loader
menu
© 2024 Eddyburg
«Riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza».

Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2014

La domanda obbligata a Maurizio Landini, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, la poniamo in forma rovesciata.

Perché lei non sarà lo Tsipras italiano?
«Perché mi chiamo Maurizio Landini e faccio il segretario della Fiom e un’esperienza come quella greca non è riproducibile in Italia. Semmai il modello più interessante per la nostra situazione è quello spagnolo di Podemos». Landini ci riceve nel suo studio e fa bella mostra dell’ultimo libro di Papa Bergoglio: «È quello che oggi in Italia fa il discorso più di sinistra. Il problema oggi è proprio quello della scomparsa della sinistra».
Un giudizio drastico.
«Un giudizio vero. La politica si è trasformata in logica di potere e non in strumento di partecipazione. La crisi colpisce tutti, anche i partiti della sinistra se è vero che il 60% non va a votare».

Quindi?
«Occorre andare oltre la sinistra classica perché la storica distinzione “destra-sinistra” rischia di non parlare più alle condizioni vere delle persone, ai loro bisogni materiali. Penso che occorra andare a una sinistra sociale».

Che cosa significa?
«Innanzitutto riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato che, infatti, deve rinnovarsi profondamente. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza: il lavoro, la lotta per i beni comuni, contro le mafie, contro la miseria, per la democrazia. Ce ne sono tante ma non hanno un luogo comune».

È il concetto di “coalizione sociale” di cui parla Stefano Rodotà?
Sì, anche se non so se “coalizione” sia il termine giusto. Ma la direzione è quella.

Si tratta di un progetto che si pone anche il problema elettorale?
Oggi io penso a una messa in rete in cui ognuno mantiene il proprio ruolo ma tutti insieme si costruisce un progetto comune. È chiaro che se una iniziativa si mette in piedi, una risposta a quella domanda occorrerà darla.

Di coalizioni e alleanze si parla da sempre, non si è mai prodotto nulla.
Ma oggi siamo di fronte a una novità enorme. Io per la prima volta faccio il sindacalista senza lo Statuto dei lavoratori. Il vuoto politico a sinistra è evidente, la volontà di Renzi di non fermarsi e di andare avanti ‍con le sue politiche è chiara. Non è più tempo di testimonianza. Se si gioca si gioca ‍per vincere.

Siamo di nuovo, come a fine ‘800, al sindacato che fa nascere nuovi partiti?
Il sindacato non deve trasformarsi in un soggetto politico ma se uno, cioè Renzi, pensa di cancellare il sindacato e le soggettività sociali, si sbaglia. Deve attendersi una reazione.

Pensa che Renzi e il Pd non siano più recuperabili?
Nel loro dibattito non interferisco. Ma le politiche di Renzi non hanno più nulla di sinistra: Jobs Act, precarietà, libertà di licenziare, depenalizzazione della frode fiscale. Come si fa a dire che è sinistra? Si sta introducendo il concetto pur di lavorare si accetta qualsiasi condizione.

Messa così, sembra peggio di Berlusconi.
Sì, non c’è dubbio. Siamo al tentativo di ridisegnare le relazioni sociali.

Renzi è l’avversario da sconfiggere?
Assolutamente sì. L’alleanza a cui penso deve ambire a progettare un altro modo di governare, di produrre e di organizzare la partecipazione democratica. A partire dall’Europa.

E del coordinamento delle sinistre che propone Vendola?
Le iniziative alla sinistra del Pd sono tutte legittime e le rispetto. Ma quello che propongo è altro.

Cofferati dice di volere un “partito radicato”
Sollecitazione utile. Grillo esalta “la rete” mentre il sindacato organizza le persone in carne e ossa. Mettere insieme le due cose sarebbe già una novità. Ho letto che Sergio vuole fare un’associazione. Spero possa partecipare a questo progetto. I partiti, però, hanno perso credibilità.

Quali passaggi sono previsti?
Noi faremo una grande consultazione nella Fiom e poi la proporremo a tutti. Una grande consultazione democratica nazionale su un progetto e un programma.

Che pensa del Quirinale?
Che la precarietà è dannosa anche per il Quirinale. Se due anni fa avessero eletto Stefano Rodotà, com’era possibile, non saremmo in queste condizioni.

«Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società» .intervista a Stefano Rodotà di Giacomo Russo Spena, Micromeg onlinea, 22 gennaio 2015

Solidarietà è il titolo del suo ultimo libro. Qual è, professor Rodotà, l’importanza di riaffermare tale concetto nel 2015?

«E’ un antidoto per contrastare la crisi economica che, dati alla mano, ha aumentato la diseguaglianza sociale e diffuso la povertà. Una parola tutt’altro che logorata e storicamente legata al nobile concetto di fraternità e allo sviluppo in Europa dei “30 anni gloriosi” e del Welfare State. Poi il termine è stato accantonato e abbandonato. La solidarietà serve a individuare i fondamenti di un ordine giuridico: incarna, insieme ad altri principi del “costituzionalismo arricchito”, un’opportunità per porre le questioni sociali come temi non più ineludibili. La crisi del Welfare non può sancire la fine del bisogno di diritti sociali. Sono legato anche al sottotitolo del libro, “un’utopia necessaria”, la solidarietà va proiettata nel presente ed utilizzata come strumento di lavoro per il futuro: l’utopia necessaria è la visione».

Lei ha parlato di “costituzionalismo arricchito”. Quali sono le pratiche da cui ripartire per riaffermare i diritti sociali in tempo di crisi economica, privatizzazioni e smantellamento dello Stato Sociale?

«Mutualismo, beni comuni, reddito di cittadinanza sono gli elementi innovativi e costitutivi di un nuovo Stato Sociale, almeno rispetto a quello che abbiamo conosciuto e costruito nel Novecento. Durante la Guerra Fredda, i sistemi di Welfare sono stati una vetrina dell’Occidente di fronte al mondo comunista, una funzione benefica volta ad umanizzare il capitalismo in risposta al blocco sovietico. Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità ed oggi è necessario arricchire le prospettive del Welfare. Ad esempio il reddito, inteso in tutte le sue fasi legate alle condizioni materiali, significa investimenti ed è possibile solo grazie ad un patto generazionale e ad una logica solidaristica dell’impiego delle risorse».

Nel libro cita gli studi della sociologa Chiara Saraceno la quale si interroga sull’idea di Stato Sociale come bene comune. Qual è il suo giudizio?

«Il discorso esamina la capacità ricostruttiva della solidarietà che è frutto di una logica di de-mercificazione di ciò che conduce al di là della natura di mercato: ristabilire la supremazia della politica sull’economia. Qual è stata la logica in questi anni? Avendo un tesoretto ridotto, sacrifichiamo i diritti sociali. Tale ragionamento va respinto al mittente. Quali sono i criteri per allocare tali fondi? Come li distribuiamo? Finanziamo la guerra e gli F35 o utilizziamo quei soldi contro lo smantellamento dello Stato Sociale? La scuola pubblica, come dice la nostra Carta, non va resa funzionale al diritto costituzionale all’istruzione? Invece si finanziano le scuole private…»

E i famosi 80 euro del governo Renzi possono essere considerati come forma solidaristica e di Welfare?

«No, manca l’intervento strutturale. La Cgil ha reso pubblici alcuni dati: con quei soldi si sarebbero potuti creare 400mila posti di lavoro. Appena si è parlato del bonus per le neomamme, ho pensato fosse più utile stanziare quelle risorse per la costruzione degli asili nido. Solo un vero discorso sulla solidarietà ci consente di stilare una gerarchia che pone al primo posto i diritti fondamentali. E per questo la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, nel quale è stato introdotto il pareggio di bilancio, è un duro colpo per la democrazia. Abbiamo posto fuori legge Keynes».

Altro punto dirimente: la prospettiva europeista. Sappiamo bene quanto le politiche di austerity siano dettate dalla Troika e le nostre democrazie siano ostaggio della finanza; come pensare la solidarietà fuori dai confini nazionali?

«Dobbiamo guardare all’Europa, il discorso sulla solidarietà ha un senso esclusivamente se usciamo dalla logica nazionalista, altrimenti si impiglia. Solidarietà implica un’Europa solidale tra Stati con una politica comune e coi diritti sociali come fari. Con Jürgen Habermas dico che è un principio che può attenuare l’odio tra i Paesi debitori e quelli creditori. Persino Lucrezia Reichlin ha parlato di Syriza con benevolenza perché sta avendo il merito di riaprire una riflessione in Europa su alcuni temi non più rimandabili. L’austerity ha fallito ed aumentato le diseguaglianze. Fino a qualche mese fa, i difensori del rigore giustificavano l’enorme forbice tra redditi alti e minimi affermando di aver tolto migliaia di persone dalla soglia di povertà. La diseguaglianza come conseguenza del contrasto allo sfruttamento. Una tesi smentita dagli stessi eventi».

Spesso le viene rivolta la critica di pensare esclusivamente ai diritti dei cittadini ma mai ai doveri. Come replica all’accusa?

«E’ una vecchissima discussione che si svolse già a Parigi nel 1789. E la Costituzione italiana ha legato diritti e doveri: l’art. 2 si apre col riconoscimento dei diritti delle persone ma poi afferma che tutti devono adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il tema dei doveri viene sbandierato per chiedere sacrifici alle fasce più deboli mentre rimangono al riparo i soggetti privati forti e le istituzioni pubbliche. Vogliamo discutere dei doveri? Facciamolo senza ipocrisie. Ad esempio, si dovrebbe riaffermare l’obbligo di non esercitare l’iniziativa economica e la libera impresa in contrasto con sicurezza e dignità dei lavoratori. Tale strategia ha fallito e politicamente ha generato un’enorme crisi della rappresentanza: il rifiuto della Casta non sarebbe così forte se non ci fosse stato un ceto politico dipendente dal denaro pubblico».

Le elezioni in Grecia hanno assunto una valenza europea. La vittoria di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras incutono paura alla finanza e ai poteri forti. Siamo davvero davanti ad un passaggio storico per invertire la rotta in Europa?

«Il voto di domenica ha un’importanza enorme soprattutto dopo il deludente semestre italiano a guida Matteo Renzi. Il suo arrivo a Bruxelles aveva generato aspettative per le sue promesse di mettere in discussione gli assetti costituzionali europei. Nulla di tutto ciò, nessun negoziato, eppure non era così costoso intraprendere il discorso dell’“utopia necessaria” della riforma dei trattati. Tsipras può rappresentare la riapertura della fase costituente europea. È la mia speranza. Riapertura perché nel 1999 il Consiglio europeo di Colonia stabilisce la centralità della Carta dei diritti ma poi il processo si è chiuso nel ciclo dell’economia. Una vera e propria controriforma costituzionale. L’Unione europea oltre ad avere un deficit di democrazia ha un deficit di legittimità. Il deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla solidarietà, e non al mercato. Altrimenti i rischi sono gravi, e non si parla di uscita dall’euro ma di deflagrazione dell’eurozona e di sviluppo di movimenti xenofobi ed antieuropei come quelli di Marine Le Pen e Matteo Salvin»i.

Se il semestre italiano non ha dato nessun segnale di discontinuità in Europa, quel che resta della sinistra nostrana guarda con ammirazione e speranza alla Grecia di Tsipras. È mai possibile la nascita di una “Syriza italiana” che unisca tutte le forze a sinistra del Pd?

«In Italia siamo indietro e rischiamo di rifare alcuni errori. Mentre capisco la scelta del “papa straniero” Tsipras, non condivido l’idea di una “Syriza italiana”. È una forzatura. In Grecia Syriza ha raggiunto l’attuale consenso perché durante la crisi economica ha svolto un lavoro effettivo nel sociale dove ha garantito ai cittadini diritti e servizi grazie a pratiche di mutualismo: penso alle mense e alle cliniche popolari, alle farmacie e alle cooperative di disoccupati. In Italia la situazione è differente».

Oltre a Syriza, la Troika guarda con preoccupazione al repentino sviluppo di Podemos, il partito spagnolo che sta scuotendo la Spagna. Syriza e Podemos, seppur differenti sotto alcuni aspetti, sembrano le due forze capaci di trasformare gli assetti in Europa. Podemos rompe con tutti gli schemi classici della sinistra novecentesca e fa della Casta e dei banchieri un bersaglio politico. La sinistra italiana, per rinascere, non dovrebbe affrontare anche il tema della crisi della rappresentanza?

«In questi anni c’è stata una drammatica deriva oligarchica e proprietaria dei partiti e la capacità rappresentativa è venuta meno anche per la consapevolezza che il potere decisionale fosse esterno alle sedi legittime e in mano a poche persone. La Corte Costituzionale ha emesso due importanti sentenze: una contro il Porcellum, decretando illegittima la legge elettorale in vigore, l’altra contro i soprusi del marchionnismo, stabilendo che non potesse essere esclusa la Fiom dagli stabilimenti. Lego queste due fondamentali sentenze perché entrambe pongono il problema della rappresentanza. E lo pongono nell’impresa e nella società cioè nel lavoro e nella politica, nei diritti sociali e in quelli civili. E’ un punto importante sul quale non abbiamo riflettuto abbastanza ed è la via per far recuperare legittimità alle istituzioni e alla politica».

Per sopperire alla crisi economica e politica nel Paese, il direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais ha più volte insistito sulla necessità di dar vita a una forza “Giustizia e libertà”, un soggetto della società civile. Che ne pensa?

«La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra. Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre. Rifondazione è un residuo di una storia, Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente. Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency – che ha creato ambulatori dal basso – movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».

Il suo giudizio sui partiti esistenti è molto duro. Ma per una coalizione sociale non ci vuole tempo, addirittura anni?

«Ci vuole pazienza e occorre ricostituire nel Paese un pensiero di sinistra. A livello istituzionale abbiamo assistito alla chiusura dei canali comunicativi tra politica e mondo della cultura, ciò si è palesato durante la riforma costituzionale. Come negli anni '60-'70, per il cambiamento istituzionale, deve tornare la rielaborazione culturale. Il lavoro che ha svolto MicroMega in questi anni è prezioso e va continuato in tal senso. Insieme a Il Fatto sono le due testate che hanno tenuto dritta la barra. Ora vanno moltiplicate le iniziative, vanno connessi i soggetti sociali (anche attraverso la Rete) e va recuperato quel che c’è di produzione culturale operativa. Infine, tassello fondamentale: organizzazione. Tali processi non possono essere affidati semplicemente alla buona volontà delle persone».

In tutto questo, qual è il suo giudizio sul M5S? Il grillismo è in una crisi irreversibile?

«Non so se i 5 stelle siano definitivamente perduti, di certo stanno perdendo molteplici chance. Il movimento ha deluso le aspettative: non ha ampliato spazi di democrazia, non ha inciso in Parlamento e in qualche modo ha accettato le logiche interne. Serpeggia una profonda delusione tra gli stessi elettori grillini. Mentre la vera novità è lo sviluppo di un'opposizione sociale al renzismo, l’embrione della coalizione sociale di cui parlavo prima».

Si riferisce alla mobilitazione autunnale contro il Jobs Act?

»Renzi ha vinto senza combattere, non c’era nessuno sulla sua strada. Nessuno in grado di contrastarlo, nemmeno Giorgio Napolitano che secondo le mie valutazioni politiche aveva investito sul governo Letta. Ora si sta muovendo qualcosa: Susanna Camusso e Maurizio Landini si sono ritrovati per uno sciopero unitario. Persino la Uil è stata costretta a schierarsi. Si è rivitalizzato il sindacato. Il governo Renzi ha cancellato tutti i corpi intermedi e la Camusso, rendendosi conto dell’attacco subito, deve riconquistare il suo ruolo. Individuare soggetti sia rappresentativi che di opposizione sociale è un dato istituzionalmente interessante. Oltre ad essere un dato politico rilevante. Si è manifestata un’opposizione sociale».

Però siamo ben distanti dai 3 milioni portati in piazza da Sergio Cofferati in difesa dell’articolo 18, e la Cgil viene comunque da anni di politiche concertative…

«Sono confronti impensabili, il tessuto del nostro Paese è stato logorato da mille fattori nell’ultimo decennio. Anche dalla crisi economica. Con l’impoverimento drammatico le frizioni e le condizioni di convivenza obbligata diventato più difficili. Una situazione conflittuale che va oltre alla “guerra tra poveri”. Le condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte».


Coalizione sociale, primato della solidarietà e nuovo rapporto tra cultura e politica. Sono questi gli ingredienti necessari per ripartire?

«Prima mettiamo in relazione i soggetti sociali, in primis il sindacato, con le reti civiche e strutturiamo un minimo di organizzazione, rilanciando l’attivismo dei cittadini. Da tempo propongo alcune riforme e modifiche dei regolamenti parlamentari per dare maggiore potere alle leggi di iniziativa popolare. Ad inizio legislatura, in concerto con il gruppo del Teatro Valle, abbiamo inviato ai parlamentari una serie di proposte su fine vita e reddito minimo garantito… non sono nemmeno arrivate in Aula. In questo momento nella democrazia di prossimità, quella dei Comuni, si diffondono pratiche virtuose, penso ai registri per le coppie di fatto, per il testamento biologico, ai riconoscimenti nei limiti possibili di diritti fondamentali delle persone. A Bologna si è proposto di cogestire alcuni beni e il nuovo statuto di Parma è pieno di esperienze simili. C’è una democrazia di prossimità che va presa in considerazione. Così come il ruolo della magistratura».

Come collegare la figura dei magistrati alle questioni sociali?

«I partiti di massa erano i referenti delle domande sociali, le selezionavano e le portavano in Parlamento. Io c’ero, me lo ricordo. Questo non esiste più. Regna un modo autoritario di individuare le domande sociali e il vuoto politico è stato colmato dalla magistratura. La Consulta è intervenuta in questi anni su diritti civili, dal caso Englaro alla Fini Giovanardi sulle droghe o alla legge più ideologica, quella sulla fecondazione assistita. Poi le già citate sentenze su legge elettorale e conflitto Fiom-Fiat. Qui non c’è giustizialismo, ma il ruolo di una magistratura – attaccata e in trincea per difendersi dagli attacchi di Berlusconi e salvaguardare autonomia e indipendenza – che ha maturato una propria elaborazione culturale per fronteggiare emergenza politica e garantire la legalità costituzionale. L’aver individuato nella figura di Raffaele Cantone un soggetto politico ha un’importanza storica visto che in Italia la corruzione è ormai strutturale».

Lo dimostrano gli ultimi casi di cronaca, la criminalità organizzata si è fatta istituzione come abbiamo visto con lo scandalo di Mafia Capitale…
«Prima si parlava solo di tre regioni in mano ai poteri criminali: Calabria, Sicilia, Campania. Quando qualcuno osò parlare, giustamente, di infiltrazioni mafiose al Nord, l’ex ministro Roberto Maroni pretese le scuse. Ora invece grazie ad una serie di inchieste (Ilda Boccassini, Giuseppe Pignatone) sappiamo che questo è un dato strutturale: i poteri criminali occupano il territorio non solo fisico ma ormai anche istituzionale. E la corruzione non passa solo per il denaro pubblico rubato ma come un meccanismo endemico dello Stato. Il giustizialismo assume un fattore centrale e qualsiasi tentativo di silenziare i magistrati va contrastato».
Un’ultima domanda, la questione della leadership. Chi vede a capo della coalizione sociale?

«Bah, spesso si cita il nome di Landini ma mi astengo dal rispondere. Non è prioritaria la questione. È palese che oggi la coalizione sociale ha una sua maggiore evidenza perché la presenza del sindacato è il dato nuovo e accresce le responsabilità di Landini e della Fiom. L’importante è uscire dagli schemi classici e visti finora: non dobbiamo pensare al recupero dei perdenti dell’ultima fase o ai pezzetti ancora incerti (minoranza del Pd). Così non possiamo basare l’iniziativa sul M5S. Sarebbe un errore. I 5 stelle hanno una loro storia, vediamo che faranno in futuro e semmai una coalizione sociale riuscisse a rafforzarsi, capire come reagiranno. Questo è il punto».

«Il ten­ta­tivo di sal­vare l’evasore Ber­lu­sconi con la legge sulla delega fiscale, e i bro­gli elet­to­rali nelle ele­zioni pri­ma­rie in Liguria sono due facce della stessa meda­glia, visto che il fami­ge­rato “patto del Naza­reno” è fon­da­tivo di que­sta nuova sta­gione poli­tica». Il manifesto, 20 gennaio 2015 (m.p.r.)

Più la spin­gono sotto il tap­peto, più la que­stione immo­rale si mostra nella sua scon­ve­niente veste di pro­ta­go­ni­sta della scena poli­tica. Pro­prio ieri, di fronte a un’aula par­la­men­tare pate­ti­ca­mente vuota, il mini­stro della giu­sti­zia, denun­ciava «la dimen­sione intol­le­ra­bile della cor­ru­zione in Ita­lia». Intol­le­ra­bile spe­cial­mente quando mette radici nel par­tito di cui il mini­stro fa parte, ma così pur­troppo non è. Lo dimo­strano alcune recenti vicende, due su tutte: il ten­ta­tivo, solo rin­viato, di sal­vare l’evasore Ber­lu­sconi con la legge sulla delega fiscale, e, di que­ste ore, i bro­gli elet­to­rali (con il sospetto di una compra-vendita di voti) nelle ele­zioni pri­ma­rie in Liguria.

Due facce della stessa meda­glia, visto che il fami­ge­rato “patto del Naza­reno” è fon­da­tivo di que­sta nuova sta­gione poli­tica. In piena coe­renza con quel con­flitto di inte­ressi che il Pd non ha mai risolto nel corso degli ultimi vent’anni. Per que­sto le dimis­sioni di Ser­gio Cof­fe­rati sono un fatto poli­tico di prima gran­dezza, rile­vante e rive­la­tore nello stesso tempo. Per­ché rile­vante è evi­dente: l’ex segre­ta­rio della Cgil è stato il sim­bolo dell’antiberlusconismo di sini­stra, capace di orga­niz­zare la più grande mani­fe­sta­zione del dopo­guerra in difesa dell’articolo 18, a fianco del mondo del lavoro e in rap­pre­sen­tanza di quelle radici che oggi la lea­der­ship del Pd ha deciso di reci­dere, net­ta­mente e orgo­glio­sa­mente, in pro­fonda sin­to­nia con l’ideologia anti­sin­da­cale del centrodestra.

Insieme a Camusso e Lan­dini, Cof­fe­rati è una ban­diera con­tro il jobs act e la defi­ni­tiva meta­mor­fosi neo­li­be­ri­sta del par­tito ren­ziano (non “di Renzi”, per­ché non gli appartiene). Ma il “caso Cof­fe­rati” è forse ancor di più rive­la­tore, cioè spec­chio lim­pido, della fisio­no­mia etica del nuovo gruppo diri­gente del Naza­reno. Lui è il primo poli­tico che in modo cla­mo­roso e dram­ma­tico se ne va dal par­tito — del quale è stato uno dei 45 fon­da­tori — denun­ciando la pre­senza di una que­stione morale: «Me ne vado per­ché sono stati can­cel­lati i valori stessi su cui è nato il Pd».

Altro che delu­sione per la scon­fitta subita alle pri­ma­rie (peral­tro da dimo­strare): è un duris­simo attacco al voto di scam­bio («com­prano il voto»), è un j’accuse per la palese offerta e l’altrettanto dichia­rata accet­ta­zione dei voti por­tati alla can­di­data vin­cente, la ren­ziana Raf­faella Paita, da parte dei capi­cor­rente del cen­tro­de­stra ligure e di per­so­naggi fasci­stoidi, è la penosa presa d’atto dell’acquisto dei voti dei poveri immigrati.

Così si svende una sto­ria, si svende un partito.

Eppure è ancor più penosa la rea­zione dei ver­tici ren­ziani del Pd, a comin­ciare dai due vice­se­gre­tari del par­tito. Invano Cof­fe­rati li aveva, già da alcune set­ti­mane, avver­titi di quanto stava acca­dendo senza rice­vere nep­pure lo strac­cio di una risposta. Ora, dopo le dimis­sioni, i due colon­nelli, Ser­rac­chiani e Gue­rini, sono diven­tati par­ti­co­lar­mente pro­di­ghi di dichia­ra­zioni con­tro l’ingrato Cof­fe­rati, accu­sato di «inspie­ga­bili» e «ingiu­sti­fi­cate» dimissioni. Nem­meno un piz­zico di senso del pudore. Avan­zano cam­mi­nando sulle mace­rie del par­tito - forse per­ché con­vinti delle magni­fi­che e pro­gres­sive sorti elet­to­rali in caso di voto anticipato.

E Renzi?

L’immagine più nitida dello spec­chio che l’addio del diri­gente poli­tico riflette è quella del segre­ta­rio. All’ultima dire­zione del par­tito Renzi ha chiuso il “caso” in modo bru­tal­mente pro­vo­ca­to­rio, facendo i com­pli­menti alla vin­ci­trice per la vit­to­ria e rove­sciando sul per­dente la defi­ni­tiva sen­tenza: «Basta, vogliamo vin­cere, la discus­sione è chiusa». Una dimo­stra­zione di arro­ganza, come è ormai con­sue­tu­dine di que­sta nuova lea­der­ship, ma par­ti­co­lar­mente sot­to­li­neata e insi­stita, per­ché sia d’esempio a chi in futuro volesse por­tare all’attenzione del par­tito fasti­diosi pro­blemi etici.

Discu­tere su come si rac­col­gono i con­sensi, su come si finan­zia un par­tito, su quale blocco sociale di rife­ri­mento si sce­glie sono que­stioni poli­ti­che fon­da­men­tali, anche se il per­so­na­li­smo, il lea­de­ri­smo hanno inqui­nato il comune sen­tire della gente di sinistra. Tut­ta­via è impor­tante discu­terne oggi come è stato cru­ciale per l’allora Pci quando a porre la que­stione nei ter­mini gene­rali che cono­sciamo fu Enrico Ber­lin­guer. E vale qui la pena solo accen­nare alla fred­dezza, e per­sino alla deri­sione, con cui la cor­rente miglio­ri­sta di allora, gui­data dall’ex capo dello stato, Gior­gio Napo­li­tano, accolse la duris­sima cri­tica ber­lin­gue­riana alla dege­ne­ra­zione del sistema dei par­titi, Pci incluso.

Era­vamo negli anni’80 e non a caso la vicenda ope­raia della Fiat, la bat­ta­glia sulla scala mobile e l’esplodere della que­stione morale tene­vano insieme i ragio­na­menti di Ber­lin­guer verso quell’alternativa di sini­stra che, nel momento del cra­xi­smo trion­fante, la pre­ma­tura fine non gli con­sentì di met­tere in atto. La que­stione immo­rale come “que­stione demo­cra­tica” torna, nel Pd di Renzi, a essere deru­bri­cata come l’espressione del “tafaz­zi­smo” delle mino­ranze che non si ras­se­gnano a spin­gere il carro del vin­ci­tore. Che, tut­ta­via, non sem­bra più tanto trion­fante se si dà retta ai son­daggi che, set­ti­mana dopo set­ti­mana, sgon­fiano la bolla elet­to­rale delle ultime ele­zioni euro­pee di maggio.

In ogni caso se le dimis­sioni di Cof­fe­rati sono rile­vanti e rive­la­trici del muta­mento pro­fondo e irre­ver­si­bile della natura sociale del Pd, la domanda è: fino a quando le oppo­si­zioni interne si accon­ce­ranno al ruolo di inno­cue cas­san­dre, di fiore all’occhiello del segretario?

E, a seguire, adesso può nascere in Ita­lia una forza poli­tica a sini­stra che rac­colga un con­senso signi­fi­ca­tivo, come quello di Syriza?

«Chi in par­tenza pen­sava che si trat­tasse di un appun­ta­mento più sim­bo­lico che di con­creta azione poli­tica, non aveva cal­co­lato una sedi­men­tata costante: la capa­cità della sini­stra ita­liana di essere al tempo stesso con­flit­tuale, un po’ bizan­tina, senza un

lea­der ma con tanti aspi­ranti al ruolo». Il manifesto, 18 gennaio 2015

Negli ampi spazi del Nuovo cinema Nosa­della, esau­rito in ogni ordine di posti per l’assemblea dell’Altra Europa con Tsi­pras, può suc­ce­dere anche di tro­vare nel retro­bot­tega il poster di un film uscito la scorsa estate. Dimen­ti­ca­bile (a par­tire dalla cop­pia di pro­ta­go­ni­sti Barrymore/Sandler) ma con un titolo piut­to­sto ade­rente agli svi­luppi della gior­nata: «Insieme per forza». Anche per amore. «Per tutti noi - ricorda fra gli applausi Panos Lam­prou di Syriza - il movi­mento con­tro la glo­ba­liz­za­zione è stato un inse­gna­mento. E siamo con­vinti che la sini­stra ita­liana possa sor­pren­dere ancora il mondo».

Chi in par­tenza pen­sava che si trat­tasse di un appun­ta­mento più sim­bo­lico che di con­creta azione poli­tica, fis­sato nell’imminenza delle ele­zioni gre­che spe­cial­mente per rin­sal­dare il legame con il nuovo pos­si­bile primo mini­stro Ale­xis Tsi­pras, non aveva cal­co­lato una sedi­men­tata costante: la capa­cità della sini­stra ita­liana di essere al tempo stesso con­flit­tuale (soprat­tutto al suo interno), un po’ bizan­tina, senza un lea­der ma con tanti aspi­ranti al ruolo. Sin­goli o col­let­tivi. Al tempo stesso, nelle pie­ghe di una discus­sione molto intensa, e nella diver­sità di posi­zioni rap­pre­sen­tata ad esem­pio dall’intervento «basi­sta» di Bar­bara Spi­nelli («non c’è più tempo da per­dere, dob­biamo par­tire subito»), e dalla rea­li­stica rispo­sta di Luciana Castel­lina («non rico­strui­remo la sini­stra se non rico­struiamo un ter­reno comune della sini­stra»), è pos­si­bile capire quali poten­zia­lità avrebbe una forza uni­ta­ria. Poi, per i tanti appas­sio­nati di modelli orga­niz­za­tivi - meglio Syriza o Pode­mos? - vale la rispo­sta di Paolo Fer­rero: «Io penso che l’Altra Europa sia la cosa migliore fatta negli ultimi dieci anni. Ma una sog­get­ti­vità poli­tica non si costrui­sce in ter­mini buro­cra­tici. Né può essere il frutto di una dina­mica ’pat­ti­zia’ fra i ver­tici. Va costruita nel paese».

Sarà un’impresa, nell’Italia del patto del Naza­reno. Però ci sono fatti grandi e pic­coli che con­tri­bui­scono a tenere accesa la fiamma della spe­ranza. Non solo le ele­zioni gre­che e i son­daggi spa­gnoli. C’è ad esem­pio la pre­senza qui a Bolo­gna del sena­tore ex pen­ta­stel­lato Fran­ce­sco Cam­pa­nella. E c’è l’addio di Ser­gio Cof­fe­rati al Pd. Il segre­ta­rio con­fe­de­rale del Circo Mas­simo, dei tre milioni in piazza con le ban­diere della Cgil per difen­dere l’articolo 18, agli occhi dell’assemblea cer­ti­fica con la sua deci­sione la rot­tura finale fra il mondo del lavoro e il suo par­tito di rife­ri­mento. «C’è grande emo­zione in sala - sin­te­tizza il bolo­gnese Ser­gio Caserta - certo l’avesse fatto dieci anni fa…». E Nanni Alleva, neo con­si­gliere regio­nale dell’Altra Emi­lia Roma­gna, ampli­fica il con­cetto: «E’ l’ultima dimo­stra­zione del fatto che il Pd è un posto infre­quen­ta­bile. Anche un poli­tico navi­gato come Cof­fe­rati alla fine si è tro­vato di fronte a una situa­zione impos­si­bile. Ora l’importante è che molti ita­liani che si sono ’messi in scio­pero’, non votando, capi­scano che c’è un’alternativa: la sini­stra. Unita».

«Cof­fe­rati – osserva sul punto Cur­zio Mal­tese – è l’unico che ha tratto le con­se­guenze del fatto che nel Pd esi­ste una que­stione morale e, subito dopo, una que­stione poli­tica. Ber­lin­guer avrebbe detto che ’esi­ste una que­stione morale nel par­tito demo­cra­tico’: basti pen­sare alla Ligu­ria, all’Expò, alla Tav, allo scan­dalo del 3%». Quanto alla que­stione poli­tica, è l’intervento intro­dut­tivo della gior­nata di Marco Revelli a segna­larla pun­tual­mente: «In Ita­lia si è ria­perto il con­flitto sociale: nel milione di piazza San Gio­vanni, nello scio­pero gene­rale, nello scio­pero sociale. E in que­sti mesi si è anche con­su­mata una frat­tura sto­rica, fra il mondo del lavoro e il par­tito che sto­ri­ca­mente ne rac­co­glieva le istanze. Un par­tito che oggi invece par­te­cipa alla mano­mis­sione della Costi­tu­zione demo­cra­tica, e all’attacco al lavoro».

Revelli rias­sume anche il com­pito dell’Altra Europa: «Costruire una casa comune, acco­gliente, della sini­stra. E un nuovo lin­guag­gio. Per­ché da decenni la sini­stra ha smar­rito il suo, anzi ha assunto quello del neo­li­be­ri­smo». Il socio­logo tori­nese è fra i primi fir­ma­tari del mani­fe­sto «Siamo a un bivio» pre­sen­tato ai 700 par­te­ci­panti all’assemblea, fra i quali si notano Franco Turi­gliatto e Anto­nio Ingroia. A fir­mare anche Paolo Cento: «L’abbiamo sot­to­scritto dopo una discus­sione nel par­tito — spiega il pre­si­dente dell’assemblea di Sel - per­ché vanno valo­riz­zati gli sforzi di lavo­rare in un pro­cesso poli­tico, aperto e inno­va­tivo, ’della sini­stra e dei demo­cra­tici ita­liani’. Tanti che sono qui oggi saranno anche a Human Fac­tor. E noi pen­siamo di poter dare il nostro con­tri­buto, rite­nen­doci impor­tanti ma non certo esclu­sivi, per allar­gare lo sguardo e gli spazi a sini­stra».

Molti ma non tutti fir­mano il «mani­fe­sto Revelli», che pone la sca­denza di una nuova assem­blea a marzo per avviare il futuro per­corso della forza poli­tica, con chi ade­rirà, sul duplice bina­rio locale e nazio­nale. Non firma Bar­bara Spi­nelli che dà voce a un gruppo di comi­tati locali, cri­tici verso quelle che giu­di­cano len­tezze ecces­sive nel pro­cesso costi­tuente di un nuovo par­tito. I gio­vani under 35 di Act bat­tono invece il tasto del com­pleto rin­no­va­mento del comi­tato ope­ra­tivo dell’Altra Europa. Sul punto la discus­sione va avanti per l’intera gior­nata, e pro­se­guirà anche oggi.

«L'anticipazione. "Governare non significa avere il potere. Siamo all’inizio di un processo di lotta. Come in Brasile col Pt, dobbiamo cercare di mantenere la coesione sociale". Tsipras tratteggia le caratteristiche di un potenziale governo di sinistra: "Ci saranno grandi trasformazioni e la priorità, in questo momento, è la fine dell’austerità».

Il manifesto, 14 gennaio 2015

Teo­doro Andrea­dis Syn­ghel­la­kis, greco ma quasi dalla nascita resi­dente in Ita­lia dove i suoi geni­tori si erano rifu­giati durante la dit­ta­tura, ha scritto un libro – Ale­xis Tsi­pras. La mia sini­stra – che con­tiene una assai inte­res­sante inter­vi­sta con il lea­der di Siryza che qui si sof­ferma soprat­tutto sulla natura del nuovo par­tito che la sini­stra greca ha saputo darsi.

La pre­fa­zione al volume - che sarà nelle libre­rie da gio­vedì 15 - è di Ste­fano Rodotà e con­tiene anche i giu­dizi di un certo numero di pro­ta­go­ni­sti della poli­tica ita­liana. Ve ne diamo, in ante­prima, alcuni stralci.

Il raf­for­za­mento della sini­stra è ancora un pro­cesso in divenire?
Dovremo sem­pre tenere a mente che abbiamo l’obbligo di susci­tare tra i nostri soste­ni­tori una presa di coscienza sem­pre più demo­cra­tica, radi­cale, pro­gres­si­sta. Non pos­siamo per­met­terci il lusso di igno­rare il fatto che gran parte della società greca, e anche una per­cen­tuale di nostri soste­ni­tori, abbiano assor­bito idee con­ser­va­trici; che c’è stato un tipo di pro­gresso il quale aveva come punto di rife­ri­mento la conservazione.

Dob­biamo, inol­tre, sepa­rare il signi­fi­cato che ha un governo della Sini­stra, da un rischio di abuso di potere da parte della Sini­stra. Il potere è una cosa più com­plessa, che non viene eser­ci­tata solo da chi governa. È qual­cosa che ha a che fare anche con le strut­ture sociali, con chi con­trolla i mezzi di pro­du­zione. Noi riven­di­che­remo il governo del paese, così da poter dare avvio – da una posi­zione di forza – a quella grande bat­ta­glia ideo­lo­gica e anche sociale che por­terà a cam­bia­menti e tra­sfor­ma­zioni i quali daranno il potere alla mag­gio­ranza dei cit­ta­dini, sot­traen­dolo alla minoranza.

Ma la gente deve com­pren­dere bene che il fatto che Syriza andrà al governo non signi­fica auto­ma­ti­ca­mente che il potere pas­serà al popolo. Signi­fica, invece, che ini­zierà un pro­cesso di lotta, un lungo cam­mino che por­terà anche a delle con­trap­po­si­zioni - un cam­mino non sem­pre lineare - ma che verrà sicu­ra­mente carat­te­riz­zato dal con­ti­nuo sforzo di Syriza per riu­scire a con­vin­cere delle forze ancora più vaste, per accre­scere la sua dina­mica mag­gio­ri­ta­ria ed il con­senso verso il suo pro­gramma, con l’appoggio di forze sociali sem­pre più ampie.

Tutto que­sto, per riu­scire a com­piere passi in avanti asso­lu­ta­mente neces­sari. Sto descri­vendo un cam­mino che in que­sto periodo, seguono molti par­titi e governi di sini­stra in Ame­rica Latina, anche se mi rendo conto che, in parte, si tratta di una realtà che può risul­tare estra­nea alla quo­ti­dia­nità europea. So bene che la grande domanda che pro­voca un inte­resse cosi forte nei nostri con­fronti, è come tutto ciò potrà diven­tare realtà nel con­te­sto della glo­ba­liz­za­zione e all’interno dell’Unione Euro­pea, visto che la Gre­cia non è un gio­ca­tore solitario.

Si tratta di una realtà che negli ultimi anni pone anche delle forti limi­ta­zioni, dal punto di vista economico…
Asso­lu­ta­mente. Ed è per que­sto, tut­ta­via, che io credo che la con­di­tio sine qua non per­ché Syriza possa con­ti­nuare a seguire un cam­mino frut­tuoso, è che rie­sca a con­qui­stare, da una parte il con­senso della mag­gio­ranza della società greca e dall’altra, a garan­tirsi un appog­gio mag­gio­ri­ta­rio anche in tutta Europa. È chiaro che la prio­rità, in que­sto momento, non è il socia­li­smo, ma è pro­prio la fine dell’austerità (…)
Il fatto che gli elet­tori di Syriza pro­ven­gano sia dall’area comu­ni­sta che da quella del cen­tro pro­gres­si­sta è una risorsa o un problema?
Credo che Syriza sia riu­scito ad arri­vare dal 4% al 27% per­ché abbiamo avuto la capa­cità poli­tica di indi­vi­duare in modo molto veloce i cam­bia­menti poli­tici e sociali che hanno pro­vo­cato la crisi.
Intendo lo sbri­cio­la­mento, la distru­zione dei sog­getti sociali cau­sata dalla poli­tica dei memorandum. Allo stesso tempo, abbiamo offerto una via di uscita poli­tica a tutti i cit­ta­dini che ave­vano l’esigenza di potersi espri­mere per fer­mare que­sto pro­cesso di distru­zione. Ci siamo tro­vati, quindi, in modo quasi “vio­lento”, repen­tino, dal 4% al 27%, e que­sta “vio­lenza” ci mette ancora alla prova, per­ché ci costringe, comun­que, a cam­biare orien­ta­mento. Abbiamo avuto l’istinto di com­pren­dere, espri­mere e rap­pre­sen­tare gli inte­ressi dei gruppi sociali che erano rima­sti senza alcuna rap­pre­sen­tanza poli­tica, senza una casa, ma devo con­fes­sare che non ave­vamo la cul­tura pro­pria di un par­tito che riven­dica il potere.

C’eravamo schie­rati, ritro­vati tutti a Sini­stra - anche io, ovvia­mente - ave­vamo accet­tato e soste­nuto un modo di vita, che aveva a che fare, prin­ci­pal­mente, con la resi­stenza, con la denun­cia ed un approc­cio teo­rico ten­dente ad una società “altra”. Non c’eravamo con­fron­tati, però, con il biso­gno pra­tico di aggiun­gere ogni giorno un pic­colo mat­tone per poter costruire que­sta società di cui par­la­vamo, spe­cie in un momento dif­fi­cile come quello che stiamo vivendo. Se domani Syriza sarà chia­mata a gover­nare, sarà obbli­gata ad affron­tare una situa­zione sociale, una realtà dram­ma­tica: la disoc­cu­pa­zione reale al 30%, una povertà dif­fusa, una base pro­dut­tiva pra­ti­ca­mente distrutta. E si trat­terà – fuor di dub­bio – di una scom­messa enorme, anche que­sta di por­tata storica.

Si potrebbe dire che sarà una scom­messa simile a quella del Bra­sile di Lula, quando venne eletto presidente. Noi, intendo la Sini­stra nel suo com­plesso, dob­biamo cer­care (senza tro­varci nella dif­fi­ci­lis­sima posi­zione e nel ruolo del capro espia­to­rio), di riu­scire a man­te­nere la coe­sione dei gruppi sociali, all’interno di un pro­getto di rico­stru­zione pro­dut­tiva, di demo­cra­tiz­za­zione e di uscita dalla crisi. Ed è un’impresa molto difficile.

Guar­dando tutto ciò anche da fuori, si può guar­dare in que­sto momento a Syriza quasi come ad un caso unico, dal momento che non appar­tiene alla fami­glia della social­de­mo­cra­zia, non si iden­ti­fica nelle posi­zioni dei par­titi tra­di­zio­nal­mente comu­ni­sti e sta cer­cando di trac­ciare una strada nuova, creando un spa­zio nuovo tra que­ste due grandi fami­glie. Si potrebbe par­lare di un espe­ri­mento che cerca di rifor­mare le posi­zioni della Sini­stra, tenendo insieme, appunto, i suoi “punti forti” e il biso­gno di modernità?
Pos­siamo dire che è cosi, ma si tratta di un pro­cesso che è ini­ziato da metà degli anni Novanta, quando in Gre­cia è stata creata la Coa­li­zione della Sini­stra e del Pro­gresso, Syna­spi­smòs. Par­liamo del periodo in cui, in Europa, una serie di par­titi post comu­ni­sti - dopo la caduta del Muro di Ber­lino - cer­ca­vano di apporre il loro tratto ideo­lo­gico e poli­tico, andando oltre i con­fini della social­de­mo­cra­zia e della strada seguita sino ad allora dai par­titi di area comu­ni­sta. È in quel periodo che si è for­mato anche il Par­tito della Sini­stra Euro­pea che com­pren­deva e con­ti­nua a com­pren­dere anche alcuni par­titi comu­ni­sti. Sono dei par­titi, tut­ta­via, che hanno com­piuto una seria auto­cri­tica riguardo al periodo sta­li­ni­sta ed hanno rin­no­vato il loro modo di inter­pre­tare ed ela­bo­rare la realtà. Tra i mem­bri del Par­tito della Sini­stra Euro­pea, ovvia­mente, ci sono anche forze come Syriza, la coa­li­zione in cui si è tra­sfor­mato Synaspismòs.

Ana­liz­zando la cosa, qual­cuno potrebbe dire che que­sto tratto ideo­lo­gico è riu­scito a rag­grup­pare delle forze appar­te­nenti a una Sini­stra inde­bo­lita ed in disfa­ci­mento, che non riu­sciva a supe­rare il 6 o 7%. Ora, però, Syriza sta riven­di­cando la guida della Gre­cia, il governo del paese. Io vedo come una cosa estre­ma­mente posi­tiva il fatto che il nostro sia un par­tito gio­vane ma con alle spalle, tut­ta­via, una lunga tra­di­zione. Le sue radici affon­dano nel secolo pas­sato, ma quello che abbiamo, appunto, è un par­tito giovane. Altret­tanto posi­tivo è il fatto che non appar­tenga al blocco di forze le quali con­ti­nuano a seguire l’ortodossia comu­ni­sta, e che non fac­cia parte della fami­glia socialdemocratica.

Stiamo par­lando, ovvia­mente, di una social­de­mo­cra­zia che oggi è parte inte­grante della crisi in atto e che ha una grande respon­sa­bi­lità per lo stato in cui si è venuta a tro­vare l’Europa. È una social­de­mo­cra­zia “gene­ti­ca­mente modi­fi­cata”, che ha adot­tato quasi tutti i credo neo­li­be­ri­sti. In que­sto senso, quindi, potremmo dire che tanto Syriza quanto gli altri par­titi della nuova Sini­stra dell’Europa non por­tano sulle spalle il peso dei “pec­cati ori­gi­nali” di alcune forze che appar­ten­gono alla nostra tra­di­zione. Con­tem­po­ra­nea­mente, non sono nean­che respon­sa­bili dei grandi delitti per­pe­trati dalla social­de­mo­cra­zia nel periodo che stiamo vivendo.

Siamo in grado, cioè, di offrire una pro­spet­tiva più ampia, di cata­liz­zare ed unire forze ancora mag­giori, rispetto a quelle rag­grup­pate, tra­di­zio­nal­mente, dalle forze del blocco socialista.

A chi è solito sot­to­li­neare che siamo un par­tito filoeu­ro­peo - il quale com­prende la situa­zione che si è venuta a creare con la realtà data della glo­ba­liz­za­zione - ma non appar­te­niamo a nes­suna grande fami­glia poli­tica dell’Europa, vor­rei ricor­dare que­sto: nel 1981, anche il Par­tito Socia­li­sta del Pasok, di Andreas Papan­dreou, si tro­vava esat­ta­mente nella nostra stessa situa­zione: non appar­te­neva, in realtà, né all’Internazionale Socia­li­sta, né ai par­titi social­de­mo­cra­tici e nean­che alla sini­stra socialista.

Una piattaforma chiara per una nuova politica di sinistra, indispensabile per uscire compiutamente dalla crisi strutturale che ci sta affogando, possibile solo se ciascuno riuscirà a uscire dal proprio guscio.

Staffperilpartitonuovo, 10 gennaio 2015

Come un prossimo evento dall’agenda incompleta a Bologna, e uno seguente dal nome poco semplice a Milano, possono comunque sommare le rispettive virtù per una impresa comune determinata, ma di grande e storica portata. Fortunatamente, ci sono premesse perché ciò accada.

Auspicare un grande partito nuovo, come questo blog si dedica a fare già da qualche tempo, può apparire (ed essere) fin troppo facile. Oppure significa pensare innanzitutto le enormi difficoltà che vi sono mentre si segue con attenzione coinvolta ciò che in effetti si sta muovendo per rispondere ad esigenze reali che hanno quel senso (anche senza riconoscerlo esplicitamente): insomma, ciò che in un modo o nell’altro e per forza di cose si va avvicinando a creare quel fatto decisivo ed essenziale (cui questo blog usa dare quel nome). Le difficoltà sono pesanti. Attirano alcune delle forze indispensabili a questo fine a muoversi in modo sparso e in direzioni diverse, con ragioni che devono essere considerate: per esempio, al fine di non compromettere la possibilità di fare ciò che intanto si riesce a fare di buono concorrendo ad amministrare regioni, comuni, circoscrizioni; provvedere alle materiali e ineludibili necessità del lavoro politico e della stessa esistenza politica utilizzando le risorse istituzionali che solo una pratica di collaborazione entro le attuali regole del gioco permette, apparentemente, di ottenere.

Resta l’esigenza, che si può riassumere così: ciò che vuole le stesse cose le dovrebbe fare insieme, perché altrimenti non saranno fatte mai. E si tratta di cose assolutamente necessarie per il nostro tempo, per le nostre vite, per le condizioni e il senso del nostro futuro.

Quali sono le stesse cose volute da molti in Italia oggi? Per riassumere gli intendimenti che sono condivisi in Italia oggi da un campo di soggetti sociali, culturali, individuali e civili, potenzialmente capace di egemonia, capace insomma di produrre la necessaria discontinuità nella presente drammatica crisi del nostro modello di società, si può cominciare da un nocciolo di cose che abbiamo più volte mostrato insieme di non volere, e di cose che vogliamo in loro luogo.

Da una parte, non vogliamo che si vada avanti, in pochi, a cambiare la costituzione italiana; non vogliamo un potere sovranazionale europeo che continui ad operare indipendente dalla popolazione europea e contrariamente ai suoi veri e più generali bisogni; non vogliamo che i ricchi continuino ad arricchirsi e i poveri a impoverirsi e ad essere esclusi come superflui; non vogliamo le guerre che si fanno e si preparano, e rifiutiamo le ingiustizie che le alimentano e le menzogne che le vorrebbero giustificare.

Al contrario vogliamo, punto per punto, altre cose precise. Innanzitutto vogliamo il rispetto della sentenza della Corte costituzionale sulle leggi elettorali; e vogliamo fare di tutto per impedire la cosiddetta riforma del Senato, (riformando piuttosto il funzionamento dei partiti, e sottraendoli alla corruzione e alle lobby). Vogliamo poi aprire una vertenza anche disobbediente sulle regole monetarie, di bilancio, e così via, che sono state imposte dall’alto al nostro come ad altri paesi, cominciando dal referendum sull’attuazione dell’art. 81 “riformato” della nostra costituzione e dalla conferenza europea sulla rinegoziazione dei debiti pubblici proposta da Tsipras. Vogliamo sollevare l’indignazione popolare contro ennesimi regali agli evasori, vogliamo rilanciare e rendere trasparente la grande tradizione del riformismo europeo circa lo strumento fiscale come fattore di equità sociale, e vogliamo attuare l’art. 3 della nostra costituzione dando priorità assoluta all’obiettivo di assicurare la dignità individuale e sociale di ogni persona attraverso il lavoro. Vogliamo rinegoziare e soprattutto verificare i trattati di alleanza esistenti, gli impegni conosciuti e soprattutto quelli meno conosciuti che hanno portato le forze armate di paesi come il nostro ad aggredire paesi del Mediterraneo come la Libia, e governi come il nostro ad essere complici di sanguinose attività di destabilizzazione di paesi come la Siria e l’Ucraina servendosi di inaccettabili e pericolosi alleati fascisti di varia natura (fino a quando non se la prendono con noi).

In Italia, le forze più o meno organizzate che condividono o almeno tentano a condividere questi «no» e questi «sì» sono suddivise in tre tronconi che finora hanno quasi sempre proceduto parallelamente, malgrado alcuni limitati e recenti episodi di convergenza: i piccoli partiti in cui nobilmente sopravvive (cosa comunque preziosa) il nome e l’esplicita identità comunista; “Sinistra ecologia e libertà”, i comitati Tsipras, che giustamente sono fermi nell’intento di proseguire e rafforzare l’esperienza unitaria delle recenti elezioni europee, e che tuttora sono forti di adesioni individuali da parte di membri dei primi due gruppi. A Bologna, il 16 e 17 gennaio prossimi, i Comitati si riuniranno per prendere qualche decisione in più (non è ancora certo se tutte) circa il modo di realizzare questa volontà.

Alcune di queste forze (non certamente la terza) in passato hanno stretto alleanze con lo stesso partito (il PD) che oggi, al governo, fa e promuove tutte le cose che non vogliamo, o in qualche modo vi tendeva anche quando era meno evidente. Adesso anche queste (compresa per ultima, e con qualche residua esitazione, SEL) sembrano orientarsi verso una più decisa e strategica contrapposizione almeno a questo PD. Ma anche recentemente qualcuna (specialmente SEL) ha formato con il PD alleanze elettorali locali che dichiaratamente miravano a dare valore a forze interne al PD considerate ancora (a parte il nome) democratiche. Una parte di queste forze interne al PD sembra oggi tendere ad uscirne. Potranno essere un’ulteriore componente del campo alternativo? Lo vogliono essere? Sono, soprattutto, alternative?

O per chiarirlo, o forse per altre ragioni, il personale politico di SEL e questi dissidenti, insieme con forze anche valide e rappresentative del mondo sindacale, daranno vita prossimamente ad un evento di discussione (o di auto-presentazione) pubblica, dal titolo poco semplice, e non semplice da inserire nel contesto dei movimenti in atto. Ciò che i dissidenti del PD pensano non è sempre chiaro, e nemmeno è chiaro fino a che punto essi abbiano ripensato l’intero progetto strategico da cui il PD è nato (il veltronismo, insomma), di cui il renzismo costituisce piuttosto un’ estrapolazione ardita ma coerente che un vero stravolgimento. I rischi e le ambiguità sono evidenti.

Da parte delle più generose e promettenti energie che stanno per ritrovarsi a Bologna, comunque, drammatizzare l’evento milanese dal nome poco semplice sarebbe altrettanto sconsigliato. E, fortunatamente, non sembra prevalere, in loro, l’intenzione di farlo. È innanzitutto un segno di speranza che tra i due eventi vicini di fine gennaio – l’imminente assemblea di Bologna dei comitati Tsipras e la riunione di più ampio personale politico rappresentativo che avrà luogo a Milano per iniziativa di SEL – non vi sia pregiudiziale distanza ma impegnativa e reciproca attenzione. Dare valore alla parte piena del bicchiere (il PD che scricchiola) piuttosto che a quella vuota (le ambiguità dei dissidenti) dovrebbe essere il primo criterio che una politica egemonica e forte delle sue idee dovrebbe seguire.

Il punto è che ci deve essere una piattaforma forte e potenzialmente egemonica come protagonista di queste azioni. Ed è ciò che dovrebbe nascere a Bologna. Sotto il segno dell’unità e della rappresentatività.

Fare insieme, in modo organizzato, tutto ciò che insieme si vuole, è il criterio che può assicurare fin d’ora il massimo (non il minimo) di unità possibile Perché ciò che si vuole insieme è molto, non poco. Le energie fluide che si aggregano e si disperdono, sovrapponendo troppo spesso le loro azioni anziché coordinarle (chi non ricorda i tavoli separati per la raccolta di firme?) dovrebbero innanzitutto creare comitati di scopo intorno a ciò che insieme si vuole e insieme non si vuole (es. campagne popolari su proposte di legge di iniziativa popolare, ecc.), e prepararsi come un punto di riferimento unico per gli elettori nelle (non lontane) elezioni politiche, unito dalle leggi e dalle riforme (vere) che promuoveranno in parlamento dopo averle promosse nelle piazze. Le diatribe su nuovo soggetto o federazione di soggetti, su unità comunista prima e unità più larga poi oppure no, su scioglimenti o no, possono essere messe da parte, mentre si cammina, senza che alcuno perda. Si può pensare che lo scopo finale sia il socialismo, il comunismo, l’anarchia, la decrescita felice, o altro che si voglia, e aderire a partiti che coltivino ciò. Intanto si dovrebbe unire praticamente ma non episodicamente le forze, con specifici vincoli organizzativi, per obiettivi più ravvicinati e determinati che non pregiudichino nulla di tutto questo. Il soggetto nuovo dovrebbe essere un’impresa precisa con uno scopo preciso e un termine preciso. Poniamo: invertire la tendenza (oggi demenziale e perversa) dei rapporti tra rendite, salari e profitti (e su ciò sarebbe quasi rivoluzionario, oggi, mirare a riportare le relative forbici ai valori indici del 1970); quella dei rapporti tra investimenti e bisogni (con prevalenza di investimenti labor-intensive e non labor-saving e con l’immissione nel mercato di soggetti collettivi forti e rappresentativi come committenti della produzione e dell’innovazione); quella, in generale, dei rapporti tra pubblico ossia generale, e privato ossia particolare. E farlo stabilmente entro dieci anni. Che passano presto, ma durante i quali si può lottare molto e fare molto. E poi si vedrà: nuovi problemi (quasi sicuramente meno gravi di questi), e nuove scelte; ancora insieme, oppure no.

Per assicurare la rappresentatività della gestione del processo unitario, condotto entro questi precisi e insieme amplissimi limiti, abbiamo a disposizione i comitati territoriali spontanei, entusiasti, privi di pregiudizi reciproci, che hanno ridato il gusto o fatto nascere il gusto della politica in anziani delusi e giovani in cerca, che hanno prodotto il risultato del 25 maggio, e costituiscono la novità più feconda e più promettente della politica democratica in Italia oggi. Deve esserci un tesseramento. Devono esserci congressi. Il tema: come realizzare il programma (di lotta e di governo futuro), a chi dare fiducia a questo scopo. Nessun esistente partito si scioglierà, ma ci sarà cessione di sovranità quanto all’area di obiettivi comuni che costituiranno la ragione sociale del soggetto federale. Per il momento, a tempo determinato, poi si vedrà. Il fatto è che quell’area non è fatta, non può essere fatta, di inezie… Appunto, poi si vedrà.

Raffaele D’Agata

Ancora una smentita alle bugie di chi sostiene che Tsipras vuole "uscire dall'euro": «Syriza non è un orco né una minaccia: è solo la voce della ragione, e saprà suonare la sveglia all’Europa, per riscuoterla da torpore e passività. Per questo Syriza non è più considerata un pericolo come nel 2012, ma come una sfida per il cambiamento».

Corriere della Sera, 7 Gennaio 2015

La Grecia è davanti a una svolta storica. non è più una semplice speranza per il popolo greco: incarna l’aspettativa di un mutamento di rotta per l’intera Europa, che non uscirà dalla crisi senza una profonda revisione delle sue scelte politiche. La vittoria di Syriza darà slancio alle forze che spingono per il cambiamento. Perché se la Grecia è finita in una strada senza uscita, l’Europa di oggi è destinata a fare la stessa fine.

Il 25 gennaio, i greci sono chiamati a scrivere la storia con il voto, a tracciare un cammino di rinnovamento e di speranza per tutti gli europei, condannando le politiche fallimentari di austerità e dimostrando che quando il popolo lo vuole, ha il coraggio di osare e sa superare angosce e timori, la situazione può cambiare. Syriza non è un orco né una minaccia: è solo la voce della ragione, e saprà suonare la sveglia all’Europa, per riscuoterla da torpore e passività. Per questo non è più considerata un pericolo come nel 2012, ma come una sfida per il cambiamento.
Ma una piccola minoranza dei Paesi membri, stretta attorno alla leadership conservatrice del governo tedesco e di una parte della stampa populista, continua a far circolare vecchie dicerie a proposito di una GrExit (l’uscita della Grecia dalla zona euro). Proprio come Antonis Samaras in Grecia, tali voci non convincono più nessuno. Dopo aver sperimentato il suo governo, il popolo greco sa distinguere le menzogne dalla verità.
Samaras non ha niente da offrire, tranne la sottomissione ai precetti di un’austerità dannosa e fallimentare, che hanno imposto alla Grecia nuovi aumenti fiscali e tagli a stipendi e pensioni, che vanno a sommarsi a sei anni di sacrifici. Chiede ai greci di votare per lui per proseguire su questa strada. Nasconde però il fatto che la Grecia si è impegnata a raggiungere questi obiettivi, non a farlo seguendo una precisa linea politica.
Syriza si impegna ad applicare sin dai primi giorni del mandato il Programma di Tessalonica, economicamente vantaggioso e fiscalmente equilibrato, a prescindere dai negoziati con i nostri creditori. Il programma prevede azioni per porre fine alla crisi umanitaria; misure di equità fiscale, affinché l’oligarchia finanziaria, che non è stata sfiorata dalla crisi, sia finalmente costretta a pagare; un piano di rilancio dell’economia per contrastare gli altissimi livelli di disoccupazione e tornare a crescere. Sono previste riforme radicali nella gestione dello Stato e della pubblica amministrazione, perché non vogliamo tornare al 2009, ma cambiare ciò che ha portato il Paese sull’orlo della bancarotta non solo economica, ma anche morale. Clientelismo (di uno Stato ostile ai suoi cittadini), evasione ed elusione, operazioni in nero, contrabbando sono solo alcuni aspetti di un sistema di potere che ha governato il Paese per troppi anni, portandolo alla disperazione, e che continua a governare nel nome dell’emergenza e per timore della crisi.
In realtà non si tratta di timore della crisi, bensì di timore del cambiamento. È questa paura, aggravata dall’incapacità di un sistema di governo, ad aver portato il popolo greco a una tragedia senza precedenti. E i responsabili di tutto questo, se conoscono l’antica tragedia greca, hanno buoni motivi per spaventarsi, perché l’hybris è seguita dalla nemesi e dalla catarsi!
Il popolo greco e l’Europa non hanno nulla da temere: non vuole il crollo, ma la salvezza dell’euro. È impossibile salvare l’euro quando il debito pubblico è fuori controllo. Ma il debito è un problema europeo, non solo greco: e l’Europa deve accollarsi il compito di cercare una soluzione sostenibile. Syriza e la sinistra europea sostengono che occorre cancellare la maggior parte del valore nominale del debito pubblico, per poi introdurre una moratoria sul piano di rientro e una clausola di crescita per ripianare il debito restante, in modo da utilizzare le rimanenti risorse per stimolare la ripresa. Esigiamo condizioni che non sprofondino il Paese nella recessione e non spingano il popolo alla miseria e alla disperazione.
Samaras danneggia la Grecia, se si ostina ad affermare che il debito greco è sostenibile. [...] Ci sono due posizioni diametralmente opposte per il futuro dell’Europa. Da una parte, la prospettiva delineata dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble: occorre rispettare gli impegni presi e proseguire su quella strada, a prescindere dai risultati ottenuti. Dall’altra, la volontà di «fare tutto il possibile» - suggerita dal presidente della Banca centrale europea - per salvare l’euro. Le elezioni greche saranno il campo sul quale si sfideranno queste due strategie. Sono convinto che quest’ultima prevarrà per un’altra ragione ancora: perché la Grecia è la patria di Sofocle, il quale ci ha insegnato, con Antigone, che talvolta la suprema legge è la giustizia.
Traduzione di Rita Baldassarre
Tre articoli (di Tommaso Di Francesco, Anna Maria Merlo, Pavlos Nerantzis) sull'evento possibile che fa tremare il mondo della finanza e i suoi servi disseminati nelle istituzioni e nei mass media: la vittoria, in Grecia, di una sinistra che vuole andare alla radice della crisi. Il manifesto, 6 gennaio 2015

GIÚ LE MANI DAL VOTO GRECO
di Tommaso di Francesco


Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo.

Quello che accade in que­sti giorni e in que­ste ore in Gre­cia ci riguarda diret­ta­mente, la crisi infatti non è greca ma dell’intero sistema finan­zia­rio del capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato. Sono sette anni che il mondo occi­den­tale è in aperta reces­sione e le sole timide uscite segna­late sono quelle di paesi che hanno la capa­cità di sca­ri­care su quelli più deboli con­trad­di­zioni e costi, come fanno la Ger­ma­nia con i neo­sa­tel­liti dell’est e gli Stati uniti con l’intera eco­no­mia euro­pea. Il fatto che la sini­stra rap­pre­sen­tata da Syriza sia riu­scita a sven­tare a fine anno la mano­vra del pre­mier Sama­ras di eleg­gere un “suo” pre­si­dente della repub­blica per negare e riman­dare la veri­fica elet­to­rale è un avve­ni­mento di por­tata continentale.

Tutta l’Europa in que­sto momento guarda ad Atene e, certo, non tutti con la stessa aspet­ta­tiva. I mer­cati, vale a dire la finanza inter­na­zio­nale occi­den­tale, teme che la rine­go­zia­zione dei ter­mini del debito greco metta in discus­sione i cri­teri con cui l’Unione euro­pea ha sal­va­guar­dato le ban­che invece degli inve­sti­menti per il lavoro, l’occupazione, le spese sociali; l’establishment dell’Ue ha paura che l’arrivo sulla scena del governo greco di una forza alter­na­tiva di sini­stra fac­cia sal­tare l’impianto dei dik­tat che hanno por­tato alla crisi uma­ni­ta­ria non solo la Gre­cia. Ad Atene invece si apre uno spi­ra­glio di luce, una grande pos­si­bi­lità. Noi che in Ita­lia lavo­riamo a rico­struire una sini­stra alter­na­tiva ita­liana, men­tre siamo alle prese con la scom­parsa della sini­stra e con le scelte neo­li­be­ri­ste di un governo come quello del lea­der Pd Mat­teo Renzi all’attacco dei diritti dei lavo­ra­tori e del wel­fare, vediamo l’occasione straor­di­na­ria di una svolta pos­si­bile anche in Ita­lia e in tutta Europa. È un’opportunità euro­pei­sta, per­ché l’Unione euro­pea invece che nemica, com’è stata finora, diventi il con­ti­nente dei diritti e della democrazia.

Sor­prende e allarma, in una parola pre­oc­cupa, il dispo­si­tivo — fin qui — di ter­ro­ri­smo psi­co­lo­gico di massa che i governi euro­pei e i rap­pre­sen­tanti della stessa Com­mis­sione euro­pea hanno messo in campo. Dal pre­si­dente Junc­ker con le sue dichia­ra­zioni con­tro Syriza, al governo di ferro di Ber­lino, a quello di destra di Madrid alle prese con ele­zioni pro­prio nel 2015 e con la nuova for­ma­zione di sini­stra Pode­mos; con l’eccezione del pre­si­dente fran­cese Hol­lande che almeno invita Mer­kel e i governi Ue a rico­no­scere che alla fine «il popolo è sovrano». Que­sto attacco sub­dolo e scel­le­rato è con­tro il popolo greco che vuole deci­dere il pro­prio destino. Dopo tante chiac­chiere sulla demo­cra­zia, sco­priamo dun­que che i lea­der e i governi euro­pei la temono anzi­ché difen­derla e vor­reb­bero impe­dire che chi ha subìto i costi della crisi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio possa votare con­tro la vio­lenza isti­tu­zio­nale che i tagli rifor­mi­sti hanno rap­pre­sen­tato per la con­di­zione di vita di milioni e milioni di cit­ta­dini e lavo­ra­tori con l’aumento della mise­ria e delle dise­gua­glianze. Così si strappa un velo: il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato non ama la demo­cra­zia reale ma solo quella rituale e svuo­tata di senso — vista l’equivalenza dei par­titi — che allrga il bara­tro tra gover­nanti e gover­nati, ali­menta qua­lun­qui­smo e anti­po­li­tica, men­tre crol­lano le per­cen­tuali di voto e vince ovun­que l’astensionismo di massa e il con­flitto di tutti con­tro tutti. Fino a favo­rire una nuova destra estrema xeno­foba, raz­zi­sta, iper­na­zio­na­li­sta che difende nella crisi i più forti e usa i deboli con­tro i più deboli.

Allora, giù le mani dalle ele­zioni gre­che. Solo la demo­cra­zia reale sal­verà la Gre­cia e l’Europa dal disa­stro. Una demo­cra­zia reale che chiami il 25 gen­naio non ad un voto qual­siasi ma ad un impe­gno di pro­ta­go­ni­smo milioni di gio­vani, di donne, di lavo­ra­tori e disoc­cu­pati. Per­ché sosten­gano l’alternativa che Syriza e il suo pro­gramma già rap­pre­sen­tano, per­ché cre­sca la sua forza e si allar­ghi il suo soste­gno — nes­suno a sini­stra può restare solo a guar­dare. E per­ché il forte con­senso che avrà, e che noi auspi­chiamo, sia il primo passo per coin­vol­gere il popolo e i lavo­ra­tori nel governo della Gre­cia e nella svolta in Europa

L'EURO NON GREXIT
di Anna Maria Merlo

Europa. La Germania fa tremare i mercati. Ma Hollande frena Merkel: «Sarà la Grecia a decidere cosa fare». La Linke e i Verdi denunciano le «pressioni inappropriate» di Berlino sulle elezioni elleniche

Con la gra­zia di un ele­fante in un nego­zio di cri­stal­le­ria, la Ger­ma­nia, minac­ciando Atene di Gre­xit – uscita dall’euro — in caso di vit­to­ria di Syriza alle legi­sla­tive anti­ci­pate del 25 gen­naio, ha squar­ciato un velo che rischia di avere un effetto boo­me­rang in tutta Europa: la demo­cra­zia sarebbe diven­tata sol­tanto un’operazione for­male nella Ue, ingab­biata dal rispetto del Fiscal Com­pact e delle regole di auste­rità? I cit­ta­dini non avreb­bero quindi più nes­suna libertà di scelta, dando cosi’ ragione a tutti gli euro­scet­tici (di estrema destra) che hanno ormai il vento in poppa nella mag­gior parte dei paesi dell’eurozona? Secondo Der Spie­gel, per Angela Mer­kel e il mini­stro delle finanze Wol­fgang Schäu­ble non c’è «nes­suna alter­na­tiva» all’applicazione del Memo­ran­dum, men­tre il Gre­xit sarebbe addi­rit­tura «quasi ine­vi­ta­bile» se Syriza al potere rifiu­terà di con­ti­nuare ad imporre le riforme impo­po­lari – e inef­fi­caci — che hanno ridotto gran parte dei cit­ta­dini greci alla povertà. Se Syriza chie­derà una mora­to­ria sul rim­borso del debito, la Gre­cia potrebbe venire costretta ad abban­do­nare la moneta unica, dice la Ger­ma­nia domi­nante. E que­sto non avrà con­se­guenze per la zona euro secondo Ber­lino, non ci sarà l’effetto domino, visto che a dif­fe­renza del 2011 e del 2012 ormai l’euro è pro­tetto dal para­ful­mine del Mes (il Mec­ca­ni­smo euro­peo di sta­bi­lità, dotato di 500 miliardi) e le sue ban­che sono a riparo della recente riforma del settore.

I grossi zoc­coli con cui Mer­kel e Schäu­ble sono entrati in cam­pa­gna elet­to­rale ad Atene non hanno nes­sun riscon­tro nei Trat­tati. La can­cel­le­ria ha smen­tito mol­le­mente le rive­la­zioni di Der Spie­gel. In effetti, l’obiettivo era solo di fare paura, di spa­ven­tare l’elettore greco: o sce­glie Sama­ras e l’euro, oppure Tsi­pras e il caos. Già Jean-Claude Junc­ker ci aveva pro­vato, il 12 dicem­bre scorso, spe­rando di influire sul voto par­la­men­tare per il pre­si­dente della repub­blica: in un’intervista alla tv austriaca, il pre­si­dente della Com­mis­sione aveva affer­mato di pre­fe­rire dei «volti fami­liari« (cioè Sta­vros Dimas) per­ché «non mi pia­ce­rebbe che delle forze estre­mi­ste pren­des­sero il potere». Il risul­tato di que­sto inter­vento è stato la non ele­zione del pre­si­dente e la con­se­guente con­vo­ca­zione di ele­zioni anti­ci­pate. Con un comu­ni­cato, è inter­ve­nuto nel fine set­ti­mana anche il com­mis­sa­rio agli Affari eco­no­mici e mone­tari, Pierre Mosco­vici, invi­tando i greci a dare «un ampio soste­gno» al «neces­sa­rio pro­cesso di riforme» in corso (cioè votare per Nuova Demo­cra­zia e Pasok). Ma Ber­lino (e Mosco­vici) hanno esa­ge­rato. Ieri una por­ta­voce della Com­mis­sione, Annika Breid­thardt, ha cer­cato di spe­gnere l’incendio affer­mando che l’appartenenza all’euro è «irre­vo­ca­bile», stando ai Trat­tati. Il Trat­tato di Lisbona pre­vede la pos­si­bi­lità di un’uscita dalla Ue, su deci­sione del paese inte­res­sato (e non su impo­si­zione di altri), ma for­mal­mente un paese non Ue potrebbe con­ti­nuare ad uti­liz­zare l’euro (suc­cede con Kosovo e Mon­te­ne­gro, che usano l’euro senza essere nella Ue). Fra­nçois Hol­lande ha preso ieri mat­tina le distanze da Angela Mer­kel: «I greci sono liberi di deci­dere sovra­na­mente sul loro governo – ha affer­mato il pre­si­dente fran­cese in un’intervista a France Inter – e per quanto riguarda l’appartenenza della Gre­cia alla zona euro, tocca ad essa deci­dere». Però il governo, qua­lun­que esso sia, deve «rispet­tare gli impe­gni presi».

In Ger­ma­nia c’è imba­razzo per le rive­la­zioni dello Spie­gel. Solo gli euro­scet­tici dell’Afd hanno appro­vato l’intervento musco­lare di Ber­lino. Die Linke e i Verdi hanno denun­ciato le pres­sioni inap­pro­priate sugli elet­tori greci, il vice-cancelliere Spd, Sig­mar Gabriel, ha cer­cato di cor­reg­gere il tiro, indi­cando che «l’obiettivo del governo tede­sco, della Ue e anche del governo di Atene è di man­te­nere la Gre­cia nella zona euro». Dall’Europarlamento il gruppo S&D avverte: «La destra tede­sca deve smet­tere di com­por­tarsi come uno sce­riffo in Gre­cia» per­ché «non è solo inac­cet­ta­bile ma anche sba­gliato: atteg­gia­menti del genere pos­sono solo pro­durre rab­bia e rifiuto della Ue», con il rischio di «ero­sione demo­cra­tica» nella Ue.

Syriza vuole rine­go­ziare con la tro­jka i ter­mini del rim­borso del colos­sale debito (177 per cento del Pil). E ha ragione, per­sino stando alle prese di posi­zione di Bru­xel­les. L’Eurogruppo, nel novem­bre 2012, si era impe­gnato con Atene a rive­dere i ter­mini del rim­borso quando la Gre­cia avesse rag­giunto l’equilibrio di bilan­cio pri­ma­rio (esclusi cioè gli inte­ressi sul debito): Atene, al prezzo del rigore asso­luto, lo ha fatto già da fine 2013. Ma Mer­kel non vuole soprat­tutto che ven­gano ridi­scussi i ter­mini del Memo­ran­dum: Syriza pro­pone riforme diverse, con­cen­trate sul fun­zio­na­mento dello Stato, men­tre la troika insi­ste sui tagli ai salari e al numero di dipen­denti pub­blici. In Ger­ma­nia, anche la Cdu ha espresso pre­oc­cu­pa­zione per la mani­fe­sta­zione di arro­ganza tede­sca: in caso di default greco, a pagare sarebbe prima di tutto la banca pub­blica tede­sca Kfw, che ha in cassa una parte con­si­stente dei 260 miliardi di debito greco, assieme ai prin­ci­pali stati mem­bri della zona euro e alla Bce. La Ger­ma­nia si arroga un potere che non ha: solo la Bce, in linea di prin­ci­pio, potrebbe cau­sare il Gre­xit, tagliando i cre­diti alle ban­che gre­che. Ma così Dra­ghi met­te­rebbe fine alla difesa dell’euro «a qua­lun­que costo», aprendo il vaso di Pan­dora di un pos­si­bile effetto domino. A cui nep­pure la Ger­ma­nia potrebbe resi­stere: Ber­lino pensa di soprav­vi­vere senza la Gre­cia, ma l’economia tede­sca non ce la farebbe nel caso di uscita dall’euro dell’Italia e della Francia

SPERANZA CONTRO PAURA
di Pavlos Nerantzis

La spe­ranza per un avve­nire migliore in Gre­cia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà poli­tica di appli­care il pro­gramma eco­no­mico a favore degli strati sociali mag­gior­mente col­piti dalla crisi. È la rispo­sta di Syriza alla stra­te­gia della paura pro­mossa dai con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia e i loro soste­ni­tori, ter­ro­riz­zati dai son­daggi che con­ti­nuano a dare in testa la sini­stra radi­cale greca, tre set­ti­mane prima delle ele­zioni del 25 gennaio.

Syriza, secondo gli ultimi due son­daggi, si con­ferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, con­tro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimo­kra­tia del pre­mier Anto­nis Sama­ras. Al terzo posto si tro­vano i nazi­sti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due son­daggi, men­tre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia (Kke) con il 4,8 per cento. I socia­li­sti del Pasok, invece, che hanno soste­nuto il governo di Sama­ras, rischiano di non essere eletti al par­la­mento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior pre­mier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Sama­ras con­tro il 33,4 per cento che pre­fe­ri­sce Tsi­pras. Il 74,2 per cento poi ha rispo­sto che la Gre­cia deve a ogni costo rima­nere nella zona euro.

La pro­spet­tiva della vit­to­ria di Syriza non piace, però, ai mer­cati come anche a una parte della stampa inter­na­zio­nale, che insi­ste sull’ even­tua­lità di un Gre­xit, nono­stante Ale­xis Tsi­pras non smetta di sot­to­li­neare che il suo par­tito non ha la minima inten­zione di uscire dalla zona euro. A que­sti timori è stato attri­buito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la ten­sione regi­strata sullo spread elle­nico, che è bal­zato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.

Pure la Grande coa­li­zione a Ber­lino, a leg­gere il set­ti­ma­nale Der Spie­gel, si pre­para a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «que­sto fatto non avrebbe riper­cus­sioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Ber­lino per il momento smen­ti­sce. Ieri il por­ta­vove di Angela Mer­kel ha detto che il governo tede­sco non ha cam­biato posi­zione. Anzi, ha aggiunto, la can­cel­liera tede­sca «insieme ai suoi part­ner lavo­rano per raf­for­zare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi mem­bri, Gre­cia inclusa».

L’ipotesi di un Gre­xit è stata respinta anche da Parigi e da Bru­xel­les che, oltre a far ricor­dare ad Atene che ci sono impe­gni che «vanno ovvia­mente rispet­tati», riba­di­scono che in base ai trat­tati dell’Ue non è pos­si­bile l’uscita di un paese mem­bro dalla zona euro. In altri ter­mini, come ha pre­ci­sato un por­ta­voce della Com­mis­sione euro­pea, la par­te­ci­pa­zione all’euro è irre­ver­si­bile, secondo l’articolo 140, para­grafo 3 del Trat­tato Ue. Quindi per un Gre­xit sarebbe prima neces­sa­ria una modi­fica del trat­tato, «la cui pro­ce­dura pre­vede l’ una­ni­mità dei paesi mem­bri, l’approvazione del par­la­mento euro­peo e ovvia­mente da parte dei par­la­menti nazionali».

Per il momento quindi i part­ner euro­pei, alleati di Anto­nis Sama­ras, fanno una mano­vra: sem­brano abban­do­nare la stra­te­gia della paura e le inter­fe­renze, come era suc­cesso durante le ele­zioni pre­si­den­ziali, lasciando Atene libera di deci­dere il pro­prio destino. Almeno appa­ren­te­mente, per­ché die­tro le quinte lavo­rano per affron­tare la que­stione prin­ci­pale, che il nuovo governo greco se sarà gui­dato da Ale­xis Tsi­pras met­terà sul tavolo dei col­lo­qui: il taglio del debito pub­blico greco. Una richie­sta che, nel caso venisse accet­tata da Ber­lino e ovvia­mente da Bru­xel­les — per­ché di fatto que­sti pre­stiti ad Atene non saranno mai rim­bor­sati per intero — rischie­rebbe un con­ta­gio poli­tico a Roma e a Madrid. Allora lo scon­tro tra un governo delle sini­stre e la can­cel­liera tede­sca sarebbe ine­vi­ta­bile e solo a quel punto si potrebbe par­lare del rischio di un Gre­xit pro­vo­cato da Berlino.

Intanto l’arresto ad Atene di Chri­sto­dou­los Xiros, espo­nente dell’organizzazione “17 Novem­bre”, con­dan­nato a sei erga­stoli e ulte­riori 25 anni di pri­gione ed evaso un anno fa dal car­cere di Kry­dal­los, è diven­tato un altro motivo di scon­tro tra Nea Dimo­kra­tia e Syriza. Il pre­mier Sama­ras, che pure nel pas­sato aveva accu­sato Tsi­pras di «andare a brac­cet­to­con i ter­ro­ri­sti» e di «rap­porti tra Syriza e orga­niz­za­zioni ter­ro­ri­sti­che», ieri ha accu­sato la sini­stra radi­cale di non aver emesso un comu­ni­cato stampa a favore degli agenti che hanno arre­stato il ricer­cato numero uno in Gre­cia. Xiros stava pre­pa­rando un attacco con­tro le car­ceri di Kory­dal­los per far eva­dere i dete­nuti dell’organizzazione “Cospi­ra­zione dei nuclei di fuoco”

«». Il manifesto

I risul­tati delle ele­zioni par­lano chiaro: la “nar­ra­zione” ren­ziana è in crisi, ma le forze a sini­stra del Pd non appa­iono una alter­na­tiva credibile.

I sin­tomi di crisi del ren­zi­smo sono nel bru­sco calo dei votanti in realtà tanto diverse come Emi­lia e Cala­bria. Il feno­meno indica non solo l’incrinarsi del potere di attra­zione del pre­mier, ma anche con­si­stenti segnali di ribel­lione dell’elettorato di sini­stra verso il Pd. Inol­tre, per la prima volta i gril­lini non inter­cet­tano il malcontento. Sem­bre­rebbe una situa­zione eccel­lente per chi voglia pro­porre una alter­na­tiva di sini­stra. Invece così non è. L’Altra Emilia-Romagna ha rac­colto il 4% e Sel, nell’ambito del centro-sinistra, il 3,23%. In Cala­bria “La Sini­stra” (Sel, Pdci, Idv), pur in una coa­li­zione scre­di­tata, il 4,36%, e L’Altra Cala­bria (Prc e Alba, altre com­po­nenti della ex Lista Tsi­pras erano per il non voto) si ferma all’1,32%.

Tutto que­sto ci dice due cose. In primo luogo, non vi è oggi spa­zio a sini­stra del Pd per più di una pro­po­sta poli­tica. In secondo luogo, se le forze a sini­stra del Pd si unis­sero in un Fronte arti­co­lato e plu­rale, lasciando da parte in nome del bene comune le reci­pro­che avver­sioni, con una lea­der­ship col­let­tiva e rico­no­sci­bile, que­sto sog­getto politico-elettorale avrebbe di fronte a sé poten­zia­lità rilevanti. Esso potrebbe pun­tare a con­qui­stare mili­tanti e voti tra i lavo­ra­tori sin­da­ca­liz­zati e tra i gio­vani disoc­cu­pati, tra i vec­chi iscritti al Pci e tra coloro che sono cre­sciuti nei movi­menti anti­si­stema: insomma, tra i delusi degli ultimi vent’anni di sto­ria poli­tica e sociale del nostro paese.

Parlo di un Fronte della Sini­stra (o Fronte del Popolo, o come lo si voglia chia­mare) per­ché l’obiettivo di un unico par­tito non è rea­li­stico. Anzi, i can­tieri oggi aperti (Lista Tsi­pras, Human Fac­tor, nuovo par­tito comu­ni­sta) avranno un ruolo posi­tivo solo se non cre­dono di essere auto­suf­fi­cienti, se dia­lo­gano fra loro, guar­dando con rispetto alle forze poli­ti­che esi­stenti, che restano deci­sive, come al grande mare dei non orga­niz­zati o di coloro che lo sono in asso­cia­zioni e gruppi non partitici.

Biso­gna finirla con i veti incro­ciati e coi risentimenti.

Que­sto Fronte della Sini­stra dovrebbe par­tire dalle lotte sin­da­cali, dei pre­cari, dei disoc­cu­pati: senza radici nel mondo del lavoro non si è sini­stra. Ma anche pre­sen­tare un pro­getto di rin­no­va­mento e di cre­scita rivolto a tutta la società. E una ela­bo­ra­zione che pro­spetti un tipo nuovo di con­vi­venza, alter­na­tiva a quella attuale. Credo sia impor­tante avere un duplice pro­gramma: uno di misure imme­diate, per fron­teg­giare l’emergenza; e un Pro­gramma fon­da­men­tale, per dire verso quale società si vuole andare.

Da subito poche pro­po­ste e chiare: per il lavoro, il Mez­zo­giorno, i gio­vani, la scuola e la cul­tura, la casa, il wel­fare. Si deve essere in grado di dire dove si tro­ve­ranno le risorse, col­pendo quali inte­ressi: è neces­sa­rio avere dei nemici. Per­ché que­sto nuovo sog­getto deve essere di parte, anche se non mino­ri­ta­rio. Dovrebbe pro­nun­ciarsi, ad esem­pio, sul ruolo del pub­blico, pro­po­nendo una eco­no­mia mista secondo quanto pre­vi­sto dalla stessa Costi­tu­zione. Dovrebbe avviare una Riforma antiliberista.

E, soprat­tutto, que­sto Fronte della Sini­stra non deve pen­sare che il suo com­pito si esau­ri­sca dopo una prima prova elet­to­rale, comun­que vada. È un lavoro di lunga lena quello che ci attende, nella società prima che nelle isti­tu­zioni. Deve fon­darsi sulla pro­messa reci­proca di stare insieme per un lungo tratto di strada, senza cedere a tat­ti­ci­smi e inte­ressi di corto respiro. Non si fa “grande poli­tica” né con una nuova pro­po­sta ogni sei mesi né facendo la stam­pella alla gamba sini­stra del Pd. Si metta in can­tiere un pro­getto uni­ta­rio e par­te­ci­pato, di alter­na­tiva reale. Si lanci una vera sfida ege­mo­nica in nome delle classi subal­terne, del mondo del lavoro e di chi non ha lavoro, della demo­cra­zia e della Costi­tu­zione. Oggi si può, la situa­zione lo richiede.

«La fotografia che Enrico Rossi ha postato su Facebook ha fatto politica più di quanta ne abbiano fatto le ultime dieci riunioni della direzione del Pd. Rossi ha compiuto "un significativo gesto di socialità da parte di un uomo delle istituzioni nei confronti di persone tra le meno frequentate e sopportate"».

Articolo9, 3 dicembre 2014

Ha scritto Leonardo: «Poni scritto il nome di Dio in un loco, e ponvi la sua figura a riscontro: vedrai quale fia più riverita». Lo straordinario potere delle immagini: da millenni strumento di elezione della politica.

Sarà per questo potere che la fotografia che Enrico Rossi ha postato su Facebook ha fatto politica più di quanta ne abbiano fatto le ultime dieci riunioni della direzione del Pd. Pubblicando una sua foto sorridente con una famiglia Rom, e intitolandola «i miei vicini di casa», Rossi ha compiuto – come ha scritto Michele Serra – «un significativo gesto di socialità da parte di un uomo delle istituzioni nei confronti di persone tra le meno frequentate e sopportate».

Una cosa normale, addiritura banale, in un paese civile. Uno scandalo in un'Italia incattivita e sempre più consegnata agli istinti più bassi e ai bisogni più elementari.

E a colpire non sono (solo) i post razzisti, gli insulti, le incitazioni al pogrom berciati dal branco rabbioso e anonimo che si muove sulla rete, né gli scontati attacchi frontali della Lega o di Fratelli d'Italia. No, a colpire sono i silenzi della Chiesa gerarchica fiorentina (qualcuno li ha avvertiti che il papa si chiama Francesco?). O i toni dei giornali di Firenze: ieri un quotidiano che ci si aspetterebbe civile ha scritto, nell'editoriale di apertura, che il gesto di Rossi «voleva dare voce alla seconda curva ultrà, quella dei "tutti onesti e lavoratori", senza tenere conto delle differenze che ci sono in ogni gruppo sociale». Parole davvero sconcertanti. Rossi non ha postato la foto di un rom che chiede l'elemosina, scrivendoci sotto «avanti così»: no, si è fatto ritrarre con una famiglia normale che vive in una casa vicina alla sua. E questo sarebbe un gesto da ultra? Dire che l'integrazione è possibile, pensare che le responsabilità siano individuali, e non del 'gruppo': tutto questo sarebbe da ultra?

Va peggio con i politici: a parte qualche eccezione, il Pd si è defilato come non avrebbe fatto neanche Forza Italia. Il ministro della Repubblica Maria Elena Boschi ha detto che Salvini deve tacere perché la sua foto a torso nudo sarebbe «più imbarazzante» di quella di Rossi. E perché mai quella di Rossi dovrebbe essere «imbarazzante»? Ma l'apice dell'antipolitica l'ha toccato il segretario del Pd toscano Dario Parrini, che prima ha detto «no comment», e poi si è limitato a sillabare che «la parola doveri è di sinistra quanto la parola diritti».

E uno, davvero, si chiede cosa sia successo al Partito Democratico. Non mi risulta che Parrini si sia mai sentito in dovere di commentare le due foto qua sotto.

È forse di sinistra che la Fiat vada a pagare le tasse altrove? E come stanno ripartiti, qua, i diritti e i doveri? E ancora: è forse di sinistra che la Costituzione venga cambiata in base ad un patto segreto contratto tra questi due signori? E qua, con la faccenda dei doveri come la mettiamo?

Dario Parrini è di Vinci, proprio come Leonardo. Il quale Leonardo scrisse che «il pesante ferro si reduce in tanta sottilità mediante la lima, che picciolo vento poi lo porta via». Ecco, la furbesca retorica antipolitica sta limando giorno dopo giorno il progetto di Paese che un giorno apparteneva alla Sinistra. Un progetto fondato sull'uguaglianza: quella possibile, quella che sta a noi realizzare. E tra poco basterà il vento forte dell'astensione e il piccolo vento della Lega di Salvini a portarsi via quel futuro possibile.

Come ha scritto ieri Elle Kappa, «il sonno della politica genera destra».



«La grande que­stione che ha di fronte a sé la sini­stra poli­tica è quella di isti­tu­zio­na­liz­zare il con­flitto, dar­gli cioè una rap­pre­sen­tanza sta­bile. Ormai la crisi pro­cede per accu­mu­la­zioni suc­ces­sive, da quan­ti­ta­tiva si è fatta qua­li­ta­tiva; si è tra­sfor­mata in crisi orga­nica, che scon­volge ogni aspetto della Repub­blica».

Il manifesto, 22 novembre 2014

«Coloro che dan­nono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che bia­si­mino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…». Già il Machia­velli dei “Discorsi” aveva isti­tuito un saldo legame tra con­flitto e raf­for­za­mento delle isti­tu­zioni democratiche.

E Giu­seppe Di Vit­to­rio, nel pre­sen­tare all’inizio degli anni Cin­quanta del secolo scorso un primo pro­getto di Sta­tuto dei Lavo­ra­tori, avvertì che «la demo­cra­zia se c’è nella fab­brica c’è anche nel Paese» e, al con­tra­rio, «se la demo­cra­zia è uccisa nella fab­brica essa non può soprav­vi­vere nel Paese».

La grande que­stione che ha di fronte a sé la sini­stra poli­tica è quella di isti­tu­zio­na­liz­zare il con­flitto, dar­gli cioè una rap­pre­sen­tanza sta­bile. Non da oggi, certo.

Ma ormai la crisi pro­cede per accu­mu­la­zioni suc­ces­sive, da quan­ti­ta­tiva si è fatta qua­li­ta­tiva; si è tra­sfor­mata cioè da crisi con­giun­tu­rale in crisi orga­nica, che scon­volge ogni aspetto della Repub­blica: eco­no­mico, sociale, isti­tu­zio­nale. Già si intra­ve­dono, minac­ciosi, dise­gni per una sua solu­zione sco­per­ta­mente rea­zio­na­ria. Di qui l’urgenza della rico­stru­zione di un rap­porto vir­tuoso tra con­flitto e rap­pre­sen­tanza poli­tica. Per ripren­dere i ter­mini di Erne­sto Laclau, sul momento oriz­zon­tale del movi­mento si deve sal­dare il momento ver­ti­cale della lotta per l’egemonia.

I motivi per cui que­sto intrec­cio vir­tuoso non si è fino ad ora pro­dotto sono mol­te­plici, for­te­mente radi­cati in errori sog­get­tivi, primo tra tutti la man­canza di unità tra le varie forze poli­ti­che della sini­stra. Ma ci sono cause ulte­riori da inda­gare. Prima tra tutte: può essere ancora il par­tito nove­cen­te­sco la sin­tesi tra con­flitto sociale e lotta ege­mo­nica? Allo stato dei fatti, i par­titi tra­di­zio­nali attra­ver­sano una crisi della pro­pria ragione sociale tutt’altro che epi­so­dica. Ridotti a comi­tati elet­to­rali al ser­vi­zio del lea­der di turno, risol­vono spesso la pro­pria fun­zione in quella di “uffici di col­lo­ca­mento” per un ceto medio iper­tro­fico e in crisi di iden­tità sociale, spe­ran­zoso di tro­vare nel “mestiere poli­tico” un’àncora di sal­va­tag­gio con­tro l’inesorabile degra­dare della pro­pria posi­zione sociale.

Schiere di can­di­dati si aggrap­pano a quest’àncora ad ogni tor­nata elet­to­rale, fino a supe­rare tal­volta in numero, per sommo para­dosso, gli affluenti al voto. Il tra­sfor­mi­smo più estremo è all’ordine del giorno, per cui si trama nei cor­ri­doi del Palazzo per allun­gare legi­sla­ture ingiu­sti­fi­ca­ta­mente soprav­vis­sute alla fine della spinta pro­pul­siva dei risul­tati elet­to­rali che le ave­vano pro­dotte. Leggi elet­to­rali liber­ti­cide sono pro­mul­gate nell’assenso acri­tico della Camere. Gli enti locali, da ele­menti di demo­cra­zia diretta e popo­lare, sono ridotti a pas­sa­carte delle diret­tive fiscali dei governi cen­trali, in nome delle ragioni della “ditta” da far pre­va­lere su quelli della cittadinanza.

La destra cavalca que­sta crisi della fun­zione sociale dei par­titi, men­tre la sini­stra stenta, per antico abito men­tale (com­pren­si­bil­mente) duro ad estin­guersi, a coglierne i motivi di lungo periodo. Eppure essi dovreb­bero essere oggetto di attenta analisi.

Il par­tito di massa delle classi subal­terne si con­fi­gura, nei sui albori deci­mo­no­nici, come anti-Stato. Il par­tito è lo stru­mento di cui le classi subal­terne si dotano per agire all’interno dello Stato libe­rale, e al tempo stesso tra­sfor­marlo. Esso nasce per uni­fi­care le lotte e dare loro con­ti­nuità. Se il par­tito ope­raio con­tiene in sé i germi del plu­ra­li­smo fin dalla sua for­ma­zione, la forza trai­nante è indi­vi­duata nel pro­le­ta­riato di fab­brica, inteso come classe gene­rale. Que­sto schema entra in crisi con la rivo­lu­zione del “lungo ‘68″. In que­sto periodo il con­flitto tra classi subal­terne ed élite tra­di­zio­nali da un lato assume la sua mas­sima inten­sità; dall’altro, per così dire, esplode; si fran­tuma. Accanto alle lotte del pro­le­ta­riato di fab­brica, rico­no­scen­done solo in una prima fase la guida, fanno la pro­pria com­parsa, e poi via vi acqui­stano rispetto ad esse un grado cre­scente di auto­no­mia, quelle degli stu­denti, per l’emancipazione fem­mi­nile, per la pace, per la sal­va­guar­dia dell’ambiente, tutte ege­mo­niz­zate da una nuova classe media in ascesa.

L’inizio della restau­ra­zione con­ser­va­trice si porta die­tro la rot­tura dell’unità tra il movi­mento ope­raio e que­ste nuove classi medie. Si regi­stra, in que­sti movi­menti, un alto tasso di “inte­gra­bi­lità” nel sistema capi­ta­li­stico, che ne adotta le istanze di avan­guar­dia per rin­no­varsi e rin­vi­go­rirsi. Il par­tito ope­raio di massa, in que­sto con­te­sto, entra in crisi. Entra in crisi la sua capa­cità di uni­fi­ca­zione ed orga­niz­za­zione del con­flitto. All’interno dei par­titi, il rap­porto tra intel­let­tuali e mili­tanza ope­raia si inverte, con i primi che ascen­dono facil­mente e fret­to­lo­sa­mente ai posti diri­genti e la seconda che è vis­suta quasi come un resi­duo fasti­dioso. Si giunge per que­sta via all’espulsione dei ceti subal­terni dalla rap­pre­sen­tanza poli­tica diretta. Ceti subal­terni i quali, a loro volta, in parte subi­scono que­sto allon­ta­na­mento, in parte lo pro­muo­vono attra­verso l’affermazione, tra di essi, di un nuovo senso comune che rimette in discus­sione l’utilità e la neces­sità dell’azione col­let­tiva, e di nuovi modelli di con­sumo del tempo libero.

In que­sta fase di scom­po­sta riti­rata siamo ancora immersi, pro­prio nel momento in cui il con­flitto sociale riprende vigore. Invece di attar­darsi in ten­ta­tivi di rie­su­ma­zione di una espe­rienza sto­rica forse irri­pe­ti­bile, serve tro­vare rispo­ste inno­va­tive. È urgente la crea­zione di un fronte plu­ra­li­stico della istanze popo­lari che sor­gono dalla società civile in lotta, cer­cando di ridurle ad unità in base ad una ela­bo­ra­zione col­let­tiva e ad una rico­stru­zione di un senso comune che san­ci­sca la loro non-contraddizione; e model­lando, su que­ste nuove moda­lità di isti­tu­zio­na­liz­za­zione del con­flitto, ade­guate pro­po­ste di rin­no­va­mento demo­cra­tico delle isti­tu­zioni repub­bli­cane. Dalla rico­stru­zione di que­sto intrec­cio vir­tuoso tra con­flitto sociale e rispo­sta poli­tica dipende il futuro della nostra democrazia.

Ecco il documento che Marco Revelli ha scritto come proposta di manifesto per la formazione politica italiana che prosegua il lavoro iniziato con la campagna elettorale per il Parlamento europeo per incarico del coordinamento italiano della lista "L'altra Europa con Tsipras". Ora è in corso la discussione nella vasta area di riferimento di quella lista. Avremmo voluto pubblicare ben prima, ma altre vicende (e l'età del direttore di questo sito) ci hanno distratti. Il suddetto direttore ha scritto a Revelli che, se si costituirà un soggetto politico basato su questo documento, aderirà senza se e senza ma.

Cari tutti,

perché non si coltivino eccessive aspettative su questo testo che, lo ricordo, è solo una bozza finalizzata alla nostra discussione attuale, voglio precisare che:

1. Non sono le “tesi” del nuovo partito. Non si occupa di tutto ciò che dovrà costituire la nostra identità. Nemmeno del nostro programma (massimo o minimo che dir si voglia) Ha il compito più modesto di mettere a fuoco alcuni aspetti del quadro politico maturati successivamente al 25 maggio (fino ad allora quello che ci univa lo sappiamo) per quanto riguarda la situazione europea creatasi dopo il voto, e la situazione italiana, in particolare segnata dall’accelerazione di Renzi e dalla mutazione genetica del PD.

2. Serve a tentare di definire le coordinate della nostra discussione sul “che fare” nei prossimi mesi (non in tutta la nostra vita), in particolare per quanto riguarda alcune questioni dirimenti: il rapporto tra azione in Italia e azione in Europa; il giudizio sul “renzismo”, che considero la vera discriminante tra chi “è dentro” e chi “sta fuori” dal progetto e, connesso a questo, il giudizio sul PD e sulla sua irrecuperabilità come partito a un discorso di sinistra; le tappe del nostro “processo costituente” e il rapporto tra obbiettivi qualificanti (la presentazione di una lista capace di sfidare Renzi alle prossime elezioni politiche nazionali) e passaggi sottoposti a valutazioni tattiche...

3. Non è dunque un punto di arrivo. E’ il punto di partenza della discussione. Certamente qualcuno lo troverà troppo aperto (include troppi) e altri troppo chiuso (esclude troppi), troppo ampio (tutto il tormentone sul renzismo) o troppo sbrigativo (manca un programma articolato, c’è poco la complessità delle questioni economiche, c’è poco l’ambiente, c’è poco la politica estera e la guerra). Soprattutto resta qui sullo sfondo – ma è il presupposto di tutto il discorso – il contesto della crisi economica e finanziaria globale: la più grave crisi mai attraversata, crisi strutturale, “di sistema”, di cui nessuno oggi intravvede la soluzione e da cui tutti gli assetti sono destinati ad essere trasformati radicalmente. Sono i temi su cui si dovrà lavorate a fondo tutti insieme, una volta accordatici su come e perché stare insieme.

4. Se da questo lavoro scaturisse quanto meno l’uso di un linguaggio comune e l’individuazione delle questioni importanti su cui discutere, allora non sarebbe stato inutile.

Detto questo, buon lavoro a tutti.
Marco Revelli

CAMBIAREL’EUROPA PER SALVARE L’ITALIA

“Cambiare l’Europa per salvare l’Italia”. Si potrebbe sintetizzare così la proposta che L’altra Europa con Tsipras aveva posto al centro della scorsa campagna elettorale. Significava che la partita vera, quella per la quale un paese sopravvive o va giù, si giocava a quel livello: sulla possibilità di rovesciare l’intero impianto delle politiche europee sostenute dai paesi forti dell’Unione e incentrate sull’Austerità. Che senza una modificazione sostanziale e radicale di quelle politiche comunitarie, l’Italia sarebbe stata condannata o a un brusco default (in caso di fuoriuscita dall’Euro). O a una lunga agonia (nel caso di una permanenza nella sua area).

Ora bisogna aggiungere un secondo passo: “Cambiare l’Italia per cambiare l’Europa”. Perché l’Europa non ha “cambiato verso”. Nonostante che le elezioni europee abbiano sancito una sostanziale delegittimazione della politica delle “larghe intese” (Ppe e Pse, i due partiti contraenti di quel patto, hanno entrambi perso elettori in presenza di un’astensione che supera di molto il 50% mentre cresce minacciosa l’ondata dei populismi di destra). E nonostante che un’opposizione ferma e intransigente di sinistra sia cresciuta soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi, l’asse tedesco Merkel-Schulz è stato riproposto e imposto all’intero continente.

La nuova Commissione non solo replica le linee della precedente, ma le peggiora, come è stato puntualmente e autorevolmente denunciato dai nostri parlamentari Eleonora Forenza, Curzio Maltese e Barbara Spinelli, che vi si sono opposti strenuamente insieme a tutto il gruppo del GUE. Composta da 13 popolari, 7 socialisti, 5 liberali e un conservatore, voluta dalla Merkel e posta sotto il controllo dei falchi, non farà che aggravare una situazione già drammaticamente compromessa. L’Europa continuerà a funzionare come una grande “macchina imperiale” destinata a prelevare risorse in basso, nel mondo del lavoro, e nelle periferie, in particolare nell’area mediterranea, per trasferirle in alto (ai canali finanziari) e al centro (ai “Paesi forti”).

E’ il modo con cui la crisi viene usata da parte dei poteri - prevalentemente finanziari - che controllano la politica europea incarnata dalle “larghe intese”: dal lavoro al capitale. Dal salario al profitto. Dai paesi fragili a quelli forti. Dall’economia reale al circuito finanziario, secondo un meccanismo che continua ad aumentare le diseguaglianze già scandalose e l’iniquità. E’ questa la sostanza delle cosiddette “riforme” che ossessivamente vengono richieste: attacco al reddito e al potere d’acquisto della variegata area del lavoro, privatizzazione di ciò che resta del patrimonio pubblico e che possa essere oggetto di business, riduzione della spesa pubblica e dell’occupazione nelle pubblica amministrazione, eliminazione dei vincoli alla spogliazione del patrimonio paesaggistico, artistico e territoriale e liquidazione del concetto stesso di “bene comune” in nome dell’utilizzo economico privato. Il memorandum imposto alla Grecia e ora generalizzato su scala continentale.

Non solo. Quest’Europa chiusa nei propri egoismi e nelle proprie diseguaglianze all’interno, mostra un volto indecente, sul piano politico e su quello morale, anche all’esterno: nell’assenza assoluta dalla sua agenda – ma anche dall’orizzonte mentale delle scialbe figure che ne occupano i vertici – dei grandi temi che decidono del destino dell’umanità intera, come la questione epocale del crescente degrado ambientale e climatico, la sfida energetica e l’insostenibilità di un modello fondato su un’impossibile crescita illimitata, la mercatizzazione integrale delle risorse e delle fonti della vita contro le esigenze della vita stessa. Per non parlare delle politiche migratorie, scandaloso esempio di chiusura della Fortress Europe, sorda, cieca e muta di fronte alla strage permanente che si consuma lungo i propri confini, testimone-complice di un crimine contro l’umanità reiterato all’infinito; e di una politica estera che non solo non è riuscita a prevenire ed evitare la guerra – secondo il mandato implicito ricevuto nel 1945 di bandire la guerra dalla storia del mondo – ma l’ha disseminata ovunque intorno a sé con decisioni ottuse e colpevoli, dallUkraina (delicatissimo Paese-ponte tra Est ed Ovest, il cui equilibrio avrebbe dovuto essere preservato come un bene prezioso e che invece è stato terremotato da una serie sconclusionata di interventi destabilizzanti) alla Libia, alla Siria e allo sresso Irak… Quella che avrebbe dovuto essere, secondo una felice definizione, una “grande potenza culturale” si è trasformata in un gretto agglomerato di interessi, chiuso nel cerchio opaco del business e della potenza finanziaria come unico criterio di orientamento delle proprie politiche.

Quel cerchio va spezzato. Con una mobilitazione dal basso, forte, transnazionale, di dimensione continentale, che unisca al di là dei confini nazionali (e dei nazionalismi) gli europei che non accettano questo destino, a cominciare dalle vittime di questo uso della crisi e di queste politiche. Ma anche con un’iniziativa che veda protagonisti gli Stati più colpiti, attraverso una politica di alleanze che crei un fronte alternativo alla congregazione dei fondamentalisti dell’Austerità e dei custodi di un Rigore che premia solo i privilegiati, creditori esosi di una massa d’indebitati che non potrà che crescere su se stessa alimentando all’infinito il meccanismo della crisi e della diseguaglianza che ne sta all’origine. Un fronte che abbia al centro i 10 punti che già affermammo in campagna elettorale. E che sono in frontale antitesi alle linee su cui muove la politica e l’ideologia delle “larghe intese”, a cui invece, sciaguratamente, è del tutto interno e subalterno l’attuale governo, nonostante le promesse elettorali di Matteo Renzi e le retoriche che avevano accompagnato la kermesse del “semestre italiano”.

Tra le ragioni del fatidico 40,8% che ne ha certificato la santità come lo scioglimento del sangue di san Gennaro certifica il miracolo, oltre a una buona dose di demagogia comunicativa e all’appoggio monopolistico dei media, c’è anche questa millantata promessa di “farsi sentire” in Europa. La sceneggiata dei “pugni battuti” sul tavolo a Berlino. Gli sfracelli dei sei mesi “alla guida” a Bruxelles. La fine della subalternità montiana, dell’acquiescenza lettiana… Un grande, consapevole imbroglio. Non solo perché al momento buono Matteo Renzi ha approvato senza colpo ferire la Commissione Juncker, col suo pieno di rigoristi e di fustigatori tedeschi e finlandesi, legandosi una macina al collo. E ha scambiato la primogenitura di un Commissario economico con il piatto di lenticchie di una propria fedele a capo di una politica estera che non c’è. Non solo perché si è accucciato buono buono davanti ai diktat della Banca centrale europea, promettendo e consegnando ai banchieri centrali lo scalpo del sindacato italiano appena macellato. Ma anche e soprattutto perché il suo programma è scritto, punto per punto, sul palinsesto della peggiore Europa. Dal primo decreto Poletti, che formalizzava la precarietà del lavoro decretandone la svalorizzazione come destino, al cosiddetto “Sblocca Italia”, giustamente rinominato “Rottama Italia” dai più prestigiosi esperti del patrimonio territoriale, fino alla interpretazione della spending review come prevalente piano di privatizzazioni e al Jobs act come liquidazione della residua civiltà gius-lavoristica moderna. O, in ultimo, alla Legge di stabilità che simula politiche espansive “in libera uscita” rispetto ai “controllori” europei ma scarica in realtà i costi dei “doni” offerti alle imprese sulle amministrazioni locali e quindi sui servizi ai cittadini più bisognosi, in ossequio all’intoccabilità di quel 3% che costituisce (quello sì) il vero totem dell’ideologia tedesca (ed europea) oggi.

Per questo noi diciamo che Matteo Renzi non è l’alternativa alla Troika, al suo minacciato commissariamento, secondo il mantra che ha recitato e che gli ha fruttato la legittimazione. Non è il “male minore”, ultima spiaggia per scacciare il rischio della totale cessione di sovranità. Matteo Renzi è la Troika interiorizzata. E’ la forma personalizzata che assume la cessione di sovranità quando viene camuffata con la retorica del demagogo. Il suo “miracolo” – più simile al gioco di un prestigiatore che al prodigio di un santo – è di far apparire Uno ciò che è Trino (o plurimo), presentando come atto liberatorio ciò che è in realtà una sottomissione servile. Il suo è un Trasformismo di tipo nuovo, non più quello di Agostino Depretis ancor tutto sommato interno alla società politica, ma quello, più adatto alla società dello spettacolo, del “transformer”: dell’illusionista che trucca le carte e se stesso deviando l’ attenzione del proprio pubblico con la tecnica del diversivo.

Allo stesso modo aggiungiamo che Renzi non è la (possibile) soluzione alla crisi economica e sociale. Non ne ha la forza, nei rapporti internazionali, privo com’è di una politica delle alleanze. Non ne ha la cultura e le competenze (la sua squadra di governo, zeppa di figuranti, sembra pensata più per non far ombra al Capo che per trovare soluzioni a una situazione drammatica). Non ha una sola idea adeguata, come dimostra la trovata dell’anticipo in busta del Tfr, sintomo della disperazione di chi per sopravvivere nel presente si mangia il futuro. Lungi dal rappresentarne una qualche, sia pur difficile, via di uscita Renzi è, al contrario, la crisi stessa messa al lavoro in politica. E’ la forma che la crisi assume quando il suo potenziale distruttivo viene trasferito sul piano politico e applicato alla forma di governo. L’”energia” di cui appare dotato il “renzismo” nella sua opera di rottamazione di tutto ciò che si oppone e rallenta il dispiegarsi del suo potere è la stessa energia con cui la crisi distrugge e liquida consolidati equilibri sociali, soggetti collettivi, sistemi di garanzia e di tutela: le forme di mediazione e gli stessi “patti fondamentali” con cui la società industriale aveva mediato i propri conflitti e costruito la propria coesione. Senza la crisi il renzismo non sarebbe neppure concepibile. Senza il renzismo la crisi non potrebbe essere utilizzata dai poteri che reggono l’Europa per realizzare il progetto di trasformazione che gli hanno assegnato come compito, e che costituisce l’effettiva (e occulta) legittimazione del suo potere. E quando diciamo “senza il renzismo” intendiamo senza la sua carica torbida di “populismo dall’alto” (o di “populismo di governo”, che è tra le forme peggiori), senza la sua capacità (polimorfa e perversa) di mutare la disperazione di massa in speranza tramite l’espediente dell’illusione, senza la sua tecnica di mutuare linguaggi ribellistici dentro un progetto reazionario.

Il renzismo non è dunque un punto di caduta temporaneo di una democrazia malata ma ancora vitale. Non è un incidente di percorso, un’occasionale irruzione di Iksos fiorentini che attende di essere riassorbita in una qualche normalità istituzionale romana. Il renzismo porta a compimento la crisi terminale della democrazia rappresentativa. Non la produce, certo (perché essa è il risultato di un processo lungo di deterioramento, svuotamento e degrado), ma la “mette in sicurezza”, per così dire: la certifica e la dichiara normale e definitiva. Anzi, utilizza spregiudicatamente il discredito e la sfiducia di massa – il rancore e il risentimento - nei confronti della classe politica e dei propri “rappresentanti” come leva del proprio consenso personale e del ruolo demiurgico di esecutore fallimentare del parlamento e del sistema parlamentare, considerandosene ormai “oltre”. Irreversibilmente “oltre”, in una post-democrazia plebiscitaria in cui le consolidate istituzioni costituzionali sono poste in disuso (come, appunto, le auto in attesa di rottamazione), e ciò che ancora ne resta viene sistematicamente manomesso.

Così è stato per il principio stesso di rappresentanza, in occasione dell’indecente battaglia di agosto per la liquidazione del Senato come istituzione elettiva. Così è per il rapporto tra Potere Legislativo e Potere Esecutivo – tra Parlamento e Governo -, con l’umiliazione sistematica del primo e l’assolutizzazione del secondo, umiliato a sua volta nella sua collegialità e monocratizzato nella figura del Premier (vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto detta la Costituzione). Così è, d’altra parte, per la natura e il ruolo dei partiti politici, a cominciare dal suo, il Pd, il quale ha subìto, sotto l’effetto dell’ elettrochoc renziano, una vera e propria mutazione genetica trasformandosi, alla velocità della luce, da aggregato eterogeneo di gruppi d’interesse e di amministratori (“partito di massa” aveva cessato da tempo di esserlo) in “partito del capo” e, tendenzialmente, “partito unico della nazione”. Struttura amorfa, risucchiata d’autorità in alto, fuori dalla società ma anche dal Parlamento. Appendice del Governo e soprattutto del suo Premier, in attesa di essere sciolto nel serbatoio bipartisan che già emerge dall’omologazione antropologica degli elettorati che furono, fino a ieri, di centro-destra e di centro-sinistra. E che tendono ormai, nei fatti, a diventare un’unica platea plebiscitaria (e pubblicitaria), dopo la stipulazione di quel Patto del Nazareno che riconsegna a un leader squalificato e pregiudicato, in evidente decadenza, il ruolo di partner costituente. E che ipoteca pesantemente il futuro per quanto attiene alle più alte cariche dello Stato.

Sotto questa luce, la vicenda parlamentare della mozione di fiducia sul Jobs Act costituisce un punto di osservazione e di verità straordinario. Una residua istituzione rappresentativa – uno dei due rami del Legislativo – costretta ad approvare a forza (con la minaccia mortale della caduta del Governo e della possibile fine della legislatura) una delega in bianco (destinata ad essere concretizzata unilateralmente dal Governo) relativa alla liquidazione (pratica e, cosa ancor più grave, simbolica) di storiche tutele del lavoro, resa nota la notte precedente il voto, con un pronunciamento pressoché unanime del partito che dovrebbe avere nel proprio dna, se non altro per via degli antenati, il riferimento al movimento dei lavoratori, e con la cooperazione “attivamente passiva” dei senatori berlusconiani assenti al momento del voto. Se si voleva una prova lampante del processo di assorbimento del Parlamento dentro (e sotto) il Governo, e dello “sfondamento” di ogni residuo di autonomia all’interno dell’ex Partito democratico (dell’impotenza della sua cosiddetta “sinistra”), qui la si è avuta. Nel giro di un solo giorno si è potuto assistere pressoché in diretta, alla rappresentazione del processo di verticalizzazione del potere (e della sua personalizzazione in chiave plebiscitaria) che sta nel progetto e soprattutto nella pratica del renzismo e delle forze che senza comparire ne scrivono il copione. Contemporaneamente, dai brandelli di un dibattito sgangherato e frettoloso, si è potuto intravvedere, inquietante, il profilo del nuovo immaginario sociale che avanza, rovesciamento di tutti i valori, modificazione della costituzione materiale prima che di quella formale, con il Profitto, il Business, l’Impresa a fondamento di una Repubblica ormai post-democratica, e il Lavoro, le donne e gli uomini che lo eseguono, ridotti non solo a variabile dipendente, ma a possibile minaccia, con i loro diritti considerati blasfemamente “privilegi”, alla “libertà d’impresa” e all’attrattività degli investimenti. Rovesciamento simbolico, appunto, e proprio per questo tanto più devastante del nostro stato di civiltà.

Le conseguenze politiche di tutto questo – se si condivide il quadro analitico – sono evidenti, e terribilmente impegnative: siamo in presenza di una grave “emergenza democratica” di fronte a un processo che tende a produrre una vera e propria mutazione genetica dell’assetto politico-istituzionale del Paese e del sistema del partiti. Esso sconvolge il tradizionale panorama politico incentrato sulla contrapposizione bipolare centro-destra/centro-sinistra, categorie travolte ora dalla trasversalità del progetto e della pratica renziana. Modifica radicalmente il quadro delle identità politiche, svuotando di significato e rendendo anzi ambigua e deviante l’attribuzione della qualifica di “sinistra” (per quello che ancora può significare), al Partito democratico. E crea un’inedita necessità di mobilitazione capace di porsi all’altezza della sfida che viene lanciata.

Quando diciamo “inedita capacità di mobilitazione” intendiamo dire che non si tratta di un progetto “testimoniale”. Della costruzione di una “piccola casa” per esuli dalle tante vicende politiche della sinistra. O di un’asta a cui appendere stinte bandiere. Intendiamo dire ciò che un’emergenza richiede: il massimo possibile di forza da mettere in campo per invertire una tendenza, per fermare un’azione di devastazione istituzionale e culturale, per scongiurare un pericolo che si avverte potenzialmente irreparabile, per arginare la devastazione di un patrimonio culturale condiviso, e per contrapporre a tutto ciò un sistema di valori e un modello di pratica all’altezza dei tempi. Un fronte più ampio possibile da costruire nella chiarezza su ciò che si vuole contrastare e nella apertura su ciò che si intende unire.

In quest’opera è importante la capacità di opposizione ai singoli passaggi, nelle diverse sedi, dal Parlamento alla piazza, ai luoghi di lavoro e alle aule scolastiche. Per questo siamo e saremo sempre solidali con chiunque, in ogni sede, metta pietre d’inciampo al progetto renziano-berlusconiano che nel pactum sceleris del Nazareno ha trovato la propria sanzione. Ma ancor più importante, perché da essa dipende la possibilità di farcela davvero, è l’elaborazione di un’ effettiva alternativa al renzismo. Di una risposta credibile, adeguata nelle forme e nei contenuti alla sfida che esso apre, capace di coglierne i punti di forza e di rovesciarli, non solo svelando l’inganno (che c’è sempre) ma offendo soluzioni praticabili qui ed ora, e soprattutto offrendo un’immagine di noi diversa da quella che ci accompagna da tempo e che ciclicamente ritorna.

Il principale punto di forza di Renzi è la crisi, come si è detto. La sua stessa gravità. Di più: la sua apparente insuperabilità senza l’ intervento straordinario di una figura salvifica in cui “credere” (e poi magari anche obbedire se non combattere). Il mito, appunto, dell’”ultima spiaggia”, del “dopo di lui il diluvio”, che blocca ogni smottamento, sutura ogni linea di frattura, sana ogni dissenso interno e ogni ribellione esterna. Dobbiamo contrapporgli una linea di uscita, se non dalla crisi – che è endemica di questo capitalismo globale e in particolare nel modello europeo – almeno dall’emergenza. Un programma radicalmente altro rispetto a quello dettato da Bruxelles e da Berlino e fatto proprio dal “bisbetico domato” Matteo Renzi. Pochi punti, chiari come facemmo con i 10 punti della Lista, a cominciare dalla questione del debito e del suo necessario “consolidamento”, dalla rottura dei patti capestro europei e dal superamento del vincoli del fiscal compact, da un programma eccezionale per l’occupazione, per la messa in sicurezza del territorio, per la ristrutturazione energetica, per la rappresentanza dei lavoratori in fabbrica e il superamento vero, non retorico, della jungla contrattuale tra gli “atipici”… Da portare e discutere tra la gente, non tanto o comunque non solo nelle nostre solite assemblee che radunano troppo spesso i già convinti.

Il secondo punto di forza di Renzi è l’evocazione sistematica, ossessiva, della rottura – del “nuovo inizio”, del “cambiar verso”, della “rottamazione” appunto – inserita nel quadro del peggior continuismo (cosa, se non la sintesi del peggio dell’ultimo quarto di secolo è il Patto del Nazareno?). L’assunzione dei codici linguistici propri del “populismo di opposizione” – dei suoi luoghi comuni, dei suoi j’accuse, delle sue domande di tabula rasa – per far da propellente al suo “populismo di governo”. Il lessico del ribelle come scrittura del libro del potere. Evocazione retorica, naturalmente, illusoria, manipolante, ma che affonda le radici in un cratere di disperazione, nell’impossibilità di vedere un futuro, nella consapevolezza che “così non si può andare avanti”, che “ci vuole uno scossone” che se non può più venire dal basso, che almeno venga dall’alto, nell’affidamento superstizioso all’intervento salvifico di chi “può”. Quel cratere, che Renzi non può prosciugare, può soltanto “usare” al proprio fine personale, dovremmo riempirlo noi, almeno in parte. A quella domanda di rottura giustificatissima dovremmo riuscire a rispondere noi.

Ma qui intervengono i nostri punti di debolezza. Il primo del quali siamo noi stessi. La nostra storia deragliata. La nostra antropologia lesionata. I vizi acquisiti e forse anche quelli originari. La principale ragione della nostra difficoltà ad attirare tutti quelli che potenzialmente ci sarebbero, e di trattenere tutti quelli che si avvicinano, è l’immagine che proiettiamo. Quello che fa fuggire la gente normale lontano da noi è la nostra endemica litigiosità, il bisogno costante di identificarci per contrapposizione nei confronti di chi ci sta più vicino, l’incapacità di ascolto degli altri e di interlocuzione con essi, l’intolleranza, la mania di piantar bandierine, la frammentazione spinta fino alla scissione dell’atomo, l’assenza di una visione pragmatica dei processi e la difficoltà a separare l’essenziale dal secondario, lo strategico dal contingente. Questo ci rende incerti e insicuri, come l’Amleto della tragedia, in questi “tempi bolsi e tronfi” in cui ricostruire una prospettiva credibile richiederebbe in primo luogo un taglio netto con pratiche consuete, stili di lavoro e di comportamento improponibili, come in qualche modo, e almeno parzialmente, si era provato a fare nel lancio della Lista la primavera scorsa. E poi una straordinaria mobilitazione di intelligenza, creatività, spregiudicatezza, conoscenza perché il nostro pensiero è oggi insufficiente di fronte alle travolgenti trasformazione della società che vorremmo intercettare: “unire ciò che la crisi e il neoliberismo hanno diviso” è un buon proposito, ma come questo possa essere fatto in presenza di una scomposizione feroce di tutti i soggetti e di tutte le aggregazioni – alla frantumazione del “diamante del lavoro”, come è stato felicemente detto – spinta fino al punto di contrapporne le parti fra loro in una nuova “guerra di tutti contro tutti”, di fronte alla smaterializzazione dei processi produttivi e dei sistemi di relazioni, al primato della dimensione finanziaria su quella produttiva, allo spossessamento dei luoghi tradizionali del conflitto, dobbiamo cercarlo ancora. Allo stesso modo la difesa intransigente della democrazia non solo come principio ma anche come assetto istituzionale, così come è scolpita nella nostra Costituzione, è opera nobile e necessaria, ma non ci possiamo nascondere il grado e la misura in cui il principio stesso di rappresentanza è stato lesionato da processi reali, per certi versi devastanti e purtroppo irreversibili: dalla globalizzazione dei processi non solo economici e comunicativi, ma di comando o come si dice di governance, e dalla totalizzazione di un sistema mediatico pervasivo, multiforme e integrato, a cui occorre dare risposte in avanti, non certo nello scioglimento di quella crisi nel plebiscitarismo del leader più o meno carismatico ma in un di più di partecipazione, sviluppata nei luoghi della vita, al livello territoriale, in forme già in parte sperimentate là dove si sono aperte linee di frattura, conflitti radicati nelle “coscienza di luogo” (si pensi alla Val di Susa) ma che attendono una sistemazione e una riflessione. Per non dire della crisi delle forme organizzative, a cominciare dalla “forma partito”, delle cui dinamiche dissolutive la mutazione genetica del Partito democratico è l’esempio più spettacolare perché lì si rappresenta, in tutta la sua drammaticità. Sarebbe una catastrofe se noi pensassimo di ricostruire una casa (un “piccola casa”) per gli esuli di quel crollo, sulle stesse fondamenta e sullo stesso progetto, senza porci il problema, quello vero, di cosa si sostituisce al modello organizzativo del “partito di massa” che ha dominato l’orizzonte politico novecentesco e che con quel secolo si è inabissato: quale forma di organizzazione della soggettività politica si può immaginare nell’epoca della scomposizione delle soggettività, dell’inoperosità della politica al livello della dimensione nazionale, della crescente difficoltà di ricondurre la disseminazione degli “Io” autoreferenziali e impotenti all’operatività di un “Noi” attivo e consapevole.

Per questo noi non proponiamo oggi un “soggetto politico” già bell’e fatto (o pensato), da “prendere o lasciare”. Proponiamo al contrario un processo – possiamo chiamarlo un “processo costituente” – di lunga durata in grado di proiettare l’esperienza de L’Altra Europa oltre la vicenda, felicemente conclusa, di quella Lista elettorale. Un processo da iniziare subito, questo sì, ma in cui nessuno può pensare di aver già in mano la Costituzione scritta da imporre agli altri, e nemmeno i “lavori preparatori” già compiuti: un processo nel quale davvero si avanzi domandando, forse anche per prove ed errori, e in cui sia ben chiaro il rapporto tra le tappe intermedie e la meta finale che resta, certamente, la volontà di creare quello che potremmo definire, per ora, un “SOGGETTO POLITICO EUROPEO DELLA SINISTRA E DEI DEMOCRATICI ITALIANI”, per sottolinearne la doppia vocazione: la dimensione europea dell’azione strategica e l’apertura a un’ampia area democratica e di sinistra italiana.

Per questo la prima tappa intermedia, da dichiarare subito, senza indugi, è a sua volta l’obbiettivo di giungere alle prossime elezioni politiche – quale che sia il momento in cui si terranno – con una lista in grado di unire tutte le componenti di una sinistra non arresa alla austerità europea e alla sua versione autoritaria italiana incarnata dal renzismo, determinata a sfidarlo in modo credibile sul doppio terreno dell’egemonia e della capacità d’innovazione nel senso migliore di questo termine, cioè facendo proprio il bisogno radicale di mutamento dei tanti sacrificati dalla crisi e dall’austerità. La sfida elettorale sul livello nazionale è senza dubbio la competizione giusta per lanciare il processo qui descritto con tutta la forza e l’estensione rese necessarie dall’importanza della sfida. Alla sua piena riuscita è necessario commisurare ogni altra nostra mossa. D’altra parte per il successo dell’iniziativa è fondamentale lo sviluppo di una proposta programmatica articolata e precisa, con un ventaglio di punti programmatici completo (dal lavoro e dai diritti, naturalmente, all’ ambiente, alla sanità, ai trasporti, all’ istruzione e ricerca, dalla politica estera alla questione dei migranti…) per cui abbiamo ottime basi in quello che abbiamo presentato alle europee ma che deve essere sviluppato e precisato, senza perdere chiarezza e comprensibilità, in una discussione collettiva che richiederà per lo meno qualche mese di lavoro intenso e partecipato per cui è bene che tutti si attrezzino.

In quest’ottica di percorso (di ampliamento della nostra base e di approfondimento dei nostri contenuti) il risultato della Lista L'altra Europa con Tsipras il 25 maggio, può essere considerato, sia pur moderatamente, un buon punto di partenza, date le condizioni in cui era la sinistra italiana, e un incoraggiamento per il futuro: si è evitato il rischio - il "paradosso" come l' aveva definito Tsipras - che per la seconda volta la sinistra italiana non fosse rappresentata in Europa (sono stati portati al PE tre rappresentanti di alto livello); si è dimostrato che anche la soglia incostituzionale del 4% poteva essere superata; si è data a 1.103.000 elettori la possibilità di esprimersi con una scelta limpidamente di sinistra; si è aperta una strada per un percorso che altrimenti, in caso di fallimento, sarebbe stata irrimediabilmente chiusa. Né va sottovalutato il ruolo di Alexis Tsipras, che ci ha permesso di dare con chiarezza al nostro progetto – unico tra tutti - un respiro di esperienza, di pratica e di organizzazione politica trans-nazionale con respiro europeo.

Quel (ancora parziale) successo si è ottenuto con il concorso di diverse forze e realtà: la rete delle associazioni in lotta per un’alternativa e parti dei movimenti critici dell’esistente, a cominciare da quello per l'acqua e i beni comuni; un'area di opinione democratica, impegnata nella difesa della Costituzione e dei diritti e preoccupata della deriva autoritaria dei governo Renzi; le diverse realtà organizzate in forma di partito, fino ad allora divise e talvolta contrapposte; e infine, ma non meno importante, anzi, un robusto gruppo di intellettuali e di esponenti del mondo della cultura che hanno "fatto la differenza" per quanto riguarda l'immagine della lista, oltre al gran numero di persone, cittadini, attivisti, simpatizzanti che si sono impegnati nei comitati (e anche fuori di essi, spontaneamente). E' convinzione condivisa – ed è d’altra parte un dato di fatti evidente - che nessuna di tali componenti sia stata prevalente, perché tutte sono state INDISPENSABILI per garantire il superamento della soglia.

Per questa ragione il percorso oltre l'esperienza elettorale europea per la nascita di una sinistra italiana deve proporsi di mantenere entro i limiti del possibile il coinvolgimento di tutti i soggetti e le realtà che hanno contribuito a quel successo, con l'obbiettivo dichiarato non solo di consolidarlo ma di ampliarlo. Non ci si nasconde infatti che quel 1.103.000 elettori è solo una parte, sottile, di elettorato potenziale: rappresenta un voto ancora prevalentemente d'opinione, concentrato negli strati più colti e informati di popolazione. Occorrerà lavorare molto per radicarci nei territori e tra gli strati di popolazione più sofferenti per la crisi, in parte rifugiatisi nell' astensione, in parte convinti dal populismo grillino, in parte sedotti dalle elemosine di Renzi. Un lavoro inevitabilmente lungo, perché ogni realtà locale ha la propria storia e attori politici eterogenei e richiede attenzione alle specificità”di luogo”, rispetto delle differenti dinamiche di territorio (sfuggendo allo schema da “partito novecentesco” che imponeva la presentazione automatica delle proprie liste a ogni livello elettorale e in ogni sede territoriale), capacità di “governare” il rapporto tra progetto generale e domanda locale secondo logiche non schematiche e soprattutto con attenzione intelligente al rapporto “mezzi-fini”.

Siamo consapevoli che non sarà facile: le condizioni della campagna europea erano in qualche modo eccezionali e ci favorivano, sia per il riferimento a Tsipras, sia perché era senso comune che o si faceva come si è fatto, con una certa forzatura anche verso le forze più organizzate in forma di partito, o non si sarebbe concluso nulla. Quelle condizioni non ci sono più: ora bisogna condurre un percorso condiviso, che porti ad una definizione di forme di rappresentanza pienamente legittimate, e procedere a un complesso lavoro diplomatico di cucitura e convergenza, rispettoso di tutte le storie e di tutte le identità ma anche consapevole della necessita di superare distinzioni e sopravvivenze sempre più parziali e meno riconosciute, consapevoli dell’insufficienza, sempre più palese, di un approccio affidato alla vecchia pratica degli accordi tra apparati di partito o frazioni di ceto politico tanto più dopo che l’attesa di una rottura significativa nei gruppi dirigenti del PD si è rivelata clamorosamente vana (altro discorso, naturalmente, riguarda l’elettorato di quel partito e quanto resta del suo corpo militante).

Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, iniziare a tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. E, in connessione con ciò, la proposta che chiediamo di discutere è di aprire l’Associazione L’Altra Europa con Tsipras, a tutt’oggi rappresentante legale della Lista, all’adesione individuale di massa, scrivendone lo Statuto (entro mesi 9 dall’avvio dalla campagna di adesione) in una chiave partecipativa e democratica e rivolgendoci a tutti coloro che hanno partecipato alla campagna per le europee, che appartengano o meno a partiti o a movimenti o ad altre formazioni. Ai soggetti collettivi, d’altra parte, (partiti, movimenti, associazione) non è richiesto di sciogliersi come condizione di partecipazione al percorso (ogni soggettività è titolare delle proprie scelte), ma ne auspichiamo l’impegno convinto e l’assunzione dell’obbiettivo finale (la necessità e l’urgenza di dar vita a una forma di rappresentanza unitaria nella scena politica nazionale), così come è stato per le elezioni europee.

D’altra parte, intorno a noi, c’è un mondo di donne e di uomini che ogni giorno si sbatte per resistere e per cambiare, o comunque che “non ci sta”: c’è una “sinistra fuori dalla sinistra”, che non trova sponda in ciò che c’è (o che si vede) e che meriterebbe una rappresentanza politica degna di questo nome. E’ con loro che dobbiamo camminare.

Ci saranno senza dubbio tensioni e difficoltà, lungo questo cammino, ma siamo convinti che la forza del progetto generale, come nel modello tracciato da Syriza, sarà più forte.

Sciopero sociale. Migliaia di studenti e precari sfilano a Milano sfidando i manganelli. La cattiva gestione della piazza della polizia non rovina la strana giornata milanese percorsa da tre cortei, diversi ma uniti dalla stessa voglia di tornare a lottare per difendere i diritti ed estenderli a tutti».

Il manifesto 15 novembre 2014 (m.p.r.)

Non per enfa­tiz­zare le solite maz­zate che «rovi­nano» i giorni di lotta, ma le cari­che demo­cra­ti­che distri­buite gra­tui­ta­mente ieri a Milano dimo­strano ancora una volta che in que­sto paese c’è una gran voglia di menare le mani. Sul campo è rima­sto qual­che con­tuso e un punto inter­ro­ga­tivo sul per­ché a un certo punto la poli­zia abbia deciso di dare una’energica rior­di­nata alla strana gior­nata mila­nese, con tre cor­tei diversi (ma non troppo) che per tutta la mat­tina hanno girato intorno alla que­stione «più diritti per tutti». A volte incro­cian­dosi, spesso igno­ran­dosi, e sem­pre desi­de­rando di con­ver­gere tutti insieme chissà dove, forse in un mondo nuovo con un popolo nuovo che ha perso memo­ria di sigle, sette, som­ma­to­rie e impos­si­bili «unità» a sini­stra. Erano tutti lì, con­cen­trati in pochi chi­lo­me­tri qua­drati. Decine di migliaia grif­fati Fiom diretti in Duomo, qual­che migliaio die­tro agli stri­scioni dei sin­da­cati di base sbu­cati in piazza San Babila dopo tanto giro­va­gare e più di 5.000 scio­pe­ranti sociali, una prima asso­luta, un espe­ri­mento tanto sug­ge­stivo quanto com­pli­cato che ha anche emo­zio­nato alcuni lavo­ra­tori — «ho preso mezza gior­nata, que­sto è il mio primo scio­pero». A 32 anni, sono con­qui­ste.

Nei din­torni di piazza Duomo, quando lo scio­pero sociale arriva al dun­que, è il caos orga­niz­zato come fuori da un for­mi­caio: un palco qui, uno spea­ker cor­ner lag­giù, un camion che fa piazza davanti a trenta per­sone e poi uno, tre, dieci comizi strada facendo. Una con­fu­sione socia­liz­zante, l’idea che tutti abbiano incro­ciato le brac­cia per dav­vero. E’ in quel momento che la poli­zia ha voluto met­terci del suo, facen­dosi sfug­gire di mano il cor­teo meno bel­li­coso degli ultimi anni. A pren­derle, in due riprese, alcuni stu­denti delle supe­riori, la massa trai­nante del primo dif­fi­cile scio­pero sociale (per chi ha uno schifo di lavoro è ancora un lusso), quasi tutti mino­renni alle prime espe­rienze di piazza.
La trap­pola è scat­tata in piazza Santo Ste­fano, a cen­to­cin­quanta metri da piazza Fon­tana, il tra­guardo che gli stu­denti ave­vano con­cor­dato con la que­stura. Sem­bra che l’altolà incom­pren­si­bile sia stato cau­sato da una non meglio pre­ci­sata pre­senza di altri mani­fe­stanti nella mede­sima piazza, «anar­chici!», o da un taf­fe­ru­glio, «momenti di ten­sione», in piazza Duomo, forse con sedici mili­tanti No Tav. In realtà nulla osta­co­lava il per­corso del cor­teo degli stu­denti. Da qui, il testa a testa, gli spin­toni e le man­ga­nel­late ai ragazzi nasco­sti die­tro allo stri­scione «La buona scuola siamo noi». Con tanto di lan­cio di lacri­mo­geni. Un fuori pro­gramma che forse ha impe­dito a Mau­ri­zio Lan­dini di incon­trare gli stu­denti dopo il comi­zio.
Fine? Mac­chè. Dopo un ripie­ga­mento in Sta­tale, il cor­teo è stato cari­cato di nuovo all’ingresso dell’Arcivescovado dove (forse) si teneva un incon­tro della Cei con un espo­nente del mini­stero della pub­blica istru­zione: ancora botte, nella stret­toia di un por­tone. «Se la forza pub­blica non rie­sce a gestire l’ordine pub­blico e carica da die­tro un cor­teo auto­riz­zato di stu­denti, rite­niamo che le dimis­sioni del que­store di Milano siano un atto dovuto», scrive l’Unione degli Stu­denti.
Prima delle man­ga­nel­late, lungo il per­corso diverse realtà hanno segnato il ter­ri­to­rio con «azioni» comu­ni­ca­tive per sot­to­li­neare quella plu­ra­lità di riven­di­ca­zioni che non tro­vano sboc­chi poli­tici o sponde sin­da­cali. Tutti die­tro lo stri­scione «Non c’è futuro nella pre­ca­rietà» in disor­dine sparso. Sto­rie, pro­getti e bio­gra­fie diverse. Gio­va­nis­simi che can­tic­chiano rime da spe­ri­men­tare nelle pros­sime occu­pa­zioni sco­la­sti­che, pre­cari over 30, disoc­cu­pati in cerca di qual­che scin­tilla, uni­ver­si­tari con passo fel­pato per un’incursione. Una rin­corsa a tappe. Sono con­te­sta­zioni con­tro le scuole pri­vate, «san­zioni» al can­tiere Expo della Dar­sena — due stri­scioni — un len­zuolo calato dal Museo del Nove­cento in piazza Duomo, «Gra­tis non vi avrei tagliato nem­meno una fetta di torta», e poi slo­gan con­tro lo scan­dalo del lavoro volon­ta­rio per l’Expo. E per finire anche un’assemblea, final­mente in piazza Fon­tana. Per spar­lare di scuola. E delle botte della polizia.
Forse si comincia a comprendere che lo sfruttamento non avviene piú solo in fabbrica e sui campi, che gli sfruttati non sono soltanto gli operai e i braccianti, ma che lo sono tutti gli abitanti del pianeta nelle loro città e nei loro territori.

Il manifesto, 12 novembre 2014

Le ragioni dello «scio­pero sociale» del 14 novem­bre sono defi­nite con chia­rezza. I ber­sa­gli, dal Jobs Act, alla legge 30, al «patto per la scuola», anche. Le riven­di­ca­zioni per­fet­ta­mente com­pren­si­bili: dal sala­rio minimo euro­peo al red­dito di cit­ta­di­nanza. Eppure che cosa sia uno «scio­pero sociale» resta una domanda alla quale è molto dif­fi­cile rispondere.

Come la qua­dra­tura del cer­chio nes­suna appros­si­ma­zione esau­ri­sce il pro­blema, tanto da lasciarne sospet­tare l’inevitabile inconcludenza. Il nodo gor­diano con­si­ste, in sin­tesi, nel fatto che la pro­du­zione di valore e la sua appro­pria­zione avven­gono in larga misura al di fuori del lavoro dipen­dente e per­fino al di fuori da una sfera di atti­vità age­vol­mente iden­ti­fi­ca­bili come «lavoro». Quando diciamo «la vita messa al lavoro» il ter­mine «scio­pero» rischia di assu­mere un signi­fi­cato sinistro.

Una larga parte della società resta comun­que esi­sten­zial­mente espo­sta all’ «estra­zione» del valore e delle risorse che produce. Chi cerca lavoro, chi ci ha rinun­ciato, chi va a ingros­sare gra­tui­ta­mente le schiere gover­nate dall’economia poli­tica della pro­messa, chi si inge­gna nell’individuare nuove forme pro­dut­tive, chi agi­sce sem­pli­ce­mente la pro­pria socia­lità è con­dan­nato ad ali­men­tare i dispo­si­tivi dell’accumulazione e della dise­gua­glianza in una con­di­zione di «auto­no­mia ete­ro­di­retta» e indebitata.

Per il lavo­ra­tore pre­ca­rio lo scio­pero può costare lo strac­cio di lavoro con cui sbarca il luna­rio, per il lavo­ra­tore gra­tuito la per­dita di una pur fie­vole spe­ranza, per chi cerca di inven­tare la pro­pria strada una per­dita di tempo. Quanto a chi smet­tesse di cer­care lavoro, a chi importerebbe? Esi­stono natu­ral­mente, e non sono affatto pochi, i lavo­ra­tori sala­riati, fab­bri­che, uffici, ser­vizi che, per quanto sotto cre­scente ricatto, pos­sono essere fermati.

Il 14 novem­bre scio­pe­rerà la Fiom e que­sto sarà ben visibile. Agli altri non resta però che la soli­da­rietà e una par­te­ci­pa­zione alle mani­fe­sta­zioni di piazza per affer­mare «ci siamo anche noi, siamo tanti, pro­dut­tivi e privi di red­dito e diritti».

È una occa­sione da cogliere, ma non l’esercizio di una forza pro­pria, poi­ché è su quella del lavoro sala­riato che si con­ti­nua a pog­giare chie­dendo (non senza ragioni che lo riguar­dino diret­ta­mente) di vei­co­lare i biso­gni e le riven­di­ca­zioni di chi invece ne è escluso. Per quanto si tratti di una risorsa poli­tica e sociale si tratta anche di una lacuna e di un limite.

Lo «scio­pero sociale» rimane una affer­ma­zione di prin­ci­pio, la «gene­ra­liz­za­zione dello scio­pero» un fatto argo­men­ta­tivo che spesso si risolve in azioni gene­rose ma fre­quen­te­mente rituali e che non var­cano i con­fini del simbolico. Si può pun­tare alla sospen­sione di stage e tiro­cini, si può imma­gi­nare il pic­chet­tag­gio dei luo­ghi del lavoro gra­tuito, ma spesso quest’ultimo non ha luo­ghi o è tal­mente disperso e fram­men­tato da risul­tare fisi­ca­mente irrin­trac­cia­bile, cosic­ché l’astensione stessa da que­ste forme di pre­sta­zione d’opera rischia di rima­nere invi­si­bile, salvo assu­mere dimen­sioni tanto estese che è dif­fi­cile imma­gi­nare nella con­di­zione di estrema ricat­ta­bi­lità in cui versano.

Si può con­qui­stare come pal­co­sce­nico delle pro­prie ragioni qual­che luogo di visi­bi­lità, un monu­mento, una piazza, ma anche que­sto non risol­ve­rebbe il pro­blema dello «scio­pero» inteso come sot­tra­zione tem­po­ra­nea della pro­pria capa­cità crea­tiva alla pro­du­zione di ric­chezza e al fun­zio­na­mento della mac­china economica. Per dirla in modo clas­sico, ser­vi­rebbe uno scio­pero del valore d’uso con­tro il valore di scambio.

Il fatto è che «scio­pero sociale», preso alla let­tera, signi­fica smet­tere di fare società, sospen­dere cioè quelle azioni e inte­ra­zioni che carat­te­riz­zano il nor­male svol­gi­mento della vita sociale, man­te­nendo quest’ultima, depu­rata dei suoi carat­teri «fun­zio­nali», in una dimen­sione altra che ne con­trad­dica l’asservimento alla con­di­zione del lavoro e della pro­du­zione in senso più gene­rale. Un altro tempo e un altro spazio.

Senza alcun intento bla­sfemo o irri­spet­toso, sem­mai il con­tra­rio, un modello assai radi­cale lo indi­che­rei nello Shab­bat ebraico. In quella festi­vità, seb­bene nella forma del divieto reli­gioso che non coin­cide certo con la nostra idea di libertà, l’astensione dal lavoro viene estesa ad una serie di gesti e atti­vità che carat­te­riz­zano il nor­male fun­zio­na­mento della mac­china sociale. Shab­bat esclude appunto, con una geniale intui­zione, tutti que­gli aspetti della vita che sono sospet­tati di essere «messi al lavoro», valo­riz­zando invece quei tratti della vita umana privi di signi­fi­cato strumentale.

Non si tratta certo di sti­lare una lista di atti­vità (Shab­bat ne pre­vede 39) proi­bite ma di cer­care di indi­vi­duare, con la mas­sima fan­ta­sia e inven­tiva, i ter­reni della sot­tra­zione pos­si­bile e quelli di pieno eser­ci­zio della libertà indi­vi­duale e col­let­tiva. Il para­gone è deci­sa­mente stram­pa­lato e vale sem­pli­ce­mente come sug­ge­stione, tut­ta­via mi sem­bra utile a orien­tare lo sguardo in una mate­ria che è finora rima­sta oscura o del tutto indefinita.

Tor­nando, però, alle più con­suete cate­go­rie lai­che, lo «scio­pero sociale» non può che tra­sfor­marsi in una nuova forma di «scio­pero poli­tico» che, messo da parte il mirag­gio della presa del potere, rie­sca a eser­ci­tarne il più pos­si­bile, ren­dendo ogni gesto di sot­tra­zione una cri­tica espli­cita dell’ordine sociale ed eco­no­mico esistente.

Forse, tra quelle riprese su eddyburg, la più bella e condivisibile testimonianza e la piú convincente analisi di un evento e un momento che segnarono la crisi del mondo al di qua e al di lá del Muro di Berlino.

Il manifesto, 8 novembre 2014

Un pez­zetto di quel muro caduto 25 anni fa ce l’ho ancora sulla mia scri­va­nia: un fram­mento di into­naco colo­rato che strap­pai con le mie mani quando accorsi anche io a Ber­lino men­tre ancora, a frotte, quelli dell’est eson­da­vano verso l’agognato Occi­dente. Furono gior­nate gio­iose attorno a quel sim­bolo di una guerra – quella fredda – che era scop­piata meno di due anni dopo la fine di quella calda.

Per oltre quarant’anni quella fron­tiera, e già molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attra­ver­sata solo ille­gal­mente: negli anni ’50 per­ché il mio governo non mi dava un pas­sa­porto valido per i paesi oltre la cor­tina di ferro (dove­vamo rima­nere chiusi nell’area della Nato) e per­ciò per par­larsi con tede­schi della Ddr, unghe­resi o bul­gari si pren­deva il metro a Ber­lino e dall’altra parte ti for­ni­vano una sorta di pas­sa­porto posticcio.

Poi, dopo la costru­zione del muro, quando noi pote­vamo legal­mente andare ad est e invece quelli di Ber­lino est non pote­vano più venire a ovest, ridi­ven­tammo clan­de­stini: per potere incon­trare, senza incap­pare nella sor­ve­glianza della Stasi, i nostri com­pa­gni paci­fi­sti del blocco sovie­tico, dis­si­denti rispetto ai loro regimi, ma con­vinti che a una evo­lu­zione demo­cra­tica non sareb­bero ser­viti i mis­sili per­ché solo il disarmo e il dia­logo avreb­bero potuto facilitarla.

Per que­sto, gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgo­glio per il merito che per que­sto esito aveva avuto anche il nostro movi­mento paci­fi­sta, l’End «per un’Europa senza mis­sili dall’Atlantico agli Urali». Ave­vamo pro­dotto una deter­renza poli­tica, con­tri­buendo ad iso­lare chi, per abbat­tere il muro, avrebbe voluto sce­gliere la più sbri­ga­tiva via delle bombe.

E però l’89 non fu solo gio­iosa rivo­lu­zione liber­ta­ria. Fu un pas­sag­gio assai più ambi­guo, gra­vido di con­se­guenze, non tutte mera­vi­gliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolo­ro­sa­mente nella memo­ria che evoca in me. Peral­tro quel 9 novem­bre di 25 anni fa per me, credo per tanti, non è dis­so­cia­bile dalle date che segui­rono di pochi giorni: il 12 novem­bre, quando Achille Occhetto, alla Bolo­gnina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comu­nicò uffi­cial­mente alla trau­ma­tica riu­nione della dire­zione del par­tito di cui, dopo che il Pdup era con­fluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così impo­nen­doci – a tutti – la ver­go­gna di pas­sare per chi sarebbe stato comu­ni­sta per­ché si iden­ti­fi­cava con l’Unione sovie­tica e le orri­bili demo­cra­zie popo­lari che essa aveva creato.

Non c’era biso­gno della caduta del muro per con­vin­cersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo pos­si­bile che vole­vamo, non solo per noi che ave­vamo dato vita al Mani­fe­sto, ovvia­mente, ma nem­meno più per la stra­grande mag­gio­ranza degli iscritti al Pci e dei suoi elettori.

Ma non si trat­tava sol­tanto della sini­stra ita­liana, il muta­mento che segnò l’89 ha avuto por­tata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vit­to­ria a livello mon­diale di que­sta glo­ba­liz­za­zione che tut­tora viviamo, acce­le­rata dalla con­qui­sta al domi­nio asso­luto del mer­cato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riu­scito a fare il socia­li­smo gli era tut­ta­via rima­sto estraneo.

Ci fu, certo, libe­ra­zione da regimi diven­tati oppres­sivi, ma solo in pic­cola parte per­ché non aveva vinto un largo moto ani­mato da un posi­tivo dise­gno di cam­bia­mento: c’era stata, piut­to­sto, la bru­tale ricon­qui­sta da parte di un Occi­dente che pro­prio in que­gli anni, con Rea­gan, Tat­cher, Kohl, aveva avviato una dram­ma­tica svolta rea­zio­na­ria. Al dis­sol­versi del vec­chio sistema si fece strada, arro­gante e per­va­sivo, il capi­ta­li­smo più sel­vag­gio, sra­di­cando valori e aggre­ga­zioni nella società civile, lasciando sul ter­reno solo ripie­ga­mento indi­vi­duale, egoi­smi, cor­ru­zione, vio­lenza. Il corag­gioso ten­ta­tivo di Gor­ba­ciov non era riu­scito, il suo par­tito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotte e rima­sero passive.

E così il paese anzi­ché demo­cra­tiz­zarsi divenne preda di un furto sto­rico colos­sale, ci fu un vero col­lasso che privò i cit­ta­dini dei van­taggi del brutto socia­li­smo che ave­vano vis­suto senza che potes­sero godere di quelli di cui il capi­ta­li­smo avrebbe dovuto essere por­ta­tore. (A pro­po­sito di demo­cra­zia: chissà per­ché nes­suno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liqui­dato Gor­ba­ciov, arrivò a bom­bar­dare il suo stesso Par­la­mento col­pe­vole di non appro­vare le sue proposte?).

Come scrisse Eric Hob­sbawm nel ven­te­simo anni­ver­sa­rio del crollo «il socia­li­smo era fal­lito, ma il capi­ta­li­smo si avviava alla ban­ca­rotta».

Avrebbe potuto andare diver­sa­mente? La sto­ria, si sa, non si fa con i se, ma riflet­tere sul pas­sato si può e si deve ( e pur­troppo non lo si è fatto che in minima parte)E allora è lecito dire che c’erano altri pos­si­bili sce­nari e che se la sto­ria ha preso un’altra strada non è per­ché il «destino è cinico e baro», ma per­ché a quell’appuntamento di Ber­lino si è giunti quando si era già con­su­mata una sto­rica scon­fitta della sini­stra a livello mon­diale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.

Le respon­sa­bi­lità sono mol­te­plici. Per­ché se è vero che il campo sovie­tico non era più rifor­ma­bile e che una rot­tura era dun­que indi­spen­sa­bile, altro sarebbe stato se i par­titi comu­ni­sti , in Ita­lia e altrove, aves­sero avan­zato una cri­tica aperta e com­ples­siva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limi­tarsi – come avvenne nel ’68 in occa­sione dell’invasione di Praga – a par­lare solo di errori.

In que­gli anni i rap­porti di forza sta­vano infatti posi­ti­va­mente cam­biando in tutti i con­ti­nenti ed era ancora ipo­tiz­za­bile una uscita da sini­stra dall’esperienza sovie­tica, non la capi­to­la­zione al vec­chio che invece c’è stata. E così nell’89, anzi­ché avviare final­mente una vera rifles­sione cri­tica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socia­li­smo che pro­prio non si poteva fare.

Gor­ba­ciov restò così senza inter­lo­cu­tori per por­tare avanti il ten­ta­tivo di dar almeno vita, una volta spez­zata la cor­tina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva per­se­guito con tena­cia, offrendo più volte lui stesso alla Ger­ma­nia la riu­ni­fi­ca­zione in cam­bio della neu­tra­liz­za­zione e denu­clea­riz­za­zione del paese.

Fu l’Occidente a rifiu­tare. Mancò all’appello, quando uni­la­te­ral­mente il pre­si­dente sovie­tico diede via libera all’abbattimento della cor­tina di ferro, il più grande par­tito comu­ni­sta d’occidente, quello ita­liano, fret­to­lo­sa­mente appro­dato all’atlantismo e impe­gnato ad accan­to­nare, quasi con irri­sione, il ten­ta­tivo di una “terza via” fon­data su uno scio­gli­mento dei due bloc­chi avan­zata da Ber­lin­guer alla vigi­lia della sua morte improvvisa.

E mancò la social­de­mo­cra­zia, che aveva in quell’ultimo decen­nio mar­gi­na­liz­zato gli uomini che pure si erano con lun­gi­mi­ranza bat­tuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Krei­ski. È così che l’89 ci ha con­se­gnato un’altra scon­fitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi final­mente un ruolo e una sog­get­ti­vità auto­nome, quella “Casa comune euro­pea” che Gor­ba­ciov aveva soste­nuto e indi­cato, e che trovò solo un sim­pa­tiz­zante – ma debo­lis­simo — in Jaques Delors, allora pre­si­dente della Com­mis­sione europea.

Nell’89 l’Unione Euro­pea avrebbe final­mente potuto coro­nare l’ambizione di libe­rarsi dalla sud­di­tanza ame­ri­cana che l’esistenza dell’altro blocco mili­tare aveva faci­li­tato, e invece si ritrasse quasi spa­ven­tata. Avvian­dosi negli anni suc­ces­sivi lungo la disa­strosa strada indi­cata dalla Nato: ricon­durre al vas­sal­lag­gio le ex demo­cra­zie popo­lari per poter esten­dere i pro­pri con­fini mili­tari fino a ridosso della Russia.

Non andò molto meglio nep­pure in Ger­ma­nia. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riu­ni­fi­ca­zione del paese che aveva vis­suto la dolo­ro­sis­sima ferita della divi­sione, ma anche qui, più che di un nuovo ini­zio, si trattò di una annes­sione con­dotta secondo le regole di un bru­tale vincitore.

A 25 anni di distanza la disu­gua­glianza fra cit­ta­dini tede­schi dell’ovest e dell’est è più pro­fonda di quella fra nord e sud d’Italia, per­ché la «Treu­hand» inca­ri­cata di pri­va­tiz­zare quanto era pub­blico nell’economia della Ddr pre­ferì azze­rare le imprese per lasciar il campo libero alla con­qui­sta di quelle della Rft. Cin­que anni fa nel com­me­mo­rare il crollo del muro il set­ti­ma­nale Spie­gel rese noti i risul­tati di un son­dag­gio: il 57% degli abi­tanti della ex Ger­ma­nia dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne ave­vano nostalgia

Oggi pro­ba­bil­mente quella che viene chia­mata «Ostal­gie» è cre­sciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scom­parsa: tor­nava da un giro ad est in occa­sione della prima cam­pa­gna elet­to­rale del paese riu­ni­fi­cato ed era deso­lato per come la riu­ni­fi­ca­zione era stata con­dotta. La Spd non aveva del resto nasco­sto, sin dall’inizio, la sua con­tra­rietà a come era stato avviato il processo).

Per tutte que­ste ragioni non con­di­vido la spen­sie­rata (agio­gra­fica) festo­sità che accom­pa­gna, anche a sini­stra, la cele­bra­zione del crollo del Muro. Soprat­tutto per­ché – e que­sta è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di per­sone prende fine la spe­ranza – e per­sino la voglia – di cam­biare il mondo, quasi che il socia­li­smo sovie­tico fosse stato il solo modello pra­ti­ca­bile. E via via è finita per pas­sare anche l’idea che tutto il secolo impe­gnato a costruirlo anche da noi era stata vana per­dita di tempo.

Un colpo duris­simo inferto alla coscienza e alla memo­ria col­let­tiva, alla sog­get­ti­vità di donne e uomini che per que­sto ave­vano lot­tato. E nes­suno sforzo per riflet­tere cri­ti­ca­mente su cosa era acca­duto per trarre forza in vista di un più ade­guato nuovo pro­getto. Non è un caso che anche i poste­riori ten­ta­tivi di dar vita a nuovi par­titi di sini­stra abbiano pro­dotto for­ma­zioni tanto impa­stic­ciate: per­ché inca­paci di fare dav­vero i conti con la sto­ria. E per­ciò qual­che rista­gno ideo­lo­gico o la resa a un pen­siero unico che indica il capi­ta­li­smo come solo oriz­zonte della storia.

Nel dire que­ste parole amare rischio come sem­pre di fare la nonna noiosa che con­ti­nua a rimu­gi­nare sul pas­sato senza guar­dare al pre­sente. So bene che ci sono oggi nuovi movi­menti ani­mati da gene­ra­zioni nate ben dopo la famosa sto­ria del Muro che si pro­pon­gono a loro modo di inven­tarsi un mondo diverso.

Ma non mi ras­se­gno a subire senza rea­gire il disin­te­resse che avverto in tanti di loro per il nostro pas­sato, non per­ché vor­rei ci assol­ves­sero dai nostri errori, ma per­ché non sono con­vinta si possa andar lon­tano se non si ha rispetto sto­rico per quanto di eroico e corag­gioso, e non solo di tra­gico, c’è stato nei grandi ten­ta­tivi, pur scon­fitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella uffi­cial­mente cele­brata in que­sto ven­ti­cin­quen­nale del Muro — così meschina da appa­rire arre­trata per­sino rispetto alla rivo­lu­zione fran­cese dove almeno era stato aggiunto ugua­glianza e fra­ter­nità, ormai con­si­de­rati obiet­tivi pue­rili e con­tro­pro­du­centi: il mer­cato, infatti, non li può sopportare.

Non ho molta cre­di­bi­lità nel pro­porre la crea­zione di par­titi, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con straor­di­na­rio suc­cesso. E tut­ta­via ora ne vor­rei dav­vero fare uno: il par­tito dei nonni. Non per­ché inse­gnino ai gio­vani cosa devono fare, per carità, ma per­ché vor­rei che almeno due gene­ra­zioni uscis­sero dal muti­smo in cui hanno finito per rin­chiu­dersi, inti­mi­diti da rot­ta­ma­tori di destra e di sinistra.

Vor­rei che ripren­des­sero la parola, riac­qui­stas­sero sog­get­ti­vità: per dire che sulla sto­ria di prima del crollo del muro vale la pena di riflet­tere, per­ché si tratta di una sto­ria piena di ombre, ma anche di espe­rienze straor­di­na­rie ( a comin­ciare dalla rivo­lu­zione d’ottobre di cui giu­sta­mente Ber­lin­guer disse che aveva perso la sua spinta pro­pul­siva, non che era meglio non farla). But­tare tutto nel cestino signi­fica ince­ne­rire ogni vel­leità di cam­bia­mento, di futuro.

Per finire: da quando è caduto il muro di Ber­lino ne sono stati eretti altri mille, mate­riali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disu­gua­glianza glo­bale e i muri euro­pei «a mare» nel Medi­ter­ra­neo e di terra a Melilla, con­tro i migranti). Non pro­prio una festa.

Critiche sensate ai padri di Renzi, ma significativa elusione di un nodo centrale: qual'è il giudizio sul sistema capitalistico, e quale la conseguente strategia? e quali i principi e valori da assumere a fondamento della societa'? Il manifesto, 30 ottobre 2014, con postilla

Renzi pensa, parla, agi­sce come un poli­tico di destra? Può darsi, in molti casi è evi­dente, ma le domande a que­sto punto diven­tano altre e sono più impe­gna­tive: com’è pos­si­bile che un poli­tico così abbia “espu­gnato” senza grande dif­fi­coltà il Pd e oggi goda di un con­senso lar­ga­mente mag­gio­ri­ta­rio nell’elettorato che si sente di sini­stra e che ha sem­pre votato a sini­stra? Dipende solo dalle sue doti obiet­ti­va­mente straor­di­na­rie di istrione e dema­gogo? Io non credo, penso che se il Pd si sta tra­sfor­mando nel par­tito per­so­nale di Renzi per­dendo molti con­no­tati tra­di­zio­nali di un par­tito “di sini­stra”, que­sto dipende da com’è stata la sini­stra prima di lui.
Renzi, insomma, è figlio di D’Alema e di Ber­sani, nel senso che il suo avvento è la con­se­guenza di una sini­stra, della sini­stra ita­liana erede del Pci, che non ha mai fatto i conti con i pro­pri ritardi, i vizi, le ano­ma­lie rispetto a buona parte delle sini­stre euro­pee. Una sini­stra che da tempo non è più “con­tem­po­ra­nea”: per que­sto si è pro­gres­si­va­mente allon­ta­nata dagli ita­liani, com­presi tanti che hanno con­ti­nuato a votarla per abi­tu­dine o per man­canza di alter­na­tive, e anche per que­sto Renzi l’ha “spianata”.
Non ha fatto i conti, la sini­stra ex-Pci, con tre que­stioni su cui si sono costruiti prima il suo declino e poi la sua defi­ni­tiva sconfitta.
Una que­stione è squi­si­ta­mente ideo­lo­gica. Gli ex-Pci cam­bia­rono il nome subito dopo l’Ottantanove, quando peral­tro la “cosa” già aveva già pochis­simo di comu­ni­sta. Ma di quella sto­ria hanno con­ser­vato un abito men­tale che è stato di grave osta­colo per la com­pren­sione dei cam­bia­menti del mondo e dell’Italia. Così, hanno con­ti­nuato a misu­rare il pro­gresso secondo cate­go­rie anti­di­lu­viane che sepa­rano strut­tura – il lavoro, la con­di­zione mate­riale delle per­sone — e sovra­strut­tura – la lega­lità, la cul­tura, l’ambiente, la dimen­sione imma­te­riale del benes­sere -, e a con­ce­pire l’economia e lo svi­luppo come un secolo fa: certo non più “soviet e elet­tri­fi­ca­zione” ma comun­que car­bone (Ilva e din­torni), asfalto, cemento.
Così, sono rima­sti pri­gio­nieri dell’idea del pri­mato della poli­tica sulla società, e della con­vin­zione di essere – loro élite poli­tica — migliori del popolo rozzo e igno­rante che si fa infi­noc­chiare da Ber­lu­sconi o da Grillo; così, ancora, pro­prio in quanto ex-comunisti hanno ten­tato di tutto per dimo­strare di non esserlo più: dando prova di una com­pia­cenza siste­ma­tica verso inte­ressi costi­tuiti e poteri forti, pra­ti­cando una rigo­rosa asti­nenza da qua­lun­que radi­ca­lità si chiami patri­mo­niale o stop al con­sumo di suolo o diritti degli omo­ses­suali…
Una seconda que­stione è cul­tu­rale. Oggi l’alfabeto poli­tico della sini­stra nove­cen­te­sca è del tutto insuf­fi­ciente a rap­pre­sen­tare i valori, i biso­gni, gli inte­ressi di chi si con­si­dera “di sini­stra”. Fatica a inte­grare pie­na­mente nel pro­prio discorso temi come l’ambiente che set­tori cre­scenti della società con­si­de­rano cen­trali, non rie­sce a vedere che mal­grado i drammi incom­benti legati a disoc­cu­pa­zione e povertà sem­pre di meno le per­sone basano il pro­prio “essere sociale” pre­va­len­te­mente sul lavoro.

In nes­suno dei movi­menti sociali e di opi­nione degli ultimi decenni ascri­vi­bili a idea­lità di sini­stra, il lavoro è stato l’elemento cen­trale: dall’ambientalismo al fem­mi­ni­smo, dai no-global ai movi­menti gio­va­nili, dalle mobi­li­ta­zioni per i diritti civili a quelle per i beni comuni. Il lavoro natu­ral­mente conta tut­tora mol­tis­simo, conta tanto più in una sta­gione di dram­ma­tica crisi eco­no­mica.

postilla

Il tema proposto da Della Seta è indubbiamente centrale. La questione del lavoro è certamente decisiva per chi voglia affrontare una lotta seria contro il renzismo e la “emergenza democratica” che esso ha provocato. Così come lo è la questione dell'ambiente. La connessione tra queste due questioni è anzi la chiave di volta per riconnettere quelle che per semplicità chiamero’ la vecchia e la nuova sinistra: quella che abbiamo conosciuto e quella che vogliamo costruire. Ma porre quelle due questioni volendo effettivamente risolvere ( e non mitigare, addolcire, depeggiorare) significa recuperare la tensione che è la ragione stessa del “comunismo”: la tensione, e la prospettiva, del superamento del capitalismo. In particolare del capitalismo di oggi: quello che ha ormai esaurito ogni sua “forza propulsiva” ed è diventato meramente distruttivo.
Hic Rhodus, hic salta, caro Roberto Della Seta.

Per chi si pone in questa prospettiva il declino e la definitive sconfitta della sinistra ex PCI inizia forse ben prima della rottura di Occhetto: nasce quando all’interno stesso del PCI la visione di Enrico Berlinguer fu sconfitta, e la grande proposta strategica del “compromesso storico” fu immiserita riducendola al rango di una intesa di potere tra

quel PCI, ormai disideologizzato, e quella DC, opportunamente privata della leadership di Aldo Moro. E forse è anche utile sottolineare - visto che, seguendo Della Seta, abbiamo ricordato la “cosa” di Occhetto - che il primo successore del PCI, il PDS, aveva tra i suoi obiettivi strategici la “riconversione ecologica dell’economia”, che evocava una trasformazione radicale del sistema economico sociale, rapidamente degenerate in “green economy”.

«». La Repubblica

Non si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee della scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un grande talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva venire realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si riusciva a vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone — giusto 140 volte meno che a San Giovanni.
Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni. Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso.
Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra. Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura. Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito-nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani.
A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.

Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra.

Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie >>>

Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie alle notizie apparse di recente su quasi tutta la stampa nazionale. In questa regione si è resa necessaria una sentenza del TAR per costringere i partiti ad andare alle urne. Loro intenzione era traccheggiare sino al compimento della legislatura, nonostante il governo regionale fosse in crisi da mesi, dopo la condanna in primo grado a 6 anni di carcere, nel marzo di quest'anno, del suo presidente. La fertile fantasia affaristica di questo ceto, che si applica con tanta fervida cura alle sorti delle popolazioni, ha addirittura partorito una revisione della legge elettorale palesemente incostituzionale (una soglia del 15% per i partiti non coalizzati) allo scopo di creare la paralisi istituzionale e continuare a fare nomine, a percepire circa 10 mila euro al mese tra indennità di carica e “spese di esercizio”.

Com'è noto, la Calabria è la regione più povera d'Italia. I dati Istat di luglio danno la disoccupazione ufficiale al 25%, quella giovanile è quasi il doppio, ma è difficilmente calcolabile, mentre ricade nella soglia della povertà relativa, insieme alla Sicilia, il 6,4% delle famiglie. Questa sventurata regione ha in compenso la più vasta criminalità organizzata del mondo, una multinazionale del crimine e, in gara con la Sicilia, il ceto politico più inetto e corrotto della Penisola. Ma la realtà sociale e quella politica si tengono insieme e si condizionano vicendevolmente. In molte realtà periferiche, anche in zone delle città maggiori, il voto, soprattutto quello amministrativo, non è più libero. Migliaia di cittadini votano per candidati da cui ricevono piccole somme, promesse aleatorie di posti di lavoro, raccomandazioni, ecc. D'altra parte, il ruolo legale dei rappresentanti politici appare così ininfluente sulle condizioni della loro vita, che essi sono propensi a valorizzare il loro voto anche al livello più misero.
Ma questa scadente domanda politica di tanta parte dei cittadini premia poi le figure peggiori degli uomini di partito, quelle che continuano una lunga e nefasta tradizione clientelare, spesso non esente da collusioni con i gruppi criminali. E' un circolo vizioso che induce passività e rassegnazione. Ho sempre considerato sorprendente il fatto che in Calabria – dove centinaia di miliardi di lire e poi milioni di euro dell'UE sono rimasti inutilizzati – mai sia stata organizzata una manifestazione di protesta dei cittadini, dei partiti o dei sindacati contro l'inettitudine dei vari governi regionali. Una passiva rassegnazione che impedisce l'emersione e l'affermazione di tante forze civilmente avanzate, soprattutto di giovani, che ambirebbero di essere governati da uomini e donne attenti ai drammatici bisogni collettivi .

Oggi, alla vigilia delle elezioni che si svolgeranno a novembre, c'è una possibilità di svolta, che potrebbe lanciare un messaggio a tutto il Paese. Il sindaco di Lamezia, Gianni Speranza, che ha governato bene, subendo attacchi ripetuti dalla 'ndrngheta' locale, osteggiato in mille modi dal PD, ha denunciato sul Manifesto del 10/9 l'esistenza del “partito trasversale” che inchioda la Calabria nella regnatela dei suoi piccoli e sordidi traffici. Di questo partito trasversale - non è una novità - è parte costituiva il PD regionale. Nonostante la presenza in esso di cittadini onesti e giovani intraprendenti, il PD non è che un insieme di gruppi notabilari. Solo una forza esterna, libera dalle storiche e sotterranee connivenze, può liberare la Calabria da un ceto politico che letteralmente la opprime e mette ai margini della vita nazionale.

Senso della responsabilità vorrebbe che tutte le forze democratiche minori mettessero da parte settarismi e piccoli orgogli di partito e cercassero una intesa unitaria contro l'avversario comune. Un avversario che oggi è il vero problema dell'Italia intera. Se si è in grado di offrire una reale speranza di svolta, i cittadini calabresi potrebbero premiare quella che appare indubbiamente una difficile sfida. Ma occorre anche che chi fa opinione in Italia faccia sentire il suo autorevole peso.

«Nella colonna sociale che non mar­cia più in avanti, si guarda al vicino con invi­dia. E se non si rie­sce più a vedere in chi sta avanti il sog­getto al quale togliere per dare a chi sta sof­frendo, viene natu­rale guar­dare chi sta accanto. Dalla lotta di classe si scade nell’invidia».

Il manifesto, 18 ottobre 2014

C’è un mondo del non lavoro che com­prende oggi otto milioni di per­sone. Ex-occupati che hanno perso il lavoro, gio­vani che lo cer­cano per la prima volta e non lo tro­vano, donne che, per ristret­tezze fami­liari, lo cer­cano anche se non più giovanissime.

Lo com­pon­gono altret­tante per­sone che non sanno a chi rivol­gersi e, quindi, non lo cer­cano “inten­sa­mente” e, per­ciò, non rien­trano tra i disoc­cu­pati, ma tra gli “sco­rag­giati”, cate­go­ria di per­sone prima psi­co­lo­gica ed adesso, final­mente, anche sta­ti­stica. Lo com­pon­gono anche tanti cas­sin­te­grati, sta­ti­sti­ca­mente occu­pati e psi­co­lo­gi­ca­mente esclusi, ed i “lavo­ra­tori in mobi­lità”, che popo­lano quel pur­ga­to­rio tra un lavoro per­duto ed uno che dif­fi­cil­mente tro­ve­ranno.

Otto milioni di per­sone sono un bel “bacino elet­to­rale”. Ma essi non sono soli. Nella società ita­liana, più che in altri paesi, esi­ste un tes­suto, una rete fami­liare ed ami­cale, che offre un tetto fino ai 35–40 anni, che tra­vasa la bassa pen­sione o lo scarso red­dito, che atte­nua ed ammor­tizza, quando può e come può, il disa­gio sociale che ne sca­tu­ri­sce (a quando una bella mani­fe­sta­zione delle mamme di Piazza del Popolo Precario?).

Con­si­de­rando anche loro, quindi, il bacino elet­to­rale si allarga oltre i 15 milioni. Un “mer­cato elet­to­rale poten­ziale” di que­ste dimen­sioni fa gola a molti ed è ter­reno di con­qui­sta. Una volta si pen­sava che que­sto fosse un bacino elet­to­rale “natu­ral­mente” orien­tato a sini­stra e le lotte “per il lavoro e per il sud”, pro­mosse dalla Cgil di Di Vit­to­rio e pro­trat­tesi fino agli anni set­tanta, costi­tui­vano il nesso sociale tra disoc­cu­pa­zione, lavoro e sini­stra. Ma erano vera­mente altri tempi. Negli ultimi decenni gio­vani e disoc­cu­pati hanno votato più Forza Ita­lia che sini­stra ed adesso, col declino di Ber­lu­sconi, que­sto “mondo del non lavoro allar­gato” di cui stiamo par­lando è elet­to­ral­mente “con­ten­di­bile” da tutti.

Que­sto lo aveva capito per primo Grillo, diven­tando la mag­giore forza tra i disoc­cu­pati, e subito dopo lo ha capito Renzi che, par­lando invece che di “piano del lavoro” di jobs act, usando inglese, tweet ed hash­tag e mar­tel­lando sulla fidu­cia nel futuro, cerca di fare di que­sto mondo la sua base di massa. In que­sto tra­gitto comu­ni­ca­tivo, sin­da­cati, sini­stra e lavo­ra­tori a tempo inde­ter­mi­nato ven­gono addi­tati come respon­sa­bili, difen­sori di pri­vi­legi acqui­siti, capri espia­tori. Da qui a dire che se i gio­vani non tro­vano lavoro è per colpa dell’art.18, il passo è stato breve e scam­biare qual­che diritto in meno, con la spe­ranza di qual­che posto di lavoro in più una con­se­guenza logica e natu­rale.

Sap­piamo bene che nes­suna ana­lisi eco­no­mica seria può aval­lare que­ste affer­ma­zioni ed è evi­dente che esse sono stru­men­tali: hanno il solo scopo di per­se­guire e pro­se­guire lo sfon­da­mento poli­tico al cen­tro ed a destra, com­ple­tare la muta­zione gene­tica del Pd e costruire un neo-centrismo che superi il bipo­la­ri­smo incor­po­ran­dolo al suo interno. Il vero patto del Naza­reno si sta pian piano disve­lando come un’intesa stra­te­gica volta a ridi­se­gnare il pano­rama poli­tico con un Par­tito Cen­trale che per essere tale deve andare oltre la tra­di­zio­nale divi­sione tra cen­tro destra e cen­tro sinistra.

A me sem­bra che, in que­sto campo, Renzi abbia una pre­cisa stra­te­gia che non è solo comu­ni­ca­tiva, ma poli­tica. Renzi ha una sua idea di redi­stri­bu­zione ed una sua filo­so­fia poli­tica: la glo­ba­liz­za­zione e le poli­ti­che mone­ta­rie domi­nanti lasciano pochi mar­gini per riforme eco­no­mi­che in grado di ridurre le disu­gua­glianze; la redi­stri­bu­zione, per­ciò, non può essere quella teo­riz­zata dalla sini­stra, tra lavoro e capi­tale, dai ceti ric­chi a quelli poveri; essa non può che essere “interna” al mondo del lavoro ed agli strati medio — bassi della società; quindi, niente vec­chi arnesi dell’armamentario di sini­stra come tas­sa­zione dei grandi patri­moni o pro­gres­si­vità, ma idee “nuove”.

Redi­stri­bu­zione dei diritti. Togliere diritti ad alcuni, pro­met­tere lavoro ad altri. Che quello che si toglie sia certo e quello che si pro­mette incerto, conta poco per­ché ci si rivolge a due sog­getti ai quali non si toglie niente: agli impren­di­tori, ita­liani e soprat­tutto stra­nieri, invi­tati ad inve­stire, ai gio­vani, invi­tati a spe­rare. Ci saranno que­sti effetti? Molto pro­ba­bil­mente no, ma l’importante è dimo­strare che Renzi ci crede e man­te­nere que­sto feeling fino alle pros­sime ele­zioni, quando que­sti voti saranno neces­sari per pren­dere in mano il paese per cinque-anni-cinque e ridi­men­sio­nare ogni oppo­si­zione interna ed esterna.

Redi­stri­bu­zione dei red­diti. Rien­tra in que­sta tipo­lo­gia, innan­zi­tutto la scelta degli 80 euro che sul piano macroe­co­no­mico non ha pagato per­ché non ha rilan­ciato la domanda, ma su quello elet­to­rale sì. Che poi essa venga coperta con minori ser­vizi e mag­giori tasse locali conta poco. I “bene­fi­ciari” sono iden­ti­fi­ca­bili e sono stati in buona parte grati. I “sacri­fi­cati” sono molti di più, ma sono spar­pa­gliati. Tra loro ci sono anche i bene­fi­ciari, ma essi non hanno potuto cogliere la rela­zione tra soldi che entra­vano e soldi che usci­vano ed anzi sono stati indotti a pen­sare che quelli che entra­vano sono merito di Renzi, quelli che usci­vano, dopo, a rate e per tasse dai nomi mute­voli, sono colpa degli ammi­ni­stra­tori locali, spre­coni ed inef­fi­cienti. Colpa della poli­tica. Quindi bene ha fatto il nostro ad eli­mi­nare gli eletti al senato ed alle province.

In que­sta stessa tipo­lo­gia di redi­stri­bu­zione “interna”, di una sorta di par­tita di giro, rien­tra l’idea di col­pire i red­diti alti, ma fer­man­dosi ai red­diti da lavoro o da pen­sione e non spin­gen­dosi certo a quelli da pro­fitto o da ren­dita. Que­sta idea è stata affac­ciata e poi riti­rata, è scritta nel libro sacro di Gut­geld (pen­sato con Renzi), potrà essere ripro­po­sta, ma intanto ha lasciato il segno: Renzi vuole col­pire in alto (natu­ral­mente non tanto in alto da col­pire grandi red­diti e grandi patri­moni), ma incon­tra resistenze.

Può rien­trare qui anche l’idea, più recente, di anti­ci­pare l’utilizzo del Tfr. Qui siamo in una nuova cate­go­ria di redi­stri­bu­zione: quella tra pre­sente e futuro. Al primo no degli indu­striali, que­sta idea, è stata ridi­men­sio­nata, ma poco importa: Renzi ha comun­que segnato un altro punto a suo favore dimo­strando che pur di fare aumen­tare la domanda se ne inventa una al giorno, per­lo­meno è in buona fede, ci crede, quindi, fac­cia­molo lavo­rare. Fer­mia­moci qui.

Pos­siamo anche dire che Renzi ha inven­tato “le par­tite di giro sociali”: dare ad alcuni togliendo ad altri che appar­ten­gono allo stesso mondo, senza toc­care “gli altri” veri cioè grandi red­diti, grandi ren­dite, grandi ric­chezze. Pos­siamo anche dire che Renzi ha pen­sato ad una redi­stri­bu­zione interna alla stessa per­sona tra l’oggi e il domani e che ha arric­chito la madre lin­gua toscana con il napo­le­tano “facimm’ammuina”, ma resta un fatto incon­fu­ta­bile: ha risuc­chiato voti a destra e al cen­tro e que­sto era scon­tato, ma anche a sini­stra e que­sto non lo era affatto.

L’operazione è risul­tata finora vin­cente per­ché al disa­gio sociale di cui abbiamo par­lato si offrono due mes­saggi effi­caci: ce la sto met­tendo tutta e ci credo, stiamo pagando gli abusi di ieri, quindi, i “pri­vi­le­giati” deb­bono pagare. Ma chi sono i pri­vi­le­giati? In una società in crisi, indi­vi­dua­liz­zata e fran­tu­mata, ter­ri­bil­mente impo­ve­rita sul piano cul­tu­rale, diven­tano quelli più vicini a noi. Chi ha un lavoro è pri­vi­le­giato per chi non lo ha, chi lo ha fisso è pri­vi­le­giato per chi è pre­ca­rio, chi gua­da­gna due­mila euro lo è per chi ne gua­da­gna mille. E gli altri? I ric­chi veri?
Quelli sono lon­tani e non si vedono. Nella colonna sociale che non mar­cia più in avanti, si guarda al vicino con invi­dia. E se non si rie­sce più a vedere in chi sta molto più avanti il sog­getto al quale togliere qual­cosa per darlo a chi sta sof­frendo, viene natu­rale guar­dare a chi ci sta accanto. E così dalla lotta di classe si scade nell’invidiaden­tro la classe.

Dobbiamo a un valente demografo, Massimo Livi Bacci, una circostanziata analisi della questione giovanile in Italia alla vigilia della Grande Recessione (Avanti giovani alla riscossa, Il Mulino, 2008). Lo studioso mostrava come la fascia di popolazione tra i 15 e 30 anni viveva una condizione di emarginazione sociale che la distingueva tra i Paesi dell'Europa a 15. I giovani italiani, ad esempio, dipendevano per il 50% dal reddito della famiglie, contro il 30% della media europea. Gli adulti in Italia guadagnavano in media 2,8 volte il reddito dei giovani, contro 2,5 volte in Francia, 1,9 volte in Germania. Ma in generale i nostri ragazzi risultavano più indietro nel completamento degli studi, nel trovare occupazione, metter su casa, formare una propria famiglia. In sintesi, il grado di autonomia, la capacità di emancipazione e di libertà individuale della gioventù italiana apparivano inferiori a quella di gran parte dei coetanei europei per quasi tutti gli indici presi in esame. E quell'analisi non scendeva alla più basse fasce d'età. A metà anni '90 i bambini italiani sotto la linea mediana ufficiale della povertà rappresentavano il 21,3% del totale, terzi dopo USA (26,3%) e Russia(21,3) (The Dynamics of Child poverty in industrialised Countries, Cambridge 2001). Un piazzamento davvero onerevole.

Ricordo questi dati – cui sono seguite e continuano a seguire altre importanti ricerche come il Rapporto dell'Istituto G.Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino 2013 – per sventare in anticipo una manipolazione consueta della realtà: quella di rappresentare un grave problema strutturale come esito transitorio della “crisi”degli ultimi anni. E' evidente invece che la condizione di emarginazione della nostra gioventù precede la crisi, è l'esito aggravato di un corso politico che dura da decenni, alla cui base c'è la sempre più dispiegata disoccupazione e la precarizzazione del lavoro. Alla falange dei giovani che negli ultimi decenni accedevano alle prime occupazioni si è parato dinanzi una crescente mancanza di sbocchi e la strada stretta di una legislazione sempre più svantaggiosa ed emarginante. Sicchè non stupisce se la disoccupazione giovanile tocca oggi il picco del 44%, mentre il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi formazione (Neet) hanno raggiunto il primato europeo del 22,25%. Con la crisi la divaricazione generazionale è solo aumentata: gli over 65 sono diventati più ricchi, quelli sotto i 40 ancora più poveri.

Forse però questi dati non dicono ancora la grande novità storica: la classe dirigente anziana che detiene il potere da anni sta muovendo una vera e propria lotta di classe contro la gioventù del nostro Paese. Padri e nonni ricchi contro figli e nipoti poveri. Essa surroga sempre più il welfare con la famiglia, i diritti universali con il familismo. Ovviamente quando la famiglia non si trova in condizioni di povertà. Lo fa con gli strumenti del governo, attraverso il ceto politico, e direttamente nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi di lavoro privati. Pochi dati da aggiungere a quelli più noti, inflitti dalla “legislazione di guerra” messa in atto dall'ultimo governo Berlusconi-Tremonti (allungamento dell'età pensionabile, tagli lineari alla scuola e all'Università) e poi proseguita dal dicastero Monti, dal governo Letta e ora estesa con furia novatrice dall'esecutivo di Renzi.

Negli ultimi 10 anni le tasse universitarie sono cresciute del 63%, mentre in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Germania ci si laurea gratis. In compenso le borse di studio sono crollate al 7,5 % degli studenti, a fronte di uno studente su tre della Francia. Anche i posti di dottorato, già scarsi, sono diminuiti del 19%. Nel frattempo si rende sempre più estesa la pratica del numero chiuso per gli accessi alle facoltà universitarie, si sbarra la strada all'istruzione con una giungla di norme e di vessazioni di ogni genere, allo scopo di ricostituire una Università di élite, gettando negli occhi di un'opinione pubblica ignara il fumo del merito e dell'eccellenza. Ma ciò che sfugge a ogni statistica è il dilagare del lavoro non pagato: nelle fabbriche si diffondono gli “stages gratuiti”, nelle scuole i supplenti giovani spesso non ricevono gli stipendi o li ricevono con enormi ritardi, ma stanno al gioco con il fine di “fare punteggio”. Nell'Università non si conta più il lavoro volontario degli aspiranti ricercatori che sperano in un assegno di ricerca o in un concorso a venire. Negli studi degli avvocati e in tante altre attività professionali i giovani lavorano per anni senza reddito, per “imparare il mestiere”. E la pratica dei master a pagamento, che promettono carriera e posti di lavoro, rasenta in tanti casi la truffa. Nelle società dominate dal “libero mercato” chi è già incluso e organizzato tende a chiudere le porte a chi arriva.

Dovrebbe dunque essere chiara l'enormità economica, politica, umana della questione giovanile in Italia, articolazione generazionale della disuguaglianza strutturale creata dalle pratiche neoliberistiche in tutto il mondo. Almeno due generazioni stanno letteralmente andando perdute, consumeranno la loro gioventù tra lavori intermittenti, disoccupazione, attese, frustrazioni, scarso reddito, impossibilità di progettare alcunché. Il declino dell'Italia si identifica esattamente con la condizione dei suoi giovani. Il nostro Paese sta rinunciando, per balorda miopia, grettezza, illimitata mediocrità delle sue classi dirigenti, all'energia vitale, alla creatività, capacità di lavoro e di progetto della sua scarsa riserva demografica. Scarsa, perché i giovani sono una minoranza: poco più di 10 milioni tra i 20 e i 34 anni al censimento del 2011, a fronte di quasi 49 milioni e mezzo del totale. Tutto questo mentre ci assorda la retorica sulla necessità della competizione, della valorizzazione del “capitale umano”, sulla crescita, e le altre fuffe che la miserabile cultura capitalistica dei nostri anni riesce a elaborare.

Ora, io credo che la questione giovanile costituisca una straordinaria occasione politica per la sinistra. Alle retoriche del governo e sue adiacenze si può contrapporre un vero e proprio programma per la gioventù, quale parte di un progetto per l'intero paese. La prospettazione di una serie di obiettivi che possano mobilitare il consenso e anche l'entusiasmo giovanile, oggi sommerso sotto una montagna di delusioni e rancore. Non si tratta solo di rivendicare il reddito minimo di base, che comporta rilevanti impegni di spesa, ma anche di puntare a iniziative legislative “minori”, che possano ricreare un clima di fiducia tra la politica – che è cosa diversa dalla propaganda elettorale – e le nuove generazioni.

Perché, ad esempio, non consentire ai nostri ragazzi, entro una determinata fascia di età, sconti importanti per l'ingresso ai teatri, ai musei, per l'acquisto di libri, per la mobilità, locale e nazionale? Perché non creare un fondo di garanzia che consenta l'apertura di mutui da parte delle banche alle giovani coppie che vogliono metter su casa e non possono contare su un reddito continuativo e sicuro? Perché non aprire un campagna per la costituzione di nuove case per gli studenti (utilizzando caserme o altri stabili dismessi), la diffusione sul territorio di asili nido che aiuterebbero tanto le giovani coppie a cercare e mantenere un lavoro? Sono solo esempi di quel che si può proporre, di quel che si può fare per attivare la fantasia dei diretti interessati, che devono uscire dalla loro rassegnata segregazione e frantumazione e porsi come soggetto consapevole di una ripresa della lotta di classe in quanto generazione e aggregato sociale.
Ma per intestarsi questa battaglia la sinistra radicale e popolare, deve riprendere il passo che ha perduto in questi ultimi tempi: deve “andare” dai giovani, davanti alle fabbriche, alle scuole, alle università, ovunque si trovino. Deve andare adesso, non alla vigilia delle elezioni, per fare eleggere qualche pur bravo candidato. Deve riacquistare il gusto di organizzare persone e lotte, oltre alla conduzione di campagne elettorali. E' questo il terreno su cui movimenti e figure politiche, oggi variamente collocate, possono trovare il punto sperimentale di aggregazione che tutti attendiamo. E' una strada drammaticamente obbligata. Renzi e i suoi non sposteranno di un centimetro il piano inclinato in cui l'Italia va precipitando. Preparano solo gli strumenti politici per controllare la disgregazione sociale che sta dilagando nel paese.

«Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?

Sbilanciamoci.info, 7 ottobre 2014

Neppure un'incorreggibile gufa come me avrebbe immaginato che Matteo Renzi avrebbe cercato di portare velocemente il Pd verso una mutazione genetica, anche se covava da tempo, forse da quando Achille Occhetto, in qualità di segretario, aveva chiesto il beneficio di inventario nel richiamarsi non alla presa del palazzo d'inverno del 1917, ma alla rivoluzione francese del 1789. La Costituente sì, la Convenzione no. Viva l'abate Sieyès, abbasso Robespierre. Ma sulla Dichiarazione dei diritti erano stati d'accordo tutti, ed è quella che i socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni hanno portato dentro la fabbrica con lo Statuto dei lavoratori.

Già era stato stupefacente per me che di tutta la direzione del Pd soltanto D'Alema e Bersani hanno dichiarato di non essere d'accordo con l'abolizione dell'articolo 18 e il contratto unico, cosiddetto a tutele crescenti, che costringerebbe ogni nuovo occupato a tre anni di precariato prima di essere regolarmente assunto (e va a vedere se la creatività degli imprenditori italiani non troverà qualche marchingegno per far apparire "nuovo e primo” ogni tipo di contratto), in modo da far transitare tutta la manodopera da un apprendistato a un altro.

Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice, nel caso della risoluzione di un punto delicato come un conflitto di lavoro, piuttosto che a un arbitrato consegnato alla parte sociale dominante? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?

La verità è che forse il Jobs Act va letto, suggeriva maliziosamente ieri Melania Mazzucco, come l'acronimo di "jump our business", avanti subito con i nostri affari, ora che l'intralcio di un diritto dei dipendenti è stato gentilmente tolto di mezzo da quel che restava del Pci. Forse Renzi coglierà l'occasione per dichiarare, come già Veltroni, "Non sono stato comunista mai". Eppure lo zoccolo duro del Pci, la base confluita nelle sue successive trasformazioni, è stata sempre costituita da gente che lavorava sotto padrone. Passata al Pd come i suoi dirigenti, aveva ragionevolmente creduto che colui che spediva a Palazzo Chigi l'avrebbe difesa. Quando ha cominciato a dubitarne, il partito si è andato liquefacendo. Oggi lo vediamo, il famoso 40 per cento degli elettori per l'Europa sono un milione in meno di coloro che votarono Veltroni nel 2008, per non parlare di Berlinguer.

Il numero sempre più imponente degli astenuti modifica evidentemente le proporzioni fra una forza e l'altra, ma resta che i voti effettivamente avuti dai singoli partiti siano pochi, molti meno di quella che era la consuetudine italiana. Renzi farebbe bene a guardare in faccia il partito di cui è segretario e disprezzare un po' meno i suoi iscritti, che sono stati e restano la parte più attiva dell'elettorato d'Italia.
Democrack. Come nello scontro sulla «riforma» del Senato, anche sul lavoro la minoranza inghiotte il rospo.

Il manifesto, 12 ottobre 2014

Insomma, è pro­prio il caso di dirlo: molto rumore per nulla.

Dopo lo scon­tro sulla «riforma» del Senato, ora di nuovo, sul lavoro, la mino­ranza Pd inghiotte il rospo. La sini­stra interna (3 ecce­zioni su 26 con­fer­mano la regola) si è pie­gata al ricatto della fidu­cia. Come se un ricatto costi­tuisse un alibi, come se la debo­lezza fosse una ragione. Ma se lo scorso ago­sto si trattò forse di un impre­vi­sto, adesso siamo a un copione spe­ri­men­tato, del resto con­forme alla sor­tita di Ber­sani di qual­che giorno fa. L’avviso sulla lealtà alla «ditta» – peral­tro riba­dito anche da ultimo – non fu dun­que una voce dal sen fug­gita, ma il pre­vi­dente annun­cio di quanto era già intuito, assunto, metabolizzato.

È stata una scelta grave in un pas­sag­gio stra­te­gico. Renzi ha aperto la guerra interna nel Pd su mate­rie cru­ciali. La modi­fica della Camera Alta stra­volge l’architettura costi­tu­zio­nale e mina alle fon­da­menta la rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica, alte­rando la natura dello Stato. L’attacco ai diritti essen­ziali del lavoro subor­di­nato col­pi­sce il car­dine della Repub­blica anti­fa­sci­sta, oltre che la ragion d’essere di una sini­stra che possa legit­ti­ma­mente dirsi tale. Non si tratta di scelte improv­vi­sate, e non è casuale che su que­sti ter­reni il «capo del governo» abbia deciso di gio­carsi la par­tita. Sfon­dando sulla divi­sione dei poteri e sui diritti del lavoro, mor­ti­fi­cando il dis­senso e sfot­tendo le orga­niz­za­zioni sin­da­cali, Renzi intende mostrarsi in grado di gui­dare il «cam­bia­mento»: di svuo­tare la Costi­tu­zione del ’48 e di varare una nuova forma di governo fun­zio­nale alla sovra­nità del capi­tale privato.

Solo chi avesse perso qual­siasi capa­cità di giu­di­zio potrebbe sot­to­va­lu­tare la gra­vità di quanto accade. Nel giro di pochi mesi viene pren­dendo vita un regime auto­ri­ta­rio nel quale il capo della fazione pre­va­lente potrà con­trol­lare tutti gli snodi della deci­sione poli­tica. E si viene regre­dendo verso un’oligarchia neo­feu­dale in cui il lavoro è senza garan­zie, pre­ca­riz­zato nella radice del rap­porto con­trat­tuale, quindi ricat­ta­bile in ogni momento e desti­nato a salari sem­pre più bassi. Nem­meno manca, per i palati più esi­genti, il gra­zioso sar­ca­smo delle «tutele crescenti».

In tale sce­na­rio non incombe sui par­la­men­tari demo­cra­tici alcun vin­colo poli­tico o morale di lealtà verso il par­tito e il gruppo, né, tanto meno, verso l’esecutivo.

Non solo per­ché – anche gra­zie alla com­pro­vata obbe­dienza dei dis­si­denti – il Pd è diven­tato un par­tito per­so­nale, coman­dato col ricatto, il dileg­gio, l’insulto. Non solo per­ché ogni vin­colo viene meno quando sono tra­volti prin­cipi fon­da­men­tali della Carta e per­ché, chie­dendo la fidu­cia su una delega in bianco («inde­fi­nita e sfug­gente nei cri­teri», nota la Cgil), il governo ha vio­lato la Costi­tu­zione (e di ciò il pre­si­dente della Repub­blica dovrebbe tener conto, invece di lasciarsi andare a impro­pri apprez­za­menti del Jobs Act). Cia­scun par­la­men­tare del Pd ha il diritto e il dovere di deci­dere in piena auto­no­mia anche per­ché il governo pro­cede rove­sciando di sana pianta il pro­gramma in base al quale i par­la­men­tari demo­cra­tici sono stati eletti. Un tale governo non va pre­ser­vato. Va con­tra­stato e fatto cadere al più pre­sto, impe­gnan­dosi affin­ché il paese imboc­chi la strada della riscossa democratica.

Dire, com’è stato detto, che negare la fidu­cia sarebbe stato «irre­spon­sa­bile» per­ché la scelta sarebbe tra Renzi e la Troika è sol­tanto un modo per nascon­dere la realtà. Non solo que­sto governo si attiene in toto ai det­tami di Washing­ton, Bru­xel­les e Fran­co­forte (o qual­cuno si mera­vi­glia per la sod­di­sfa­zione di Dra­ghi e della Mer­kel?). Lo fa, per di più, impe­dendo alla gente di capire e di sot­trarsi alla morsa del nuovo regime che sof­foca il paese. Se una poli­tica di destra è fatta da un par­tito che si dichiara, almeno in parte, di sini­stra, che senso hanno ancora que­ste vetu­ste parole, e come si può pen­sare di poter cam­biare rotta?

Ma allora per­ché, ancora una volta, que­sto cedi­mento, che, come ognuno vede, demo­li­sce la cre­di­bi­lità della sini­stra demo­cra­tica? Per­ché que­sta obbe­dienza che rischia di ridurre il dis­senso interno a una farsa; che induce a par­lare di tra­di­mento del man­dato par­la­men­tare (que­sto ha detto in sostanza il sena­tore Tocci inter­ve­nendo in aula); che rende la mino­ranza com­plice del nuovo padrone del Pd, al quale non solo è offerta una pre­ziosa san­zione di onni­po­tenza (delle sue sprez­zanti rispo­ste alle timide richie­ste di modi­fica della delega resterà memo­ria), ma è anche con­cessa gra­tis l’opportunità di esi­bire, quando serve, una patente con­traf­fatta di sini­stra? Si può ter­gi­ver­sare e pre­di­care cau­tela, pur di sot­trarsi al giu­di­zio. Si può tacere, augu­ran­dosi di limi­tare il danno o di pro­pi­ziare svi­luppi posi­tivi. Ci si illude. Da sé le cose non cam­bie­ranno certo in meglio. Noi stiamo piut­to­sto con il segre­ta­rio gene­rale della Fiom che arri­schia un giu­di­zio duris­simo (votare la fidu­cia serve a «difen­dere le pol­trone») e ne trae le dovute con­clu­sioni («di un par­la­mento così non sap­piamo che farci»).

Non­di­meno, siamo tra i testardi che pen­sano che in poli­tica non si è mai all’ultima spiag­gia e che nes­sun fran­gente, per quanto grave, è irre­pa­ra­bile e defi­ni­tivo. Anche in que­sto caso, nono­stante tutto, sta­remo a vedere come andrà avanti que­sta sto­ria e come si con­clu­derà. Sen­tiamo che alcuni dis­si­denti saranno il piazza con la Cgil il 25 otto­bre. E che un espo­nente della mino­ranza del Pd, l’onorevole D’Attorre, annun­cia bat­ta­glia sul Jobs Act alla Camera, defi­nendo «inac­cet­ta­bile» che anche in quella sede il governo ponga la fidu­cia. Ne pren­diamo atto. Osser­vando che, se le parole hanno ancora un valore, que­ste equi­val­gono a pro­met­tere che, in tale non impro­ba­bile eve­nienza, la sini­stra del Pd arri­verà final­mente a quella rot­tura che non ha sin qui nem­meno ven­ti­lato. Vedremo.

Intanto resta che viviamo giorni cupi, gra­vidi di peri­coli, forieri di nuove vio­lenze e di più gravi ingiu­sti­zie. Giorni che get­tano nuove inquie­tanti ombre sul futuro di que­sta Repubblica.

«Deriva italiana. Il governo Renzi è la troika interiorizzata. Va sfidato sul suo terreno. L’Altra Europa con Tsipras ha messo le basi facendo il primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida.Ma è su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre». Il manifesto, 9 ottobre 2014

L’accelerazione impressa da Matteo Renzi nel suo “semestre europeo” lascia sul terreno cumuli di macerie (a cominciare da quelle del suo partito). E apre almeno tre grandi questioni, clamorosamente evidenti in questi giorni solo a volerle vedere: una questione istituzionale, annunciatasi fin dalla battaglia d’estate sul (e contro il) Senato. Una “nuova” questione sociale: nuova perché si poteva pensare che già col governo Monti si fosse arrivati a mordere sull’osso del mondo del lavoro, e invece ora si affondano i colpi ben sotto la cintura. Infine una grave questione democratica, resa drammatica dall’intrecciarsi delle prime due, e dal ruolo che la crisi gioca nel dettarne modi e tempi di sviluppo.

Renzi – nonostante le retoriche che ne accompagnano e potremmo dire ne costituiscono l’azione – non rappresenta una possibile soluzione della crisi economica e sociale italiana. Non ha né la forza (nei rapporti inter-europei) né le idee per aprire anche solo uno spiraglio. Ma condensa in sé – nella propria stessa persona, nel proprio linguaggio e nei propri comportamenti quotidiani, oltre che nelle misure che impone – il modo con cui la crisi lavora. E’, si potrebbe dire, il lavoro della crisi tradotto in politica: ne converte in pratica di governo tutto il potenziale destabilizzante. Ne accompagna e ne garantisce lo sfondamento dei residui livelli di resistenza e di ostacolo al libero dispiegarsi del potere del denaro da parte di ciò che resta dei corpi sociali e delle loro consolidate tutele. Ne conduce a compimento la liquidazione dei patti che avevano costituito il tessuto connettivo della “vecchia” società industriale, e delle culture che ne avevano accompagnato sviluppo e conflitto.

In questo senso Renzi non è l’alternativa all’intervento “d’ufficio” della Troika, un male minore rispetto a quello toccato alla “povera Grecia” che ha dovuto subire i tre Commissari-guardiani. Renzi è la Troika, interiorizzata. E’ la forma con cui l’Europa dell’Austerità e del Rigore governa il nostro Paese. Nell’unico modo possibile nelle condizioni date: con una formidabile pressione dall’esterno, e con un’altrettanto forte carica di populismo all’interno. Se li si leggono con un po’ d’attenzione si vedrà che i punti del suo programma, imposti con stile gladiatorio e passo di corsa a un mondo politico attonito, ricalcano fedelmente il famigerato Memorandum che ha prodotto la morte sociale della Grecia: privatizzazioni con la motivazione di far cassa, in realtà per metter sul mercato tutto ciò che può costituire un buon affare; abbattimento delle garanzie e del potere contrattuale del lavoro in nome dei “diritti dell’impresa”; ridimensionamento del pubblico impiego in termini di spesa e di occupazione; rimozione degli ostacoli alla rapidità decisionale da parte delle forme tradizionali della rappresentanza politica e sociale.

Se collocati in questo quadro si spiegano, allora, quelli che altrimenti sembrerebbero solo una sequela di strappi, forzature, ostentazioni di arroganza, maleducazione, guasconeria e improvvisazione (che pure non manca). E’ evidente infatti che un simile progetto non può essere messo in atto con mezzi “ordinari”. Richiede un’eccezionalità emergenziale, sia per quanto riguarda lo sfondamento dell’assetto costituzionale: e a questo è servito l’auto da fé in diretta di uno dei simboli della democrazia rappresentativa, la “camera alta”. Sia per quanto attiene al livello simbolico: ed è quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi con l’umiliazione ostentata del movimento sindacale e del mondo del lavoro. Perché se maramaldeggiare con i brandelli residui dell’articolo 18 e con ciò che resta dello Statuto dei lavoratori non porterà un solo posto di lavoro, come è chiaro pressoché a tutti, è pur vero che la celebrazione del sacrificio spettacolare, in piena piazza mediatica, secondo i vecchi riti dell’ordalia, continua ad avere un effetto simbolico straordinario. Tanto più se la vittima sacrificale – l’homo sacer direbbe Agamben -, è uno dei protagonisti centrali del nostro passato prossimo come, appunto, il lavoro nella forma politico-sociale del movimento dei lavoratori.

Imporne la degradazione pubblica. Liquidarlo in otto minuti d’introduzione e un’oretta di udienza. Abbattere anche le residue garanzie perché, come ho sentito dire autorevolmente, occorre liberare gli imprenditori dall’ ”arbitrio di un giudice” (sic!), significa nell’immaginario collettivo rovesciare il mondo. Riscrivere l’articolo uno della Costituzione affermando che “L’Italia è un’oligarchia plebiscitaria fondata sull’impresa” e, al secondo comma, che “la sovranità appartiene ai mercati, i quali l’esercitano in modi e forme discrezionali, senza limiti di legge”. Ha ragione Susanna Camusso nell’affermare che l’unica cosa che interessa al premier è presentarsi all’Europa degli affari con lo scalpo dei lavoratori in mano. Con un’aggiunta: che Renzi quello scalpo lo vuole usare anche nei confronti dei suoi, e di un elettorato frantumato, impoverito, rancoroso per le umiliazioni subìte spesso senza trovare adeguata difesa da parte dei propri rappresentanti politici e sindacali, da catturare con l’immagine forte di una vittoria sacrificale.

Per questo dico – e sono consapevole del peso delle parole – che siamo in presenza di una “emergenza democratica”. Non solo perché il “renzismo” ha già cambiato il DNA del suo partito d’origine, trasformandolo in un ectoplasma risucchiato in alto, tra le mura di Palazzo Chigi, e avviandosi verso quello che a ragione è stato definito il “partito unico del Premier”. Non solo perché, parallelamente, ha ridotto un Parlamento amputato a ufficio di segreteria del Governo, chiamato a firmarne le carte (come si è visto ieri), mentre col patto del Nazareno ha definitivamente omologato l’antropologia politica, rendendo pressoché indistinguibili quelle che un tempo erano state “due Italie” eticamente e culturalmente diverse e ampliando così, d’incanto, il serbatoio di voti a cui attingere. Ma soprattutto perché con Renzi si conclude una vera e propria mutazione genetica del nostro sistema politico e istituzionale, con la verticalizzazione brutale di tutti i processi, concentrati nella figura apicale del Premier; la riconduzione del potere Legislativo non solo “sotto”, ma “dentro” il potere Esecutivo, come sua appendice secondaria; la tendenziale liquidazione dei corpi intermedi – la “società di mezzo”, come la chiama De Rita, comprendente le variegate forme di aggregazione e di rappresentanza sociale -, che potrebbero fare da ostacolo al rapporto diretto del Capo col “suo” Popolo, fascinato (“sciamanizzato”) retoricamente secondo la classica immagine del Demagogo. Con la pessima tecnica di convertire la disperazione in speranza mediante espedienti verbali e l’evocazione del “miracolo”. Una forma di plebiscitarismo dell’illusione, che lascia tutti i problemi irrisolti, ma che premia enormemente in termini di potere personale.

Ora se questo è vero, o anche solo in parte condiviso, quello che s’impone, d’urgenza, è non solo un’opposizione convinta e intransigente sui singoli provvedimenti (che è condizione necessaria, anche se non sufficiente) ma, al di là di ciò, la costruzione di una proposta ampia – politica, sociale, culturale, morale – in grado di contrastare questo processo all’altezza della sfida che lancia. Un fronte articolato, imperniato sui diritti e sul lavoro, capace di radunare tutto ciò che ancora nello spazio rarefatto della politica “resiste” ma soprattutto in grado di mobilitare forze nuove, oggi disperse, con linguaggi, idee, forme organizzative innovative e aperte. Di fare e conquistare opinione e impegno.

Lo dico con molto rispetto per posizioni che so vicine a questo sentire, come quella espressa sul manifesto da Airaudo e Marcon: se ci limitassimo ad assemblare semplici pezzi di classe politica - ciò che resta della sinistra politica “che non si arrende”, i “refrattari” dell’arena parlamentare o delle sue immediate vicinanze -, se pensassimo che il “renzismo” si arresta mobilitando per linee interne la cosiddetta “minoranza” del Pd (alla cui patetica prova abbiamo assistito ieri) saldata a ciò che rimane del tradizionale e ormai cancellato “centro-sinistra” proponendone una nuova piccola casa, temo che non andremmo molti avanti. E anzi, forniremmo a Matteo Renzi un bersaglio perfetto contro cui sparare a palle incatenate, nominandosi campione del nuovo contro tutto ciò che sa di “residuo”.

Serve al contrario, a mio avviso, sfidarlo sul terreno alto dell’alternativa a tutto campo, italiana ma in un quadro a dimensione europea (perché è pur sempre lì che si gioca la partita che conta), dello stile politico e dell’egemonia culturale. Un processo inclusivo di tutti, senza esami del DNA, aperto, innovativo, in grado di riportare dentro quella ampia sinistra diffusa che sta fuori dalla sempre più ristretta sinistra politica. La “chimica” della lista L’altra Europa con Tsipras ha, in qualche modo, anticipato questo approccio (anche nel suo respiro europeo) e costituito un primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida: il suo milione e centomila elettori può esserne un nucleo iniziale, non l’intero corpo. Ma credo che sia su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre. Altre ne verranno.

Un'analisi acuta su un tema sul quale la discussione proseguirà anche su eddyburg. «E' facile capire per­ché oggi, soprat­tutto tra le nuove gene­ra­zioni, destra e sini­stra sono parole vuote, o se volete con­te­ni­tori usa e getta».

Il manifesto, 6 ottobre 2014, con postilla

L’editoriale di Norma Ran­geri (il mani­fe­sto del 5 otto­bre) merita una rifles­sione a par­tire dalle “parole” che defi­ni­scono il campo poli­tico: la destra e la sini­stra nel nuovo secolo. Ran­geri parte dalla con­sta­ta­zione di una sini­stra da troppi anni ter­ri­bil­mente divisa, liti­giosa, auto­di­strut­tiva, e auspica la nascita di una «sini­stra dei diritti». Soprat­tutto, mette il dito sul «furto di parole» che con­tano come «libertà» e «cam­bia­mento», rubate da Ber­lu­sconi, la prima, da Renzi la seconda. Ne aggiun­ge­rei un’altra rubata dal Pd di Renzi, com­plice l’ex-Cavaliere: la sinistra.

Ripar­ti­rei da qui: dal senso delle parole che nel campo della poli­tica, come lo defi­niva Bour­dieu, con­tano come pie­tre, almeno quanto in un cam­pio­nato di cal­cio con­tano i gol. Per que­sto vale lo sforzo di pro­vare a sto­ri­ciz­zare la meta­mor­fosi del lin­guag­gio e delle cate­go­rie poli­ti­che dell’ultimo trentennio.

C’era una volta una netta distin­zione tra i mili­tanti e gli elet­tori della destra e della sini­stra. I primi si pote­vano iden­ti­fi­care facil­mente con i con­ser­va­tori, i secondi con i pro­gres­si­sti. Essere con­ser­va­tori signi­fi­cava difen­dere lo sta­tus quo, l’ordine sociale e gerar­chico esi­stente, cre­dere in deter­mi­nati valori quali religione-patria-famiglia, e quindi bat­tersi per la con­ser­va­zione delle forme sociali, eco­no­mi­che e poli­ti­che ere­di­tate, a par­tire dalla sacra­lità della pro­prietà pri­vata. Essere pro­gres­si­sti signi­fi­cava volere il cam­bia­mento dell’ordine sociale, met­tere in discus­sione i pri­vi­legi, le forme alie­nanti della reli­gione, le super­sti­zioni e le forme arcai­che delle cul­ture locali, pro­muo­vere il pro­gresso e la moder­niz­za­zione della società, della cul­tura, delle istituzioni.

Una visione positivistica

Cambiamento-Progresso-Modernizzazione: que­ste sono state per più di un secolo le parole chiave delle forze poli­ti­che della Sini­stra. Costi­tui­vano i pila­stri di una visione posi­ti­vi­stica della sto­ria umana, che aveva iscritto nel suo codice gene­tico un lieto fine: la libe­ra­zione dello sfrut­ta­mento dell’uomo sull’uomo. L’umanità, gra­zie al pro­gresso tec­no­lo­gico, si sarebbe libe­rata dalla schia­vitù del lavoro legata al biso­gno, così come era avve­nuto per il lavoro dei servi e degli schiavi nelle società pre­mo­derne. Que­sto sce­na­rio, in cui si com­bi­na­vano e mar­cia­vano insieme le con­qui­ste di nuovi diritti per i lavo­ra­tori e per le fasce più deboli della società (wel­fare State), la cre­scita eco­no­mica ed il pro­gresso tec­no­lo­gico si è spez­zato, prima sul piano cul­tu­rale e poi poli­tico, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Si è veri­fi­cata una “cata­strofe”, nell’accezione di René Thom, vale a dire una bifor­ca­zione tra forze che si intrec­cia­vano lungo una linea ascen­dente e che adesso pro­ce­dono per linee divergenti.

Un primo ele­mento forte di rot­tura, all’interno della sini­stra euro­pea, è nato con la que­stione delle cen­trali nucleari: per la sini­stra “sto­rica” rap­pre­sen­ta­vano una rispo­sta pro­gres­si­sta al fab­bi­so­gno di ener­gia per lo svi­luppo eco­no­mico; per la sini­stra “alter­na­tiva” – movi­menti paci­fi­sti, ambien­ta­li­sti, ecc. – le cen­trali nucleari erano solo il biso­gno dro­gato di un modello di svi­luppo ener­gi­voro e peri­co­loso che andava radi­cal­mente cam­biato. Quasi con­tem­po­ra­nea­mente nasceva, nell’area della sini­stra “alter­na­tiva”, una oppo­si­zione all’espansione dell’agricoltura indu­striale (fino alla con­te­sta­zione dei primi espe­ri­menti di Ogm), agli iper­mer­cati e alla cemen­ti­fi­ca­zione indi­scri­mi­nata, per finire con la con­te­sta­zione di alcune Grandi Opere che si anda­vano pro­get­tando. Nasceva un’idea di “locale” come oppo­si­zione ai pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione capi­ta­li­stica, di tra­di­zioni e iden­tità da recu­pe­rare (una volta appan­nag­gio della destra sto­rica), di una alter­na­tiva alla stessa cate­go­ria dello “svi­luppo”, come fine dell’agire sociale. In breve: l’equazione progresso/tecnologia/modernizzazione/progresso dell’umanità, era saltata.

Nel corso degli anni ’90 e del primo decen­nio del nuovo secolo que­sta spac­ca­tura all’interno della sini­stra poli­tica è diven­tata sem­pre più pro­fonda, men­tre sul campo avverso nasceva una nuova destra neo­li­be­ri­sta che si appro­priava delle parole “cam­bia­mento”, “pro­gresso”, e per­sino “rivo­lu­zione” (nei con­fronti dello Stato buro­cra­tico e dei lacci e lac­ciuoli pro­dotti dai diritti dei lavo­ra­tori). Scioc­cata dalla ver­go­gnosa e rovi­nosa caduta dei paesi “socia­li­sti”, la sini­stra sto­rica ten­tava di inse­guire i pro­cessi di moder­niz­za­zione capi­ta­li­stica diven­tando più rea­li­sta del re. Le leggi di mer­cato e la cre­scita eco­no­mica, senza se e senza ma, erano diven­tate le nuove stelle polari, il ter­reno su cui sfi­dare la nuova destra.

Que­sti veloci cam­bia­menti nel lin­guag­gio come nelle cate­go­rie poli­ti­che, qui sin­te­ti­ca­mente rias­sunti, hanno por­tato alla for­ma­zione di un Pen­siero Unico da cui è dif­fi­cile uscirne. Allo stesso tempo, il modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico si è pro­fon­da­mente tra­sfor­mato, sia attra­verso una tor­sione finan­zia­ria (il Finan­z­ca­pi­ta­li­smo, secondo la felice defi­ni­zione di Luciano Gal­lino), sia attra­verso l’adozione di tec­no­lo­gie sem­pre più inva­sive e distrut­tive rispetto all’ecosistema.

Se tutto que­sto è vero, allora è facile capire per­ché oggi, soprat­tutto tra le nuove gene­ra­zioni, destra e sini­stra sono parole vuote, o se volete con­te­ni­tori usa e getta. Par­lare di “nuovo sog­getto poli­tico della sini­stra” è un’espressione che parla solo agli addetti ai lavori o alla gene­ra­zione che ha vis­suto le lotte degli anni ’60 e ’70. Intanto, que­sta osses­sione del “nuovo”, come valore in sé, fa parte della stessa ideo­lo­gia del sistema in cui viviamo e in cui ogni giorno la pub­bli­cità ci mostra un nuovo pro­dotto. Così come “cam­bia­mento”, la parola più usata da Renzi (e una volta dalle forze della sini­stra) è una parola priva di senso. Il mondo cam­bia comun­que per­ché la vita è dive­nire di per sé. Biso­gne­rebbe eli­mi­narla dal voca­bo­la­rio poli­tico o spe­ci­fi­care quale cam­bia­mento si vuole produrre.

Ridotti a individui

Piut­to­sto ci sarebbe da doman­darsi come è pos­si­bile che un sistema economico-politico fal­li­men­tare, che crea povertà cre­scenti nell’era dell’abbondanza delle merci e delle tec­no­lo­gie, che crea insi­cu­rezza eco­no­mica e sociale nella mag­gio­ranza della popo­la­zione, non venga rove­sciato. Come pos­siamo ricreare un legame sociale e cul­tu­rale tra milioni di per­sone, ridotte a indi­vi­dui, che lot­tano o resi­stono solo rispetto a una spe­ci­fica situa­zione (con­di­zioni di pre­ca­rietà, licen­zia­menti, ecc.), ma sono inca­paci di met­tersi insieme, di essere soli­dali con chi vive nelle stesse condizioni.

Un esem­pio tra i tanti: la chiu­sura della Fiat di Ter­mini Ime­rese, con cin­que­mila fami­glie sul lastrico, non ha susci­tato la soli­da­rietà della società sici­liana, a par­tire dai circa otto­mila pre­cari (Lsu, Lpu) che ogni tanto scen­dono in piazza per i fatti loro. Le parole della That­cher , alla fine del secolo scorso, suo­nano come una fune­sta pro­fe­zia: «La società non esi­ste, esi­stono solo gli individui».

Gram­sci scri­veva dal car­cere che il Mez­zo­giorno appare come una «grande disgre­ga­zione sociale», oggi è tutta l’Italia a tro­varsi in que­sta con­di­zione. Per que­sto penso che non esi­sta una via di uscita solo pen­sando al “sog­getto poli­tico”, che poi dovrà con­fron­tarsi con un mer­cato elet­to­rale dove impera ormai un duo­po­lio, in Ita­lia come negli Usa, dove il con­trollo dei mass media è deter­mi­nante. Abbiamo invece urgente biso­gno di una grande tes­si­tura sociale e cul­tu­rale e di parole in grado di costruire la visione del futuro desi­de­ra­bile e cre­di­bile. A que­sto impe­gno siamo chia­mati in tanti, anche chi si è allon­ta­nato dalla politica.

postilla
Proprio sabato prossimo, l'11 ottobre, se ne discuterà a Firenze, alla Libera univerità Ipazia, al Giardino dei ciliegi, via dell'Agnolo 8. Qui il link alla locandina

© 2024 Eddyburg