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«Abbiamo cer­cato di dare voce a quella sini­stra che non vuole chiu­dersi nell’autocompiacimento dello scon­fit­ti­smo, o nel ruolo ras­si­cu­rante di quelli desti­nati all’opposizione a vita. Ma adesso come con­ti­nuare il cammino?».

Il manifesto, 5ottobre 2014, con postilla

Quando ci è stato chie­sto di essere pre­senti ad una ini­zia­tiva uni­ta­ria della sini­stra, a una mani­fe­sta­zione dove Sel ha chia­mato a par­te­ci­pare donne e uomini di una sini­stra plu­rale, abbiamo accet­tato molto volen­tieri. Per­ché è la stessa sini­stra che ogni giorno si incon­tra e discute sulle pagine del mani­fe­sto, il gior­nale che da oltre quarant’anni si batte per rin­no­vare la sini­stra italiana.

E’ stata l’occasione per riven­di­care il nostro ruolo, il nostro essere stati l’unico gior­nale impe­gnato a soste­nere in modo aperto, senza auto­cen­sure, una cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea a favore della Lista Tsi­pras. Un’impresa più dif­fi­cile del solito, sulla quale in pochi erano dispo­sti a scom­met­tere per­ché prima del voto la lista era asso­lu­ta­mente sco­no­sciuta. Anche a sini­stra. E pro­prio per que­sto è stata un’occasione da non per­dere per chi non voleva ras­se­gnarsi a votare per Renzi, né per Grillo e nem­meno ripie­gare nell’astensionismo.

Non sem­pre le moti­va­zioni che hanno fatto nascere la Lista Tsi­pras sono state rispet­tate. Ci sono stati per­so­na­li­smi esa­ge­rati, dosi ecces­sive di auto­re­fe­ren­zia­lità, insop­por­ta­bili elen­chi di buoni e cat­tivi. Ma, nono­stante tutto, alla fine ha pre­valso l’idea di rom­pere vec­chi stec­cati, l’unica idea capace di mol­ti­pli­care la par­te­ci­pa­zione, spe­cial­mente delle gio­vani gene­ra­zioni. Que­sta idea si è tra­dotta in forza che ha poi assunto il peso del quo­rum elettorale.

Abbiamo cer­cato di dare voce a quella sini­stra che non vuole chiu­dersi nell’autocompiacimento dello scon­fit­ti­smo, o nel ruolo ras­si­cu­rante di quelli desti­nati all’opposizione a vita. Ma adesso come con­ti­nuare il cammino?

Vista la spro­por­zione delle forze in campo sarebbe vel­lei­ta­rio dire che vogliamo diven­tare mag­gio­ranza - in Gre­cia Tsi­pras ha avuto suc­cesso in un paese in mace­rie - tut­ta­via vogliamo che si costrui­sca a sini­stra del Pd una forza - o un insieme di forze - che pos­sano farsi sen­tire con auto­re­vo­lezza sui temi legati al governo del Paese. Se è chiaro quale può essere l’obiettivo (rag­giun­gi­bile attra­verso una lunga mar­cia che coin­volga però asso­cia­zioni, par­titi, liste, movi­menti), dob­biamo comun­que chie­derci per­ché fac­ciamo fatica a farci ascol­tare, per­ché non riu­sciamo a rap­pre­sen­tare una sini­stra larga e popo­lare, una sini­stra del lavoro, dei diritti, del vero cam­bia­mento (non quello sven­to­lato da Renzi) verso una società più demo­cra­tica e meno liberista.

Una prima rispo­sta, che ha radici anti­che, è que­sta: non sap­piamo stare insieme, non sap­piamo unire le forze. Que­sta inca­pa­cità è tutta ideo­lo­gica: l’idea pre­vale sul rap­porto tra le per­sone, per affer­marsi l’idea è dispo­sta a cam­mi­nare sulle mace­rie, poli­ti­che e personali.

Noi a sini­stra abbiamo biso­gno di sin­ce­rità e fran­chezza. Se siamo ancora una esi­gua mino­ranza, più come rap­pre­sen­tanza poli­tica che nella società ita­liana, non è per colpa di Ber­lu­sconi. E come non era lui in pas­sato il pro­blema, oggi non lo è Renzi.

Per­ché il pro­blema siamo noi, sem­pre divisi, sem­pre con­vinti di avere la verità in tasca e guai a chi ce la tocca. Ecco, se vogliamo diven­tare più grandi, più forti, ognuno di noi deve cedere un pezzo della pro­pria sovra­nità. Senza que­sta con­sa­pe­vo­lezza non solo non si fa una sini­stra nuova, ma non si tiene insieme nep­pure un condominio.

Sap­piamo che dob­biamo con­fron­tarci con un appa­rato poli­tico e un peso note­vole, quale quello rap­pre­sen­tato dal Pd di Renzi. Ma il suo suc­cesso potrebbe non reg­gere sui tempi lun­ghi. Anzi, i dati del tes­se­ra­mento del Pd sono drammatici.

Più in gene­rale, stiamo attra­ver­sando una fase molto dif­fi­cile dal punto di vista eco­no­mico. Ma adesso, come ieri, sap­piamo almeno con chi abbiamo a che fare. E come vent’anni fa il ber­lu­sco­ni­smo strappò alla sini­stra la parola “libertà”, oggi Renzi ha seque­strato la parola “cambiamento”.

Ogni giorno vediamo l’uso spre­giu­di­cato che ne fa. Cam­bia la Costi­tu­zione, cam­bia la giu­sti­zia, cam­bia il lavoro. E chi trova al suo fianco? Ber­lu­sconi. E chi canta ogni giorno la sere­nata al pre­si­dente del con­si­glio? Chi è il più acca­nito fan del pre­mier? Il Gior­nale di Arcore che vede nel segre­ta­rio del Pd il gio­vane cava­liere che mas­sa­cra le oppo­si­zioni interne e i sindacati.

Renzi e Ber­lu­sconi fanno fatica a stare in due par­titi diversi, pro­vano a inven­tarsi qual­che motivo di con­tra­sto, ma pro­prio non ci rie­scono. Riforme isti­tu­zio­nali, giu­sti­zia, lavoro: sono d’accordo su tutto. Guar­date le scene di amo­rosi sensi quando si incon­trano in Par­la­mento depu­tati e sena­tori del Pd e di Forza Ita­lia: baci, abbracci, pac­che sulle spalle. Guar­date le ele­zioni delle pro­vin­cie: sono spa­riti i cit­ta­dini e sono com­parsi i listoni con Fi e Pd uniti da un’attrazione fatale.

Dovremmo lasciare che la natura fac­cia il suo corso, dovremmo lasciarli liberi di unirsi in un unico par­tito. Ma non sarà così. E a noi spetta comun­que il com­pito di costruire una sini­stra più forte, più radi­cata nel ter­ri­to­rio, più social­mente utile. Siamo con­vinti che pos­siamo darci que­sto obiet­tivo? Pos­siamo, Pode­mos, come dicono in Spa­gna, ma ad alcune con­di­zioni. Smet­terla di essere solo con­tro il nemico di turno, e met­terci al lavoro per qualcosa.

Come con Ber­lu­sconi, anche con Renzi la comu­ni­ca­zione, la tele­vi­sione, l’informazione è l’arma deci­siva. Oggi è per­sino peg­gio per­ché il con­for­mi­smo, il soste­gno, l’adesione, l’applausometro verso l’alleanza tra Renzi e Ber­lu­sconi è impres­sio­nante. Almeno ai tempi di Ber­lu­sconi c’era qual­che pro­gramma tv, qual­che tg che cri­ti­cava il padrone del vapore.

Oggi tutti i tele­gior­nali can­tano la stessa can­zone. Se nei gior­nali a qual­che diret­tore o a qual­che fon­da­tore, scappa di scri­vere che Renzi è inaf­fi­da­bile, si strilla ai poteri forti. Come se Mar­chionne, la finanza inter­na­zio­nale, le ban­che, Con­fin­du­stria, il pre­si­dente della repub­blica, l’industria di stato (e per­fino la mas­so­ne­ria) fos­sero delle mam­mo­lette, come se non fos­sero schie­rati come un sol uomo con il governo Renzi-Alfano, o se pre­fe­rite Poletti-Sacconi.

In que­sta bat­ta­glia per una sini­stra rin­no­vata, plu­rale, ricca di espe­rienze diverse, chiara in alcuni obiet­tivi comuni (non biso­gna essere d’accordo su tutto), noi del mani­fe­sto ci siamo. E ci saremo.

Il nostro gior­nale ha avuto momenti duris­simi nella sua lunga sto­ria. Ma siamo andati oltre le divi­sioni e siamo riu­sciti a supe­rare le difficoltà. Oggi il manifesto è vivo e vegeto e spera di festeggiare la fine dell’anno con l’impresa più grande di tutte: ricomprarci la testata

Siamo con­vinti che le let­trici e i let­tori ci aiu­te­ranno nell’impresa, come hanno sem­pre fatto per­ché sanno che il mani­fe­sto è un bene col­let­tivo: di quelli che lo fanno e di quelli che lo leg­gono, di quelli che ieri erano in piazza. Per­ché è un sog­getto di que­sta sini­stra, una sini­stra con radici pro­fonde, un po’ ere­ti­che, una sini­stra che non separa diritti sociali e diritti indi­vi­duali, libertà e soli­da­rietà, una sini­stra fie­ra­mente dalla parte del torto soprat­tutto quando la ragione dei più, della mag­gio­ranza, si rico­no­sce la tri­nità Renzi-Marchionne-Berlusconi.

postilla

Una riflessione sensata; domande penetranti, sulle quali bisogna riflettere e, se possibile, decidere. Rangeri scrive: dobbiamo «smet­terla di essere solo con­tro il nemico di turno, e met­terci al lavoro per qualcosa». Dobbiamo insomma metterci al lavoro
per qualcosa, raccontare come noi, la nuova sinistra, vogliamo contribuire a un altro cambiamento, alternativo a quello minacciato dai nostri avversari. E allora aggiungo una domanda ulteriore: perché chi si batte per una nuova sinistra non è riuscito a valorizzare e sviluppare quel cambiamento alternativo, radicale ma non utopistico, che è proposto nei documenti fondativi della lista Altra Europa con Tsipras, e anticipata e ripresa in tanti scritti sul manifesto e su altri giornali, da promotori e protagonisti della lista come Guido Viale, Luciano Gallino, Barbara Spinelli?

Intervista di Daniela Preziosi,a un dirigente politico della sinistra che sta meditando ancora sulle sue scelte.

Il manifesto, 3 ottobre 2014. con postilla

L'appello. Nichi Vendola chiama il Pd e la sinistra diffusa: Renzi svolta a destra, lavoriamo tutti insieme. «Il premier a un giro di boa, la nouvelle vague renziana è più a destra di Sacconi. Chiedo a chi fa la battaglia sull’art.18: questa volta andate fino in fondo. Sel non starà in prima fila ma accanto agli altri. La lista Tsipras? Una semina»

Quello di Renzi è «un governo con­ser­va­tore che spara un colpo alla nuca di ciò che resta della civiltà del lavoro». Nichi Ven­dola pesca a piene mani dal suo cane­stro di parole per­ché, spiega, «siamo arri­vati a un punto di svolta», «il dibat­tito sull’art. 18 è una linea di demar­ca­zione che riguarda iden­tità, orgo­glio e senso stesso della parola sini­stra. Quando la sini­stra diventa aso­ciale è meglio chia­marla destra». Lan­cerà que­sta pro­po­sta alla mani­fe­sta­zione di domani a Roma. In mat­ti­nata la for­ma­liz­zerà alla dire­zione del par­tito: «Met­tiamo Sel a dispo­si­zione, come uno stru­mento, un lie­vito, un ter­reno di incon­tro per una parte del Pd, i movi­menti, le asso­cia­zioni della sini­stra dif­fusa e del sindacato»,per com­bat­tere insieme l’agenda eco­no­mica del governo Renzi. Con il mani­fe­sto Ven­dola è ancora più espli­cito: è «l’inizio di un per­corso con un futuro più lungo» e la richie­sta «a tutti di fare una bat­ta­glia vera, di por­tarla fino in fondo».

Ven­dola, pre­para un nuovo big bang a sinistra?
La mia pro­po­sta è lavo­rare per una coa­li­zione dei diritti e del lavoro, che abbia la capa­cità di ren­dere sem­pre più stretto il legame fra i diritti sociali e i diritti civili.

È un invito alla sini­stra Pd a uscire dal par­tito? Tutti, o quasi, hanno già detto che saranno fedeli ’alla ditta’, per dirla con Bersani.
Ber­sani sta facendo la sua lotta poli­tica nel suo par­tito. Da altre parti si legge anche altro. Non intendo inter­fe­rire nelle que­stioni interne al Pd, ma mi rivolgo a tutti quelli che sanno che siamo a un giro di boa della sto­ria e della cul­tura di que­sto paese. Pro­pongo di costruire qual­cosa di nuovo, non di assem­bleare le schegge scon­fitte della sinistra.

Allora è un invito a Pippo Civati, che sarà sul palco con lei?Tutti coloro che dal Pd muo­vono una cri­tica radi­cale al ren­zi­smo e alla deriva a destra di que­sto governo sono inter­lo­cu­tori pre­ziosi. Pro­pongo loro di lavo­rare insieme, anche da diverse posta­zioni. Non li voglio iscri­vere a Sel, metto a dispo­si­zione Sel per costruire qualcos’altro. Sel non vuole stare in prima fila, ma accanto a tutti coloro che si sen­tono impe­gnati in un pro­cesso indi­spen­sa­bile al paese, non al ceto politico.

Con­cre­ta­mente que­sta ’coa­li­zione’ cosa farà?
Intanto il 4 otto­bre fac­ciamo un’iniziativa insieme, con per­sone diverse, pro­prio per­ché nella sini­stra ci sono tante cose, tante idee, tante testi­mo­nianze. Hanno il difetto di essere spar­pa­gliate, fram­men­tate, a volte in sonno da troppo tempo. Si tratta di riag­gre­garle in un pro­getto che non abbia nes­suna tor­sione mino­ri­ta­ria e testi­mo­niale, lon­tano dalla trap­pola per cui o c’è il gover­ni­smo o c’è il mino­ri­ta­ri­smo. Rimet­tiamo in campo le forze che par­lino il lin­guag­gio di una sini­stra moderna, che non si sente custode di nes­suna orto­dos­sia ma che sia pro­ta­go­ni­sta di un cambiamento.

’Cam­biare’ è un verbo ren­ziano, ormai.
Dob­biamo libe­rare que­sta e altre parole dalla reto­rica misti­fi­cante del ren­zi­smo. Mando una let­tera a Renzi: “Caro Mat­teo, c’era un tempo in cui quando si diceva ’riforma’ si par­lava di qual­cosa che miglio­rava le vite: pensa al diritto di fami­glia, alla riforma sani­ta­ria, a quella psi­chia­trica. Oggi quando si evoca la parola riforma si parla sem­pre e solo di qual­cosa che ti spo­glia di un diritto”.

Renzi pro­mette che il jobs act darà diritti e tutele a chi non li ha.
Renzi dice tutto e il con­tra­rio di tutto, è un calei­do­sco­pio di slo­gan. Sta con Hol­lande ma anche con Came­ron. Dice a Mer­kel ’non trat­tarci come sco­la­retti’ ma poi come uno sco­la­retto dice ’rispet­te­remo il 3 per cento’.

Par­lava delle «schegge scon­fitte della sini­stra». Si rife­ri­sce alla Lista Tsi­pras? Vi sen­tite ancora impe­gnati in quel percorso?
Credo che quell’esperienza sia stata posi­tiva dal punto di vista della mobi­li­ta­zione e delle ener­gie, soprat­tutto quelle gio­va­nili. È stato un segnale di cam­bia­mento. Ha cor­ri­spo­sto a un sen­ti­mento e a un biso­gno che c’era in una parte dell’elettorato. Pur­troppo la sua seconda vicenda, quella dopo il voto, non mi pare che brilli. Nean­che dal punto di vista di come marca la scena del par­la­mento euro­peo. Ma con­ti­nuo a con­si­de­rare quell’esperienza un’importante semina per la sinistra.

Alla riu­nione della dire­zione del Pd D’Alema ha quasi riven­di­cato il refe­ren­dum per allar­gare dell’art.18. Era il 2003, gli allora Ds — come lui — fecero cam­pa­gna con­tro. Che impres­sione le fa?
Io ho par­te­ci­pato a quella cam­pa­gna per esten­dere le tutele a tutti. E ancora oggi penso che nono­stante non si sia supe­rato il quo­rum, il dato dei voti — que­gli 11 milioni per il sì — resta la più grande con­sul­ta­zione di massa, impa­ra­go­na­bile a un son­dag­gio pilo­tato o a un’attività di mar­ke­ting e pro­pa­ganda. Fu un responso straor­di­na­rio, l’espressione di un dif­fuso sen­ti­mento di giu­sti­zia sociale. Forse la odierna deva­stante scena di intere gene­ra­zioni di pre­cari con­sente anche a D’Alema un utile ripen­sa­mento. Quando poi sento gli espo­nenti della nou­velle vague Pd par­lare di art.18 come di un pri­vi­le­gio, rab­bri­vi­di­sco. Licen­zia­mento senza giu­sta causa, quello che Renzi chiama «libertà degli impren­di­tori», vuol dire licen­ziare uno per­ché ha il can­cro, o è gay, una donna per­ché è incinta. Il pri­vi­le­gio sem­mai è l’esercizio arbi­tra­rio di un potere. La nou­velle vague Pd cul­tu­ral­mente sta più a destra di Sac­coni, il peg­gior mini­stro berlusconiano.

Sac­coni lamenta che sull’art.18 il jobs act ora è troppo timido.
I diver­sa­mente ber­lu­sco­niani bat­tono un colpo per ricor­dare che sono un fon­da­mento di que­sta mag­gio­ranza. E lo sono dav­vero. Anche il cro­no­pro­gramma dei mille giorni è scan­dito dalla destra: all’inizio c’è un colpo al cuore dei diritti sociali, in coda forse forse arri­verà una par­venza di diritti civili.

Al senato Sel ha pre­sen­tato oltre 300 emen­da­menti sulla legge delega. Farete ostru­zio­ni­smo?
Lo deci­de­ranno i nostri sena­tori. Io mi auguro di sì.

Fra qual­che mese lascerà la pre­si­denza della Puglia. C’è chi parla di un passo indie­tro, c’è chi dice che ha in testa di tra­sfe­rirsi in Canada, patria del suo Eddy. Cosa farà davvero?
Farò il lea­der di Sel fin­ché i miei com­pa­gni e le mie com­pa­gne me lo faranno fare. Ma non lo intendo come un inca­rico a vita. Quanto al Canada, è nel mio cuore, ma viverci è in con­trad­di­zione con la mia antro­po­lo­gia: sono una crea­tura medi­ter­ra­nea e ho biso­gno del caldo e del mare.

Renzi vuole spia­nare la sini­stra interna al Pd, e quasi quasi ce l’ha fatta. Spia­nerà anche voi?

Il ragazzo si sta impe­gnando molto, ma vedremo. Attra­verso la reto­rica della rot­ta­ma­zione e le altre ope­ra­zioni di tipo pub­bli­ci­ta­rio è riu­scito a sosti­tuire alla dia­let­tica destra-sinistra quella vecchio-nuovo, veloce-lento. Sono cate­go­rie da let­te­ra­tura mari­net­tiana, tutte den­tro un mec­ca­ni­smo di comu­ni­ca­zione veloce, super­fi­ciale e fero­ce­mente gio­va­ni­li­sta. Ma il gio­va­ni­li­smo non è una cul­tura di sini­stra. E ’Gio­vi­nezza’ non è nel nostro reper­to­rio musicale.

postilla
Plagiando Eugenio Montale abbiamo dedicato tre versi ai compagni che restano nel PMR. Li ripetiamo, mutatis mutandis, a Nichi Vendola:
«non so come stremato tu resisti
in questa palude di finanzcapitaliamo

ch'è il partito di cui sei alleato»


L'intervento che pubblichiamo è stato inviato alla mailing list dei militanti della lista "l'altra Europa con Tsipras", nella quale è in corso un fervido dibattito sulla prosecuzione, in Italia e in Europa, dell'azione politica iniziata in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo. Il titolo, i sottotitoli e i corsivi sono nostri. Altri interventi, oltre a quello di Paolo Cacciari, sono leggibili in calce all'eddytoriale n. 146.

Ho perso un po' di giorni a leggere i vari scambi (sono stato via otto giorni e sono arrivate a metà agosto 139 mail, numeri da record direi). La prima sensazione è stata di profondo spaesamento: sembra che stiamo in questa mailing list avendo fatto cose diverse, avendo lavorato a progetti diversi, insomma per caso, come se non avessimo fatto insieme un'impresa straordinaria (che non è avere preso le firme, il 4,03, ma avere messo le basi per un progetto nuovo). O come se avessimo fatto imprese diverse, o altrimenti che ci incontrassimo per la prima volta. Le lettura del contributo di Salzano e dell'intervista di Zagrebelsky mi hanno un pò chiarito le idee, e provo a dire la mia, ripartendo brevemente da quello che penso e conosco che abbiamo fatto (io conservo le mail, me le archivio, sono andato un pò a rileggerle).

Un po' di storia

Sul finire del 2013 ( quando in Italia c'era una commissione di saggi per la riforma della Costituzione e il governo Letta) viene pensata la proposta di cui io darei questa sintesi.

Quali sono gli elementi che la caratterizzano? In un quadro rivoluzionato ( questa Europa, l'attacco alle Costituzioni e al welfare state pianificato come quadro generale, la debolezza dei partiti italiani e la potenza di Renzi e di Grillo) è necessario cambiare punto di vista, uscire dal pantano italiano e riformulare una proposta ripartendo da un punto di vista generale, dal quadro dei poteri europei e dal dominio della finanza (direi con l'accetta una proposta per dare una risposta a quanto denunciato da Luciano Gallino nel suo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe).

Una dimensione europea fondativa quindi, il cui legame con Tsipras e quello che rappresenta è essenziale. Non solo un altro punto di vista quindi, ma bensì un vero e proprio cambio di campo di gioco, reso necessario dalla marginalità in cui dopo la fiammata del 2011 eravamo ridotti, come democratici e sinistra. Marginalità dovuta forse da non avere saputo dare risposta al cambio di quadro dei poteri reali, che ormai sono extranazionali.

Quale è il punto unitario attrattivo? Una risposta democratica radicale alla crisi e all'attacco alla democrazia, alla lotta dell'alto verso il basso.
Il punto di forza è la proposta programmatica, non la mera collocazione ( non basta stare nel mezzo tra Grillo e Renzi per prendere i voti). Una proposta caratterizzata da essere non solo lanciata ma sostenuta dalla gran parte dell'intellettualità italiana avvertita, con un programma generale di medio-lungo periodo, che parlava ad un fronte ampio (da chi aveva votato Pd a chi si era astenuto, i tanti pubblici diversi del nostro elettorato). Il tutto, con la rottura anche formale rispetto ai partiti, ha permesso di recuperare all'impegno anche per la rappresentanza molte parti della cittadinanza attiva (come scrive Salzano) che generalmente saltano le scadenze elettorali. Ed ha aperto un dibattito serio nelle forze politiche che hanno ceduto una cosa fondamentale in questo passaggio, la gestione esclusiva della rappresentanza.
A questa grande forza di elaborazione intellettuale io lego gran parte del consenso elettorale e della qualità programmatica ( lo dico perchè penso che i comitati siano stati importanti ma non sufficienti e penso che le ultime vicende stiano scatenando un anti-intellettualità che per noi può essere mortale).
Così definito il progetto è tutt'altro da esperienze precedenti, elettorali e non elettorali, non è la rete dei movimenti modello social forum, non è la rete dei comitati di lotta, parte dall'Europa e non dal municipio, non è l'unità dei vari pezzi-soggetti della sinistra.
Sulla proposta abbiamo dimostrato una straordinaria capacità organizzativa, rileggendo le mail abbiamo fatto cose con tempi e ritmi folli senza un euro. Su questo torno dopo.
Per me è evidente che non è mai stata una proposta per una mera lista elettorale, ma l'avvio di una proposta generale ambiziosa che fin dalla sua elaborazione superava la scadenza elettorale, andando a ridifinire un nuovo spazio politico e sociale. Una proposta molto definita ma che abbiamo vissuto ed elaborato molto diversamente. Di largo dominio e discussione l'aspetto del"comunismo di guerra" di cui scrive Marco Revelli, molto meno - a mio parere - il profilo innovatore e costituente della proposta.
Una proposta che si è realizzata avendo la convizione di avere nelle mani nient'altro che la forza della proposta e la sensibilità politica di Tsipras. E anche lo stile politico della sua costruzione è stato nuovo, dopo il lancio " a freddo e non concordato", per fare sì che tra gennaio e febbraio tantissime storie e realtà partecipassero alla sfida c'è stata grande attenzione a non chiudere nessuna porta a nessuna storia ( bastava l'adesione al progetto), a non fare analisi del sangue e ad ogni relazione e grande, grandissima pazienza. Insomma abbiamo fatto politica, non esiste solo il bianco e nero, ma esiste anche il processo che sposta le posizioni ( così è stato per SEL- quando leggo di un progetto debole verso SEL sorrido, su SEL siamo stati molto aggressivi e con conseguenze anche dolorose). Lo stile del nostro confronto in questi ultimi periodi in mailing list è tutt'altro da questo, troppo spesso riemergono, anche inconsciamente, i fantasmi della nostra storia ( richiami di ordine, accuse di tradimento, storie di provenienza).
Leggere i documenti

Vi invito ad andare a rileggere i documenti fondamentali della nostra storia

  1. http://listatsipras.eu/chi-siamo/l-appello.html l'appello iniziale
  2. i dieci punti programmatici di Tsipras
  3. le dieci differenze tra noi e gli altri http://listatsipras.eu/chi-siamo/i-dieci-punti.html ( che personalmente considero la cosa più bella che è stata prodotta, primaria redattrice Spinelli, con la definizione più appropriata per noi " Siamo la forza politica alternativa"- che non è un partito ma è già in campo come scrive Raffaella Bolini)
  4. l'elaborazione programmatica http://listatsipras.eu/chi-siamo/programmanew.html
Sono tutti attualissimi, c'è la necessità di aggiornarli a Renzi (che è un vero esponente dell'alto Europeo) e delle guerra, ma sono fondativi di un processo che è al primo passo. Rileggendoli sono tutti da attuare subito. Lo dico con orgoglio, io penso di essere partecipe di un percorso che può veramente cambiare campo di gioco.
Per questo ritorno allo spasaemento di cui scrivevo inziale, le proposte avanzate e il tipo di dibattito ci riportano a proposte nobili - sottolineo nobili- che potevano essere fatte l'anno scorso - nel 2013 - in agosto. Penso che sia molto nobile lavorare alla realtà di comitati territoriali contro gli scempi ecologici, estrattivi e urbanistici, penso che sia altrettanto nobile pensare ad uno spazio di incontro dei movimenti, ma penso che quello che abbiamo messo in campo, altrettanto nobile, sia un'altra cosa.

Su questo punto, volendosi bene, dobbiamo confrontarci, quello che viene avanzato - parlando di forme - da tante persone che stimo (cito Roberta Radich a nome di tutti viste le mail odierne) mi sembra un'altra cosa rispetto al progetto che abbiamo lanciato, non ha come priorità l'Europa e i suoi poteri, ma la rete territoriale che potrebbe definire un soggetto ecologista territoriale.

L'Europa, elemento costituente

L'elemento costituente per me del nostro progetto è la lotta per l'Altra Europa, legato alla lotta del sud Europa e alla proposta innovativa di Tsipras. Se perdiamo questo si riparte dal 2013, si può fare ma è un'altra storia. Ed è per questo che dissento da Salzano e dalla citazione forse troppo letterale di Rodotà, parlare di l'Altra Italia (Lombardia, Toscana, Firenze etc...) è un passo indietro, la nostra dimensione è quella Europea.
Il 19 luglio è stato costruito da un comitato larghissimo in base a questa continuità di percorso, da qui alla fine del 2014 per me è prioritario attuare le proposte programmatiche che abbiamo presentato alle elezioni e fare iniziative e campagne coerenti e sviluppare un'elaborazione sul tema della soggettività politica. Su questo vorrei essere molto chiaro: io sono per un soggetto politico NUOVO, nelle forme e nelle pratiche, ma ora noi, come ben dice Salzano, non siamo un soggetto politico e non c'è ancora una traccia e una elaborazione ( per questo confronto mi sembra pertinente il documento Orsucci Radich che, per onestà, non condivido nella sua impostazione). E, in tempi non biblici, dobbiamo decidere se e come lanciare una fase costituente, che, per un soggetto democratico, comporta una campagna di adesione, regole e selezione della dirigenza e della rappresentanza ( fare elezioni senza corpo sociale non esiste).
La costituzione dei gruppi di lavoro permanenti è per me una scelta forte su cui proseguire, da lì devono nascere le prese di posizione (anche sulle estrazioni e su Tempa Rossa - condivido il merito non il metodo che sembra troppo legato a nostre vicende interne) e il rilancio delle nostre proposte programmatiche.

Su Renzi e Draghi, sull'intervento della Troika che stanno preparando in queste ore, abbiamo i punti più forti di alternativa del programma e parliamo di altro. In questo dobbiamo essere e fare la Forza Politica, prendere parola e azione (di cui scrive sempre Raffaella).
La priorità del 30 [data della prossima assemblea nazionale - n.d.r.]è per me definire un'agenda forte da qui alla fine dell'anno ( io la sintetizzerei in 4 priorità: costituzione comitati referendari in vista del referendum costituzionale, dimensione sociale che prepari sia la manifestazione Fiom, da qui arrivare alla nostra manifestazione di fine anno a chiusura del semestre Renzi, costruire almeno una grande occasione di confronto intellettuale sulla fase politica e Renzi nel quadro europeo con connesso aggiornamento del documento-nostra carta d'indentità).
Farlo e farlo bene può permetterci di dire senza spocchia che siamo il progetto nazionale alternativo che sfiderà Renzi al referendum costituzionale, alla politiche, sulle politiche generali in un quadro europeo. Un progetto che non è ancora soggetto politico e che lo può diventare solo se mantiene una missione chiara e un progetto alto e non viva di sole elezioni. Con questa ambizione e prospettiva, con molto buon senso-consapevolezza delle difficoltà e conoscenza della situazione regionale, si può affrontare brillantemente anche il passaggio delle regionali nel 2014.

Sono convinto che noi esistiamo se stiamo nella lotta per l'Altra Europa, non per altro. Per me quindi il chiarimento di missione-oggetto sociale che sembra smarrito di cui scrive Alfonso Gianni è dirimente, fatto quello l'organizzazione (che tanto sembra preoccupare) è conseguente e facile, ritorno a dire che abbiamo avuto capacità organizzative straordinarie. Su questo sono laico, penso che potrebbe funzionare in coordinamento operativo (che starà al massimo in piedi 3 mesi) di chi segue le varie attività che definiremo e da un gruppo di coordinamento di ogni singolo gruppo di lavoro permanente. Il passaggio dirimente sulle nostra forma e sulle grandi scelte (avvio fase costuituente?) per me dovrà essere la prossima assemblea ( il 19 luglio si era detto che sarebbe stato il punto-tema della prossima assemblea che chiude il 2014 e prepara il 2015) e non vedo elementi perchè non lo sia.
Io sono quindi per continuare sull'impostazione da cui siamo partiti nello scorso inverno e che ci ha portato al 19 luglio, trovando tutte le forme organizzative adatte. Lo dico per convinzione e orgoglio - riuso volutamente questo termine - di quello che abbiamo fatto.
Volevo scrivere poco e con poca passione ma non ci sono riuscito.
NOTA: non ho volutamente parlato del gruppo parlamentare, con i parlamentari stiamo diventando ossessivi (si parla e si scrive solo di loro), faranno benissimo il loro lavoro, aiutiamoli ma non soffochiamoli e giudichiamo ogni 24 ore, facciamoli lavorare nelle modalità di cui scrive Salzano
Troppo lunga questa risposta all'eddytoriale 162 (vedi qui a sinistra) per lasciarla nei "commenti" a pie' di pagina. Troppo utile per relegarla nella corrispondenza privata La inseriamo nella cartella degli "interventi". Si apre così un dibattito che speriamo proseguirà.

Eddy, chiaro e lucido come sempre. Provo ad aggiungere qualche altra considerazione, per tentare di capire come sarebbe meglio procedere.

L’altra Europa è nata con una positiva forzatura “approfittando” di una scadenza elettorale. L’obiettivo minimo è stato raggiunto. Ma è bene riconoscere – come fai tu - che l’esperienza contiene delle ambiguità originarie e prospettive divergenti. Per alcuni (i partiti) la Lista è stata usata come uno strumento specificamente limitato al suo scopo: portare dei loro rappresentanti al Parlamento europeo, e, con ciò, ribadire la loro esistenza. Altri, al contrario, speravano che fosse l’inizio di un processo fusionale che finalmente invertisse la tendenza alle separazioni dei partiti della sinistra. Altri ancora hanno sperato nell’avvio dal basso di una “coalizione sociale” (parole di Rodotà), prima ancora che elettorale, sul modello di Podemos.

Tu dici, giustamente, che serviranno tempo ed esperienze concrete per sciogliere le contraddizioni e capire in quale direzione sceglierà di andare l’esperienza dell’“Altra Europa-Italia” (non abbandonerei la dimensione europea nemmeno nel nome). Ma per riuscirci è necessario esplicitare le opzioni, pronunciarsi ed affrontare i nodi teorici e pratici che ci stanno di fronte. Mi pare infatti evidente che dietro alle varie opzioni possibili vi siano delle “visioni” di fondo che andrebbero messe a tema ed affrontate con la serietà e l’approfondimento necessari. Ad esempio: il rapporto tra politica e movimenti sociali (che poi è il riflesso del rapporto tra democrazia e società civile). Io penso che la “forma partito” tradizionale, sovraordinata e professionalizzata sia da abbandonare in radice. Da ciò derivano opzioni organizzative radicalmente diverse (reti orizzontali, non gerarchiche, capaci di iniziativa autonoma). L’idea della “confederazione delle autonomie sociali” del primo movimento operaio, ma anche di certo cattolicesimo (Capitini) e certo pensiero anarchico(Carlo Levi, Danilo Dolci), ripresa negli studi di Pino Ferraris, può essere messa alla nostra attenzione, o dobbiamo rimanere per sempre prigionieri della nostalgia del “più grande partito comunista d’Europa”?

Secondo: qual è la nostra teoria dello stato nel mondo globalizzato attuale? Pensiamo davvero che le istituzioni politiche rette dal modello della democrazia liberale rappresentativa siano praticabili dalla democrazia autentica (autodeterminazione delle popolazioni)? La smania elettorale, “prendere voti” (qualcuno parlava di una forma di “cretinismo”), non nasconde forse una insufficienza di consapevolezza e una “cattura” anche delle forze sane e critiche nei confronti del capitalismo dentro istituzioni ormai svuotate e asservite al sistema-mondo-liberista? Che significa “andare in parlamento” se non si sa prima che la nostra funzione è quella di fare “irruzioni scandalose” nelle istituzioni per destrutturarle, delegittimarle, dissolverle… ?

Terzo. Che cos’è la democrazia per noi? Manuel Castells parla di “democrazia delle persone”. E’ cioè un modo di praticare le relazioni umane e sociali. Questa democrazia radicale, sociale (diceva Bobbio) è inconciliabile con i rapporti di produzione e di consumo capitalistici (non solo quelli finanziarizzati) dominati dalla coercizione, dal ricatto, dalla violenza. Se non affrontiamo queste questioni rischiamo che perfino il capo della Chiesa cattolica riesca ad essere più convincente di noi.

Per dire, solamente, che, secondo me, l’Altra Europa- Italia potrà decollare solo se saprà accendere un vero dibattito pubblico all’altezza della crisi epocale che attraversa la democrazia. E il compito del gruppo di intellettuali e dei siti che citavi dovrebbe essere proprio questo: tenere alto il confronto culturale sul “sistema dei valori” di riferimento necessari per la trasformazione e il cambiamento.

«Una polemica con un articolo di Marco Albeltaro apparso su L’Unità. Togliatti e Berlinguer hanno visto nella Costituzione la carta che poteva innovare la democrazia» Un opportuno segmento di una riflessione del nostro passato utile per costruire un futuro migliore.

Il manifesto, 27 luglio 2014, con postilla

In un suo inter­vento apparso su l’Unità del 25 luglio Marco Albel­taro sostiene la tesi della neces­sità di ricor­dare Pal­miro Togliatti a sessant’anni dalla scom­parsa in misura molto mag­giore di quanto si stia facendo. Sono del tutto d’accordo. Sia Futura uma­nità. Asso­cia­zione per la sto­ria della memo­ria del Pci», sia Cri­tica mar­xi­sta, nelle quali sono impe­gnato, hanno dedi­cato o dedi­che­ranno a Togliatti con­tri­buti di cono­scenza e di ana­lisi e. E credo che anche il mani­fe­sto non man­cherà que­sto appun­ta­mento. In par­ti­co­lare «Futura uma­nità» ha aperto le cele­bra­zioni togliat­tiane con un con­ve­gno, svol­tosi a Roma nel novem­bre 2013, le cui rela­zioni sono state pub­bli­cate quest’anno (Paolo Ciofi, Gianni Fer­rara, Gian­pa­squale San­to­mas­simo, Togliatti il rivo­lu­zio­na­rio costi­tuente, Edi­tori Riu­niti) e pre­sen­tate di recente in una sede par­la­men­tare. Qual­cosa si è fatto, dun­que, e sicu­ra­mente nei pros­simi mesi altro si farà. E biso­gne­rebbe fare di più, ne con­vengo con l’autore.

Dove non posso essere d’accordo con Albel­taro è invece su ciò che emerge dalla sua argo­men­ta­zione, basata sulla con­trap­po­si­zione, che egli avanza espli­ci­ta­mente, tra la rifles­sione su Togliatti (segna­ta­mente il Togliatti degli anni 1944–1964) e il ricordo e la rifles­sione su Ber­lin­guer. Nel farlo, Albe­traro ricorda anche il mio recente Ber­lin­guer rivo­lu­zio­na­rio (Carocci), ma afferma che le diverse e oppo­ste let­ture di Ber­lin­guer emerse in que­sto tren­te­simo anni­ver­sa­rio della morte sono tutte non solo par­ziali, ma anche esa­ge­rate, poi­ché «guar­dare a Togliatti e alle sue scelte sem­bra più utile che guar­dare a Berlinguer».

La peculiarità del PCI

Non capi­sco per­ché si deb­bano con­trap­porre que­ste due figure della tra­di­zione del comu­ni­smo ita­liano: come Albel­taro stesso dice, hanno vis­suto in epo­che diverse e fron­teg­giato pro­blemi diversi. Entrambi sono state emi­nenti per­so­na­lità poli­ti­che che hanno con­tri­buito a creare, cia­scuno nella pro­pria epoca, quella pecu­lia­rità del comu­ni­smo ita­liano che in Gram­sci ha le sue radici.

Certo, vi sono anche delle diver­sità, dovute per lo più alle diver­sità di con­te­sto. Sul piano della poli­tica interna, l’unico che Albel­taro affronta, va notata que­sta dif­fe­renza: Ber­lin­guer si rese conto, sia pure in modo con­trad­dit­to­rio, dei limiti di una poli­tica chiusa in un livello istituzionale-parlamentare-partitico. Men­tre fu stre­nuo difen­sore della Costi­tu­zione e della cen­tra­lità del Par­la­mento (di entrambe, è appena il caso di notarlo, si sta facendo in que­sti anni e in que­sti giorni carne di porco), vide anche – e qui appare più vicino alla rifles­sione gram­sciana, anche a quella del car­cere – come que­sto tipo di demo­cra­zia, se non intrec­ciato con forme diverse e più par­te­ci­pate, e con l’apertura alla società e ai movi­menti, diviene ter­reno di con­qui­sta delle éli­tes, se non addi­rit­tura delle cama­rille, come aveva già ben foto­gra­fato a suo tempo Gae­tano Mosca.
Già prima della sta­gione del com­pro­messo sto­rico, a ridosso del «secondo bien­nio rosso» (1968–1969), vi è in Ber­lin­guer que­sta sen­si­bi­lità e que­sta rifles­sione. Dopo la paren­tesi degli anni Set­tanta e la lezione appresa dagli errori fatti con la soli­da­rietà nazio­nale, Ber­lin­guer com­pie una corag­giosa auto­cri­tica, por­tando il suo par­tito a riflet­tere sul rin­no­va­mento pro­fondo neces­sa­rio per la sua cul­tura e per tutto un modo di inten­dere la poli­tica. Pur­troppo in pochi lo ascol­ta­rono e lo segui­rono, nel gruppo diri­gente del Pci. Ma la «con­nes­sione sen­ti­men­tale» rista­bi­lita col suo popolo ci fanno inten­dere come di quelle parole e di que­gli atti vi fosse biso­gno. Vale la pena ricor­dare una inter­vi­sta tele­vi­siva del 1980, al ritorno da un viag­gio in Cina, nella quale Ber­lin­guer afferma che quella par­la­men­tare non è l’unica forma pos­si­bile di rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica e che ciò che dav­vero con­trad­di­stin­gue una demo­cra­zia sono non le forme della rap­pre­sen­tanza, che mutano con le epo­che e i con­te­sti, ma le libertà fon­da­men­tali di pen­siero, parola, stampa, orga­niz­za­zione poli­tica e sindacale.

Personalità complementari

Togliatti si mosse in una tem­pe­rie sto­rica diversa: si trat­tava non di allar­gare la demo­cra­zia, ma di restau­rarla dopo la paren­tesi fasci­sta, di con­so­li­darla, di lot­tare con­tro lo scel­bi­smo e con­tro la legge truffa dega­spe­riana (il mag­gio­ri­ta­rio, anche allora, era il gri­mal­dello per scas­sare la demo­cra­zia), di far entrare sta­bil­mente le masse nella sto­ria di que­sto paese, facen­done un pila­stro di demo­cra­zia. I par­titi sono la demo­cra­zia che si orga­nizza, come giu­sta­mente scrive Albe­traro. La rifles­sione ber­lin­gue­riana su come que­sti par­titi deb­bano intrec­ciarsi con la società riba­diva que­sta lezione e la appro­fon­diva, facendo tesoro dell’esperienza inter­corsa e cer­cando di con­tra­stare quella ridu­zione della poli­tica ad affare di pochi che, ieri come oggi, ha nel deci­sio­ni­smo il suo ves­sillo prin­ci­pale. La dire­zione di mar­cia di Ber­lin­guer e di Togliatti è la stessa, e appare oggi deci­sa­mente con­tro­cor­rente. E quindi da ripren­dere.
Infine, non può essere dimen­ti­cato in que­sto anno di anni­ver­sari (a quello di Togliatti e Ber­lin­guer aggiun­ge­rei anche il ricordo dei 110 anni dalla morte di Anto­nio Labriola, ancor più dimen­ti­cato) che la grande riso­nanza che viene data al decen­nale della morte di Ber­lin­guer costi­tui­sce una indub­bia novità, anche poli­tica. Come non ricor­dare che dieci o venti anni fa que­sto fio­rire di ini­zia­tive non vi fu? Come non ricor­dare che vi furono decen­nali in cui pre­valse il grido di «dimen­ti­care Ber­lin­guer»? Se quest’anno così non è anche per­ché si è capito che di Ber­lin­guer c’è biso­gno per com­bat­tere quel ten­ta­tivo di restrin­gi­mento della demo­cra­zia che è mani­fe­sto nella ope­ra­zione «rifor­mi­stica» in atto (ma ini­ziamo a chia­marla col suo nome, Con­tro­ri­forma, poi­ché la nostra Riforma fu la Costi­tu­zione repub­bli­cana nata dalla Resi­stenza), per difen­dere anche ciò che Togliatti ha saputo costruire. Per que­sto non vi è con­trap­po­si­zione reale tra Togliatti e Ber­lin­guer. Essi sono, si sarebbe detto un tempo, «uniti nella lotta».
postilla
Un intervento del tutto opportuno nel mare di confusione e d'ignoranza (e di deformazione della storia recente) nel quale ci tocca vivere. "Continuità nelle diversità": non c'è modo più giusto per rappresentare il rapporto tra la visione comunista (italiana) di quei due grandi politici. Nelle ragioni delle diversità Liguori giustamente sottolinea quelle dovute ai differenti contesti nei quali i due personaggi agirono: il primo nel contesto di un capitalismo ancora fordista, il secondo in un capitalismo giunto ormai alla fase dello "sviluppo opulento (quello che fu poi denominato come neoliberismo (Harvey) o financapitalismo (Gallino), e fu invece molto incompreso nella stessa sinistra comunista ai tempi di Berlinguer.Da qui anche la solitudine dell'ultimo grande leader del partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Barlinguer e la sua attuale modernità.
l'associazione Futura umanità (il cui logo è l'icona in btesta a questo articolo, e la rivista Critica Marxista sono due fonti essenziali per seguire la riflessione su questi temi del nostro vicino passato, per tentar di costruire un futuro migliore.
Appello al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza di Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale. Un appello al quale

eddyburg aderisce e a cui invita tutti ad aderire.

Garantire il diritto di fuga
Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati interni in tutto il mondo ha superato i 50 milioni di persone. Si tratta, secondo il rapporto annuale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), del dato più alto mai registrato dopo la fuga in massa, nella prima metà del secolo scorso, dall’Europa dominata dal nazifascismo. “La nostra è stata una generazione di rifugiati che si è spostata nel mondo come mai prima di allora”, ha affermato Ruth Klüger, scrittrice e germanista sopravvissuta ad Auschwitz, “io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga è diventata l’espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta. Sono interamente una persona del ventesimo secolo. E nel ventunesimo continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati”.

Sono parole profetiche: sempre più la fuga è divenuta espressione del nostro mondo, del tempo in cui ci è dato vivere. È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza. Sulle coste meridionali del nostro continente giungono persone – uomini, donne, bambini – che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo, di cui molto spesso le politiche occidentali – connesse a un modello economico e biopolitico di spartizione – sono direttamente o indirettamente responsabili.

I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato. Ma una guerra planetaria, che distingue tra soggetti di diritto e corpi marginali in balia di eventi decisi altrove, non può rendere l’Europa un filo spinato.

L’Europa che vogliamo deve essere un luogo di accoglienza, di rispetto, di dignità.

Fermare il respingimento dei migranti
Il numero dei migranti forzati è aumentato, nel 2013, di ben sei milioni. Un incremento dovuto principalmente alla continua carneficina siriana che, a tre anni dall’inizio del conflitto, ha visto più di 2.5 milioni di persone perdere la possibilità di vivere nel proprio paese. Uomini, donne, bambini sono da mesi ammassati nella stazione Centrale di Milano, senza che il Comune – di fatto abbandonato dallo Stato – riesca a farsene pienamente carico, nonostante i molti sforzi profusi. Ma si tratta anche di schiere in fuga dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale – che si vanno ad aggiungere ai profughi della Somalia e del Maghreb. Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste – e a Sangatte, Ceuta, Melilla – in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati.

Trovano invece spesso respingimento, inferiorizzazione giuridica, economica e sociale, privazione della libertà. Molti di loro trovano la morte durante il viaggio, così che il Mar Mediterraneo si è trasformato in un cimitero dove si compie il naufragio di quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie.

Non serve, allora, appellarsi a retoriche rese impronunciabili, dopo lo smascheramento del Cuore di tenebra conradiano: l’Europa non rappresenta “il faro di civiltà, la globalizzazione della civilizzazione”, che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha descritto a Strasburgo, il 2 luglio, in apertura del semestre italiano di presidenza europea. L’Europa è, anche, quell’orrore che Marlow, il mercante d’avorio, figura dell’avidità e del dominio coloniale, porta in Africa; maschera che disvela fino a che punto il cuore di tenebra si trovi esattamente nella luce che la nostra civiltà ha preteso di esportare, ammantando il proprio dominio di superiorità morale.

Impedire la strage del Mediterraneo
É giunto il momento che l’Unione Europea guardi a se stessa: alla distesa, al mare di morti che le sue politiche hanno causato e continuano a causare, e che cerchi soluzioni concrete e immediate, se non vuole che i suoi stessi cittadini rifuggano lo sguardo delle istituzioni.

I quarantacinque migranti trovati asfissiati nella stiva di un barcone a Pozzallo sono le ultime, povere vittime di una carneficina immane, ma già, mentre scriviamo, se ne aggiungono altre: sono ventimila gli uomini, le donne e i bambini, conteggiati per difetto, annegati nel Mediterraneo dal 1988 in poi. Sono 500 le vittime accertate solo in questa prima parte del 2014. Una tragedia epocale, della quale non potremo dire che non sapevamo, quando sarà diventata storia. Storia d’Europa.

I cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi – tanto più inconcepibile quando si consideri che, nella sua Carta dei diritti fondamentali, l’Unione Europea ha dichiarato di porre la persona al centro delle proprie politiche, e ha considerato le politiche sulle frontiere, l’asilo e le migrazioni come vere e proprie politiche comuni.

Tuttavia l’Unione Europea che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare.

Attuare i trattati
La cosa è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere (art. 77), di gestione di tutte le fasi del processo migratorio (art. 79), di accoglienza delle persone (art. 78) e di condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri (art. 80).

Si tratta di norme che, a cinque anni dall’entrata in vigore, hanno trovato solo una parziale traduzione legislativa: nella prassi si continuano a privilegiare strategie come il Global Approach for Mobility and Migration e le cosiddette Mobility partnership con paesi terzi, prive di una base giuridica vincolante, realizzate su base volontaria e senza la partecipazione in codecisione del Parlamento europeo.

Il ricorso da parte delle istituzioni a questi espedienti e surrogati, anziché agli strumenti previsti dai Trattati per la realizzazione di politiche comuni, conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione.

L’insuccesso di questo approccio è provato dall’incapacità di predisporre e attivare soluzioni semplici e improrogabili come la creazione di corridoi umanitari. L’inettitudine nel costruire una maggioranza fra gli Stati membri che realizzi il principio di solidarietà anche finanziaria previsto dall’art. 80 del TFUE non può essere nascosta dalla retorica del Consiglio europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze, né dal continuo rinvio al ruolo di Agenzie europee, il cui compito dovrebbe consistere nell’applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza.

Né può essere taciuta l’ipocrisia per cui le politiche di respingimento – previste da molte misure decise in sede di attuazione – vengono presentate come intese a salvare la vita dei migranti e dei profughi, quando sono proprio quelle politiche a condannarli al rischio, sempre più attuale, di morire annegati.

La responsabilità primaria di tutto questo ricade sugli Stati membri, sul Consiglio e sulla Commissione, che hanno completamente ignorato i Trattati – e in particolare le norme volte a trasformare le politiche di controllo delle frontiere, di asilo e di integrazione dei migranti in politiche europee comuni, da attuare nel rispetto del principio di solidarietà. L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della fortezza Europa.

Dismettere la fortezza Europa
L’Unione Europea che, incapace di disegnare una vera politica comune, la affida alle proprie agenzie, come Frontex o Europol,[1] ha di fatto abdicato alla missione che si è data con il Trattato di Lisbona e con la Carta dei diritti. Non è questa l’Europa che vogliamo, né è Frontex che i cittadini europei hanno votato lo scorso maggio.

Noi, cittadini europei, diciamo che l’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito.
“Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Questo cartello esposto da un migrante durante la Freedom March, giunta il 27 giugno davanti ai giganteschi palazzi di vetro dell’Unione Europea a Bruxelles, descrive perfettamente la condizione in cui si trovano milioni di persone che cercano di entrare, o di restare, nella fortezza Europa.

La zona euromediterranea deve diventare uno spazio di cooperazione e solidarietà tra i popoli, non un’invalicabile frontiera esteriore per chi fugge da guerra e miseria, né un’angosciosa frontiera interiore, messa a separare la biografia di ciascuno, fatta di storia, affetto, legami, appartenenze.

È compito dell’Italia, in questo semestre europeo, promuovere l’attuazione organica e solidale di tutte le disposizioni dei trattati in materia di frontiere, immigrazione, asilo e integrazione dei migranti, facendosi carico di proteggere e accogliere gli sradicati e di consentire loro un nuovo radicamento, qualora lo desiderino.

Promuovere una politica comune europea
Consapevoli delle responsabilità che gli Stati hanno attribuito all’Unione Europea in questi campi, occorre operare con la massima urgenza perché l’UE venga dotata degli strumenti necessari a far fronte ai flussi massicci dei profughi. L’art. 78 TFEU e la direttiva del 2001 sulla protezione temporanea già prevedono la predisposizione di piani di intervento, che tuttavia la Commissione continua a guardarsi dal proporre al Consiglio.

La presunta strategia globale della Task force sul Mediterraneo, dibattuta dal Consiglio europeo e sviluppata dal Consiglio informale Giustizia e affari interni dell’8 luglio – affidata a iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex – è fumo negli occhi, e sicuramente non costituisce una politica comune europea all’altezza della sfida con cui l’Unione, e in particolare i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono chiamati a confrontarsi.[2]

Chiediamo che il Parlamento europeo, attraverso la sua commissione competente – in collaborazione con la Presidenza italiana e la Commissione – proceda entro i prossimi sei mesi a una valutazione oggettiva dell’adeguatezza delle politiche e dei mezzi messi in atto dalle istituzioni e agenzie dell’Unione e dagli Stati membri e dei Paesi terzi.

Predisporre corridoi umanitari
Nel frattempo si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche. Occorre creare un corridoio umanitario tra le coste dell’Africa e le coste europee, prima a terra e poi in mare, sotto la tutela delle Agenzie delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea, così da impedire nuove tragedie e garantire l’effettivo esercizio del diritto d’asilo in tutti i paesi di transito; il che implica, al contempo, stroncare le nuove mafie dei trafficanti di uomini.

Il Parlamento europeo deve essere a questo proposito compiutamente informato delle ragioni per cui operazioni come EUBAM[3] sul territorio libico non permettano di aggredire il traffico di esseri umani.
Occorre approntare canali di ingresso legale dove un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare, e istituire postazioni dell’Onu e dell’Unione Europea nei principali porti di partenza e nei campi di transito, dove identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori.[4]

Occorre dotare l’European Asylum Support Office (EASO) di poteri di coordinamento delle attività degli Stati membri, alla stregua di quanto fatto con Frontex in materia di controllo delle frontiere; occorre smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l'accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie; occorre far cessare l’insostenibile pressione patita dagli abitanti degli attuali luoghi d’arrivo degli scafisti, primo tra tutti Lampedusa, che spesso si trovano, con grande generosità, a supplire l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea.

Più in generale, l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare, che ci riguarda tutti, come cittadini d’Europa.

Assicurare la libertà di movimento e il mutuo riconoscimento
Urge rendere permeabili i confini interni dell’Unione Europea, abrogando le norme nazionali e le prassi amministrative che nello spazio Schengen limitano la libertà di movimento delle persone, così come la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti. Questo significa sanare le ferite inferte dall’applicazione deviata da parte di alcuni Stati membri del sistema di Schengen non solo alle persone, ma al concetto stesso di libertà e uguaglianza che la nostra cultura democratica afferma di voler tutelare. Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti, così come chiede la Carta di Lampedusa, cui facciamo riferimento.

Per questo chiediamo la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem.

Urge, allo stesso titolo, il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo, alla stregua di quanto già avviene per le decisioni di espulsione, così che le persone siano libere nel movimento e nel ricongiungimento familiare dentro lo spazio dell’Unione. Questo implica la necessità di applicare in modo corretto, secondo le richieste del Parlamento europeo e i suggerimenti dell’UNHCR, il regolamento Dublin III, privilegiando il criterio della riunificazione familiare; così come implica la necessità di adeguare il regolamento alla recente giurisprudenza della Corte in materia di minori.

Facilitare richieste e visti
Urge semplificare le procedure di richiesta dello status di rifugiato e di domanda d’asilo, così come urge l’istituzione di un sistema di visti temporanei richiedibili presso tutte le ambasciate degli Stati dell’Unione Europea nei vari paesi del mondo, per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita.

Occorre approntare al più presto una normativa capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati, che metta fine alle politiche di esternalizzazione dell’asilo con cui l’Unione Europea attualmente demanda la competenza della protezione internazionale agli Stati di transito.

Tutelare i minori non accompagnati
Urge tutelare i minori senza accompagnamento. In Italia sono arrivati, nell'ultimo anno e mezzo, quasi 6000 minori non accompagnati. Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione; altri hanno eluso la sorveglianza e sono del tutto privi di protezione. Per sanare questa situazione è stata presentata una proposta di legge,[5] ma i minori senza accompagnamento sono spesso in transito verso altri paesi e occorre trovare soluzioni congiunte, a livello europeo, di accoglienza, identificazione e protezione.

Promuovere l’istituzione dello ius soli
Urge il riconoscimento di una cittadinanza europea basata sullo ius soli. Benché questo dipenda dalla competenza dei singoli Stati membri, adeguati studi e raccomandazioni delle istituzioni europee potrebbero favorire il conseguimento di tale obiettivo.

Operare per una pax mediterranea
Non vanno infine dimenticate le ragioni geopolitiche che sono all’origine delle crisi nei paesi terzi e che determinano il flusso dei rifugiati. Sotto questo profilo la capacità di previsione, analisi e coordinamento dell’Unione europea, dell’Alto rappresentante e dell’European External Action Service è assolutamente inadeguata. Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una "terza forza" in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d'Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci.

La crisi migratoria mostra quanto sia urgente una politica estera attiva dell’Europa, attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli USA, che sono spesso all'origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini.

Occorre infine un’azione coerente dell’Unione Europea nel far cessare la vendita di armi nelle aree instabili del mondo da parte di quei paesi membri, come Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia, che figurano tra i dieci maggiori esportatori. Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche.

Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa.

Primi firmatari: Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale, Alexis Tsipras, Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Maurizio Ferraris, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Eleonora Forenza, Don Luigi Ciotti, Ermanno Rea, Enrico Calamai, Adriano Prosperi, Aldo Bonomi, Roberta De Monticelli...

PER ADESIONI: corridoio.umanitario@gmail.com

[1] Come affermato l’ultima volta nel Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2013.
[2] Si veda in proposito il documento 11436/14 che Statewatch è sul punto di pubblicare.
[3] EU Border Assistance Mission in Lybia.
[4] Si veda progetto pilota.
[5] Legge n. 1658, 4 ottobre 2013.

L'Appello è stato inviato contestualmente a Repubblica
«Nell’affollata assem­blea nazio­nale tenuta ieri al tea­tro Vit­to­ria di Roma, più di 500 per­sone hanno cer­cato di svi­lup­pare un metodo dif­fi­cile basato sul con­senso e sulle solu­zioni con­di­vise, più che su quello basato su una "testa, un voto"».

Il manifesto, 20 luglio 2014 con postilla

Anni di con­tra­sti non si can­cel­lano con un colpo di spu­gna. In un tempo ragio­ne­vole, ma non breve, Sini­stra Eco­lo­gia e Libertà e Rifon­da­zione Comu­ni­sta, le asso­cia­zioni e i gruppi che com­pon­gono l’«Altra Europa con Tsi­pras» stanno cer­cando di fare tesoro delle dif­fe­renze e delle debo­lezze di tutti.

Nell’affollata assem­blea nazio­nale tenuta ieri al tea­tro Vit­to­ria di Roma, più di 500 per­sone hanno cer­cato di svi­lup­pare un metodo dif­fi­cile basato sul con­senso e sulle solu­zioni con­di­vise, più che su quello basato su «una testa, un voto».

Gli equi­li­bri restano pre­cari e rischiano di creare pre­ci­pi­ta­zioni in vista delle pros­sime ele­zioni regio­nali in Cala­bria e in Emi­lia Roma­gna, dove si voterà a novem­bre e i par­titi della sini­stra con i Verdi e il Pd sono stati in mag­gio­ranza negli ultimi cin­que anni. O in Puglia dove, ad un anno dalla sca­denza del man­dato da gover­na­tore di Nichi Ven­dola, il pre­si­dente della giunta per le ele­zioni del senato Dario Ste­fàno (Sel) ha uffi­cia­liz­zato la sua can­di­da­tura alle pri­ma­rie del centro-sinistra, agi­tando le acque tra le com­po­nenti dell’Altra Europa favo­re­voli ad una con­sul­ta­zione della base prima di defi­nire le alleanze.

Allearsi, o meno, local­mente con il par­tito demo­cra­tico di Renzi [su eddyburg lo definiamo il PMR- n.d.r] può essere un boc­cone indi­ge­sto per la lista Tsi­pras, un ’espe­rienza che ha fatto dell’anti-renzismo, della lotta con­tro l’austerità e con­tro quello che Marco Revelli defi­ni­sce il «popu­li­smo dall’alto», ban­diere da sven­to­lare in Ita­lia e in Europa con­tro le lar­ghe intese tra popo­lari e socialisti.

Il posi­zio­na­mento elet­to­rale non è l’unico pro­blema dell’Altra Europa con Tsi­pras, ma può con­di­zio­nare la cre­di­bi­lità della sua pro­po­sta poli­tica. Lo sdop­pia­mento delle alleanze alle ultime regio­nali in Pie­monte e in Abruzzo dove Sel si è alleata con il Pd men­tre dava indi­ca­zioni di voto per Tsi­pras alle Euro­pee ha pena­liz­zato il risul­tato della lista. Lo stesso pro­blema è tor­nato a galla nei gruppi di lavoro che, nel pome­rig­gio di ieri, hanno affron­tato le que­stioni orga­niz­za­tive e programmatiche.

Le posi­zioni in campo sono almeno due: quella più netta «mai con il Pd» soste­nuta in un docu­mento pro­mosso dal can­di­dato alle euro­pee Dome­nico Fini­guerra e quella, più sfu­mata, pro­po­sta da Eleo­nora Forenza (Prc) sulle con­sul­ta­zioni ter­ri­to­riali con la base prima di sta­bi­lire le alleanze. Per l’eurodeputata la que­stione è sostan­ziale: «Sono le alleanze sociali a defi­nire il posi­zio­na­mento poli­tico, non vice­versa. Se can­didi tre atti­vi­sti No Tav, è dif­fi­cile allearsi con il Pd che difende il Tav». Il rischio è quello di fare spa­rire il ten­ta­tivo uni­ta­rio che ha con­trad­di­stinto l’Altra Europa.

Al momento, non c’è in que­sto spa­zio poli­tico un livello deci­sio­nale rico­no­sciuto capace di diri­mere la que­stione. Nel corso dei lavori del pome­rig­gio, Paolo Cento (Sel) ha soste­nuto che «l’assemblea nazio­nale dell’Altra Europa non ha titolo per deci­dere sulle alleanze alle regio­nali ed è pre­fe­ri­bile lasciare deci­dere i ter­ri­tori». La discus­sione resta aperta alla pos­si­bi­lità di spe­ri­men­tare alleanze con le liste civi­che sul modello della «rete delle città soli­dali» che ha avuto una buona affer­ma­zione in città come Pisa.

È stata così pro­spet­tata una solu­zione inter­lo­cu­to­ria: creare una con­sul­ta­zione nei ter­ri­tori prima di defi­nire una col­lo­ca­zione poli­tica, abban­do­nando il per­corso ver­ti­ci­stico che ha con­trad­di­stinto la lista fino ad oggi. «Le ammi­ni­stra­tive restano un pro­blema anche per Syriza – ha rico­no­sciuto Mas­simo Torelli di Alba – Anche se è il primo par­tito in Gre­cia, alle ultime ele­zioni non è riu­scita ad affer­marsi in due regioni impor­tanti per­ché alcuni com­po­nenti della sua rete hanno pre­fe­rito altre alleanze. Il modello poli­tico adot­tato a livello nazio­nale è dif­fi­cile da espor­tare sul piano locale in Gre­cia come in Italia».

Il dilemma non è solo tat­tico, ma poli­tico. E mette in discus­sione la recente sto­ria della «sini­stra radi­cale». Bar­bara Spi­nelli ne è con­sa­pe­vole. «Rischiamo di restare pri­gio­nieri di una sin­drome che può creare divi­sioni — afferma l’eurodeputata — Non ci sal­ve­remo se ci con­cen­triamo solo sulle ele­zioni. La nostra forza nascerà da un pro­gramma incen­trato su un “New Deal” della demo­cra­zia, della cul­tura e del lavoro in Ita­lia e in Europa e non dalla col­lo­ca­zione elet­to­rale. Se non ci riu­sci­remo alle regio­nali, saremo pronti per le poli­ti­che. Non divi­dia­moci sulle regio­nali quando un sog­getto poli­tico ancora non c’è».

San­dro Medici, già can­di­dato alle euro­pee, vede una «reti­cenza» sulle forme orga­niz­za­tive da dare all’Altra Europa: «Andiamo avanti per appros­si­ma­zioni suc­ces­sive — afferma — ma l’incastro è dif­fi­cile. Se spingi sul pedale dell’opposizione, si pos­sono creare divi­sioni. E quindi c’è chi non vuole ini­ziare divi­den­dosi. È sem­pre pos­si­bile che, alla lunga, que­sto pro­cesso por­terà ad una niti­dezza, ma per il momento si gal­leg­gia. Siamo in una situa­zione tra­gica: la sini­stra è irri­le­vante men­tre cre­sce la povertà, la disoc­cu­pa­zione e la repres­sione». L’urgenza è uscire da que­sto incantesimo.

«La dif­fe­renza si fa sulle pra­ti­che e non sulla tat­tica. Solo così è pos­si­bile recu­pe­rare la cre­di­bi­lità che a mio avviso è stata persa quando Spi­nelli non ha man­te­nuto l’impegno di lasciare il seg­gio a Bru­xel­les dopo l’elezione» sostiene Luca Spa­don che par­te­cipa alla cam­pa­gna Act! lan­ciata da stu­denti e pre­cari della lista Tsi­pras. La pro­spet­tiva dell’Altra Europa dovrebbe essere quella di «farsi lie­vito» e «mol­ti­pli­ca­tore» dei comi­tati poli­tici esi­stenti e delle istanze dei movi­menti che «oggi ci guar­dano con dif­fi­denza o si rivol­gono al movi­mento 5 Stelle» sostiene Finiguerra.

È fitta l’agenda in vista dell’autunno.L’Altra Europa si schie­rerà in molte mani­fe­sta­zioni di oppo­si­zione al governo. Il momento «clou» sarà un cor­teo pro­gram­mato a Roma il 13 dicem­bre. Si andrà in piazza il 18 otto­bre con la Fiom, il 14 novem­bre con gli stu­denti con­tro il «Jobs Act» Renzi-Poletti. Gior­gio Cre­ma­schi, dell’associazione Ross@, ha invi­tato l’Altra Europa a par­te­ci­pare all’assemblea di fine set­tem­bre che pro­se­guirà il «con­tro­se­me­stre popo­lare» a cui par­te­cipa un ampio car­tello di sin­da­cati di base, par­titi e gruppi della sinistra.

L’assemblea di ieri ha deciso l’allargamento dell’attuale coor­di­na­mento for­mato da 44 per­sone ai mem­bri dei comi­tati ter­ri­to­riali. Que­sto gruppo esteso coor­di­nerà le atti­vità fino a set­tem­bre. Ver­ranno eletti por­ta­voce locali che rispet­te­ranno la parità di genere. Per quelli nazio­nali si vedrà nelle pros­sime set­ti­mane. Un nuovo incon­tro nazio­nale dell’Altra Europa verrà fis­sato a novembre.

postilla.
A mio parere la direzione di marcia deve essere la rinuncia alle molteplici identità, ieri aggregate nella lista "con Tsipras", e la costruzione di un nuovo soggetto politico caratterizzato da una nuova identità (ideale, sociale strategica, programmatica, organizzativa). La base della nuova identità è rinvenibile nei documenti su cui è nata la lista "con Tsipras". Senza nascondersi i problemi del transito, né le sue difficoltà, le incertezze e gli errori che potranno compiersi, non vedo altre strade. Il rischio di ripetere i fallimenti storici delle sinistre italiane e i tentativi rivelatisi velleitari dei movimenti sociali è molto elevato.
La fine della centralità della classe operaia e l'individuazione del nuovo soggetto sociale da assumere come riferimento di classe è forse la direzione nella quale le intelligenze devono lavorare di più. "Cercare ancora", diceva ieri Claudio Napoleoni e ripete oggi Marco Revelli.

Il testo integrale della relazione che aprirà l'Assemblea della lista "L'altra Europa con Tsipras, che si tiene il 19 luglio 2014 a Roma. Un'analisi ineccepibile del nuovo quadro politico Un premessa alla formazione delle liste di un' alternativa politica nelle prossime scadenze elettorali. E soprattutto la traccia di un percorso difficile ma indispensabile per uscire dall'abisso

Partiamo di qui, l’unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che “esistono”. Sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di questo dato. Intanto perché nell’universo mediatico e politico (che ormai tendono a coincidere) non c’era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un centesimo bucato su quella “esistenza”, tanto abituati erano ai nostri naufragi. E poi perché la differenza tra l’esser sopra o sotto quell’asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un momento in cui l’approfondimento e la cronicizzazione della crisi economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in termini drammatici. L’essere invece tra i “salvati” anziché tra i “sommersi”, se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però aperto il discorso sul futuro.

Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di quasi sei volte inferiore all’Italia!) ha costituito la vera notizia di queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l’8% nelle condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi… Nel valutarlo nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico italiano come il “grillismo” (prima) e il “renzismo” (poi), entrambi determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti, l’appello in chiave populista alla “discontinuità” di sistema. Né possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro europeo plumbeo per l’inedita compattezza con cui il sistema mediatico nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa, l’universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti) impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su percentuali ridicole.

Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre voti come un “piccolo miracolo”. Ed è di lì, dalla sua dimensione ma soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato. Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel “piccolo esercito” non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione rappresentativo della popolazione. Non è un “esercito popolare”. Il voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i “refrattari”, potremmo dire, di un po’ tutte le famiglie politiche dell’articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione. Quelli che “non ci stanno”.

Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo andati bene al Centro – nell’Italia in fondo socialmente e politicamente più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana (5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al 6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata (5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria (4,21) e in Puglia (4,27), un po’ meno in Campania (3,80, con l’eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione “difficile”, solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli 40.000 voti sotto il partito di Alfano.

Siamo invece andati male nel terremotato (socialmente) Nord-Est, dove Renzi ha sfondato su tutti i fronti, svuotando Grillo, Lega e Berlusconi (i vincitori di ieri e l’altro ieri), e dove invece noi abbiamo registrato il quoziente più basso (3,66), con il buco nero del Veneto (2,74), e in particolare della provincia di Rovigo, il capoluogo in assoluto più basso col 2,44%. Nord Ovest e Isole stanno di poco più sopra rispettivamente col 3,81 e 3,70 (con però un’insperata Valle d’Aosta al 7,68%, merito di Rosa Rinaldi e della sua task force). Il che significa che siamo sotto in tutto il Nord, in Sicilia e in Sardegna.

E’ un voto, d’altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma, come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e Firenze).

E’ un voto “informato”, come si suol dire (e come avrebbe potuto essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal mainstream, chi discute di politica: secondo l’ Ipsos il 27% dei nostri elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro l’11% della media generale, il 14% del PD, l’11% del M5S, l’8% di FI e Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l’11% ha solo la licenza elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26% (un 23% del PD, un 31% di FI…). D’altra parte abbiamo fatto registrare la percentuale di voti più elevata (il 7,8% - quasi 4 punti percentuali in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra “chi si informa prevalentemente con Internet”, e siamo comunque sovrastimati tra chi “si informa prevalentemente sui giornali” (5,2%), mentre crolliamo tra chi “si informa solo con la Tv” (un miserabilissimo 1,6%!).

Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il “partito dei giovani” . Sempre secondo l’indagine Ipsos il 18% dei nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta in assoluto, contro il 9% del totale generale, l’8% dell’elettorato PD, il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari, all’11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la fascia d’età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i 44 anni (solo l’8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli ultra-sessantacinquenni (nonostante l’età avanzata dei “garanti”) dove siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5 Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d’età mentre, per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il 28…).

Questo dei giovani – e quindi dell’area variegata del “precariato” – è forse l’unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto sfumato, difficile da identificare con precisi “soggetti”. Potremmo dire tipico di un “voto di opinione”, per fastidioso che questo ci possa apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione (per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l’8,2%, esattamente il doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!), solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi (2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i “dipendenti pubblici”, tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il 7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.

Più complessa, infine, la composizione per “genere”, perché qui i dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità – rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne (26,3 contro 15,5%). Secondo l’IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli strumenti utilizzati dai sondaggisti.

Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E’ però l’analisi dei flussi (“da dove provengono i nostri elettori”) quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che oggi più ci riguardano urgentemente: “chi siamo?” (da dove veniamo, appunto). E soprattutto quella fatidica: “che fare?”. Ne abbiamo un paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.

La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel; altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani); 120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato poco rilevanti).

La seconda, dell’IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000 quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e Rivoluzione civile la parte più grossa è andata al Pd (485.000 voti) e all’astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una parte minore (150.000).

Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai abbastanza - con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un’infinità di volte: che il nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni politiche della tradizionale “sinistra a sinistra del Pd” avrebbe potuto affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno. Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di cartello significa votarsi all’irrilevanza elettorale e politica. Può forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita (forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei lasciti ereditari.

Dall’altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte dell’ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia “nuova sinistra” organizzata, e l’altra metà da fuori di quelle mura ma da una terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano sconosciute.

Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola “sinistra” nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da “salotto intellettuale”, magari un rifiuto esplicito dell’Europa in quanto creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati “più identitari” avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che l’avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all’opposto che se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre, tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza, saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L’ha appena detto, nell’editoriale della sua rivista, Paolo Flores d’Arcais, parlando di “una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante (politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei partitini – ha prodotto un topolino”. E Paolo è uno dei “padri” della Lista, tra i proponenti dell’Appello iniziale e tra i “garanti” della prima ora.

Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre, come la natura, anche la politica “non facit saltus”, soprattutto quando si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un’esplosione elettorale dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi locali. E l’epifania berlusconiana del ’94 era il prodotto di una macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da un padre padrone già potente prima di “scendere in politica”. Il “partito istantaneo” descritto dai politologi in realtà non esiste, presuppone spesso un “decennio di preparazione” magari invisibile e un lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d’opinione non si materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo per la “magia di un appello”. D’altra parte Syriza ce lo insegna: non è esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è arrivata.

Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie eredità “dentro le mura” nel timore di, per voler troppo, rischiare di perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un’esplicita dichiarazione pubblica, un Flores d’Arcais alla rovescia che la esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito-, può sembrare orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo nell’occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come d’altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando pezzi di elettorato fino a ieri “fidelizzati”, insediamenti politici fino a ieri non intaccati né intaccabili… Basta dare, anche qui, un’occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio…

Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi “renziani” fino al fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po’ il proprio peso rientrando in un più “normale” 21-22% (quello che sarebbe il suo elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l’inevitabile declino biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione testimoniale nell’angolo in basso a sinistra del campo. C’è persino chi si è lasciato andare all’affermazione, spericolata, che si sia avviato un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo (la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette “riforme”). Altri hanno parlato, un po’ affrettatamente, del Pd di Renzi come nuova Balena bianca, partito “pigliatutto” del nuovo secolo, paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia… Per la verità i numeri ci parlano di un’altra realtà. Suggeriscono che sotto la superficie visibile c’è stato un gran movimento, in tutte le direzioni, con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.

Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima. I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi) sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai attraverso un’infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita di altri 2 milioni di elettori, un po’ verso di noi, come si è visto, un po’ verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l’astensione. E dell’ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo (politico): da Scelta civica e dall’Udc in primo luogo, da cui provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione. Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori piddini in libera uscita nel ’13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal più simpatico Renzi). D’altra parte più o meno un altro mezzo milione di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E addirittura 2 milioni ritornano dall’astensione dove si erano rifugiati alle politiche.

Nonostante questo ritorno, comunque, l’esercito dell’astensione è ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record, delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione, quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina alla metà dell’intero corpo elettorale: il vero “partito della nazione”). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono 12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci milioni di elettori che hanno deciso di “uscire”, perché evidentemente non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po’ da tutti, dal M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta civica e dall’UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000), da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre più o meno radicali (Fratelli d’Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega (129.000)… Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso verso l’astensione quasi 3 milioni di elettori nell’ultimo anno (2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti 7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo rispetto ai tempi d’oro prima dell’inizio della crisi e prima di Ruby…

Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri di prima. Non solo con quelli dell’altro ieri, ma con quelli di ieri. Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013. Perché ci troviamo in un panorama politico che definire “allo stato liquido” è dir poco. Dovremmo dire “allo stato gassoso”.

Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro, con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita come parte integrante di un progetto europeo.

Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell’esperienza elettorale europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c’è tra quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una “proprietà” acquisita, un “patrimonio” stabile: dire che è da quello che bisogna partire non significa non pensare che, così come si è materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo appena percorso. Per varie ragioni.

Intanto perché l’”avventura” della lista Tsipras è iniziata sotto il segno di una emergenza e di una circostanza d’eccezione (potremmo dire nel quadro di uno “stato d’eccezione”): nell’imminenza di una campagna elettorale anomala com’è in generale quella delle europee, nella quale c’era, quest’anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un rappresentante. E in cui, d’altra parte, c’era l’occasione (insperata, da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello “stato d’eccezione”, le tante anomalie che hanno caratterizzato la “Lista Tsipras”. A cominciare dall’anomalia della nascita: non è quasi mai accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o da decisioni di organismi, ma da un’aggregazione di qualche decina di migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la convergenza di forze via via più ampia.

E poi l’anomalia della composizione delle liste, con l’esclusione programmatica di candidati già eletti nell’ultimo decennio (che era il modo più semplice per limitare al minimo il “professionismo politico” e lanciare un chiaro messaggio di discontinuità all’elettorato). L’anomalia di una lista, dunque, come si è detto e ripetuto, “di cittadinanza” appoggiata e sostenuta da una rete di associazioni e anche da partiti che tuttavia si mantenevano uno o due passi indietro: condizione che non era riuscita nella precedente esperienza di “Cambiare si può” e di “Rivoluzione civile”, e che come sappiamo ha richiesto un certo braccio di ferro non del tutto irenico. L’anomalia, infine, di una campagna esplicitamente combattuta in condizioni di povertà assoluta, affidandoci molto all’iniziativa dal basso, dei candidati, dei loro “ambienti” di riferimento, delle loro risorse relazionali, con pochissimi e fragilissimi strumenti “centrali”.

Proprio per l’importanza di quella condizione da “stato d’eccezione” tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al “comunismo di guerra”, nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a cominciare dal tipo di “governance” (senza dubbio oligarchica, affidata com’era alla verticalità dell’organismo dei “garanti”), e dallo spazio limitato per la discussione collettiva (affidata all’eterogeneità delle forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei Comitati), oltre alla formazione in qualche misura “per cooptazione” del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione “d’eccezione” (finita appunto “la guerra”) non si possono più riproporre tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della condivisione stabili.

La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una “frattura di teatro” – come si direbbe in gergo bellico -; una modificazione strutturale dell’ambiente stesso nel quale si svolge la lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le stesse “forme” della politica: centrodestra, centrosinistra, maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o meno orientate a destra o a sinistra… Stiamoci attenti a questo cambio di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall'altra, riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto tutt'intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.

Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione, fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice del Pd con l’arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l’unico segno ormai riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale - il successo - quel “cambiamento di verso” che è un vero e proprio mutamento di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente monocratico, in cui la tirannia dell’urgenza travolge qualunque progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la retorica dell’ultima spiaggia impone senza residui la logica dell’uomo solo al comando.

Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l’anima subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare l’assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L’esserci, e il vincere. E’, con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo come progetto, ma con il suo solo apparire, l’essenza stessa del parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle vecchie tavole vale più. L’unanimismo con cui l’intero sistema mediatico ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all’immagine di servilismo che offre, è indicativo di questo “mutamento di stato” (nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile). C’è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente, tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le polarità: l’apparente irrisolvibilità della crisi economica per giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l’impresentabilità della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della “casta”) per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative. Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E’ invece il primo ad aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei processi di crisi - alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a cominciare dalla crisi del proprio partito.

Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi contro il suo partito. E’ stato incoronato, con quel suffragio trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo deve proprio all’ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo giorno in quanto “partito”, da buon populista quale è (se per “populista” si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e “popolo” eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non costituisce l’inversione di tendenza nella crisi storica del Partito democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L’estremo punto di arrivo. In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd renziano non è più un partito. Non dico un “partito” nel senso novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo, per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la “democrazia dei partiti” e quella che Bernard Manin chiama la “democrazia del pubblico”: un modello di democrazia rappresentativa in cui l’elettorato cessava di essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere “partito” anche nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più come “macchina” finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne l’azione, un po’ come la compagnia teatrale supporta il proprio capocomico.

Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase immediatamente successiva all’esaurimento della stessa “democrazia del pubblico”, caratterizzata da “partiti senza società” e da “leader senza partiti”, in cui “il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra leader, partiti e società si è consumato” sotto la pressione di una sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e sopravvive appunto solo il modello dell’”uomo solo al comando”, connesso al proprio “pubblico” esclusivamente attraverso il filo potente ma fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme. Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più impossibile, ma piuttosto determinato a “lavorare” sulla sfiducia dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a seconda dei casi. Comunque da guidare dall’esterno e dall’alto (dal Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell’aria nel caso in cui il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo all’estremo, nella consapevolezza che “dopo di lui il diluvio”).

Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una “democrazia ibrida” come la chiama Diamanti, o in una “post-democrazia” come sempre più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.

Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione dell’organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna elettorale, le “virtù” che ci hanno permesso di restare sopra il pelo dell’acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo non c’è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come programma d’azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione dell’iniziativa “di cittadinanza” con quella “d’organizzazione”, nuovi protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di pedagogia della cooperazione… Sapendo, tuttavia, che bisogna andare molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca di un “nostro popolo”, che finora ci è mancato e che si conquista solo frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci “vedere” (dal 25 maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato). Ma anche nell’interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti – inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare l’orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della “post-democrazia”, non ci sono più “soggetti politici” con cui intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o concorrenti. Il “Partito unico della Nazione” se avrà successo (e per un po’ lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella l’eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall’alto. E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva. Settori che si staccheranno dal corpo dell’iceberg e cercheranno connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti, senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci opportunisticamente a nessuno.

Abbiamo bisogno di “manifestare” – di prendere l’iniziativa e la piazza, contro la rassegnazione e l’isolamento -, ma anche, e tanto, di pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo passivo del testimonial. Che è indispensabile per “cercare ancora”. E questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po’ ci sconvolge un po’ non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni? Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci schiacci nella routine burocratica o all'opposto nella conflittualità permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?

Ce n’è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile che ci uniamo.

Marco Revelli, 18 luglio 2014

La sot­tile bat­ta­glia alle euro­pee con­tro il «popu­li­smo dall’alto» di Renzi e con­tro il «popu­li­smo dal basso» di Grillo, Nichi Ven­dola la vuole com­bat­tere con la razio­na­lità. All’esordio della cam­pa­gna elet­to­rale di Sini­stra Eco­lo­gia e Libertà, ieri a Roma in un tea­tro Vit­to­ria gre­mito da un pub­blico di età media matura, il suo pre­si­dente ha riven­di­cato la scelta di cor­rere alle ele­zioni del 25 mag­gio con l’«Altra Europa con Tsi­pras» senza le ban­diere del suo par­tito. «Per Sel rinun­ciare al sim­bolo e con­fluire in que­sta lista non è stato facile – ha spie­gato – Siamo nati da una scon­fitta e abbiamo attra­ver­sato una sta­gione dif­fi­cile, ma non ci rico­no­sciamo nella posi­zione di chi, come il Pd e il socia­li­smo euro­peo, si è illuso di potere gui­dare il libe­ri­smo e poi ha sot­to­scritto le poli­ti­che di auste­rità, pen­sando di fare a meno di un’Europa senza la Grecia».

È la linea che ha vinto il con­gresso di Sel al Pala­con­gressi di Ric­cione nel gen­naio scorso. Quella di Nicola Fra­to­ianni, oggi depu­tato e coor­di­na­tore del par­tito, che ha intro­dotto l’incontro. Dopo il fal­li­mento dell’alleanza «Ita­lia bene comune» con il Pd di Ber­sani, Sel ha rotto le incer­tezze e ha lasciato il guado. Non vuo­le­farsi «cat­tu­rare nella spi­rale tra­sfor­mi­stica che, in nome dell’emergenza, ha dato vita alle lar­ghe intese con Ber­lu­sconi» ha detto Ven­dola seduto al cen­tro del palco con il gior­na­li­sta Luca Telese e Bar­bara Spi­nelli, una delle «garanti» della lista di cit­ta­di­nanza con il nome del lea­der greco di Syriza. Sel si è così schie­rata con Tsi­pras, can­di­dato alla pre­si­denza della Com­mis­sione Ue dalla Sini­stra Euro­pea e da Rifon­da­zione Comu­ni­sta in Ita­lia. Lo ha fatto per neces­sità, ma anche come una sfida, ha pre­ci­sato il suo pre­si­dente. In que­sto per­corso Ven­dola ha rico­no­sciuto alla Spi­nelli e agli altri garanti (Revelli, Viale, Gal­lino) un effetto ricom­po­si­tivo a sini­stra con Rifon­da­zione e la garan­zia di rivol­gersi ad un elet­to­rato più ampio.

Gli inizi non sono stati facili. Le pole­mi­che tra i garanti sulle can­di­da­ture di Sonia Alfano, Vale­ria Grasso, Luca Casa­rini, poi quella di Anto­nia Bat­ta­glia sull’Ilva a Taranto con­tro Sel e il suo pre­si­dente hanno allon­ta­nato Flo­res D’Arcais e Camil­leri. Avere supe­rato in poche set­ti­mane le 150 mila firme neces­sa­rie per pre­sen­tare la lista è stata un’impresa che ha rin­fran­cato molti. Per Ven­dola que­sto suc­cesso non scon­tato è il vero ini­zio. La lista sta pren­dendo forma, la par­te­ci­pa­zione di atti­vi­sti e mili­tanti l’hanno pre­miata. I pro­blemi però non sono finiti, e Telese li ha elen­cati uno dopo l’altro. Come si può rico­no­scere que­sta lista in un dibat­tito poli­tico domi­nato dalla reto­rica aggres­siva dei 5 Stelle, e di chi vede nell’uscita dall’euro la sal­vezza dall’Europa dell’austerità? In più, il nome di Tsi­pras «lo cono­sce solo chi legge i gior­nali, non alle masse popo­lari». «Grillo ha un van­tag­gio straor­di­na­rio: tutto per lui è facile.

Basta allora l’esorcista, una bestem­mia, per fare colpo — ha rispo­sto Ven­dola — È dif­fi­cile affron­tare que­sto ple­bei­smo pic­colo bor­ghese per cui tutto è un com­plotto. Basta sve­larlo per ritro­varsi in un nuovo mondo. Que­sto porta voti. Noi non pos­siamo fare altro se non costruire un pro­gramma alter­na­tivo fon­dato sulla razio­na­lità. Diremo alle per­sone che non si sal­ve­ranno seguendo chi dice che il nemico è solo l’euro o le tec­no­cra­zie». È la stessa situa­zione in cui si trova Tsi­pras, solo che in Gre­cia le parti si pre­sen­tano rove­sciate. Oggi Syriza è in testa ai son­daggi e avrebbe la mag­gio­ranza relativa.

Il pro­gramma è lo stesso per la lista ita­liana e per quelle che appog­giano Tsi­pras in Europa: mutua­liz­za­zione del debito, red­dito minimo, un New Deal di inve­sti­menti pub­blici per rilan­ciare l’occupazione, riforma radi­cale della Bce e di tutti i trat­tati euro­pei eli­mi­nan­done l’ispirazione neo­li­be­ri­sta. E infine la pro­po­sta più impor­tante: un refe­ren­dum in Ita­lia sul Fiscal Com­pact, «ma non per uscire dall’Euro» ha pre­ci­sato Spinelli.

«Grillo è l’espressione di un disa­gio pro­fondo da com­pren­dere, ma le sue pro­po­ste sull’Europa sono di una con­fu­sione estrema — ha con­ti­nuato la gior­na­li­sta– non c’è un’idea che duri più di una set­ti­mana. C’è un vago pro­po­sito di bat­tere sul tavolo i pugni con la Mer­kel, un po’ come dice di volere fare Renzi, oppure fare il refe­ren­dum sull’euro per­chè secondo lui è facile uscirne. Tutto que­sto non è popu­li­sta ma con­ser­va­tore, mira al ritorno dell’equilibrio tra le potenze nazio­nali al nazio­na­li­smo e alla xeno­fo­bia, a tutto ciò che c’era prima l’europa unita». L’altro punto sono le alleanze. L’ambizione di rifare l’Europa non è da poco, e non sarà facile, come ha ricor­dato Spi­nelli, farlo con i soli social­de­mo­cra­tici che can­di­dano Mar­tin Schultz, espres­sione dell’Spd che in Ger­ma­nia governa con Angela Merkel.

Ven­dola rico­no­sce la distanza tra i suoi pro­po­siti radi­cali di riforma e l’astuzia con­ser­va­trice dei social­de­mo­cra­tici, ma sostiene di non volersi ras­se­gnare: «Il socia­li­smo euro­peo dovrà fare i conti con le con­trad­di­zioni reali dell’austerità che ha distrutto il ceto medio, fon­da­mento delle nostre democrazie»

«Il manifesto, 15 aprile 2004

ELEZIONI, E' TUTTO UN ALTRO PROGRAMMA
di Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale
Verso il 25 maggio. I10 punti della Lista Tsipras perché

Quando diciamo che siamo per un’Altra Europa, la vogliamo dav­vero e non solo a parole. Abbiamo in mente un ordine poli­tico nuovo, per­ché il vec­chio è in fran­tumi. Non può essere ram­men­dato alla meno peggio.

In realtà il nostro è l’unico pro­getto che non si limita a invo­care a parole un’altra Europa, ma si pro­pone di cam­biarla con poli­ti­che che riu­ni­scano quel che è stato disu­nito e disfatto. Gli altri par­titi sono tutti, in realtà, con­ser­va­tori dello sta­tus quo.

Sono con­ser­va­tori Mat­teo Renzi e il governo, che par­lano di cam­bia­mento e tut­ta­via hanno costruito quest’Unione che umi­lia e impo­ve­ri­sce i popoli, favo­rendo ban­che e speculatori. Sono con­ser­va­tori i leghi­sti, che denun­ciano l’Unione ma come via d’uscita pro­spet­tano il nazio­na­li­smo e la xenofobia. Nei fatti è con­ser­va­tore il Movi­mento 5 Stelle, che si fa por­ta­voce di un disa­gio reale, ma senza sboc­chi chiari.

Tutta diversa la Lista Tsi­pras. Il pro­getto è di cam­biare radi­cal­mente le isti­tu­zioni euro­pee, di dare all’Unione una Costi­tu­zione scritta dai popoli, di dotarla di una poli­tica estera non biso­gnosa delle stam­pelle sta­tu­ni­tensi. Tutta diversa la pro­spet­tiva della Lista Tsi­pras. La nostra non è né una pro­messa fit­ti­zia, come quella di Renzi, né una pro­te­sta che rinun­cia alla bat­ta­glia prima di farla. Met­te­remo dura­mente in discus­sione il Fiscal com­pact, e in par­ti­co­lare con­te­ste­remo — anche con refe­ren­dum abro­ga­tivo — le norme appli­ca­tive che il Par­la­mento dovrà intro­durre per dare attua­zione all’obbligo del pareg­gio di bilan­cio che pur­troppo è stato inse­rito ormai nell’articolo 81 della Costi­tu­zione, senza che l’Europa ce l’abbia mai chie­sto. In ogni caso, faremo in modo che non abbiano più a ripe­tersi cal­coli così pale­se­mente errati e nefa­sti, nati da una cul­tura neo­li­be­ri­sta che ha impe­dito all’Europa di dive­nire l’istanza supe­riore in grado di custo­dire sovra­nità che sono andate eva­po­rando, pro­teg­gen­doli al tempo stesso dai mer­cati incon­trol­la­bili, dall’erosione delle demo­cra­zie e dalla pre­va­ri­ca­zione di super­po­tenze che usano il nostro spa­zio come esten­sione dei loro mer­cati e della loro potenza geopolitica.

Ecco le 10 vie alter­na­tive che inten­diamo percorrere:

1 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché non cre­diamo sia pos­si­bile pen­sare l’economia e l’Europa demo­cra­ti­ca­mente unita «in suc­ces­sione»: prima si met­tono a posto i conti e si fanno le riforme strut­tu­rali, poi ci si batte per un’Europa più soli­dale e diversa. Le due cose vanno insieme. Ope­rare «in suc­ces­sione» ripro­duce ad infi­ni­tum il vizio mor­tale dell’Euro: prima si fa la moneta, poi per forza di cose verrà l’Europa poli­tica soli­dale. È dimo­strato che que­sta “forza delle cose” non c’è. Sta­tus quo signi­fica che s’impone lo Stato più forte.

2 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché cre­diamo che solo un’Europa fede­rale sia la via aurea, nella glo­ba­liz­za­zione. Se l’edificheremo, Gre­cia o Ita­lia diver­ranno simili a quello che è la Cali­for­nia per gli Usa. Nes­suno par­le­rebbe di uscita della Cali­for­nia dal dol­laro: le strut­ture fede­rali e un comune bilan­cio ten­gono gli Stati insieme e non col­pe­vo­liz­zano i più deboli. In un’Europa fede­rata, quindi mul­tiet­nica, l’isola di Lam­pe­dusa è una porta, non una ghigliottina.

3 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché non pen­siamo che prio­ri­ta­ria ed esclu­siva sia la difesa dell’«interesse nazio­nale»: si tratta di indi­vi­duare quale sia l’interesse di tutti i cit­ta­dini euro­pei. Se salta un anello, tutta la catena salta.

4 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché non siamo un movi­mento mino­ri­ta­rio di pro­te­sta, ma avan­ziamo pro­po­ste pre­cise, rapide. Pro­po­niamo una Con­fe­renza sul debito che rical­chi quanto deciso nel 1953 sulla Ger­ma­nia, cui ven­nero con­do­nati i debiti di guerra. L’accordo cui si potrebbe giun­gere è l’europeizzazione della parte dei debiti che eccede il fisio­lo­gico 60 per cento del pil. E pro­po­niamo un piano Mar­shall per l’Europa, che avvii una ricon­ver­sione pro­dut­tiva, eco­lo­gi­ca­mente soste­ni­bile e ad alto impatto sull’occupazione, finan­ziato dalle tasse sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie e l’emissione di ani­dride car­bo­nica, oltre che da pro­ject bond e eurobond.

5 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché esi­giamo non sol­tanto l’abbandono delle poli­ti­che di auste­rità, ma la modi­fica dei trat­tati che le hanno rese pos­si­bili. Tra i primi: l’abolizione e la ridi­scus­sione a fondo del Fiscal Com­pact, che pro­mette al nostro e ad altri Paesi una o due gene­ra­zioni di intol­le­ra­bile povertà, e la distru­zione dello Stato sociale. Pro­muo­viamo un’Iniziativa Cit­ta­dina (art. 11 del Trat­tato sull’Unione euro­pea) con l’obbiettivo di una sua radi­cale messa in discus­sione. Chie­de­remo inol­tre al Par­la­mento Euro­peo un’indagine cono­sci­tiva e giu­ri­dica sulle respon­sa­bi­lità della Com­mis­sione, della Bce e del Fmi nell’imporre un’austerità che ha gra­ve­mente dan­neg­giato milioni di cit­ta­dini europei.

6 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché non ci limi­tiamo a con­dan­nare gli scan­dali della disoc­cu­pa­zione e del pre­ca­riato, ma pro­po­niamo un Piano Euro­peo per l’Occupazione (Peo) il quale stanzi almeno 100 miliardi l’anno per 10 anni per dare occu­pa­zione ad almeno 5–6 milioni di disoc­cu­pati o inoc­cu­pati (1 milione in Ita­lia): tanti quanti hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi. Il Peo dovrà dare la prio­rità a inter­venti che non siano in con­tra­sto con gli equi­li­bri ambien­tali come le molte Grandi Opere che deva­stano il ter­ri­to­rio e che creano poca occu­pa­zione, ad esem­pio il Tav Torino-Lione e le tri­vel­la­zioni nel Medi­ter­ra­neo e nelle aree pro­tette. Dovrà age­vo­lare la tran­si­zione verso con­sumi dra­sti­ca­mente ridotti di com­bu­sti­bili fos­sili; la crea­zione di un’agricoltura bio­lo­gica; il rias­setto idro­geo­lo­gico dei ter­ri­tori; la valo­riz­za­zione non spe­cu­la­tiva del nostro patri­mo­nio arti­stico; il poten­zia­mento dell’istruzione e della ricerca.

7 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché rite­niamo un peri­colo l’impegno del governo di con­clu­dere pre­sto l’accordo sul Par­te­na­riato Tran­sa­tlan­tico per il Com­mer­cio e l’Investimento (Ttip). Con­dotto segre­ta­mente, senza con­trolli demo­cra­tici, il nego­ziato è in mano alle mul­ti­na­zio­nali, il cui scopo è far pre­va­lere i pro­pri inte­ressi su quelli col­let­tivi dei cit­ta­dini. Il wel­fare è sotto attacco. Acqua, elet­tri­cità, edu­ca­zione, salute saranno espo­ste alla libera con­cor­renza, in barba ai refe­ren­dum cit­ta­dini e a tante lotte sui “beni comuni”. La bat­ta­glia con­tro la pro­du­zione degli Ogm, quella che pena­lizza le imprese inqui­nanti o impone l’etichettatura dei cibi, la tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie e sull’emissione di ani­dride car­bo­nica sono minac­ciate. La nostra lotta con­tro la cor­ru­zione e le mafie è ingre­diente essen­ziale di que­sta resi­stenza alla com­mi­stione mon­dia­liz­zata fra libero com­mer­cio, vio­la­zione delle regole, abo­li­zione dei con­trolli demo­cra­tici sui territori.

8 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché vogliamo cam­biare non solo gli equi­li­bri fra isti­tu­zioni euro­pee ma la loro natura. I ver­tici dei capi di Stato o di governo sono un can­cro dell’Unione, e pro­po­niamo che il Par­la­mento euro­peo diventi un’istituzione dav­vero demo­cra­tica: che legi­feri, che nomini la Com­mis­sione e il suo Pre­si­dente, e imponga tasse euro­pee in sosti­tu­zione di quelle nazio­nali. Vogliamo un Par­la­mento costi­tuente, capace di dare ai cit­ta­dini dell’Unione una Carta che cominci, come la Costi­tu­zione sta­tu­ni­tense, con le parole «We, the peo­ple.…». Non con la firma di 28 re azzop­pati e pre­po­tenti, che addos­sano alla buro­cra­zia di Bru­xel­les colpe di cui sono i primi responsabili.

9 - Siamo la sola forza alter­na­tiva a pro­po­sito dell’euro. Pur essendo cri­tici radi­cali della sua gestione, e degli scarsi poteri di una Banca cen­trale cui viene proi­bito di essere pre­sta­trice di ultima istanza, siamo con­trari all’uscita dall’euro e non la rite­niamo indo­lore. Uscire dall’euro è peri­co­loso eco­no­mi­ca­mente (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle impor­ta­zioni, della povertà), e non resti­tui­rebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci ren­de­rebbe più che mai dipen­denti da mer­cati incon­trol­lati, dalla potenza Usa o dal marco tede­sco. Soprat­tutto segne­rebbe una rica­duta nei nazio­na­li­smi autar­chici, e in sovra­nità fasulle. Noi siamo per un’Europa poli­tica e demo­cra­tica che fac­cia argine ai mer­cati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse ten­ta­zioni nazio­na­li­ste e xeno­fobe. Una moneta «senza Stato» è un con­tro­senso poli­tico, prima che economico.

10 - Siamo la sola forza alter­na­tiva per­ché la nostra è l’Europa della Resi­stenza: con­tro il ritorno dei nazio­na­li­smi, le Costi­tu­zioni cal­pe­state, i Par­la­menti svuo­tati, i capi ple­bi­sci­tati da popoli visti come massa amorfa, non come cit­ta­dini con­sa­pe­voli. Dicono che la pace in Europa è oggi un fatto acqui­sito. Non è vero. Le poli­ti­che di auste­rità hanno diviso non solo gli Stati ma anche i popoli, e quella che viviamo è una sorta di guerra civile den­tro un’Unione che secerne di nuovo par­titi fasci­stoidi come Alba Dorata in Gre­cia, Job­bik in Unghe­ria, Fronte Nazio­nale in Fran­cia, Lega in Ita­lia. All’esterno, poi, siamo impe­gnati in guerre decise dalla potenza Usa: guerre di cui gli Stati dell’Unione non discu­tono mai per­ché vi par­te­ci­pano ser­vil­mente, senz’alcun pro­getto di disarmo, refrat­tari a ogni poli­tica estera e di difesa comune (il costo della non-Europa in campo mili­tare ammonta a 120 miliardi di euro annui). Per­fino ai con­fini orien­tali dell’Unione sono gli Stati Uniti a deci­dere quale ordine debba regnare.

L’Europa che abbiamo in mente è quella del Mani­fe­sto di Ven­to­tene, e chi lo scrisse non pen­sava ai com­piti che cia­scuno doveva fare a casa, ma a un comune com­pito rivoluzionario.

Noi oggi fac­ciamo rivi­vere quella presa di coscienza: per que­sto al Par­la­mento euro­peo saremo con Tsi­pras, non con i socia­li­sti che già pen­sano a Grandi Intese con i con­ser­va­tori dello sta­tus quo. Siamo così fatti per­ché non abbiamo per­duto la memo­ria del Nove­cento. L’Europa delle nazioni portò ai raz­zi­smi, e allo ster­mi­nio degli ebrei, dei Rom, dei malati men­tali. L’Europa della reces­sione sfo­ciò nella presa del potere di Hitler.

LISTA TSIPRAS,L’IMPRESA DELLE 220 MILA FIRME IN UN MESE
di Corrado Onni *

Oggi L’Altra Europa con Tsi­pras pre­senta la pro­prie liste elet­to­rali nei 5 capo­luo­ghi di cir­co­scri­zione, forte delle più di 220 mila firme rac­colte in un mese per ren­dere pos­si­bile la nostra par­te­ci­pa­zione alla sca­denza delle ele­zioni del Par­la­mento euro­peo. Lo faremo con ini­zia­tive gio­iose e colo­rate, intanto per­ché festeg­giamo que­sto risul­tato, che una legge elet­to­rale per­lo­meno di dub­bia legit­ti­mità costi­tu­zio­nale ren­deva quasi impos­si­bile da rea­liz­zare. E poi anche per­ché, per noi, la rac­colta delle firme ha rap­pre­sen­tato a tutti gli effetti l’apertura della cam­pa­gna elet­to­rale e que­sta scelta — al di là dell’obbligo di legge — è già un tim­bro di come la inten­diamo. Il rap­porto diretto con cen­ti­naia di migliaia di per­sone, il fatto di aver ragio­nato con cia­scuno di loro sulle ragioni e sui con­te­nuti che qua­li­fi­cano la lista. Non una rie­di­zione di espe­rienze già com­piute in pas­sato ma un’ ope­ra­zione ine­dita. Facendo leva, con­tem­po­ra­nea­mente, sui sog­getti poli­tici (Sel e Rifon­da­zione Comu­ni­sta) e sociali orga­niz­zati che con­di­vi­dono quest’approccio e su quelle realtà di sini­stra dif­fusa e di cit­ta­dini impe­gnati che in que­sti anni sono stati pro­ta­go­ni­sti di tanti con­flitti e pro­po­ste nelle ver­tenze nazio­nali e ter­ri­to­riali. Con la dispo­ni­bi­lità di tutti di met­tersi in discus­sione e di pro­vare ad uscire dai recinti e da una dimen­sione set­to­riale che per troppo tempo ha carat­te­riz­zato le espe­rienze poli­ti­che e sociali da diversi anni in qua.

220 mila firme in un mese, un dato — per usare un rife­ri­mento un po’ impro­prio — che cor­ri­sponde al numero delle firme neces­sa­rie in 3 mesi per indire un refe­ren­dum. È stato pos­si­bile per­ché ci siamo dotati di un minimo di orga­niz­za­zione, con un nucleo cen­trale e una rete dif­fusa di cen­ti­naia di mili­tanti e volon­tari, i primi pro­ta­go­ni­sti dell’attività con­creta della rac­colta delle firme, ma, ancor più, per­ché abbiamo rac­colto un biso­gno di nuova poli­tica, di chi vuole fuo­riu­scire dai popu­li­smi più o meno dolci di Renzi e Grillo e misu­rarsi real­mente con la neces­sità di far cam­mi­nare un pro­getto di tra­sfor­ma­zione reale degli assetti di potere esi­stenti e di uscire da una logica, appa­ren­te­mente oppo­si­tiva ma in realtà non così dis­si­mile, di chi si appiat­ti­sce sulle “riforme strut­tu­rali” che ven­gono impo­ste da Bru­xel­les e di chi ipo­tizza irrea­li­stici ritorni alla “sovra­nità nazio­nale”, che da sola non potrebbe comun­que uscire dai vin­coli det­tati dai mer­cati internazionali.

Ci aspetta ora la sfida dif­fi­cile, di una cam­pa­gna elet­to­rale che sap­piamo si pro­verà a con­tras­se­gnare con una rap­pre­sen­ta­zione fal­sata tra chi sta con l’Europa, magari limando le poli­ti­che di auste­rità, e chi si oppone ad essa, con rela­tivo corol­la­rio tra chi è favo­re­vole e chi è con­tra­rio all’euro. E che ten­terà di oscu­rare la pre­senza della lista dell’Altra Europa per Tsi­pras, magari dipin­gen­dola come puro resi­duo di una sini­stra pas­sa­ti­sta e magari anche liti­giosa. Sta a noi, ai tanti e diversi che si stanno impe­gnando in que­sto pro­getto, far emer­gere un per­corso ine­dito e con­di­viso al di là delle appar­te­nenze e delle espe­rienze di pro­ve­nienza. Che si uni­fica appunto nell’idea di un’altra Europa e che si può ben iden­ti­fi­care in un approc­cio che, den­tro la più grave crisi del capi­ta­li­smo dagli anni ’30 del secolo scorso, è radi­cale nei con­te­nuti che pro­pone, mag­gio­ri­ta­rio nello sguardo della pro­pria pro­po­sta, inno­va­tivo nelle forme della discus­sione e dell’agire poli­tico. L’esperienza della rac­colta delle firme ci dice che tutto que­sto è pos­si­bile, che, tra il subire le poli­ti­che dell’austerità e dei sacri­fici e limi­tarsi a urlare la pro­pria indi­gna­zione, si può pen­sare di per­cor­rere la via della tra­sfor­ma­zione e del cambiamento.

* coor­di­na­tore nazio­nale rac­colta firme L’Altra Europa con Tsipras

ITALIA: SYRIZA E LA POLITICA RADICALE
di Roberto Ciccarelli
Ale­xis Tsi­pras è il primo lea­der poli­tico euro­peo ad avere dato il nome ad una lista che si can­dida in un altro paese, l’Italia, alle pros­sime ele­zioni euro­pee di mag­gio. Que­sta ano­ma­lia, rac­con­tata in un repor­tage coin­vol­gente da Mat­teo Puc­cia­relli e Gia­como Russo Spena in Tsi­pras Chi? Il lea­der greco che vuole rifare l’Europa (Ale­gre), si spiega con la crisi senza uscita seguita all’implosione della «sini­stra radi­cale» ita­liana dopo le ele­zioni poli­ti­che del 2008 che l’hanno can­cel­lata dall’arco par­la­men­tare come sog­getto autonomo.

Dopo il nuovo fal­li­mento della «Rivo­lu­zione Civile» di Ingroia alle ele­zioni suc­ces­sive del 2013, quello dell’alleanza «Ita­lia Bene Comune» tra Sel e Pd che ha pre­fe­rito le «lar­ghe intese» con Ber­lu­sconi e oggi con Alfano, dopo l’affermazione del Movi­mento 5 Stelle di Grillo, Tsi­pras è tor­nato in Ita­lia come «Papa stra­niero». Ha fede­rato i resi­dui di quell’esperienza (Rifon­da­zione Comu­ni­sta e Sel, ma non il Pdci) con altri sog­getti o rag­grup­pa­menti come Alba, per il momento in vista delle euro­pee. Sulla con­ti­nua­zione di que­sta espe­rienza, ad oggi tenuta insieme dal pre­sti­gio intel­let­tuale dei suoi «garanti» (Luciano Gal­lino, Marco Revelli, Bar­bara Spi­nelli, Guido Viale) poco, o nulla, si sa. Per il momento avanza la sug­ge­stione per una figura poli­tica, che ha attra­ver­sato il movi­mento No Glo­bal, si è poi messo a fare poli­tica senza mai rinun­ciare aalle sue idee poli­ti­che. Un esem­pio di coe­renza e lun­gi­mi­ranza che oggi viene rico­no­sciuto a livello internazionale.

Il libro di Puc­cia­relli e Russo Spena è il primo a rac­con­tare, da sini­stra, la sto­ria di una bat­ta­glia impari, quella di un Davide greco, per di più di «sini­stra radi­cale» con­tro i poteri forti in Gre­cia e il Golia tede­sco in Europa. Un Davide che un son­dag­gio Mrb per il sito Real .Gr viene dato al 19,9% con­tro il 19,7 di Nuova Demo­cra­zia del primo mini­stro Anto­nis Sama­ras alle euro­pee. I son­daggi per le pros­sime poli­ti­che ad Atene con­fe­ri­scono al par­tito di Tsi­pras la mag­gio­ranza rela­tiva e la defi­ni­tiva can­cel­la­zione del Pasok – il Pd greco – respon­sa­bile dei quat­tro memo­ran­dum e delle poli­ti­che di auste­rità impo­ste dalla Bce, dalla Ue e dall’Fmi che hanno distrutto la Gre­cia. Con que­ste ele­zioni euro­pee Syriza si è messa alla guida «della resi­stenza euro­pea al neo­li­be­ri­smo» sostiene Tsi­pras nell’intervista rila­sciata agli autori del libro. L’operazione è intel­li­gente: dal suo punto di vista, il lea­der greco con­duce una bat­ta­glia impor­tante a livello con­ti­nen­tale e sta usando la sua cam­pa­gna elet­to­rale per pre­pa­rarsi a vin­cere le ele­zioni in patria.

«Siamo solo alla prima bat­ta­glia di una lunga guerra, e ora i gene­rali sono Mer­kel e Tsi­pras. Domani chissà» — aggiunge Tsi­pras – Ci sono due visioni del mondo: uno del capi­tale e dei mer­cati, l’altro dell’unione dei popoli d’Europa». Puc­cia­relli e Russo Spena arri­vano così al nucleo del pro­blema. Come mai Syriza, che fino a due anni fa era cono­sciuta solo dagli ex atti­vi­sti o diri­genti della sini­stra ita­liana, è diven­tato un par­tito mag­gio­ri­ta­rio? Basta, forse, avere annun­ciato – come per lungo tempo è stato fatto a sini­stra – di volere andare al governo per otte­nere una cre­scita espo­nen­ziale dei voti dal 4% nel 2009 all’attuale 26,9%? La domanda viene rivolta ai diri­genti, ai mili­tanti e agli intel­let­tuali che si rico­no­scono oggi in Syriza, ma non ottiene una rispo­sta pre­cisa. Per fare poli­tica, è chiaro che biso­gna volere andare al governo. Più forte ci sem­bra la moti­va­zione riba­dita nel libro: biso­gna farsi tro­vare nel posto giu­sto, nel momento giusto.

È que­sta la lezione machia­vel­liana che Syriza ha impa­rato stando nelle lotte, duris­sime, con­dotte dalla società greca con­tro i governi delle lar­ghe intese e le poli­ti­che di auste­rità. Una scelta dif­fi­ci­lis­sima, quella di «stare nel gorgo» di una lotta, nelle sue con­trad­di­zioni, nel dramma di uno scon­tro che ha saputo dispie­gare effe­ra­tezze, da entrambe le parti.

Radi­ca­mento sul ter­ri­to­rio, costru­zione di coa­li­zioni con sin­da­cati e movi­menti di diversa ispi­ra­zione, ampia e arti­co­lata dia­let­tica interna che Puc­cia­relli e Russo Spena defi­ni­scono una «babi­lo­nia» sal­data dall’organizzazione di Syriza ma soprat­tutto dal cari­sma del suo lea­der 39enne. La sfida del governo non sarà facile per Tsi­pras che guida un par­tito che affronta l’aggressività interna, anche dei nazi­sti di Alba Dorata, e soprat­tutto gli attac­chi della dit­ta­tura euro­pea della Troika.

Il suo pro­gramma è soli­da­mente social­de­mo­cra­tico, neo-keynesiano, euro­peo e non nazio­na­li­stico, «avvi­ci­na­bile a un neo socia­li­smo di stampo lati­noa­me­ri­cano» scri­vono gli autori. La pro­po­sta per l’Europa è di riscri­verne i trat­tati e pro­muo­vere un New Deal, un grande piano di inve­sti­menti pub­blici per lo svi­luppo. Per fare tutto que­sto, Syriza punta sulla virtù e sulla for­tuna, ele­menti che non gli sono man­cati dal 2004 ad oggi. Il libro sarà pre­sen­tato domani a Roma al Forte Fan­fulla alle 20 con Bar­bara Spi­nelli, San­dro Medici e Argi­ris Pana­go­pou­los. Modera Daniela Preziosi.

. www.Sbilanciamoci.info, newsletter, 28 marzo 2014

Nel suo libro "Il sarto di Ulm", Lucio Magri pone il problema della crisi ambientale come un elemento nuovo dell'antica lotta di classe «Nessuno nega che la minaccia del disastro ambientale costituisce un problema dirompente della nostra epoca, una contraddizione già materialmente vissuta e insieme un elemento dell'immaginario collettivo. È una novità non da poco che costringe grandi masse e non solo inquiete avanguardie a riconsiderare globalmente il senso dello sviluppo e a valutarlo con altri parametri». Lucio Magri, «Il sarto di Ulm» (pag. 410).

Lucio Magri pone, con il suo stile, il problema relativamente nuovo della crisi ambientale e di come costituisca un elemento nuovo dell'antica lotta di classe. Ma Lucio, ricordiamolo, non pone mai problemi rinviando ad altri o al futuro la risposta, e cosi alla fine del capitoletto scrive: «La questione ambientale dunque non solo offre a un progetto comunista un nuovo terreno su cui fondare la sua critica del sistema, ma anche una spinta che lo trasforma e lo arricchisce qualitativamente, lo porta a superare una subalternità all'economicismo; nel contempo la questione ambientale ha bisogno di un progetto e di una forza organizzata comunista per unire soggetti e interessi contrastanti, per individuare la vera radice dei problemi, per affermare un potere capace di affrontarli nel loro insieme, infine per cambiare la testa stessa della gente».

Insomma la questione ambientale diventa centrale nella lotta per il comunismo e solo con il comunismo potrà essere seriamente affrontata. Questo è il problema che per tanti anni noi comunisti abbiamo trascurato considerandolo non strutturale. Ancora un grazie a Lucio.

«Rivoltare come un calzino la legge elettorale è necessario ma non basta. È la prospettiva politica del renzismo che va combattuta ritrovando un’autonomia di deputati e senatori per contrastare una presa del potere che prepara un altro ventennio».

Il manifesto, 15 marzo 2014

Si gioca in Ita­lia in que­sti giorni una dop­pia par­tita. La prima riguarda il con­so­li­da­mento poli­tico e di governo dell’operazione Renzi; la seconda il destino di una pro­spet­tiva rifor­ma­trice seria nel nostro paese, affi­data finora, con alti e bassi di varia natura, e tal­volta peri­co­losi cedi­menti ed equi­voci, — ma affi­data comun­que, — alle buone sorti del Pd. Se Renzi vince la prima, la seconda verrà scon­fitta, per un periodo pre­su­mi­bil­mente incalcolabile.

Quel che è uscito finora dal cap­pello di pre­sti­gia­tore dell’attuale segre­ta­rio Pd-presidente del con­si­glio è poco, con­fuso, con­trad­dit­to­rio, tal­volta incon­si­stente, spesso ine­si­stente, ma ine­qui­vo­ca­bil­mente decla­ma­to­rio e incon­fon­di­bil­mente pubblicitario.

Alcuni punti fermi. L’Italicum fonda le sue for­tune sull’asse con Sil­vio Ber­lu­sconi. Il che di per sé farebbe rab­bri­vi­dire, ma non c’è solo que­sto. Ha attra­ver­sato per un pelo i voti della Camera dei depu­tati. Lo scon­tro sulle “quote rosa” ha rima­ni­fe­stato di colpo l’esistenza sot­ter­ra­nea di un par­tito dei 101, più fedele a Renzi che al pro­prio par­tito e ai pro­grammi elet­to­rali sui quali que­sto si era con­qui­stato bene o male una mag­gio­ranza nell’ultimo voto. Restano, con le “quote rosa”, que­stioni tutt’altro che irri­le­vanti come quelle delle pre­fe­renze, delle soglie di sbar­ra­mento, delle alleanze e del pre­mio fuori misura allo sti­rac­chiato vin­ci­tore. Allo stato attuale delle cose è lecito pre­ve­dere, in caso di appro­va­zione, il rapido tran­sito alla Corte costi­tu­zio­nale per un sospetto, appunto, d’incostituzionalità (Azza­riti, Vil­lone, ripe­tu­ta­mente su que­ste colonne; ma anche su altri gior­nali il discorso cri­tico ha comin­ciato ad affacciarsi).

Dal punto di vista eco­no­mico, abbiamo tutto e il con­tra­rio di tutto: i dieci milioni di sgravi fiscali per i lavo­ra­tori dipen­denti più col­piti dalla crisi; e la pre­ca­riz­za­zione illi­mi­tata e defi­ni­tiva del mer­cato del lavoro (Alleva, il mani­fe­sto, 14 marzo). Ma soprat­tutto pende sulla mano­vra l’incertezza sulle sue fonti. Nes­suno sa, né il pre­si­dente del con­si­glio finora lo ha detto, a quali voci attin­gere per ren­dere reale la sua mira­bo­lante pro­spet­tiva (Fubini, la Repub­blica 13 marzo; Pen­nac­chi, l’Unità, 14 marzo).

Quel che Renzi offre al paese è un com­po­sto ibrido di posi­zioni, affer­ma­zioni, sug­ge­stioni e sol­le­ci­ta­zioni, di cui non è più suf­fi­ciente dire che non è più né di destra né di sini­stra, e nean­che di cen­tro, almeno nel senso tra­di­zio­nale del ter­mine, ma una nuova posi­zione politico-ideologica in cui può entrare di volta in volta tutto, pur­ché con­flui­sca a bene­fi­ciare il più pos­si­bile il pre­sti­gio e la for­tuna del Capo (o Capetto che dir si voglia).

Ade­rire alla pro­spet­tiva di Renzi non signi­fica dun­que sol­tanto rinun­ciare a una pro­spet­tiva e a una poli­tica di sini­stra; signi­fica rinun­ciare a una pro­spet­tiva “poli­tica”, se per poli­tica s’intende, e con­ti­nua a inten­dersi, come si è sem­pre inteso nella tra­di­zione poli­tica occi­den­tale (mica i Soviet, per inten­derci) un cor­retto, lim­pido e dichia­rato rap­porto tra valori, prassi e obbiet­tivi da rag­giun­gere (e, cir­co­lar­mente, viceversa).

Così facendo, Renzi si affianca, con la mag­gior verve che la gio­vane età e una natura esu­be­rante gli con­sen­tono, a quelli che, come ho avuto occa­sione di dire in un pre­ce­dente arti­colo, non sono più i suoi avver­sari ma i suoi con­cor­renti. Il popu­li­smo gli è, per­sino più che negli altri due, impresso nella sua stessa matrice gene­tica. Renzi vola, dal comune di Firenze alla segre­te­ria del Pd e di qui alla pre­si­denza del con­si­glio, in virtù di un’investitura (le pri­ma­rie dell’8 dicem­bre 2013) che non ha, mi ver­rebbe voglia di dire, nes­suna legit­ti­mità costi­tu­zio­nale. Non è dif­fi­cile ora arri­vare alla pre­vi­sione che, se fosse neces­sa­rio, non solo nel campo delle riforme ma nel campo di tutto, sarebbe dispo­ni­bile a fare, come ha già fatto, alleanze, espli­cite o sot­ter­ra­nee, con tutti.

Se le cose stanno così, - mi rendo conto, natu­ral­mente, che si potrebbe discu­tere a lungo di que­ste estre­mi­sti­che pre­messe, - biso­gna fer­mare Renzi prima che sia troppo tardi.

Non tanto per con­sen­tire la ripresa, anzi, la revi­vi­scenza, di una pro­spet­tiva poli­tica di sini­stra nel nostro paese, la quale, se cova ancora fra noi, come io penso, verrà fuori a suo tempo; quanto per con­sen­tire la ripresa di un libero, effet­tivo gioco poli­tico tra forze diverse, anche oppo­ste, tal­volta per­sino dia­lo­ganti e reci­pro­ca­mente inter­con­net­ten­tisi, ma dotate cia­scuna di un pro­prio regi­stro iden­ti­ta­rio, con il quale, orga­niz­za­ti­va­mente ed elet­to­ral­mente, iden­ti­fi­carsi o distin­guersi. Tutto ciò, mi rendo conto, non è facile. Soprat­tutto c’è poco, anzi quasi nes­sun tempo per farlo.

La prima sca­denza pos­si­bile è il dibat­tito in Senato sulla legge elet­to­rale. Biso­gna rivol­tare come un cal­zino il testo che arriva dalla Camera e, come dire, costi­tu­zio­na­liz­zarlo fino in fondo. Sui punti pre­ce­den­te­mente elen­cati sono stati assunti impe­gni pre­cisi (Ber­sani e altri). Vedremo cosa ne verrà fuori.

Ma non basta. Ha col­pito, nei mesi che ci sepa­rano dall’insediamento di Renzi alla segre­te­ria del Pd, e dalla sua pres­so­ché totale con­qui­sta della dire­zione di quel par­tito, come frutto anch’esso auto­ma­tico, delle pri­ma­rie del dicem­bre 2013, la subal­ter­nità, anzi, in nume­rose occa­sioni, la supi­nità della cosid­detta mino­ranza interna del Pd, la quale rap­pre­sen­tava tut­ta­via ancora a quella data quasi la metà degli iscritti al Partito.

Tor­niamo alle pre­messe del mio discorso. Se que­sta subal­ter­nità, o supi­nità, con­ti­nuano anche durante que­sta fase nella mar­cia di avvi­ci­na­mento di Renzi ad una gestione ormai non più discu­ti­bile del potere, non ci saranno altre occa­sioni nel corso, appros­si­ma­ti­va­mente, dei pros­simi dieci anni. Biso­gne­rebbe dun­que agire subito, e costi­tuire, tutti gli eletti Pd che intrav­ve­dono il rischio mor­tale con­te­nuto in tale pro­spet­tiva, gruppi par­la­men­tari auto­nomi, distinti da quelli ren­ziani, — e poten­zial­mente più con­si­stenti di que­sti, — per rove­sciare, nella chia­rezza della nuova situa­zione, lo svol­gi­mento nega­tivo, anzi cata­stro­fico, delle pre­messe poste alla base del mio discorso. Per impe­dire a Renzi di con­qui­stare una gestione illi­mi­tata del potere, si dovreb­bero recu­pe­rare ora, subito e soli­da­mente, e cioè con un pre­ciso e indi­scu­ti­bile atto for­male, le con­di­zioni di una pro­spet­tiva rifor­ma­trice seria nel nostro paese.

Non si tratta di una seces­sione. Anzi. Si tratta di rista­bi­lire un giu­sto equi­li­brio fra l’espressione che c’è stata del voto elet­to­rale e l’uso che ora ne vien fatto. Depu­tati e sena­tori del Pd sono stati eletti sulla base di un diverso pro­gramma poli­tico, con obiet­tivi diversi, una diversa lea­der­ship, una diversa dina­mica delle scelte da assu­mere. Devono sem­pli­ce­mente far rie­mer­gere quel che le pri­ma­rie di par­tito del dicem­bre 2013 sem­bre­reb­bero aver inna­tu­ral­mente sep­pel­lito. Se mai saranno gli altri a pro­te­stare e a ten­tare di farsi valere. Ma non dovrebbe pre­va­lere l’opinione di un gruppo su quella di milioni di elettori.

Con­se­guenze pos­si­bili (pos­si­bili, ripeto, solo se l’andamento del pro­cesso viene rove­sciato, e rove­sciato ora): ricon­qui­stare - e rifare - que­sto par­tito. E cam­biare la com­po­si­zione par­ti­tica che sta attual­mente alla base della mag­gio­ranza par­la­men­tare che regge que­sto governo. Se que­sta com­po­si­zione cam­bia, pos­sono aprirsi sce­nari per ulte­riori cam­bia­menti. Se que­ste pos­si­bi­lità ven­gono espe­rite fino in fondo, non è per niente detto che il governo, cioè l’Italia - iden­ti­fi­ca­zione que­sta che viene con­ti­nua­mente ed enfa­ti­ca­mente ripe­tuta, ma che andrebbe quanto meno discussa - vadano a carte qua­ran­totto. Magari ne viene fuori lo stesso governo, ma diverso. Oppure un governo tutto diverso. E magari più forte. E più cre­di­bile, anche a livello euro­peo. Quel che è asso­lu­ta­mente certo è che restare immo­bili e indi­fesi den­tro la mano­vra ren­ziana, rap­pre­senta la morte, non solo per il governo, non solo per il Pd, non solo per i gruppi par­la­men­tari del Pd, ma anche e soprat­tutto, que­sta volta sì, per l’Italia


Per respirare un po', riflettiamo su una concezione di "austerità" agli antipodi di quella che oggi, nell'età renzusconiana, i più sembrano avere. Un intervento al convegno sul tema "Berlinguer e la serietà della politica",Roma 11 febbraio 2014.

Futura umanità, 14 febbraio 2014

La questione dell’austerità si eleva, nella proposta di Berlinguer, al livello di una visione del mondo, fondata sulla storicità delle formazioni economico-sociali e quindi sul principio di trasformabilità delle relazioni tra gli esseri umani, e tra questi e l’ambiente naturale in cui avviene la loro riproduzione. Forse, proprio per questa visione dinamica, volta al cambiamento dei fondamenti sociali e del senso comune, la questione dell’austerità è stata una delle più contrastate e falsificate tra le elaborazioni e le proposte politiche del segretario del Pci.

«Noi – disse Berlinguer agli operai comunisti nel discorso di Milano il 30 gennaio 1977 – dobbiamo tenere la testa sopra il pelo dell’acqua, per continuare a pensare, a ragionare, a guardare lontano, cioè più in là dell’immediato, per staccarci dalle vecchie rive e approdare a lidi nuovi». Quindi, l’austerità, al contrario di quanto sostenevano i critici più rozzi e interessati, non era l’annuncio di una politica lacrime e sangue, come sarà praticata sistematicamente a danno dei lavoratori dai governi imperniati sulla pregiudiziale anticomunista. Tanto meno era la predicazione dell’indigenza generalizzata da parte di un «frate zoccolante», come qualcuno definì Berlinguer. Era invece un’altra visione della società e della vita fondata sulla solidarietà e l’uguaglianza, rispetto al consumismo e all’egoismo esasperati, vellicati e sospinti dalla controrivoluzione liberista.

Ma Berlinguer – e questo aspetto non andrebbe mai smarrito – non era un solitario sognatore. Bensì il segretario di un partito, denominato comunista, che si proponeva allora di trasformare la società in una civiltà più avanzata secondo il disegno costituzionale, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica. In tale contesto (cito dal famoso discorso dell’Eliseo), «l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo», dunque «un’occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo». Viene così in primo piano il nodo della qualità e delle finalità dello sviluppo, del perché e per chi produrre. Ovvero, del senso da dare all’austerità, e perciò il nodo dell’uso delle risorse, umane e naturali.

Se lo scopo da perseguire non è l’incremento indefinito del profitto, ma il soddisfacimento dei grandi bisogni umani in consonanza con la riproduzione equilibrata dei fattori naturali, allora c’è bisogno di un altro ordine dei fattori economici e di un altro paradigma sociale. E per ottenere ciò non basta una più equa distribuzione della ricchezza, sebbene si tratti di una questione essenziale. Occorre intervenire nei rapporti di produzione e nel processo di accumulazione. Insomma, precisa Berlinguer, c’è bisogno di «un intervento innovatore nell’assetto proprietario» e di introdurre criteri, valori e obiettivi «propri del socialismo» nella conformazione materiale e ideale della società.

Secondo il segretario del Pci, l’Italia vive uno di quei momenti della storia nei quali o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un Paese». Perciò la fuoriuscita «dal quadro e dalla logica del capitalismo» attraverso l’austerità verso una civiltà più avanzata, nella quale l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa, secondo il suo pensiero è interesse non solo della classe operaia e dei comunisti, bensì di strati ben più vasti di popolo, in definitiva dell’intera nazione.

All’impostazione modernamente rivoluzionaria di Enrico Berlinguer, che nasce non da pregiudizi ideologici ma da una visione dinamica del cambiamento basata su ragioni oggettive, è stato contrapposto il pregiudizio, questo sì ideologico, della non trasformabilità del sistema. Un dogma laico, diventato la stella polare di Thatcher e di Reagan, costruito sul vecchio ideologismo che trasforma le relazioni sociali tipiche del rapporto di produzione capitalistico in immutabili leggi di natura valide per l’eternità, dalla cui gabbia per definizione non si può uscire.

Mi sembra emblematico il fatto che Eugenio Scalfari, il quale sempre con grande sensibilità e rispetto ricorda i suoi incontri con Berlinguer, ancora nel settembre 2006, alla vigilia della crisi nella quale tuttora siamo immersi, concludendo un lungo e problematico dibattito sul tema del socialismo abbia sinteticamente affermato che (cito testualmente) «uscire dal capitalismo è una bubbola». Questo perché, spiega il fondatore di Repubblica, l’accumulazione del capitale «non è – testuale -un fenomeno del capitalismo», «ma della scarsità di risorse». Quindi non si può cambiare. Di conseguenza, anche le disuguaglianze (parliamo ovviamente delle disuguaglianze sociali non delle diversità biologiche), che sono (ancora testuale) «un fenomeno naturale» e «fanno parte della natura della nostra specie», non sono a loro volta eliminabili.

Dove portano queste premesse? Anche in questo caso la risposta di Scalfari è perentoria: «Esattamente all’accettazione del riformismo, cioè alla gradualità per temperare processi comunque inevitabili». Dove è evidente che il riformismo gradualista non è concepito come un processo di superamento dei rapporti sociali esistenti, ma come un tentativo di temperare, appunto, le contraddizioni laceranti del capitalismo per consolidarne la presa sulla società.

In conclusione, mi pare che per uscire da questo tempo di crisi senza fine una riflessione s’imponga sulla necessità di rovesciare i canoni della cultura dominante, a cominciare proprio dal dogma della non trasformabilità del sistema, come fece ai suoi tempi il segretario del Pci. Il valore della sua azione e della sua ricerca appare oggi tanto più rilevante, sebbene fortemente sottovalutata, perché in un mondo diviso dalla guerra fredda, in cui si fronteggiavano due sistemi entrambi declinanti, il capitalismo ad Ovest (poi risultato vincente sotto la spinta neoliberale) e il «socialismo realizzato» ad Est (poi imploso), Enrico Berlinguer fu l’unico dirigente politico di levatura internazionale che pose in termini concreti nel cuore d’Europa il problema della costruzione di una società nuova, diversa dai modelli esistenti a Est come a Ovest.

Superata a suo giudizio la fase del movimento per il socialismo scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre, d’altra parte anche la fase socialdemocratica del movimento operaio era venuta esaurendosi, giacché – precisava Berlinguer – nessuno degli «esperimenti socialdemocratici ha portato al superamento del capitalismo» in Paesi dove crescono non solo gravi disagi per grandi masse di lavoratori. Ma anche il malessere, le ansie, le angosce, «quella che si potrebbe definire l’infelicità dell’uomo di oggi».

La morte ha colpito il segretario comunista come un operaio sul lavoro, mentre nella tempesta dell’offensiva liberista stava guidando il Pci lungo un percorso inesplorato, alla ricerca di una società più giusta e avanzata, in cui il socialismo si coniughi con la democrazia e l’uguaglianza con la libertà. L’austerità fu pensata in un’altra fase della storia, oggi tutto è diverso. Ma i problemi di quel mondo che Berlinguer con la sua lotta voleva cambiare restano, e si sono aggravati. Perciò chi voglia cambiare davvero lo stato di cose presente oggi dal suo pensiero e dal suo esempio non può prescindere.

Ecco come andare avanti per costituire, almeno per le elezioni europee, una lista di sinistra anche in Italia. Lo propongono Bar­bara Spi­nelli, Andrea Camil­leri, Luciano Gal­lino, Paolo Flo­res d’Arcais, Marco Revelli, Guido Viale.

Eddyburg aderisce. Il manifesto, 1 febbraio 2014
Vogliamo rin­gra­ziare tutte e tutti coloro che hanno fir­mato l’appello per una lista di cit­ta­di­nanza uni­ta­ria e apar­ti­tica che pro­muova la can­di­da­tura di Ale­xis Tsi­pras a Pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea alle pros­sime ele­zioni euro­pee. Gra­zie al vostro impe­gno abbiamo supe­rato le 14.000 firme in meno di nove giorni, nono­stante il silen­zio della stampa e dei media. Tut­ta­via le ade­sioni rac­colte (tra cui nomi della cul­tura, della scienza, dell’arte, del gior­na­li­smo e dello spet­ta­colo) sono una goc­cia nel mare delle elet­trici e degli elet­tori che vogliamo e dob­biamo rag­giun­gere. Non inten­diamo infatti rivol­gerci solo all’elettorato della sini­stra cosid­detta radi­cale, ma molto al di là. A quanti non votano più per­ché delusi o disgu­stati dalla poli­tica uffi­ciale o, non vedendo più l’utilità dell’Europa, con­se­gnano il pro­prio destino agli attuali «equilibri».

A chiha votato Pd con­tro­vo­glia, per­ché in asso­luto disac­cordo con l’accettazione supina dei trat­tati euro­pei che ci con­dan­nano all’austerità e alla rovina. A chi ha votato Cin­que Stelle, mal­grado una lea­der­ship poten­zial­mente auto­ri­ta­ria e ondi­vaga, in assenza di una alter­na­tiva credibile.

Rico­no­scersi nella figura di Ale­xis Tsi­pras, che ha costruito una forza elet­to­rale mag­gio­ri­ta­ria non su tema­ti­che e appelli dema­go­gici anti­eu­ro­pei­sti, ma su un impe­gno con­creto a rine­go­ziare i trat­tati e il fun­zio­na­mento dell’Unione euro­pea, rende evi­dente la posta in gioco di que­ste ele­zioni: un dise­gno auten­ti­ca­mente euro­pei­sta, con­tro l’ipotesi della can­cel­liera Mer­kel e di Shulz di pie­gare l’Europa alla stessa logica della Grosse Koa­li­tion tedesca.

Per tutti noi che abbiamo ade­rito e per quelli che ade­ri­ranno a que­sto pro­getto le cose comin­ciano dun­que ora. È asso­lu­ta­mente neces­sa­rio orga­niz­zarci al più pre­sto, per­ché il tempo stringe e le cose da fare sono tan­tis­sime.

Dob­biamo dare un nome alla lista, defi­nirne ulte­rior­mente il pro­gramma, sce­gliere i can­di­dati, creare strut­ture ope­ra­tive e comi­tati di soste­gno nazio­nali e locali, rac­co­gliere entro il 14 aprile le firme neces­sa­rie alla pre­sen­ta­zione della lista (oltre 150.000; 30.000 per cia­scuna delle cin­que cir­co­scri­zioni e almeno 3.000 in ogni Regione, com­prese le più pic­cole, su moduli uffi­ciali che inclu­dano già il nome dei can­di­dati!), nomi­nare uno o più teso­rieri e rac­co­gliere i fondi per finan­ziare la cam­pa­gna elet­to­rale in maniera auto­noma e indipendente.

Abbiamo deciso la via della rac­colta delle firme, anzi­chè ten­tare di appog­giarci a qual­che forza pre­sente in Par­la­mento, per sot­to­li­neare l’autonomia della lista che con voi costrui­remo, e per­ché lo sforzo per la rac­colta delle firme rap­pre­senta un buon ini­zio della cam­pa­gna elettorale.

I sei pro­mo­tori saranno i garanti dei prin­cipi apar­ti­tici, demo­cra­tici, inclu­sivi e orien­tati a un fede­ra­li­smo che pro­muova il rin­no­va­mento radi­cale delle isti­tu­zioni dell’Unione euro­pea, scon­giu­rando così inter­fe­renze o ten­ta­tivi di appro­pria­zione del pro­getto che già in pas­sato hanno fatto fal­lire ana­lo­ghe ini­zia­tive, nate con intenti altret­tanto unitari.

Entro pochi giorni lan­ce­remo una con­sul­ta­zione on-line per deci­dere il nome della lista, alle­gando un invito al suo finan­zia­mento, e atti­ve­remo un comi­tato ope­ra­tivo, che potrà ampliarsi in seguito, secondo le esi­genze che emer­ge­ranno. Invie­remo una mail per for­nire a tutti le moda­lità per entrare in con­tatto con i fir­ma­tari della stessa zona e con loro avviare la costi­tu­zione di comi­tati pro­mo­tori locali, indi­cando al con­tempo refe­renti che fac­ciano da col­le­ga­mento con i garanti.

Alle asso­cia­zioni, comi­tati di lotta, club, orga­niz­za­zioni poli­ti­che, cul­tu­rali, civi­che e ambien­ta­li­ste, non­ché ai par­titi che inten­dono soste­nere il pro­getto man­te­nendo una loro auto­no­mia ope­ra­tiva, pro­po­niamo di asso­ciarsi a livello nazio­nale e a livello locale in uno o più comi­tati di soste­gno alla lista, secondo il modello adot­tato per il refe­ren­dum per l’acqua.

Nella lista, in coe­renza con il pro­gramma, potranno venir can­di­date per­sone, anche con appar­te­nenze par­ti­ti­che, che non abbiano avuto inca­ri­chi elet­tivi e respon­sa­bi­lità di rilievo in un par­tito nell’ultimo decen­nio; le pro­po­ste rela­tive alle can­di­da­ture dovranno essere pre­sen­tate entro e non oltre il 16 feb­braio, poi­ché il 22 dello stesso mese ini­zierà la rac­colta delle firme e per quella data i can­di­dati dovranno essere noti e in regola con le pra­ti­che di accet­ta­zione; saranno fis­sate regole rigide sulla con­du­zione della cam­pa­gna elet­to­rale, sta­bi­lendo che i fondi che ogni can­di­dato avesse even­tual­mente a pro­pria per­so­nale dispo­si­zione ven­gano divisi con il comi­tato ope­ra­tivo, in modo che le spese per­so­nali non supe­rino una per­cen­tuale fissa della spesa complessiva.

Il 24 di feb­braio ini­zierà la rac­colta delle 150.000 firme che rap­pre­senta il mag­giore sforzo a cui sarà sot­to­po­sta l’organizzazione che tutti insieme saremo riu­sciti a met­tere in piedi per quella data.

Quello che stiamo atti­vando tutti insieme è un pro­getto nuovo: nei sog­getti pro­mo­tori, nel per­corso, nelle moda­lità. Per que­sto richiede a cia­scuno la capa­cità di pen­sarsi den­tro un per­corso col­let­tivo e non in quanto inter­prete di istanze di parte. Que­sta è la dif­fi­coltà mag­giore e biso­gna esserne consapevoli.

La lettera con la quale il leader della sinistra europea, Alexis Tsipras, accetta la candidatura e le tre sagge condizioni che pone alla sua formazione.

Il manifesto, 25 gennaio 2014. In calce i promotori e della lista italiana e le adesioni finora pervenute.

Care com­pa­gne e compagni, volevo prima di tutto rin­gra­ziarvi per la vostra fidu­cia e l’onore che avere dimo­strato per me, Syriza e il Par­tito della Sini­stra Euro­pea pro­po­nendo di met­termi in primo piano in una lista in Italia. Una pro­po­sta che rap­pre­senta un rico­no­sci­mento morale per le nostre lotte dall’inizio della crisi in Gre­cia e il nostro ten­ta­tivo di inter­na­zio­na­liz­zare il pro­blema nell’Europa del Sud. Una pro­po­sta che com­pleta quella del Par­tito della Sini­stra Euro­pea per la mia can­di­da­tura per la pre­si­denza della Com­mis­sione Europea.

In Gre­cia, in Ita­lia e nell’Europa del Sud in genere siamo testi­moni di una crisi senza pre­ce­denti, che è stata impo­sta attra­verso una dura auste­rità che ha fatto esplo­dere a livelli sto­rici la disoc­cu­pa­zione, ha dis­solto lo stato sociale e annul­lato i diritti poli­tici, eco­no­mici, sociali e sin­da­cali con­qui­stati. Que­sta crisi distrugge ogni cosa che tocca: la società, l’economia, l’ambiente, gli uomini.

“L’Europa è stata il regno della fan­ta­sia e della crea­ti­vità. Il regno dell’arte”, ci ha inse­gnato Andrea Camil­leri, per finire in “un colpo di stato di ban­chieri e governi”, come ha aggiunto Luciano Gallino. Que­sta Europa siamo chia­mati a rove­sciare par­tendo dalle urne il 25 di mag­gio nelle ele­zioni per il Par­la­mento Euro­peo. Scom­met­tendo sulla rico­stru­zione di una Europa demo­cra­tica, sociale e solidale.

La vostra pro­po­sta per l’unità, aperta e senza esclu­sioni, della sini­stra sociale e poli­tica anche in Ita­lia rap­pre­senta un pre­zioso stru­mento per cam­biare gli equi­li­bri nell’Europa del Sud e in modo più gene­rale in Europa. Syriza ed io per­so­nal­mente soste­niamo che l’unità della sini­stra con i movi­menti ed i cit­ta­dini che col­pi­sce la crisi rap­pre­senta il migliore lie­vito per il rove­scia­mento. È la con­di­zione neces­sa­ria per cam­biare le cose.

La vostra pro­po­sta per la crea­zione di una lista aperta, demo­cra­tica e par­te­ci­pa­tiva della sini­stra ita­liana, dei movi­menti e della società civile in Ita­lia per le ele­zioni euro­par­la­men­tari di mag­gio, con l’obiettivo di appog­giare la mia can­di­da­tura per la Pre­si­denza della Com­mis­sione Euro­pea, può rap­pre­sen­tare con que­ste con­di­zioni un ten­ta­tivo di aprire una nuova spe­ranza con successo.
La prima con­di­zione è che que­sta lista si costi­tui­sca dal basso, con l’iniziativa dei movi­menti, degli intel­let­tuali, della società civile. La seconda con­di­zione è di non esclu­dere nes­suno. Si deve chia­mare a par­te­ci­parvi e a soste­nerla prima di tutto i sem­plici cit­ta­dini, ma anche tutte le asso­cia­zioni e le forze orga­niz­zate che lo vogliono. La terza con­di­zione è di avere come spe­ciale e unico scopo quello di raf­for­zare i nostri sforzi in que­ste ele­zioni euro­pee per cam­biare gli equi­li­bri in Europa a favore delle forze del lavoro con­tro le forze del capi­tale e dei mer­cati. Di difen­dere l’Europa dei popoli, di met­tere freno all’austerità che distrugge la coe­sione sociale. Di riven­di­care di nuovo la democrazia.

L’esperienza di Syriza in Gre­cia ci ha inse­gnato che in tempi di crisi e di cata­strofe sociale, come oggi, è di sini­stra, radi­cale, pro­gres­si­sta, ogni cosa che uni­sce e non divide.Solo se facciamo tutti insieme un passo indietro, per fare tutti insieme molti passi in avanti, potremmo cambiare la vita degli uomini. In un qua­dro del genere anche il mio con­tri­buto potrà essere utile a tutti noi, ma prima di tutto ai popoli d’Italia e d’Europa.

Ale­xis Tsipras è Pre­si­dente di Syriza e Vice­pre­si­dente del Par­tito della Sini­stra Europea
Qui su eddyburg l'appello e le prime adesioni. Qui per sottoscrivere l'appello

A proposito del congresso di SEL. «Non sap­piamo dire per­ché pur par­tendo da ana­lisi pro­fonde e con­di­vise della grave malat­tia che rischia di inghiot­tire l’Europa nel destino wei­ma­riano, le sini­stre plu­rali non rie­scano a unirsi in una lista comune a soste­gno della can­di­da­tura di un lea­der euro­peo come Ale­xis Tsi­pras».

Il manifesto, 25 gennaio 2014
Non sap­piamo dire per­ché pur par­tendo da ana­lisi pro­fonde e con­di­vise della grave malat­tia che rischia di inghiot­tire l’Europa nel destino wei­ma­riano, le sini­stre plu­rali non rie­scano a unirsi in una lista comune a soste­gno della can­di­da­tura di un lea­der euro­peo come Ale­xis Tsi­pras. Né dire per­ché un sin­da­cato ita­liano come la Cgil, pre­sente nelle assise di Sini­stra eco­lo­gia e libertà con Camusso e Lan­dini, pur invo­cando una rispo­sta key­ne­siana ai vin­coli cata­stro­fici dell’austerità non sap­pia offrire una rispo­sta uni­ta­ria al dramma del lavoro ormai ridotto a merce. Ma è que­sto qua­dro di spac­ca­ture e divi­sioni che ci viene resti­tuito dalla tri­buna con­gres­suale di Sel.

Il par­tito di Nichi Ven­dola ieri lo ha ascol­tato nella lunga e appas­sio­nata rela­zione che appunto si con­clu­deva con il no all’adesione alla lista ita­liana per Tsi­pras e il sì alla pre­sen­ta­zione del pro­prio sim­bolo con l’indicazione di spo­sare la scelta del Pse e di con­se­guenza di Mar­tin Schulz come can­di­dato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea. Con una for­tis­sima pro­ba­bi­lità di non supe­rare, né gli uni né gli altri, quella soglia del 4 per cento neces­sa­ria per entrare nel par­la­mento euro­peo. Uno sce­na­rio che abbiamo pur­troppo cono­sciuto esat­ta­mente quat­tro anni fa, alle ele­zioni euro­pee del 2009 quando l’astensionismo superò il 7 per cento, le destre avan­za­rono, la sini­stra arre­trò, lasciando Rifon­da­zione e Sel fuori da Stra­sburgo. Anche allora il mani­fe­sto provò a indi­care la via di una lista uni­ta­ria fuori dalle liti­gio­sità par­ti­ti­che, l’appello restò ina­scol­tato e fummo facili pro­feti dello sven­tu­rato risul­tato. Oggi, con la matu­rità del gio­vane lea­der di Syriza, sarebbe stato pos­si­bile (e spe­riamo ancora possa essere) arri­vare uniti alla meta delle elezioni.

Natu­ral­mente non è sem­plice ope­rare nel vivo delle sto­rie per­so­nali e col­let­tive che in que­sti anni hanno sepa­rato il nostro campo. Ven­dola ha ragione quando ricorda che una nuova sini­stra pre­tende un discorso di verità, che la scon­fitta per­dura, che arren­dersi alla fata­lità delle lar­ghe intese anche in Europa signi­fica con­si­de­rare Schulz come un avver­sa­rio anzi­ché come un alleato. Più dif­fi­cile da que­sto dedurne che allora «Sel non deve avere paura di andare con il suo sim­bolo alle europee».

La scelta di alzare le ban­diere di par­tito viene repli­cata quando si atterra nello sce­na­rio ita­liano. L’attacco al Pd di Renzi è netto. Il segretario-sindaco «ignora pro­prio il senso delle pri­ma­rie», ha sosti­tuito la «pro­ce­dura demo­cra­tica con la velo­cità del comando», la sua pole­mica con­tro i pic­coli par­titi «nasconde la buli­mia dei grandi», la legge elet­to­rale con­ce­pita in pro­fonda sin­to­nia con Ber­lu­sconi è «un’intesa opaca con il ber­lu­sco­ni­smo». Il Pd resta un inter­lo­cu­tore, ma l’alleanza «non è una condanna».

La botta, elet­to­rale e per­so­nale, che ha col­pito un par­tito e un lea­der, ambi­ziosi e fra­gili, si fa sen­tire e c’è voglia di «toglierci il lutto». Vale la lezione di Cala­man­drei e dei pic­coli numeri del par­tito d’Azione, o quella di due grandi scon­fitti, Ingrao e Gram­sci, figure dell’album citato da Ven­dola. Per dire, come scrive Cor­rado Sta­jano con­clu­dendo il viag­gio nella “Stanza dei fan­ta­smi”, che la spe­ranza nella spe­ranza è sì dif­fi­cile, ma anche doverosa

Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato dall'associazione Futura Umanità a Roma, Teatro de' Servi, 8 novembre 2013. Futura umanità, con premessa

Premessa


Tre ragioni ci spingono a pubblicare questo scritto, che riprendiamo dal sito Futura umanità.. La prima è di carattere generale. La cancellazione della storia dalla conoscenza dei contemporanei è uno dei più robusti strumenti adoperati chi vuole conservare il mondo così com’è (e come non ci piace) contro chi vuole cambiarlo. La seconda è nel contributo che questo scritto fornisce alla comprensione del carattere profondamente innovativo della Costituzione che, lungi dal voler finalmente attuare, si pretende di stravolgere. La terza ragione sta nel fatto che la concezione del “partito” che emerge dall’analisi della concezione del comunismo italiano, al confronto con quelle oggi dominanti, ci sembra testimoniare la profondità del baratro nel quale siamo caduti (negli anni di Craxi, Berlusconi e Renzi) e dello sforzo che occorrerà fare per uscirne (e.s.)

TOGLIATTI E LA VIA COSTITUZIONALE
PER LATRASFORMAZIONE DELLA SOCIETA’

Appena rientrato in Italia dopo quasi vent’anni di esilio - il Pci, come si sa, era stato messo fuori legge dalla dittatura fascista -, Togliatti nel primo discorso pubblico pronunciato a Napoli l’11 aprile 1944 espone in modo nitido la strategia dei comunisti italiani, e indica con straordinaria chiarezza i principi da porre a fondamento di una nuova Costituzione, tali da garantire il rinascimento dell’Italia travolta dalla catastrofe della guerra.

In un Paese calpestato per metà dalle truppe naziste e per metà occupato dall’esercito anglo-americano, Togliatti afferma: «Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi (...) del capitale monopolistico. Questo vuol dire - prosegue - che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza o sul dominio di un solo partito. In un’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti (...); noi proporremo però che questi partiti, o almeno quelli che (...) hanno un programma democratico e nazionale, mantengano la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo». «Il regime democratico e progressivo che proponiamo, e alla costruzione del quale vogliamo collaborare e collaboreremo in tutte le forme, dovrà essere - conclude - un regime forte, il quale si difenda con tutte le armi contro ogni tentativo di sopprimere o calpestare le libertà popolari».

Se è difficile sostenere che il Pci, durante tutta la sua esistenza, abbia in qualche caso derogato da questa impostazione, è altrettanto difficile contestare che in quella fase storica la strategia togliattiana sia stata una strategia vincente. Ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, essa consentì di liquidare la monarchia e il fascismo, di risolvere democraticamente la questione istituzionale ridando dignità a un Paese che l’aveva perduta, e di aprire al tempo stesso la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si innalzino al rango di classe dirigente. Come disse a suo tempo Pietro Nenni, «Togliatti era il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca».

Nella sua visione della politica vi è un legame inscindibile tra fini e mezzi. Quindi, se il fine, vale a dire l’obiettivo strategico generale è la creazione di una democrazia progressiva che attui «un complesso di riforme della struttura economica e sociale», il partito nuovo di massa è lo strumento adatto allo scopo. Ancora nel discorso di Napoli, Togliatti afferma: «Nessuna politica può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il popolo a realizzarla. Il nostro partito deve acquistare questa capacità». «Noi dobbiamo essere il partito più vicino al popolo (...). È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie o di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci a soddisfarle».

Democrazia progressiva e partito nuovo di massa sono dunque i due pilastri della strategia di Togliatti. Ed essi si incarnano nella Costituzione repubblicana e antifascista come progetto di cambiamento. Polemizzando tra gli altri con Pietro Calamandrei, il quale sosteneva che la Costituzione italiana, secondo il modello costituzionale staliniano del 1936, dovesse limitarsi a prendere atto delle realtà esistente, Togliatti replica che le condizioni della Russia sovietica erano affatto diverse da quelle italiane, e pertanto occorre distaccarsi da quel modello. In caso contrario si sarebbe decretata l’impossibilità di trasformare i fondamenti strutturali del nostro Paese. Là, sotto i colpi di un processo rivoluzionario violento, era stato distrutto il vecchio ordinamento economico-sociale ed erano state le gettate le basi di uno nuovo. Qui - osserva - una rivoluzione non è avvenuta, ma è possibile arrivare «a una profonda trasformazione sociale seguendo un cammino differente».

Con il crollo della dittatura fascista, sono state riconquistate le libertà civili e politiche. Per quanto riguarda le trasformazioni sociali da attuare, queste si possono realizzare «attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa». Tale è il senso della democrazia progressiva, «e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto che essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato attraverso la legalità».

La conclusione cui perviene tale impostazione è limpida: la Costituzione dell’Italia democratica deve avere un carattere progettuale-programmatico «non di previsione, ma di guida», che «porti a un rinnovamento audace, profondo, di tutta la struttura della nostra società, nell’interesse del popolo e nel nome del lavoro, della libertà e della giustizia sociale». Quindi, non una Costituzione socialista, che prenda atto di un’avvenuta trasformazione e, tanto meno, che codifichi la statizzazione integrale dei mezzi di produzione, ma una Costituzione come programma per il futuro, che apra la strada a una società socialista di tipo nuovo rispetto al modello esistente. Perché - aveva sostenuto Togliatti al V congresso del partito - «soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell’organizzazione della produzione e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una civiltà e di preservare la pace». Noi - aggiungeva - «siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c’è contraddizione».

È la visione di un percorso inedito e originale: la via italiana al socialismo, come Togliatti stesso la definirà nel 1956 forse in modo alquanto riduttivo. In altre parole - e in questo sta la sua genialità -, muovendo dalla presenza dell’Unione Sovietica e dal «legame di ferro» con la rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, il segretario del Pci delinea un processo di avanzamento verso il socialismo del tutto diverso. Una visione strategica che si ritrova nell’impianto costituzionale, soprattutto nella sua parte più innovativa, di cui Togliatti è stato artefice diretto: quella riguardante i diritti sociali e di proprietà, che oggi appare in tutta la sua grandezza e modernità, nelle mutate condizioni storiche in cui una ristretta minoranza di proprietari universali, ossia il vertice dominante del capitale finanziario globale, sta logorano al tempo stesso l’uomo e l’intiero ambiente della sua riproduzione.

Il fondamento del lavoro, che è il contrario della centralità del capitale, cambia la natura della società e dello Stato rispetto al passato. Siamo di fronte a un vero e proprio passaggio storico, giacché al centro dell’architettura dello Stato e della società non c’è più il polveroso principio della proprietà inviolabile, vale a dire il proprietario-cittadino, pilastro universale del costituzionalismo antecedente all’irruzione nella storia del movimento operaio e dei lavoratori. Bensì la nuova figura della modernità capitalistica: la persona che lavora disponendo solo di sé medesima, l’uomo e la donna proprietari solo delle loro abilità fisiche e intellettuali, della loro manualità e intelligenza, della loro forza-lavoro. Ossia, la classe dei lavoratori dipendenti o comunque eterodiretti, che in Italia sono più di 16 milioni. La stragrande maggioranza delle forze di lavoro anche in Europa e nel mondo.

Insomma, la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. In forza di questo passaggio storico il lavoro non è più soltanto una merce che si scambia sul mercato. Diventa diritto, e poiché lo sfruttamento del lavoro umano nasce dal capitale come rapporto sociale, il lavoro posto a fondamento della società e dello Stato apre la strada a una civiltà più avanzata, in cui l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa. La Repubblica, infatti, non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto», in modo che essi possano concorrere al progresso materiale e spirituale della società (articolo 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità», ma «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (a. 2). Da cui scaturisce, a livello internazionale, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (a.11).

L’intiera architettura costituzionale ha una sua profonda e riconoscibile coerenza. Sul fondamento del lavoro si innalzano i nuovi diritti della persona, i diritti sociali. Muovendo dal principio che la Repubblica «tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (a. 35), la Costituzione - come è noto - stabilisce la parità di diritti e di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro (a. 37); introduce il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» sufficiente comunque ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» (a. 36), nonché il diritto all’istruzione (a. 33), al riposo e alla salute (a. 32), alla pensione e all’assistenza sociale (a. 38). Inoltre, in una visione assai significativa e moderna della persona e della società, «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e culturale della nazione» (a. 9).

Ma - ecco la grande novità, di fatto mandata in soffitta - per dare attuazione a questa fitta trama di diritti non basta che tutti concorrano «alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (articolo 53), seppure sia questa una condizione ineludibile. È necessario che «l’iniziativa economica privata», ancorché libera, non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di conseguenza, la legge dovrà indicare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata a fini sociali» (a. 41). Infatti, essendo la proprietà «pubblica o privata», «i beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati».

La proprietà privata è garantita, ma entro limiti che ne assicurino la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (a. 42). Di più: «ai fini di utilità generale», la legge «può riservare originariamente o trasferire» «allo Stato, a enti pubblici o - sottolineo - a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti di energia o a situazioni di monopolio (a. 43). Sulla stessa linea del pluralismo nelle forme di proprietà, contrapposto al totalitarismo della proprietà privata capitalista, che rende bene l’idea di un percorso aperto, di un processo riformatore in progress, si collocano anche gli articoli 44, che impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, e 45, che favorisce lo sviluppo dell’artigianato e la cooperazione a carattere di mutualità.

Sono tutte norme del titolo III della Costituzione, solitamente ignorate nel dibattito attuale, che derivano in modo rigoroso dai principi fondamentali dalla nostra Carta. Più precisamente, sono la traduzione normativa di quei principi, in particolare di quella visione modernissima dell’uguaglianza e della libertà fissata nell’articolo tre. Dove si afferma non solo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e hanno pari dignità sociale, ma che la Repubblica rimuove gli ostacoli economici e sociali, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza, e quindi impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dove dunque è chiaro che non basta l’uguaglianza davanti alla legge e neanche il principio di equità nella distribuzione del reddito, ma occorre intervenire nel cuore del rapporto di produzione capitalistico, ossia nel rapporto di proprietà, se si vuole garantire libertà e uguaglianza, e quindi il pieno sviluppo della persona umana.

In una parola, una rivoluzione. Nel cui svolgimento liberazione del lavoro e libertà della persona s’intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all’individuo, è considerato non solo come interscambio permanente tra uomo e natura, che comporta una visione inscindibile dello sfruttamento umano e ambientale; non solo come forza produttiva fondamentale dei beni materiali e immateriali; bensì anche come fattore costitutivo della personalità. La valorizzazione del lavoro, che pervade l’intiero impianto costituzionale, diventa così la base materiale e culturale dell’uguaglianza e della libertà, e perciò anche il riferimento per la finalizzazione della proprietà e per il governo del mercato. Sono temi non dell’altroieri, ma dell’oggi e del domani.

Un progetto di tale portata, che - come è stato giustamente osservato - si spinge a introdurre elementi di socialismo9, non può essere scisso dalla classe lavoratrice, dalla sua autonomia culturale e politica, e quindi dalla sua diretta partecipazione alla guida del Paese. E infatti nell’impianto costituzionale la valorizzazione del lavoro non è separata dal protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. I quali conquistano non solo il diritto di sciopero e la libertà sindacale (a. 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi classe dirigente per il tramite del partito politico, considerato lo strumento indispensabile «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (a.49).

I confini della democrazia si sono enormemente allargati ben oltre il perimetro dei principi liberali. Quindi, non più deleghe al sovrano per casato o per censo, o a ristrette élites tecnico-politiche. Con l’entrata in campo della classe lavoratrice la politica assume una nuova dimensione sociale, e con i partiti di massa prende forma quella che Togliatti definisce «la democrazia che si organizza»10. Era chiaro infatti ai costituenti che i lavoratori e le classi subalterne non sono in grado di esigere i nuovi diritti costituzionalmente riconosciuti se non si organizzano e non si rappresentano politicamente.

Senza sottovalutare l’apporto delle «terze forze», vale a dire di azionisti, repubblicani e liberali democratici, di cui la Costituzione assume la grande conquista storica dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria comunque riverniciata e apparentemente spogliata di ogni relazione con il gravame soffocante dei rapporti economici, non c’è dubbio che i comunisti e i socialisti, da una parte, e i democratici cristiani, dall’altra, sono stati i principali artefici di un disegno costituzionale innovativo, le cui enormi potenzialità rimangono tuttora largamente inesplorate oltre che inapplicate.

Non si è trattato di un inciucio ante litteram, ma di una convergenza, su una reale piattaforma di cambiamento, di due grandi correnti di pensiero, l’una che risale a Marx cui i comunisti e i socialisti allora facevano riferimento, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale il cui principale esponente era Giuseppe Dossetti. Un solidarismo d’origine diversa - osserva Togliatti intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione - che però «arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi». «Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». E quando Giorgio La Pira, uno dei costituenti di spicco della Dc, indica nella dignità della persona il riferimento per i diritti dell’uomo e del cittadino, Togliatti afferma che «qui vi è un altro punto di convergenza della nostra corrente, comunista e socialista, con la corrente solidaristica cristiana» giacché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana».

Si stabilisce così una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, e ricca di implicazioni straordinariamente attuali, tra solidarietà e personalismo, tra classe sociale e individuo, tra collettività e persona, e anche tra utilità sociale e impresa, che dà all’intiero impianto costituzionale, sicuramente la vetta più alta toccata dagli italiani nel loro contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, il respiro di un’operazione di grande portata strategica su cui costruire il futuro.

E’ un progetto di nuova società. La proprietà articolata in forme diverse (pubbliche, private, comuni), limitata e finalizzata, e il mercato, regolato per soddisfare le esigenze umane e ambientali attraverso l’intervento pubblico e la presenza di soggetti sociali politicamente organizzati, si innestano in un progetto, e in un processo, di trasformazione della società diverso da ogni modello finora conosciuto, che potremmo chiamare nuovo socialismo. Di certo questo non è il modello sovietico di società socialista. D’altra parte, una Costituzione che pone il lavoro a fondamento della democrazia non si può definire liberale, giacché va ben oltre i sacri principi dell’ ‘89. Ma il progetto costituzionale non si identifica neanche con il compromesso socialdemocratico, che in tutto il Novecento mai ha superato il limite della sfera distributiva, evitando di affrontare il nodo dell’accumulazione e della struttura economica, e quindi di scalare la muraglia del modo di produzione capitalistico, cioè dei rapporti di proprietà. Il risultato è che dopo il fallimento del «socialismo realizzato» ad Est, oggi dobbiamo constatare il fallimento della socialdemocrazia ad Ovest.

In questo contesto, a mio giudizio il progetto costituzionale italiano assume un valore speciale. Esso trae i suoi fattori costitutivi dalle specifiche condizioni storico-culturali del nostro Paese, dalle caratteristiche del capitalismo italiano e dalle lezioni che i partiti della classe operaia hanno saputo trarre dalla sconfitta subita con l’avvento del fascismo. Ma sarebbe un grave strabismo non vedere che questo progetto ha un valore più generale, perché pone su basi nuove l’idea e la pratica della trasformazione della società verso il socialismo nell’intiera Europa, in Paesi capitalisticamente maturi, retti da diverse forme di democrazia politica.

Un progetto reso possibile dalla strategia dei comunisti italiani, che in Occidente hanno aperto un diverso orizzonte al processo rivoluzionario, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della democrazia progressiva, da percorrere con la presenza e con le lotte del partito nuovo di massa. È semplicemente assurdo, e al tempo stesso prova di inguaribile dogmatismo, ritenere che esista un’unica via per la trasformazione della società indipendentemente dalle condizioni storiche, e un unico schema di società comunista in cui imbracare l’universo mondo.

Del resto, non era questo il pensiero di Marx - a torto imprigionato nella precettistica degli epigoni -, il quale, in un discorso del 1872 ad Amsterdam, polemizzando con gli anarchici astensionisti, aveva sostenuto che le classi lavoratrici devono «prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro», altrimenti mai avrebbero visto «l’avvento del regno dei cieli in questo mondo». Ma, aggiungeva, «non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Conosciamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi», e perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo pacificamente».

L’originalità del comunismo di Togliatti consiste in un pensiero e in una pratica che superano la più che secolare oscillazione tra il tutto sociale e il tutto politico, tra massimalismo e riformismo. E quindi in un’azione politica che connette il particolare con il generale, la parzialità con la visione di sistema, la quotidianità con la prospettiva, i mezzi e i fini attraverso un’iniziativa combinata dal basso e dall’alto che dà concretezza al processo riformatore. E perciò delinea i contorni di un più alto ordinamento, di un «socialismo diverso». L’esito di questo processo - annota Togliatti nel 1962 - «dipenderà dal fatto che, per l’azione di un partito rivoluzionario, com’è il nostro, non si perda mai, nelle masse lavoratrici, la coscienza del legame tra le riforme parziali e gli obiettivi del movimento operaio e socialista, e questi non vengano mai né cancellati né offuscati»13.

La più grande innovazione introdotta da Togliatti - ha fatto notare Mario Tronti -, sta proprio nel superamento del dilemma che nel Novecento ha dilaniato in Europa socialdemocratici e comunisti: riforme o rivoluzione? La rivoluzione nella società e nello Stato attraverso le riforme: questa è la risposta che troviamo nell’impianto togliattiano. E non è un gioco di parole, o un astratto esercizio intellettuale. L’unità di riforme e rivoluzione, ovvero il rivoluzionamento della società e dello Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Il partito di massa, «intellettuale collettivo» che lotta anche sul terreno della cultura e della formazione del senso comune, è lo snodo decisivo di questa strategia, che si distacca dal leninismo costruttore del partito-avanguardia, come pure dalle socialdemocrazie imprigionate nella gabbia dei rapporti di produzione capitalistici. Un partito inteso appunto come «parte», che non si identifica quindi con lo Stato né si sovrappone alla società per dominarla, ma stabilisce con essa un rapporto interattivo allo scopo di produrre «politica reale delle classi subalterne in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamo alla massa», per dirla con Antonio Gramsci.

Si tratta di un disegno strategico poderoso e organico, fondato proprio sulle analisi di Gramsci e sulla sua teoria della funzione egemonica, da conquistare prima nella società e nell’organizzazione della cultura per poterla poi esercitare nello Stato, che capovolge gli schemi delle rivoluzioni condotte dall’alto con un atto giacobino o con la presa del Palazzo d’inverno, per calarle successivamente nel corpo sociale. Praticabile ovviamente a due condizioni: che sia presente sulla scena un partito rappresentativo del lavoro dipendente ed eterodiretto, oggi delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo; e che nell’azione politica non si spezzi il nesso tra rivoluzione e riforme, tra sociale e politico, tra prospettiva e concretezza.

Diversamente, la politica, intesa come azione per trasformare il mondo, e quindi posta al vertice delle attività umane, retrocede nel migliore dei casi a politicantismo o a puro verbalismo. Il nodo da sciogliere non è dunque quello del gradualismo, ma quello della direzione di marcia. Per essere più precisi, oggi si tratta di decidere se, facendo asse sul lavoro, s’intende porre al centro dell’azione politica il programma di profonde riforme sociali ed economiche previsto dalla Costituzione. Oppure se a quel programma si vuole chiudere definitivamente la porta, cambiando la Costituzione.

Concepita in un momento drammatico della nostra storia, la Costituzione del ’48, non parla del passato, ma del presente e del futuro degli italiani. Ed è una bussola moderna proprio perché, come è stato giustamente è osservato, ponendo il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani dimostra la sua inesauribile vitalità in quanto sancisce «una dimensione complessa dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza»16. E dunque tutela non solo consolidati diritti, come quelli degli operai Fiat, ma è aperta all’affermazione di diritti nuovi, che scaturiscono dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla condizione umana del nostro tempo, e riguardano perciò le generazioni giovani, in preda alla precarietà e prive di prospettive. Come è dimostrato dal fatto, ed è solo un esempio, che per l’accesso alla conoscenza reso possibile da internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi permangono condizioni di disuguaglianza e di esclusione.

In altre parole, le condizioni di vita della nostra epoca reclamano a piena voce un’uguaglianza reale e non retorica, che la nostra Costituzione sancisce. È certo che, come la storia ha dimostrato, la liberazione del lavoro non si potrà ottenere se non si comprende la differenza tra uomo e donna come pure la complessità della figura sociale di ciascuno e di ciascuna, andando oltre la stessa condizione materiale. Ma dalla disuguaglianza tra chi possiede i mezzi finanziari, di produzione e di comunicazione, e chi dispone solo delle proprie capacità corporee, fisiche e intellettuali, non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutte e di tutti davanti la legge.

Chi obietta che il fondamento del lavoro oggi non ha senso perché è finita la stagione del fordismo e dell’operaio-massa, evidentemente ha in testa un’unica idea fissa del lavoro come categoria immutabile che non va oltre la catena di montaggio, e non fa i conti, oltre che con la dittatura del capitale sul lavoro, con una rivoluzione della scienza e della tecnica che non ha abolito il lavoro, ma ha rivoluzionato il modo di lavorare, senza rivoluzionare però il diritto di proprietà, come la Costituzione prevede. Per cui, il vero problema, come del resto è evidente dagli svolgimenti drammatici della crisi, non è la cancellazione del fondamento del lavoro, bensì la sua rielaborazione nelle nuove condizioni, applicando al tempo stesso le norme previste dal titolo III.

In conclusione, la Costituzione è un progetto vivo e vitale, di cui è necessario liberare tutte le potenzialità per uscire dalla crisi in Italia e per contribuire a dare una diversa dimensione all’Europa. Un progetto che parla alle nuove generazioni, alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro tempo, qualunque sia la forma in cui si manifesta (o non si manifesta) la loro attività lavorativa, e indipendentemente dalle norme giuridiche in cui è regolato (o non è regolato) il loro rapporto di lavoro. In sintesi, la Costituzione è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa: di cui gli italiani oggi possono disporre grazie all’apporto decisivo di un grande politico e statista come Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, secondo la definizione di Gianni Ferrara. Dunque, il progetto per cambiare lo stato delle cose presenti esiste, ed è costato tanti sacrifici e dure lotte. Occorre recuperarlo, e farne oggi la stella polare che illumini il cammino, in un momento tra i più oscuri della nostra storia.

Il testo completo di note a pie’ di pagina è scaricabile qui: Paolo Ciofi, Palmiro Togliatti e la Costituzione:e altre relazioni al convegno sono scaricabili dal sito Futura umanità.

«Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana», per Editori Riuniti. Una conversazione che apre mille interrogativi e intreccia i fili di quarant'anni di storia».

il manifesto, 27 dicembre 2013

Nel 1994, Vit­to­rio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più alte della sto­ria della sini­stra in Ita­lia, si sedet­tero davanti a un regi­stra­tore e comin­cia­rono a rac­con­tare – o meglio, Vit­to­rio Foa invitò Natoli a rac­con­tare, accom­pa­gnan­dolo con il con­trap­punto di domande e com­menti mai intru­sivi, sem­pre rifles­sivi, in un intrec­cio dia­lo­gico di con­di­vi­sione e di diver­sità. Ave­vano rispet­ti­va­mente 84 e 81 anni, da tempo ave­vano rio­rien­tato l’impegno poli­tico di una vita verso la ricerca sto­rica e la rifles­sione poli­tica, con esiti memo­ra­bili, dalla Geru­sa­lemme riman­data di Foa all’Anti­gone e il pri­gio­niero di Natoli; ma la con­ver­sa­zione fra i due non è una sem­plice rivi­si­ta­zione del pas­sato, bensì un ragio­na­mento a tutto campo che illu­mina le con­trad­di­zioni del presente.

Come ogni sto­ria orale che si rispetti, infatti, anche que­sta con­ver­sa­zione è un docu­mento sul pas­sato, ma è soprat­tutto un docu­mento del pre­sente: il rac­conto — Vit­to­rio Foa / Aldo Natoli, Dia­logo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repub­bli­cana (Edi­tori Riu­niti, pp. 303, euro 23) — comin­cia con l’infanzia mes­si­nese di Aldo Natoli, e ne per­corre tutta la vita fino al momento del col­lo­quio, finendo per farci capire molte cose sulla crisi morale prima che poli­tica, che la sini­stra attra­ver­sava allora e che è andata peg­gio­rando fino ad oggi.

Abbiamo vis­suto un buon quarto di secolo ormai assil­lati da lea­der che, dopo una vita pas­sata fra una carica di par­tito e l’altra, ci spie­ga­vano che non erano mai stati comu­ni­sti e che quella era una sto­ria di orrori che non li riguar­dava. Ci sono voluti dei non comu­ni­sti come Vit­to­rio Foa (e penso anche a certe cose di Bob­bio dopo l’89) per resti­tuire a que­sta sto­ria l’ascolto e il rispetto senza i quali non capiamo non solo la sini­stra, ma tutta l’Italia moderna. E ci vogliono comu­ni­sti come Aldo Natoli, che que­sta sto­ria l’hanno vis­suta fino in fondo con par­te­ci­pa­zione cri­tica e appas­sio­nata, per resti­tuir­cene il senso soprat­tutto morale. Ascol­tare que­ste pagine (arric­chite da accu­rate note e pro­fili bio­gra­fici dei cura­tori, Anna Foa e Clau­dio Natoli) riem­pie di orgo­glio per­ché abbiamo avuto fra noi com­pa­gni di que­sta gran­dezza, di smar­ri­mento (che cosa resta senza di loro?), di rim­pianto per non averli ascol­tati abba­stanza, di pena per averli lasciati soli.

Come ogni serio lavoro di memo­ria, que­sta inter­vi­sta intrec­cia due punti di vista –l’intervistato e l’intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per esem­pio. Par­lando dell’8 set­tem­bre, Foa domanda: «Come alcune cose le vede­vamo allora e come è cam­biata la nostra testa dopo qua­ranta anni di pace?». Quello che mi col­pi­sce è in primo luogo l’uso del plu­rale: Foa si mette den­tro que­sta sto­ria che in modi insieme simili e diversi è anche la sua. Come sem­pre nella gram­ma­tica dell’intervista, è ciò che i due dia­lo­ganti hanno in comune che rende l’intervista pos­si­bile e com­pren­si­bile, ma è la dif­fe­renza che esi­ste fra loro che la rende interessante.

E poi, attra­verso il dia­logo con Natoli, Foa cerca di capire non solo come «è cam­biata la testa» del suo inter­lo­cu­tore, ma anche come è cam­biata la sua: le domande che l’intervistatore rivolge al suo inter­lo­cu­tore le rivolge, ine­vi­ta­bil­mente, anche a se stesso. Natoli, a sua volta, coglie l’opportunità – direi quasi, come in tante delle inter­vi­ste migliori, rac­co­glie la sfida – per ripen­sarsi. Non intende but­tare a mare que­sta sto­ria, non solo sua, ma non fa apo­lo­gia né di se stesso né del par­tito. Ogni volta, davanti a un inter­lo­cu­tore che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discus­sione, spiega le sue incer­tezze, i dubbi, gli errori.

Ne viene fuori, fra l’altro, una sto­ria della sini­stra molto più arti­co­lata, molto più sfu­mata e mobile di quanto non ce l’abbiano rac­con­tata tante volte. Per esem­pio: a pro­po­sito del patto Hitler-Stalin del 1939, Natoli ricorda di averlo ini­zial­mente soste­nuto come una neces­sità ine­vi­ta­bile – ma ricorda anche le discus­sioni dram­ma­ti­che che por­ta­rono a scis­sioni e scon­tri nel gruppo romano, finendo per lasciarlo iso­lato e in mino­ranza, «in una situa­zione che in qual­che modo con­fi­nava con la dispe­ra­zione»; e rac­conta di avere cam­biato posi­zione dopo la spar­ti­zione della Polo­nia e dopo che l’Internazionale arrivò a dire che i nazi­sti non erano il nemico prin­ci­pale. Foa, a sua volta ripen­sando al se stesso di allora, insi­ste sulla dimen­sione della sog­get­ti­vità, che è poi alla radice della scelte poli­ti­che: «L’impressione che ho avuto io è che i comu­ni­sti, cioè voi, pur appro­vando il Patto, non osten­ta­vate que­sta appro­va­zione, cioè che l’antifascismo, pro­fondo, era domi­nante nel vostro ambito. Mi sba­gliavo o ero nel giu­sto, secondo te?». Qui mi col­pi­sce, intanto, il «voi comu­ni­sti» – più tardi, par­lando della Resi­stenza, diventa, come abbiamo visto «noi». C’è in que­sto uso dei pro­nomi tutta la com­pli­cata sto­ria dei rap­porti interni alla sini­stra, che nell’intervista si espli­cita poi nel rac­conto sul ’48 e il Fronte popo­lare. Ma c’è anche la trac­cia di una dif­fe­renza che si fa comun­que ascolto e rimane rispetto: invece di accu­sare i comu­ni­sti di com­pli­cità con Hitler, Foa (allora azio­ni­sta, poi socia­li­sta) scava sotto la super­fi­cie e ascolta da com­pa­gno. E Natoli: «Io que­sto lo sen­tivo pro­fon­da­mente. Per cui den­tro di me ero con­vinto che gli accordi del Patto non dove­vano riper­cuo­tersi sugli orien­ta­menti non solo teo­rici ma anche pra­tici del movi­mento comu­ni­sta inter­na­zio­nale», cioè sull’antifascismo.

La stessa com­ples­sità, lo stesso scavo nelle ragioni e torti di allora, accom­pa­gna tutto il rac­conto di Natoli, dalla svolta di Salerno all’Ungheria, senza nascon­dere il suo con­senso di volta in volta alle scelte del par­tito, eppure dando conto di come que­sto con­senso si faceva sem­pre più fati­coso e la sua rela­zione col par­tito sem­pre meno age­vole. Non ci sono epi­fa­nie, svolte bru­sche: è un pro­cesso gra­duale di cam­bia­mento, e non è nep­pure un pro­cesso lineare – per esem­pio, Natoli non esita a ricor­dare di avere difeso il golpe comu­ni­sta a Praga nel 1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo cri­tico, lo vedevo in senso posi­tivo, a quel tempo io ero asso­lu­ta­mente ligio a quel qua­dro stra­te­gico». Lo spiega col clima di guerra fredda, con il mon­tare dell’anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un errore; ma non per que­sto nega di avere avuto torto. Ma poi si trova a con­durre la sua bat­ta­glia più memo­ra­bile, quella con­tro il «sacco di Roma» negli anni ’50, pra­ti­ca­mente da solo, tra il disin­te­resse della diri­genza nazio­nale; o prende gra­dual­mente le distanze da una linea del par­tito che non coglieva le capa­cità di rin­no­va­mento del capi­ta­li­smo e viveva nell’illusione di una suo immi­nente crollo. E, natu­ral­mente, l’Ungheria, quando la distanza comin­cia a farsi incolmabile.

Seguono gli anni delle bat­ta­glie interne al par­tito, Ingrao, Amen­dola, la sco­perta del Viet­nam come modello anche di auto­no­mia poli­tica rispetto all’Urss e alla Cina, l’incontro con la Cina. E di nuovo il dia­logo con Foa, la con­di­vi­sione e le dif­fe­renza. Foa ricorda che «la Rivo­lu­zione cul­tu­rale, per noi, anche per me, solo in parte, è parsa una ban­diera» (e di nuovo il «noi», ma arti­co­lato in un «me»); e Natoli con­clude che «la Rivo­lu­zione cul­tu­rale come tale fini­sce alla fine del 1968 con l’intervento dell’esercito… Alla fine del 1968 il movi­mento di base, che era la carat­te­ri­stica fon­da­men­tale della Rivo­lu­zione cul­tu­rale, viene represso con l’esercito». Ma la Cina resta uno dei suoi inte­ressi prin­ci­pali anche dopo le scon­fitte, i cam­bia­menti, le delu­sioni: «non sono riu­scito a distac­car­mene». E poi la nascita del Mani­fe­sto – rivi­sta, gruppo poli­tico, gior­nale – spe­ranze, crisi, con­di­vi­sioni, dis­sensi, separazioni….

I due inter­lo­cu­tori di que­sto libro sono stati anche pro­ta­go­ni­sti della sto­ria di que­sto gior­nale. Faremmo bene a ricordarcene

La Sinistra europea,l’organizzazione che rag­gruppa la mag­gio­ranza delle forze comu­ni­ste e rosso-verdi del Vec­chio con­ti­nente, ha un candidato per le elezioni del presidente della Commissione europea.

Il manifesto, 18 dicembre 2013

Il dado è tratto. Dall’altro ieri il par­tito della Sini­stra euro­pea (Se) ha un can­di­dato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea: il 39enne lea­der della greca Syriza, Ale­xis Tsi­pras. L’organizzazione che rag­gruppa la mag­gio­ranza delle forze comu­ni­ste e rosso-verdi del Vec­chio con­ti­nente ha chiuso dome­nica il pro­prio con­gresso a Madrid, indi­vi­duando nel poli­tico elle­nico la figura che dovrà con­durla nella sfida elet­to­rale del pros­simo mag­gio. La scelta della Se – che segue quella del Par­tito socia­li­sta euro­peo (Pse), che ha desi­gnato il tede­sco Mar­tin Schulz – è impor­tante, per­ché aiuta a dare un signi­fi­cato dav­vero «euro­peo» all’appuntamento elet­to­rale di primavera.

In realtà, a mag­gio i cit­ta­dini non eleg­ge­ranno diret­ta­mente il suc­ces­sore del con­ser­va­tore por­to­ghese José Manuel Bar­roso: le norme «costi­tu­zio­nali» dell’Unione euro­pea non pre­ve­dono un sistema pre­si­den­ziale. Il numero uno della com­mis­sione – l’esecutivo dell’Ue – è scelto dai capi di governo riu­niti nel con­si­glio euro­peo, che devono obbli­ga­to­ria­mente tenere conto delle ele­zioni del par­la­mento euro­peo. L’eurocamera di Stra­sburgo ha un ruolo non secon­da­rio, per­ché detiene un potere d’investitura: se non con­vince la mag­gio­ranza asso­luta dei depu­tati euro­pei, il pre­si­dente inca­ri­cato dai lea­der nazio­nali deve farsi da parte, e si rico­min­cia da capo. Almeno poten­zial­mente, si tratta di rela­zioni poli­ti­che non così lon­tane da quelle vigenti in una (pur imper­fetta) demo­cra­zia rappresentativa.

Natu­ral­mente, oltre al pre­si­dente ci sono i sin­goli com­mis­sari (i «mini­stri» della Ue), che ven­gono desi­gnati da cia­scun governo nazio­nale: una pro­ce­dura che di fatto impe­di­sce che la com­mis­sione di Bru­xel­les sia poli­ti­ca­mente omo­ge­nea. L’europarlamento ha comun­que un’ulteriore carta da gio­care, per­ché deve con­ce­dere la «fidu­cia» anche alla com­mis­sione nel suo con­giunto: nel caso in cui la sua com­po­si­zione fosse pale­se­mente in con­tra­sto con l’indirizzo poli­tico emerso dalle urne, i depu­tati di Stra­sburgo potreb­bero negargliela.

Den­tro que­sta com­plessa archi­tet­tura isti­tu­zio­nale, lo spa­zio per un’autentica lotta poli­tica è cer­ta­mente molto ridotto, ma la Se appare inten­zio­nata ad occu­parlo. Dalla tri­buna del con­gresso di Madrid il lea­der di Syriza ha sot­to­li­neato la dop­pia sfida che attende la Se: lot­tare con­tro le poli­ti­che di auste­rità, «minac­cia per i popoli d’Europa», e con­tro l’estrema destra, «un peri­colo per la demo­cra­zia». Pro­prio secondo l’esempio della Gre­cia, dove la for­ma­zione di Tsi­pras con­tra­sta sia il governo di «grande coa­li­zione» fra i con­ser­va­tori del pre­mier Anto­nis Sama­ras e i socia­li­sti, sia i neo­na­zi­sti di Alba dorata. Fra le idee-forza della Se, il neo­can­di­dato ha ricor­dato la tra­sfor­ma­zione della Banca cen­trale di Fran­co­forte in un pre­sta­tore di ultima istanza per gli stati Ue (come le nor­mali ban­che cen­trali), la lotta con­tro l’elusione fiscale, un «new deal» per com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione e una diversa gestione della crisi dei debiti sovrani. Nella piat­ta­forma finale votata dai dele­gati com­pa­iono anche il «no» al Trat­tato di libero scam­bio Ue-Usa e alla pri­va­tiz­za­zione delle risorse natu­rali, e l’introduzione del diritto al refe­ren­dum su scala europea.

Men­tre la nomina di Tsi­pras non ha incon­trato osta­coli, la rie­le­zione alla pre­si­denza della Se del fran­cese Pierre Lau­rent (segre­ta­rio del Pcf) ha sca­te­nato malu­mori interni. Dovuti a que­stioni che di euro­peo hanno pochis­simo, essendo tutte interne alla sini­stra tran­sal­pina: il Par­tie de gau­che dell’ex can­di­dato pre­si­den­ziale Jean-Luc Mélen­chon ha annun­ciato la pro­pria auto­so­spen­sione dall’organizzazione con­ti­nen­tale in pole­mica con la ricon­ferma di Lau­rent. Motivo: il Pcf e il movi­mento di Mélen­chon sono ai ferri corti per le muni­ci­pali del pros­simo marzo, causa l’alleanza dei comu­ni­sti con i socia­li­sti del pre­si­dente Hol­lande. Un «effetto col­la­te­rale» delle assise di Madrid, che rischia di ren­dere arduo il cam­mino della Se in uno stato-chiave come la Fran­cia. Come se già non bastasse, a com­pli­care la mis­sione di Tsi­pras, la debo­lezza strut­tu­rale della Se nei Paesi dell’Europa centro-orientale, dove, con la sola ecce­zione della Repub­blica ceca, rac­co­glie per­cen­tuali da pre­fisso tele­fo­nico o è com­ple­ta­mente assente. Senza dimen­ti­care, ovvia­mente, l’Italia, dove la lista col­le­gata alla Se dovrà fare i conti con lo sbar­ra­mento al 4%.

«Renzi è il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai fondamenti la civiltà occidentale modellata sul paradigma del liberismo finanziario». FondazionePintor.net, dicembre 2013

Occorrerà tornare con attenzione sul significato e sulle conseguenze della clamorosa scalata di Matteo Renzi al vertice del Pd attraverso il plebiscito delle primarie. Intanto però una cosa è certa. Renzi è senza dubbio il prodotto del fallimento di una classe dirigente proveniente dal Pci e in parte dalla Dc, che non è stata in grado di costruire e di praticare un progetto per l’Italia e per l’Europa nella fase della globalizzazione capitalistica, e nel pieno di una crisi che scuote dai fondamenti la civiltà occidentale, modellata sul paradigma del liberismo finanziario americano.
Ma il nuovo segretario fiorentino è anche un frutto maturo della Bolognina, quando Occhetto sciolse il Pci tagliando le radici del movimento operaio e cancellando un’intera esperienza storico-politica su cui si è costruita la Repubblica democratica. Cosicché, invece di rinnovare la sinistra e di promuovere innovazione, ha prodotto subalternità alla cultura liberista e ai poteri dominanti nell’economia e nella società, separando le nuove forme della politica dalla base operaia e popolare, abbandonata alla deriva senza rappresentanza e rappresentazione. Non è difficile vedere che tra i due fenomeni vi è un intreccio.
Come un lampo che illumina la scena, Reichlin ha dato un giudizio da tenere sempre a mente, e che non mi stanco di ripetere: “abbiamo confuso il liberismo con il riformismo”. È la dichiarazione esplicita della subalternità del Pd, che nella mutazione genetica che lo ha allontanato anche dalla socialdemocrazia e persino dalla sinistra - come testimonia il nome stesso - ha generato una crisi di rappresentanza oggi diventata esplosiva e un modo di fare politica, capovolto nelle sue finalità, che con il Pci nulla ha a che fare. Non per caso Occhetto ha dichiarato al Mattino che Renzi è un suo legittimo erede.
Almeno fino a Berlinguer, il Pci si proponeva di trasformare la società sulla via costituzionale della democrazia, dell’uguaglianza e della libertà, e dell’accesso della classe lavoratrice alla direzione dello Stato. Quelli che a torto si sono dichiarati suoi eredi, da Occhetto a D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, avevano l’obiettivo massimo di amministrare quel che passa il convento, senza alcun disegno strategico alternativo. Ma neanche questo sono stati capaci di fare, e alla fine sono apparsi come gli immobili conservatori dello statu quo.
Ora, di fronte a un dato di fatto inoppugnabile, e alla cancellazione del Pci dal sistema politico da più di vent’anni, che senso ha presentare da più parti, con grande frastuono di tromboni e di trombette, la vittoria di Renzi come una resa dei conti definitiva con i comunisti? Evidentemente, non si tratta di un semplice fraintendimento, e neppure della constatazione ovvia che il vincitore proviene dalla componente ex Dc, o che l’appeal di D’Alema è sceso sotto i tacchi. C’è qualcosa di più profondo che muove la classe dirigente del capitalismo italiano e i media ad essa connessi, di cui occorre indagare le motivazioni e le finalità. Non mi riferisco solo al fatto che le Tv e la stampa dominante - a cominciare da la Repubblica nonostante l’avverso parere di Scalfari - hanno spinto in tutti i modi il compulsivo pifferaio di Firenze. In tanti acclamano Renzi come il nuovo eroe che schiaccia l’idra del comunismo. È una novità che dà da pensare, soprattutto se viene interpretata come un’indicazione programmatica per il presente e per il futuro. Qualche esempio ci aiuta a capire. “Il Pci non esiste più”. Con le primarie del Pd “si è consumato un evento epocale per la politica italiana: finalmente è stato chiuso il Pci”, annuncia trionfante in prima pagina il Giornale diretto dal condannato e graziato Salustri. Quindi, viva Berlusconi (anche lui condannato ma non graziato), che finalmente con il sindaco fiorentino ha debellato il suo nemico storico. Davvero un risultato epocale.
Anche il Corriere della sera applaude per il felice decesso, ma con i necessari distinguo, come si addice a un celebrato serbatoio del pensiero della borghesia una volta illuminata. Il Pci morto e sepolto? Non proprio, sottilizza il prof. Panebianco, a quanto pare esperto anche in necrologia: meglio dire “forse agonizzante”. Sebbene lui, in tutta sincerità, preferirebbe scolpire un bell’epitaffio sulla tomba del morente. Ma per giungere a questo esito, precisa il politologo-necrologo, Renzi deve agguantare “l’ oro del Pci”. Che non è il famoso oro di Mosca, bensì il patrimonio immobiliare del vecchio partito, ossia le sedi dei circoli e le case del popolo costruite con le mani e con il cuore da milioni di donne e di uomini. In tal modo il becchino del Pci dovrebbe prosperare con il patrimonio di chi il Pci l’ha costruito.
Se le parole hanno un senso, questa sarebbe a dir poco appropriazione indebita. Comunque, una bella lezione di moralità politica, messa a punto da un addottorato ed esperto professore. Le variazioni sul tema sono infinite, essendo il Corriere ricco di benpensanti teste anticomuniste, a cominciare dal capostipite Mieli. Così, se Battista è contento perché il noto pensatore e scienziato della politica Oscar Farinetti prende il posto di Enrico Berlinguer, e Di Vico ci spiega che la strumentalizzazione del movimento dei forconi altro non è se non “la vecchia tattica del Pci di contrapporre simbolicamente Paese legale e Paese reale”, un Cazzullo di giornata tira le somme: “sembra dissolversi una volta per tutte il mito del comunismo italiano, per cui un’ideologia criminale diventava per l’élite della penisola giusta o comunque nobile”.
Quando la storia ha tanti buchi come un colabrodo, fa brutti scherzi. E allora ci si dimentica che il Pci in Italia, per quanti errori possa aver commesso, ha sempre combattuto per la democrazia e la libertà, per i diritti dei lavoratori e per l’uguaglianza sostanziale; che in Italia i comunisti non hanno incarcerato nessuno, al contrario il loro capo Antonio Gramsci è stato fatto morire in carcere dal fascismo; che non hanno attentato alla vita dei loro avversari politici, al contrario Palmiro Togliatti ha subito un attentato che lo ha ridotto in fin di vita. Non sono stati i comunisti italiani a incendiare le Camere del lavoro, e dopo la Liberazione a sparare contro i contadini a Portella della Ginestra e gli operai a Reggio Emilia. O a organizzare trame eversive e il terrorismo, messo in atto fino alla esecuzione dell’operaio comunista Guido Rossa, proprio per impedire che i comunisti potessero governare e cambiare l’Italia secondo i principi della democrazia costituzionale. Diciamolo con chiarezza, senza tema di smentite.
Tutte le principali conquiste sociali, civili e politiche ottenute in Italia a cominciare dalla Costituzione - che oggi si vorrebbero rovesciare nel loro contrario - non sarebbero state possibili senza la presenza e lotta dei comunisti. Il Pci ha dato dignità, rappresentanza e forza politica agli operai, ai lavoratori “del braccio e della mente”, alle donne, ai giovani e anche agli anziani: a tutti coloro che deprivati del potere economico e politico hanno lottato per un avanzamento di civiltà costruendo un vasto sistema di alleanze.
Oggi, di fronte a una crisi e a politiche regressive che distruggono la vita di tante persone e l’intero ambiente in cui la vita si riproduce, le parole di Enrico Berlinguer ci appaiono di sconcertante attualità: “La difesa del potere d’acquisto dei salari per il sindacato costituisce un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe, e per il nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile per qualificare un nuovo tipo di sviluppo generale dell’economia italiana”. Per lui era chiaro che bisognasse aprire la strada a una civiltà più avanzata nel cuore dell’Europa, che superasse il modo di produzione capitalistico fondato sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’emarginazione di strati sempre più ampi di popolazione, liberando nel contempo lo Stato dall’occupazione dei partiti e combattendo i privilegi ovunque annidati. Tanto più che in mancanza di un’alternativa al potere della classe dominante la democrazia degrada e si corrompe, convertendosi in oligarchia. E la barbarie è alle porte. Un tema che oggettivamente si ripropone oggi, sebbene sia stato cancellato dal sistema politico il soggetto della trasformazione, e il lavoro, frantumato e diviso, non abbia alcun peso nella configurazione della politica. Mentre nella società monta il malessere, il disincanto e la rabbia che non trovano sbocchi, e affiorano qua e là pessimi segnali di squadrismo fascista. Sotto la dittatura del capitalismo finanziarizzato globale, che intende sostituire alla centralità del lavoro la centralità dell’impresa in ogni ambito della vita, stiamo andando verso una regressione storica.
Una Restaurazione, che però non è un semplice ritorno al passato, giacché la dittatura del capitale ha bisogno in Italia di una cospicua modernizzazione che elimini vaste sacche di parassitismo e di inefficienze del sistema, e di una controriforma istituzionale verso il decisionismo presidenzialista. Ma che più in generale, per realizzarsi compiutamente, deve impiantare una sofisticata costruzione ideologica, che cancelli la discriminante di classe tra capitale e lavoro, e dunque anche nell’immaginario sopprima la sua antitesi. Vale a dire le lavoratrici e i lavoratori postfordisti del nostro tempo, figli della rivoluzione digitale e scientifica, politicamente organizzati come soggetto libero e autonomo. Il lavoro che si organizza e si rappresenta in forma politica nella sua libertà e autonomia: è questa fondamentale conquista storica del Novecento che vogliono definitivamente eliminare in Italia e in Europa, senza il rischio di possibili ricadute e riviviscenze. Insomma, una sepoltura tombale per l’eternità.
Precisamente a questo scopo serve l’abbattimento della Costituzione, pericoloso riferimento ideale e simbolico, oltre che progetto di un possibile cambiamento. E poiché i comunisti italiani sono quelli che più si sono avvicinati a una trasformazione in senso socialista di una società capitalisticamente avanzata per una via democratica e costituzionale diversa dal modello sovietico e dalla socialdemocrazia, questo spiega il rigurgito di anticomunismo postdatato ma anche preventivo e a futura memoria, specificatamente italiano e non solo berlusconiano, che è stato rilanciato in occasione del plebiscito per Renzi. Dei comunisti italiani va cancellata dunque la storia e anche la memoria: perché a nessuno venga in mente che ci si possa organizzare e lottare in forme democratiche e di massa per un sistema economico diverso e per una società solidale di diversamente uguali, in cui il massimo profitto non sia la stella polare e l’economia venga posta al servizio dell’uomo e non viceversa, e in cui buongiorno voglia dire davvero buongiorno. Quello che ci fanno sapere, a scanso di equivoci risuscitando la gogna anticomunista, è che dal capitalismo non si può uscire, e che questa società ingiusta e insostenibile non si può rovesciare. Non solo: il governo - ci dicono - è cosa nostra, di noi che stiamo sopra. Voi che state sotto non avete voce in capitolo, e lì dovete restare. Questa è la sostanza. E queste sono le questioni di fondo che emergono dopo la mirabolante ascensione del segretario fiorentino.
Prologo a

Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra (Donzelli) che è molto più di quanto promette. Non solo esperienza di vita, dalla giovinezza alla maturità, di un comunista attraverso le stagioni del suo partito, ma profonda riflessione sul mondo d'oggi, inganni e possibili destini.

Se avessi vent’anni, oggi, andrei in piazza. Passerei le mie giornate a organizzare le lotte popolari. Così facevo del resto all’epoca dei miei vent’anni. Poi, insieme a tanti della mia generazione, ci siamo imborghesiti e oggi ci sembrerebbe demodé ripercorrere le gesta giovanili. Eppure non mancherebbero i motivi e le necessità. Il modo in cui il mondo si è trasformato non piace a molti di noi, di certo a chi non ha venduto l’anima; eppure non possiamo dirlo con certezza perché in parte ne portiamo la responsabilità. E lo vediamo negli occhi dei giovani di oggi, in modo ancora più lancinante in quelli dei nostri figli, quando ci guardano con l’animo sospeso di chi vorrebbe almeno una spiegazione dell’insuccesso. Ma spiegarlo è quasi più difficile che viverlo.
Appartengo a una generazione fortunata. Abbiamo fatto in tempo a conoscere la grande politica, e anzi a succhiarne la linfa vitale proprio nel momento della formazione, traendone l’insegnamento che si potesse plasmare contemporaneamente la nostra vita e l’organizzazione sociale. Non è andata proprio così, ma quella volontà di potenza ci è rimasta dentro per sempre. E intorno ai quarant’anni abbiamo avuto la grande occasione per esercitarla. Siamo entrati nella maturità proprio in quel passaggio d’epoca segnato dal crollo del muro di Berlino e dalla promessa di un mondo nuovo. Quelli impegnati nella politica di sinistra hanno avuto la possibilità di cambiare il paese e le sue città. Ancora di più, quelli che erano stati comunisti – da sempre all’opposizione – hanno avuto la fortuna di poter dimostrare, prima di tutto a loro stessi e poi agli altri, che avevano le capacità di governare meglio delle vecchie classi dirigenti. È stata la grande occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Non solo non siamo riusciti a indirizzare il paese in un tornante nuovo della sua storia, ma non abbiamo saputo impedire che un personaggio inaudito ne prendesse la guida e lo portasse fuori strada. A me è toccato il privilegio di contribuire al governo della capitale, ed è stata l’impresa più appassionante della mia vita, a cui ho dedicato ogni energia. Abbiamo tentato davvero di cambiare Roma, ma non possiamo dire di esserci riusciti. Avremmo dovuto introdurre dei cambiamenti impossibili da cancellare per qualsiasi malgoverno successivo. Le vere riforme sono irreversibili.
La mia generazione ha dunque l’obbligo di stilare un bilancio. Finora lo ha sempre evitato, senza mai spiegare a se stessa e alle generazioni successive le ragioni dell’insuccesso. Non lo ha fatto perché avrebbe voluto dire mettere in discussione quella funzione di comando che ancora presidia, seppure in modo traballante. Una generazione che è stata capace a suo tempo di conquistare il potere sa bene anche come conservarlo.

Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi. Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla globalizzazione irenica, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma. Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di transizione, quando viene meno il vecchio mondo e il nuovo non si sa come sarà.

Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli. Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro, senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani, hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati e non credono agli annunciatori di magnifiche sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia, ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.

Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso, in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.

La nostra è una generazione fortunata, ma - qui bisogna aggiungere - anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao, Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad alimentare una paideia politica, ma c’è stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere diventano la bella presenza e la battuta facile. Il Beruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i giovani.

Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e loro possono venire non solo rielaborazioni del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono.

Esse evitano accuratamente i temi d’attualità. La concretezza degli argomenti viene dall’esperienza militante – sia nei ricordi di ieri sia nei dilemmi di oggi – e si cerca di metterla a confronto diretto con la ricerca teorica. Sono pensieri militanti, ma solo nella postfazione vengono confessati rivelandone l'intima tensione tra la civetta hegeliana che si alza in volo per comprendere ciò che è stato e la sentinella di Isaia che deve ancora annunciare la fine della notte. Sono pensieri che cercano una relazione inattuale tra teoria e pratica. Qui se ne discute, ma le soluzioni si trovano solo nell’esperienza collettiva. Il Politico è il proprio tempo appreso nell’azione. Chi meglio di un militante può saperlo?

Nel torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle sconfitte. Solo così si prendono le decisioni che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece il lato delle ambizioni, perché possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da elaborare, prima di tornare a vincere.

Avendo assunto questa postura, l’andamento del testo è risultato anomalo. Comincia con una storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della nostra generazione. Per poi mettere sotto osservazione il suo contributo a quel ciclo politico italiano che ha deluso le aspettative di una seconda Repubblica. E tuttavia non sono stati solo limiti soggettivi, ci si è messo contro un ciclo più ampio della storia mondiale che è generoso chiamare liberista, poiché la crisi lo svela come grande Inganno. Per ripartire bisogna provare a vedere il mondo a rovescio, esercitandosi a ribaltare le politiche dominanti, ad esempio per i paesaggi, i lavori e i saperi. Ma tutto ciò sarà possibile solo riscoprendo la dignità della politica, afferrando le occasioni che il tempo attuale ci offre, con la speranza di superare la penuria di una sinistra senza popolo.

Roma, settembre 2013

Indice

I. Una storia a ritroso
1. Collasso
2. Il bilancio di una generazione
3. Due dissolvenze dall’Ulivo
4. La fede nuda
5. Identità per sottrazione
6. Il «populismo» comunista
7. L’obsolescenza del «partito nuovo»
8. La svolta e le sue alternative
9. L’eredità di Berlinguer
10. Dopo il compromesso storico
11. Le aspettative dei moderati
12. Innovazione e conformismo
13. Mille rivoli o modello di sviluppo

II. La divagazione della seconda Repubblica
1. La prima Repubblica non è mai finita
2. Le lunghe macerie dell’89
3. Partiti in franchising
4. Riformatore ottimista o pessimista
5. Troppe norme, nessuna decisione
6. Umiltà costituzionale

III. Teoria e pratica dell’Inganno
1. Il destino dell’Occidente
2. Il discorso capitalistico
3. La decisione perduta

IV. Alla rovescia del mondo
1. Paesaggi italiani
2. Le chiamiamo ancora città
3. Utopie-eterotopie
4. Le mura e la piazza
5. Luoghi del saper fare
6. C’eravamo dimenticati della rendita
7. Capitalisti no-global e postcomunisti anglosassoni
8. Potenza e potere del lavoro
9. Breve storia dell’ingegno italiano
10. Le disuguaglianze della conoscenza
11. Salvare il merito dalla meritocrazia
12. Le istituzioni della conoscenza

V. Sulla dignità del Politico
1. Oltre l’irrequietezza
2. La dignità costituente
3. Non è un tempo senza politica
4. Fino a quando sinistra senza popolo?

Postfazione. La civetta e la sentinella

Sarà il primo democratico a guidare la città dopo vent’anni. Ha ottenuto una vittoria schiacciante grazie a una campagna elettorale contro le disuguaglianze e l’emarginazione. Internazionale n. 1025, 8 novembre 2013; dal N

ew York Times

Il 5 novembre Bill de Blasio, un uomo che è riuscito a trasformarsi da funzionario quasi sconosciuto di un oscuro ufficio cittadino a interprete della frustrazione di una città pronta a una nuova età dell’oro, è stato eletto sindaco di New York. La sua vittoria schiacciante, dai distretti operai di Brooklyn alle aree peri- feriche del Queens sudorientale, è un segnale chiaro: gli elettori della più grande metropoli degli Stati Uniti respingono con decisione lo stile duro e vicino al capitali- smo finanziario del governo cittadino degli ultimi vent’anni e chiedono una netta virata a sinistra.

De Blasio, 52 anni, democratico, difensore civico di New York, ha sconfitto l’ex presidente dell’azienda cittadina dei trasporti Joseph J. Lhota. La sua vittoria, la più schiacciante nella corsa a sindaco dal 1985, quando Edward I. Koch vinse con un margine di 68 punti, legittima inequivocabilmente de Blasio a seguire il suo programma di sinistra.

“Cari concittadini, oggi avete detto con fermezza che volete un cambio di rotta per questa città”, ha detto ai suoi elettori durante la grande festa a Park slope, nel quartiere di Brooklyn, dove i suoi figli adolescenti hanno ballato sul palco. De Blasio, che ha origini italiane, ha ringraziato la folla in inglese, in spagnolo e perfino con qualche parola di italiano. “Nessuna esitazione: le persone di questa città hanno scelto una strada progressista e stasera siamo pronti a metterci in marcia, insieme”.

Al di là del curriculum formidabile del candidato, la vittoria di de Blasio è il trionfo di un messaggio populista in una campagna elettorale che era diventata un referendum su un’intera epoca, quella cominciata con Rudolph W. Giuliani e finita con Michael R. Bloomberg, rieletto sindaco per tre volte.

Durante la sua corsa de Blasio ha messo in ombra gli avversari canalizzando la crescente frustrazione dei newyorchesi su temi come la disuguaglianza, la politica di sicurezza troppo aggressiva e la mancanza di alloggi a prezzi ragionevoli, e affermando che la città non deve lasciare indietro nessuno. Come forse nessuno prima di lui, ha puntato sulla sua famiglia multirazziale per comunicare con un elettorato sempre più vario, appassionando gli elettori con uno spot televisivo in cui compare Dante, il carismatico figlio quindicenne con la sua appariscente capigliatura afro. De Blasio sarà il primo democratico a guidare New York do- po vent’anni. Il suo messaggio ha risvegliato lo scontento più profondo e la voglia di cambiare degli abitanti delle cinque circoscrizioni cittadine.

Pochi errori

Il suo rivale Lhota, vicesindaco durante l’amministrazione Giuliani e con un passato di banchiere a Wall street, è entrato in gara in pompa magna e con molte promesse: un repubblicano moderato, un manager scaltro dalla forte personalità, noto per le sue citazioni dal film Il padrino e i suoi tweet poco sobri. Ma nei suoi comizi si è rivelato monotono e poco convincente. I suoi attacchi a de Blasio, descritto come un “socialista” che avrebbe riempito le strade di delinquenti, non sono sembrati di gran classe. Inoltre, nonostante i suoi legami con il mondo della finanza, è riuscito a racimolare solo 3,4 milioni di dollari di donazioni, un terzo della somma raccolta da de Blasio.

Lhota è stato spiazzato dall’incredibile ascesa del suo avversario. Cresciuto in Massachusetts, fan dei Red Sox, da ragazzo de Blasio ha abbracciato gli ideali di sinistra dei sandinisti in Nicaragua, poi ha sposato una donna che prima si dichiarava lesbica, e non ha mai diretto un’organizzazione di più di 300 persone. Ma il nuovo sindaco, che è in politica da molti anni ed è stato il responsabile delle campagne elettorali di Hillary Clinton e del deputato democratico Charles B. Rangel, ha diretto una macchina disciplinata, che ha commesso pochi errori e non ha dato niente per scontato, contrariamente a Lhota.

Per il giorno del voto de Blasio ha chiamato a raccolta circa diecimila volontari distribuendoli in quaranta punti della città per incentivare l’affluenza alle urne. Lhota è riuscito a reclutare 500 persone, pagate, in nove postazioni. Secondo gli exit poll realizzati dalla Edison Research, gli sforzi per un impegno coordinato sono stati ripagati, facendo guadagnare a de Blasio i voti di elettori di ogni etnia, genere, età, religione, reddito e livello d’istruzione.

Il manifesto, 30 ottobre 2013

Tanti discorsi, tante polemiche, sempre più uguali a se stessi. Da quanto tempo? Almeno da vent'anni, il tempo della lenta agonia della sinistra italiana (e non soltanto). Ora il dibattito impazza - che novità - sulla legge elettorale, con gli ultimi proclami del sindaco di Firenze contro il proporzionale degradato a fabbrica di ammucchiate. E sulla povera Costituzione del '48, non abbastanza sfigurata e tradita. Della quale si intende abbattere il presidio procedurale, come se non fosse proprio quella la prima regola da salvaguardare, come se non incombesse il rischio di creare il più velenoso dei precedenti, che già domani altri potrebbe legittimamente invocare per la spallata definitiva.

Oppure si parla della crisi e delle sue conseguenze rovinose per milioni di individui, che sono poi le rovinose conseguenze di questa forma di società, in cui il pubblico è rigorosamente asservito al privato. Fingendo - tutti: dal presidente della Repubblica all'ultimo cronista - di ignorare che la crisi non è un'anomalia o un incidente di percorso, ma il prodotto più tipico del meccanismo che presiede alla riproduzione del modello. Nella fattispecie, del fallimento di finanziarie e banche specializzate nella speculazione sulla pelle degli ultimi e poi salvate a spese dello Stato, con la più spettacolare socializzazione delle perdite private che la storia del capitalismo ricordi. Se non ci fosse stata, la si sarebbe dovuta inventare questa crisi. Occasione preziosa per assestare alle masse degli ignari e dei subordinati l'ennesimo colpo basso e per inchiodarle alla colpa di «aver vissuto al di sopra delle loro possibilità». Di qui il lasciapassare per altri colossali saccheggi attraverso la leva fiscale, le privatizzazioni, i nuovi tagli al reddito e ai diritti sociali, l'aumento dell'orario di lavoro, l'abbattimento dei diritti e delle tutele, la riduzione dell'occupazione...

Si dice da più parti, simulando pensosa solidarietà, che mai la politica è stata tanto distante dalla vita reale, dai problemi, dalle ansie e dalle difficoltà dei più. E intanto si continua come niente fosse a sfornare minacce travestite da promesse. Ormai la "gente" non sa più che pensare, è sin troppo evidente. C'è chi ancora crede in qualche grillo parlante, che minaccia e lusinga. Chi, nauseato, ha staccato la spina. Chi magari seguita a onorare antiche appartenenze, più per omaggio al proprio super io che per convinzione. Ma è evidente, ogni giorno di più, che non c'è partita. La cosiddetta politica viaggia alla velocità di un accelerato. La crisi - che è sociale e delle istituzioni; morale e della speranza; economica e delle relazioni tra le persone - a quella di un meteorite. Non sono Cassandre quelle che ripetono che stiamo seduti su una santabarbara. È la pura verità. Di questo passo, o salta in aria l'euro o salta in aria direttamente l'Europa. E sarà l'inizio di un domino inarrestabile. E non sono Cassandre nemmeno quelle che mettono in guardia dalla marea montante dei populismi. Il ventre delle nostre società ribolle di pulsioni retrive. La politica ha rinunciato da decenni a civilizzarle. Da quando si è assegnata il compito di aprire la strada al mercato, che della civilizzazione non sa che farsene, anzi la vede come il fumo negli occhi.

Per questo servirebbe, oggi più che mai, uno scatto, un gesto che interrompesse finalmente questa litania di formule stanche e squarciasse il velo dell'ipocrisia. Non è vero che non si sappia che cosa si debba e si possa fare, che cosa milioni di persone desiderano, sentendo che si tratta dei loro diritti violati. Molti professionisti della politica - molti di quelli che si pensano in qualche misura di "sinistra", ovunque collocati - sanno ancora bene di che cosa si tratta. Come lo sapevano i loro predecessori fino a un passato tutto sommato recente, se è vero che questo paese ha saputo malgrado tutto camminare lungo una strada di sviluppo civile sino ai primi anni Ottanta. Contrastato, ma civile. Riuscendo a combattere contro poteri arcaici radicati.

Redistribuire la ricchezza, in primo luogo. Perché l'Italia è ancora molto ricca, solo sempre più ineguale e ingiusta. Tornare a programmare sviluppo, spesa produttiva e investimenti, cosa che solo il pubblico può fare all'altezza delle necessità di un paese in declino. Puntare su un grande programma di piena occupazione per la manutenzione del territorio e delle città, per il rilancio della scuola e dell'università pubblica, della sanità pubblica, dei servizi alla persona, delle infrastrutture materiali e immateriali. E per questo farla finita, una volta per tutte, con lo scandalo assoluto di un gigantesco furto perpetrato a danno del fisco da grandi evasori ed elusori che invece la politica coccola e remunera, pagando con gli interessi (quanto incide il servizio del debito sulla crescita esponenziale del debito stesso?) ciò che sarebbe dovuto in forma di imposte su grandi patrimoni, profitti e rendite. Non è vero che non si sappia tutto questo. Basta frequentare un qualsiasi gruppo, leggere qualsiasi rivista, seguire qualsiasi convegno che la sinistra promuove da anni a questa parte per toccare con mano importanti convergenze di analisi e propositi. E non è nemmeno vero che non lo si potrebbe fare, se lo si volesse. Pur in presenza dei vincoli iugulatori europei, di cui peraltro l'Italia potrebbe imporre la riscrittura. E comunque non è vero che - se ci si battesse con coerenza, a viso aperto per un programma di questo genere - nulla cambierebbe nello stagno della politica italiana. È vero il contrario. Si determinerebbe un terremoto, che spazzerebbe via nani e ballerine, sepolcri imbiancati e profeti di finti tsunami.

Quel che è mancato sinora è il coraggio. E la generosità. Ed è questa la maggiore responsabilità di chi - capopartito, capocorrente o capopopolo - potrebbe dire basta una buona volta a questo stato di cose, e muoversi senza riserve per innescare un processo che basterebbe poco a mettere in moto. Ci sono oggi dieci, forse quindici persone in Italia - inutile fare i nomi - che avrebbero, per ruolo o per virtù personali, la possibilità di produrre una rottura nella tendenza verso l'agonia del paese. Che potrebbero, insieme, trasmettere al paese il messaggio di fiducia e di determinazione di cui c'è urgente bisogno. Mettendo da parte calcoli di bottega e cure personali. E scommettendo sull'immenso patrimonio di forze, di intelligenze, di risorse morali che il popolo della sinistra italiana, oggi disperso e depresso, ancora possiede.

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