Il manifesto, 5ottobre 2014, con postilla
Quando ci è stato chiesto di essere presenti ad una iniziativa unitaria della sinistra, a una manifestazione dove Sel ha chiamato a partecipare donne e uomini di una sinistra plurale, abbiamo accettato molto volentieri. Perché è la stessa sinistra che ogni giorno si incontra e discute sulle pagine del manifesto, il giornale che da oltre quarant’anni si batte per rinnovare la sinistra italiana.
E’ stata l’occasione per rivendicare il nostro ruolo, il nostro essere stati l’unico giornale impegnato a sostenere in modo aperto, senza autocensure, una campagna elettorale europea a favore della Lista Tsipras. Un’impresa più difficile del solito, sulla quale in pochi erano disposti a scommettere perché prima del voto la lista era assolutamente sconosciuta. Anche a sinistra. E proprio per questo è stata un’occasione da non perdere per chi non voleva rassegnarsi a votare per Renzi, né per Grillo e nemmeno ripiegare nell’astensionismo.
Non sempre le motivazioni che hanno fatto nascere la Lista Tsipras sono state rispettate. Ci sono stati personalismi esagerati, dosi eccessive di autoreferenzialità, insopportabili elenchi di buoni e cattivi. Ma, nonostante tutto, alla fine ha prevalso l’idea di rompere vecchi steccati, l’unica idea capace di moltiplicare la partecipazione, specialmente delle giovani generazioni. Questa idea si è tradotta in forza che ha poi assunto il peso del quorum elettorale.
Abbiamo cercato di dare voce a quella sinistra che non vuole chiudersi nell’autocompiacimento dello sconfittismo, o nel ruolo rassicurante di quelli destinati all’opposizione a vita. Ma adesso come continuare il cammino?
Vista la sproporzione delle forze in campo sarebbe velleitario dire che vogliamo diventare maggioranza - in Grecia Tsipras ha avuto successo in un paese in macerie - tuttavia vogliamo che si costruisca a sinistra del Pd una forza - o un insieme di forze - che possano farsi sentire con autorevolezza sui temi legati al governo del Paese. Se è chiaro quale può essere l’obiettivo (raggiungibile attraverso una lunga marcia che coinvolga però associazioni, partiti, liste, movimenti), dobbiamo comunque chiederci perché facciamo fatica a farci ascoltare, perché non riusciamo a rappresentare una sinistra larga e popolare, una sinistra del lavoro, dei diritti, del vero cambiamento (non quello sventolato da Renzi) verso una società più democratica e meno liberista.
Una prima risposta, che ha radici antiche, è questa: non sappiamo stare insieme, non sappiamo unire le forze. Questa incapacità è tutta ideologica: l’idea prevale sul rapporto tra le persone, per affermarsi l’idea è disposta a camminare sulle macerie, politiche e personali.
Noi a sinistra abbiamo bisogno di sincerità e franchezza. Se siamo ancora una esigua minoranza, più come rappresentanza politica che nella società italiana, non è per colpa di Berlusconi. E come non era lui in passato il problema, oggi non lo è Renzi.
Perché il problema siamo noi, sempre divisi, sempre convinti di avere la verità in tasca e guai a chi ce la tocca. Ecco, se vogliamo diventare più grandi, più forti, ognuno di noi deve cedere un pezzo della propria sovranità. Senza questa consapevolezza non solo non si fa una sinistra nuova, ma non si tiene insieme neppure un condominio.
Sappiamo che dobbiamo confrontarci con un apparato politico e un peso notevole, quale quello rappresentato dal Pd di Renzi. Ma il suo successo potrebbe non reggere sui tempi lunghi. Anzi, i dati del tesseramento del Pd sono drammatici.
Più in generale, stiamo attraversando una fase molto difficile dal punto di vista economico. Ma adesso, come ieri, sappiamo almeno con chi abbiamo a che fare. E come vent’anni fa il berlusconismo strappò alla sinistra la parola “libertà”, oggi Renzi ha sequestrato la parola “cambiamento”.
Ogni giorno vediamo l’uso spregiudicato che ne fa. Cambia la Costituzione, cambia la giustizia, cambia il lavoro. E chi trova al suo fianco? Berlusconi. E chi canta ogni giorno la serenata al presidente del consiglio? Chi è il più accanito fan del premier? Il Giornale di Arcore che vede nel segretario del Pd il giovane cavaliere che massacra le opposizioni interne e i sindacati.
Renzi e Berlusconi fanno fatica a stare in due partiti diversi, provano a inventarsi qualche motivo di contrasto, ma proprio non ci riescono. Riforme istituzionali, giustizia, lavoro: sono d’accordo su tutto. Guardate le scene di amorosi sensi quando si incontrano in Parlamento deputati e senatori del Pd e di Forza Italia: baci, abbracci, pacche sulle spalle. Guardate le elezioni delle provincie: sono spariti i cittadini e sono comparsi i listoni con Fi e Pd uniti da un’attrazione fatale.
Dovremmo lasciare che la natura faccia il suo corso, dovremmo lasciarli liberi di unirsi in un unico partito. Ma non sarà così. E a noi spetta comunque il compito di costruire una sinistra più forte, più radicata nel territorio, più socialmente utile. Siamo convinti che possiamo darci questo obiettivo? Possiamo, Podemos, come dicono in Spagna, ma ad alcune condizioni. Smetterla di essere solo contro il nemico di turno, e metterci al lavoro per qualcosa.
Come con Berlusconi, anche con Renzi la comunicazione, la televisione, l’informazione è l’arma decisiva. Oggi è persino peggio perché il conformismo, il sostegno, l’adesione, l’applausometro verso l’alleanza tra Renzi e Berlusconi è impressionante. Almeno ai tempi di Berlusconi c’era qualche programma tv, qualche tg che criticava il padrone del vapore.
Oggi tutti i telegiornali cantano la stessa canzone. Se nei giornali a qualche direttore o a qualche fondatore, scappa di scrivere che Renzi è inaffidabile, si strilla ai poteri forti. Come se Marchionne, la finanza internazionale, le banche, Confindustria, il presidente della repubblica, l’industria di stato (e perfino la massoneria) fossero delle mammolette, come se non fossero schierati come un sol uomo con il governo Renzi-Alfano, o se preferite Poletti-Sacconi.
In questa battaglia per una sinistra rinnovata, plurale, ricca di esperienze diverse, chiara in alcuni obiettivi comuni (non bisogna essere d’accordo su tutto), noi del manifesto ci siamo. E ci saremo.
Il nostro giornale ha avuto momenti durissimi nella sua lunga storia. Ma siamo andati oltre le divisioni e siamo riusciti a superare le difficoltà. Oggi il manifesto è vivo e vegeto e spera di festeggiare la fine dell’anno con l’impresa più grande di tutte: ricomprarci la testata
Siamo convinti che le lettrici e i lettori ci aiuteranno nell’impresa, come hanno sempre fatto perché sanno che il manifesto è un bene collettivo: di quelli che lo fanno e di quelli che lo leggono, di quelli che ieri erano in piazza. Perché è un soggetto di questa sinistra, una sinistra con radici profonde, un po’ eretiche, una sinistra che non separa diritti sociali e diritti individuali, libertà e solidarietà, una sinistra fieramente dalla parte del torto soprattutto quando la ragione dei più, della maggioranza, si riconosce la trinità Renzi-Marchionne-Berlusconi.
postilla
Una riflessione sensata; domande penetranti, sulle quali bisogna riflettere e, se possibile, decidere. Rangeri scrive: dobbiamo «smetterla di essere solo contro il nemico di turno, e metterci al lavoro per qualcosa». Dobbiamo insomma metterci al lavoro per qualcosa, raccontare come noi, la nuova sinistra, vogliamo contribuire a un altro cambiamento, alternativo a quello minacciato dai nostri avversari. E allora aggiungo una domanda ulteriore: perché chi si batte per una nuova sinistra non è riuscito a valorizzare e sviluppare quel cambiamento alternativo, radicale ma non utopistico, che è proposto nei documenti fondativi della lista Altra Europa con Tsipras, e anticipata e ripresa in tanti scritti sul manifesto e su altri giornali, da promotori e protagonisti della lista come Guido Viale, Luciano Gallino, Barbara Spinelli?
Il manifesto, 3 ottobre 2014. con postilla
L'appello. Nichi Vendola chiama il Pd e la sinistra diffusa: Renzi svolta a destra, lavoriamo tutti insieme. «Il premier a un giro di boa, la nouvelle vague renziana è più a destra di Sacconi. Chiedo a chi fa la battaglia sull’art.18: questa volta andate fino in fondo. Sel non starà in prima fila ma accanto agli altri. La lista Tsipras? Una semina»
Quello di Renzi è «un governo conservatore che spara un colpo alla nuca di ciò che resta della civiltà del lavoro». Nichi Vendola pesca a piene mani dal suo canestro di parole perché, spiega, «siamo arrivati a un punto di svolta», «il dibattito sull’art. 18 è una linea di demarcazione che riguarda identità, orgoglio e senso stesso della parola sinistra. Quando la sinistra diventa asociale è meglio chiamarla destra». Lancerà questa proposta alla manifestazione di domani a Roma. In mattinata la formalizzerà alla direzione del partito: «Mettiamo Sel a disposizione, come uno strumento, un lievito, un terreno di incontro per una parte del Pd, i movimenti, le associazioni della sinistra diffusa e del sindacato»,per combattere insieme l’agenda economica del governo Renzi. Con il manifesto Vendola è ancora più esplicito: è «l’inizio di un percorso con un futuro più lungo» e la richiesta «a tutti di fare una battaglia vera, di portarla fino in fondo».
Vendola, prepara un nuovo big bang a sinistra?
La mia proposta è lavorare per una coalizione dei diritti e del lavoro, che abbia la capacità di rendere sempre più stretto il legame fra i diritti sociali e i diritti civili.
È un invito alla sinistra Pd a uscire dal partito? Tutti, o quasi, hanno già detto che saranno fedeli ’alla ditta’, per dirla con Bersani.
Bersani sta facendo la sua lotta politica nel suo partito. Da altre parti si legge anche altro. Non intendo interferire nelle questioni interne al Pd, ma mi rivolgo a tutti quelli che sanno che siamo a un giro di boa della storia e della cultura di questo paese. Propongo di costruire qualcosa di nuovo, non di assembleare le schegge sconfitte della sinistra.
Allora è un invito a Pippo Civati, che sarà sul palco con lei?Tutti coloro che dal Pd muovono una critica radicale al renzismo e alla deriva a destra di questo governo sono interlocutori preziosi. Propongo loro di lavorare insieme, anche da diverse postazioni. Non li voglio iscrivere a Sel, metto a disposizione Sel per costruire qualcos’altro. Sel non vuole stare in prima fila, ma accanto a tutti coloro che si sentono impegnati in un processo indispensabile al paese, non al ceto politico.
Concretamente questa ’coalizione’ cosa farà?
Intanto il 4 ottobre facciamo un’iniziativa insieme, con persone diverse, proprio perché nella sinistra ci sono tante cose, tante idee, tante testimonianze. Hanno il difetto di essere sparpagliate, frammentate, a volte in sonno da troppo tempo. Si tratta di riaggregarle in un progetto che non abbia nessuna torsione minoritaria e testimoniale, lontano dalla trappola per cui o c’è il governismo o c’è il minoritarismo. Rimettiamo in campo le forze che parlino il linguaggio di una sinistra moderna, che non si sente custode di nessuna ortodossia ma che sia protagonista di un cambiamento.
’Cambiare’ è un verbo renziano, ormai.
Dobbiamo liberare questa e altre parole dalla retorica mistificante del renzismo. Mando una lettera a Renzi: “Caro Matteo, c’era un tempo in cui quando si diceva ’riforma’ si parlava di qualcosa che migliorava le vite: pensa al diritto di famiglia, alla riforma sanitaria, a quella psichiatrica. Oggi quando si evoca la parola riforma si parla sempre e solo di qualcosa che ti spoglia di un diritto”.
Renzi promette che il jobs act darà diritti e tutele a chi non li ha.
Renzi dice tutto e il contrario di tutto, è un caleidoscopio di slogan. Sta con Hollande ma anche con Cameron. Dice a Merkel ’non trattarci come scolaretti’ ma poi come uno scolaretto dice ’rispetteremo il 3 per cento’.
Parlava delle «schegge sconfitte della sinistra». Si riferisce alla Lista Tsipras? Vi sentite ancora impegnati in quel percorso?
Credo che quell’esperienza sia stata positiva dal punto di vista della mobilitazione e delle energie, soprattutto quelle giovanili. È stato un segnale di cambiamento. Ha corrisposto a un sentimento e a un bisogno che c’era in una parte dell’elettorato. Purtroppo la sua seconda vicenda, quella dopo il voto, non mi pare che brilli. Neanche dal punto di vista di come marca la scena del parlamento europeo. Ma continuo a considerare quell’esperienza un’importante semina per la sinistra.
Alla riunione della direzione del Pd D’Alema ha quasi rivendicato il referendum per allargare dell’art.18. Era il 2003, gli allora Ds — come lui — fecero campagna contro. Che impressione le fa?
Io ho partecipato a quella campagna per estendere le tutele a tutti. E ancora oggi penso che nonostante non si sia superato il quorum, il dato dei voti — quegli 11 milioni per il sì — resta la più grande consultazione di massa, imparagonabile a un sondaggio pilotato o a un’attività di marketing e propaganda. Fu un responso straordinario, l’espressione di un diffuso sentimento di giustizia sociale. Forse la odierna devastante scena di intere generazioni di precari consente anche a D’Alema un utile ripensamento. Quando poi sento gli esponenti della nouvelle vague Pd parlare di art.18 come di un privilegio, rabbrividisco. Licenziamento senza giusta causa, quello che Renzi chiama «libertà degli imprenditori», vuol dire licenziare uno perché ha il cancro, o è gay, una donna perché è incinta. Il privilegio semmai è l’esercizio arbitrario di un potere. La nouvelle vague Pd culturalmente sta più a destra di Sacconi, il peggior ministro berlusconiano.
Sacconi lamenta che sull’art.18 il jobs act ora è troppo timido.
I diversamente berlusconiani battono un colpo per ricordare che sono un fondamento di questa maggioranza. E lo sono davvero. Anche il cronoprogramma dei mille giorni è scandito dalla destra: all’inizio c’è un colpo al cuore dei diritti sociali, in coda forse forse arriverà una parvenza di diritti civili.
Al senato Sel ha presentato oltre 300 emendamenti sulla legge delega. Farete ostruzionismo?
Lo decideranno i nostri senatori. Io mi auguro di sì.
Fra qualche mese lascerà la presidenza della Puglia. C’è chi parla di un passo indietro, c’è chi dice che ha in testa di trasferirsi in Canada, patria del suo Eddy. Cosa farà davvero?
Farò il leader di Sel finché i miei compagni e le mie compagne me lo faranno fare. Ma non lo intendo come un incarico a vita. Quanto al Canada, è nel mio cuore, ma viverci è in contraddizione con la mia antropologia: sono una creatura mediterranea e ho bisogno del caldo e del mare.
Renzi vuole spianare la sinistra interna al Pd, e quasi quasi ce l’ha fatta. Spianerà anche voi?
postilla
Plagiando Eugenio Montale abbiamo dedicato tre versi ai compagni che restano nel PMR. Li ripetiamo, mutatis mutandis, a Nichi Vendola:
«non so come stremato tu resisti
in questa palude di finanzcapitaliamo
L'intervento che pubblichiamo è stato inviato alla mailing list dei militanti della lista "l'altra Europa con Tsipras", nella quale è in corso un fervido dibattito sulla prosecuzione, in Italia e in Europa, dell'azione politica iniziata in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo. Il titolo, i sottotitoli e i corsivi sono nostri. Altri interventi, oltre a quello di Paolo Cacciari, sono leggibili in calce all'eddytoriale n. 146.
Ho perso un po' di giorni a leggere i vari scambi (sono stato via otto giorni e sono arrivate a metà agosto 139 mail, numeri da record direi). La prima sensazione è stata di profondo spaesamento: sembra che stiamo in questa mailing list avendo fatto cose diverse, avendo lavorato a progetti diversi, insomma per caso, come se non avessimo fatto insieme un'impresa straordinaria (che non è avere preso le firme, il 4,03, ma avere messo le basi per un progetto nuovo). O come se avessimo fatto imprese diverse, o altrimenti che ci incontrassimo per la prima volta. Le lettura del contributo di Salzano e dell'intervista di Zagrebelsky mi hanno un pò chiarito le idee, e provo a dire la mia, ripartendo brevemente da quello che penso e conosco che abbiamo fatto (io conservo le mail, me le archivio, sono andato un pò a rileggerle).
Una dimensione europea fondativa quindi, il cui legame con Tsipras e quello che rappresenta è essenziale. Non solo un altro punto di vista quindi, ma bensì un vero e proprio cambio di campo di gioco, reso necessario dalla marginalità in cui dopo la fiammata del 2011 eravamo ridotti, come democratici e sinistra. Marginalità dovuta forse da non avere saputo dare risposta al cambio di quadro dei poteri reali, che ormai sono extranazionali.
Vi invito ad andare a rileggere i documenti fondamentali della nostra storia
L’altra Europa è nata con una positiva forzatura “approfittando” di una scadenza elettorale. L’obiettivo minimo è stato raggiunto. Ma è bene riconoscere – come fai tu - che l’esperienza contiene delle ambiguità originarie e prospettive divergenti. Per alcuni (i partiti) la Lista è stata usata come uno strumento specificamente limitato al suo scopo: portare dei loro rappresentanti al Parlamento europeo, e, con ciò, ribadire la loro esistenza. Altri, al contrario, speravano che fosse l’inizio di un processo fusionale che finalmente invertisse la tendenza alle separazioni dei partiti della sinistra. Altri ancora hanno sperato nell’avvio dal basso di una “coalizione sociale” (parole di Rodotà), prima ancora che elettorale, sul modello di Podemos.
Tu dici, giustamente, che serviranno tempo ed esperienze concrete per sciogliere le contraddizioni e capire in quale direzione sceglierà di andare l’esperienza dell’“Altra Europa-Italia” (non abbandonerei la dimensione europea nemmeno nel nome). Ma per riuscirci è necessario esplicitare le opzioni, pronunciarsi ed affrontare i nodi teorici e pratici che ci stanno di fronte. Mi pare infatti evidente che dietro alle varie opzioni possibili vi siano delle “visioni” di fondo che andrebbero messe a tema ed affrontate con la serietà e l’approfondimento necessari. Ad esempio: il rapporto tra politica e movimenti sociali (che poi è il riflesso del rapporto tra democrazia e società civile). Io penso che la “forma partito” tradizionale, sovraordinata e professionalizzata sia da abbandonare in radice. Da ciò derivano opzioni organizzative radicalmente diverse (reti orizzontali, non gerarchiche, capaci di iniziativa autonoma). L’idea della “confederazione delle autonomie sociali” del primo movimento operaio, ma anche di certo cattolicesimo (Capitini) e certo pensiero anarchico(Carlo Levi, Danilo Dolci), ripresa negli studi di Pino Ferraris, può essere messa alla nostra attenzione, o dobbiamo rimanere per sempre prigionieri della nostalgia del “più grande partito comunista d’Europa”?
Secondo: qual è la nostra teoria dello stato nel mondo globalizzato attuale? Pensiamo davvero che le istituzioni politiche rette dal modello della democrazia liberale rappresentativa siano praticabili dalla democrazia autentica (autodeterminazione delle popolazioni)? La smania elettorale, “prendere voti” (qualcuno parlava di una forma di “cretinismo”), non nasconde forse una insufficienza di consapevolezza e una “cattura” anche delle forze sane e critiche nei confronti del capitalismo dentro istituzioni ormai svuotate e asservite al sistema-mondo-liberista? Che significa “andare in parlamento” se non si sa prima che la nostra funzione è quella di fare “irruzioni scandalose” nelle istituzioni per destrutturarle, delegittimarle, dissolverle… ?
Terzo. Che cos’è la democrazia per noi? Manuel Castells parla di “democrazia delle persone”. E’ cioè un modo di praticare le relazioni umane e sociali. Questa democrazia radicale, sociale (diceva Bobbio) è inconciliabile con i rapporti di produzione e di consumo capitalistici (non solo quelli finanziarizzati) dominati dalla coercizione, dal ricatto, dalla violenza. Se non affrontiamo queste questioni rischiamo che perfino il capo della Chiesa cattolica riesca ad essere più convincente di noi.
Per dire, solamente, che, secondo me, l’Altra Europa- Italia potrà decollare solo se saprà accendere un vero dibattito pubblico all’altezza della crisi epocale che attraversa la democrazia. E il compito del gruppo di intellettuali e dei siti che citavi dovrebbe essere proprio questo: tenere alto il confronto culturale sul “sistema dei valori” di riferimento necessari per la trasformazione e il cambiamento.
Il manifesto, 27 luglio 2014, con postilla
In un suo intervento apparso su l’Unità del 25 luglio Marco Albeltaro sostiene la tesi della necessità di ricordare Palmiro Togliatti a sessant’anni dalla scomparsa in misura molto maggiore di quanto si stia facendo. Sono del tutto d’accordo. Sia Futura umanità. Associazione per la storia della memoria del Pci», sia Critica marxista, nelle quali sono impegnato, hanno dedicato o dedicheranno a Togliatti contributi di conoscenza e di analisi e. E credo che anche il manifesto non mancherà questo appuntamento. In particolare «Futura umanità» ha aperto le celebrazioni togliattiane con un convegno, svoltosi a Roma nel novembre 2013, le cui relazioni sono state pubblicate quest’anno (Paolo Ciofi, Gianni Ferrara, Gianpasquale Santomassimo, Togliatti il rivoluzionario costituente, Editori Riuniti) e presentate di recente in una sede parlamentare. Qualcosa si è fatto, dunque, e sicuramente nei prossimi mesi altro si farà. E bisognerebbe fare di più, ne convengo con l’autore.
La peculiarità del PCI
Non capisco perché si debbano contrapporre queste due figure della tradizione del comunismo italiano: come Albeltaro stesso dice, hanno vissuto in epoche diverse e fronteggiato problemi diversi. Entrambi sono state eminenti personalità politiche che hanno contribuito a creare, ciascuno nella propria epoca, quella peculiarità del comunismo italiano che in Gramsci ha le sue radici.
Personalità complementari
eddyburg aderisce e a cui invita tutti ad aderire.
Garantire il diritto di fuga
Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. Si tratta, secondo il rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), del dato più alto mai registrato dopo la fuga in massa, nella prima metà del secolo scorso, dall’Europa dominata dal nazifascismo. “La nostra è stata una generazione di rifugiati che si è spostata nel mondo come mai prima di allora”, ha affermato Ruth Klüger, scrittrice e germanista sopravvissuta ad Auschwitz, “io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga è diventata l’espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta. Sono interamente una persona del ventesimo secolo. E nel ventunesimo continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati”.
I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato. Ma una guerra planetaria, che distingue tra soggetti di diritto e corpi marginali in balia di eventi decisi altrove, non può rendere l’Europa un filo spinato.
L’Europa che vogliamo deve essere un luogo di accoglienza, di rispetto, di dignità.
Fermare il respingimento dei migranti
Il numero dei migranti forzati è aumentato, nel 2013, di ben sei milioni. Un incremento dovuto principalmente alla continua carneficina siriana che, a tre anni dall’inizio del conflitto, ha visto più di 2.5 milioni di persone perdere la possibilità di vivere nel proprio paese. Uomini, donne, bambini sono da mesi ammassati nella stazione Centrale di Milano, senza che il Comune – di fatto abbandonato dallo Stato – riesca a farsene pienamente carico, nonostante i molti sforzi profusi. Ma si tratta anche di schiere in fuga dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale – che si vanno ad aggiungere ai profughi della Somalia e del Maghreb. Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste – e a Sangatte, Ceuta, Melilla – in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati.
Trovano invece spesso respingimento, inferiorizzazione giuridica, economica e sociale, privazione della libertà. Molti di loro trovano la morte durante il viaggio, così che il Mar Mediterraneo si è trasformato in un cimitero dove si compie il naufragio di quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie.
Non serve, allora, appellarsi a retoriche rese impronunciabili, dopo lo smascheramento del Cuore di tenebra conradiano: l’Europa non rappresenta “il faro di civiltà, la globalizzazione della civilizzazione”, che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha descritto a Strasburgo, il 2 luglio, in apertura del semestre italiano di presidenza europea. L’Europa è, anche, quell’orrore che Marlow, il mercante d’avorio, figura dell’avidità e del dominio coloniale, porta in Africa; maschera che disvela fino a che punto il cuore di tenebra si trovi esattamente nella luce che la nostra civiltà ha preteso di esportare, ammantando il proprio dominio di superiorità morale.
Impedire la strage del Mediterraneo
É giunto il momento che l’Unione Europea guardi a se stessa: alla distesa, al mare di morti che le sue politiche hanno causato e continuano a causare, e che cerchi soluzioni concrete e immediate, se non vuole che i suoi stessi cittadini rifuggano lo sguardo delle istituzioni.
I quarantacinque migranti trovati asfissiati nella stiva di un barcone a Pozzallo sono le ultime, povere vittime di una carneficina immane, ma già, mentre scriviamo, se ne aggiungono altre: sono ventimila gli uomini, le donne e i bambini, conteggiati per difetto, annegati nel Mediterraneo dal 1988 in poi. Sono 500 le vittime accertate solo in questa prima parte del 2014. Una tragedia epocale, della quale non potremo dire che non sapevamo, quando sarà diventata storia. Storia d’Europa.
I cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi – tanto più inconcepibile quando si consideri che, nella sua Carta dei diritti fondamentali, l’Unione Europea ha dichiarato di porre la persona al centro delle proprie politiche, e ha considerato le politiche sulle frontiere, l’asilo e le migrazioni come vere e proprie politiche comuni.
Tuttavia l’Unione Europea che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare.
Attuare i trattati
La cosa è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere (art. 77), di gestione di tutte le fasi del processo migratorio (art. 79), di accoglienza delle persone (art. 78) e di condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri (art. 80).
Si tratta di norme che, a cinque anni dall’entrata in vigore, hanno trovato solo una parziale traduzione legislativa: nella prassi si continuano a privilegiare strategie come il Global Approach for Mobility and Migration e le cosiddette Mobility partnership con paesi terzi, prive di una base giuridica vincolante, realizzate su base volontaria e senza la partecipazione in codecisione del Parlamento europeo.
Il ricorso da parte delle istituzioni a questi espedienti e surrogati, anziché agli strumenti previsti dai Trattati per la realizzazione di politiche comuni, conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione.
L’insuccesso di questo approccio è provato dall’incapacità di predisporre e attivare soluzioni semplici e improrogabili come la creazione di corridoi umanitari. L’inettitudine nel costruire una maggioranza fra gli Stati membri che realizzi il principio di solidarietà anche finanziaria previsto dall’art. 80 del TFUE non può essere nascosta dalla retorica del Consiglio europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze, né dal continuo rinvio al ruolo di Agenzie europee, il cui compito dovrebbe consistere nell’applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza.
Né può essere taciuta l’ipocrisia per cui le politiche di respingimento – previste da molte misure decise in sede di attuazione – vengono presentate come intese a salvare la vita dei migranti e dei profughi, quando sono proprio quelle politiche a condannarli al rischio, sempre più attuale, di morire annegati.
La responsabilità primaria di tutto questo ricade sugli Stati membri, sul Consiglio e sulla Commissione, che hanno completamente ignorato i Trattati – e in particolare le norme volte a trasformare le politiche di controllo delle frontiere, di asilo e di integrazione dei migranti in politiche europee comuni, da attuare nel rispetto del principio di solidarietà. L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della fortezza Europa.
Dismettere la fortezza Europa
L’Unione Europea che, incapace di disegnare una vera politica comune, la affida alle proprie agenzie, come Frontex o Europol,[1] ha di fatto abdicato alla missione che si è data con il Trattato di Lisbona e con la Carta dei diritti. Non è questa l’Europa che vogliamo, né è Frontex che i cittadini europei hanno votato lo scorso maggio.
Noi, cittadini europei, diciamo che l’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito.
“Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Questo cartello esposto da un migrante durante la Freedom March, giunta il 27 giugno davanti ai giganteschi palazzi di vetro dell’Unione Europea a Bruxelles, descrive perfettamente la condizione in cui si trovano milioni di persone che cercano di entrare, o di restare, nella fortezza Europa.
La zona euromediterranea deve diventare uno spazio di cooperazione e solidarietà tra i popoli, non un’invalicabile frontiera esteriore per chi fugge da guerra e miseria, né un’angosciosa frontiera interiore, messa a separare la biografia di ciascuno, fatta di storia, affetto, legami, appartenenze.
È compito dell’Italia, in questo semestre europeo, promuovere l’attuazione organica e solidale di tutte le disposizioni dei trattati in materia di frontiere, immigrazione, asilo e integrazione dei migranti, facendosi carico di proteggere e accogliere gli sradicati e di consentire loro un nuovo radicamento, qualora lo desiderino.
Promuovere una politica comune europea
Consapevoli delle responsabilità che gli Stati hanno attribuito all’Unione Europea in questi campi, occorre operare con la massima urgenza perché l’UE venga dotata degli strumenti necessari a far fronte ai flussi massicci dei profughi. L’art. 78 TFEU e la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea già prevedono la predisposizione di piani di intervento, che tuttavia la Commissione continua a guardarsi dal proporre al Consiglio.
La presunta strategia globale della Task force sul Mediterraneo, dibattuta dal Consiglio europeo e sviluppata dal Consiglio informale Giustizia e affari interni dell’8 luglio – affidata a iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex – è fumo negli occhi, e sicuramente non costituisce una politica comune europea all’altezza della sfida con cui l’Unione, e in particolare i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono chiamati a confrontarsi.[2]
Chiediamo che il Parlamento europeo, attraverso la sua commissione competente – in collaborazione con la Presidenza italiana e la Commissione – proceda entro i prossimi sei mesi a una valutazione oggettiva dell’adeguatezza delle politiche e dei mezzi messi in atto dalle istituzioni e agenzie dell’Unione e dagli Stati membri e dei Paesi terzi.
Predisporre corridoi umanitari
Nel frattempo si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche. Occorre creare un corridoio umanitario tra le coste dell’Africa e le coste europee, prima a terra e poi in mare, sotto la tutela delle Agenzie delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, così da impedire nuove tragedie e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito; il che implica, al contempo, stroncare le nuove mafie dei trafficanti di uomini.
Il Parlamento europeo deve essere a questo proposito compiutamente informato delle ragioni per cui operazioni come EUBAM[3] sul territorio libico non permettano di aggredire il traffico di esseri umani.
Occorre approntare canali di ingresso legale dove un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare, e istituire postazioni dell’Onu e dell’Unione Europea nei principali porti di partenza e nei campi di transito, dove identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori.[4]
Occorre dotare l’European Asylum Support Office (EASO) di poteri di coordinamento delle attività degli Stati membri, alla stregua di quanto fatto con Frontex in materia di controllo delle frontiere; occorre smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l'accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie; occorre far cessare l’insostenibile pressione patita dagli abitanti degli attuali luoghi d’arrivo degli scafisti, primo tra tutti Lampedusa, che spesso si trovano, con grande generosità, a supplire l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea.
Più in generale, l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare, che ci riguarda tutti, come cittadini d’Europa.
Assicurare la libertà di movimento e il mutuo riconoscimento
Urge rendere permeabili i confini interni dell’Unione Europea, abrogando le norme nazionali e le prassi amministrative che nello spazio Schengen limitano la libertà di movimento delle persone, così come la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti. Questo significa sanare le ferite inferte dall’applicazione deviata da parte di alcuni Stati membri del sistema di Schengen non solo alle persone, ma al concetto stesso di libertà e uguaglianza che la nostra cultura democratica afferma di voler tutelare. Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti, così come chiede la Carta di Lampedusa, cui facciamo riferimento.
Per questo chiediamo la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem.
Urge, allo stesso titolo, il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo, alla stregua di quanto già avviene per le decisioni di espulsione, così che le persone siano libere nel movimento e nel ricongiungimento familiare dentro lo spazio dell’Unione. Questo implica la necessità di applicare in modo corretto, secondo le richieste del Parlamento europeo e i suggerimenti dell’UNHCR, il regolamento Dublin III, privilegiando il criterio della riunificazione familiare; così come implica la necessità di adeguare il regolamento alla recente giurisprudenza della Corte in materia di minori.
Facilitare richieste e visti
Urge semplificare le procedure di richiesta dello status di rifugiato e di domanda d’asilo, così come urge l’istituzione di un sistema di visti temporanei richiedibili presso tutte le ambasciate degli Stati dell’Unione Europea nei vari paesi del mondo, per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita.
Occorre approntare al più presto una normativa capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati, che metta fine alle politiche di esternalizzazione dell’asilo con cui l’Unione Europea attualmente demanda la competenza della protezione internazionale agli Stati di transito.
Tutelare i minori non accompagnati
Urge tutelare i minori senza accompagnamento. In Italia sono arrivati, nell'ultimo anno e mezzo, quasi 6000 minori non accompagnati. Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione; altri hanno eluso la sorveglianza e sono del tutto privi di protezione. Per sanare questa situazione è stata presentata una proposta di legge,[5] ma i minori senza accompagnamento sono spesso in transito verso altri paesi e occorre trovare soluzioni congiunte, a livello europeo, di accoglienza, identificazione e protezione.
Promuovere l’istituzione dello ius soli
Urge il riconoscimento di una cittadinanza europea basata sullo ius soli. Benché questo dipenda dalla competenza dei singoli Stati membri, adeguati studi e raccomandazioni delle istituzioni europee potrebbero favorire il conseguimento di tale obiettivo.
Operare per una pax mediterranea
Non vanno infine dimenticate le ragioni geopolitiche che sono all’origine delle crisi nei paesi terzi e che determinano il flusso dei rifugiati. Sotto questo profilo la capacità di previsione, analisi e coordinamento dell’Unione europea, dell’Alto rappresentante e dell’European External Action Service è assolutamente inadeguata. Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una "terza forza" in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d'Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci.
La crisi migratoria mostra quanto sia urgente una politica estera attiva dell’Europa, attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli USA, che sono spesso all'origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini.
Occorre infine un’azione coerente dell’Unione Europea nel far cessare la vendita di armi nelle aree instabili del mondo da parte di quei paesi membri, come Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia, che figurano tra i dieci maggiori esportatori. Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche.
Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa.
Primi firmatari: Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale, Alexis Tsipras, Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Maurizio Ferraris, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Eleonora Forenza, Don Luigi Ciotti, Ermanno Rea, Enrico Calamai, Adriano Prosperi, Aldo Bonomi, Roberta De Monticelli...
PER ADESIONI: corridoio.umanitario@gmail.com
[1] Come affermato l’ultima volta nel Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2013.
[2] Si veda in proposito il documento 11436/14 che Statewatch è sul punto di pubblicare.
[3] EU Border Assistance Mission in Lybia.
[4] Si veda progetto pilota.
[5] Legge n. 1658, 4 ottobre 2013.
Il manifesto, 20 luglio 2014 con postilla
Anni di contrasti non si cancellano con un colpo di spugna. In un tempo ragionevole, ma non breve, Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione Comunista, le associazioni e i gruppi che compongono l’«Altra Europa con Tsipras» stanno cercando di fare tesoro delle differenze e delle debolezze di tutti.
Nell’affollata assemblea nazionale tenuta ieri al teatro Vittoria di Roma, più di 500 persone hanno cercato di sviluppare un metodo difficile basato sul consenso e sulle soluzioni condivise, più che su quello basato su «una testa, un voto».
Gli equilibri restano precari e rischiano di creare precipitazioni in vista delle prossime elezioni regionali in Calabria e in Emilia Romagna, dove si voterà a novembre e i partiti della sinistra con i Verdi e il Pd sono stati in maggioranza negli ultimi cinque anni. O in Puglia dove, ad un anno dalla scadenza del mandato da governatore di Nichi Vendola, il presidente della giunta per le elezioni del senato Dario Stefàno (Sel) ha ufficializzato la sua candidatura alle primarie del centro-sinistra, agitando le acque tra le componenti dell’Altra Europa favorevoli ad una consultazione della base prima di definire le alleanze.
Allearsi, o meno, localmente con il partito democratico di Renzi [su eddyburg lo definiamo il PMR- n.d.r] può essere un boccone indigesto per la lista Tsipras, un ’esperienza che ha fatto dell’anti-renzismo, della lotta contro l’austerità e contro quello che Marco Revelli definisce il «populismo dall’alto», bandiere da sventolare in Italia e in Europa contro le larghe intese tra popolari e socialisti.
Il posizionamento elettorale non è l’unico problema dell’Altra Europa con Tsipras, ma può condizionare la credibilità della sua proposta politica. Lo sdoppiamento delle alleanze alle ultime regionali in Piemonte e in Abruzzo dove Sel si è alleata con il Pd mentre dava indicazioni di voto per Tsipras alle Europee ha penalizzato il risultato della lista. Lo stesso problema è tornato a galla nei gruppi di lavoro che, nel pomeriggio di ieri, hanno affrontato le questioni organizzative e programmatiche.
Le posizioni in campo sono almeno due: quella più netta «mai con il Pd» sostenuta in un documento promosso dal candidato alle europee Domenico Finiguerra e quella, più sfumata, proposta da Eleonora Forenza (Prc) sulle consultazioni territoriali con la base prima di stabilire le alleanze. Per l’eurodeputata la questione è sostanziale: «Sono le alleanze sociali a definire il posizionamento politico, non viceversa. Se candidi tre attivisti No Tav, è difficile allearsi con il Pd che difende il Tav». Il rischio è quello di fare sparire il tentativo unitario che ha contraddistinto l’Altra Europa.
Al momento, non c’è in questo spazio politico un livello decisionale riconosciuto capace di dirimere la questione. Nel corso dei lavori del pomeriggio, Paolo Cento (Sel) ha sostenuto che «l’assemblea nazionale dell’Altra Europa non ha titolo per decidere sulle alleanze alle regionali ed è preferibile lasciare decidere i territori». La discussione resta aperta alla possibilità di sperimentare alleanze con le liste civiche sul modello della «rete delle città solidali» che ha avuto una buona affermazione in città come Pisa.
È stata così prospettata una soluzione interlocutoria: creare una consultazione nei territori prima di definire una collocazione politica, abbandonando il percorso verticistico che ha contraddistinto la lista fino ad oggi. «Le amministrative restano un problema anche per Syriza – ha riconosciuto Massimo Torelli di Alba – Anche se è il primo partito in Grecia, alle ultime elezioni non è riuscita ad affermarsi in due regioni importanti perché alcuni componenti della sua rete hanno preferito altre alleanze. Il modello politico adottato a livello nazionale è difficile da esportare sul piano locale in Grecia come in Italia».
Il dilemma non è solo tattico, ma politico. E mette in discussione la recente storia della «sinistra radicale». Barbara Spinelli ne è consapevole. «Rischiamo di restare prigionieri di una sindrome che può creare divisioni — afferma l’eurodeputata — Non ci salveremo se ci concentriamo solo sulle elezioni. La nostra forza nascerà da un programma incentrato su un “New Deal” della democrazia, della cultura e del lavoro in Italia e in Europa e non dalla collocazione elettorale. Se non ci riusciremo alle regionali, saremo pronti per le politiche. Non dividiamoci sulle regionali quando un soggetto politico ancora non c’è».
Sandro Medici, già candidato alle europee, vede una «reticenza» sulle forme organizzative da dare all’Altra Europa: «Andiamo avanti per approssimazioni successive — afferma — ma l’incastro è difficile. Se spingi sul pedale dell’opposizione, si possono creare divisioni. E quindi c’è chi non vuole iniziare dividendosi. È sempre possibile che, alla lunga, questo processo porterà ad una nitidezza, ma per il momento si galleggia. Siamo in una situazione tragica: la sinistra è irrilevante mentre cresce la povertà, la disoccupazione e la repressione». L’urgenza è uscire da questo incantesimo.
«La differenza si fa sulle pratiche e non sulla tattica. Solo così è possibile recuperare la credibilità che a mio avviso è stata persa quando Spinelli non ha mantenuto l’impegno di lasciare il seggio a Bruxelles dopo l’elezione» sostiene Luca Spadon che partecipa alla campagna Act! lanciata da studenti e precari della lista Tsipras. La prospettiva dell’Altra Europa dovrebbe essere quella di «farsi lievito» e «moltiplicatore» dei comitati politici esistenti e delle istanze dei movimenti che «oggi ci guardano con diffidenza o si rivolgono al movimento 5 Stelle» sostiene Finiguerra.
È fitta l’agenda in vista dell’autunno.L’Altra Europa si schiererà in molte manifestazioni di opposizione al governo. Il momento «clou» sarà un corteo programmato a Roma il 13 dicembre. Si andrà in piazza il 18 ottobre con la Fiom, il 14 novembre con gli studenti contro il «Jobs Act» Renzi-Poletti. Giorgio Cremaschi, dell’associazione Ross@, ha invitato l’Altra Europa a partecipare all’assemblea di fine settembre che proseguirà il «controsemestre popolare» a cui partecipa un ampio cartello di sindacati di base, partiti e gruppi della sinistra.
L’assemblea di ieri ha deciso l’allargamento dell’attuale coordinamento formato da 44 persone ai membri dei comitati territoriali. Questo gruppo esteso coordinerà le attività fino a settembre. Verranno eletti portavoce locali che rispetteranno la parità di genere. Per quelli nazionali si vedrà nelle prossime settimane. Un nuovo incontro nazionale dell’Altra Europa verrà fissato a novembre.
postilla.
A mio parere la direzione di marcia deve essere la rinuncia alle molteplici identità, ieri aggregate nella lista "con Tsipras", e la costruzione di un nuovo soggetto politico caratterizzato da una nuova identità (ideale, sociale strategica, programmatica, organizzativa). La base della nuova identità è rinvenibile nei documenti su cui è nata la lista "con Tsipras". Senza nascondersi i problemi del transito, né le sue difficoltà, le incertezze e gli errori che potranno compiersi, non vedo altre strade. Il rischio di ripetere i fallimenti storici delle sinistre italiane e i tentativi rivelatisi velleitari dei movimenti sociali è molto elevato.
La fine della centralità della classe operaia e l'individuazione del nuovo soggetto sociale da assumere come riferimento di classe è forse la direzione nella quale le intelligenze devono lavorare di più. "Cercare ancora", diceva ieri Claudio Napoleoni e ripete oggi Marco Revelli.
Partiamo di qui, l’unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che “esistono”. Sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di questo dato. Intanto perché nell’universo mediatico e politico (che ormai tendono a coincidere) non c’era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un centesimo bucato su quella “esistenza”, tanto abituati erano ai nostri naufragi. E poi perché la differenza tra l’esser sopra o sotto quell’asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un momento in cui l’approfondimento e la cronicizzazione della crisi economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in termini drammatici. L’essere invece tra i “salvati” anziché tra i “sommersi”, se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però aperto il discorso sul futuro.
Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di quasi sei volte inferiore all’Italia!) ha costituito la vera notizia di queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l’8% nelle condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi… Nel valutarlo nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico italiano come il “grillismo” (prima) e il “renzismo” (poi), entrambi determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti, l’appello in chiave populista alla “discontinuità” di sistema. Né possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro europeo plumbeo per l’inedita compattezza con cui il sistema mediatico nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa, l’universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti) impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su percentuali ridicole.
Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre voti come un “piccolo miracolo”. Ed è di lì, dalla sua dimensione ma soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato. Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel “piccolo esercito” non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione rappresentativo della popolazione. Non è un “esercito popolare”. Il voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i “refrattari”, potremmo dire, di un po’ tutte le famiglie politiche dell’articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione. Quelli che “non ci stanno”.
Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo andati bene al Centro – nell’Italia in fondo socialmente e politicamente più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana (5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al 6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata (5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria (4,21) e in Puglia (4,27), un po’ meno in Campania (3,80, con l’eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione “difficile”, solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli 40.000 voti sotto il partito di Alfano.
E’ un voto, d’altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma, come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e Firenze).
E’ un voto “informato”, come si suol dire (e come avrebbe potuto essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal mainstream, chi discute di politica: secondo l’ Ipsos il 27% dei nostri elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro l’11% della media generale, il 14% del PD, l’11% del M5S, l’8% di FI e Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l’11% ha solo la licenza elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26% (un 23% del PD, un 31% di FI…). D’altra parte abbiamo fatto registrare la percentuale di voti più elevata (il 7,8% - quasi 4 punti percentuali in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra “chi si informa prevalentemente con Internet”, e siamo comunque sovrastimati tra chi “si informa prevalentemente sui giornali” (5,2%), mentre crolliamo tra chi “si informa solo con la Tv” (un miserabilissimo 1,6%!).
Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il “partito dei giovani” . Sempre secondo l’indagine Ipsos il 18% dei nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta in assoluto, contro il 9% del totale generale, l’8% dell’elettorato PD, il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari, all’11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la fascia d’età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i 44 anni (solo l’8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli ultra-sessantacinquenni (nonostante l’età avanzata dei “garanti”) dove siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5 Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d’età mentre, per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il 28…).
Questo dei giovani – e quindi dell’area variegata del “precariato” – è forse l’unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto sfumato, difficile da identificare con precisi “soggetti”. Potremmo dire tipico di un “voto di opinione”, per fastidioso che questo ci possa apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione (per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l’8,2%, esattamente il doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!), solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi (2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i “dipendenti pubblici”, tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il 7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.
Più complessa, infine, la composizione per “genere”, perché qui i dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità – rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne (26,3 contro 15,5%). Secondo l’IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli strumenti utilizzati dai sondaggisti.
Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E’ però l’analisi dei flussi (“da dove provengono i nostri elettori”) quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che oggi più ci riguardano urgentemente: “chi siamo?” (da dove veniamo, appunto). E soprattutto quella fatidica: “che fare?”. Ne abbiamo un paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.
La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel; altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani); 120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato poco rilevanti).
La seconda, dell’IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000 quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e Rivoluzione civile la parte più grossa è andata al Pd (485.000 voti) e all’astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una parte minore (150.000).
Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai abbastanza - con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un’infinità di volte: che il nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni politiche della tradizionale “sinistra a sinistra del Pd” avrebbe potuto affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno. Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di cartello significa votarsi all’irrilevanza elettorale e politica. Può forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita (forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei lasciti ereditari.
Dall’altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte dell’ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia “nuova sinistra” organizzata, e l’altra metà da fuori di quelle mura ma da una terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano sconosciute.
Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola “sinistra” nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da “salotto intellettuale”, magari un rifiuto esplicito dell’Europa in quanto creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati “più identitari” avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che l’avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all’opposto che se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre, tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza, saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L’ha appena detto, nell’editoriale della sua rivista, Paolo Flores d’Arcais, parlando di “una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante (politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei partitini – ha prodotto un topolino”. E Paolo è uno dei “padri” della Lista, tra i proponenti dell’Appello iniziale e tra i “garanti” della prima ora.
Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre, come la natura, anche la politica “non facit saltus”, soprattutto quando si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un’esplosione elettorale dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi locali. E l’epifania berlusconiana del ’94 era il prodotto di una macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da un padre padrone già potente prima di “scendere in politica”. Il “partito istantaneo” descritto dai politologi in realtà non esiste, presuppone spesso un “decennio di preparazione” magari invisibile e un lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d’opinione non si materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo per la “magia di un appello”. D’altra parte Syriza ce lo insegna: non è esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è arrivata.
Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie eredità “dentro le mura” nel timore di, per voler troppo, rischiare di perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un’esplicita dichiarazione pubblica, un Flores d’Arcais alla rovescia che la esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito-, può sembrare orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo nell’occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come d’altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando pezzi di elettorato fino a ieri “fidelizzati”, insediamenti politici fino a ieri non intaccati né intaccabili… Basta dare, anche qui, un’occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio…
Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi “renziani” fino al fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po’ il proprio peso rientrando in un più “normale” 21-22% (quello che sarebbe il suo elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l’inevitabile declino biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione testimoniale nell’angolo in basso a sinistra del campo. C’è persino chi si è lasciato andare all’affermazione, spericolata, che si sia avviato un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo (la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette “riforme”). Altri hanno parlato, un po’ affrettatamente, del Pd di Renzi come nuova Balena bianca, partito “pigliatutto” del nuovo secolo, paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia… Per la verità i numeri ci parlano di un’altra realtà. Suggeriscono che sotto la superficie visibile c’è stato un gran movimento, in tutte le direzioni, con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.
Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima. I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi) sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai attraverso un’infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita di altri 2 milioni di elettori, un po’ verso di noi, come si è visto, un po’ verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l’astensione. E dell’ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo (politico): da Scelta civica e dall’Udc in primo luogo, da cui provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione. Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori piddini in libera uscita nel ’13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal più simpatico Renzi). D’altra parte più o meno un altro mezzo milione di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E addirittura 2 milioni ritornano dall’astensione dove si erano rifugiati alle politiche.
Nonostante questo ritorno, comunque, l’esercito dell’astensione è ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record, delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione, quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina alla metà dell’intero corpo elettorale: il vero “partito della nazione”). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono 12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci milioni di elettori che hanno deciso di “uscire”, perché evidentemente non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po’ da tutti, dal M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta civica e dall’UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000), da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre più o meno radicali (Fratelli d’Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega (129.000)… Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso verso l’astensione quasi 3 milioni di elettori nell’ultimo anno (2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti 7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo rispetto ai tempi d’oro prima dell’inizio della crisi e prima di Ruby…
Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri di prima. Non solo con quelli dell’altro ieri, ma con quelli di ieri. Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013. Perché ci troviamo in un panorama politico che definire “allo stato liquido” è dir poco. Dovremmo dire “allo stato gassoso”.
Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro, con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita come parte integrante di un progetto europeo.
Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell’esperienza elettorale europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c’è tra quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una “proprietà” acquisita, un “patrimonio” stabile: dire che è da quello che bisogna partire non significa non pensare che, così come si è materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo appena percorso. Per varie ragioni.
Intanto perché l’”avventura” della lista Tsipras è iniziata sotto il segno di una emergenza e di una circostanza d’eccezione (potremmo dire nel quadro di uno “stato d’eccezione”): nell’imminenza di una campagna elettorale anomala com’è in generale quella delle europee, nella quale c’era, quest’anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un rappresentante. E in cui, d’altra parte, c’era l’occasione (insperata, da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello “stato d’eccezione”, le tante anomalie che hanno caratterizzato la “Lista Tsipras”. A cominciare dall’anomalia della nascita: non è quasi mai accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o da decisioni di organismi, ma da un’aggregazione di qualche decina di migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la convergenza di forze via via più ampia.
Proprio per l’importanza di quella condizione da “stato d’eccezione” tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al “comunismo di guerra”, nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a cominciare dal tipo di “governance” (senza dubbio oligarchica, affidata com’era alla verticalità dell’organismo dei “garanti”), e dallo spazio limitato per la discussione collettiva (affidata all’eterogeneità delle forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei Comitati), oltre alla formazione in qualche misura “per cooptazione” del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione “d’eccezione” (finita appunto “la guerra”) non si possono più riproporre tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della condivisione stabili.
La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una “frattura di teatro” – come si direbbe in gergo bellico -; una modificazione strutturale dell’ambiente stesso nel quale si svolge la lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le stesse “forme” della politica: centrodestra, centrosinistra, maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o meno orientate a destra o a sinistra… Stiamoci attenti a questo cambio di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall'altra, riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto tutt'intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.
Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione, fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice del Pd con l’arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l’unico segno ormai riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale - il successo - quel “cambiamento di verso” che è un vero e proprio mutamento di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente monocratico, in cui la tirannia dell’urgenza travolge qualunque progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la retorica dell’ultima spiaggia impone senza residui la logica dell’uomo solo al comando.
Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l’anima subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare l’assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L’esserci, e il vincere. E’, con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo come progetto, ma con il suo solo apparire, l’essenza stessa del parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle vecchie tavole vale più. L’unanimismo con cui l’intero sistema mediatico ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all’immagine di servilismo che offre, è indicativo di questo “mutamento di stato” (nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile). C’è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente, tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le polarità: l’apparente irrisolvibilità della crisi economica per giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l’impresentabilità della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della “casta”) per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative. Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E’ invece il primo ad aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei processi di crisi - alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a cominciare dalla crisi del proprio partito.
Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi contro il suo partito. E’ stato incoronato, con quel suffragio trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo deve proprio all’ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo giorno in quanto “partito”, da buon populista quale è (se per “populista” si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e “popolo” eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non costituisce l’inversione di tendenza nella crisi storica del Partito democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L’estremo punto di arrivo. In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd renziano non è più un partito. Non dico un “partito” nel senso novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo, per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la “democrazia dei partiti” e quella che Bernard Manin chiama la “democrazia del pubblico”: un modello di democrazia rappresentativa in cui l’elettorato cessava di essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere “partito” anche nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più come “macchina” finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne l’azione, un po’ come la compagnia teatrale supporta il proprio capocomico.
Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase immediatamente successiva all’esaurimento della stessa “democrazia del pubblico”, caratterizzata da “partiti senza società” e da “leader senza partiti”, in cui “il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra leader, partiti e società si è consumato” sotto la pressione di una sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e sopravvive appunto solo il modello dell’”uomo solo al comando”, connesso al proprio “pubblico” esclusivamente attraverso il filo potente ma fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme. Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più impossibile, ma piuttosto determinato a “lavorare” sulla sfiducia dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a seconda dei casi. Comunque da guidare dall’esterno e dall’alto (dal Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell’aria nel caso in cui il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo all’estremo, nella consapevolezza che “dopo di lui il diluvio”).
Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una “democrazia ibrida” come la chiama Diamanti, o in una “post-democrazia” come sempre più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.
Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione dell’organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna elettorale, le “virtù” che ci hanno permesso di restare sopra il pelo dell’acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo non c’è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come programma d’azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione dell’iniziativa “di cittadinanza” con quella “d’organizzazione”, nuovi protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di pedagogia della cooperazione… Sapendo, tuttavia, che bisogna andare molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca di un “nostro popolo”, che finora ci è mancato e che si conquista solo frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci “vedere” (dal 25 maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato). Ma anche nell’interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti – inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare l’orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della “post-democrazia”, non ci sono più “soggetti politici” con cui intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o concorrenti. Il “Partito unico della Nazione” se avrà successo (e per un po’ lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella l’eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall’alto. E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva. Settori che si staccheranno dal corpo dell’iceberg e cercheranno connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti, senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci opportunisticamente a nessuno.
Abbiamo bisogno di “manifestare” – di prendere l’iniziativa e la piazza, contro la rassegnazione e l’isolamento -, ma anche, e tanto, di pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo passivo del testimonial. Che è indispensabile per “cercare ancora”. E questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po’ ci sconvolge un po’ non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni? Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci schiacci nella routine burocratica o all'opposto nella conflittualità permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?
Ce n’è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile che ci uniamo.
Marco Revelli, 18 luglio 2014
La sottile battaglia alle europee contro il «populismo dall’alto» di Renzi e contro il «populismo dal basso» di Grillo, Nichi Vendola la vuole combattere con la razionalità. All’esordio della campagna elettorale di Sinistra Ecologia e Libertà, ieri a Roma in un teatro Vittoria gremito da un pubblico di età media matura, il suo presidente ha rivendicato la scelta di correre alle elezioni del 25 maggio con l’«Altra Europa con Tsipras» senza le bandiere del suo partito. «Per Sel rinunciare al simbolo e confluire in questa lista non è stato facile – ha spiegato – Siamo nati da una sconfitta e abbiamo attraversato una stagione difficile, ma non ci riconosciamo nella posizione di chi, come il Pd e il socialismo europeo, si è illuso di potere guidare il liberismo e poi ha sottoscritto le politiche di austerità, pensando di fare a meno di un’Europa senza la Grecia».
È la linea che ha vinto il congresso di Sel al Palacongressi di Riccione nel gennaio scorso. Quella di Nicola Fratoianni, oggi deputato e coordinatore del partito, che ha introdotto l’incontro. Dopo il fallimento dell’alleanza «Italia bene comune» con il Pd di Bersani, Sel ha rotto le incertezze e ha lasciato il guado. Non vuolefarsi «catturare nella spirale trasformistica che, in nome dell’emergenza, ha dato vita alle larghe intese con Berlusconi» ha detto Vendola seduto al centro del palco con il giornalista Luca Telese e Barbara Spinelli, una delle «garanti» della lista di cittadinanza con il nome del leader greco di Syriza. Sel si è così schierata con Tsipras, candidato alla presidenza della Commissione Ue dalla Sinistra Europea e da Rifondazione Comunista in Italia. Lo ha fatto per necessità, ma anche come una sfida, ha precisato il suo presidente. In questo percorso Vendola ha riconosciuto alla Spinelli e agli altri garanti (Revelli, Viale, Gallino) un effetto ricompositivo a sinistra con Rifondazione e la garanzia di rivolgersi ad un elettorato più ampio.
Gli inizi non sono stati facili. Le polemiche tra i garanti sulle candidature di Sonia Alfano, Valeria Grasso, Luca Casarini, poi quella di Antonia Battaglia sull’Ilva a Taranto contro Sel e il suo presidente hanno allontanato Flores D’Arcais e Camilleri. Avere superato in poche settimane le 150 mila firme necessarie per presentare la lista è stata un’impresa che ha rinfrancato molti. Per Vendola questo successo non scontato è il vero inizio. La lista sta prendendo forma, la partecipazione di attivisti e militanti l’hanno premiata. I problemi però non sono finiti, e Telese li ha elencati uno dopo l’altro. Come si può riconoscere questa lista in un dibattito politico dominato dalla retorica aggressiva dei 5 Stelle, e di chi vede nell’uscita dall’euro la salvezza dall’Europa dell’austerità? In più, il nome di Tsipras «lo conosce solo chi legge i giornali, non alle masse popolari». «Grillo ha un vantaggio straordinario: tutto per lui è facile.
Basta allora l’esorcista, una bestemmia, per fare colpo — ha risposto Vendola — È difficile affrontare questo plebeismo piccolo borghese per cui tutto è un complotto. Basta svelarlo per ritrovarsi in un nuovo mondo. Questo porta voti. Noi non possiamo fare altro se non costruire un programma alternativo fondato sulla razionalità. Diremo alle persone che non si salveranno seguendo chi dice che il nemico è solo l’euro o le tecnocrazie». È la stessa situazione in cui si trova Tsipras, solo che in Grecia le parti si presentano rovesciate. Oggi Syriza è in testa ai sondaggi e avrebbe la maggioranza relativa.
Il programma è lo stesso per la lista italiana e per quelle che appoggiano Tsipras in Europa: mutualizzazione del debito, reddito minimo, un New Deal di investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione, riforma radicale della Bce e di tutti i trattati europei eliminandone l’ispirazione neoliberista. E infine la proposta più importante: un referendum in Italia sul Fiscal Compact, «ma non per uscire dall’Euro» ha precisato Spinelli.
«Grillo è l’espressione di un disagio profondo da comprendere, ma le sue proposte sull’Europa sono di una confusione estrema — ha continuato la giornalista– non c’è un’idea che duri più di una settimana. C’è un vago proposito di battere sul tavolo i pugni con la Merkel, un po’ come dice di volere fare Renzi, oppure fare il referendum sull’euro perchè secondo lui è facile uscirne. Tutto questo non è populista ma conservatore, mira al ritorno dell’equilibrio tra le potenze nazionali al nazionalismo e alla xenofobia, a tutto ciò che c’era prima l’europa unita». L’altro punto sono le alleanze. L’ambizione di rifare l’Europa non è da poco, e non sarà facile, come ha ricordato Spinelli, farlo con i soli socialdemocratici che candidano Martin Schultz, espressione dell’Spd che in Germania governa con Angela Merkel.
Vendola riconosce la distanza tra i suoi propositi radicali di riforma e l’astuzia conservatrice dei socialdemocratici, ma sostiene di non volersi rassegnare: «Il socialismo europeo dovrà fare i conti con le contraddizioni reali dell’austerità che ha distrutto il ceto medio, fondamento delle nostre democrazie»
Quando diciamo che siamo per un’Altra Europa, la vogliamo davvero e non solo a parole. Abbiamo in mente un ordine politico nuovo, perché il vecchio è in frantumi. Non può essere rammendato alla meno peggio.
In realtà il nostro è l’unico progetto che non si limita a invocare a parole un’altra Europa, ma si propone di cambiarla con politiche che riuniscano quel che è stato disunito e disfatto. Gli altri partiti sono tutti, in realtà, conservatori dello status quo.
Sono conservatori Matteo Renzi e il governo, che parlano di cambiamento e tuttavia hanno costruito quest’Unione che umilia e impoverisce i popoli, favorendo banche e speculatori. Sono conservatori i leghisti, che denunciano l’Unione ma come via d’uscita prospettano il nazionalismo e la xenofobia. Nei fatti è conservatore il Movimento 5 Stelle, che si fa portavoce di un disagio reale, ma senza sbocchi chiari.
Tutta diversa la Lista Tsipras. Il progetto è di cambiare radicalmente le istituzioni europee, di dare all’Unione una Costituzione scritta dai popoli, di dotarla di una politica estera non bisognosa delle stampelle statunitensi. Tutta diversa la prospettiva della Lista Tsipras. La nostra non è né una promessa fittizia, come quella di Renzi, né una protesta che rinuncia alla battaglia prima di farla. Metteremo duramente in discussione il Fiscal compact, e in particolare contesteremo — anche con referendum abrogativo — le norme applicative che il Parlamento dovrà introdurre per dare attuazione all’obbligo del pareggio di bilancio che purtroppo è stato inserito ormai nell’articolo 81 della Costituzione, senza che l’Europa ce l’abbia mai chiesto. In ogni caso, faremo in modo che non abbiano più a ripetersi calcoli così palesemente errati e nefasti, nati da una cultura neoliberista che ha impedito all’Europa di divenire l’istanza superiore in grado di custodire sovranità che sono andate evaporando, proteggendoli al tempo stesso dai mercati incontrollabili, dall’erosione delle democrazie e dalla prevaricazione di superpotenze che usano il nostro spazio come estensione dei loro mercati e della loro potenza geopolitica.
Ecco le 10 vie alternative che intendiamo percorrere:
1 - Siamo la sola forza alternativa perché non crediamo sia possibile pensare l’economia e l’Europa democraticamente unita «in successione»: prima si mettono a posto i conti e si fanno le riforme strutturali, poi ci si batte per un’Europa più solidale e diversa. Le due cose vanno insieme. Operare «in successione» riproduce ad infinitum il vizio mortale dell’Euro: prima si fa la moneta, poi per forza di cose verrà l’Europa politica solidale. È dimostrato che questa “forza delle cose” non c’è. Status quo significa che s’impone lo Stato più forte.
2 - Siamo la sola forza alternativa perché crediamo che solo un’Europa federale sia la via aurea, nella globalizzazione. Se l’edificheremo, Grecia o Italia diverranno simili a quello che è la California per gli Usa. Nessuno parlerebbe di uscita della California dal dollaro: le strutture federali e un comune bilancio tengono gli Stati insieme e non colpevolizzano i più deboli. In un’Europa federata, quindi multietnica, l’isola di Lampedusa è una porta, non una ghigliottina.
3 - Siamo la sola forza alternativa perché non pensiamo che prioritaria ed esclusiva sia la difesa dell’«interesse nazionale»: si tratta di individuare quale sia l’interesse di tutti i cittadini europei. Se salta un anello, tutta la catena salta.
4 - Siamo la sola forza alternativa perché non siamo un movimento minoritario di protesta, ma avanziamo proposte precise, rapide. Proponiamo una Conferenza sul debito che ricalchi quanto deciso nel 1953 sulla Germania, cui vennero condonati i debiti di guerra. L’accordo cui si potrebbe giungere è l’europeizzazione della parte dei debiti che eccede il fisiologico 60 per cento del pil. E proponiamo un piano Marshall per l’Europa, che avvii una riconversione produttiva, ecologicamente sostenibile e ad alto impatto sull’occupazione, finanziato dalle tasse sulle transazioni finanziarie e l’emissione di anidride carbonica, oltre che da project bond e eurobond.
5 - Siamo la sola forza alternativa perché esigiamo non soltanto l’abbandono delle politiche di austerità, ma la modifica dei trattati che le hanno rese possibili. Tra i primi: l’abolizione e la ridiscussione a fondo del Fiscal Compact, che promette al nostro e ad altri Paesi una o due generazioni di intollerabile povertà, e la distruzione dello Stato sociale. Promuoviamo un’Iniziativa Cittadina (art. 11 del Trattato sull’Unione europea) con l’obbiettivo di una sua radicale messa in discussione. Chiederemo inoltre al Parlamento Europeo un’indagine conoscitiva e giuridica sulle responsabilità della Commissione, della Bce e del Fmi nell’imporre un’austerità che ha gravemente danneggiato milioni di cittadini europei.
6 - Siamo la sola forza alternativa perché non ci limitiamo a condannare gli scandali della disoccupazione e del precariato, ma proponiamo un Piano Europeo per l’Occupazione (Peo) il quale stanzi almeno 100 miliardi l’anno per 10 anni per dare occupazione ad almeno 5–6 milioni di disoccupati o inoccupati (1 milione in Italia): tanti quanti hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi. Il Peo dovrà dare la priorità a interventi che non siano in contrasto con gli equilibri ambientali come le molte Grandi Opere che devastano il territorio e che creano poca occupazione, ad esempio il Tav Torino-Lione e le trivellazioni nel Mediterraneo e nelle aree protette. Dovrà agevolare la transizione verso consumi drasticamente ridotti di combustibili fossili; la creazione di un’agricoltura biologica; il riassetto idrogeologico dei territori; la valorizzazione non speculativa del nostro patrimonio artistico; il potenziamento dell’istruzione e della ricerca.
7 - Siamo la sola forza alternativa perché riteniamo un pericolo l’impegno del governo di concludere presto l’accordo sul Partenariato Transatlantico per il Commercio e l’Investimento (Ttip). Condotto segretamente, senza controlli democratici, il negoziato è in mano alle multinazionali, il cui scopo è far prevalere i propri interessi su quelli collettivi dei cittadini. Il welfare è sotto attacco. Acqua, elettricità, educazione, salute saranno esposte alla libera concorrenza, in barba ai referendum cittadini e a tante lotte sui “beni comuni”. La battaglia contro la produzione degli Ogm, quella che penalizza le imprese inquinanti o impone l’etichettatura dei cibi, la tassa sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica sono minacciate. La nostra lotta contro la corruzione e le mafie è ingrediente essenziale di questa resistenza alla commistione mondializzata fra libero commercio, violazione delle regole, abolizione dei controlli democratici sui territori.
8 - Siamo la sola forza alternativa perché vogliamo cambiare non solo gli equilibri fra istituzioni europee ma la loro natura. I vertici dei capi di Stato o di governo sono un cancro dell’Unione, e proponiamo che il Parlamento europeo diventi un’istituzione davvero democratica: che legiferi, che nomini la Commissione e il suo Presidente, e imponga tasse europee in sostituzione di quelle nazionali. Vogliamo un Parlamento costituente, capace di dare ai cittadini dell’Unione una Carta che cominci, come la Costituzione statunitense, con le parole «We, the people.…». Non con la firma di 28 re azzoppati e prepotenti, che addossano alla burocrazia di Bruxelles colpe di cui sono i primi responsabili.
9 - Siamo la sola forza alternativa a proposito dell’euro. Pur essendo critici radicali della sua gestione, e degli scarsi poteri di una Banca centrale cui viene proibito di essere prestatrice di ultima istanza, siamo contrari all’uscita dall’euro e non la riteniamo indolore. Uscire dall’euro è pericoloso economicamente (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà), e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe. Una moneta «senza Stato» è un controsenso politico, prima che economico.
10 - Siamo la sola forza alternativa perché la nostra è l’Europa della Resistenza: contro il ritorno dei nazionalismi, le Costituzioni calpestate, i Parlamenti svuotati, i capi plebiscitati da popoli visti come massa amorfa, non come cittadini consapevoli. Dicono che la pace in Europa è oggi un fatto acquisito. Non è vero. Le politiche di austerità hanno diviso non solo gli Stati ma anche i popoli, e quella che viviamo è una sorta di guerra civile dentro un’Unione che secerne di nuovo partiti fascistoidi come Alba Dorata in Grecia, Jobbik in Ungheria, Fronte Nazionale in Francia, Lega in Italia. All’esterno, poi, siamo impegnati in guerre decise dalla potenza Usa: guerre di cui gli Stati dell’Unione non discutono mai perché vi partecipano servilmente, senz’alcun progetto di disarmo, refrattari a ogni politica estera e di difesa comune (il costo della non-Europa in campo militare ammonta a 120 miliardi di euro annui). Perfino ai confini orientali dell’Unione sono gli Stati Uniti a decidere quale ordine debba regnare.
L’Europa che abbiamo in mente è quella del Manifesto di Ventotene, e chi lo scrisse non pensava ai compiti che ciascuno doveva fare a casa, ma a un comune compito rivoluzionario.
Oggi L’Altra Europa con Tsipras presenta la proprie liste elettorali nei 5 capoluoghi di circoscrizione, forte delle più di 220 mila firme raccolte in un mese per rendere possibile la nostra partecipazione alla scadenza delle elezioni del Parlamento europeo. Lo faremo con iniziative gioiose e colorate, intanto perché festeggiamo questo risultato, che una legge elettorale perlomeno di dubbia legittimità costituzionale rendeva quasi impossibile da realizzare. E poi anche perché, per noi, la raccolta delle firme ha rappresentato a tutti gli effetti l’apertura della campagna elettorale e questa scelta — al di là dell’obbligo di legge — è già un timbro di come la intendiamo. Il rapporto diretto con centinaia di migliaia di persone, il fatto di aver ragionato con ciascuno di loro sulle ragioni e sui contenuti che qualificano la lista. Non una riedizione di esperienze già compiute in passato ma un’ operazione inedita. Facendo leva, contemporaneamente, sui soggetti politici (Sel e Rifondazione Comunista) e sociali organizzati che condividono quest’approccio e su quelle realtà di sinistra diffusa e di cittadini impegnati che in questi anni sono stati protagonisti di tanti conflitti e proposte nelle vertenze nazionali e territoriali. Con la disponibilità di tutti di mettersi in discussione e di provare ad uscire dai recinti e da una dimensione settoriale che per troppo tempo ha caratterizzato le esperienze politiche e sociali da diversi anni in qua.
220 mila firme in un mese, un dato — per usare un riferimento un po’ improprio — che corrisponde al numero delle firme necessarie in 3 mesi per indire un referendum. È stato possibile perché ci siamo dotati di un minimo di organizzazione, con un nucleo centrale e una rete diffusa di centinaia di militanti e volontari, i primi protagonisti dell’attività concreta della raccolta delle firme, ma, ancor più, perché abbiamo raccolto un bisogno di nuova politica, di chi vuole fuoriuscire dai populismi più o meno dolci di Renzi e Grillo e misurarsi realmente con la necessità di far camminare un progetto di trasformazione reale degli assetti di potere esistenti e di uscire da una logica, apparentemente oppositiva ma in realtà non così dissimile, di chi si appiattisce sulle “riforme strutturali” che vengono imposte da Bruxelles e di chi ipotizza irrealistici ritorni alla “sovranità nazionale”, che da sola non potrebbe comunque uscire dai vincoli dettati dai mercati internazionali.
Ci aspetta ora la sfida difficile, di una campagna elettorale che sappiamo si proverà a contrassegnare con una rappresentazione falsata tra chi sta con l’Europa, magari limando le politiche di austerità, e chi si oppone ad essa, con relativo corollario tra chi è favorevole e chi è contrario all’euro. E che tenterà di oscurare la presenza della lista dell’Altra Europa per Tsipras, magari dipingendola come puro residuo di una sinistra passatista e magari anche litigiosa. Sta a noi, ai tanti e diversi che si stanno impegnando in questo progetto, far emergere un percorso inedito e condiviso al di là delle appartenenze e delle esperienze di provenienza. Che si unifica appunto nell’idea di un’altra Europa e che si può ben identificare in un approccio che, dentro la più grave crisi del capitalismo dagli anni ’30 del secolo scorso, è radicale nei contenuti che propone, maggioritario nello sguardo della propria proposta, innovativo nelle forme della discussione e dell’agire politico. L’esperienza della raccolta delle firme ci dice che tutto questo è possibile, che, tra il subire le politiche dell’austerità e dei sacrifici e limitarsi a urlare la propria indignazione, si può pensare di percorrere la via della trasformazione e del cambiamento.
Dopo il nuovo fallimento della «Rivoluzione Civile» di Ingroia alle elezioni successive del 2013, quello dell’alleanza «Italia Bene Comune» tra Sel e Pd che ha preferito le «larghe intese» con Berlusconi e oggi con Alfano, dopo l’affermazione del Movimento 5 Stelle di Grillo, Tsipras è tornato in Italia come «Papa straniero». Ha federato i residui di quell’esperienza (Rifondazione Comunista e Sel, ma non il Pdci) con altri soggetti o raggruppamenti come Alba, per il momento in vista delle europee. Sulla continuazione di questa esperienza, ad oggi tenuta insieme dal prestigio intellettuale dei suoi «garanti» (Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale) poco, o nulla, si sa. Per il momento avanza la suggestione per una figura politica, che ha attraversato il movimento No Global, si è poi messo a fare politica senza mai rinunciare aalle sue idee politiche. Un esempio di coerenza e lungimiranza che oggi viene riconosciuto a livello internazionale.
Il libro di Pucciarelli e Russo Spena è il primo a raccontare, da sinistra, la storia di una battaglia impari, quella di un Davide greco, per di più di «sinistra radicale» contro i poteri forti in Grecia e il Golia tedesco in Europa. Un Davide che un sondaggio Mrb per il sito Real .Gr viene dato al 19,9% contro il 19,7 di Nuova Democrazia del primo ministro Antonis Samaras alle europee. I sondaggi per le prossime politiche ad Atene conferiscono al partito di Tsipras la maggioranza relativa e la definitiva cancellazione del Pasok – il Pd greco – responsabile dei quattro memorandum e delle politiche di austerità imposte dalla Bce, dalla Ue e dall’Fmi che hanno distrutto la Grecia. Con queste elezioni europee Syriza si è messa alla guida «della resistenza europea al neoliberismo» sostiene Tsipras nell’intervista rilasciata agli autori del libro. L’operazione è intelligente: dal suo punto di vista, il leader greco conduce una battaglia importante a livello continentale e sta usando la sua campagna elettorale per prepararsi a vincere le elezioni in patria.
È questa la lezione machiavelliana che Syriza ha imparato stando nelle lotte, durissime, condotte dalla società greca contro i governi delle larghe intese e le politiche di austerità. Una scelta difficilissima, quella di «stare nel gorgo» di una lotta, nelle sue contraddizioni, nel dramma di uno scontro che ha saputo dispiegare efferatezze, da entrambe le parti.
Radicamento sul territorio, costruzione di coalizioni con sindacati e movimenti di diversa ispirazione, ampia e articolata dialettica interna che Pucciarelli e Russo Spena definiscono una «babilonia» saldata dall’organizzazione di Syriza ma soprattutto dal carisma del suo leader 39enne. La sfida del governo non sarà facile per Tsipras che guida un partito che affronta l’aggressività interna, anche dei nazisti di Alba Dorata, e soprattutto gli attacchi della dittatura europea della Troika.
Il suo programma è solidamente socialdemocratico, neo-keynesiano, europeo e non nazionalistico, «avvicinabile a un neo socialismo di stampo latinoamericano» scrivono gli autori. La proposta per l’Europa è di riscriverne i trattati e promuovere un New Deal, un grande piano di investimenti pubblici per lo sviluppo. Per fare tutto questo, Syriza punta sulla virtù e sulla fortuna, elementi che non gli sono mancati dal 2004 ad oggi. Il libro sarà presentato domani a Roma al Forte Fanfulla alle 20 con Barbara Spinelli, Sandro Medici e Argiris Panagopoulos. Modera Daniela Preziosi.
. www.Sbilanciamoci.info, newsletter, 28 marzo 2014
Lucio Magri pone, con il suo stile, il problema relativamente nuovo della crisi ambientale e di come costituisca un elemento nuovo dell'antica lotta di classe. Ma Lucio, ricordiamolo, non pone mai problemi rinviando ad altri o al futuro la risposta, e cosi alla fine del capitoletto scrive: «La questione ambientale dunque non solo offre a un progetto comunista un nuovo terreno su cui fondare la sua critica del sistema, ma anche una spinta che lo trasforma e lo arricchisce qualitativamente, lo porta a superare una subalternità all'economicismo; nel contempo la questione ambientale ha bisogno di un progetto e di una forza organizzata comunista per unire soggetti e interessi contrastanti, per individuare la vera radice dei problemi, per affermare un potere capace di affrontarli nel loro insieme, infine per cambiare la testa stessa della gente».
Insomma la questione ambientale diventa centrale nella lotta per il comunismo e solo con il comunismo potrà essere seriamente affrontata. Questo è il problema che per tanti anni noi comunisti abbiamo trascurato considerandolo non strutturale. Ancora un grazie a Lucio.
Il manifesto, 15 marzo 2014
Si gioca in Italia in questi giorni una doppia partita. La prima riguarda il consolidamento politico e di governo dell’operazione Renzi; la seconda il destino di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese, affidata finora, con alti e bassi di varia natura, e talvolta pericolosi cedimenti ed equivoci, — ma affidata comunque, — alle buone sorti del Pd. Se Renzi vince la prima, la seconda verrà sconfitta, per un periodo presumibilmente incalcolabile.
Quel che è uscito finora dal cappello di prestigiatore dell’attuale segretario Pd-presidente del consiglio è poco, confuso, contraddittorio, talvolta inconsistente, spesso inesistente, ma inequivocabilmente declamatorio e inconfondibilmente pubblicitario.
Alcuni punti fermi. L’Italicum fonda le sue fortune sull’asse con Silvio Berlusconi. Il che di per sé farebbe rabbrividire, ma non c’è solo questo. Ha attraversato per un pelo i voti della Camera dei deputati. Lo scontro sulle “quote rosa” ha rimanifestato di colpo l’esistenza sotterranea di un partito dei 101, più fedele a Renzi che al proprio partito e ai programmi elettorali sui quali questo si era conquistato bene o male una maggioranza nell’ultimo voto. Restano, con le “quote rosa”, questioni tutt’altro che irrilevanti come quelle delle preferenze, delle soglie di sbarramento, delle alleanze e del premio fuori misura allo stiracchiato vincitore. Allo stato attuale delle cose è lecito prevedere, in caso di approvazione, il rapido transito alla Corte costituzionale per un sospetto, appunto, d’incostituzionalità (Azzariti, Villone, ripetutamente su queste colonne; ma anche su altri giornali il discorso critico ha cominciato ad affacciarsi).
Dal punto di vista economico, abbiamo tutto e il contrario di tutto: i dieci milioni di sgravi fiscali per i lavoratori dipendenti più colpiti dalla crisi; e la precarizzazione illimitata e definitiva del mercato del lavoro (Alleva, il manifesto, 14 marzo). Ma soprattutto pende sulla manovra l’incertezza sulle sue fonti. Nessuno sa, né il presidente del consiglio finora lo ha detto, a quali voci attingere per rendere reale la sua mirabolante prospettiva (Fubini, la Repubblica 13 marzo; Pennacchi, l’Unità, 14 marzo).
Quel che Renzi offre al paese è un composto ibrido di posizioni, affermazioni, suggestioni e sollecitazioni, di cui non è più sufficiente dire che non è più né di destra né di sinistra, e neanche di centro, almeno nel senso tradizionale del termine, ma una nuova posizione politico-ideologica in cui può entrare di volta in volta tutto, purché confluisca a beneficiare il più possibile il prestigio e la fortuna del Capo (o Capetto che dir si voglia).
Aderire alla prospettiva di Renzi non significa dunque soltanto rinunciare a una prospettiva e a una politica di sinistra; significa rinunciare a una prospettiva “politica”, se per politica s’intende, e continua a intendersi, come si è sempre inteso nella tradizione politica occidentale (mica i Soviet, per intenderci) un corretto, limpido e dichiarato rapporto tra valori, prassi e obbiettivi da raggiungere (e, circolarmente, viceversa).
Così facendo, Renzi si affianca, con la maggior verve che la giovane età e una natura esuberante gli consentono, a quelli che, come ho avuto occasione di dire in un precedente articolo, non sono più i suoi avversari ma i suoi concorrenti. Il populismo gli è, persino più che negli altri due, impresso nella sua stessa matrice genetica. Renzi vola, dal comune di Firenze alla segreteria del Pd e di qui alla presidenza del consiglio, in virtù di un’investitura (le primarie dell’8 dicembre 2013) che non ha, mi verrebbe voglia di dire, nessuna legittimità costituzionale. Non è difficile ora arrivare alla previsione che, se fosse necessario, non solo nel campo delle riforme ma nel campo di tutto, sarebbe disponibile a fare, come ha già fatto, alleanze, esplicite o sotterranee, con tutti.
Se le cose stanno così, - mi rendo conto, naturalmente, che si potrebbe discutere a lungo di queste estremistiche premesse, - bisogna fermare Renzi prima che sia troppo tardi.
Non tanto per consentire la ripresa, anzi, la reviviscenza, di una prospettiva politica di sinistra nel nostro paese, la quale, se cova ancora fra noi, come io penso, verrà fuori a suo tempo; quanto per consentire la ripresa di un libero, effettivo gioco politico tra forze diverse, anche opposte, talvolta persino dialoganti e reciprocamente interconnettentisi, ma dotate ciascuna di un proprio registro identitario, con il quale, organizzativamente ed elettoralmente, identificarsi o distinguersi. Tutto ciò, mi rendo conto, non è facile. Soprattutto c’è poco, anzi quasi nessun tempo per farlo.
La prima scadenza possibile è il dibattito in Senato sulla legge elettorale. Bisogna rivoltare come un calzino il testo che arriva dalla Camera e, come dire, costituzionalizzarlo fino in fondo. Sui punti precedentemente elencati sono stati assunti impegni precisi (Bersani e altri). Vedremo cosa ne verrà fuori.
Ma non basta. Ha colpito, nei mesi che ci separano dall’insediamento di Renzi alla segreteria del Pd, e dalla sua pressoché totale conquista della direzione di quel partito, come frutto anch’esso automatico, delle primarie del dicembre 2013, la subalternità, anzi, in numerose occasioni, la supinità della cosiddetta minoranza interna del Pd, la quale rappresentava tuttavia ancora a quella data quasi la metà degli iscritti al Partito.
Torniamo alle premesse del mio discorso. Se questa subalternità, o supinità, continuano anche durante questa fase nella marcia di avvicinamento di Renzi ad una gestione ormai non più discutibile del potere, non ci saranno altre occasioni nel corso, approssimativamente, dei prossimi dieci anni. Bisognerebbe dunque agire subito, e costituire, tutti gli eletti Pd che intravvedono il rischio mortale contenuto in tale prospettiva, gruppi parlamentari autonomi, distinti da quelli renziani, — e potenzialmente più consistenti di questi, — per rovesciare, nella chiarezza della nuova situazione, lo svolgimento negativo, anzi catastrofico, delle premesse poste alla base del mio discorso. Per impedire a Renzi di conquistare una gestione illimitata del potere, si dovrebbero recuperare ora, subito e solidamente, e cioè con un preciso e indiscutibile atto formale, le condizioni di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese.
Non si tratta di una secessione. Anzi. Si tratta di ristabilire un giusto equilibrio fra l’espressione che c’è stata del voto elettorale e l’uso che ora ne vien fatto. Deputati e senatori del Pd sono stati eletti sulla base di un diverso programma politico, con obiettivi diversi, una diversa leadership, una diversa dinamica delle scelte da assumere. Devono semplicemente far riemergere quel che le primarie di partito del dicembre 2013 sembrerebbero aver innaturalmente seppellito. Se mai saranno gli altri a protestare e a tentare di farsi valere. Ma non dovrebbe prevalere l’opinione di un gruppo su quella di milioni di elettori.
Conseguenze possibili (possibili, ripeto, solo se l’andamento del processo viene rovesciato, e rovesciato ora): riconquistare - e rifare - questo partito. E cambiare la composizione partitica che sta attualmente alla base della maggioranza parlamentare che regge questo governo. Se questa composizione cambia, possono aprirsi scenari per ulteriori cambiamenti. Se queste possibilità vengono esperite fino in fondo, non è per niente detto che il governo, cioè l’Italia - identificazione questa che viene continuamente ed enfaticamente ripetuta, ma che andrebbe quanto meno discussa - vadano a carte quarantotto. Magari ne viene fuori lo stesso governo, ma diverso. Oppure un governo tutto diverso. E magari più forte. E più credibile, anche a livello europeo. Quel che è assolutamente certo è che restare immobili e indifesi dentro la manovra renziana, rappresenta la morte, non solo per il governo, non solo per il Pd, non solo per i gruppi parlamentari del Pd, ma anche e soprattutto, questa volta sì, per l’Italia
Futura umanità, 14 febbraio 2014
La questione dell’austerità si eleva, nella proposta di Berlinguer, al livello di una visione del mondo, fondata sulla storicità delle formazioni economico-sociali e quindi sul principio di trasformabilità delle relazioni tra gli esseri umani, e tra questi e l’ambiente naturale in cui avviene la loro riproduzione. Forse, proprio per questa visione dinamica, volta al cambiamento dei fondamenti sociali e del senso comune, la questione dell’austerità è stata una delle più contrastate e falsificate tra le elaborazioni e le proposte politiche del segretario del Pci.
«Noi – disse Berlinguer agli operai comunisti nel discorso di Milano il 30 gennaio 1977 – dobbiamo tenere la testa sopra il pelo dell’acqua, per continuare a pensare, a ragionare, a guardare lontano, cioè più in là dell’immediato, per staccarci dalle vecchie rive e approdare a lidi nuovi». Quindi, l’austerità, al contrario di quanto sostenevano i critici più rozzi e interessati, non era l’annuncio di una politica lacrime e sangue, come sarà praticata sistematicamente a danno dei lavoratori dai governi imperniati sulla pregiudiziale anticomunista. Tanto meno era la predicazione dell’indigenza generalizzata da parte di un «frate zoccolante», come qualcuno definì Berlinguer. Era invece un’altra visione della società e della vita fondata sulla solidarietà e l’uguaglianza, rispetto al consumismo e all’egoismo esasperati, vellicati e sospinti dalla controrivoluzione liberista.
Ma Berlinguer – e questo aspetto non andrebbe mai smarrito – non era un solitario sognatore. Bensì il segretario di un partito, denominato comunista, che si proponeva allora di trasformare la società in una civiltà più avanzata secondo il disegno costituzionale, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica. In tale contesto (cito dal famoso discorso dell’Eliseo), «l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo», dunque «un’occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo». Viene così in primo piano il nodo della qualità e delle finalità dello sviluppo, del perché e per chi produrre. Ovvero, del senso da dare all’austerità, e perciò il nodo dell’uso delle risorse, umane e naturali.
Se lo scopo da perseguire non è l’incremento indefinito del profitto, ma il soddisfacimento dei grandi bisogni umani in consonanza con la riproduzione equilibrata dei fattori naturali, allora c’è bisogno di un altro ordine dei fattori economici e di un altro paradigma sociale. E per ottenere ciò non basta una più equa distribuzione della ricchezza, sebbene si tratti di una questione essenziale. Occorre intervenire nei rapporti di produzione e nel processo di accumulazione. Insomma, precisa Berlinguer, c’è bisogno di «un intervento innovatore nell’assetto proprietario» e di introdurre criteri, valori e obiettivi «propri del socialismo» nella conformazione materiale e ideale della società.
Secondo il segretario del Pci, l’Italia vive uno di quei momenti della storia nei quali o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un Paese». Perciò la fuoriuscita «dal quadro e dalla logica del capitalismo» attraverso l’austerità verso una civiltà più avanzata, nella quale l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa, secondo il suo pensiero è interesse non solo della classe operaia e dei comunisti, bensì di strati ben più vasti di popolo, in definitiva dell’intera nazione.
All’impostazione modernamente rivoluzionaria di Enrico Berlinguer, che nasce non da pregiudizi ideologici ma da una visione dinamica del cambiamento basata su ragioni oggettive, è stato contrapposto il pregiudizio, questo sì ideologico, della non trasformabilità del sistema. Un dogma laico, diventato la stella polare di Thatcher e di Reagan, costruito sul vecchio ideologismo che trasforma le relazioni sociali tipiche del rapporto di produzione capitalistico in immutabili leggi di natura valide per l’eternità, dalla cui gabbia per definizione non si può uscire.
Mi sembra emblematico il fatto che Eugenio Scalfari, il quale sempre con grande sensibilità e rispetto ricorda i suoi incontri con Berlinguer, ancora nel settembre 2006, alla vigilia della crisi nella quale tuttora siamo immersi, concludendo un lungo e problematico dibattito sul tema del socialismo abbia sinteticamente affermato che (cito testualmente) «uscire dal capitalismo è una bubbola». Questo perché, spiega il fondatore di Repubblica, l’accumulazione del capitale «non è – testuale -un fenomeno del capitalismo», «ma della scarsità di risorse». Quindi non si può cambiare. Di conseguenza, anche le disuguaglianze (parliamo ovviamente delle disuguaglianze sociali non delle diversità biologiche), che sono (ancora testuale) «un fenomeno naturale» e «fanno parte della natura della nostra specie», non sono a loro volta eliminabili.
Dove portano queste premesse? Anche in questo caso la risposta di Scalfari è perentoria: «Esattamente all’accettazione del riformismo, cioè alla gradualità per temperare processi comunque inevitabili». Dove è evidente che il riformismo gradualista non è concepito come un processo di superamento dei rapporti sociali esistenti, ma come un tentativo di temperare, appunto, le contraddizioni laceranti del capitalismo per consolidarne la presa sulla società.
In conclusione, mi pare che per uscire da questo tempo di crisi senza fine una riflessione s’imponga sulla necessità di rovesciare i canoni della cultura dominante, a cominciare proprio dal dogma della non trasformabilità del sistema, come fece ai suoi tempi il segretario del Pci. Il valore della sua azione e della sua ricerca appare oggi tanto più rilevante, sebbene fortemente sottovalutata, perché in un mondo diviso dalla guerra fredda, in cui si fronteggiavano due sistemi entrambi declinanti, il capitalismo ad Ovest (poi risultato vincente sotto la spinta neoliberale) e il «socialismo realizzato» ad Est (poi imploso), Enrico Berlinguer fu l’unico dirigente politico di levatura internazionale che pose in termini concreti nel cuore d’Europa il problema della costruzione di una società nuova, diversa dai modelli esistenti a Est come a Ovest.
Superata a suo giudizio la fase del movimento per il socialismo scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre, d’altra parte anche la fase socialdemocratica del movimento operaio era venuta esaurendosi, giacché – precisava Berlinguer – nessuno degli «esperimenti socialdemocratici ha portato al superamento del capitalismo» in Paesi dove crescono non solo gravi disagi per grandi masse di lavoratori. Ma anche il malessere, le ansie, le angosce, «quella che si potrebbe definire l’infelicità dell’uomo di oggi».
La morte ha colpito il segretario comunista come un operaio sul lavoro, mentre nella tempesta dell’offensiva liberista stava guidando il Pci lungo un percorso inesplorato, alla ricerca di una società più giusta e avanzata, in cui il socialismo si coniughi con la democrazia e l’uguaglianza con la libertà. L’austerità fu pensata in un’altra fase della storia, oggi tutto è diverso. Ma i problemi di quel mondo che Berlinguer con la sua lotta voleva cambiare restano, e si sono aggravati. Perciò chi voglia cambiare davvero lo stato di cose presente oggi dal suo pensiero e dal suo esempio non può prescindere.
Eddyburg aderisce. Il manifesto, 1 febbraio 2014
Vogliamo ringraziare tutte e tutti coloro che hanno firmato l’appello per una lista di cittadinanza unitaria e apartitica che promuova la candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione europea alle prossime elezioni europee. Grazie al vostro impegno abbiamo superato le 14.000 firme in meno di nove giorni, nonostante il silenzio della stampa e dei media. Tuttavia le adesioni raccolte (tra cui nomi della cultura, della scienza, dell’arte, del giornalismo e dello spettacolo) sono una goccia nel mare delle elettrici e degli elettori che vogliamo e dobbiamo raggiungere. Non intendiamo infatti rivolgerci solo all’elettorato della sinistra cosiddetta radicale, ma molto al di là. A quanti non votano più perché delusi o disgustati dalla politica ufficiale o, non vedendo più l’utilità dell’Europa, consegnano il proprio destino agli attuali «equilibri».
A chiha votato Pd controvoglia, perché in assoluto disaccordo con l’accettazione supina dei trattati europei che ci condannano all’austerità e alla rovina. A chi ha votato Cinque Stelle, malgrado una leadership potenzialmente autoritaria e ondivaga, in assenza di una alternativa credibile.
Riconoscersi nella figura di Alexis Tsipras, che ha costruito una forza elettorale maggioritaria non su tematiche e appelli demagogici antieuropeisti, ma su un impegno concreto a rinegoziare i trattati e il funzionamento dell’Unione europea, rende evidente la posta in gioco di queste elezioni: un disegno autenticamente europeista, contro l’ipotesi della cancelliera Merkel e di Shulz di piegare l’Europa alla stessa logica della Grosse Koalition tedesca.
Per tutti noi che abbiamo aderito e per quelli che aderiranno a questo progetto le cose cominciano dunque ora. È assolutamente necessario organizzarci al più presto, perché il tempo stringe e le cose da fare sono tantissime.
Dobbiamo dare un nome alla lista, definirne ulteriormente il programma, scegliere i candidati, creare strutture operative e comitati di sostegno nazionali e locali, raccogliere entro il 14 aprile le firme necessarie alla presentazione della lista (oltre 150.000; 30.000 per ciascuna delle cinque circoscrizioni e almeno 3.000 in ogni Regione, comprese le più piccole, su moduli ufficiali che includano già il nome dei candidati!), nominare uno o più tesorieri e raccogliere i fondi per finanziare la campagna elettorale in maniera autonoma e indipendente.
Abbiamo deciso la via della raccolta delle firme, anzichè tentare di appoggiarci a qualche forza presente in Parlamento, per sottolineare l’autonomia della lista che con voi costruiremo, e perché lo sforzo per la raccolta delle firme rappresenta un buon inizio della campagna elettorale.
I sei promotori saranno i garanti dei principi apartitici, democratici, inclusivi e orientati a un federalismo che promuova il rinnovamento radicale delle istituzioni dell’Unione europea, scongiurando così interferenze o tentativi di appropriazione del progetto che già in passato hanno fatto fallire analoghe iniziative, nate con intenti altrettanto unitari.
Entro pochi giorni lanceremo una consultazione on-line per decidere il nome della lista, allegando un invito al suo finanziamento, e attiveremo un comitato operativo, che potrà ampliarsi in seguito, secondo le esigenze che emergeranno. Invieremo una mail per fornire a tutti le modalità per entrare in contatto con i firmatari della stessa zona e con loro avviare la costituzione di comitati promotori locali, indicando al contempo referenti che facciano da collegamento con i garanti.
Alle associazioni, comitati di lotta, club, organizzazioni politiche, culturali, civiche e ambientaliste, nonché ai partiti che intendono sostenere il progetto mantenendo una loro autonomia operativa, proponiamo di associarsi a livello nazionale e a livello locale in uno o più comitati di sostegno alla lista, secondo il modello adottato per il referendum per l’acqua.
Nella lista, in coerenza con il programma, potranno venir candidate persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo in un partito nell’ultimo decennio; le proposte relative alle candidature dovranno essere presentate entro e non oltre il 16 febbraio, poiché il 22 dello stesso mese inizierà la raccolta delle firme e per quella data i candidati dovranno essere noti e in regola con le pratiche di accettazione; saranno fissate regole rigide sulla conduzione della campagna elettorale, stabilendo che i fondi che ogni candidato avesse eventualmente a propria personale disposizione vengano divisi con il comitato operativo, in modo che le spese personali non superino una percentuale fissa della spesa complessiva.
Il 24 di febbraio inizierà la raccolta delle 150.000 firme che rappresenta il maggiore sforzo a cui sarà sottoposta l’organizzazione che tutti insieme saremo riusciti a mettere in piedi per quella data.
Quello che stiamo attivando tutti insieme è un progetto nuovo: nei soggetti promotori, nel percorso, nelle modalità. Per questo richiede a ciascuno la capacità di pensarsi dentro un percorso collettivo e non in quanto interprete di istanze di parte. Questa è la difficoltà maggiore e bisogna esserne consapevoli.
Il manifesto, 25 gennaio 2014. In calce i promotori e della lista italiana e le adesioni finora pervenute.
In Grecia, in Italia e nell’Europa del Sud in genere siamo testimoni di una crisi senza precedenti, che è stata imposta attraverso una dura austerità che ha fatto esplodere a livelli storici la disoccupazione, ha dissolto lo stato sociale e annullato i diritti politici, economici, sociali e sindacali conquistati. Questa crisi distrugge ogni cosa che tocca: la società, l’economia, l’ambiente, gli uomini.
“L’Europa è stata il regno della fantasia e della creatività. Il regno dell’arte”, ci ha insegnato Andrea Camilleri, per finire in “un colpo di stato di banchieri e governi”, come ha aggiunto Luciano Gallino. Questa Europa siamo chiamati a rovesciare partendo dalle urne il 25 di maggio nelle elezioni per il Parlamento Europeo. Scommettendo sulla ricostruzione di una Europa democratica, sociale e solidale.
La vostra proposta per l’unità, aperta e senza esclusioni, della sinistra sociale e politica anche in Italia rappresenta un prezioso strumento per cambiare gli equilibri nell’Europa del Sud e in modo più generale in Europa. Syriza ed io personalmente sosteniamo che l’unità della sinistra con i movimenti ed i cittadini che colpisce la crisi rappresenta il migliore lievito per il rovesciamento. È la condizione necessaria per cambiare le cose.
La vostra proposta per la creazione di una lista aperta, democratica e partecipativa della sinistra italiana, dei movimenti e della società civile in Italia per le elezioni europarlamentari di maggio, con l’obiettivo di appoggiare la mia candidatura per la Presidenza della Commissione Europea, può rappresentare con queste condizioni un tentativo di aprire una nuova speranza con successo.
La prima condizione è che questa lista si costituisca dal basso, con l’iniziativa dei movimenti, degli intellettuali, della società civile. La seconda condizione è di non escludere nessuno. Si deve chiamare a parteciparvi e a sostenerla prima di tutto i semplici cittadini, ma anche tutte le associazioni e le forze organizzate che lo vogliono. La terza condizione è di avere come speciale e unico scopo quello di rafforzare i nostri sforzi in queste elezioni europee per cambiare gli equilibri in Europa a favore delle forze del lavoro contro le forze del capitale e dei mercati. Di difendere l’Europa dei popoli, di mettere freno all’austerità che distrugge la coesione sociale. Di rivendicare di nuovo la democrazia.
L’esperienza di Syriza in Grecia ci ha insegnato che in tempi di crisi e di catastrofe sociale, come oggi, è di sinistra, radicale, progressista, ogni cosa che unisce e non divide.Solo se facciamo tutti insieme un passo indietro, per fare tutti insieme molti passi in avanti, potremmo cambiare la vita degli uomini. In un quadro del genere anche il mio contributo potrà essere utile a tutti noi, ma prima di tutto ai popoli d’Italia e d’Europa.
Alexis Tsipras è Presidente di Syriza e Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea
Qui su eddyburg l'appello e le prime adesioni. Qui per sottoscrivere l'appello
Il manifesto, 25 gennaio 2014
Non sappiamo dire perché pur partendo da analisi profonde e condivise della grave malattia che rischia di inghiottire l’Europa nel destino weimariano, le sinistre plurali non riescano a unirsi in una lista comune a sostegno della candidatura di un leader europeo come Alexis Tsipras. Né dire perché un sindacato italiano come la Cgil, presente nelle assise di Sinistra ecologia e libertà con Camusso e Landini, pur invocando una risposta keynesiana ai vincoli catastrofici dell’austerità non sappia offrire una risposta unitaria al dramma del lavoro ormai ridotto a merce. Ma è questo quadro di spaccature e divisioni che ci viene restituito dalla tribuna congressuale di Sel.
Il partito di Nichi Vendola ieri lo ha ascoltato nella lunga e appassionata relazione che appunto si concludeva con il no all’adesione alla lista italiana per Tsipras e il sì alla presentazione del proprio simbolo con l’indicazione di sposare la scelta del Pse e di conseguenza di Martin Schulz come candidato alla presidenza della Commissione europea. Con una fortissima probabilità di non superare, né gli uni né gli altri, quella soglia del 4 per cento necessaria per entrare nel parlamento europeo. Uno scenario che abbiamo purtroppo conosciuto esattamente quattro anni fa, alle elezioni europee del 2009 quando l’astensionismo superò il 7 per cento, le destre avanzarono, la sinistra arretrò, lasciando Rifondazione e Sel fuori da Strasburgo. Anche allora il manifesto provò a indicare la via di una lista unitaria fuori dalle litigiosità partitiche, l’appello restò inascoltato e fummo facili profeti dello sventurato risultato. Oggi, con la maturità del giovane leader di Syriza, sarebbe stato possibile (e speriamo ancora possa essere) arrivare uniti alla meta delle elezioni.
Naturalmente non è semplice operare nel vivo delle storie personali e collettive che in questi anni hanno separato il nostro campo. Vendola ha ragione quando ricorda che una nuova sinistra pretende un discorso di verità, che la sconfitta perdura, che arrendersi alla fatalità delle larghe intese anche in Europa significa considerare Schulz come un avversario anziché come un alleato. Più difficile da questo dedurne che allora «Sel non deve avere paura di andare con il suo simbolo alle europee».
La scelta di alzare le bandiere di partito viene replicata quando si atterra nello scenario italiano. L’attacco al Pd di Renzi è netto. Il segretario-sindaco «ignora proprio il senso delle primarie», ha sostituito la «procedura democratica con la velocità del comando», la sua polemica contro i piccoli partiti «nasconde la bulimia dei grandi», la legge elettorale concepita in profonda sintonia con Berlusconi è «un’intesa opaca con il berlusconismo». Il Pd resta un interlocutore, ma l’alleanza «non è una condanna».
La botta, elettorale e personale, che ha colpito un partito e un leader, ambiziosi e fragili, si fa sentire e c’è voglia di «toglierci il lutto». Vale la lezione di Calamandrei e dei piccoli numeri del partito d’Azione, o quella di due grandi sconfitti, Ingrao e Gramsci, figure dell’album citato da Vendola. Per dire, come scrive Corrado Stajano concludendo il viaggio nella “Stanza dei fantasmi”, che la speranza nella speranza è sì difficile, ma anche doverosa
Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato dall'associazione Futura Umanità a Roma, Teatro de' Servi, 8 novembre 2013. Futura umanità, con premessa
Tre ragioni ci spingono a pubblicare questo scritto, che riprendiamo dal sito Futura umanità.. La prima è di carattere generale. La cancellazione della storia dalla conoscenza dei contemporanei è uno dei più robusti strumenti adoperati chi vuole conservare il mondo così com’è (e come non ci piace) contro chi vuole cambiarlo. La seconda è nel contributo che questo scritto fornisce alla comprensione del carattere profondamente innovativo della Costituzione che, lungi dal voler finalmente attuare, si pretende di stravolgere. La terza ragione sta nel fatto che la concezione del “partito” che emerge dall’analisi della concezione del comunismo italiano, al confronto con quelle oggi dominanti, ci sembra testimoniare la profondità del baratro nel quale siamo caduti (negli anni di Craxi, Berlusconi e Renzi) e dello sforzo che occorrerà fare per uscirne (e.s.)
In un Paese calpestato per metà dalle truppe naziste e per metà occupato dall’esercito anglo-americano, Togliatti afferma: «Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi (...) del capitale monopolistico. Questo vuol dire - prosegue - che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza o sul dominio di un solo partito. In un’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti (...); noi proporremo però che questi partiti, o almeno quelli che (...) hanno un programma democratico e nazionale, mantengano la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo». «Il regime democratico e progressivo che proponiamo, e alla costruzione del quale vogliamo collaborare e collaboreremo in tutte le forme, dovrà essere - conclude - un regime forte, il quale si difenda con tutte le armi contro ogni tentativo di sopprimere o calpestare le libertà popolari».
Se è difficile sostenere che il Pci, durante tutta la sua esistenza, abbia in qualche caso derogato da questa impostazione, è altrettanto difficile contestare che in quella fase storica la strategia togliattiana sia stata una strategia vincente. Ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, essa consentì di liquidare la monarchia e il fascismo, di risolvere democraticamente la questione istituzionale ridando dignità a un Paese che l’aveva perduta, e di aprire al tempo stesso la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si innalzino al rango di classe dirigente. Come disse a suo tempo Pietro Nenni, «Togliatti era il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca».
Nella sua visione della politica vi è un legame inscindibile tra fini e mezzi. Quindi, se il fine, vale a dire l’obiettivo strategico generale è la creazione di una democrazia progressiva che attui «un complesso di riforme della struttura economica e sociale», il partito nuovo di massa è lo strumento adatto allo scopo. Ancora nel discorso di Napoli, Togliatti afferma: «Nessuna politica può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il popolo a realizzarla. Il nostro partito deve acquistare questa capacità». «Noi dobbiamo essere il partito più vicino al popolo (...). È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie o di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci a soddisfarle».
Democrazia progressiva e partito nuovo di massa sono dunque i due pilastri della strategia di Togliatti. Ed essi si incarnano nella Costituzione repubblicana e antifascista come progetto di cambiamento. Polemizzando tra gli altri con Pietro Calamandrei, il quale sosteneva che la Costituzione italiana, secondo il modello costituzionale staliniano del 1936, dovesse limitarsi a prendere atto delle realtà esistente, Togliatti replica che le condizioni della Russia sovietica erano affatto diverse da quelle italiane, e pertanto occorre distaccarsi da quel modello. In caso contrario si sarebbe decretata l’impossibilità di trasformare i fondamenti strutturali del nostro Paese. Là, sotto i colpi di un processo rivoluzionario violento, era stato distrutto il vecchio ordinamento economico-sociale ed erano state le gettate le basi di uno nuovo. Qui - osserva - una rivoluzione non è avvenuta, ma è possibile arrivare «a una profonda trasformazione sociale seguendo un cammino differente».
Con il crollo della dittatura fascista, sono state riconquistate le libertà civili e politiche. Per quanto riguarda le trasformazioni sociali da attuare, queste si possono realizzare «attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa». Tale è il senso della democrazia progressiva, «e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto che essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato attraverso la legalità».
La conclusione cui perviene tale impostazione è limpida: la Costituzione dell’Italia democratica deve avere un carattere progettuale-programmatico «non di previsione, ma di guida», che «porti a un rinnovamento audace, profondo, di tutta la struttura della nostra società, nell’interesse del popolo e nel nome del lavoro, della libertà e della giustizia sociale». Quindi, non una Costituzione socialista, che prenda atto di un’avvenuta trasformazione e, tanto meno, che codifichi la statizzazione integrale dei mezzi di produzione, ma una Costituzione come programma per il futuro, che apra la strada a una società socialista di tipo nuovo rispetto al modello esistente. Perché - aveva sostenuto Togliatti al V congresso del partito - «soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell’organizzazione della produzione e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una civiltà e di preservare la pace». Noi - aggiungeva - «siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c’è contraddizione».
È la visione di un percorso inedito e originale: la via italiana al socialismo, come Togliatti stesso la definirà nel 1956 forse in modo alquanto riduttivo. In altre parole - e in questo sta la sua genialità -, muovendo dalla presenza dell’Unione Sovietica e dal «legame di ferro» con la rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, il segretario del Pci delinea un processo di avanzamento verso il socialismo del tutto diverso. Una visione strategica che si ritrova nell’impianto costituzionale, soprattutto nella sua parte più innovativa, di cui Togliatti è stato artefice diretto: quella riguardante i diritti sociali e di proprietà, che oggi appare in tutta la sua grandezza e modernità, nelle mutate condizioni storiche in cui una ristretta minoranza di proprietari universali, ossia il vertice dominante del capitale finanziario globale, sta logorano al tempo stesso l’uomo e l’intiero ambiente della sua riproduzione.
Il fondamento del lavoro, che è il contrario della centralità del capitale, cambia la natura della società e dello Stato rispetto al passato. Siamo di fronte a un vero e proprio passaggio storico, giacché al centro dell’architettura dello Stato e della società non c’è più il polveroso principio della proprietà inviolabile, vale a dire il proprietario-cittadino, pilastro universale del costituzionalismo antecedente all’irruzione nella storia del movimento operaio e dei lavoratori. Bensì la nuova figura della modernità capitalistica: la persona che lavora disponendo solo di sé medesima, l’uomo e la donna proprietari solo delle loro abilità fisiche e intellettuali, della loro manualità e intelligenza, della loro forza-lavoro. Ossia, la classe dei lavoratori dipendenti o comunque eterodiretti, che in Italia sono più di 16 milioni. La stragrande maggioranza delle forze di lavoro anche in Europa e nel mondo.
Insomma, la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. In forza di questo passaggio storico il lavoro non è più soltanto una merce che si scambia sul mercato. Diventa diritto, e poiché lo sfruttamento del lavoro umano nasce dal capitale come rapporto sociale, il lavoro posto a fondamento della società e dello Stato apre la strada a una civiltà più avanzata, in cui l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa. La Repubblica, infatti, non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto», in modo che essi possano concorrere al progresso materiale e spirituale della società (articolo 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità», ma «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (a. 2). Da cui scaturisce, a livello internazionale, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (a.11).
L’intiera architettura costituzionale ha una sua profonda e riconoscibile coerenza. Sul fondamento del lavoro si innalzano i nuovi diritti della persona, i diritti sociali. Muovendo dal principio che la Repubblica «tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (a. 35), la Costituzione - come è noto - stabilisce la parità di diritti e di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro (a. 37); introduce il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» sufficiente comunque ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» (a. 36), nonché il diritto all’istruzione (a. 33), al riposo e alla salute (a. 32), alla pensione e all’assistenza sociale (a. 38). Inoltre, in una visione assai significativa e moderna della persona e della società, «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e culturale della nazione» (a. 9).
Ma - ecco la grande novità, di fatto mandata in soffitta - per dare attuazione a questa fitta trama di diritti non basta che tutti concorrano «alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (articolo 53), seppure sia questa una condizione ineludibile. È necessario che «l’iniziativa economica privata», ancorché libera, non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di conseguenza, la legge dovrà indicare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata a fini sociali» (a. 41). Infatti, essendo la proprietà «pubblica o privata», «i beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati».
La proprietà privata è garantita, ma entro limiti che ne assicurino la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (a. 42). Di più: «ai fini di utilità generale», la legge «può riservare originariamente o trasferire» «allo Stato, a enti pubblici o - sottolineo - a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti di energia o a situazioni di monopolio (a. 43). Sulla stessa linea del pluralismo nelle forme di proprietà, contrapposto al totalitarismo della proprietà privata capitalista, che rende bene l’idea di un percorso aperto, di un processo riformatore in progress, si collocano anche gli articoli 44, che impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, e 45, che favorisce lo sviluppo dell’artigianato e la cooperazione a carattere di mutualità.
Sono tutte norme del titolo III della Costituzione, solitamente ignorate nel dibattito attuale, che derivano in modo rigoroso dai principi fondamentali dalla nostra Carta. Più precisamente, sono la traduzione normativa di quei principi, in particolare di quella visione modernissima dell’uguaglianza e della libertà fissata nell’articolo tre. Dove si afferma non solo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e hanno pari dignità sociale, ma che la Repubblica rimuove gli ostacoli economici e sociali, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza, e quindi impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dove dunque è chiaro che non basta l’uguaglianza davanti alla legge e neanche il principio di equità nella distribuzione del reddito, ma occorre intervenire nel cuore del rapporto di produzione capitalistico, ossia nel rapporto di proprietà, se si vuole garantire libertà e uguaglianza, e quindi il pieno sviluppo della persona umana.
In una parola, una rivoluzione. Nel cui svolgimento liberazione del lavoro e libertà della persona s’intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all’individuo, è considerato non solo come interscambio permanente tra uomo e natura, che comporta una visione inscindibile dello sfruttamento umano e ambientale; non solo come forza produttiva fondamentale dei beni materiali e immateriali; bensì anche come fattore costitutivo della personalità. La valorizzazione del lavoro, che pervade l’intiero impianto costituzionale, diventa così la base materiale e culturale dell’uguaglianza e della libertà, e perciò anche il riferimento per la finalizzazione della proprietà e per il governo del mercato. Sono temi non dell’altroieri, ma dell’oggi e del domani.
Un progetto di tale portata, che - come è stato giustamente osservato - si spinge a introdurre elementi di socialismo9, non può essere scisso dalla classe lavoratrice, dalla sua autonomia culturale e politica, e quindi dalla sua diretta partecipazione alla guida del Paese. E infatti nell’impianto costituzionale la valorizzazione del lavoro non è separata dal protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. I quali conquistano non solo il diritto di sciopero e la libertà sindacale (a. 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi classe dirigente per il tramite del partito politico, considerato lo strumento indispensabile «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (a.49).
I confini della democrazia si sono enormemente allargati ben oltre il perimetro dei principi liberali. Quindi, non più deleghe al sovrano per casato o per censo, o a ristrette élites tecnico-politiche. Con l’entrata in campo della classe lavoratrice la politica assume una nuova dimensione sociale, e con i partiti di massa prende forma quella che Togliatti definisce «la democrazia che si organizza»10. Era chiaro infatti ai costituenti che i lavoratori e le classi subalterne non sono in grado di esigere i nuovi diritti costituzionalmente riconosciuti se non si organizzano e non si rappresentano politicamente.
Senza sottovalutare l’apporto delle «terze forze», vale a dire di azionisti, repubblicani e liberali democratici, di cui la Costituzione assume la grande conquista storica dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria comunque riverniciata e apparentemente spogliata di ogni relazione con il gravame soffocante dei rapporti economici, non c’è dubbio che i comunisti e i socialisti, da una parte, e i democratici cristiani, dall’altra, sono stati i principali artefici di un disegno costituzionale innovativo, le cui enormi potenzialità rimangono tuttora largamente inesplorate oltre che inapplicate.
Non si è trattato di un inciucio ante litteram, ma di una convergenza, su una reale piattaforma di cambiamento, di due grandi correnti di pensiero, l’una che risale a Marx cui i comunisti e i socialisti allora facevano riferimento, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale il cui principale esponente era Giuseppe Dossetti. Un solidarismo d’origine diversa - osserva Togliatti intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione - che però «arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi». «Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». E quando Giorgio La Pira, uno dei costituenti di spicco della Dc, indica nella dignità della persona il riferimento per i diritti dell’uomo e del cittadino, Togliatti afferma che «qui vi è un altro punto di convergenza della nostra corrente, comunista e socialista, con la corrente solidaristica cristiana» giacché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana».
Si stabilisce così una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, e ricca di implicazioni straordinariamente attuali, tra solidarietà e personalismo, tra classe sociale e individuo, tra collettività e persona, e anche tra utilità sociale e impresa, che dà all’intiero impianto costituzionale, sicuramente la vetta più alta toccata dagli italiani nel loro contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, il respiro di un’operazione di grande portata strategica su cui costruire il futuro.
E’ un progetto di nuova società. La proprietà articolata in forme diverse (pubbliche, private, comuni), limitata e finalizzata, e il mercato, regolato per soddisfare le esigenze umane e ambientali attraverso l’intervento pubblico e la presenza di soggetti sociali politicamente organizzati, si innestano in un progetto, e in un processo, di trasformazione della società diverso da ogni modello finora conosciuto, che potremmo chiamare nuovo socialismo. Di certo questo non è il modello sovietico di società socialista. D’altra parte, una Costituzione che pone il lavoro a fondamento della democrazia non si può definire liberale, giacché va ben oltre i sacri principi dell’ ‘89. Ma il progetto costituzionale non si identifica neanche con il compromesso socialdemocratico, che in tutto il Novecento mai ha superato il limite della sfera distributiva, evitando di affrontare il nodo dell’accumulazione e della struttura economica, e quindi di scalare la muraglia del modo di produzione capitalistico, cioè dei rapporti di proprietà. Il risultato è che dopo il fallimento del «socialismo realizzato» ad Est, oggi dobbiamo constatare il fallimento della socialdemocrazia ad Ovest.
In questo contesto, a mio giudizio il progetto costituzionale italiano assume un valore speciale. Esso trae i suoi fattori costitutivi dalle specifiche condizioni storico-culturali del nostro Paese, dalle caratteristiche del capitalismo italiano e dalle lezioni che i partiti della classe operaia hanno saputo trarre dalla sconfitta subita con l’avvento del fascismo. Ma sarebbe un grave strabismo non vedere che questo progetto ha un valore più generale, perché pone su basi nuove l’idea e la pratica della trasformazione della società verso il socialismo nell’intiera Europa, in Paesi capitalisticamente maturi, retti da diverse forme di democrazia politica.
Un progetto reso possibile dalla strategia dei comunisti italiani, che in Occidente hanno aperto un diverso orizzonte al processo rivoluzionario, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della democrazia progressiva, da percorrere con la presenza e con le lotte del partito nuovo di massa. È semplicemente assurdo, e al tempo stesso prova di inguaribile dogmatismo, ritenere che esista un’unica via per la trasformazione della società indipendentemente dalle condizioni storiche, e un unico schema di società comunista in cui imbracare l’universo mondo.
Del resto, non era questo il pensiero di Marx - a torto imprigionato nella precettistica degli epigoni -, il quale, in un discorso del 1872 ad Amsterdam, polemizzando con gli anarchici astensionisti, aveva sostenuto che le classi lavoratrici devono «prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro», altrimenti mai avrebbero visto «l’avvento del regno dei cieli in questo mondo». Ma, aggiungeva, «non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Conosciamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi», e perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo pacificamente».
L’originalità del comunismo di Togliatti consiste in un pensiero e in una pratica che superano la più che secolare oscillazione tra il tutto sociale e il tutto politico, tra massimalismo e riformismo. E quindi in un’azione politica che connette il particolare con il generale, la parzialità con la visione di sistema, la quotidianità con la prospettiva, i mezzi e i fini attraverso un’iniziativa combinata dal basso e dall’alto che dà concretezza al processo riformatore. E perciò delinea i contorni di un più alto ordinamento, di un «socialismo diverso». L’esito di questo processo - annota Togliatti nel 1962 - «dipenderà dal fatto che, per l’azione di un partito rivoluzionario, com’è il nostro, non si perda mai, nelle masse lavoratrici, la coscienza del legame tra le riforme parziali e gli obiettivi del movimento operaio e socialista, e questi non vengano mai né cancellati né offuscati»13.
La più grande innovazione introdotta da Togliatti - ha fatto notare Mario Tronti -, sta proprio nel superamento del dilemma che nel Novecento ha dilaniato in Europa socialdemocratici e comunisti: riforme o rivoluzione? La rivoluzione nella società e nello Stato attraverso le riforme: questa è la risposta che troviamo nell’impianto togliattiano. E non è un gioco di parole, o un astratto esercizio intellettuale. L’unità di riforme e rivoluzione, ovvero il rivoluzionamento della società e dello Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il partito di massa, «intellettuale collettivo» che lotta anche sul terreno della cultura e della formazione del senso comune, è lo snodo decisivo di questa strategia, che si distacca dal leninismo costruttore del partito-avanguardia, come pure dalle socialdemocrazie imprigionate nella gabbia dei rapporti di produzione capitalistici. Un partito inteso appunto come «parte», che non si identifica quindi con lo Stato né si sovrappone alla società per dominarla, ma stabilisce con essa un rapporto interattivo allo scopo di produrre «politica reale delle classi subalterne in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamo alla massa», per dirla con Antonio Gramsci.
Si tratta di un disegno strategico poderoso e organico, fondato proprio sulle analisi di Gramsci e sulla sua teoria della funzione egemonica, da conquistare prima nella società e nell’organizzazione della cultura per poterla poi esercitare nello Stato, che capovolge gli schemi delle rivoluzioni condotte dall’alto con un atto giacobino o con la presa del Palazzo d’inverno, per calarle successivamente nel corpo sociale. Praticabile ovviamente a due condizioni: che sia presente sulla scena un partito rappresentativo del lavoro dipendente ed eterodiretto, oggi delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo; e che nell’azione politica non si spezzi il nesso tra rivoluzione e riforme, tra sociale e politico, tra prospettiva e concretezza.
Diversamente, la politica, intesa come azione per trasformare il mondo, e quindi posta al vertice delle attività umane, retrocede nel migliore dei casi a politicantismo o a puro verbalismo. Il nodo da sciogliere non è dunque quello del gradualismo, ma quello della direzione di marcia. Per essere più precisi, oggi si tratta di decidere se, facendo asse sul lavoro, s’intende porre al centro dell’azione politica il programma di profonde riforme sociali ed economiche previsto dalla Costituzione. Oppure se a quel programma si vuole chiudere definitivamente la porta, cambiando la Costituzione.
Concepita in un momento drammatico della nostra storia, la Costituzione del ’48, non parla del passato, ma del presente e del futuro degli italiani. Ed è una bussola moderna proprio perché, come è stato giustamente è osservato, ponendo il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani dimostra la sua inesauribile vitalità in quanto sancisce «una dimensione complessa dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza»16. E dunque tutela non solo consolidati diritti, come quelli degli operai Fiat, ma è aperta all’affermazione di diritti nuovi, che scaturiscono dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla condizione umana del nostro tempo, e riguardano perciò le generazioni giovani, in preda alla precarietà e prive di prospettive. Come è dimostrato dal fatto, ed è solo un esempio, che per l’accesso alla conoscenza reso possibile da internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi permangono condizioni di disuguaglianza e di esclusione.
In altre parole, le condizioni di vita della nostra epoca reclamano a piena voce un’uguaglianza reale e non retorica, che la nostra Costituzione sancisce. È certo che, come la storia ha dimostrato, la liberazione del lavoro non si potrà ottenere se non si comprende la differenza tra uomo e donna come pure la complessità della figura sociale di ciascuno e di ciascuna, andando oltre la stessa condizione materiale. Ma dalla disuguaglianza tra chi possiede i mezzi finanziari, di produzione e di comunicazione, e chi dispone solo delle proprie capacità corporee, fisiche e intellettuali, non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutte e di tutti davanti la legge.
Chi obietta che il fondamento del lavoro oggi non ha senso perché è finita la stagione del fordismo e dell’operaio-massa, evidentemente ha in testa un’unica idea fissa del lavoro come categoria immutabile che non va oltre la catena di montaggio, e non fa i conti, oltre che con la dittatura del capitale sul lavoro, con una rivoluzione della scienza e della tecnica che non ha abolito il lavoro, ma ha rivoluzionato il modo di lavorare, senza rivoluzionare però il diritto di proprietà, come la Costituzione prevede. Per cui, il vero problema, come del resto è evidente dagli svolgimenti drammatici della crisi, non è la cancellazione del fondamento del lavoro, bensì la sua rielaborazione nelle nuove condizioni, applicando al tempo stesso le norme previste dal titolo III.
In conclusione, la Costituzione è un progetto vivo e vitale, di cui è necessario liberare tutte le potenzialità per uscire dalla crisi in Italia e per contribuire a dare una diversa dimensione all’Europa. Un progetto che parla alle nuove generazioni, alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro tempo, qualunque sia la forma in cui si manifesta (o non si manifesta) la loro attività lavorativa, e indipendentemente dalle norme giuridiche in cui è regolato (o non è regolato) il loro rapporto di lavoro. In sintesi, la Costituzione è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa: di cui gli italiani oggi possono disporre grazie all’apporto decisivo di un grande politico e statista come Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, secondo la definizione di Gianni Ferrara. Dunque, il progetto per cambiare lo stato delle cose presenti esiste, ed è costato tanti sacrifici e dure lotte. Occorre recuperarlo, e farne oggi la stella polare che illumini il cammino, in un momento tra i più oscuri della nostra storia.
Il testo completo di note a pie’ di pagina è scaricabile qui: Paolo Ciofi, Palmiro Togliatti e la Costituzione:e altre relazioni al convegno sono scaricabili dal sito Futura umanità.
«Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana», per Editori Riuniti. Una conversazione che apre mille interrogativi e intreccia i fili di quarant'anni di storia».
il manifesto, 27 dicembre 2013
Nel 1994, Vittorio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più alte della storia della sinistra in Italia, si sedettero davanti a un registratore e cominciarono a raccontare – o meglio, Vittorio Foa invitò Natoli a raccontare, accompagnandolo con il contrappunto di domande e commenti mai intrusivi, sempre riflessivi, in un intreccio dialogico di condivisione e di diversità. Avevano rispettivamente 84 e 81 anni, da tempo avevano riorientato l’impegno politico di una vita verso la ricerca storica e la riflessione politica, con esiti memorabili, dalla Gerusalemme rimandata di Foa all’Antigone e il prigioniero di Natoli; ma la conversazione fra i due non è una semplice rivisitazione del passato, bensì un ragionamento a tutto campo che illumina le contraddizioni del presente.
Come ogni storia orale che si rispetti, infatti, anche questa conversazione è un documento sul passato, ma è soprattutto un documento del presente: il racconto — Vittorio Foa / Aldo Natoli, Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana (Editori Riuniti, pp. 303, euro 23) — comincia con l’infanzia messinese di Aldo Natoli, e ne percorre tutta la vita fino al momento del colloquio, finendo per farci capire molte cose sulla crisi morale prima che politica, che la sinistra attraversava allora e che è andata peggiorando fino ad oggi.
Abbiamo vissuto un buon quarto di secolo ormai assillati da leader che, dopo una vita passata fra una carica di partito e l’altra, ci spiegavano che non erano mai stati comunisti e che quella era una storia di orrori che non li riguardava. Ci sono voluti dei non comunisti come Vittorio Foa (e penso anche a certe cose di Bobbio dopo l’89) per restituire a questa storia l’ascolto e il rispetto senza i quali non capiamo non solo la sinistra, ma tutta l’Italia moderna. E ci vogliono comunisti come Aldo Natoli, che questa storia l’hanno vissuta fino in fondo con partecipazione critica e appassionata, per restituircene il senso soprattutto morale. Ascoltare queste pagine (arricchite da accurate note e profili biografici dei curatori, Anna Foa e Claudio Natoli) riempie di orgoglio perché abbiamo avuto fra noi compagni di questa grandezza, di smarrimento (che cosa resta senza di loro?), di rimpianto per non averli ascoltati abbastanza, di pena per averli lasciati soli.
Come ogni serio lavoro di memoria, questa intervista intreccia due punti di vista –l’intervistato e l’intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per esempio. Parlando dell’8 settembre, Foa domanda: «Come alcune cose le vedevamo allora e come è cambiata la nostra testa dopo quaranta anni di pace?». Quello che mi colpisce è in primo luogo l’uso del plurale: Foa si mette dentro questa storia che in modi insieme simili e diversi è anche la sua. Come sempre nella grammatica dell’intervista, è ciò che i due dialoganti hanno in comune che rende l’intervista possibile e comprensibile, ma è la differenza che esiste fra loro che la rende interessante.
E poi, attraverso il dialogo con Natoli, Foa cerca di capire non solo come «è cambiata la testa» del suo interlocutore, ma anche come è cambiata la sua: le domande che l’intervistatore rivolge al suo interlocutore le rivolge, inevitabilmente, anche a se stesso. Natoli, a sua volta, coglie l’opportunità – direi quasi, come in tante delle interviste migliori, raccoglie la sfida – per ripensarsi. Non intende buttare a mare questa storia, non solo sua, ma non fa apologia né di se stesso né del partito. Ogni volta, davanti a un interlocutore che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discussione, spiega le sue incertezze, i dubbi, gli errori.
Ne viene fuori, fra l’altro, una storia della sinistra molto più articolata, molto più sfumata e mobile di quanto non ce l’abbiano raccontata tante volte. Per esempio: a proposito del patto Hitler-Stalin del 1939, Natoli ricorda di averlo inizialmente sostenuto come una necessità inevitabile – ma ricorda anche le discussioni drammatiche che portarono a scissioni e scontri nel gruppo romano, finendo per lasciarlo isolato e in minoranza, «in una situazione che in qualche modo confinava con la disperazione»; e racconta di avere cambiato posizione dopo la spartizione della Polonia e dopo che l’Internazionale arrivò a dire che i nazisti non erano il nemico principale. Foa, a sua volta ripensando al se stesso di allora, insiste sulla dimensione della soggettività, che è poi alla radice della scelte politiche: «L’impressione che ho avuto io è che i comunisti, cioè voi, pur approvando il Patto, non ostentavate questa approvazione, cioè che l’antifascismo, profondo, era dominante nel vostro ambito. Mi sbagliavo o ero nel giusto, secondo te?». Qui mi colpisce, intanto, il «voi comunisti» – più tardi, parlando della Resistenza, diventa, come abbiamo visto «noi». C’è in questo uso dei pronomi tutta la complicata storia dei rapporti interni alla sinistra, che nell’intervista si esplicita poi nel racconto sul ’48 e il Fronte popolare. Ma c’è anche la traccia di una differenza che si fa comunque ascolto e rimane rispetto: invece di accusare i comunisti di complicità con Hitler, Foa (allora azionista, poi socialista) scava sotto la superficie e ascolta da compagno. E Natoli: «Io questo lo sentivo profondamente. Per cui dentro di me ero convinto che gli accordi del Patto non dovevano ripercuotersi sugli orientamenti non solo teorici ma anche pratici del movimento comunista internazionale», cioè sull’antifascismo.
La stessa complessità, lo stesso scavo nelle ragioni e torti di allora, accompagna tutto il racconto di Natoli, dalla svolta di Salerno all’Ungheria, senza nascondere il suo consenso di volta in volta alle scelte del partito, eppure dando conto di come questo consenso si faceva sempre più faticoso e la sua relazione col partito sempre meno agevole. Non ci sono epifanie, svolte brusche: è un processo graduale di cambiamento, e non è neppure un processo lineare – per esempio, Natoli non esita a ricordare di avere difeso il golpe comunista a Praga nel 1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo critico, lo vedevo in senso positivo, a quel tempo io ero assolutamente ligio a quel quadro strategico». Lo spiega col clima di guerra fredda, con il montare dell’anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un errore; ma non per questo nega di avere avuto torto. Ma poi si trova a condurre la sua battaglia più memorabile, quella contro il «sacco di Roma» negli anni ’50, praticamente da solo, tra il disinteresse della dirigenza nazionale; o prende gradualmente le distanze da una linea del partito che non coglieva le capacità di rinnovamento del capitalismo e viveva nell’illusione di una suo imminente crollo. E, naturalmente, l’Ungheria, quando la distanza comincia a farsi incolmabile.
Seguono gli anni delle battaglie interne al partito, Ingrao, Amendola, la scoperta del Vietnam come modello anche di autonomia politica rispetto all’Urss e alla Cina, l’incontro con la Cina. E di nuovo il dialogo con Foa, la condivisione e le differenza. Foa ricorda che «la Rivoluzione culturale, per noi, anche per me, solo in parte, è parsa una bandiera» (e di nuovo il «noi», ma articolato in un «me»); e Natoli conclude che «la Rivoluzione culturale come tale finisce alla fine del 1968 con l’intervento dell’esercito… Alla fine del 1968 il movimento di base, che era la caratteristica fondamentale della Rivoluzione culturale, viene represso con l’esercito». Ma la Cina resta uno dei suoi interessi principali anche dopo le sconfitte, i cambiamenti, le delusioni: «non sono riuscito a distaccarmene». E poi la nascita del Manifesto – rivista, gruppo politico, giornale – speranze, crisi, condivisioni, dissensi, separazioni….
I due interlocutori di questo libro sono stati anche protagonisti della storia di questo giornale. Faremmo bene a ricordarcene
Il manifesto, 18 dicembre 2013
Il dado è tratto. Dall’altro ieri il partito della Sinistra europea (Se) ha un candidato alla presidenza della Commissione europea: il 39enne leader della greca Syriza, Alexis Tsipras. L’organizzazione che raggruppa la maggioranza delle forze comuniste e rosso-verdi del Vecchio continente ha chiuso domenica il proprio congresso a Madrid, individuando nel politico ellenico la figura che dovrà condurla nella sfida elettorale del prossimo maggio. La scelta della Se – che segue quella del Partito socialista europeo (Pse), che ha designato il tedesco Martin Schulz – è importante, perché aiuta a dare un significato davvero «europeo» all’appuntamento elettorale di primavera.
In realtà, a maggio i cittadini non eleggeranno direttamente il successore del conservatore portoghese José Manuel Barroso: le norme «costituzionali» dell’Unione europea non prevedono un sistema presidenziale. Il numero uno della commissione – l’esecutivo dell’Ue – è scelto dai capi di governo riuniti nel consiglio europeo, che devono obbligatoriamente tenere conto delle elezioni del parlamento europeo. L’eurocamera di Strasburgo ha un ruolo non secondario, perché detiene un potere d’investitura: se non convince la maggioranza assoluta dei deputati europei, il presidente incaricato dai leader nazionali deve farsi da parte, e si ricomincia da capo. Almeno potenzialmente, si tratta di relazioni politiche non così lontane da quelle vigenti in una (pur imperfetta) democrazia rappresentativa.
Naturalmente, oltre al presidente ci sono i singoli commissari (i «ministri» della Ue), che vengono designati da ciascun governo nazionale: una procedura che di fatto impedisce che la commissione di Bruxelles sia politicamente omogenea. L’europarlamento ha comunque un’ulteriore carta da giocare, perché deve concedere la «fiducia» anche alla commissione nel suo congiunto: nel caso in cui la sua composizione fosse palesemente in contrasto con l’indirizzo politico emerso dalle urne, i deputati di Strasburgo potrebbero negargliela.
Dentro questa complessa architettura istituzionale, lo spazio per un’autentica lotta politica è certamente molto ridotto, ma la Se appare intenzionata ad occuparlo. Dalla tribuna del congresso di Madrid il leader di Syriza ha sottolineato la doppia sfida che attende la Se: lottare contro le politiche di austerità, «minaccia per i popoli d’Europa», e contro l’estrema destra, «un pericolo per la democrazia». Proprio secondo l’esempio della Grecia, dove la formazione di Tsipras contrasta sia il governo di «grande coalizione» fra i conservatori del premier Antonis Samaras e i socialisti, sia i neonazisti di Alba dorata. Fra le idee-forza della Se, il neocandidato ha ricordato la trasformazione della Banca centrale di Francoforte in un prestatore di ultima istanza per gli stati Ue (come le normali banche centrali), la lotta contro l’elusione fiscale, un «new deal» per combattere la disoccupazione e una diversa gestione della crisi dei debiti sovrani. Nella piattaforma finale votata dai delegati compaiono anche il «no» al Trattato di libero scambio Ue-Usa e alla privatizzazione delle risorse naturali, e l’introduzione del diritto al referendum su scala europea.
Mentre la nomina di Tsipras non ha incontrato ostacoli, la rielezione alla presidenza della Se del francese Pierre Laurent (segretario del Pcf) ha scatenato malumori interni. Dovuti a questioni che di europeo hanno pochissimo, essendo tutte interne alla sinistra transalpina: il Partie de gauche dell’ex candidato presidenziale Jean-Luc Mélenchon ha annunciato la propria autosospensione dall’organizzazione continentale in polemica con la riconferma di Laurent. Motivo: il Pcf e il movimento di Mélenchon sono ai ferri corti per le municipali del prossimo marzo, causa l’alleanza dei comunisti con i socialisti del presidente Hollande. Un «effetto collaterale» delle assise di Madrid, che rischia di rendere arduo il cammino della Se in uno stato-chiave come la Francia. Come se già non bastasse, a complicare la missione di Tsipras, la debolezza strutturale della Se nei Paesi dell’Europa centro-orientale, dove, con la sola eccezione della Repubblica ceca, raccoglie percentuali da prefisso telefonico o è completamente assente. Senza dimenticare, ovviamente, l’Italia, dove la lista collegata alla Se dovrà fare i conti con lo sbarramento al 4%.
Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra (Donzelli) che è molto più di quanto promette. Non solo esperienza di vita, dalla giovinezza alla maturità, di un comunista attraverso le stagioni del suo partito, ma profonda riflessione sul mondo d'oggi, inganni e possibili destini.
Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi. Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla globalizzazione irenica, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma. Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di transizione, quando viene meno il vecchio mondo e il nuovo non si sa come sarà.
Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli. Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro, senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani, hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati e non credono agli annunciatori di magnifiche sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia, ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.
Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso, in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.
La nostra è una generazione fortunata, ma - qui bisogna aggiungere - anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao, Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad alimentare una paideia politica, ma c’è stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere diventano la bella presenza e la battuta facile. Il Beruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i giovani.
Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e loro possono venire non solo rielaborazioni del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono.
Esse evitano accuratamente i temi d’attualità. La concretezza degli argomenti viene dall’esperienza militante – sia nei ricordi di ieri sia nei dilemmi di oggi – e si cerca di metterla a confronto diretto con la ricerca teorica. Sono pensieri militanti, ma solo nella postfazione vengono confessati rivelandone l'intima tensione tra la civetta hegeliana che si alza in volo per comprendere ciò che è stato e la sentinella di Isaia che deve ancora annunciare la fine della notte. Sono pensieri che cercano una relazione inattuale tra teoria e pratica. Qui se ne discute, ma le soluzioni si trovano solo nell’esperienza collettiva. Il Politico è il proprio tempo appreso nell’azione. Chi meglio di un militante può saperlo?
Nel torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle sconfitte. Solo così si prendono le decisioni che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece il lato delle ambizioni, perché possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da elaborare, prima di tornare a vincere.
Avendo assunto questa postura, l’andamento del testo è risultato anomalo. Comincia con una storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione. Per poi mettere sotto osservazione il suo contributo a quel ciclo politico italiano che ha deluso le aspettative di una seconda Repubblica. E tuttavia non sono stati solo limiti soggettivi, ci si è messo contro un ciclo più ampio della storia mondiale che è generoso chiamare liberista, poiché la crisi lo svela come grande Inganno. Per ripartire bisogna provare a vedere il mondo a rovescio, esercitandosi a ribaltare le politiche dominanti, ad esempio per i paesaggi, i lavori e i saperi. Ma tutto ciò sarà possibile solo riscoprendo la dignità della politica, afferrando le occasioni che il tempo attuale ci offre, con la speranza di superare la penuria di una sinistra senza popolo.
Roma, settembre 2013
I. Una storia a ritroso
1. Collasso
2. Il bilancio di una generazione
3. Due dissolvenze dall’Ulivo
4. La fede nuda
5. Identità per sottrazione
6. Il «populismo» comunista
7. L’obsolescenza del «partito nuovo»
8. La svolta e le sue alternative
9. L’eredità di Berlinguer
10. Dopo il compromesso storico
11. Le aspettative dei moderati
12. Innovazione e conformismo
13. Mille rivoli o modello di sviluppo
III. Teoria e pratica dell’Inganno
1. Il destino dell’Occidente
2. Il discorso capitalistico
3. La decisione perduta
IV. Alla rovescia del mondo
1. Paesaggi italiani
2. Le chiamiamo ancora città
3. Utopie-eterotopie
4. Le mura e la piazza
5. Luoghi del saper fare
6. C’eravamo dimenticati della rendita
7. Capitalisti no-global e postcomunisti anglosassoni
8. Potenza e potere del lavoro
9. Breve storia dell’ingegno italiano
10. Le disuguaglianze della conoscenza
11. Salvare il merito dalla meritocrazia
12. Le istituzioni della conoscenza
V. Sulla dignità del Politico
1. Oltre l’irrequietezza
2. La dignità costituente
3. Non è un tempo senza politica
4. Fino a quando sinistra senza popolo?
ew York Times
De Blasio, 52 anni, democratico, difensore civico di New York, ha sconfitto l’ex presidente dell’azienda cittadina dei trasporti Joseph J. Lhota. La sua vittoria, la più schiacciante nella corsa a sindaco dal 1985, quando Edward I. Koch vinse con un margine di 68 punti, legittima inequivocabilmente de Blasio a seguire il suo programma di sinistra.
“Cari concittadini, oggi avete detto con fermezza che volete un cambio di rotta per questa città”, ha detto ai suoi elettori durante la grande festa a Park slope, nel quartiere di Brooklyn, dove i suoi figli adolescenti hanno ballato sul palco. De Blasio, che ha origini italiane, ha ringraziato la folla in inglese, in spagnolo e perfino con qualche parola di italiano. “Nessuna esitazione: le persone di questa città hanno scelto una strada progressista e stasera siamo pronti a metterci in marcia, insieme”.
Al di là del curriculum formidabile del candidato, la vittoria di de Blasio è il trionfo di un messaggio populista in una campagna elettorale che era diventata un referendum su un’intera epoca, quella cominciata con Rudolph W. Giuliani e finita con Michael R. Bloomberg, rieletto sindaco per tre volte.
Durante la sua corsa de Blasio ha messo in ombra gli avversari canalizzando la crescente frustrazione dei newyorchesi su temi come la disuguaglianza, la politica di sicurezza troppo aggressiva e la mancanza di alloggi a prezzi ragionevoli, e affermando che la città non deve lasciare indietro nessuno. Come forse nessuno prima di lui, ha puntato sulla sua famiglia multirazziale per comunicare con un elettorato sempre più vario, appassionando gli elettori con uno spot televisivo in cui compare Dante, il carismatico figlio quindicenne con la sua appariscente capigliatura afro. De Blasio sarà il primo democratico a guidare New York do- po vent’anni. Il suo messaggio ha risvegliato lo scontento più profondo e la voglia di cambiare degli abitanti delle cinque circoscrizioni cittadine.
Pochi errori
Il suo rivale Lhota, vicesindaco durante l’amministrazione Giuliani e con un passato di banchiere a Wall street, è entrato in gara in pompa magna e con molte promesse: un repubblicano moderato, un manager scaltro dalla forte personalità, noto per le sue citazioni dal film Il padrino e i suoi tweet poco sobri. Ma nei suoi comizi si è rivelato monotono e poco convincente. I suoi attacchi a de Blasio, descritto come un “socialista” che avrebbe riempito le strade di delinquenti, non sono sembrati di gran classe. Inoltre, nonostante i suoi legami con il mondo della finanza, è riuscito a racimolare solo 3,4 milioni di dollari di donazioni, un terzo della somma raccolta da de Blasio.
Lhota è stato spiazzato dall’incredibile ascesa del suo avversario. Cresciuto in Massachusetts, fan dei Red Sox, da ragazzo de Blasio ha abbracciato gli ideali di sinistra dei sandinisti in Nicaragua, poi ha sposato una donna che prima si dichiarava lesbica, e non ha mai diretto un’organizzazione di più di 300 persone. Ma il nuovo sindaco, che è in politica da molti anni ed è stato il responsabile delle campagne elettorali di Hillary Clinton e del deputato democratico Charles B. Rangel, ha diretto una macchina disciplinata, che ha commesso pochi errori e non ha dato niente per scontato, contrariamente a Lhota.
Per il giorno del voto de Blasio ha chiamato a raccolta circa diecimila volontari distribuendoli in quaranta punti della città per incentivare l’affluenza alle urne. Lhota è riuscito a reclutare 500 persone, pagate, in nove postazioni. Secondo gli exit poll realizzati dalla Edison Research, gli sforzi per un impegno coordinato sono stati ripagati, facendo guadagnare a de Blasio i voti di elettori di ogni etnia, genere, età, religione, reddito e livello d’istruzione.
Il manifesto, 30 ottobre 2013
Tanti discorsi, tante polemiche, sempre più uguali a se stessi. Da quanto tempo? Almeno da vent'anni, il tempo della lenta agonia della sinistra italiana (e non soltanto). Ora il dibattito impazza - che novità - sulla legge elettorale, con gli ultimi proclami del sindaco di Firenze contro il proporzionale degradato a fabbrica di ammucchiate. E sulla povera Costituzione del '48, non abbastanza sfigurata e tradita. Della quale si intende abbattere il presidio procedurale, come se non fosse proprio quella la prima regola da salvaguardare, come se non incombesse il rischio di creare il più velenoso dei precedenti, che già domani altri potrebbe legittimamente invocare per la spallata definitiva.
Oppure si parla della crisi e delle sue conseguenze rovinose per milioni di individui, che sono poi le rovinose conseguenze di questa forma di società, in cui il pubblico è rigorosamente asservito al privato. Fingendo - tutti: dal presidente della Repubblica all'ultimo cronista - di ignorare che la crisi non è un'anomalia o un incidente di percorso, ma il prodotto più tipico del meccanismo che presiede alla riproduzione del modello. Nella fattispecie, del fallimento di finanziarie e banche specializzate nella speculazione sulla pelle degli ultimi e poi salvate a spese dello Stato, con la più spettacolare socializzazione delle perdite private che la storia del capitalismo ricordi. Se non ci fosse stata, la si sarebbe dovuta inventare questa crisi. Occasione preziosa per assestare alle masse degli ignari e dei subordinati l'ennesimo colpo basso e per inchiodarle alla colpa di «aver vissuto al di sopra delle loro possibilità». Di qui il lasciapassare per altri colossali saccheggi attraverso la leva fiscale, le privatizzazioni, i nuovi tagli al reddito e ai diritti sociali, l'aumento dell'orario di lavoro, l'abbattimento dei diritti e delle tutele, la riduzione dell'occupazione...
Si dice da più parti, simulando pensosa solidarietà, che mai la politica è stata tanto distante dalla vita reale, dai problemi, dalle ansie e dalle difficoltà dei più. E intanto si continua come niente fosse a sfornare minacce travestite da promesse. Ormai la "gente" non sa più che pensare, è sin troppo evidente. C'è chi ancora crede in qualche grillo parlante, che minaccia e lusinga. Chi, nauseato, ha staccato la spina. Chi magari seguita a onorare antiche appartenenze, più per omaggio al proprio super io che per convinzione. Ma è evidente, ogni giorno di più, che non c'è partita. La cosiddetta politica viaggia alla velocità di un accelerato. La crisi - che è sociale e delle istituzioni; morale e della speranza; economica e delle relazioni tra le persone - a quella di un meteorite. Non sono Cassandre quelle che ripetono che stiamo seduti su una santabarbara. È la pura verità. Di questo passo, o salta in aria l'euro o salta in aria direttamente l'Europa. E sarà l'inizio di un domino inarrestabile. E non sono Cassandre nemmeno quelle che mettono in guardia dalla marea montante dei populismi. Il ventre delle nostre società ribolle di pulsioni retrive. La politica ha rinunciato da decenni a civilizzarle. Da quando si è assegnata il compito di aprire la strada al mercato, che della civilizzazione non sa che farsene, anzi la vede come il fumo negli occhi.
Per questo servirebbe, oggi più che mai, uno scatto, un gesto che interrompesse finalmente questa litania di formule stanche e squarciasse il velo dell'ipocrisia. Non è vero che non si sappia che cosa si debba e si possa fare, che cosa milioni di persone desiderano, sentendo che si tratta dei loro diritti violati. Molti professionisti della politica - molti di quelli che si pensano in qualche misura di "sinistra", ovunque collocati - sanno ancora bene di che cosa si tratta. Come lo sapevano i loro predecessori fino a un passato tutto sommato recente, se è vero che questo paese ha saputo malgrado tutto camminare lungo una strada di sviluppo civile sino ai primi anni Ottanta. Contrastato, ma civile. Riuscendo a combattere contro poteri arcaici radicati.
Redistribuire la ricchezza, in primo luogo. Perché l'Italia è ancora molto ricca, solo sempre più ineguale e ingiusta. Tornare a programmare sviluppo, spesa produttiva e investimenti, cosa che solo il pubblico può fare all'altezza delle necessità di un paese in declino. Puntare su un grande programma di piena occupazione per la manutenzione del territorio e delle città, per il rilancio della scuola e dell'università pubblica, della sanità pubblica, dei servizi alla persona, delle infrastrutture materiali e immateriali. E per questo farla finita, una volta per tutte, con lo scandalo assoluto di un gigantesco furto perpetrato a danno del fisco da grandi evasori ed elusori che invece la politica coccola e remunera, pagando con gli interessi (quanto incide il servizio del debito sulla crescita esponenziale del debito stesso?) ciò che sarebbe dovuto in forma di imposte su grandi patrimoni, profitti e rendite. Non è vero che non si sappia tutto questo. Basta frequentare un qualsiasi gruppo, leggere qualsiasi rivista, seguire qualsiasi convegno che la sinistra promuove da anni a questa parte per toccare con mano importanti convergenze di analisi e propositi. E non è nemmeno vero che non lo si potrebbe fare, se lo si volesse. Pur in presenza dei vincoli iugulatori europei, di cui peraltro l'Italia potrebbe imporre la riscrittura. E comunque non è vero che - se ci si battesse con coerenza, a viso aperto per un programma di questo genere - nulla cambierebbe nello stagno della politica italiana. È vero il contrario. Si determinerebbe un terremoto, che spazzerebbe via nani e ballerine, sepolcri imbiancati e profeti di finti tsunami.
Quel che è mancato sinora è il coraggio. E la generosità. Ed è questa la maggiore responsabilità di chi - capopartito, capocorrente o capopopolo - potrebbe dire basta una buona volta a questo stato di cose, e muoversi senza riserve per innescare un processo che basterebbe poco a mettere in moto. Ci sono oggi dieci, forse quindici persone in Italia - inutile fare i nomi - che avrebbero, per ruolo o per virtù personali, la possibilità di produrre una rottura nella tendenza verso l'agonia del paese. Che potrebbero, insieme, trasmettere al paese il messaggio di fiducia e di determinazione di cui c'è urgente bisogno. Mettendo da parte calcoli di bottega e cure personali. E scommettendo sull'immenso patrimonio di forze, di intelligenze, di risorse morali che il popolo della sinistra italiana, oggi disperso e depresso, ancora possiede.