incontro in Europa e in Italia, di elaborazione comune, di costruzione di alleanze sempre più ampie. Che si faccia promotrice di iniziative pubbliche unitarie di pensiero critico, contro la dittatura commissaria della finanza, che appoggi i movimenti che su questi temi hanno aperto percorsi di conflitto. Che dia il suo contributo insomma, in termini di rottura istituzionale, e non di compatibilità.
Perché poi, alla fine di tutto, c'è sempre il solito discorso: cosa vogliamo fare? Vogliamo essere un "errore" di sistema, o come fa il Pd da Napolitano in giù, coloro che il sistema lo salvano? Non è una proposta rivoluzionaria o chissà quanto difficile. Bisognerebbe che Sel, o anche Sel, decidesse che su questo terreno, l'operazione politica che va fatta è di largo respiro, profondamente in discontinuità con quanto accade normalmente di questi tempi nella politica italiana. Bisognerebbe guardare oltre se stessi, e considerare una fortuna il fatto di poter decidere di non appiccicare il proprio simbolo per poter esistere, ma invece di essere motore determinante di qualcosa di nuovo, più ampio, coraggioso. Noi, umilmente, perché abbiamo sempre nulla da insegnare e tutto da imparare, troviamo più onesto ragionare attorno a questioni concrete e se vogliamo anche limitate, quando si parla di partiti, elezioni e liste. E pensiamo che la partecipazione, nell'epoca della sondocrazia, vada sostanziata come costruzione di possibili terreni comuni, e non lasciata all'inerzia dell'azione buona in sé. Si può anche non partecipare, ed è assolutamente comprensibile con quello che è oggi la politica istituzionale nel suo complesso, e si può anche fare della non partecipazione un'arma contro lo stato di cose presenti. Queste elezioni europee rischiano infatti di passare alla storia per il livello di astensione che si determinerà, e non per altro. E i movimenti hanno perfettamente ragione a diffidare delle forme di politica istituzionale, perché la conquista di nuova democrazia passa per forza anche dal superamento di ciò che c'è, partiti in primis. Ma dipende anche molto dall'offerta che si mette in campo, e da ciò che la motiva veramente.
il manifesto, 23 luglio 2013
«Mentalità e corpo del partito lontani dalla rappresentanza sociale del mondo del lavoro, vera discontinuità progettuale per la sinistra - e "cose" nate dal 1991 e la struttura di politici di professione: sono questi i termini che rendono difficile la svolta congressuale»
Nelle ultime settimane, nell'ambito di un intelligente forum del Corriere della Sera, mi hanno colpito queste righe pubblicate in un post: «Ci sentiamo soli anche quando siamo in molti a condividere il destino, ... Siamo indifferenti (...) non ce ne importa più niente delle loro manovre e manovrine, ci hanno spento ogni passione insieme alle speranze ....Maledetti loro, maledetti noi che non abbiamo più un briciolo di forza per reagire, subiamo, abbozziamo, imprechiamo un po' e via andare (...). Non siamo più capaci di fare massa, abbiamo visto tutto quello che c'era da vedere e abbiamo capito che c'è poco o niente da fare. (...)». Sempre sullo stesso giornale, ma in un altro forum, uno dei partecipanti alla discussione dice di sentirsi in uno stato di «disperazione che diventa resa».
Il nesso tra la prevalenza ideologica e pratica del non ci sono alternative allo stato di cose presente e la «disperazione che diventa resa» è del tutto evidente. Quale è stato, quale è, il contributo del Pd alla trasformazione di questa ideologia in senso comune?
Alfredo Reichlin in un recente intervento ha fatto riferimento ad «un grande bagaglio di valori, di bisogni, e di passioni che ancora esiste» e che dovrebbe trovare, proprio nel suo partito, risposte adeguate (l'Unità, 9 luglio). In verità Reichlin non sembra molto ottimista sul fatto che il Pd sia in grado di elaborare una riflessione politica al livello delle domande poste dalla disperazione sociale. Egli sottolinea la «pochezza del (...) dibattito congressuale», pochezza che attiene alla mancanza di «autonomia culturale» del partito, che indica in questi termini: convinzione prevalente «che il mondo non presenta scelte diverse». Nonostante il profondo ed assai ragionevole pessimismo, egli spera in una «vera svolta» al congresso» del Pd, perché è di una vera svolta che c'è «bisogno». Purtroppo nella storia non c'è alcun rapporto determinato tra bisogni e svolte nella direzione indicata da quei bisogni. In particolare nella storia dei subalterni, di coloro la cui disperazione tante volte si è conclusa in una resa.
Una «svolta» in cui, con diverse gradazioni nell'oscillazione tra ottimismo e pessimismo, confidano anche molti degli intervenuti su questo giornale a proposito del dibattito precongressuale del Pd. «Svolta» legata a quello che Asor Rosa ha chiamato «l'anello mancante», cioè il «progetto». Il progetto, appunto, non una generica carta d'intenti, bensì un insieme strutturato capace di coniugare una visione strategica centrata su «l'organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi e del sociale, la rappresentanza del lavoro» e tutti i passaggi intermedi necessari e congruenti omogenei con la strategia. Un progetto che il Pd non ha, dice ancora Asor Rosa, ma che, forse, a seconda degli sforzi e della convinzione di alcune delle forze in quel campo, potrebbe configurarsi come l'esito del congresso. L'alternativa è un Pd «perduto» e «se il Pd è perduto, dovremo lavorare, qualcun altro dovrà lavorare per decenni perché un nuovo processo abbia inizio» (il manifesto 18 giugno).
Sono questioni di grandi rilevanza, di fronte alle quali, però, ci si deve porre qualche interrogativo. Perché quel progetto, finora, è stato del tutto assente dalla elaborazione e dalla pratica politica del Pd? Il Pd ha una storia alle spalle e non solo quella a partire dall'ottobre 2007. La linea della «normalizzazione», che è vero progetto, non è stata soltanto quella che ha interessato i «mesi passati», bensì quella che ha caratterizzato «cose» e Pd nei molti anni passati, a partire dal 1991. L'insistita ricerca del «paese normale» ha rappresentato il filo della continuità capace di dare ragione a scelte politiche supposte contingenti. Senza questo preciso orizzonte culturale e politico non si spiegano i due ultimi governi «costituenti». E quello attuale che, come dice giustamente Asor Rosa, «si delinea come il governo più importante e più decisivo per le nostre sorti dal 1946 ad oggi».
La normalità, secondo il «Grande dizionario della lingua italiana», è «una condizione abituale, consueta e ampiamente accettata e che non presenta alcuna irregolarità, né lascia presagire alcun elemento di imprevisto e di inquietudine». L'«Enciclopedia Einaudi» precisa che nella normalità «non si pende né a destra né a sinistra». Noi «somos reformistas, no de izquierdas», così la carta d'identità del Pd come immediatamente presentata dal suo fondatore.
Che poi la realtà di quel partito sia stata e sia più mossa rispetto alla fotografia inaugurale che ne ha fatto Veltroni è altrettanto vero, ma si tratta di movimenti nell'ambito di una comune mentalità informata ai criteri della «normalità». Come c'insegna Braudel, la mentalità è una struttura, non si modifica sulla base delle scadenze congressuali.
D'altra parte come sarebbe stato possibile partecipare alla definizione degli obbiettivi economico sociali degli ultimi due governi, votare convintamente fiscal pact e costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, senza una larga condivisione dei suddetti criteri di «normalità», che sono quelli della teoria economica mainstream?
Oltre le strutture culturali esistono poi altri elementi strutturali che rendono improbabili mutamenti radicali dei modi di essere di quel partito.
Quando si cercava di comprendere scelte politiche e gestione delle stesse anche attraverso l'analisi delle strutture organizzative atte a sostenerle, una importante rivista di riflessione politico-teorica in cui Asor Rosa (e Tronti) hanno avuto un ruolo di primo piano, pubblicava un'accurata ricerca sul ceto politico del Pci tra compromesso storico e svolta dei primi anni Ottanta («Laboratorio Politico», 2-3, 1982). La ricerca individuava con molta chiarezza le caratteristiche del quadro intermedio che aderisce al Pci nei primissimi anni Settanta e che alla metà del decennio approdava a ruoli dirigenti e professionali anche a livello nazionale. Un blocco di politici di professione sempre più caratterizzato da un'immissione precoce negli apparati e da una carriera tutta interna al partito. E, aggiunge l'autrice del saggio, la sociologa Chiara Sebastiani, «una componente fortemente individuale sembra prevalere sulla formale dedizione al partito; e una identificazione con il partito organizzazione assai più che con il partito classe».
«... tutto mi induceva a credere che il partito avesse subito una sconfitta dalla quale non si sarebbe rialzato. Avevo aderito a un corpo promesso alla vittoria e mi pareva impossibile associarmi a una sconfitta». In questa considerazione di uno dei protagonisti di un romanzo di Paul Nizan del 1938 ci sono motivi di riflessione per spiegare tante scelte fatte a ridosso del «meraviglioso '89» da gran parte di quel tipo di «ceto politico». Il ceto politico intermedio-dirigente del Pd ha portato alle estreme conseguenze le logiche della progressione di carriera, disancorandola dalla rappresentanza sociale. Non conosco studi specifici a proposito, ma solo alcune esperienze che penso si avvicinino molto ad un ideal-tipo.
Un neodeputato e attuale membro della segreteria nazionale del Pd, ad esempio, si è iscritto al PdS alla metà degli anni Novanta in una importante realtà industriale. Era ancora studente e non aveva nessuna esperienza politica. Pochi mesi dopo era già segretario della federazione di quella zona industriale. Da allora la brillante carriera procede rapidamente: consigliere regionale, segretario regionale e via a crescere. Qualche mese fa dichiarava di essere dalemiano, ma di guardare anche «con attenzione e stima a Matteo» (Il Tirreno, 24 maggio). Chi è interessato a conoscere l'evoluzione attuale del nostro potrebbe avere indicazioni essenziali sui meccanismi che muovono davvero le strutture portanti del Pd.
Ora, elemento centrale dell'«anello mancante» dovrebbe essere, tra i molti indicati da Asor Rosa, tutti strettamente legati, quello della rappresentanza sociale del mondo del lavoro. Ma un partito che prenda sul serio una questione del genere deve avere tradizione di legami sociali e di riferimenti culturali di grande spessore. La questione rimanda, infatti, al nodo del rapporto tra la fase attuale della crisi della democrazia e l'attuale fase di accumulazione. Rimanda insomma ad un insieme di strumenti analitici e di comportamenti del tutto contraddittori con la struttura «mentalità» e con la struttura organizzativa del «corpo» del partito.
In un libro molto bello e recentissimo (Racconti dell'errore, Einaudi, 2013), un libro di letteratura creativa che insegna molto a chi fa il mestiere di studioso di storia, Asor Rosa delinea un atteggiamento che nella sostanza è il suo: Il Vecchio «ad onta della sua fama di sbandierato estremismo - presumeva di mettere d'accordo, con grande moderazione, o se preferite, con astuto spirito di compromesso, capra e cavoli». Atteggiamento assai lodevole, comune anche a chi scrive che, del resto, estremista non è mai stato. Credo, però, che in questo caso il salvataggio sia davvero impossibile.
«Molte persone sono sempre più deluse dagli stati-nazione da questo sentimento sta nascendo una reinvenzione dei valori. Si orientano attraverso i social media. Difendono l’ambiente contro le élite e riscriveranno le categorie politiche Il grande sociologo spiega come».
La Repubblica, 17 luglio 2013
Da che parte, a chi guardare per ritrovare la strada della Sinistra, variamente smarrita un po’ in tutto il mondo? Ulrich Beck, il sociologo della “società del rischio”, è da tempo convinto che ogni risposta nazionale ai problemi globali sia destinata a fallire. Vale anche in questo caso. Più che una cassetta degli attrezzi per riparare i partiti progressisti offre un campionario di pratiche, una serie di istantanee da una realtà che sta cambiando più in fretta delle imbolsite élite politiche. Dalla Primavera araba a quella che ha battezzato la Generazione dei Nuovi Colombo, dall’uso strategico delle catastrofi alle “New York svizzere”, scorge embrioni di una nuova Sinistra post-ideologica, giovane, ambientalista, altamente connessa. Ultima speranza per rivitalizzare quella perdente dei padri.
Professore, cosa significa “sinistra” nell’estate
del 2013?
«Dieci anni fa le avrei risposto che eravamo oltre destra e sinistra. Oggi non ne sono più così sicuro. Nel mondo sono successe così tante cose che credevamo inimmaginabili. Credo che ci sia bisogno di reimparare, reinventare la metafora della sinistra. Abbiamo anche bisogno di un nuovo linguaggio, una nuova fenomenologia di cosa sono oggi destra e sinistra».
Quali valori ha in mente?
«Purtroppo è più facile definirli in negativo che in positivo. Ma proverò. Per cominciare, al posto della solidarietà di classe è subentrato un “individualismo morale”, ovvero un individualismo che, grazie al senso di connessione che ci danno le nuove tecnologie, si sente responsabile per gli altri, una volta percepiti come distanti. Un nuovo individualismo che presuppone una dimensione cosmopolita. Poi un’attenzione ai problemi globali, ma in un modo molto locale e personale, ben diverso dall’agenda degli stati-nazione. Un esempio lampante è quello dell’ambiente, in cima alle preoccupazioni dei giovani di ogni paese. E infine la reinvenzione dello stato sociale su una base transnazionale, nel nostro caso europea. Solo così si possono dare risposte all’insicurezza economica, e
quindi esistenziale, delle nuove generazioni. Nessuna sinistra può dirsi tale senza farsi carico di questi punti».
Di recente si è occupato molto dei movimenti di protesta globali: è lì che bisogna cercare le tracce della nuova sinistra?
Vede un partito o un leader al quale la sinistra europea dovrebbe guardare per ispirarsi e tornare a vincere?
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L'allontanamento dal "Manifesto". Il conflitto fra generazioni. Le nuove disuguaglianze. Colloquio con la "ragazza del Novecento".
La Repubblica, 7 giugno 2013
BRISSAGO - "No, non ci capiamo più. Li ho ascoltati per tanti anni, un lungo miagolio sulle mie spalle. Venivano dalla madre a raccontare le delusioni esistenziali. Gli amori, le speranze, le difficoltà. Ma ora davvero non ci capiamo più". Lo sguardo è severo e insieme sorridente, l'incarnato candido come le camelie che fioriscono nel giardino qui intorno. Da qualche mese Rossana Rossanda vive a Brissago, un angolo del Canton Ticino dove si fermerà fino alla fine di agosto. "Sì, è un bel posto. Dall'ospedale di Parigi vedevo solo la periferia, qui c'è il lago per fortuna increspato dal vento. Per chi non la conosce, la Svizzera può essere incantevole. Ma pare che chi ci vive la trovi insopportabile".
Azzurro ovunque, le vele bianche, anche i monti innevati, una bellezza quasi sfacciata e intollerabile allo sguardo ferito di chi abita nella grande casa di vetro affacciata sul lago Maggiore. "La prego", si rivolge con famigliarità all'infermiere, "può dare un po' d'aria alle rose?". La stanza è luminosa, sul comodino la bottiglia di colonia e la biografia di Furet, un po' più in là l'ultimo libro di Asor Rosa, I racconti dell'errore. "È un bellissimo libro sulla vecchiaia e sulla morte. Ma noi vogliamo parlare d'altro, vero? I necrologi lasciamoli da parte".
Per i più vecchi, nella famiglia del Manifesto, è stata l'eterna sorella maggiore, la quercia sotto cui ripararsi nella tregenda. Per i "giovani" - così li chiama, anche se giovani non sono più da tempo - è la madre temuta e ingombrante. "Sì, una madre castratrice. Mi hanno sempre visto così, anche se io non mi sono mai sentita tale. Ho sempre cercato di capire, di dar loro spazio, ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. E ora è toccato anche a me".
Nel settembre scorso ha lasciato il giornale da lei fondato con un articolo molto polemico: è mancata una riflessione su chi siamo, su cos'è diventato il quotidiano, sul rapporto con le origini e con il presente. Su cos'è oggi la sinistra. Insieme a Rossanda, se ne sono andati anche Valentino Parlato e diverse altre firme. "Non siamo noi ad essercene andati. È il Manifesto ad averci cacciato. L'abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e noi ci siamo ritirati. Anche stupidamente, perché dovevamo essere noi a far tacere i più giovani. C'è stata una grandissima cesura, tra la nostra generazione e quella successiva. Mossi da una sorta di risentimento, non fanno che dirci: soltanto un mucchio di macerie, ecco quello che ci avete lasciato. Voi, con le vostre certezze e le vostre idee granitiche. È la frase più stupida che abbia mai sentito".
Macerie, certezze, noi e loro. Nessun errore, nessun ripensamento? "Il mio errore è stato non tenere unito il gruppo. E anche non capire che, se per la nostra generazione è stata dura, per quelli nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso lo è ancor di più. Ma non dovevamo farci portare via il giornale. Come in un refrain, ci ripetono: è cambiato tutto, niente è più uguale a prima. Ma cosa vogliono dire? Cos'è questo tutto che è cambiato?".
Il mondo le appare più ingiusto che mai, tra privilegio e povertà, sfruttatori e sfruttati, management superpagato e lavoratori affamati. "Non c'è mai stata tanta ineguaglianza nella storia. Però si passa sopra tutto questo, non importa. È stato assorbito anche dai giovani il bisogno di abolire il conflitto, come se lo scontro sociale fosse una roba del secolo scorso. Anche il Manifesto ci ha rinunciato da tempo, mescolando confusamente beni comuni ed ecologismo. Sì, certo, di queste cose non me ne importa niente anche per miei limiti. Ma sento il bisogno di chiedere un ritorno al conflitto di classe. E non penso a un estremista assetato di sangue, ma alle analisi di Luciano Gallino, che io ricordo all'epoca di Adriano Olivetti".
Le fa orrore una società pacificata, "l'assurda intesa benedetta da Napolitano tra Berlusconi e quel po' di sinistra che resta". E non ha grande fiducia nei movimenti, generosi e vitali ma impotenti. "Prevale ovunque l'antipartito, che mi sembra profondamente sbagliato. I partiti hanno avuto molti difetti, ma ciascuno da solo non combina niente. L'alternativa rischia di essere Grillo, il quale è riuscito a condensare i peggiori vizi dei partiti - l'autorità del Capo - senza esercitarne la funzione più nobile, ossia tenere insieme le persone, impegnarle in un progetto comune. Poi lo stile: quello che ha fatto con Rodotà è al di sotto di ogni decenza".
No, ora non le interessa più tornare al Manifesto, confondersi "in quel chiacchiericcio insensato". Preferisce scrivere "su un sito di economisti intelligenti come Sbilanciamoci". Ma non è una rottura personale, solo politica. Lo ripete più volte, come se ci volesse credere. "Almeno per me è così. Non mi pesa aver litigato con qualcuno, umanamente faccio la pace subito. Io non faccio pace con le idee, che è cosa molto diversa. Ma i giovani ragionano in altro modo. E forse io voglio più bene a loro di quanto loro ne vogliano a me".
Ora che è finita, quella storia può essere raccontata, cominciando dall'inizio. Là dove chiude Una ragazza del secolo scorso, con la nascita del Manifesto e il tentativo di far da ponte tra il Sessantotto e la vecchia sinistra. "Non funzionò e vorrei tentare di capire cosa è successo. Il libro l'ho già in testa, si tratta di scriverlo. Più che l'attuale divisione da Norma Rangeri, mi pulsano gli antichi contrasti con Pintor, Magri e Natoli". Bisogna capire tante altre cose, anche perché il paese s'è ridotto in questo stato. "Lucio è stato quello che dal fallimento politico ha tratto le conclusioni più pesanti, scegliendo di morire. La perdita della moglie amata ha coinciso con una perdita di senso più generale. E ha preferito andarsene". Perché volle accompagnarlo nell'ultimo viaggio? "Era il minimo che potessi fare. Nel nostro gruppo, ero la persona che l'aveva più ferito. All'epoca del Pdup, gli portai via il giornale, sottraendogli la carta più forte nella discussione con Berlinguer. Naturalmente lo rifarei da capo, ma è sicuro che gli feci male. E avendogli voluto molto bene, mi è parso il minimo stargli vicino nel momento della fine. Stava male da anni, non era una malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?". Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l'ho fatto".
Aveva immaginato una morte serena, "come accadeva nell'antichità". E invece no, non è andata così. "Un'esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (ndr il marito malato che l'aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere". Accompagnare qualcuno verso la morte - disse una volta in un dialogo con Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine. "Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall'esperienza negativa, dall'annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato, perché è un'esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te, incancellabile".
Tutte le persone perdute se le trascina dietro, anche qui, davanti allo strano lago che assomiglia al mare. Il lago nero della sua gioventù partigiana, quello dove i tedeschi buttarono i corpi martoriati. "Oggi vivo nel presente, ma non è più il mio, essendone venuti a mancare gli elementi costitutivi. Un presente che si restringe nel tempo e nella frequentabilità. Prima potevo dire domani vado a Berlino o salgo in montagna. Ora non lo posso dire più". Prevede l'obiezione, gli occhi s'accendono d'ironia. "No, non mi piace invecchiare. Sono entrata nel novantesimo anno, ma non ne faccio motivo di vanto. Norberto Bobbio ci scrisse sopra uno splendido libro, De Senectute. Ma io non appartengo a questa categoria. Sono rimasta esterrefatta quando mi sono trovata un ictus addosso, e vorrei liberarmene. Cosa che non avverrà. Noi del corpo non sappiamo nulla. Le mie amiche femministe dicono che le donne siano più vicine all'organismo, ma non è vero. Ora provo cosa vuol dire avere mezzo corpo, ed è terribile. Il corpo o è integro, o non è. Non si è un po' paralizzati, un po' malati. Lo si è completamente".
Ma la mente è lucida e affilata come prima dell'imboscata. "Un'aggravante. Non ti puoi distrarre da quel che sei. Non mi sono accorta di niente, quando mi è venuto l'ictus. Non ho provato dolore, non sono caduta. Guardavo la tv, nella mia casa di Parigi. E all'improvviso sono diventata una medusa, una creatura gelatinosa e impotente. Ha presente un grosso medusone?". Ti guarda e scoppia a ridere, come se l'improbabile mostro marino appena evocato potesse portarsi via le paure. "Davvero, è così. Allora bisogna avere un carattere energico, e dirsi: io vado avanti. Ma non ho questo temperamento eroico".
Doriana, l'amica che non l'ha mai lasciata, le porta il tablet per leggere. Rossanda è divertita e perplessa, "chissà se mi ci abituo". Eterna sorella maggiore, quella che ne sa sempre di più, e s'addolora se gli altri non la seguono, forse è lei oggi a desiderare una sorella più grande. "No, sono prepotente. E non potrei sopportarla". Le "ragazze del secolo scorso" sono fatte un po' così. "Sì, certo appartengo al Novecento. Anche al giornale mi hanno guardato come una donna di un tempo lontano. Ma è stato un grande secolo, cosa che l'attuale non ha l'aria di essere. Abbiamo vissuto una storia terribile, ma una grande storia. Ora siamo nelle storielle".
Il manifesto, 26 aprile 2013
Anche se le modalità hanno lasciato tutti basiti, i passaggi che hanno portato alla formazione del nuovo governo, quale che ne sia poi l'esito (finiranno comunque tutti in bocca a Berlusconi, Napolitano compreso), erano in qualche modo scontati. Il Pd non avrebbe mai potuto imboccare una strada diversa dopo più di un anno di sostegno senza se e senza ma a Monti, cioè al definitivo trasferimento del governo del paese dal Parlamento (già sostanzialmente esautorato dal porcellum) alla Bce e, per suo tramite, alla finanza, ben rappresentata da Monti e Draghi. Sono due uomini di Goldman Sachs, che ragionano alla maniera di Goldman Sachs: non è necessariamente un legame diretto, ma un dato di cultura e di modus operandi che in Europa sono chiari a tutti, ma che in Italia attirano invece l'accusa di schematismo o complottismo.
Quanto al Movimento Cinque Stelle, gli esiti disastrosi della linea di condotta adottata, che gli è già costato parecchio in Friuli, non possono essere imputati solo a inesperienza o a eccessiva rigidità: si è visto peraltro Grillo e i suoi adepti ammorbidirsi assai nel corso dei giorni. Il fatto è che il Movimento Cinque Stelle non ha un progetto. Il suo programma è solo un insieme di obiettivi, in larga parte condivisibili, anche perché riprendono temi su cui comitati, movimenti, iniziative civiche e associazioni lavorano da anni. Ma un programma che nulla o quasi dice su come arrivarci, su come imporli.
Democrazia diretta o referendaria - di cui la consultazione via web è una sottospecie - e democrazia partecipata non sono la stessa cosa. La prima, nonostante i proclami in contrario, si fonda su una delega pressoché totale ai rappresentanti - in questo caso ai parlamentari - cui viene affidato il compito di tradurre in leggi e provvedimenti quello che la constituency - nei cinque stelle la consultazione via web - decide. Senza molte mediazioni, perché queste non possono essere sottoposte ogni volta alle valutazioni di un gruppo di riferimento; neanche se, come si è visto, è assai ristretto. La democrazia partecipata esige invece un contributo costruttivo da parte di tutti i soggetti coinvolti; confronti e riposizionamenti continui; la valorizzazione dell'esperienza e dei saperi di ciascuno; e anche degli affetti, perché l'incontro fisico, la conoscenza reciproca, l'incrocio degli sguardi, a tutti i livelli, ne sono una componente essenziale. Anche in questo caso la delega, sempre a termine e revocabile, è inevitabile, perché i gruppi di riferimento, per essere tali, non possono superare una certa dimensione. Ma è una delega solida, perché la democrazia partecipata non è, o non è principalmente, assembleare.
Certo, nel passaggio tra partecipazione attiva e rappresentanza elettorale - due forme di democrazia che non possono che convivere; nessuna può escludere l'altra in via di principio - il mandato vincolante della prima si stempera nel «senza vincoli di mandato» della seconda. Ma il rappresentante che ha alle spalle un processo di democrazia partecipata avrà sempre a disposizione, se vuole, uno o più gruppi di riferimento con cui consultarsi, e a cui chiedere anche un supporto tecnico di cui nessun "eletto dal popolo" può fare a meno. E se è stato scelto con cognizione di causa - cosa che, come si è visto, il web non consente - ne farà buon uso.
Dunque, il passaggio dal vecchio al nuovo governo (e dal vecchio al "nuovo" Presidente della Repubblica), anche se non ha fatto che portare alla luce un vuoto di pensiero e azione, di capacità e responsabilità evidente da tempo, ha lasciato dietro di sé un campo di macerie: soprattutto, ma non solo, nel Pd e nel centro-sinistra. Di fronte al quale una serie variegata di organizzazioni si stanno affrettando a gettare le reti per raccoglierne i relitti, proclamando il loro impegno alla costituzione di un "nuovo soggetto politico"; magari senza nemmeno chiedersi - è il caso dei gruppi dirigenti di Sel e del Prc, per non parlare di Verdi, Pdci e altri - che cosa li abbia indotti a trasformare un progetto appena abbozzato, ma unitario, innovativo e democratico come Cambiaresipuò, nell'aborto di Rivoluzione civile; o l'ecologia e la libertà in un progetto di fusione con il Pd.
Voltafaccia del genere non portano lontano. Un soggetto politico - se così vogliamo chiamarlo - veramente nuovo potrà sorgere solo rivolgendosi in forme innovative e partecipate ai milioni e milioni di cittadine e cittadini, di lavoratrici e lavoratori travolti dalla piega che hanno preso gli avvenimenti; e solo apprestando, con fatica e per tentativi ed errori, una "casa comune" per chi si oppone allo stato di cose presente: cioè tante sedi dove costruire in forma partecipata - nel senso indicato prima - un programma radicalmente alternativo alle politiche e ai vincoli imposti a tutti i popoli dell'Europa dall'alta finanza e, per suo conto, dalla Bce e dai governi nazionali. Un programma fatto non solo di slogan e obiettivi, ma di proposte e adesioni a iniziative di lotta e a buone pratiche consolidate. Una casa che non può e non deve essere proprietà, od oggetto di appropriazione, di alcuno, perché la sua forza sta proprio nell'essere aperta a tutti quelli che ne condividono la ragion d'essere. Queste sedi - lo ribadiva mercoledì scorso Piero Bevilacqua sul manifesto - sono innanzitutto ambiti territoriali, in un rapporto al tempo stesso conflittuale a partecipativo con le istituzioni dei governi locali: conflitto per rivendicare partecipazione; e partecipazione per promuovere, a un livello più alto, nuovi conflitti.
Le aggregazioni promosse per rimettere insieme i cocci del centro-sinistra, o i meet-up del Movimento Cinque Stelle (una realtà immensamente più ridotta del suo elettorato), così come il lavoro di ciascuno di noi, dovranno trovare su questo terreno, che è quello dei movimenti che hanno saputo costruire la propria continuità nel tempo (il pensiero corre sempre alla Valle di Susa) la verifica del loro operato. La sede di questa verifica è il tassello che manca per ora ai programmi che assommano solo obiettivi, ancorché condivisibili. Si deve lavorare perché intorno ai temi che sono al centro delle tensioni sociali a livello territoriale - una o tante aziende che chiudono; i giovani che non trovano lavoro; le famiglie gettate sul lastrico dai licenziamenti; i servizi sociali che scompaiono; il territorio ceduto alla speculazione, alle autostrade o ai Tav; la cultura che si dilegua insieme ai relativi beni, ecc. - si creino delle aggregazioni sociali fondate sulla partecipazione più ampia, senza pregiudiziali di sorta, ma orientate al conflitto con i poteri costituiti; aggregazioni che siano al tempo stesso una sede di autoformazione politica e culturale e uno strumento di elaborazione programmatica. Il coinvolgimento totale o parziale delle amministrazioni locali in questi progetti è il primo passo verso il loro consolidamento.
Le scadenze per mettersi alla prova non mancano. Più ancora delle prossime elezioni amministrative, che interessano comunque un numero significativo di città grandi e medie, giugno è il mese dei bilanci preventivi dei comuni (quelli del 2013, non del 2014: la truffa comincia proprio dal fatto che i bilanci si presentano, quando si presentano, a cose fatte). Sia alle amministrazioni che si erano impegnate a costruirli in forma partecipata - e che poi se ne sono scordate - che a quelle che non l'hanno mai promesso, va imposto con la mobilitazione che i loro bilanci siano redatti per lo meno in una forma leggibile, che permetta di riconoscere le fonti delle entrate e le destinazioni delle spese per ciascuna posta. E' una partita che interessa molti, perché nei bilanci comunali si nascondono non solo clientelismo e corruzione, ma soprattutto scempi ambientali, abdicazione dai propri compiti istituzionali, deleghe a gruppi di potere privati, diversioni di spese dai servizi essenziali a favore di Grandi opere e Grandi eventi inutili, banche che strangolano la finanza locale, ecc.
Poi va aperta la partita sui servizi pubblici locali. La loro svendita - grazie ai fondi della Cassa Depositi e Prestiti - dopo quella dei diritti di edificazione, è la via principale per salvare i bilanci comunali devastati dai tagli dei trasferimenti statali. Ma i servizi pubblici locali, riportati sotto il controllo di una democrazia partecipata, possono essere invece la strada maestra per promuovere sia una domanda di servizi ecologicamente sostenibili con cui costruire una forma nuova di cittadinanza, sia una domanda di materiali, impianti e attrezzature per permettere la riconversione produttiva delle imprese senza più mercato né avvenire; ma anche la sede dove mettere a punto progetti, interventi e produzioni per creare occupazione utile: forniture alimentari a km0 per la ristorazione collettiva e promozione di Gruppi di acquisto solidale per una nuova leva di agricoltori; potenziamento del trasporto pubblico e di quello condiviso; efficienza energetica; urbanistica partecipata; salvaguardia idrogeologica; riqualificazione delle scuole e dell'istruzione.
Tutte cose che impongono una revisione radicale dei vincoli di bilancio imposti dal patto di stabilità. Si tratta allora di promuovere in ogni territorio, in ogni città, in ogni quartiere, delle conferenze per mettere a punto progetti e iniziative che nessun governo centrale o regionale sarà mai in grado di definire; ma che è il modo migliore per dare concretezza alla proposta di Luciano Gallino di creare occupazione attraverso un vasto programma di opere pubbliche e di interventi locali.
Un programma ambizioso; ma soprattutto una "casa comune" per chi non intende accettare le scelte dell'establishment. E però, come impedire che della casa comune cerchi di appropriarsi qualcuno con le proprie truppe e le proprie bandiere per portarla ancora una volta a fondo?
Ancora un commento al libro di Carlo Galli, “Sinistra”, a proposito del quale si discuterà ancora a lungo
. Micromega, 1/2013
Che cosa sta succedendo nella bolognese “repubblica delle lettere” de il Mulino? Ossia in uno dei pochi luoghi nazionali in cui si coltivavano da almeno un cinquantennio analisi e ibridazioni culturali come esercizio di progettazione politica. Ce lo si chiede visto che alcuni tra i più autorevoli politologi della terza generazione di questa comunità, con annessa casa editrice, negli ultimi tempi scelgono di pubblicare altrove: lo ha fatto Piero Ignazi per Laterza, lo fa ora Carlo Galli con Mondadori. Forse i sospettosi potrebbero trovare una chiave interpretativa nel fatto che Galli è candidato alle prossime elezioni nel listino di Bersani mentre Michele Salvati, sull’ultimo numero della rivista bandiera del gruppo editoriale di cui è direttore, ha fatto coming out a favore di Mario Monti («… concludo con una tesi di cui sono convinto, e che qui esprimo a titolo personale: che la prosecuzione dopo le elezioni di un governo Monti potrebbe fare ancora bene al nostro Paese… non è ancora venuto il momento di sostituire Bersani a Monti» [3]).
Sia come sia, eccoci con la recentissima opera sull’ormai araba fenice della bella politica – la Sinistra – cui Galli dedica 160 pagine; per due terzi centrate sul “come eravamo” e per il restante terzo dedicato al “come potremmo essere”: un saggio molto filosofico che evolve a pamphlet appassionato, sempre in un linguaggio sostenuto (dove abbondano estese catene di antinomie: pour un tel inventaire/ il faudrait être un Prevert, borbotterebbe Georges Brassens).
Il senso complessivo del ragionamento può essere sintetizzato in due tesi:
A. Il Novecento ha conosciuto quattro rivoluzioni (Comunismo, Fascismo, Keynesianesimo dello Stato Sociale e Neoliberismo), nell’ultima delle quali si è verificata un’apparente spoliticizzazione mercatistica che ha marginalizzato la Sinistra politica;
B. La fuoriuscita dall’ormai evidente crisi NeoLib può avvenire soltanto grazie a una “quinta rivoluzione” (un New, New Deal) che metta radici in un rinnovato blocco sociale facendo perno nella rivalorizzazione del lavoro.
Per quanto riguarda la prima tesi, apparentemente innegabile, si può semmai puntualizzare che – in effetti – non si è trattato di marginalizzazione, quanto di sottomissione all’egemonia dell’economico del personale dei partiti formalmente collocati sul fronte sinistro, interpretabile in vari modi: interiorizzazione pavlovizzante del mito de “il senso della storia”, da cui il riflesso condizionato di stare sempre dalla parte dei (presunti) vincitori? Opportunismo carrieristico da Terza Via? Omologazione in un ceto politico indistinto, intimamente solidale nella difesa dei propri privilegi? Vedete un po’ voi. A parere dello scrivente la spiegazione più attendibile la si ricava da una chiosa a margine del secondo item: per quale motivo il lavoro, da grande protagonista della dialettica sociopolitica otto/novecentesca, è diventato un soggetto desaparecido.
Di conseguenza, le organizzazioni partitiche che traevano i propri successi dal radicamento in questa parte sociale hanno ritenuto più conveniente rivolgersi altrove. Veniamo così al punto: Galli sostiene che «non aver posto l’accento sul lavoro con sufficiente convinzione, aver accettato la subalternità del lavoro e le disuguaglianze sociali, è stata una delle maggiori cause di debolezza della sinistra» (pag. 135). Tesi ovviamente condivisibile. Con un però. Messo in risalto – guarda caso – dall’intellettuale italiano che ai suoi tempi fu sovreccitato portabandiera dell’operaismo, Toni Negri. Quello che nel 1977 scriveva «sono gli operai del Sud che emigrano piuttosto che accettare la miseria pianificata del sottosviluppo, sono gli operai della fabbrica verde del Nord che impongono, premendo sulle metropoli, l’estensione dell’occupazione e dei servizi e ne sconvolgono le capacità di controllo amministrativo – queste sono le forze che vengono a costituire l’operaio-massa, stravolgendo sconfitte parziali in una vittoria strategica di massa» [4]. Ora il medesimo teorico estetizzante dell’antagonismo, in collaborazione con l’alter ego Michael Hardt (ma esisterà davvero? A volte penso si tratti di un personaggio di fantasia, come l’Ida Omboni coautrice di Paolo Poli…), promuove una tesi diametralmente opposta: «per potere parlare di nuova sinistra, oggi dobbiamo innanzitutto esprimerci nei termini di un programma postsocialista e postliberale, basato su una rottura materiale e concettuale – una frattura ontologica – rispetto alle tradizioni ideologiche del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi modelli di gestione della produzione» [5].
Insomma, il “potere costituente” su cui edificare la rivoluzione postliberista dove sta, nella moltitudine o nel lavoro organizzato/rappresentato? Sempre a parere dello scrivente, frammenti di verità galleggiano tanto nella tesi di Galli come in quella di Negri, a patto di uscire dai filosofemi (hegheliani o spinoziani) e ragionare in termini di crudi rapporti di forza e poste in gioco.
Al lavoro in quanto tale le donne e gli uomini concreti possono chiedere moltissimo; tanto dal punto di vista psicologico (senso e significati, identità/dignità) come economico (emancipazione e risarcimenti materiali). Tuttavia la conquista di una soggettività dotata della potenza che si fa cambiamento discende soltanto da precise condizioni posizionali, già verificatesi in una fase storica ma che attualmente non sono più presenti: essere al centro dei processi di riproduzione della ricchezza; appunto, come al tempo del capitalismo industrialista (fordista). In altre parole, quando le lotte del lavoro imponevano alla controparte datoriale mediazioni al rialzo; che si traducevano in conquiste collettive, generali.
Ahimé, la stagione di finanziarizzazione capitalistica e il nuovo modo di produrre transnazionale, alla ricerca dei residui eserciti di riserva del lavoro da irreggimentare in forme servili, ha disarmato il lavoro attraverso l’innovazione tecnologica e organizzativa; al tempo stesso sottomettendo la politica, ormai trasformata in caporalato del consenso in quanto subalterna ai poteri plutocratici e mediatici.
Sicché possiamo dare ragione a Galli quando propugna una «ripoliticizzazione delle istituzioni: la politica deve essere capace di nuova autonomia, cioè di nuovo orientamento e governo» (pag. 156). Per cui diventa essenziale l’aggregazione (in un nuovo “blocco storico”?) di componenti sociali attualmente oscillanti tra due stati d’animo politicamente inerti: l’indignazione e il fatalismo.
Ma tutto questo ben difficilmente potrà realizzarsi permanendo all’interno di uno specifico ordine (tardo capitalistico) – quale quello vigente – che presuppone priorità d’agenda, stili di vita e consumo, forme verticistiche del comando; un plesso inestricabile di poteri micro e macro, innanzitutto sotto forma di pensiero pensabile, che si è trasformato in “dente d’arresto” per ogni effettivo cambiamento in senso democratico.
Negri e Hardt auspicano una “nuova scienza della società”. Più modestamente l’autore di queste note pensa a una rinnovata fisiologia dell’antagonismo sociale, che riproponga la corretta circolazione tra movimenti e istituzioni. E qui compare una parola a cui lo stesso Galli ricorre sovente: conflitto, il grande motore della trasformazione sociale. Anch’esso desaparecido. «Destra e Sinistra permangono perché la politica moderna e contemporanea non è dogmatica o monolitica, ma indeterminata e conflittuale… intorno ai presupposti e alle finalità stesse dell’agire politico. Che sono, in sintesi, il primato dei doveri (la Destra) oppure dei diritti (la Sinistra)» [6]. Alla faccia della presunta obsolescenza dei due termini fatali.
Ma per esserci conflitto – non protestarismi rituali – occorre individuare il “punto archimedico” in cui l’insorgenza sociale tocca nervi sensibili e diviene significativa leva di cambiamento. Come al tempo industrialista; quando – ad esempio – lo sciopero non era ancora un’arma spuntata.
Note
[1] S. Žižek, Dalla tragedia alla farsa, Ponte alle Grazie, Milano 2010 pag. 187
[2] in G. Galletta, Il mondo non è una pesca, Socialmente, Granarolo dell’Emilia 2010 pag. 63
[3] M. Salvati, Mario Monti e un governo per l’Italia, il Mulino 6/2012
[4] A. Negri, La forma stato, Feltrinelli, Milano 1977 pag. 20
[5] M. Hardt e A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004 pag. 256
[6] C. Galli, “L’attualità di Destra e Sinistra”, la Repubblica 18 novembre 2010
Il capitalismo liberale ha rovesciato il capitalismo democratico condizionato dai partiti di massa Un ritorno indietro tra gli applausi degli innovatori
Le forme sono essenziali. In politica sono indispensabili. Forma di partito, forma di governo, forma di Stato. È il livello istituzione. Qui c’è stata una perdita, un esaurimento, uno svuotamento, un indebolimento, per cause precise, niente affatto oscure. E lasciamo stare la retorica consolatoria, e in questa fase assai ambiguamente interessata, circa il fatto che queste forme siano state sopravanzate dalla crescita di nuove domande, di nuovi bisogni, da parte di una società civile buona oppressa da una cattiva politica. Magari fosse così. E io penso che se fosse così, le forme “altre” si sarebbero già trovate.
Quando c’è una spinta dal basso, reale, sociale, e quindi materiale, essa cerca, e trova, le forme di espressione adeguate. Non si è trovato niente, ormai da un quarto di secolo a questa parte. Proposte improbabili, sperimentazioni effimere, improvvisazioni leggere, liquide, come si dice, personaggi caricaturali, in una produzione allargata di questi fenomeni. (...) C’è stato uno smottamento nella qualità del consenso delle società democratiche. Le spinte sociali sono state sostituite dai flussi di opinione. Nelle attuali democrazie, puramente elettorali, questi flussi esercitano una funzione strutturale. Come l’andamento delle borse determina la decisione economica, così l’andamento dei sondaggi determina la decisione politica. Un altro modo di esercizio del primato da parte dell’economico sul politico. Che è primato del quantitativo sul qualitativo, dei numeri sulle idee. Non è un caso che sia il populismo a presentarsi oggi come la nuova forma dell’obbligazione politica. E il primato della comunicazione salga al ruolo di vero potere sovrano. E allora, ecco, è rappresentazione ideologica l’autonomia dell’opinione pubblica. Di fatto, essa è guidata, orientata, manovrata, come mai accaduto nel passato. Gli interessi chiedevano rappresentanza politica, e alla fine sottostavano alla mediazione.
L’opinione per prima cosa pretende di autorappresentarsi. È qui l’alternativa vera tra due sistemi istituzionali. Tra parlamentarismo e presidenzialismo, non c’è una scelta di tecnica elettorale, c’è la sostanza di una decisione politica. Attraverso la manipolazione dell’opinione, si afferma il potere incontrastato degli interessi più forti. Non l’interesse generale. Al contrario: il rapporto di forza alla stato puro, senza più i famosi lacci e lacciuoli. E accade questa cosa niente affatto strana. La parte acculturata della società, per il fatto che detiene il monopolio della parola, comanda sul resto, maggioritario, del sociale. Il popolo, con dentro, al centro, la persona che lavora, è ridotto all’intendenza che seguirà. La «Repubblica delle idee» detta i compiti a casa alle forze politiche. Primo compito di un partito del rifare Italia, e del fare Europa: dare voce ai senza parola. Perché se non gliela dà il partito questa voce, non gliela dà nessuno.
(...) La destrutturazione delle forme, ripeto, di partito, di governo, di Stato, è venuta avanti come l’obiettivo, riuscito, di un’operazione dall’alto. Ne aveva bisogno il capitalismo liberale, globalizzato, che negli ultimi trent’anni ha imposto il suo potere assoluto. Non una innovazione, una restaurazione. Nella sostanza del rapporto sociale reale, armato di rivoluzioni tecnologiche. Non un salto post-novecentesco, ma un eterno ritorno di Ottocento. Il capitalismo liberale ha rovesciato il capitalismo democratico del trentennio precedente, gestito o condizionato dai grandi partiti di massa, a componenti popolari. Questi erano gli ostacoli alla globalizzazione liberista e questi sono stati tolti di mezzo, con applausi dalla platea degli innovatori. La deriva di ceto politico, il discredito dei partiti, l’insignificanza dei governi, la debolezza al posto della forza degli Stati, non sono state cause ma conseguenze. Così, irriconoscibilità, autorefernzialità, corruzione della politica. (...) Sento dire, da varie parti: dobbiamo capire le ragioni dell’antipolitica. Oppure: non chiamiamo antipolitica tutto quello che non ci piace. Due osservazioni di buon senso. Ma il buon senso va sempre letto con un buon intelletto. Il riflesso antipolitico dei cittadini rispecchia, senza saperlo, l’antipolitica dei mercati, che invece la sanno lunga. La ricerca di un’altra politica, senza i partiti, oltre i partiti, delle associazioni, del volontariato, del civismo, si trova accanto, suo malgrado, la setta di quei professionisti dell’anticasta, che dalle pagine dei grandi giornali d’informazione fanno da megafono ai peggiori interessi di classe.
Antiliberisti democratici a convegno:
la cronaca di Bruno Gravagnuolo
Non un seminario qualsiasi. Ma una giornata di battaglia delle idee. E un caposaldo, nel flusso di tanti interventi: il partito. Con un suo «punto di vista», un suo insediamento sociale, e una sua idea di società. Naturalmente quel partito, in parte, c’è già e si chiama Pd. Questo il senso dell’iniziativa promossa da Rifare l’Italia e Crs: «Le forme della politica organizzata». E dentro relazioni di Mario Tronti, Francesco Verducci e tra gli altri Michele Prospero, Carlo Galli, Antonio Saitta, Alfredo Reichlin, Franco Marini, Cesare Damiano, Guglielmo Epifani, Anna Maria Furlan, Maurizio Martina, Santino Scirè, Roberto Gualtieri, Agostino Giovagnoli, Andrea Manciulli, Antonio Misiani. A chiudere, Stefano Fassina Matteo Orfini e Fausto Raciti, Walter Tocci. Il tutto suggellato dal segretario, un «classico», a raccogliere e a far sintesi.
Filo conduttore: dentro la crisi di questo capitalismo monetario c’è un rischio democratico e sistemico. Ma anche un’occasione: riuscire a rendere visibili i rapporti di dominio e i conflitti sociali, quelli a lungo nascosti nella spettralità mercificata e liberista, che ha reso a lungo la sinistra assente o subalterna. Già, lo ha riconosciuto anche Bersani: «La sinistra ha sbandato, si è persa a lungo e invece adesso certe radici tornano con forza: eguaglianza, crescita, emancipazione, civilizzazione, e soprattutto lavoro, a guidare e far crescere le imprese...». E il tema era stato anticipato da Tronti: «La vittoria dell’economia ha deformalizzato la politica, distrutto la rappresentanza degli interessi...».
Prospero evoca una tenaglia: «Onnipotenza del mercato che sradica e delegittima la politica, con l’ausilio dei partiti personali». E sta qui il pericolo («sindrome prefascista»), perché in questa situazione «il Pd è l’unico partito in campo, ma in un campo di rovine che slitta in senso populista e antidemocratico», magari sub specie tecnica. Per Prospero ci vuole una «macchina di partito, forte e radicata», per produrre e riprodurre gruppi dirigenti, «oltre l’eccezionalità delle primarie». Non tutti condividono. Donatella Campus e Sara Bentivegna, danno per acquisita la centralità di social-network e movimenti post-materiali. E la predominanza della leadership. Ma l’aria che tira è un’altra: contano le relazioni materiali, non quelle immaginarie. Le gerarchie e i poteri, la moneta e il capitalismo globale. Mentre i movimenti sono evanescenti, o «tirano» a destra, perché sono i poteri reali a trarne profitto. «Gioco truccato dove la sinistra perde sempre», ricorda Matteo Orfini. Obiezioni che tornano nelle parole di Miguel Gotor, Stefano Fassina, Walter Tocci e anche di dirigenti sul territorio come Martina, Manciulli, Raciti, Speranza. Il punto è: «Intercettare al nord lo sfarinamento del blocco di destra, parlare all’imprenditoria locale strozzata dai debiti e ingannata da Lega e Berlusconi». Oppure, come dice Reichlin: «Tornare a reindividuare il nemico, dopo che per trent’anni il capitalismo angloamericano l’ha fatta da padrone con rating, fisco, flessibilità e derivati finanziari».
Eccola «la sfida di partito». Riscoprire «passioni e interessi, ira etica, in un mondo non liquido, ma solido di gerarchie» (Carlo Galli). E perciò riposizionarsi, ma da un «punto di vista». E da un antagonista. Per fare blocco sociale e alleanze. E ricostruire la democrazia devastata da finanza e populismo. E ancora: partiti veri contro la corruzione, che i partiti personali-locali moltiplicano (Prospero). Per Gotor è questo il primato della politica: «Lotta alla subalternità agli altri saperi e agli altri poteri». Mentre Fassina, teorico laburista e personalista cristiano, precisa: «Sì, partito del lavoro, ma dei lavoratori e dei ceti subalterni in primo luogo. Non lavoro e basta! Poi di qui articoliamo un discorso sull’interesse generale...». Altri spunti: «Finanziamento pubblico controllato e in ragione delle tessere fatte» (Misiani). E la «società civile» che è corpi intermedi, mondi vitali, partiti, non ideologia nuovista. Infine Bersani. Attacca «disgregazione ed eclettismo», apre ai movimenti civici ma senza accettare «invadenze». E pianta i diritti civili su quelli sociali. Non senza riprendere uno spunto di Gualtieri: «La socialdemocrazia è ben viva e noi non stiamo lì ad alzare il ditino o a fare i professori, perché è lì il campo progressista». Infatti ci vuole un «partito-Europa» e di sinistra per battere Merkel e provarci in Italia, «Se stavolta tocca a noi...».
COSTRETTA a fornire il suo appoggio determinante a un governo di “unità internazionale”, cioè auspicato dai vertici dell’economia mondiale, la sinistra riformista in Grecia appare ormai prossima alla cancellazione.Ecosì, di fronte alla tecnica finanziaria che fagocita la sinistra “responsabile”, a noi viene da chiederci: potrebbe succedere anche in Italia? Troppi interessati sospiri di sollievo hanno offuscato l’esito del voto greco. Suppongo ne abbia tirato uno inconfessabile pure Alexis Tsipras, il leader della sinistra radicale Syriza che ha quasi raddoppiato i suoi voti restando però all’opposizione, come le è più congeniale. Meglio per Tsipras che governi una coalizione guidata dalla destra che prima truccò i conti pubblici e poi ha assecondato le ricette disastrose imposte dall’estero a una popolazione che in maggioranza (contando gli astenuti) le rifiuta. Una polarizzazione che ha ridotto all’irrilevanza il Pasok, cioè il partito del socialismo europeo. Liquidando come velleitaria l’aspirazione a una riforma democratica dell’architettura dell’Unione, fondata sulla salvaguardia dei diritti e degli interessi dei ceti popolari.
Il dubbio si è affacciato ieri sulla prima pagina dell’Unità: “Gioire perché vince la destra?”. Ma forse è troppo tardi: i cittadini ateniesi che fanno la fila alle mense dei poveri e devono rinunciare all’acquisto di farmaci per i loro figli, non hanno ricevuto nei mesi scorsi nessuna visita di Hollande, Gabriel, Bersani, Pérez Rubalcaba. Sospinti da un eccesso di prudenza, i leader della sinistra europea hanno preferito la latitanza, evitando di porre la questione greca fra le priorità di una politica riformista unitaria. Quasi che la bancarotta di cui i greci sono vittime, ma, certo, anche corresponsabili, fosse una disgrazia periferica da ignorare in assenza di soluzioni realistiche; e dunque non rimanesse che trasmettere la più miope delle rassicurazioni: noi non corriamo il rischio di finire come loro. Vero è che Bersani ha dichiarato di vergognarsi per come l’Europa tratta la Grecia; ma quel sentimento non si è ancora tradotto in mobilitazione politica.
Non va dimenticato che prima di capitolare di fronte al diktat emergenziale del governo tecnico di Papademos, nel novembre 2011 il premier socialista George Papandreou aveva compiuto un estremo tentativo: la convocazione di un referendum che suffragasse attraverso il responso della sovranità popolare la scelta di restare nell’eurozona, disposti a pagarne il prezzo doloroso. Quella procedura democratica, che aveva buone chances di riscuotere il consenso della cittadinanza, fu bloccata nel volgere di poche ore dalla reazione indispettita dell’establishment finanziario e dei più autorevoli statisti europei. Confermando la più spiacevole delle impressioni: l’incompatibilità fra le regole dominanti dell’economia e le regole, ad essa sottomesse, della democrazia. I teorici dell’estrema sinistra (ma anche della destra populista) ebbero così modo di denunciare che, sia pure con il giogo del debito al posto degli eserciti, stiamo vivendo una nuova epoca coloniale. Cioè che abbiamo già subito la liquidazione anticipata dell’unione politica confederale dei popoli europei. Quel veto, imposto nella più totale latitanza della sinistra riformista europea, segnò l’inizio della fine del Pasok e spianò la strada al successo di Syriza: una coalizione di forze della sinistra radicale favorevole a infrangere le normative comunitarie; le cui componenti nei prossimi giorni si scioglieranno per dare vita a un inedito partito-movimento sotto l’abile guida di Alexis Tsipras.
In apparenza un tale scenario risulta difficilmente replicabile in Italia. Qui il disfacimento della destra berlusconiana e leghista sembra favorire una supremazia elettorale del Partito Democratico e, alla sua sinistra, Nichi Vendola non pare intenzionato per il momento a rompere l’unità del centrosinistra. Tale quadro però è reso assai sdrucciolevole dall’exploit del Movimento 5 Stelle e dalle tentazioni populiste no euro che allignano trasversali, alimentate dalla crisi. Se in Grecia è Antonis Samaràs di Nea Demokratia a prendere da destra le redini del governo con il Pasok e Sinistra Democratica in posizione subalterna, il probabile terremoto elettorale italiano potrebbe determinare risultati tali da costringere anche il nostro Paese a riproporre un altro governo di “unità internazionale” come scelta obbligata. “Auspicata” dall’alto. Come testimonia anche la riforma del mercato del lavoro che la sinistra parlamentare si accinge a votare controvoglia — quasi fosse impossibile promuovere un nuovo europeismo d’impronta sociale — i riformisti costretti a muoversi sotto dettatura tecnica non riescono da tempo a rompere uno schema che li penalizza. Ma la politica obbligata a derogare dalle proprie ambizioni, sacrificando i valori in cui crede e i legami sociali che la vivificano, finisce per soffocare. L’esempio del socialismo greco incapace di reagire alla sofferenza del suo popolo è lì a dimostrarcelo. Così, nel medio periodo, anche nel nostro Paese si riproporrebbero le spaccature interne della sinistra, a scapito delle forze riformiste.
I leader della sinistra tedesca, francese, spagnola e italiana che hanno disertato di fronte alla tragedia greca, incontrano ogni giorno nuovi ostacoli sulla via di una politica davvero europeista. Lo testimonia il recente congresso della Spd che ha deciso di procedere subito, d’intesa con la Merkel, alla ratifica del Fiscal Compact nel Parlamento di Berlino: un trattato che così com’è esclude possibilità di deroghe per i Paesi indebitati; né più né meno “stupido” come già lo furono i parametri di Maastricht violati tranquillamente dai più forti ma imposti ai deboli in nome di una convenienza spacciata per virtù. Del resto, per paura di perdere consensi, i socialdemocratici tedeschi confermano ancora oggi il loro rifiuto degli eurobond. Come in tempo di guerra, gli interessi patriottici l’hanno vinta sull’internazionalismo proletario.
Chi di fronte all’incognita di un’economia al collasso vuole alimentare di nuova linfa gli ideali dell’unità europea e della giustizia sociale, non può ignorare più a lungo l’agonia della Grecia. O la sinistra ricomincia da Atene capitale, o rischia di perdersi.
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?
In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent'anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l'Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un'ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell'ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d'altro. Stupefacente è che si parli soltanto d'altro, forse nell'illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce?
In realtà, proprio questo rifiuto di occuparsi dei fondamentali (che non sono quelli economici, definiti sulla base dei presupposti ideologici del neoliberismo, bensì le ragioni ordinatrici del rapporto sociale capitalistico), proprio questa rimozione dei problemi-chiave (che riguardano le finalità della cooperazione sociale e le ragioni di fondo che informano i rapporti di classe) è palesemente una concausa del perpetuarsi dell'attuale condizione o, per lo meno, dell'incapacità di individuare una via per sortirne senza correre il rischio di una distruzione generalizzata (mentre la distruzione parziale di intere popolazioni è già nei fatti, oltre che nell'agenda di classi dirigenti ciniche e irresponsabili). Non è forse così?
Questo vale a porre una domanda ai compagni non comunisti della sinistra di alternativa. Oggi (da diversi anni, in verità) è senso comune ritenere che il comunismo sia ormai un residuato bellico. Chi ancora si ostini a definirsi, nonostante tutto, «comunista» e a pensare in termini di classe e di sfruttamento del lavoro salariato è considerato un po' scemo o stravagante: comunque un tipo da lasciar perdere, perché non ha capito dove siamo e in che mondo viviamo, un po' come chi oggi andasse in giro coi pantaloni a zampa d'elefante.
Questo senso comune è diffuso anche a sinistra e la cosa non stupisce. Molte ragioni aiutano a spiegarla. La prima è che critiche al capitalismo su basi diverse dal classismo ce ne sono sempre state (anche di destra, del resto). Il capitalismo genera (o eredita ed esaspera) molteplici contraddizioni sistemiche e «strutturali» (non in senso marxiano). Distrugge l'ambiente, per esempio, e radicalizza i conflitti di genere. Benché l'analisi di queste contraddizioni rischi di rimanere monca se enucleata dal quadro di riferimento della «critica dell'economia politica» (cioè dall'analisi del modo di produzione come dispositivo-base della dinamica riproduttiva sociale), non è una novità che ci sia anche una sinistra anticapitalista non marxista né comunista.
Una seconda ragione la indica lo stesso Marx quando sostiene che «le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti». È il nòcciolo un po' ruvido di quella problematica che Gramsci indagherà in tutte le sue complesse articolazioni sotto il titolo di «egemonia». Insomma, nel rifiuto del comunismo pesa, forse, anche la subalternità all'ideologia dominante, che da vent'anni (dalla caduta del Muro) o trenta (dall'imporsi dell'egemonia neoliberista) viene trionfalmente dichiarando obsoleta la prospettiva della trasformazione nel segno della liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico. Un'altra ragione - senza offesa per nessuno, ma senza nemmeno eccedere in diplomazia - è l'opportunismo.
In generale il ceto politico evita il rischio di apparire poco attraente, o addirittura respingente, a causa di riferimenti ideologici caduti in disgrazia (in questo caso anche - occorre riconoscerlo - per le responsabilità gravissime, storiche, delle leadership che li hanno assunti come base o a pretesto delle proprie decisioni). Tanto più i politici tengono a evitare tale rischio se attestarsi sul terreno cruciale della critica del modello di sviluppo (cioè fondare la critica del presente sul terreno costitutivo dei rapporti di produzione) porta inevitabilmente a toccare nervi scoperti negli interlocutori con i quali si tratta di ragionare in vista di alleanze di governo o di coalizioni elettorali. Il discorso non è moralistico. Ma ci si dovrà pur chiedere, prima o poi, per che cosa si lavora.
È assai probabile che, muovendosi in questo modo, escludendo dal proprio orizzonte intellettuale e politico la critica del capitalismo, una parte della sinistra di alternativa riuscirà a salvarsi dallo sterminio politico al quale molti dei suoi attuali interlocutori l'hanno da lungo tempo destinata. Tutta l'operazione della Bolognina nacque dalla convinzione che i comunisti fossero ormai fuori dal tempo, una zavorra per la sinistra italiana ed europea. A maggior ragione le vicende ulteriori, sino al trionfo del «voto utile» cinque anni fa, si comprendono agevolmente solo considerando che per buona parte della dirigenza del centrosinistra l'eliminazione della sinistra è un valore in sé. Ma, stando così le cose, che cosa significa «salvarsi»? È, per la sinistra, un fine in sé o serve per fare qualcosa? Con quali prospettive ci si cimenta in questa partita?
Occorre un salto di qualità. Non si tratta di condannare le aspirazioni del ceto politico. Né di scandalizzarsi - com'è di moda - per il fatto che anche chi fa politica di professione (e soltanto gli ingenui o gli ipocriti negano che debbano esistere politici professionisti) nutre ambizioni e preoccupazioni, in particolare per la propria sicurezza. Ma le aspirazioni dei politici non dovrebbero mai prevalere sull'interesse sociale che essi intendono (e dichiarano di) rappresentare. E dovrebbero essere concepite in modo razionale (cioè non sul breve o brevissimo periodo). Un soggetto politico degno di questo nome non può, in altri termini, traguardarsi alla scadenza di una legislatura, decidendo il da farsi in base al calcolo delle probabilità di mandare in Parlamento qualcuno dei propri dirigenti. Sarebbe la più miope delle operazioni, mentre la società viene prendendo coscienza della radicalità della crisi in atto e dei pericoli che la sovrastano.
I segnali di questa presa di coscienza si moltiplicano. In tutta Europa (la forza di Syriza, e dei movimenti in Spagna, la crescita del fronte anti-fiscal compact in Irlanda, persino la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali della Merkel) e anche in Italia. Di questo parlano l'esplosione del fenomeno Grillo, il dilagare dell'astensionismo, le vittorie dei movimenti contro le privatizzazioni, la coraggiosa presa di parola della Fiom, alla quale i politici hanno risposto in modo ipertattico, reticente e omissivo.
Lo si è detto tante volte: siamo seduti su una polveriera, viaggiamo sul Titanic a poca distanza dall'iceberg. Ma ormai non c'è bisogno di Cassandre per sapere che non si tratta di esagerazioni. Per questo il discorso sul capitalismo - discorso concretamente politico, che evoca un'agenda di misure tese a ribaltare il dominio dei capitali sul lavoro e sulla società, e a restituire alla moneta la funzione di mediare socialmente la redistribuzione della ricchezza in modo da ridurre progressivamente la sottomissione del lavoro e di allargare la sfera della cittadinanza - deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo. Diversamente, non ci sarà scampo per nessuno. E nessuno, di fronte al disastro annunciato, potrà un domani rivendicare la propria pretesa innocenza.
Un'esperienza che ha segnato un secolo. Domande e nodi irrisolti dell'Unione Sovietica alla luce del presente. Alcune considerazioni a partire dal libro di Rita di Leo «L'esperimento profano»
L'esperimento profano
di Rita di Leo, già segnalato da Mario Tronti (il manifesto 25/4), è un breve libro appassionante e provocatorio, con il quale non si può non fare i conti. Si tratta della rivoluzione del 1917, del suo seguito e morte, decisiva per il Novecento, dalla quale la vecchia e nuova sinistra si ritraggono perlopiù senza darsi la pena di conoscerla e affidandosi ad alcuni confortanti clichés. Rita di Leo rompe con i parametri abituali in Occidente, vi distilla una vita di ricerche e non poca passione militante - e forse altrettanta delusione - obbligandoci a un tuffo dall'interno delle sue stesse categorie. Non è un libro di storia, è una chiave di interpretazione proposta in quattro fasi, che presuppone qualche conoscenza degli altri suoi lavori e di una bibliografia essenziale che opportunamente segnala alla fine.
Perché ha chiamato nascita e morte dell'Urss l'«esperimento profano»? Perché è il terzo, e per la prima volta non religioso, tentativo di costruire una comunità di eguaglianza e giustizia in terra, i due precedenti essendo stati quello dei gesuiti nel XVI secolo in Paraguay e del quacchero William Penn nel XVII secolo in Pennsylvania. Ambedue al di là dell'Atlantico. La rivoluzione del 1917 è invece frutto del pensiero politico laico ed europeo, e l'allinearla a quelle due esperienze un po' borderline delle chiese cattolica e protestante non manca di ironia. E infatti Rita di Leo definisce anche questo terzo esperimento come «utopia» o «abbaglio», non luogo o illusione, qualcosa di simile per luminosità e inconsistenza, a una aurora boreale. Cosa che fa sussultare la vecchia comunista che sono, e tanto più mi costringe a riflettere.
Dai filosofi re a Brezhnev
Vediamo dunque. Rita divide l'esperimento in quattro fasi, secondo gli obiettivi che volta a volta si sono dati coloro che le hanno dirette. La prima è quella che chiama dei «filosofi re», gli intellettuali che attorno a Lenin hanno pensato e guidato la rivoluzione contro l'autocrazia e il capitalismo in Russia, la seconda è la scelta di Stalin di costruire la nuova società sul primato della classe operaia, la terza è il suo proseguimento nello «stato di tutto il popolo» di Krusciov, e la quarta la «gestione popolare» di Leonid Brezhnev. Le prime due mantengono l'«utopia» al primo posto; la terza non indica, come ha voluto credere l'Occidente, una cesura con Lenin e Stalin ma punta a una crescita della rivoluzione fino al «comunismo» previsto entro gli anni '80; la quarta è il tentativo di una «gestione popolare» che rallenti le maglie nelle quali era fino ad allora costretta una società provata e carica di bisogni. Quando infatti Rita di Leo da' loro una data, le quattro fasi diventano due e mezza, poiché dal 1917 al 1956 permane il primato dei fini proposti dalla vecchia guardia bolscevica, Stalin e, diciamo, metà di Krusciov vi resterebbero in continuità, mentre Breznev ne segna un non dichiarato declino e Gorbaciov ne determina la fine. Dal capitalismo al socialismo e ritorno.
Il tutto non senza qualche problema, perché si tratta di una studiosa poco incline a semplificare. Mentre le quattro fasi seguono il trascolorare in se stessa della parola d'ordine dei dirigenti fino al 1956, la datazione li assume nell'asse teorico del gruppo cui di Leo appartiene - Aris Accornero, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Umberto Coldagelli - per il quale il grande discrimine sta fra chi assegna la priorità al progetto politico e chi si arrende a quella dell'economico. Con Gorbaciov si spegne così non solo l'esperimento sovietico ma il'ultimo frutto del pensiero politico europeo, da sempre teso a un'idea di società prima che a una logica economica. La parabola dell'Urss segna anche l'approdo e la fine del ruolo egemonico dell'Europa. E ad essa - al presente tutto mercificato - sono dedicate le ultime quaranta pagine del lavoro - oltre che agli interrogativi, che di Leo lascia aperti, posti dalla Cina.
Un problema di classe
E qui mi si affacciano una serie di domande. Si può parlare realmente di una continuità, al di là delle intenzioni dichiarate? Le differenze fra il comunismo di guerra e la Nep, i passaggi dalla morte di Lenin all'espulsione di Trotski nel 1926, da questa ai piani quinquennali e alla lotta contro i contadini ricchi, non possono non aver cambiato agli occhi dei «filosofi re» la composizione e il senso comune della società, da come si era presentata nel saggio di Lenin sul capitalismo in Russia al 1930. Anche osservando la sola Nep, è evidente che i rapporti sociali fra classi e ceti subivano una scossa dopo l'altra, fra estromissione e riammissione, per non dire della successiva separazione dei contadini in un paese ancora maggioritariamente contadino: Lenin non cessa di ricordarlo. Se la sola classe, per dir così, legittimata restava la classe operaia, che sarebbe venuta crescendo con l'uscita dalle campagne, con quali mezzi Stalin garantiva la promozione dei dipendenti dall'industria a «classe», e protagonista? Non si nasce classe, si diventa. Gli operai, raccolti nelle grandi fabbriche, erano favoriti dai salari più elevati di quelli dei quadri intellettuali e tecnici, dal ricevere dall'azienda prodotti in natura, oltre che vacanze, cure e accesso ai teatri o ai concerti e anche dalla possibilità di cambiare lavoro all'interno delle regole sugli spostamenti fra regioni e città. Quando andai a Mosca nel 1949 rimasi stupefatta degli elenchi, appesi alle cancellate, di mansioni e manodopera di cui ogni fabbrica era in cerca. Non li ho mai visti né prima né dopo in nessuna altra parte. Si aggiunga che gli operai godevano di una certa libertà nel definire le cadenze dell'organizzazione del lavoro - Rita di Leo si spinge a definirla «autonomia» - e se era loro aperto, tramite la direzione dell'impresa e il partito, l'accesso a una continua riqualificazione e da questa alle gerarchie sia della fabbrica sia del partito. Questo garantiva il consenso operaio al gruppo dirigente, ma si può dubitare che la soddisfazione di questi bisogni ne allargasse la coscienza oltre i limiti corporativi nei quali i filosofi re, ma anche i filosofini degli altri partiti comunisti e adiacenti, li consideravano intrisi.
Tentazioni giacobine
Di fatto si dava, penso, più che una «autonomia» una cooptazione dei migliori da parte della gerarchia ancora prevalentemente politica; e nei limiti di una idea di sé che non superava la barriera di cui parla Marx nella Ideologia tedesca e della quale era persuaso anche Lenin. Né si vede come potesse formarsi una classe operaia «per sé» soprattutto da che Lenin aveva abolito i soviet, cioè assai presto. Ma questa mancanza si collega al mancare di un'ipotesi chiara di autorganizzazione della classe, per non dire «delle masse» che sostituisse lo stato, sulla quale in verità non dice gran che neanche Marx al di là della polemica con Bakunin. Sta di fatto che non solo la «classe per sé» è ben poco presente nella vicenda sovietica dagli anni Trenta in poi, ma nell'ultima fase dell'Urss si lascerà espropriare senza muovere foglia anche di quelle che noi chiameremmo «conquiste», ed erano concessioni in cambio di consenso.
Se questo mi sembra il nodo problematico centrale della ricostruzione dall'interno che della vicenda sovietica avanza Rita di Leo (e culminerà nella formula kruscioviana di «stato di tutto il popolo») appena secondo mi sembra il problema dello stato, dello stato-partito e del partito stato, e del suo monopolio del politico anche attraverso un enorme apparato di repressione. Rita di Leo non ne parla, perché esso appare dai filosofi re non altro che uno strumento del permanente stato di eccezione che caratterizza il periodo in cui essi vivono. Ma proprio la impossibilità di uscire dagli stati d'eccezione dovette preoccupare i filosofi re, eredi del pensiero politico europeo e della socialdemocrazia tedesca. Sul permanere di uno stato Lenin non nascondeva la sua irritazione. Ma sulle logiche di un apparato repressivo? Dopo gli scritti contro la tentazione giacobina del Terrore, dovette essersi arreso alla spietatezza, sapendo quali e quanti ostacoli stava incontrando l'esperimento «immaturo». Perché immaturo? E quando sarebbe stato «maturo»?
Rita di Leo non vi si sofferma. Dice di sé, più turbata dalla rivolta ungherese che dal rapporto segreto al XX congresso. Non ne dubito. L'età conta, e io - che credevo di aver fatto il lutto dei comunisti impiccati ai lampioni di Budapest e degli operai che li guardavano ridendo - rimasi paralizzata un giorno dell'autunno 1988, o dell'estate 1989, leggendo all'aeroporto di Mosca, in attesa del volo per Roma, un articolo del Moskovskie Novosti sul Comitato centrale eletto dal Congresso detto dei Vincitori: degli eletti, poco più di un centinaio, si e no una decina avevano finito la vita naturalmente o in guerra. Misurai allora, stupefatta, la dimensione del Terrore al Partito dopo il 1934. Come poteva non condizionare il gruppo che ne usciva ancora indenne? Che genere di discussione o ancora più su quale fine, che non fosse sconfiggere la Germania, poteva darsi al suo interno in quegli anni? Che genere di passaggio di poteri? E dopo la guerra? Ancora, Rita resta colpita negli anni '80 dalla decisione gorbacioviana di sopprimere la presenza del partito nei comitati di fabbrica; ma di quale partito, convinto di perseguire che cosa, stiamo parlando?
L'umiliazione degli intellettuali
Per ultimo, e scusandomi per le inesattezze (nonché il sistema approssimativo di trascrizione) il Lied di questo ultimo lavoro di Rita di Leo è la distruzione dell'intellettualità nata a cavallo del secolo avvenuta nella prima fase della rivoluzione e la incapacità, o non volontà, di costruirne un'altra - fuorché tecnica nell'apparato militare-industriale - nelle fasi successive. Per cui essa ha ragione di affermare che nel loro complesso gli intellettuali sono stati umiliati e puniti sempre e sono stati quindi sempre una opposizione. Ancora oggi sembrano gli ultimi in grado, a eccezione di pochi, di fare una riflessione ragionata sui 74 anni dell'Urss. Ma perché i «filosofi re» non hanno avuto eredi? Avevano sicuramente una percezione del problema; Lenin ripete incessantemente, negli ultimi mesi, «siamo indietro», «sappiamo poco», «studiare studiare studiare». I già istruiti restano sospetti, quelle che chiamiamo «scienze umane» idem, ed è dir poco. Qui una cesura con Stalin c'è e di fondo.
E anche questo induce a problematizzare quella priorità della politica che Rita di Leo vede resistere dal 1917 al 1956. L'esperimento profano costringe a interrogativi che la vulgata anticomunista è lontana dal sollevare con altrettanta violenza. È un discorso appena cominciato.
Propongo di non usare mai più il termine "benecomunista": è orribile, ridicolo, equivoco e neogotico. Sembra il nome di una congregazione iniziatica fantasy. Poi, per evitare disquisizioni dotte ma superflue, chiamando magari in causa persino san Tommaso, propongo una distinzione netta tra il concetto di bene comune, senza ulteriori determinazioni, e quello di beni comuni; che può anche essere declinato al singolare come bene comune, ma solo se riferito a entità specifiche e circoscritte, anche se globali e diffuse: come lo sono per esempio l'acqua, l'atmosfera, l'informazione, i saperi, la scuola. Bene comune rinvia a una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece al conflitto: contro l'appropriazione, o il tentativo di appropriarsi, di qualcosa che viene sottratto alla fruizione di una comunità di riferimento. Una comunità che non include mai tutti, perché si contrappone comunque a chi - singolo privato o articolazione dello Stato - da quel bene intende trarre vantaggi particolari, escludendone altri. In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta, sia nella rivendicazione che nell'esercizio di un diritto acquisito, forme di controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o ai relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della democrazia rappresentativa.
Per me il concetto di beni comuni ha relativamente poco a che fare anche con il "Comune" di cui scrivono Negri e Hardt. Quel "Comune" non è che l'ultima versione di una soggettivazione totalizzante del reale che ha attraversato una successione di figure: Classe Operaia, "operaio massa", "operaio sociale", "moltitudine", per approdare, per ora, al "Comune". È un'entità che "gioca con se stessa", producendo il proprio antagonista (la Classe Operaia "sviluppa" il Capitale; la moltitudine "crea" l'Impero, ecc.) per poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall'esito precostituito. Le lotte per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi e meno che mai predeterminati: anzi, il rischio a cui sono esposte - e insieme ad esse, coloro che se ne fanno protagonisti e l'umanità tutta - è di giorno in giorno maggiore.
In entrambe queste accezioni "comune" non è comunque la stessa cosa di "pubblico": soprattutto se per pubblico si intende "statuale". Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico, risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. In realtà sono le modalità di esercizio del potere su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo, dei vantaggi che può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipativa che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un apparato statale o di una sua articolazione. Il degrado e la rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica (dall'Iri a Finmeccanica, da Fs alle ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, dimostra in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel senso di statale, e comune. Peggio ancora se si pensa di affidare a poteri più centralizzati (Regione o Stato), come propone Asor Rosa, il compito di rimediare ai guasti perpetrati dai livelli decentrati dell'amministrazione. Quei guasti possono essere evitati o corretti solo in un regime di trasparenza integrale, con forme di coinvolgimento e di consultazione popolare: che non sono però riducibili a un referendum, e meno che mai a un sondaggio; perché devono essere precedute e accompagnate da confronti pubblici, effettivi e approfonditi, sui problemi in campo. Per questo ho molte riserve anche sulla proposta di Luciano Gallino di un'agenzia nazionale per il lavoro che finanzi progetti locali. Queste agenzie ci sono già: si chiamano Invitalia (già Sviluppo Italia e prima ancora Gepi) e Italia Lavoro. Sono due baracconi che conosco personalmente, dove si concentra la quintessenza del degrado clientelare. Non sono mancate loro in passato risorse finanziarie ingenti, anche se non nella misura proposta da Gallino, e hanno quasi sempre operato su progetti locali: messi però a punto da poteri pubblici statuali, al di fuori di qualsiasi coinvolgimento partecipativo delle comunità beneficiarie. I risultati sono stati devastanti. Per questo ritengo la democrazia partecipativa condizione irrinunciabile anche della lotta per il lavoro.
Che rapporto passa allora tra il conflitto sociale che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per dei beni comuni e la lotta di classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come ancora recentemente ha ben documentato Luciano Gallino (se mai ce ne fosse stato bisogno) è ben viva e oramai estesa su tutto il pianeta. È soprattutto la lotta contro i lavoratori sferrata dal capitale finanziario, commerciale e industriale, a cui la globalizzazione ha messo in mano (oltre alle forme tradizionali di spolpamento dei lavoratori dalla testa in giù) anche l'arma delle delocalizzazioni: per poter tagliare loro l'erba sotto i piedi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È difficile anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo possano ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo attacco globale. Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo più una dimensione ristretta, aziendale o di categoria, quando non di reparto; raramente nazionale e mai transnazionale. E anche quando assumono forme offensive, il che non succede spesso, difficilmente riescono, soprattutto nei paesi di consolidata industrializzazione come il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero contenimento dell'aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di vita.
Secondo me quella corsa al ribasso che costituisce la sostanza e il motore della globalizzazione liberista può essere fermata solo sottraendo il lavoro - a pezzi e bocconi - ai diktat di una competizione senza limiti: con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del pianeta, produzioni orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e al miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di riferimento: cioè i beni comuni. Per questo il conflitto sociale per i beni comuni costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di un ripresa offensiva della lotta contro lo sfruttamento del lavoro.
È ovvio, per me, che a un movimento che si batte per i beni comuni, l'ambiente, il lavoro e l'accoglienza ciascuno deve essere libero di portare il bagaglio di idee e di ideali che si è costruito nel tempo e che ha deciso di traghettare fino a qui, magari attraversando mari in burrasca e bonacce snervanti. Benvenuti! Senza quel bagaglio - quei bagagli, perché sono tanti e differenti - dovremmo partire da zero; e non è così. Ma a me sembra sbagliato sostenere - come temono alcuni - che «se non ci si dichiara di sinistra, si apre alle idee della destra». Milioni di persone oggi non riescono a considerarsi di destra o di sinistra e provano disgusto tanto per il cinismo e il carrierismo che contraddistingue la destra quanto per l'acquiescenza e la corsa all'emulazione di cui in tanti anni ha dato prova chi ha rappresentato la sinistra agli occhi di un'opinione pubblica poco impegnata e aliena dai troppi distinguo.
Ma c'è di più: Bossi e Berlusconi, che fin dai loro esordi hanno messo in scena, promosso e cavalcato la cosiddetta antipolitica (altro che Beppe Grillo!), hanno diffuso tra i più sprovveduti, ma soprattutto tra milioni di giovani che si sono affacciati alla vita adulta in quel contesto, una identificazione pressoché totale tra sinistra e politica nella sua accezione peggiore, che è quella che tutti hanno da tempo sotto gli occhi. Loro, invece, proprio perché antipolitici, da quei vizi si erano chiamati fuori. Questa costruzione si sta sfaldando sotto il peso delle inchieste giudiziarie (assai più che per circostanziate denunce politiche), ma resta un dato di fatto da cui non si può prescindere. Dichiararsi oggi di sinistra in forma pregiudiziale, e non qualificarsi invece per i contenuti e le battaglie che si sostengono, vuol dire probabilmente erigere steccati nei confronti di un pubblico che è un interlocutore diretto del discorso sul beni comuni. Il successo dei referendum contro la privatizzazione dell'acqua e il nucleare ne è, a contrario, la riprova.
Il soggetto politico nuovo oggi si chiama Alba; e noi "albigesi". È una liberazione. Ritengo - e con me molti altri; e alcuni lo hanno fatto notare - che la lotta politica che ci vede impegnati non abbia, e non abbia bisogno, di un "soggetto" (anche e soprattutto nel senso etimologico del termine, che significa «chi sta sotto»). La ricerca o la promozione del soggetto che si fa carico di un processo storico, o di una transizione radicale - e di questo stiamo parlando, credo - comporta effetti totalizzanti che contraddicono le premesse che ci hanno fatto convergere verso questo impegno. Invece, gli attori dei processi all'interno del quale vogliamo operare sono, e saranno sempre di più, molteplici e plurali. E anche aleatori: oggi ci sono e domani possono scomparire, insieme a noi, sia come individui che come forza organizzata. Tutto ciò alcuni di noi lo hanno già sperimentato più volte. L'importante è che il processo vada avanti comunque, magari correggendo la rotta nel corso del tempo; e che ci sia sempre posto per nuovi ingressi e soprattutto per nuovi protagonismi: specie delle nuove generazioni e di un punto di vista di genere elaborato e trasmesso dalle donne. Sulla loro partecipazione si gioca l'esito di questa iniziativa.
28 aprile 2012
Italia dei beni comuni, parte il non-partito
di Daniela Preziosi
Oggi il primo appuntamento. Pochi big, molte idee, sette minuti a intervento. Si parla di metodo e programma
«Inizia un percorso». Gli organizzatori si raccomandano di non scrivere molto più di questo. Perché l'appuntamento di oggi a Firenze, la «partenza» del «non partito» - lanciato dal manifesto per i beni comuni e per «un'altra politica nelle forme e nelle passioni» il 29 marzo scorso, e di cui si è discusso, e anche parecchio, sulle pagine del manifesto e sulla rete - è una vera partenza al buio. Si annunciano molti partecipanti, e infatti è stata prenotata una platea da 1500 persone. Ma la giornata di oggi è stata scandita con quattro interventi iniziali, di quattro dei primi firmatari del manifesto, una sorta di relazione introduttiva a quattro voci (Marco Revelli, Nicoletta Pirotta, Claudio Giorno della Val Susa e Paul Ginsborg). In sala sarà distribuito un testo di Luciano Gallino, intitolato provocatoriamente «Come creare un milione di posti di lavoro».
Per il resto, si procede senza rete: sette minuti a intervento, ciascuno degli interventi potrà fare la sua proposta e indicare la direzione verso cui dovrebbe salpare la nave.
Non sono previste special guest: il sindaco De Magistris ha inviato gli auguri ma non ci sarà, Nichi Vendola lo stesso, per impegni di campagna elettorale, ma ci sarà il suo braccio destro Nicola Fratoianni. Ci sarà invece Paolo Ferrero, segretario del Prc. Ma per tutti varrà la regola dei sette minuti.
Di certo è che si discuterà di due prime «discriminanti», come è stato chiaro dai testi ricevuti in questi giorni da chi ha annunciato la propria partecipazione allegando una «motivazione»: il no alla riforma del pareggio in bilancio in costituzione e alla riforma del lavoro in discussione in parlamento. Per il momento sono gli unici due punti fermi di un «programma» che non c'è, ancora (l'assenza di progetto è una delle critiche mosse al non-partito da Rossana Rossanda) ed è tutto da discutere, e scrivere, e approfondire, nella successiva «due giorni» immaginata per giugno.
Il «progetto» sarà il core business della discussione. La differenza fra «bene comune» e «beni comuni», anche: anche perché è fresco di ieri l'intervento con cui Asor Rosa (sul manifesto) rintraccia la «dottrina del bene comune » di Tommaso d'Aquino nel «progetto» del soggetto politico nuovo.
E poi c'è il tema della forma del non-partito, e le questioni di «metodo». Perché il soggetto politico nuovo propone, almeno nelle intenzioni, «un salto di paradigma anche negli strumenti organizzativi», spiega Marco Revelli, «che non possono essere quelli tradizionali - centralistici, verticali e gerarchici - delle burocrazie dominanti, ma che sappiano praticare, all'opposto, l'orizzontalità della rete, la comunicazione decentrata, l'eguaglianza nella parola e nell'ascolto tra diversi. Tutto questo vuol dire, come ci è stato contestato, rimuovere il "conflitto sociale"? Cancellare le "forme di organizzazione" in nome di uno spontaneismo un po' anarchico? O non significa, piuttosto, ripensare il conflitto - e insieme l'organizzazione - nelle forme in cui ce lo ripropone quello che Gallino ha definito il finanz-capitalismo (che non cancella le classi sociali, ma che le ridisegna in forma del tutto inedita)? D'altra parte, che ne penseremmo se qualcuno, dopo il 1848, avesse continuato a proporre i vecchi club del 1789, come strumenti della lotta politica e la jacquerie contadina come via all'emancipazione?».
Last but not least, la questione del nome. C'è persino chi chiede di andare avanti prima di decidere. Insieme ai criteri per nominare un coordinamento nazionale, anche il nome si decide oggi, verrà scelto dalla platea da una rosa di quattro selezionata sul sito. Sono: Alba, Alleanza lavoro benicomuni ambiente; Lavoro e beni comuni; alternativa democratica; e infine Italia Bene Comune.
Quest'ultimo non passerebbe inosservato. Perché è anche il nome che Bersani ha scelto per la campagna delle amministrative del suo Pd. Facendo per l'occasione stampare migliaia di felpe blu con slogan più tanto di collo e polsini tricolori. Un'appropriazione indebita per il partito che fino all'ultimo non ha voluto schierarsi apertamente con i referendum per l'acqua pubblica, quelli che poi hanno portato al voto 27 milioni di persone. E un partito che ha votato due decreti Monti per le liberalizzazioni che i referendari hanno definito «tentativi sfrontati di negare il risultato di quei referendum». Salvo poi utilizzarne il logo del «bene comune» per marketing elettorale, dopo aver scoperto che funziona, ora che il vento è cambiato.
29 aprile 2012
I delusi della sinistra
di Daniela Preziosi
«Non siamo giovani. Siamo diversamente anziani». Marco e Saverio, 29 anni, se la ridono, guardandosi intorno scoprendo di essere 'la giovanile' del «soggetto politico nuovo» che di lì a poco verrà battezzato Alba. È un acronimo, ma le battute dei ragazzi - che ci sono, solo che non solo maggioranza - si sprecano. Marco Voleano, di Terni, precario in una casa editrice, e Saverio Monno, studente che già si definisce disoccupato, spiegano che se i loro coetanei non sono arrivati è perché «per sapere dell'incontro o sei allievo di Ginsborg o leggi il manifesto». Se no non lo sai. «Ma no, è che i giovani si stanno vedendo l'assemblea dal mare sul tablet in streaming», attaccano Davide e Lorenzo, 24 e 25 anni, di Prato. Oggi inizia il ponte del primo maggio, fuori dal PalaMandela il sole incoccia. «I ragazzi si fanno sedurre dai guru, meglio se della rete», dice Lorenzo. «E poi la sinistra è in coma, se ti avvicini ti senti subito in dovere di curarla. Invece Grillo ti urla: non c'è più destra, non c'è più sinistra, ci siamo solo noi», dice Marco.
È un fatto: la platea è in maggioranza over 40. Twitta mentre ascolta. I commenti vanno in diretta sui maxischermi. L'effetto è il dibattito e il suo doppio, fa molto sinistra e molto vintage. Tweet: «In platea troppe facce note per aver devastato i partiti della sinistra». Risposta: «Meglio un vecchio intelligente che un giovane stupido».
Gli orfani dei partiti sinistra
Stefano e Gabriella, bella coppia di fiorentini, dopo la scissione di Rifondazione (la seconda, quella del '98) si sono tenuti alla larga di partiti. Movimenti, tanti: girotondi, viola, Se non ora quando. Cani sciolti. Quando hanno letto del «soggetto politico nuovo» si sono detti: fosse che fosse la volta buona, sottinteso che si ricomincia. «Siamo venuti a vedere». Stesso discorso per Dora e Paolo, di Livorno. Lui Prc, lei Unione Inquilini, «ma lo sfavamento verso i partiti è lo stesso», giurano. La platea è zeppa di uomini e donne come loro: ceto medio riflessivo dieci anni dopo (le «pancere nere» le sfottevano all'epoca i ragazzini), delusi dalla sinistra ma irriducibili al dipietrismo, incompatibili con il grillismo, sarcastici con il nuovismo. Tweet: «Abbiamo l'età media di chi ne ha viste tante». Dal microfono, il sociologo Revelli: «Siamo qui perché gli altri hanno fallito». Per questo la platea non concede applausi facili, tranne che non si nomini la Fiom o non si dica «staccare la spina a Monti»: non è mancanza di entusiasmo, né tristezza né stanchezza: chi ne ha sentite sparare tante non si scalda per il primo che passa. Seleziona, ragiona. «Qui siamo in 1400, ma la metà esatta è venuta per ascoltare, senza aver firmato il manifesto fondativo», dice Massimo Torelli, instancabile organizzatore del primo appuntamento fiorentino. Insomma, è tutta gente a caccia di una sinistra in cui impegnarsi. Quindi magari non si spella le mani, ma è pronta a rimboccarsi le maniche per «un nuovo inizio vincente» (Paolo Cacciari).
Il nuovo partitino no
«A patto che non sia l'ennesimo partitino», questa è la parola d'ordine che circola ovunque, dal microfono alla platea. Tanto più che in platea circolano tanti ex qualcosa. E qui però le opinioni si divaricano. «Serve una rete di relazioni, di connessioni, per fare insieme le battaglie. Noi a Torino già lavoriamo così» dice Michele Curto, provenienza Libera di don Ciotti, ora consigliere comunale e segretario di Sel. E indica una fila, molto avanti: c'è il magistrato Livio Pepino e Giorgio Airaudo, Fiom. Ma il tema dell'«appartenenza plurima» (Paul Ginsborg) è un nodo. E non tanto per i partiti che si mettono in posizione di ascolto - l'«interlocuzione» di Sel la esprime Nicola Fratoianni, braccio destro di Vendola, la «disponibilità» a una federazione a nome del Prc la esprime il segretario Ferrero, che però a una 'federazione della sinistra' aderisce già. «Io non so chi votare, un contenitore della sinistra plurale lo voterei volentieri», dice Virginia, di Prato, 38 anni. L'assessore napoletano Lucarelli - che viene dalla giunta di De Magistris, sua la proposta delle 'liste civiche nazionali', lo dice esplicitamente: l'ambizione guarda al 2013. E il voto alle politiche diventa una tale ossessione nei capannelli, che Torelli dal microfono esorta: calma, abbiamo appena cominciato a discutere. Perché una cosa è ragionare su una rete «di comuni per i beni comuni», che funziona da Napoli a Corchiano (provincia di Viterbo, patria della nocchia, ne racconta la realtà il sindaco Bengasi Battisti). Un discorso che vive già in alcune liste civiche che la prossima settimana vanno al voto (Parma, Piacenza, L'Aquila, Lecce), e che può camminare ancora. Un'altra è l'accelerazione verso un 'soggetto politico nazionale', che al primo incontro genera dubbi e diffidenze. Di ogni tipo: come quella del vignettista Staino che ascolta perplesso, a quella di Rosario, che è venuto da Catanzaro, con la sua incrollabile «volontà di fare politica. Se solo trovassi un soggetto politico nuovo».
30 aprile 2012
«La democrazia prima di tutto»
di Marco Revelli
«Se siamo qui è perché avvertiamo che non c'è più tempo». Questo l'incipit della relazione introduttiva di Marco Revelli, ieri a Firenze. Poi: «Ci tocca dire fin da subito chi siamo e insieme cosa non siamo e cosa non vogliamo essere. Non siamo materia di gossip per i media. (...) Non siamo nemmeno l'urlo roco del populismo a buon mercato. (...) Non siamo una nuova, piccola formazione politica». Insomma, «cosa vogliamo?» «Vogliamo essere gli abitanti di un nuovo spazio pubblico liberato dalle presenze ingombranti dei vecchi monopolisti della decisione. L'embrione di una nuova cittadinanza, (...) una forma organizzata che raccolga la testarda domanda di partecipazione di quella parte di cittadini che (oggi in Francia, domani in Italia) non vogliono rassegnarsi al cappio del fiscal compact e alla dogmatica feroce di Berlino e di Bruxelles, alla riduzione dei diritti sociali in costi da tagliare e sacrificare sull'altare dei mercati, allo smantellamento del modello sociale europeo e alla mercificazione sistematica della vita individuale e collettiva». In sintesi: «Riappropriazione dello spazio pubblico e indisponibilità alla delega». E, in cima all'agenda, la questione della democrazia e dei «possibili antidoti» alla sua crisi.
Persone che stimo sono critiche rispetto all’ampio impiego che si fa ultimamente a proposito dell’espressione “beni comuni”. In effetti, è un termine che oscilla tra due destini: diventare un luogo comune, e quindi una coperta per contenuti diversi, oppure essere un’espressione significativa che esprime realtà e speranze, aspirazioni e traguardi capaci di unificare pensieri e azioni di soggetti diversi. Tra i contributi al suo chiarimento mi limito a ricordare Rodotà, Mattei, Ricoveri.
E’ un’espressione che personamente adopero da tempo a proposito di città, anche perché riecheggia la più antica espressione “consumo comune”, che adoperai ampiamente per il mio Urbanistica e società opulenta (1969). Per il presente rinvio a un mio scritto, La città come bene comune pubblicato nella collana di Baiesi “Ogni uomo è tutti gli uomini”, che riprende relazioni svolte nel 2008 all’European Social Forum di Malmö e a un successivo convegno organizzato dalla rete Camere del lavoro-CGIL a Venezia.
Il termine “bene” nella lingua italiana è facilmente comprensibile in opposizione a “merce”, ed è soprattutto in questo senso che lo adopero. Mentre “comune” lo adopero come distinto da “collettivo” e da “pubblico” ma non in opposizione con questi; in relazione all’uomo, poi, lo assumo come integrativo rispetto a “privato”.