Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2014
La domanda obbligata a Maurizio Landini, dopo la vittoria di Syriza in Grecia, la poniamo in forma rovesciata.
Quindi?
«Occorre andare oltre la sinistra classica perché la storica distinzione “destra-sinistra” rischia di non parlare più alle condizioni vere delle persone, ai loro bisogni materiali. Penso che occorra andare a una sinistra sociale».
Che cosa significa?
«Innanzitutto riunificare situazioni sempre più frammentate e che non si parlano. Unire, sul piano sindacale, le varie forme del lavoro anche quelle che non sono rappresentate dal sindacato che, infatti, deve rinnovarsi profondamente. E sul piano politico offrire un luogo comune a tutti coloro che oggi sono privi di rappresentanza: il lavoro, la lotta per i beni comuni, contro le mafie, contro la miseria, per la democrazia. Ce ne sono tante ma non hanno un luogo comune».
È il concetto di “coalizione sociale” di cui parla Stefano Rodotà?
Sì, anche se non so se “coalizione” sia il termine giusto. Ma la direzione è quella.
Si tratta di un progetto che si pone anche il problema elettorale?
Oggi io penso a una messa in rete in cui ognuno mantiene il proprio ruolo ma tutti insieme si costruisce un progetto comune. È chiaro che se una iniziativa si mette in piedi, una risposta a quella domanda occorrerà darla.
Di coalizioni e alleanze si parla da sempre, non si è mai prodotto nulla.
Ma oggi siamo di fronte a una novità enorme. Io per la prima volta faccio il sindacalista senza lo Statuto dei lavoratori. Il vuoto politico a sinistra è evidente, la volontà di Renzi di non fermarsi e di andare avanti con le sue politiche è chiara. Non è più tempo di testimonianza. Se si gioca si gioca per vincere.
Siamo di nuovo, come a fine ‘800, al sindacato che fa nascere nuovi partiti?
Il sindacato non deve trasformarsi in un soggetto politico ma se uno, cioè Renzi, pensa di cancellare il sindacato e le soggettività sociali, si sbaglia. Deve attendersi una reazione.
Pensa che Renzi e il Pd non siano più recuperabili?
Nel loro dibattito non interferisco. Ma le politiche di Renzi non hanno più nulla di sinistra: Jobs Act, precarietà, libertà di licenziare, depenalizzazione della frode fiscale. Come si fa a dire che è sinistra? Si sta introducendo il concetto pur di lavorare si accetta qualsiasi condizione.
Messa così, sembra peggio di Berlusconi.
Sì, non c’è dubbio. Siamo al tentativo di ridisegnare le relazioni sociali.
Renzi è l’avversario da sconfiggere?
Assolutamente sì. L’alleanza a cui penso deve ambire a progettare un altro modo di governare, di produrre e di organizzare la partecipazione democratica. A partire dall’Europa.
E del coordinamento delle sinistre che propone Vendola?
Le iniziative alla sinistra del Pd sono tutte legittime e le rispetto. Ma quello che propongo è altro.
Cofferati dice di volere un “partito radicato”
Sollecitazione utile. Grillo esalta “la rete” mentre il sindacato organizza le persone in carne e ossa. Mettere insieme le due cose sarebbe già una novità. Ho letto che Sergio vuole fare un’associazione. Spero possa partecipare a questo progetto. I partiti, però, hanno perso credibilità.
Quali passaggi sono previsti?
Noi faremo una grande consultazione nella Fiom e poi la proporremo a tutti. Una grande consultazione democratica nazionale su un progetto e un programma.
Che pensa del Quirinale?
Che la precarietà è dannosa anche per il Quirinale. Se due anni fa avessero eletto Stefano Rodotà, com’era possibile, non saremmo in queste condizioni.
«E’ un antidoto per contrastare la crisi economica che, dati alla mano, ha aumentato la diseguaglianza sociale e diffuso la povertà. Una parola tutt’altro che logorata e storicamente legata al nobile concetto di fraternità e allo sviluppo in Europa dei “30 anni gloriosi” e del Welfare State. Poi il termine è stato accantonato e abbandonato. La solidarietà serve a individuare i fondamenti di un ordine giuridico: incarna, insieme ad altri principi del “costituzionalismo arricchito”, un’opportunità per porre le questioni sociali come temi non più ineludibili. La crisi del Welfare non può sancire la fine del bisogno di diritti sociali. Sono legato anche al sottotitolo del libro, “un’utopia necessaria”, la solidarietà va proiettata nel presente ed utilizzata come strumento di lavoro per il futuro: l’utopia necessaria è la visione».
Lei ha parlato di “costituzionalismo arricchito”. Quali sono le pratiche da cui ripartire per riaffermare i diritti sociali in tempo di crisi economica, privatizzazioni e smantellamento dello Stato Sociale?
«Mutualismo, beni comuni, reddito di cittadinanza sono gli elementi innovativi e costitutivi di un nuovo Stato Sociale, almeno rispetto a quello che abbiamo conosciuto e costruito nel Novecento. Durante la Guerra Fredda, i sistemi di Welfare sono stati una vetrina dell’Occidente di fronte al mondo comunista, una funzione benefica volta ad umanizzare il capitalismo in risposta al blocco sovietico. Ragionare sulla solidarietà come principio significa riconoscerne la storicità ed oggi è necessario arricchire le prospettive del Welfare. Ad esempio il reddito, inteso in tutte le sue fasi legate alle condizioni materiali, significa investimenti ed è possibile solo grazie ad un patto generazionale e ad una logica solidaristica dell’impiego delle risorse».
«Il discorso esamina la capacità ricostruttiva della solidarietà che è frutto di una logica di de-mercificazione di ciò che conduce al di là della natura di mercato: ristabilire la supremazia della politica sull’economia. Qual è stata la logica in questi anni? Avendo un tesoretto ridotto, sacrifichiamo i diritti sociali. Tale ragionamento va respinto al mittente. Quali sono i criteri per allocare tali fondi? Come li distribuiamo? Finanziamo la guerra e gli F35 o utilizziamo quei soldi contro lo smantellamento dello Stato Sociale? La scuola pubblica, come dice la nostra Carta, non va resa funzionale al diritto costituzionale all’istruzione? Invece si finanziano le scuole private…»
E i famosi 80 euro del governo Renzi possono essere considerati come forma solidaristica e di Welfare?
«No, manca l’intervento strutturale. La Cgil ha reso pubblici alcuni dati: con quei soldi si sarebbero potuti creare 400mila posti di lavoro. Appena si è parlato del bonus per le neomamme, ho pensato fosse più utile stanziare quelle risorse per la costruzione degli asili nido. Solo un vero discorso sulla solidarietà ci consente di stilare una gerarchia che pone al primo posto i diritti fondamentali. E per questo la modifica dell’articolo 81 della Costituzione, nel quale è stato introdotto il pareggio di bilancio, è un duro colpo per la democrazia. Abbiamo posto fuori legge Keynes».
«Dobbiamo guardare all’Europa, il discorso sulla solidarietà ha un senso esclusivamente se usciamo dalla logica nazionalista, altrimenti si impiglia. Solidarietà implica un’Europa solidale tra Stati con una politica comune e coi diritti sociali come fari. Con Jürgen Habermas dico che è un principio che può attenuare l’odio tra i Paesi debitori e quelli creditori. Persino Lucrezia Reichlin ha parlato di Syriza con benevolenza perché sta avendo il merito di riaprire una riflessione in Europa su alcuni temi non più rimandabili. L’austerity ha fallito ed aumentato le diseguaglianze. Fino a qualche mese fa, i difensori del rigore giustificavano l’enorme forbice tra redditi alti e minimi affermando di aver tolto migliaia di persone dalla soglia di povertà. La diseguaglianza come conseguenza del contrasto allo sfruttamento. Una tesi smentita dagli stessi eventi».
«E’ una vecchissima discussione che si svolse già a Parigi nel 1789. E la Costituzione italiana ha legato diritti e doveri: l’art. 2 si apre col riconoscimento dei diritti delle persone ma poi afferma che tutti devono adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il tema dei doveri viene sbandierato per chiedere sacrifici alle fasce più deboli mentre rimangono al riparo i soggetti privati forti e le istituzioni pubbliche. Vogliamo discutere dei doveri? Facciamolo senza ipocrisie. Ad esempio, si dovrebbe riaffermare l’obbligo di non esercitare l’iniziativa economica e la libera impresa in contrasto con sicurezza e dignità dei lavoratori. Tale strategia ha fallito e politicamente ha generato un’enorme crisi della rappresentanza: il rifiuto della Casta non sarebbe così forte se non ci fosse stato un ceto politico dipendente dal denaro pubblico».
«Il voto di domenica ha un’importanza enorme soprattutto dopo il deludente semestre italiano a guida Matteo Renzi. Il suo arrivo a Bruxelles aveva generato aspettative per le sue promesse di mettere in discussione gli assetti costituzionali europei. Nulla di tutto ciò, nessun negoziato, eppure non era così costoso intraprendere il discorso dell’“utopia necessaria” della riforma dei trattati. Tsipras può rappresentare la riapertura della fase costituente europea. È la mia speranza. Riapertura perché nel 1999 il Consiglio europeo di Colonia stabilisce la centralità della Carta dei diritti ma poi il processo si è chiuso nel ciclo dell’economia. Una vera e propria controriforma costituzionale. L’Unione europea oltre ad avere un deficit di democrazia ha un deficit di legittimità. Il deficit può essere recuperato attraverso i diritti fondamentali, ispirati alla dignità e alla solidarietà, e non al mercato. Altrimenti i rischi sono gravi, e non si parla di uscita dall’euro ma di deflagrazione dell’eurozona e di sviluppo di movimenti xenofobi ed antieuropei come quelli di Marine Le Pen e Matteo Salvin»i.
«In Italia siamo indietro e rischiamo di rifare alcuni errori. Mentre capisco la scelta del “papa straniero” Tsipras, non condivido l’idea di una “Syriza italiana”. È una forzatura. In Grecia Syriza ha raggiunto l’attuale consenso perché durante la crisi economica ha svolto un lavoro effettivo nel sociale dove ha garantito ai cittadini diritti e servizi grazie a pratiche di mutualismo: penso alle mense e alle cliniche popolari, alle farmacie e alle cooperative di disoccupati. In Italia la situazione è differente».
«In questi anni c’è stata una drammatica deriva oligarchica e proprietaria dei partiti e la capacità rappresentativa è venuta meno anche per la consapevolezza che il potere decisionale fosse esterno alle sedi legittime e in mano a poche persone. La Corte Costituzionale ha emesso due importanti sentenze: una contro il Porcellum, decretando illegittima la legge elettorale in vigore, l’altra contro i soprusi del marchionnismo, stabilendo che non potesse essere esclusa la Fiom dagli stabilimenti. Lego queste due fondamentali sentenze perché entrambe pongono il problema della rappresentanza. E lo pongono nell’impresa e nella società cioè nel lavoro e nella politica, nei diritti sociali e in quelli civili. E’ un punto importante sul quale non abbiamo riflettuto abbastanza ed è la via per far recuperare legittimità alle istituzioni e alla politica».
«La sinistra italiana ha alle spalle due fallimenti: la lista Arcobaleno e Rivoluzione Civile di Ingroia. Due esperienze inopportune nate per mettere insieme i cespugli esistenti ed offrire una scialuppa a frammenti e a gruppi perdenti della sinistra. Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società. Nulla di nuovo può nascere portandosi dietro queste zavorre. Rifondazione è un residuo di una storia, Sel ha avuto mille vicissitudini, la Lista Tsipras mi pare si sia dilaniata subito dopo il voto alle Europee. Ripeto: cercare di creare una nuova soggettività assemblando quel che c’è nel mondo propriamente politico secondo me è una via perdente. Bisogna partire da quel che definisco “coalizione sociale”. Mettere insieme le forze maggiormente vivaci ed attive: Fiom, Libera, Emergency – che ha creato ambulatori dal basso – movimenti per i beni comuni, reti civiche e associazionismo diffuso. Da qui, per ridisegnare il nodo della rappresentanza».
«Ci vuole pazienza e occorre ricostituire nel Paese un pensiero di sinistra. A livello istituzionale abbiamo assistito alla chiusura dei canali comunicativi tra politica e mondo della cultura, ciò si è palesato durante la riforma costituzionale. Come negli anni '60-'70, per il cambiamento istituzionale, deve tornare la rielaborazione culturale. Il lavoro che ha svolto MicroMega in questi anni è prezioso e va continuato in tal senso. Insieme a Il Fatto sono le due testate che hanno tenuto dritta la barra. Ora vanno moltiplicate le iniziative, vanno connessi i soggetti sociali (anche attraverso la Rete) e va recuperato quel che c’è di produzione culturale operativa. Infine, tassello fondamentale: organizzazione. Tali processi non possono essere affidati semplicemente alla buona volontà delle persone».
«Non so se i 5 stelle siano definitivamente perduti, di certo stanno perdendo molteplici chance. Il movimento ha deluso le aspettative: non ha ampliato spazi di democrazia, non ha inciso in Parlamento e in qualche modo ha accettato le logiche interne. Serpeggia una profonda delusione tra gli stessi elettori grillini. Mentre la vera novità è lo sviluppo di un'opposizione sociale al renzismo, l’embrione della coalizione sociale di cui parlavo prima».
»Renzi ha vinto senza combattere, non c’era nessuno sulla sua strada. Nessuno in grado di contrastarlo, nemmeno Giorgio Napolitano che secondo le mie valutazioni politiche aveva investito sul governo Letta. Ora si sta muovendo qualcosa: Susanna Camusso e Maurizio Landini si sono ritrovati per uno sciopero unitario. Persino la Uil è stata costretta a schierarsi. Si è rivitalizzato il sindacato. Il governo Renzi ha cancellato tutti i corpi intermedi e la Camusso, rendendosi conto dell’attacco subito, deve riconquistare il suo ruolo. Individuare soggetti sia rappresentativi che di opposizione sociale è un dato istituzionalmente interessante. Oltre ad essere un dato politico rilevante. Si è manifestata un’opposizione sociale».
«Sono confronti impensabili, il tessuto del nostro Paese è stato logorato da mille fattori nell’ultimo decennio. Anche dalla crisi economica. Con l’impoverimento drammatico le frizioni e le condizioni di convivenza obbligata diventato più difficili. Una situazione conflittuale che va oltre alla “guerra tra poveri”. Le condizioni materiali della solidarietà sembrano distrutte».
«Prima mettiamo in relazione i soggetti sociali, in primis il sindacato, con le reti civiche e strutturiamo un minimo di organizzazione, rilanciando l’attivismo dei cittadini. Da tempo propongo alcune riforme e modifiche dei regolamenti parlamentari per dare maggiore potere alle leggi di iniziativa popolare. Ad inizio legislatura, in concerto con il gruppo del Teatro Valle, abbiamo inviato ai parlamentari una serie di proposte su fine vita e reddito minimo garantito… non sono nemmeno arrivate in Aula. In questo momento nella democrazia di prossimità, quella dei Comuni, si diffondono pratiche virtuose, penso ai registri per le coppie di fatto, per il testamento biologico, ai riconoscimenti nei limiti possibili di diritti fondamentali delle persone. A Bologna si è proposto di cogestire alcuni beni e il nuovo statuto di Parma è pieno di esperienze simili. C’è una democrazia di prossimità che va presa in considerazione. Così come il ruolo della magistratura».
«I partiti di massa erano i referenti delle domande sociali, le selezionavano e le portavano in Parlamento. Io c’ero, me lo ricordo. Questo non esiste più. Regna un modo autoritario di individuare le domande sociali e il vuoto politico è stato colmato dalla magistratura. La Consulta è intervenuta in questi anni su diritti civili, dal caso Englaro alla Fini Giovanardi sulle droghe o alla legge più ideologica, quella sulla fecondazione assistita. Poi le già citate sentenze su legge elettorale e conflitto Fiom-Fiat. Qui non c’è giustizialismo, ma il ruolo di una magistratura – attaccata e in trincea per difendersi dagli attacchi di Berlusconi e salvaguardare autonomia e indipendenza – che ha maturato una propria elaborazione culturale per fronteggiare emergenza politica e garantire la legalità costituzionale. L’aver individuato nella figura di Raffaele Cantone un soggetto politico ha un’importanza storica visto che in Italia la corruzione è ormai strutturale».
«Bah, spesso si cita il nome di Landini ma mi astengo dal rispondere. Non è prioritaria la questione. È palese che oggi la coalizione sociale ha una sua maggiore evidenza perché la presenza del sindacato è il dato nuovo e accresce le responsabilità di Landini e della Fiom. L’importante è uscire dagli schemi classici e visti finora: non dobbiamo pensare al recupero dei perdenti dell’ultima fase o ai pezzetti ancora incerti (minoranza del Pd). Così non possiamo basare l’iniziativa sul M5S. Sarebbe un errore. I 5 stelle hanno una loro storia, vediamo che faranno in futuro e semmai una coalizione sociale riuscisse a rafforzarsi, capire come reagiranno. Questo è il punto».
Più la spingono sotto il tappeto, più la questione immorale si mostra nella sua sconveniente veste di protagonista della scena politica. Proprio ieri, di fronte a un’aula parlamentare pateticamente vuota, il ministro della giustizia, denunciava «la dimensione intollerabile della corruzione in Italia». Intollerabile specialmente quando mette radici nel partito di cui il ministro fa parte, ma così purtroppo non è. Lo dimostrano alcune recenti vicende, due su tutte: il tentativo, solo rinviato, di salvare l’evasore Berlusconi con la legge sulla delega fiscale, e, di queste ore, i brogli elettorali (con il sospetto di una compra-vendita di voti) nelle elezioni primarie in Liguria.
Due facce della stessa medaglia, visto che il famigerato “patto del Nazareno” è fondativo di questa nuova stagione politica. In piena coerenza con quel conflitto di interessi che il Pd non ha mai risolto nel corso degli ultimi vent’anni. Per questo le dimissioni di Sergio Cofferati sono un fatto politico di prima grandezza, rilevante e rivelatore nello stesso tempo. Perché rilevante è evidente: l’ex segretario della Cgil è stato il simbolo dell’antiberlusconismo di sinistra, capace di organizzare la più grande manifestazione del dopoguerra in difesa dell’articolo 18, a fianco del mondo del lavoro e in rappresentanza di quelle radici che oggi la leadership del Pd ha deciso di recidere, nettamente e orgogliosamente, in profonda sintonia con l’ideologia antisindacale del centrodestra.
Insieme a Camusso e Landini, Cofferati è una bandiera contro il jobs act e la definitiva metamorfosi neoliberista del partito renziano (non “di Renzi”, perché non gli appartiene). Ma il “caso Cofferati” è forse ancor di più rivelatore, cioè specchio limpido, della fisionomia etica del nuovo gruppo dirigente del Nazareno. Lui è il primo politico che in modo clamoroso e drammatico se ne va dal partito — del quale è stato uno dei 45 fondatori — denunciando la presenza di una questione morale: «Me ne vado perché sono stati cancellati i valori stessi su cui è nato il Pd».
Altro che delusione per la sconfitta subita alle primarie (peraltro da dimostrare): è un durissimo attacco al voto di scambio («comprano il voto»), è un j’accuse per la palese offerta e l’altrettanto dichiarata accettazione dei voti portati alla candidata vincente, la renziana Raffaella Paita, da parte dei capicorrente del centrodestra ligure e di personaggi fascistoidi, è la penosa presa d’atto dell’acquisto dei voti dei poveri immigrati.
Così si svende una storia, si svende un partito.
Eppure è ancor più penosa la reazione dei vertici renziani del Pd, a cominciare dai due vicesegretari del partito. Invano Cofferati li aveva, già da alcune settimane, avvertiti di quanto stava accadendo senza ricevere neppure lo straccio di una risposta. Ora, dopo le dimissioni, i due colonnelli, Serracchiani e Guerini, sono diventati particolarmente prodighi di dichiarazioni contro l’ingrato Cofferati, accusato di «inspiegabili» e «ingiustificate» dimissioni. Nemmeno un pizzico di senso del pudore. Avanzano camminando sulle macerie del partito - forse perché convinti delle magnifiche e progressive sorti elettorali in caso di voto anticipato.
E Renzi?
L’immagine più nitida dello specchio che l’addio del dirigente politico riflette è quella del segretario. All’ultima direzione del partito Renzi ha chiuso il “caso” in modo brutalmente provocatorio, facendo i complimenti alla vincitrice per la vittoria e rovesciando sul perdente la definitiva sentenza: «Basta, vogliamo vincere, la discussione è chiusa». Una dimostrazione di arroganza, come è ormai consuetudine di questa nuova leadership, ma particolarmente sottolineata e insistita, perché sia d’esempio a chi in futuro volesse portare all’attenzione del partito fastidiosi problemi etici.
Discutere su come si raccolgono i consensi, su come si finanzia un partito, su quale blocco sociale di riferimento si sceglie sono questioni politiche fondamentali, anche se il personalismo, il leaderismo hanno inquinato il comune sentire della gente di sinistra. Tuttavia è importante discuterne oggi come è stato cruciale per l’allora Pci quando a porre la questione nei termini generali che conosciamo fu Enrico Berlinguer. E vale qui la pena solo accennare alla freddezza, e persino alla derisione, con cui la corrente migliorista di allora, guidata dall’ex capo dello stato, Giorgio Napolitano, accolse la durissima critica berlingueriana alla degenerazione del sistema dei partiti, Pci incluso.
Eravamo negli anni’80 e non a caso la vicenda operaia della Fiat, la battaglia sulla scala mobile e l’esplodere della questione morale tenevano insieme i ragionamenti di Berlinguer verso quell’alternativa di sinistra che, nel momento del craxismo trionfante, la prematura fine non gli consentì di mettere in atto. La questione immorale come “questione democratica” torna, nel Pd di Renzi, a essere derubricata come l’espressione del “tafazzismo” delle minoranze che non si rassegnano a spingere il carro del vincitore. Che, tuttavia, non sembra più tanto trionfante se si dà retta ai sondaggi che, settimana dopo settimana, sgonfiano la bolla elettorale delle ultime elezioni europee di maggio.
In ogni caso se le dimissioni di Cofferati sono rilevanti e rivelatrici del mutamento profondo e irreversibile della natura sociale del Pd, la domanda è: fino a quando le opposizioni interne si acconceranno al ruolo di innocue cassandre, di fiore all’occhiello del segretario?
E, a seguire, adesso può nascere in Italia una forza politica a sinistra che raccolga un consenso significativo, come quello di Syriza?
leader ma con tanti aspiranti al ruolo». Il manifesto, 18 gennaio 2015
Negli ampi spazi del Nuovo cinema Nosadella, esaurito in ogni ordine di posti per l’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras, può succedere anche di trovare nel retrobottega il poster di un film uscito la scorsa estate. Dimenticabile (a partire dalla coppia di protagonisti Barrymore/Sandler) ma con un titolo piuttosto aderente agli sviluppi della giornata: «Insieme per forza». Anche per amore. «Per tutti noi - ricorda fra gli applausi Panos Lamprou di Syriza - il movimento contro la globalizzazione è stato un insegnamento. E siamo convinti che la sinistra italiana possa sorprendere ancora il mondo».
Sarà un’impresa, nell’Italia del patto del Nazareno. Però ci sono fatti grandi e piccoli che contribuiscono a tenere accesa la fiamma della speranza. Non solo le elezioni greche e i sondaggi spagnoli. C’è ad esempio la presenza qui a Bologna del senatore ex pentastellato Francesco Campanella. E c’è l’addio di Sergio Cofferati al Pd. Il segretario confederale del Circo Massimo, dei tre milioni in piazza con le bandiere della Cgil per difendere l’articolo 18, agli occhi dell’assemblea certifica con la sua decisione la rottura finale fra il mondo del lavoro e il suo partito di riferimento. «C’è grande emozione in sala - sintetizza il bolognese Sergio Caserta - certo l’avesse fatto dieci anni fa…». E Nanni Alleva, neo consigliere regionale dell’Altra Emilia Romagna, amplifica il concetto: «E’ l’ultima dimostrazione del fatto che il Pd è un posto infrequentabile. Anche un politico navigato come Cofferati alla fine si è trovato di fronte a una situazione impossibile. Ora l’importante è che molti italiani che si sono ’messi in sciopero’, non votando, capiscano che c’è un’alternativa: la sinistra. Unita».
«Cofferati – osserva sul punto Curzio Maltese – è l’unico che ha tratto le conseguenze del fatto che nel Pd esiste una questione morale e, subito dopo, una questione politica. Berlinguer avrebbe detto che ’esiste una questione morale nel partito democratico’: basti pensare alla Liguria, all’Expò, alla Tav, allo scandalo del 3%». Quanto alla questione politica, è l’intervento introduttivo della giornata di Marco Revelli a segnalarla puntualmente: «In Italia si è riaperto il conflitto sociale: nel milione di piazza San Giovanni, nello sciopero generale, nello sciopero sociale. E in questi mesi si è anche consumata una frattura storica, fra il mondo del lavoro e il partito che storicamente ne raccoglieva le istanze. Un partito che oggi invece partecipa alla manomissione della Costituzione democratica, e all’attacco al lavoro».
Revelli riassume anche il compito dell’Altra Europa: «Costruire una casa comune, accogliente, della sinistra. E un nuovo linguaggio. Perché da decenni la sinistra ha smarrito il suo, anzi ha assunto quello del neoliberismo». Il sociologo torinese è fra i primi firmatari del manifesto «Siamo a un bivio» presentato ai 700 partecipanti all’assemblea, fra i quali si notano Franco Turigliatto e Antonio Ingroia. A firmare anche Paolo Cento: «L’abbiamo sottoscritto dopo una discussione nel partito — spiega il presidente dell’assemblea di Sel - perché vanno valorizzati gli sforzi di lavorare in un processo politico, aperto e innovativo, ’della sinistra e dei democratici italiani’. Tanti che sono qui oggi saranno anche a Human Factor. E noi pensiamo di poter dare il nostro contributo, ritenendoci importanti ma non certo esclusivi, per allargare lo sguardo e gli spazi a sinistra».
Molti ma non tutti firmano il «manifesto Revelli», che pone la scadenza di una nuova assemblea a marzo per avviare il futuro percorso della forza politica, con chi aderirà, sul duplice binario locale e nazionale. Non firma Barbara Spinelli che dà voce a un gruppo di comitati locali, critici verso quelle che giudicano lentezze eccessive nel processo costituente di un nuovo partito. I giovani under 35 di Act battono invece il tasto del completo rinnovamento del comitato operativo dell’Altra Europa. Sul punto la discussione va avanti per l’intera giornata, e proseguirà anche oggi.
Il manifesto, 14 gennaio 2015
Teodoro Andreadis Synghellakis, greco ma quasi dalla nascita residente in Italia dove i suoi genitori si erano rifugiati durante la dittatura, ha scritto un libro – Alexis Tsipras. La mia sinistra – che contiene una assai interessante intervista con il leader di Siryza che qui si sofferma soprattutto sulla natura del nuovo partito che la sinistra greca ha saputo darsi.
La prefazione al volume - che sarà nelle librerie da giovedì 15 - è di Stefano Rodotà e contiene anche i giudizi di un certo numero di protagonisti della politica italiana. Ve ne diamo, in anteprima, alcuni stralci.
Il rafforzamento della sinistra è ancora un processo in divenire?
Dovremo sempre tenere a mente che abbiamo l’obbligo di suscitare tra i nostri sostenitori una presa di coscienza sempre più democratica, radicale, progressista. Non possiamo permetterci il lusso di ignorare il fatto che gran parte della società greca, e anche una percentuale di nostri sostenitori, abbiano assorbito idee conservatrici; che c’è stato un tipo di progresso il quale aveva come punto di riferimento la conservazione.
Dobbiamo, inoltre, separare il significato che ha un governo della Sinistra, da un rischio di abuso di potere da parte della Sinistra. Il potere è una cosa più complessa, che non viene esercitata solo da chi governa. È qualcosa che ha a che fare anche con le strutture sociali, con chi controlla i mezzi di produzione. Noi rivendicheremo il governo del paese, così da poter dare avvio – da una posizione di forza – a quella grande battaglia ideologica e anche sociale che porterà a cambiamenti e trasformazioni i quali daranno il potere alla maggioranza dei cittadini, sottraendolo alla minoranza.
Ma la gente deve comprendere bene che il fatto che Syriza andrà al governo non significa automaticamente che il potere passerà al popolo. Significa, invece, che inizierà un processo di lotta, un lungo cammino che porterà anche a delle contrapposizioni - un cammino non sempre lineare - ma che verrà sicuramente caratterizzato dal continuo sforzo di Syriza per riuscire a convincere delle forze ancora più vaste, per accrescere la sua dinamica maggioritaria ed il consenso verso il suo programma, con l’appoggio di forze sociali sempre più ampie.
Tutto questo, per riuscire a compiere passi in avanti assolutamente necessari. Sto descrivendo un cammino che in questo periodo, seguono molti partiti e governi di sinistra in America Latina, anche se mi rendo conto che, in parte, si tratta di una realtà che può risultare estranea alla quotidianità europea. So bene che la grande domanda che provoca un interesse cosi forte nei nostri confronti, è come tutto ciò potrà diventare realtà nel contesto della globalizzazione e all’interno dell’Unione Europea, visto che la Grecia non è un giocatore solitario.
C’eravamo schierati, ritrovati tutti a Sinistra - anche io, ovviamente - avevamo accettato e sostenuto un modo di vita, che aveva a che fare, principalmente, con la resistenza, con la denuncia ed un approccio teorico tendente ad una società “altra”. Non c’eravamo confrontati, però, con il bisogno pratico di aggiungere ogni giorno un piccolo mattone per poter costruire questa società di cui parlavamo, specie in un momento difficile come quello che stiamo vivendo. Se domani Syriza sarà chiamata a governare, sarà obbligata ad affrontare una situazione sociale, una realtà drammatica: la disoccupazione reale al 30%, una povertà diffusa, una base produttiva praticamente distrutta. E si tratterà – fuor di dubbio – di una scommessa enorme, anche questa di portata storica.
Si potrebbe dire che sarà una scommessa simile a quella del Brasile di Lula, quando venne eletto presidente. Noi, intendo la Sinistra nel suo complesso, dobbiamo cercare (senza trovarci nella difficilissima posizione e nel ruolo del capro espiatorio), di riuscire a mantenere la coesione dei gruppi sociali, all’interno di un progetto di ricostruzione produttiva, di democratizzazione e di uscita dalla crisi. Ed è un’impresa molto difficile.
Guardando tutto ciò anche da fuori, si può guardare in questo momento a Syriza quasi come ad un caso unico, dal momento che non appartiene alla famiglia della socialdemocrazia, non si identifica nelle posizioni dei partiti tradizionalmente comunisti e sta cercando di tracciare una strada nuova, creando un spazio nuovo tra queste due grandi famiglie. Si potrebbe parlare di un esperimento che cerca di riformare le posizioni della Sinistra, tenendo insieme, appunto, i suoi “punti forti” e il bisogno di modernità?
Possiamo dire che è cosi, ma si tratta di un processo che è iniziato da metà degli anni Novanta, quando in Grecia è stata creata la Coalizione della Sinistra e del Progresso, Synaspismòs. Parliamo del periodo in cui, in Europa, una serie di partiti post comunisti - dopo la caduta del Muro di Berlino - cercavano di apporre il loro tratto ideologico e politico, andando oltre i confini della socialdemocrazia e della strada seguita sino ad allora dai partiti di area comunista. È in quel periodo che si è formato anche il Partito della Sinistra Europea che comprendeva e continua a comprendere anche alcuni partiti comunisti. Sono dei partiti, tuttavia, che hanno compiuto una seria autocritica riguardo al periodo stalinista ed hanno rinnovato il loro modo di interpretare ed elaborare la realtà. Tra i membri del Partito della Sinistra Europea, ovviamente, ci sono anche forze come Syriza, la coalizione in cui si è trasformato Synaspismòs.
Analizzando la cosa, qualcuno potrebbe dire che questo tratto ideologico è riuscito a raggruppare delle forze appartenenti a una Sinistra indebolita ed in disfacimento, che non riusciva a superare il 6 o 7%. Ora, però, Syriza sta rivendicando la guida della Grecia, il governo del paese. Io vedo come una cosa estremamente positiva il fatto che il nostro sia un partito giovane ma con alle spalle, tuttavia, una lunga tradizione. Le sue radici affondano nel secolo passato, ma quello che abbiamo, appunto, è un partito giovane. Altrettanto positivo è il fatto che non appartenga al blocco di forze le quali continuano a seguire l’ortodossia comunista, e che non faccia parte della famiglia socialdemocratica.
Stiamo parlando, ovviamente, di una socialdemocrazia che oggi è parte integrante della crisi in atto e che ha una grande responsabilità per lo stato in cui si è venuta a trovare l’Europa. È una socialdemocrazia “geneticamente modificata”, che ha adottato quasi tutti i credo neoliberisti. In questo senso, quindi, potremmo dire che tanto Syriza quanto gli altri partiti della nuova Sinistra dell’Europa non portano sulle spalle il peso dei “peccati originali” di alcune forze che appartengono alla nostra tradizione. Contemporaneamente, non sono neanche responsabili dei grandi delitti perpetrati dalla socialdemocrazia nel periodo che stiamo vivendo.
Siamo in grado, cioè, di offrire una prospettiva più ampia, di catalizzare ed unire forze ancora maggiori, rispetto a quelle raggruppate, tradizionalmente, dalle forze del blocco socialista.
A chi è solito sottolineare che siamo un partito filoeuropeo - il quale comprende la situazione che si è venuta a creare con la realtà data della globalizzazione - ma non apparteniamo a nessuna grande famiglia politica dell’Europa, vorrei ricordare questo: nel 1981, anche il Partito Socialista del Pasok, di Andreas Papandreou, si trovava esattamente nella nostra stessa situazione: non apparteneva, in realtà, né all’Internazionale Socialista, né ai partiti socialdemocratici e neanche alla sinistra socialista.
Staffperilpartitonuovo, 10 gennaio 2015
Come un prossimo evento dall’agenda incompleta a Bologna, e uno seguente dal nome poco semplice a Milano, possono comunque sommare le rispettive virtù per una impresa comune determinata, ma di grande e storica portata. Fortunatamente, ci sono premesse perché ciò accada.
Auspicare un grande partito nuovo, come questo blog si dedica a fare già da qualche tempo, può apparire (ed essere) fin troppo facile. Oppure significa pensare innanzitutto le enormi difficoltà che vi sono mentre si segue con attenzione coinvolta ciò che in effetti si sta muovendo per rispondere ad esigenze reali che hanno quel senso (anche senza riconoscerlo esplicitamente): insomma, ciò che in un modo o nell’altro e per forza di cose si va avvicinando a creare quel fatto decisivo ed essenziale (cui questo blog usa dare quel nome). Le difficoltà sono pesanti. Attirano alcune delle forze indispensabili a questo fine a muoversi in modo sparso e in direzioni diverse, con ragioni che devono essere considerate: per esempio, al fine di non compromettere la possibilità di fare ciò che intanto si riesce a fare di buono concorrendo ad amministrare regioni, comuni, circoscrizioni; provvedere alle materiali e ineludibili necessità del lavoro politico e della stessa esistenza politica utilizzando le risorse istituzionali che solo una pratica di collaborazione entro le attuali regole del gioco permette, apparentemente, di ottenere.
Resta l’esigenza, che si può riassumere così: ciò che vuole le stesse cose le dovrebbe fare insieme, perché altrimenti non saranno fatte mai. E si tratta di cose assolutamente necessarie per il nostro tempo, per le nostre vite, per le condizioni e il senso del nostro futuro.
Quali sono le stesse cose volute da molti in Italia oggi? Per riassumere gli intendimenti che sono condivisi in Italia oggi da un campo di soggetti sociali, culturali, individuali e civili, potenzialmente capace di egemonia, capace insomma di produrre la necessaria discontinuità nella presente drammatica crisi del nostro modello di società, si può cominciare da un nocciolo di cose che abbiamo più volte mostrato insieme di non volere, e di cose che vogliamo in loro luogo.
Da una parte, non vogliamo che si vada avanti, in pochi, a cambiare la costituzione italiana; non vogliamo un potere sovranazionale europeo che continui ad operare indipendente dalla popolazione europea e contrariamente ai suoi veri e più generali bisogni; non vogliamo che i ricchi continuino ad arricchirsi e i poveri a impoverirsi e ad essere esclusi come superflui; non vogliamo le guerre che si fanno e si preparano, e rifiutiamo le ingiustizie che le alimentano e le menzogne che le vorrebbero giustificare.
Al contrario vogliamo, punto per punto, altre cose precise. Innanzitutto vogliamo il rispetto della sentenza della Corte costituzionale sulle leggi elettorali; e vogliamo fare di tutto per impedire la cosiddetta riforma del Senato, (riformando piuttosto il funzionamento dei partiti, e sottraendoli alla corruzione e alle lobby). Vogliamo poi aprire una vertenza anche disobbediente sulle regole monetarie, di bilancio, e così via, che sono state imposte dall’alto al nostro come ad altri paesi, cominciando dal referendum sull’attuazione dell’art. 81 “riformato” della nostra costituzione e dalla conferenza europea sulla rinegoziazione dei debiti pubblici proposta da Tsipras. Vogliamo sollevare l’indignazione popolare contro ennesimi regali agli evasori, vogliamo rilanciare e rendere trasparente la grande tradizione del riformismo europeo circa lo strumento fiscale come fattore di equità sociale, e vogliamo attuare l’art. 3 della nostra costituzione dando priorità assoluta all’obiettivo di assicurare la dignità individuale e sociale di ogni persona attraverso il lavoro. Vogliamo rinegoziare e soprattutto verificare i trattati di alleanza esistenti, gli impegni conosciuti e soprattutto quelli meno conosciuti che hanno portato le forze armate di paesi come il nostro ad aggredire paesi del Mediterraneo come la Libia, e governi come il nostro ad essere complici di sanguinose attività di destabilizzazione di paesi come la Siria e l’Ucraina servendosi di inaccettabili e pericolosi alleati fascisti di varia natura (fino a quando non se la prendono con noi).
In Italia, le forze più o meno organizzate che condividono o almeno tentano a condividere questi «no» e questi «sì» sono suddivise in tre tronconi che finora hanno quasi sempre proceduto parallelamente, malgrado alcuni limitati e recenti episodi di convergenza: i piccoli partiti in cui nobilmente sopravvive (cosa comunque preziosa) il nome e l’esplicita identità comunista; “Sinistra ecologia e libertà”, i comitati Tsipras, che giustamente sono fermi nell’intento di proseguire e rafforzare l’esperienza unitaria delle recenti elezioni europee, e che tuttora sono forti di adesioni individuali da parte di membri dei primi due gruppi. A Bologna, il 16 e 17 gennaio prossimi, i Comitati si riuniranno per prendere qualche decisione in più (non è ancora certo se tutte) circa il modo di realizzare questa volontà.
Alcune di queste forze (non certamente la terza) in passato hanno stretto alleanze con lo stesso partito (il PD) che oggi, al governo, fa e promuove tutte le cose che non vogliamo, o in qualche modo vi tendeva anche quando era meno evidente. Adesso anche queste (compresa per ultima, e con qualche residua esitazione, SEL) sembrano orientarsi verso una più decisa e strategica contrapposizione almeno a questo PD. Ma anche recentemente qualcuna (specialmente SEL) ha formato con il PD alleanze elettorali locali che dichiaratamente miravano a dare valore a forze interne al PD considerate ancora (a parte il nome) democratiche. Una parte di queste forze interne al PD sembra oggi tendere ad uscirne. Potranno essere un’ulteriore componente del campo alternativo? Lo vogliono essere? Sono, soprattutto, alternative?
O per chiarirlo, o forse per altre ragioni, il personale politico di SEL e questi dissidenti, insieme con forze anche valide e rappresentative del mondo sindacale, daranno vita prossimamente ad un evento di discussione (o di auto-presentazione) pubblica, dal titolo poco semplice, e non semplice da inserire nel contesto dei movimenti in atto. Ciò che i dissidenti del PD pensano non è sempre chiaro, e nemmeno è chiaro fino a che punto essi abbiano ripensato l’intero progetto strategico da cui il PD è nato (il veltronismo, insomma), di cui il renzismo costituisce piuttosto un’ estrapolazione ardita ma coerente che un vero stravolgimento. I rischi e le ambiguità sono evidenti.
Da parte delle più generose e promettenti energie che stanno per ritrovarsi a Bologna, comunque, drammatizzare l’evento milanese dal nome poco semplice sarebbe altrettanto sconsigliato. E, fortunatamente, non sembra prevalere, in loro, l’intenzione di farlo. È innanzitutto un segno di speranza che tra i due eventi vicini di fine gennaio – l’imminente assemblea di Bologna dei comitati Tsipras e la riunione di più ampio personale politico rappresentativo che avrà luogo a Milano per iniziativa di SEL – non vi sia pregiudiziale distanza ma impegnativa e reciproca attenzione. Dare valore alla parte piena del bicchiere (il PD che scricchiola) piuttosto che a quella vuota (le ambiguità dei dissidenti) dovrebbe essere il primo criterio che una politica egemonica e forte delle sue idee dovrebbe seguire.
Il punto è che ci deve essere una piattaforma forte e potenzialmente egemonica come protagonista di queste azioni. Ed è ciò che dovrebbe nascere a Bologna. Sotto il segno dell’unità e della rappresentatività.
Fare insieme, in modo organizzato, tutto ciò che insieme si vuole, è il criterio che può assicurare fin d’ora il massimo (non il minimo) di unità possibile Perché ciò che si vuole insieme è molto, non poco. Le energie fluide che si aggregano e si disperdono, sovrapponendo troppo spesso le loro azioni anziché coordinarle (chi non ricorda i tavoli separati per la raccolta di firme?) dovrebbero innanzitutto creare comitati di scopo intorno a ciò che insieme si vuole e insieme non si vuole (es. campagne popolari su proposte di legge di iniziativa popolare, ecc.), e prepararsi come un punto di riferimento unico per gli elettori nelle (non lontane) elezioni politiche, unito dalle leggi e dalle riforme (vere) che promuoveranno in parlamento dopo averle promosse nelle piazze. Le diatribe su nuovo soggetto o federazione di soggetti, su unità comunista prima e unità più larga poi oppure no, su scioglimenti o no, possono essere messe da parte, mentre si cammina, senza che alcuno perda. Si può pensare che lo scopo finale sia il socialismo, il comunismo, l’anarchia, la decrescita felice, o altro che si voglia, e aderire a partiti che coltivino ciò. Intanto si dovrebbe unire praticamente ma non episodicamente le forze, con specifici vincoli organizzativi, per obiettivi più ravvicinati e determinati che non pregiudichino nulla di tutto questo. Il soggetto nuovo dovrebbe essere un’impresa precisa con uno scopo preciso e un termine preciso. Poniamo: invertire la tendenza (oggi demenziale e perversa) dei rapporti tra rendite, salari e profitti (e su ciò sarebbe quasi rivoluzionario, oggi, mirare a riportare le relative forbici ai valori indici del 1970); quella dei rapporti tra investimenti e bisogni (con prevalenza di investimenti labor-intensive e non labor-saving e con l’immissione nel mercato di soggetti collettivi forti e rappresentativi come committenti della produzione e dell’innovazione); quella, in generale, dei rapporti tra pubblico ossia generale, e privato ossia particolare. E farlo stabilmente entro dieci anni. Che passano presto, ma durante i quali si può lottare molto e fare molto. E poi si vedrà: nuovi problemi (quasi sicuramente meno gravi di questi), e nuove scelte; ancora insieme, oppure no.
Per assicurare la rappresentatività della gestione del processo unitario, condotto entro questi precisi e insieme amplissimi limiti, abbiamo a disposizione i comitati territoriali spontanei, entusiasti, privi di pregiudizi reciproci, che hanno ridato il gusto o fatto nascere il gusto della politica in anziani delusi e giovani in cerca, che hanno prodotto il risultato del 25 maggio, e costituiscono la novità più feconda e più promettente della politica democratica in Italia oggi. Deve esserci un tesseramento. Devono esserci congressi. Il tema: come realizzare il programma (di lotta e di governo futuro), a chi dare fiducia a questo scopo. Nessun esistente partito si scioglierà, ma ci sarà cessione di sovranità quanto all’area di obiettivi comuni che costituiranno la ragione sociale del soggetto federale. Per il momento, a tempo determinato, poi si vedrà. Il fatto è che quell’area non è fatta, non può essere fatta, di inezie… Appunto, poi si vedrà.
Raffaele D’Agata
Corriere della Sera, 7 Gennaio 2015
La Grecia è davanti a una svolta storica. non è più una semplice speranza per il popolo greco: incarna l’aspettativa di un mutamento di rotta per l’intera Europa, che non uscirà dalla crisi senza una profonda revisione delle sue scelte politiche. La vittoria di Syriza darà slancio alle forze che spingono per il cambiamento. Perché se la Grecia è finita in una strada senza uscita, l’Europa di oggi è destinata a fare la stessa fine.
GIÚ LE MANI DAL VOTO GRECO
di Tommaso di Francesco
Quello che accade in questi giorni e in queste ore in Grecia ci riguarda direttamente, la crisi infatti non è greca ma dell’intero sistema finanziario del capitalismo globalizzato. Sono sette anni che il mondo occidentale è in aperta recessione e le sole timide uscite segnalate sono quelle di paesi che hanno la capacità di scaricare su quelli più deboli contraddizioni e costi, come fanno la Germania con i neosatelliti dell’est e gli Stati uniti con l’intera economia europea. Il fatto che la sinistra rappresentata da Syriza sia riuscita a sventare a fine anno la manovra del premier Samaras di eleggere un “suo” presidente della repubblica per negare e rimandare la verifica elettorale è un avvenimento di portata continentale.
Tutta l’Europa in questo momento guarda ad Atene e, certo, non tutti con la stessa aspettativa. I mercati, vale a dire la finanza internazionale occidentale, teme che la rinegoziazione dei termini del debito greco metta in discussione i criteri con cui l’Unione europea ha salvaguardato le banche invece degli investimenti per il lavoro, l’occupazione, le spese sociali; l’establishment dell’Ue ha paura che l’arrivo sulla scena del governo greco di una forza alternativa di sinistra faccia saltare l’impianto dei diktat che hanno portato alla crisi umanitaria non solo la Grecia. Ad Atene invece si apre uno spiraglio di luce, una grande possibilità. Noi che in Italia lavoriamo a ricostruire una sinistra alternativa italiana, mentre siamo alle prese con la scomparsa della sinistra e con le scelte neoliberiste di un governo come quello del leader Pd Matteo Renzi all’attacco dei diritti dei lavoratori e del welfare, vediamo l’occasione straordinaria di una svolta possibile anche in Italia e in tutta Europa. È un’opportunità europeista, perché l’Unione europea invece che nemica, com’è stata finora, diventi il continente dei diritti e della democrazia.
Sorprende e allarma, in una parola preoccupa, il dispositivo — fin qui — di terrorismo psicologico di massa che i governi europei e i rappresentanti della stessa Commissione europea hanno messo in campo. Dal presidente Juncker con le sue dichiarazioni contro Syriza, al governo di ferro di Berlino, a quello di destra di Madrid alle prese con elezioni proprio nel 2015 e con la nuova formazione di sinistra Podemos; con l’eccezione del presidente francese Hollande che almeno invita Merkel e i governi Ue a riconoscere che alla fine «il popolo è sovrano». Questo attacco subdolo e scellerato è contro il popolo greco che vuole decidere il proprio destino. Dopo tante chiacchiere sulla democrazia, scopriamo dunque che i leader e i governi europei la temono anziché difenderla e vorrebbero impedire che chi ha subìto i costi della crisi del capitalismo finanziario possa votare contro la violenza istituzionale che i tagli riformisti hanno rappresentato per la condizione di vita di milioni e milioni di cittadini e lavoratori con l’aumento della miseria e delle diseguaglianze. Così si strappa un velo: il capitalismo globalizzato non ama la democrazia reale ma solo quella rituale e svuotata di senso — vista l’equivalenza dei partiti — che allrga il baratro tra governanti e governati, alimenta qualunquismo e antipolitica, mentre crollano le percentuali di voto e vince ovunque l’astensionismo di massa e il conflitto di tutti contro tutti. Fino a favorire una nuova destra estrema xenofoba, razzista, ipernazionalista che difende nella crisi i più forti e usa i deboli contro i più deboli.
Allora, giù le mani dalle elezioni greche. Solo la democrazia reale salverà la Grecia e l’Europa dal disastro. Una democrazia reale che chiami il 25 gennaio non ad un voto qualsiasi ma ad un impegno di protagonismo milioni di giovani, di donne, di lavoratori e disoccupati. Perché sostengano l’alternativa che Syriza e il suo programma già rappresentano, perché cresca la sua forza e si allarghi il suo sostegno — nessuno a sinistra può restare solo a guardare. E perché il forte consenso che avrà, e che noi auspichiamo, sia il primo passo per coinvolgere il popolo e i lavoratori nel governo della Grecia e nella svolta in Europa
L'EURO NON GREXIT
di Anna Maria Merlo
Europa. La Germania fa tremare i mercati. Ma Hollande frena Merkel: «Sarà la Grecia a decidere cosa fare». La Linke e i Verdi denunciano le «pressioni inappropriate» di Berlino sulle elezioni elleniche
Con la grazia di un elefante in un negozio di cristalleria, la Germania, minacciando Atene di Grexit – uscita dall’euro — in caso di vittoria di Syriza alle legislative anticipate del 25 gennaio, ha squarciato un velo che rischia di avere un effetto boomerang in tutta Europa: la democrazia sarebbe diventata soltanto un’operazione formale nella Ue, ingabbiata dal rispetto del Fiscal Compact e delle regole di austerità? I cittadini non avrebbero quindi più nessuna libertà di scelta, dando cosi’ ragione a tutti gli euroscettici (di estrema destra) che hanno ormai il vento in poppa nella maggior parte dei paesi dell’eurozona? Secondo Der Spiegel, per Angela Merkel e il ministro delle finanze Wolfgang Schäuble non c’è «nessuna alternativa» all’applicazione del Memorandum, mentre il Grexit sarebbe addirittura «quasi inevitabile» se Syriza al potere rifiuterà di continuare ad imporre le riforme impopolari – e inefficaci — che hanno ridotto gran parte dei cittadini greci alla povertà. Se Syriza chiederà una moratoria sul rimborso del debito, la Grecia potrebbe venire costretta ad abbandonare la moneta unica, dice la Germania dominante. E questo non avrà conseguenze per la zona euro secondo Berlino, non ci sarà l’effetto domino, visto che a differenza del 2011 e del 2012 ormai l’euro è protetto dal parafulmine del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità, dotato di 500 miliardi) e le sue banche sono a riparo della recente riforma del settore.
I grossi zoccoli con cui Merkel e Schäuble sono entrati in campagna elettorale ad Atene non hanno nessun riscontro nei Trattati. La cancelleria ha smentito mollemente le rivelazioni di Der Spiegel. In effetti, l’obiettivo era solo di fare paura, di spaventare l’elettore greco: o sceglie Samaras e l’euro, oppure Tsipras e il caos. Già Jean-Claude Juncker ci aveva provato, il 12 dicembre scorso, sperando di influire sul voto parlamentare per il presidente della repubblica: in un’intervista alla tv austriaca, il presidente della Commissione aveva affermato di preferire dei «volti familiari« (cioè Stavros Dimas) perché «non mi piacerebbe che delle forze estremiste prendessero il potere». Il risultato di questo intervento è stato la non elezione del presidente e la conseguente convocazione di elezioni anticipate. Con un comunicato, è intervenuto nel fine settimana anche il commissario agli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici, invitando i greci a dare «un ampio sostegno» al «necessario processo di riforme» in corso (cioè votare per Nuova Democrazia e Pasok). Ma Berlino (e Moscovici) hanno esagerato. Ieri una portavoce della Commissione, Annika Breidthardt, ha cercato di spegnere l’incendio affermando che l’appartenenza all’euro è «irrevocabile», stando ai Trattati. Il Trattato di Lisbona prevede la possibilità di un’uscita dalla Ue, su decisione del paese interessato (e non su imposizione di altri), ma formalmente un paese non Ue potrebbe continuare ad utilizzare l’euro (succede con Kosovo e Montenegro, che usano l’euro senza essere nella Ue). François Hollande ha preso ieri mattina le distanze da Angela Merkel: «I greci sono liberi di decidere sovranamente sul loro governo – ha affermato il presidente francese in un’intervista a France Inter – e per quanto riguarda l’appartenenza della Grecia alla zona euro, tocca ad essa decidere». Però il governo, qualunque esso sia, deve «rispettare gli impegni presi».
In Germania c’è imbarazzo per le rivelazioni dello Spiegel. Solo gli euroscettici dell’Afd hanno approvato l’intervento muscolare di Berlino. Die Linke e i Verdi hanno denunciato le pressioni inappropriate sugli elettori greci, il vice-cancelliere Spd, Sigmar Gabriel, ha cercato di correggere il tiro, indicando che «l’obiettivo del governo tedesco, della Ue e anche del governo di Atene è di mantenere la Grecia nella zona euro». Dall’Europarlamento il gruppo S&D avverte: «La destra tedesca deve smettere di comportarsi come uno sceriffo in Grecia» perché «non è solo inaccettabile ma anche sbagliato: atteggiamenti del genere possono solo produrre rabbia e rifiuto della Ue», con il rischio di «erosione democratica» nella Ue.
Syriza vuole rinegoziare con la trojka i termini del rimborso del colossale debito (177 per cento del Pil). E ha ragione, persino stando alle prese di posizione di Bruxelles. L’Eurogruppo, nel novembre 2012, si era impegnato con Atene a rivedere i termini del rimborso quando la Grecia avesse raggiunto l’equilibrio di bilancio primario (esclusi cioè gli interessi sul debito): Atene, al prezzo del rigore assoluto, lo ha fatto già da fine 2013. Ma Merkel non vuole soprattutto che vengano ridiscussi i termini del Memorandum: Syriza propone riforme diverse, concentrate sul funzionamento dello Stato, mentre la troika insiste sui tagli ai salari e al numero di dipendenti pubblici. In Germania, anche la Cdu ha espresso preoccupazione per la manifestazione di arroganza tedesca: in caso di default greco, a pagare sarebbe prima di tutto la banca pubblica tedesca Kfw, che ha in cassa una parte consistente dei 260 miliardi di debito greco, assieme ai principali stati membri della zona euro e alla Bce. La Germania si arroga un potere che non ha: solo la Bce, in linea di principio, potrebbe causare il Grexit, tagliando i crediti alle banche greche. Ma così Draghi metterebbe fine alla difesa dell’euro «a qualunque costo», aprendo il vaso di Pandora di un possibile effetto domino. A cui neppure la Germania potrebbe resistere: Berlino pensa di sopravvivere senza la Grecia, ma l’economia tedesca non ce la farebbe nel caso di uscita dall’euro dell’Italia e della Francia
SPERANZA CONTRO PAURA
di Pavlos Nerantzis
La speranza per un avvenire migliore in Grecia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà politica di applicare il programma economico a favore degli strati sociali maggiormente colpiti dalla crisi. È la risposta di Syriza alla strategia della paura promossa dai conservatori della Nea Dimokratia e i loro sostenitori, terrorizzati dai sondaggi che continuano a dare in testa la sinistra radicale greca, tre settimane prima delle elezioni del 25 gennaio.
Syriza, secondo gli ultimi due sondaggi, si conferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, contro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimokratia del premier Antonis Samaras. Al terzo posto si trovano i nazisti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due sondaggi, mentre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Partito comunista di Grecia (Kke) con il 4,8 per cento. I socialisti del Pasok, invece, che hanno sostenuto il governo di Samaras, rischiano di non essere eletti al parlamento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior premier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Samaras contro il 33,4 per cento che preferisce Tsipras. Il 74,2 per cento poi ha risposto che la Grecia deve a ogni costo rimanere nella zona euro.
La prospettiva della vittoria di Syriza non piace, però, ai mercati come anche a una parte della stampa internazionale, che insiste sull’ eventualità di un Grexit, nonostante Alexis Tsipras non smetta di sottolineare che il suo partito non ha la minima intenzione di uscire dalla zona euro. A questi timori è stato attribuito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la tensione registrata sullo spread ellenico, che è balzato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.
Pure la Grande coalizione a Berlino, a leggere il settimanale Der Spiegel, si prepara a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «questo fatto non avrebbe ripercussioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Berlino per il momento smentisce. Ieri il portavove di Angela Merkel ha detto che il governo tedesco non ha cambiato posizione. Anzi, ha aggiunto, la cancelliera tedesca «insieme ai suoi partner lavorano per rafforzare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi membri, Grecia inclusa».
L’ipotesi di un Grexit è stata respinta anche da Parigi e da Bruxelles che, oltre a far ricordare ad Atene che ci sono impegni che «vanno ovviamente rispettati», ribadiscono che in base ai trattati dell’Ue non è possibile l’uscita di un paese membro dalla zona euro. In altri termini, come ha precisato un portavoce della Commissione europea, la partecipazione all’euro è irreversibile, secondo l’articolo 140, paragrafo 3 del Trattato Ue. Quindi per un Grexit sarebbe prima necessaria una modifica del trattato, «la cui procedura prevede l’ unanimità dei paesi membri, l’approvazione del parlamento europeo e ovviamente da parte dei parlamenti nazionali».
Per il momento quindi i partner europei, alleati di Antonis Samaras, fanno una manovra: sembrano abbandonare la strategia della paura e le interferenze, come era successo durante le elezioni presidenziali, lasciando Atene libera di decidere il proprio destino. Almeno apparentemente, perché dietro le quinte lavorano per affrontare la questione principale, che il nuovo governo greco se sarà guidato da Alexis Tsipras metterà sul tavolo dei colloqui: il taglio del debito pubblico greco. Una richiesta che, nel caso venisse accettata da Berlino e ovviamente da Bruxelles — perché di fatto questi prestiti ad Atene non saranno mai rimborsati per intero — rischierebbe un contagio politico a Roma e a Madrid. Allora lo scontro tra un governo delle sinistre e la cancelliera tedesca sarebbe inevitabile e solo a quel punto si potrebbe parlare del rischio di un Grexit provocato da Berlino.
Intanto l’arresto ad Atene di Christodoulos Xiros, esponente dell’organizzazione “17 Novembre”, condannato a sei ergastoli e ulteriori 25 anni di prigione ed evaso un anno fa dal carcere di Krydallos, è diventato un altro motivo di scontro tra Nea Dimokratia e Syriza. Il premier Samaras, che pure nel passato aveva accusato Tsipras di «andare a braccettocon i terroristi» e di «rapporti tra Syriza e organizzazioni terroristiche», ieri ha accusato la sinistra radicale di non aver emesso un comunicato stampa a favore degli agenti che hanno arrestato il ricercato numero uno in Grecia. Xiros stava preparando un attacco contro le carceri di Korydallos per far evadere i detenuti dell’organizzazione “Cospirazione dei nuclei di fuoco”
«». Il manifesto
I risultati delle elezioni parlano chiaro: la “narrazione” renziana è in crisi, ma le forze a sinistra del Pd non appaiono una alternativa credibile.
I sintomi di crisi del renzismo sono nel brusco calo dei votanti in realtà tanto diverse come Emilia e Calabria. Il fenomeno indica non solo l’incrinarsi del potere di attrazione del premier, ma anche consistenti segnali di ribellione dell’elettorato di sinistra verso il Pd. Inoltre, per la prima volta i grillini non intercettano il malcontento. Sembrerebbe una situazione eccellente per chi voglia proporre una alternativa di sinistra. Invece così non è. L’Altra Emilia-Romagna ha raccolto il 4% e Sel, nell’ambito del centro-sinistra, il 3,23%. In Calabria “La Sinistra” (Sel, Pdci, Idv), pur in una coalizione screditata, il 4,36%, e L’Altra Calabria (Prc e Alba, altre componenti della ex Lista Tsipras erano per il non voto) si ferma all’1,32%.
Tutto questo ci dice due cose. In primo luogo, non vi è oggi spazio a sinistra del Pd per più di una proposta politica. In secondo luogo, se le forze a sinistra del Pd si unissero in un Fronte articolato e plurale, lasciando da parte in nome del bene comune le reciproche avversioni, con una leadership collettiva e riconoscibile, questo soggetto politico-elettorale avrebbe di fronte a sé potenzialità rilevanti. Esso potrebbe puntare a conquistare militanti e voti tra i lavoratori sindacalizzati e tra i giovani disoccupati, tra i vecchi iscritti al Pci e tra coloro che sono cresciuti nei movimenti antisistema: insomma, tra i delusi degli ultimi vent’anni di storia politica e sociale del nostro paese.
Parlo di un Fronte della Sinistra (o Fronte del Popolo, o come lo si voglia chiamare) perché l’obiettivo di un unico partito non è realistico. Anzi, i cantieri oggi aperti (Lista Tsipras, Human Factor, nuovo partito comunista) avranno un ruolo positivo solo se non credono di essere autosufficienti, se dialogano fra loro, guardando con rispetto alle forze politiche esistenti, che restano decisive, come al grande mare dei non organizzati o di coloro che lo sono in associazioni e gruppi non partitici.
Bisogna finirla con i veti incrociati e coi risentimenti.
Questo Fronte della Sinistra dovrebbe partire dalle lotte sindacali, dei precari, dei disoccupati: senza radici nel mondo del lavoro non si è sinistra. Ma anche presentare un progetto di rinnovamento e di crescita rivolto a tutta la società. E una elaborazione che prospetti un tipo nuovo di convivenza, alternativa a quella attuale. Credo sia importante avere un duplice programma: uno di misure immediate, per fronteggiare l’emergenza; e un Programma fondamentale, per dire verso quale società si vuole andare.
Da subito poche proposte e chiare: per il lavoro, il Mezzogiorno, i giovani, la scuola e la cultura, la casa, il welfare. Si deve essere in grado di dire dove si troveranno le risorse, colpendo quali interessi: è necessario avere dei nemici. Perché questo nuovo soggetto deve essere di parte, anche se non minoritario. Dovrebbe pronunciarsi, ad esempio, sul ruolo del pubblico, proponendo una economia mista secondo quanto previsto dalla stessa Costituzione. Dovrebbe avviare una Riforma antiliberista.
E, soprattutto, questo Fronte della Sinistra non deve pensare che il suo compito si esaurisca dopo una prima prova elettorale, comunque vada. È un lavoro di lunga lena quello che ci attende, nella società prima che nelle istituzioni. Deve fondarsi sulla promessa reciproca di stare insieme per un lungo tratto di strada, senza cedere a tatticismi e interessi di corto respiro. Non si fa “grande politica” né con una nuova proposta ogni sei mesi né facendo la stampella alla gamba sinistra del Pd. Si metta in cantiere un progetto unitario e partecipato, di alternativa reale. Si lanci una vera sfida egemonica in nome delle classi subalterne, del mondo del lavoro e di chi non ha lavoro, della democrazia e della Costituzione. Oggi si può, la situazione lo richiede.
Articolo9, 3 dicembre 2014
Ha scritto Leonardo: «Poni scritto il nome di Dio in un loco, e ponvi la sua figura a riscontro: vedrai quale fia più riverita». Lo straordinario potere delle immagini: da millenni strumento di elezione della politica.
Sarà per questo potere che la fotografia che Enrico Rossi ha postato su Facebook ha fatto politica più di quanta ne abbiano fatto le ultime dieci riunioni della direzione del Pd. Pubblicando una sua foto sorridente con una famiglia Rom, e intitolandola «i miei vicini di casa», Rossi ha compiuto – come ha scritto Michele Serra – «un significativo gesto di socialità da parte di un uomo delle istituzioni nei confronti di persone tra le meno frequentate e sopportate».
Una cosa normale, addiritura banale, in un paese civile. Uno scandalo in un'Italia incattivita e sempre più consegnata agli istinti più bassi e ai bisogni più elementari.
E a colpire non sono (solo) i post razzisti, gli insulti, le incitazioni al pogrom berciati dal branco rabbioso e anonimo che si muove sulla rete, né gli scontati attacchi frontali della Lega o di Fratelli d'Italia. No, a colpire sono i silenzi della Chiesa gerarchica fiorentina (qualcuno li ha avvertiti che il papa si chiama Francesco?). O i toni dei giornali di Firenze: ieri un quotidiano che ci si aspetterebbe civile ha scritto, nell'editoriale di apertura, che il gesto di Rossi «voleva dare voce alla seconda curva ultrà, quella dei "tutti onesti e lavoratori", senza tenere conto delle differenze che ci sono in ogni gruppo sociale». Parole davvero sconcertanti. Rossi non ha postato la foto di un rom che chiede l'elemosina, scrivendoci sotto «avanti così»: no, si è fatto ritrarre con una famiglia normale che vive in una casa vicina alla sua. E questo sarebbe un gesto da ultra? Dire che l'integrazione è possibile, pensare che le responsabilità siano individuali, e non del 'gruppo': tutto questo sarebbe da ultra?
Va peggio con i politici: a parte qualche eccezione, il Pd si è defilato come non avrebbe fatto neanche Forza Italia. Il ministro della Repubblica Maria Elena Boschi ha detto che Salvini deve tacere perché la sua foto a torso nudo sarebbe «più imbarazzante» di quella di Rossi. E perché mai quella di Rossi dovrebbe essere «imbarazzante»? Ma l'apice dell'antipolitica l'ha toccato il segretario del Pd toscano Dario Parrini, che prima ha detto «no comment», e poi si è limitato a sillabare che «la parola doveri è di sinistra quanto la parola diritti».
E uno, davvero, si chiede cosa sia successo al Partito Democratico. Non mi risulta che Parrini si sia mai sentito in dovere di commentare le due foto qua sotto.
È forse di sinistra che la Fiat vada a pagare le tasse altrove? E come stanno ripartiti, qua, i diritti e i doveri? E ancora: è forse di sinistra che la Costituzione venga cambiata in base ad un patto segreto contratto tra questi due signori? E qua, con la faccenda dei doveri come la mettiamo?
Dario Parrini è di Vinci, proprio come Leonardo. Il quale Leonardo scrisse che «il pesante ferro si reduce in tanta sottilità mediante la lima, che picciolo vento poi lo porta via». Ecco, la furbesca retorica antipolitica sta limando giorno dopo giorno il progetto di Paese che un giorno apparteneva alla Sinistra. Un progetto fondato sull'uguaglianza: quella possibile, quella che sta a noi realizzare. E tra poco basterà il vento forte dell'astensione e il piccolo vento della Lega di Salvini a portarsi via quel futuro possibile.
Come ha scritto ieri Elle Kappa, «il sonno della politica genera destra».
Il manifesto, 22 novembre 2014
«Coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…». Già il Machiavelli dei “Discorsi” aveva istituito un saldo legame tra conflitto e rafforzamento delle istituzioni democratiche.
E Giuseppe Di Vittorio, nel presentare all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso un primo progetto di Statuto dei Lavoratori, avvertì che «la democrazia se c’è nella fabbrica c’è anche nel Paese» e, al contrario, «se la democrazia è uccisa nella fabbrica essa non può sopravvivere nel Paese».
La grande questione che ha di fronte a sé la sinistra politica è quella di istituzionalizzare il conflitto, dargli cioè una rappresentanza stabile. Non da oggi, certo.
Ma ormai la crisi procede per accumulazioni successive, da quantitativa si è fatta qualitativa; si è trasformata cioè da crisi congiunturale in crisi organica, che sconvolge ogni aspetto della Repubblica: economico, sociale, istituzionale. Già si intravedono, minacciosi, disegni per una sua soluzione scopertamente reazionaria. Di qui l’urgenza della ricostruzione di un rapporto virtuoso tra conflitto e rappresentanza politica. Per riprendere i termini di Ernesto Laclau, sul momento orizzontale del movimento si deve saldare il momento verticale della lotta per l’egemonia.
I motivi per cui questo intreccio virtuoso non si è fino ad ora prodotto sono molteplici, fortemente radicati in errori soggettivi, primo tra tutti la mancanza di unità tra le varie forze politiche della sinistra. Ma ci sono cause ulteriori da indagare. Prima tra tutte: può essere ancora il partito novecentesco la sintesi tra conflitto sociale e lotta egemonica? Allo stato dei fatti, i partiti tradizionali attraversano una crisi della propria ragione sociale tutt’altro che episodica. Ridotti a comitati elettorali al servizio del leader di turno, risolvono spesso la propria funzione in quella di “uffici di collocamento” per un ceto medio ipertrofico e in crisi di identità sociale, speranzoso di trovare nel “mestiere politico” un’àncora di salvataggio contro l’inesorabile degradare della propria posizione sociale.
Schiere di candidati si aggrappano a quest’àncora ad ogni tornata elettorale, fino a superare talvolta in numero, per sommo paradosso, gli affluenti al voto. Il trasformismo più estremo è all’ordine del giorno, per cui si trama nei corridoi del Palazzo per allungare legislature ingiustificatamente sopravvissute alla fine della spinta propulsiva dei risultati elettorali che le avevano prodotte. Leggi elettorali liberticide sono promulgate nell’assenso acritico della Camere. Gli enti locali, da elementi di democrazia diretta e popolare, sono ridotti a passacarte delle direttive fiscali dei governi centrali, in nome delle ragioni della “ditta” da far prevalere su quelli della cittadinanza.
La destra cavalca questa crisi della funzione sociale dei partiti, mentre la sinistra stenta, per antico abito mentale (comprensibilmente) duro ad estinguersi, a coglierne i motivi di lungo periodo. Eppure essi dovrebbero essere oggetto di attenta analisi.
Il partito di massa delle classi subalterne si configura, nei sui albori decimononici, come anti-Stato. Il partito è lo strumento di cui le classi subalterne si dotano per agire all’interno dello Stato liberale, e al tempo stesso trasformarlo. Esso nasce per unificare le lotte e dare loro continuità. Se il partito operaio contiene in sé i germi del pluralismo fin dalla sua formazione, la forza trainante è individuata nel proletariato di fabbrica, inteso come classe generale. Questo schema entra in crisi con la rivoluzione del “lungo ‘68″. In questo periodo il conflitto tra classi subalterne ed élite tradizionali da un lato assume la sua massima intensità; dall’altro, per così dire, esplode; si frantuma. Accanto alle lotte del proletariato di fabbrica, riconoscendone solo in una prima fase la guida, fanno la propria comparsa, e poi via vi acquistano rispetto ad esse un grado crescente di autonomia, quelle degli studenti, per l’emancipazione femminile, per la pace, per la salvaguardia dell’ambiente, tutte egemonizzate da una nuova classe media in ascesa.
L’inizio della restaurazione conservatrice si porta dietro la rottura dell’unità tra il movimento operaio e queste nuove classi medie. Si registra, in questi movimenti, un alto tasso di “integrabilità” nel sistema capitalistico, che ne adotta le istanze di avanguardia per rinnovarsi e rinvigorirsi. Il partito operaio di massa, in questo contesto, entra in crisi. Entra in crisi la sua capacità di unificazione ed organizzazione del conflitto. All’interno dei partiti, il rapporto tra intellettuali e militanza operaia si inverte, con i primi che ascendono facilmente e frettolosamente ai posti dirigenti e la seconda che è vissuta quasi come un residuo fastidioso. Si giunge per questa via all’espulsione dei ceti subalterni dalla rappresentanza politica diretta. Ceti subalterni i quali, a loro volta, in parte subiscono questo allontanamento, in parte lo promuovono attraverso l’affermazione, tra di essi, di un nuovo senso comune che rimette in discussione l’utilità e la necessità dell’azione collettiva, e di nuovi modelli di consumo del tempo libero.
In questa fase di scomposta ritirata siamo ancora immersi, proprio nel momento in cui il conflitto sociale riprende vigore. Invece di attardarsi in tentativi di riesumazione di una esperienza storica forse irripetibile, serve trovare risposte innovative. È urgente la creazione di un fronte pluralistico della istanze popolari che sorgono dalla società civile in lotta, cercando di ridurle ad unità in base ad una elaborazione collettiva e ad una ricostruzione di un senso comune che sancisca la loro non-contraddizione; e modellando, su queste nuove modalità di istituzionalizzazione del conflitto, adeguate proposte di rinnovamento democratico delle istituzioni repubblicane. Dalla ricostruzione di questo intreccio virtuoso tra conflitto sociale e risposta politica dipende il futuro della nostra democrazia.
perché non si coltivino eccessive aspettative su questo testo che, lo ricordo, è solo una bozza finalizzata alla nostra discussione attuale, voglio precisare che:
1. Non sono le “tesi” del nuovo partito. Non si occupa di tutto ciò che dovrà costituire la nostra identità. Nemmeno del nostro programma (massimo o minimo che dir si voglia) Ha il compito più modesto di mettere a fuoco alcuni aspetti del quadro politico maturati successivamente al 25 maggio (fino ad allora quello che ci univa lo sappiamo) per quanto riguarda la situazione europea creatasi dopo il voto, e la situazione italiana, in particolare segnata dall’accelerazione di Renzi e dalla mutazione genetica del PD.
2. Serve a tentare di definire le coordinate della nostra discussione sul “che fare” nei prossimi mesi (non in tutta la nostra vita), in particolare per quanto riguarda alcune questioni dirimenti: il rapporto tra azione in Italia e azione in Europa; il giudizio sul “renzismo”, che considero la vera discriminante tra chi “è dentro” e chi “sta fuori” dal progetto e, connesso a questo, il giudizio sul PD e sulla sua irrecuperabilità come partito a un discorso di sinistra; le tappe del nostro “processo costituente” e il rapporto tra obbiettivi qualificanti (la presentazione di una lista capace di sfidare Renzi alle prossime elezioni politiche nazionali) e passaggi sottoposti a valutazioni tattiche...
3. Non è dunque un punto di arrivo. E’ il punto di partenza della discussione. Certamente qualcuno lo troverà troppo aperto (include troppi) e altri troppo chiuso (esclude troppi), troppo ampio (tutto il tormentone sul renzismo) o troppo sbrigativo (manca un programma articolato, c’è poco la complessità delle questioni economiche, c’è poco l’ambiente, c’è poco la politica estera e la guerra). Soprattutto resta qui sullo sfondo – ma è il presupposto di tutto il discorso – il contesto della crisi economica e finanziaria globale: la più grave crisi mai attraversata, crisi strutturale, “di sistema”, di cui nessuno oggi intravvede la soluzione e da cui tutti gli assetti sono destinati ad essere trasformati radicalmente. Sono i temi su cui si dovrà lavorate a fondo tutti insieme, una volta accordatici su come e perché stare insieme.
4. Se da questo lavoro scaturisse quanto meno l’uso di un linguaggio comune e l’individuazione delle questioni importanti su cui discutere, allora non sarebbe stato inutile.
Detto questo, buon lavoro a tutti.
Marco Revelli
“Cambiare l’Europa per salvare l’Italia”. Si potrebbe sintetizzare così la proposta che L’altra Europa con Tsipras aveva posto al centro della scorsa campagna elettorale. Significava che la partita vera, quella per la quale un paese sopravvive o va giù, si giocava a quel livello: sulla possibilità di rovesciare l’intero impianto delle politiche europee sostenute dai paesi forti dell’Unione e incentrate sull’Austerità. Che senza una modificazione sostanziale e radicale di quelle politiche comunitarie, l’Italia sarebbe stata condannata o a un brusco default (in caso di fuoriuscita dall’Euro). O a una lunga agonia (nel caso di una permanenza nella sua area).
Ora bisogna aggiungere un secondo passo: “Cambiare l’Italia per cambiare l’Europa”. Perché l’Europa non ha “cambiato verso”. Nonostante che le elezioni europee abbiano sancito una sostanziale delegittimazione della politica delle “larghe intese” (Ppe e Pse, i due partiti contraenti di quel patto, hanno entrambi perso elettori in presenza di un’astensione che supera di molto il 50% mentre cresce minacciosa l’ondata dei populismi di destra). E nonostante che un’opposizione ferma e intransigente di sinistra sia cresciuta soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi, l’asse tedesco Merkel-Schulz è stato riproposto e imposto all’intero continente.
La nuova Commissione non solo replica le linee della precedente, ma le peggiora, come è stato puntualmente e autorevolmente denunciato dai nostri parlamentari Eleonora Forenza, Curzio Maltese e Barbara Spinelli, che vi si sono opposti strenuamente insieme a tutto il gruppo del GUE. Composta da 13 popolari, 7 socialisti, 5 liberali e un conservatore, voluta dalla Merkel e posta sotto il controllo dei falchi, non farà che aggravare una situazione già drammaticamente compromessa. L’Europa continuerà a funzionare come una grande “macchina imperiale” destinata a prelevare risorse in basso, nel mondo del lavoro, e nelle periferie, in particolare nell’area mediterranea, per trasferirle in alto (ai canali finanziari) e al centro (ai “Paesi forti”).
E’ il modo con cui la crisi viene usata da parte dei poteri - prevalentemente finanziari - che controllano la politica europea incarnata dalle “larghe intese”: dal lavoro al capitale. Dal salario al profitto. Dai paesi fragili a quelli forti. Dall’economia reale al circuito finanziario, secondo un meccanismo che continua ad aumentare le diseguaglianze già scandalose e l’iniquità. E’ questa la sostanza delle cosiddette “riforme” che ossessivamente vengono richieste: attacco al reddito e al potere d’acquisto della variegata area del lavoro, privatizzazione di ciò che resta del patrimonio pubblico e che possa essere oggetto di business, riduzione della spesa pubblica e dell’occupazione nelle pubblica amministrazione, eliminazione dei vincoli alla spogliazione del patrimonio paesaggistico, artistico e territoriale e liquidazione del concetto stesso di “bene comune” in nome dell’utilizzo economico privato. Il memorandum imposto alla Grecia e ora generalizzato su scala continentale.
Non solo. Quest’Europa chiusa nei propri egoismi e nelle proprie diseguaglianze all’interno, mostra un volto indecente, sul piano politico e su quello morale, anche all’esterno: nell’assenza assoluta dalla sua agenda – ma anche dall’orizzonte mentale delle scialbe figure che ne occupano i vertici – dei grandi temi che decidono del destino dell’umanità intera, come la questione epocale del crescente degrado ambientale e climatico, la sfida energetica e l’insostenibilità di un modello fondato su un’impossibile crescita illimitata, la mercatizzazione integrale delle risorse e delle fonti della vita contro le esigenze della vita stessa. Per non parlare delle politiche migratorie, scandaloso esempio di chiusura della Fortress Europe, sorda, cieca e muta di fronte alla strage permanente che si consuma lungo i propri confini, testimone-complice di un crimine contro l’umanità reiterato all’infinito; e di una politica estera che non solo non è riuscita a prevenire ed evitare la guerra – secondo il mandato implicito ricevuto nel 1945 di bandire la guerra dalla storia del mondo – ma l’ha disseminata ovunque intorno a sé con decisioni ottuse e colpevoli, dallUkraina (delicatissimo Paese-ponte tra Est ed Ovest, il cui equilibrio avrebbe dovuto essere preservato come un bene prezioso e che invece è stato terremotato da una serie sconclusionata di interventi destabilizzanti) alla Libia, alla Siria e allo sresso Irak… Quella che avrebbe dovuto essere, secondo una felice definizione, una “grande potenza culturale” si è trasformata in un gretto agglomerato di interessi, chiuso nel cerchio opaco del business e della potenza finanziaria come unico criterio di orientamento delle proprie politiche.
Quel cerchio va spezzato. Con una mobilitazione dal basso, forte, transnazionale, di dimensione continentale, che unisca al di là dei confini nazionali (e dei nazionalismi) gli europei che non accettano questo destino, a cominciare dalle vittime di questo uso della crisi e di queste politiche. Ma anche con un’iniziativa che veda protagonisti gli Stati più colpiti, attraverso una politica di alleanze che crei un fronte alternativo alla congregazione dei fondamentalisti dell’Austerità e dei custodi di un Rigore che premia solo i privilegiati, creditori esosi di una massa d’indebitati che non potrà che crescere su se stessa alimentando all’infinito il meccanismo della crisi e della diseguaglianza che ne sta all’origine. Un fronte che abbia al centro i 10 punti che già affermammo in campagna elettorale. E che sono in frontale antitesi alle linee su cui muove la politica e l’ideologia delle “larghe intese”, a cui invece, sciaguratamente, è del tutto interno e subalterno l’attuale governo, nonostante le promesse elettorali di Matteo Renzi e le retoriche che avevano accompagnato la kermesse del “semestre italiano”.
Tra le ragioni del fatidico 40,8% che ne ha certificato la santità come lo scioglimento del sangue di san Gennaro certifica il miracolo, oltre a una buona dose di demagogia comunicativa e all’appoggio monopolistico dei media, c’è anche questa millantata promessa di “farsi sentire” in Europa. La sceneggiata dei “pugni battuti” sul tavolo a Berlino. Gli sfracelli dei sei mesi “alla guida” a Bruxelles. La fine della subalternità montiana, dell’acquiescenza lettiana… Un grande, consapevole imbroglio. Non solo perché al momento buono Matteo Renzi ha approvato senza colpo ferire la Commissione Juncker, col suo pieno di rigoristi e di fustigatori tedeschi e finlandesi, legandosi una macina al collo. E ha scambiato la primogenitura di un Commissario economico con il piatto di lenticchie di una propria fedele a capo di una politica estera che non c’è. Non solo perché si è accucciato buono buono davanti ai diktat della Banca centrale europea, promettendo e consegnando ai banchieri centrali lo scalpo del sindacato italiano appena macellato. Ma anche e soprattutto perché il suo programma è scritto, punto per punto, sul palinsesto della peggiore Europa. Dal primo decreto Poletti, che formalizzava la precarietà del lavoro decretandone la svalorizzazione come destino, al cosiddetto “Sblocca Italia”, giustamente rinominato “Rottama Italia” dai più prestigiosi esperti del patrimonio territoriale, fino alla interpretazione della spending review come prevalente piano di privatizzazioni e al Jobs act come liquidazione della residua civiltà gius-lavoristica moderna. O, in ultimo, alla Legge di stabilità che simula politiche espansive “in libera uscita” rispetto ai “controllori” europei ma scarica in realtà i costi dei “doni” offerti alle imprese sulle amministrazioni locali e quindi sui servizi ai cittadini più bisognosi, in ossequio all’intoccabilità di quel 3% che costituisce (quello sì) il vero totem dell’ideologia tedesca (ed europea) oggi.
Per questo noi diciamo che Matteo Renzi non è l’alternativa alla Troika, al suo minacciato commissariamento, secondo il mantra che ha recitato e che gli ha fruttato la legittimazione. Non è il “male minore”, ultima spiaggia per scacciare il rischio della totale cessione di sovranità. Matteo Renzi è la Troika interiorizzata. E’ la forma personalizzata che assume la cessione di sovranità quando viene camuffata con la retorica del demagogo. Il suo “miracolo” – più simile al gioco di un prestigiatore che al prodigio di un santo – è di far apparire Uno ciò che è Trino (o plurimo), presentando come atto liberatorio ciò che è in realtà una sottomissione servile. Il suo è un Trasformismo di tipo nuovo, non più quello di Agostino Depretis ancor tutto sommato interno alla società politica, ma quello, più adatto alla società dello spettacolo, del “transformer”: dell’illusionista che trucca le carte e se stesso deviando l’ attenzione del proprio pubblico con la tecnica del diversivo.
Allo stesso modo aggiungiamo che Renzi non è la (possibile) soluzione alla crisi economica e sociale. Non ne ha la forza, nei rapporti internazionali, privo com’è di una politica delle alleanze. Non ne ha la cultura e le competenze (la sua squadra di governo, zeppa di figuranti, sembra pensata più per non far ombra al Capo che per trovare soluzioni a una situazione drammatica). Non ha una sola idea adeguata, come dimostra la trovata dell’anticipo in busta del Tfr, sintomo della disperazione di chi per sopravvivere nel presente si mangia il futuro. Lungi dal rappresentarne una qualche, sia pur difficile, via di uscita Renzi è, al contrario, la crisi stessa messa al lavoro in politica. E’ la forma che la crisi assume quando il suo potenziale distruttivo viene trasferito sul piano politico e applicato alla forma di governo. L’”energia” di cui appare dotato il “renzismo” nella sua opera di rottamazione di tutto ciò che si oppone e rallenta il dispiegarsi del suo potere è la stessa energia con cui la crisi distrugge e liquida consolidati equilibri sociali, soggetti collettivi, sistemi di garanzia e di tutela: le forme di mediazione e gli stessi “patti fondamentali” con cui la società industriale aveva mediato i propri conflitti e costruito la propria coesione. Senza la crisi il renzismo non sarebbe neppure concepibile. Senza il renzismo la crisi non potrebbe essere utilizzata dai poteri che reggono l’Europa per realizzare il progetto di trasformazione che gli hanno assegnato come compito, e che costituisce l’effettiva (e occulta) legittimazione del suo potere. E quando diciamo “senza il renzismo” intendiamo senza la sua carica torbida di “populismo dall’alto” (o di “populismo di governo”, che è tra le forme peggiori), senza la sua capacità (polimorfa e perversa) di mutare la disperazione di massa in speranza tramite l’espediente dell’illusione, senza la sua tecnica di mutuare linguaggi ribellistici dentro un progetto reazionario.
Il renzismo non è dunque un punto di caduta temporaneo di una democrazia malata ma ancora vitale. Non è un incidente di percorso, un’occasionale irruzione di Iksos fiorentini che attende di essere riassorbita in una qualche normalità istituzionale romana. Il renzismo porta a compimento la crisi terminale della democrazia rappresentativa. Non la produce, certo (perché essa è il risultato di un processo lungo di deterioramento, svuotamento e degrado), ma la “mette in sicurezza”, per così dire: la certifica e la dichiara normale e definitiva. Anzi, utilizza spregiudicatamente il discredito e la sfiducia di massa – il rancore e il risentimento - nei confronti della classe politica e dei propri “rappresentanti” come leva del proprio consenso personale e del ruolo demiurgico di esecutore fallimentare del parlamento e del sistema parlamentare, considerandosene ormai “oltre”. Irreversibilmente “oltre”, in una post-democrazia plebiscitaria in cui le consolidate istituzioni costituzionali sono poste in disuso (come, appunto, le auto in attesa di rottamazione), e ciò che ancora ne resta viene sistematicamente manomesso.
Così è stato per il principio stesso di rappresentanza, in occasione dell’indecente battaglia di agosto per la liquidazione del Senato come istituzione elettiva. Così è per il rapporto tra Potere Legislativo e Potere Esecutivo – tra Parlamento e Governo -, con l’umiliazione sistematica del primo e l’assolutizzazione del secondo, umiliato a sua volta nella sua collegialità e monocratizzato nella figura del Premier (vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto detta la Costituzione). Così è, d’altra parte, per la natura e il ruolo dei partiti politici, a cominciare dal suo, il Pd, il quale ha subìto, sotto l’effetto dell’ elettrochoc renziano, una vera e propria mutazione genetica trasformandosi, alla velocità della luce, da aggregato eterogeneo di gruppi d’interesse e di amministratori (“partito di massa” aveva cessato da tempo di esserlo) in “partito del capo” e, tendenzialmente, “partito unico della nazione”. Struttura amorfa, risucchiata d’autorità in alto, fuori dalla società ma anche dal Parlamento. Appendice del Governo e soprattutto del suo Premier, in attesa di essere sciolto nel serbatoio bipartisan che già emerge dall’omologazione antropologica degli elettorati che furono, fino a ieri, di centro-destra e di centro-sinistra. E che tendono ormai, nei fatti, a diventare un’unica platea plebiscitaria (e pubblicitaria), dopo la stipulazione di quel Patto del Nazareno che riconsegna a un leader squalificato e pregiudicato, in evidente decadenza, il ruolo di partner costituente. E che ipoteca pesantemente il futuro per quanto attiene alle più alte cariche dello Stato.
Sotto questa luce, la vicenda parlamentare della mozione di fiducia sul Jobs Act costituisce un punto di osservazione e di verità straordinario. Una residua istituzione rappresentativa – uno dei due rami del Legislativo – costretta ad approvare a forza (con la minaccia mortale della caduta del Governo e della possibile fine della legislatura) una delega in bianco (destinata ad essere concretizzata unilateralmente dal Governo) relativa alla liquidazione (pratica e, cosa ancor più grave, simbolica) di storiche tutele del lavoro, resa nota la notte precedente il voto, con un pronunciamento pressoché unanime del partito che dovrebbe avere nel proprio dna, se non altro per via degli antenati, il riferimento al movimento dei lavoratori, e con la cooperazione “attivamente passiva” dei senatori berlusconiani assenti al momento del voto. Se si voleva una prova lampante del processo di assorbimento del Parlamento dentro (e sotto) il Governo, e dello “sfondamento” di ogni residuo di autonomia all’interno dell’ex Partito democratico (dell’impotenza della sua cosiddetta “sinistra”), qui la si è avuta. Nel giro di un solo giorno si è potuto assistere pressoché in diretta, alla rappresentazione del processo di verticalizzazione del potere (e della sua personalizzazione in chiave plebiscitaria) che sta nel progetto e soprattutto nella pratica del renzismo e delle forze che senza comparire ne scrivono il copione. Contemporaneamente, dai brandelli di un dibattito sgangherato e frettoloso, si è potuto intravvedere, inquietante, il profilo del nuovo immaginario sociale che avanza, rovesciamento di tutti i valori, modificazione della costituzione materiale prima che di quella formale, con il Profitto, il Business, l’Impresa a fondamento di una Repubblica ormai post-democratica, e il Lavoro, le donne e gli uomini che lo eseguono, ridotti non solo a variabile dipendente, ma a possibile minaccia, con i loro diritti considerati blasfemamente “privilegi”, alla “libertà d’impresa” e all’attrattività degli investimenti. Rovesciamento simbolico, appunto, e proprio per questo tanto più devastante del nostro stato di civiltà.
Le conseguenze politiche di tutto questo – se si condivide il quadro analitico – sono evidenti, e terribilmente impegnative: siamo in presenza di una grave “emergenza democratica” di fronte a un processo che tende a produrre una vera e propria mutazione genetica dell’assetto politico-istituzionale del Paese e del sistema del partiti. Esso sconvolge il tradizionale panorama politico incentrato sulla contrapposizione bipolare centro-destra/centro-sinistra, categorie travolte ora dalla trasversalità del progetto e della pratica renziana. Modifica radicalmente il quadro delle identità politiche, svuotando di significato e rendendo anzi ambigua e deviante l’attribuzione della qualifica di “sinistra” (per quello che ancora può significare), al Partito democratico. E crea un’inedita necessità di mobilitazione capace di porsi all’altezza della sfida che viene lanciata.
Quando diciamo “inedita capacità di mobilitazione” intendiamo dire che non si tratta di un progetto “testimoniale”. Della costruzione di una “piccola casa” per esuli dalle tante vicende politiche della sinistra. O di un’asta a cui appendere stinte bandiere. Intendiamo dire ciò che un’emergenza richiede: il massimo possibile di forza da mettere in campo per invertire una tendenza, per fermare un’azione di devastazione istituzionale e culturale, per scongiurare un pericolo che si avverte potenzialmente irreparabile, per arginare la devastazione di un patrimonio culturale condiviso, e per contrapporre a tutto ciò un sistema di valori e un modello di pratica all’altezza dei tempi. Un fronte più ampio possibile da costruire nella chiarezza su ciò che si vuole contrastare e nella apertura su ciò che si intende unire.
In quest’opera è importante la capacità di opposizione ai singoli passaggi, nelle diverse sedi, dal Parlamento alla piazza, ai luoghi di lavoro e alle aule scolastiche. Per questo siamo e saremo sempre solidali con chiunque, in ogni sede, metta pietre d’inciampo al progetto renziano-berlusconiano che nel pactum sceleris del Nazareno ha trovato la propria sanzione. Ma ancor più importante, perché da essa dipende la possibilità di farcela davvero, è l’elaborazione di un’ effettiva alternativa al renzismo. Di una risposta credibile, adeguata nelle forme e nei contenuti alla sfida che esso apre, capace di coglierne i punti di forza e di rovesciarli, non solo svelando l’inganno (che c’è sempre) ma offendo soluzioni praticabili qui ed ora, e soprattutto offrendo un’immagine di noi diversa da quella che ci accompagna da tempo e che ciclicamente ritorna.
Il principale punto di forza di Renzi è la crisi, come si è detto. La sua stessa gravità. Di più: la sua apparente insuperabilità senza l’ intervento straordinario di una figura salvifica in cui “credere” (e poi magari anche obbedire se non combattere). Il mito, appunto, dell’”ultima spiaggia”, del “dopo di lui il diluvio”, che blocca ogni smottamento, sutura ogni linea di frattura, sana ogni dissenso interno e ogni ribellione esterna. Dobbiamo contrapporgli una linea di uscita, se non dalla crisi – che è endemica di questo capitalismo globale e in particolare nel modello europeo – almeno dall’emergenza. Un programma radicalmente altro rispetto a quello dettato da Bruxelles e da Berlino e fatto proprio dal “bisbetico domato” Matteo Renzi. Pochi punti, chiari come facemmo con i 10 punti della Lista, a cominciare dalla questione del debito e del suo necessario “consolidamento”, dalla rottura dei patti capestro europei e dal superamento del vincoli del fiscal compact, da un programma eccezionale per l’occupazione, per la messa in sicurezza del territorio, per la ristrutturazione energetica, per la rappresentanza dei lavoratori in fabbrica e il superamento vero, non retorico, della jungla contrattuale tra gli “atipici”… Da portare e discutere tra la gente, non tanto o comunque non solo nelle nostre solite assemblee che radunano troppo spesso i già convinti.
Il secondo punto di forza di Renzi è l’evocazione sistematica, ossessiva, della rottura – del “nuovo inizio”, del “cambiar verso”, della “rottamazione” appunto – inserita nel quadro del peggior continuismo (cosa, se non la sintesi del peggio dell’ultimo quarto di secolo è il Patto del Nazareno?). L’assunzione dei codici linguistici propri del “populismo di opposizione” – dei suoi luoghi comuni, dei suoi j’accuse, delle sue domande di tabula rasa – per far da propellente al suo “populismo di governo”. Il lessico del ribelle come scrittura del libro del potere. Evocazione retorica, naturalmente, illusoria, manipolante, ma che affonda le radici in un cratere di disperazione, nell’impossibilità di vedere un futuro, nella consapevolezza che “così non si può andare avanti”, che “ci vuole uno scossone” che se non può più venire dal basso, che almeno venga dall’alto, nell’affidamento superstizioso all’intervento salvifico di chi “può”. Quel cratere, che Renzi non può prosciugare, può soltanto “usare” al proprio fine personale, dovremmo riempirlo noi, almeno in parte. A quella domanda di rottura giustificatissima dovremmo riuscire a rispondere noi.
Ma qui intervengono i nostri punti di debolezza. Il primo del quali siamo noi stessi. La nostra storia deragliata. La nostra antropologia lesionata. I vizi acquisiti e forse anche quelli originari. La principale ragione della nostra difficoltà ad attirare tutti quelli che potenzialmente ci sarebbero, e di trattenere tutti quelli che si avvicinano, è l’immagine che proiettiamo. Quello che fa fuggire la gente normale lontano da noi è la nostra endemica litigiosità, il bisogno costante di identificarci per contrapposizione nei confronti di chi ci sta più vicino, l’incapacità di ascolto degli altri e di interlocuzione con essi, l’intolleranza, la mania di piantar bandierine, la frammentazione spinta fino alla scissione dell’atomo, l’assenza di una visione pragmatica dei processi e la difficoltà a separare l’essenziale dal secondario, lo strategico dal contingente. Questo ci rende incerti e insicuri, come l’Amleto della tragedia, in questi “tempi bolsi e tronfi” in cui ricostruire una prospettiva credibile richiederebbe in primo luogo un taglio netto con pratiche consuete, stili di lavoro e di comportamento improponibili, come in qualche modo, e almeno parzialmente, si era provato a fare nel lancio della Lista la primavera scorsa. E poi una straordinaria mobilitazione di intelligenza, creatività, spregiudicatezza, conoscenza perché il nostro pensiero è oggi insufficiente di fronte alle travolgenti trasformazione della società che vorremmo intercettare: “unire ciò che la crisi e il neoliberismo hanno diviso” è un buon proposito, ma come questo possa essere fatto in presenza di una scomposizione feroce di tutti i soggetti e di tutte le aggregazioni – alla frantumazione del “diamante del lavoro”, come è stato felicemente detto – spinta fino al punto di contrapporne le parti fra loro in una nuova “guerra di tutti contro tutti”, di fronte alla smaterializzazione dei processi produttivi e dei sistemi di relazioni, al primato della dimensione finanziaria su quella produttiva, allo spossessamento dei luoghi tradizionali del conflitto, dobbiamo cercarlo ancora. Allo stesso modo la difesa intransigente della democrazia non solo come principio ma anche come assetto istituzionale, così come è scolpita nella nostra Costituzione, è opera nobile e necessaria, ma non ci possiamo nascondere il grado e la misura in cui il principio stesso di rappresentanza è stato lesionato da processi reali, per certi versi devastanti e purtroppo irreversibili: dalla globalizzazione dei processi non solo economici e comunicativi, ma di comando o come si dice di governance, e dalla totalizzazione di un sistema mediatico pervasivo, multiforme e integrato, a cui occorre dare risposte in avanti, non certo nello scioglimento di quella crisi nel plebiscitarismo del leader più o meno carismatico ma in un di più di partecipazione, sviluppata nei luoghi della vita, al livello territoriale, in forme già in parte sperimentate là dove si sono aperte linee di frattura, conflitti radicati nelle “coscienza di luogo” (si pensi alla Val di Susa) ma che attendono una sistemazione e una riflessione. Per non dire della crisi delle forme organizzative, a cominciare dalla “forma partito”, delle cui dinamiche dissolutive la mutazione genetica del Partito democratico è l’esempio più spettacolare perché lì si rappresenta, in tutta la sua drammaticità. Sarebbe una catastrofe se noi pensassimo di ricostruire una casa (un “piccola casa”) per gli esuli di quel crollo, sulle stesse fondamenta e sullo stesso progetto, senza porci il problema, quello vero, di cosa si sostituisce al modello organizzativo del “partito di massa” che ha dominato l’orizzonte politico novecentesco e che con quel secolo si è inabissato: quale forma di organizzazione della soggettività politica si può immaginare nell’epoca della scomposizione delle soggettività, dell’inoperosità della politica al livello della dimensione nazionale, della crescente difficoltà di ricondurre la disseminazione degli “Io” autoreferenziali e impotenti all’operatività di un “Noi” attivo e consapevole.
Per questo noi non proponiamo oggi un “soggetto politico” già bell’e fatto (o pensato), da “prendere o lasciare”. Proponiamo al contrario un processo – possiamo chiamarlo un “processo costituente” – di lunga durata in grado di proiettare l’esperienza de L’Altra Europa oltre la vicenda, felicemente conclusa, di quella Lista elettorale. Un processo da iniziare subito, questo sì, ma in cui nessuno può pensare di aver già in mano la Costituzione scritta da imporre agli altri, e nemmeno i “lavori preparatori” già compiuti: un processo nel quale davvero si avanzi domandando, forse anche per prove ed errori, e in cui sia ben chiaro il rapporto tra le tappe intermedie e la meta finale che resta, certamente, la volontà di creare quello che potremmo definire, per ora, un “SOGGETTO POLITICO EUROPEO DELLA SINISTRA E DEI DEMOCRATICI ITALIANI”, per sottolinearne la doppia vocazione: la dimensione europea dell’azione strategica e l’apertura a un’ampia area democratica e di sinistra italiana.
Per questo la prima tappa intermedia, da dichiarare subito, senza indugi, è a sua volta l’obbiettivo di giungere alle prossime elezioni politiche – quale che sia il momento in cui si terranno – con una lista in grado di unire tutte le componenti di una sinistra non arresa alla austerità europea e alla sua versione autoritaria italiana incarnata dal renzismo, determinata a sfidarlo in modo credibile sul doppio terreno dell’egemonia e della capacità d’innovazione nel senso migliore di questo termine, cioè facendo proprio il bisogno radicale di mutamento dei tanti sacrificati dalla crisi e dall’austerità. La sfida elettorale sul livello nazionale è senza dubbio la competizione giusta per lanciare il processo qui descritto con tutta la forza e l’estensione rese necessarie dall’importanza della sfida. Alla sua piena riuscita è necessario commisurare ogni altra nostra mossa. D’altra parte per il successo dell’iniziativa è fondamentale lo sviluppo di una proposta programmatica articolata e precisa, con un ventaglio di punti programmatici completo (dal lavoro e dai diritti, naturalmente, all’ ambiente, alla sanità, ai trasporti, all’ istruzione e ricerca, dalla politica estera alla questione dei migranti…) per cui abbiamo ottime basi in quello che abbiamo presentato alle europee ma che deve essere sviluppato e precisato, senza perdere chiarezza e comprensibilità, in una discussione collettiva che richiederà per lo meno qualche mese di lavoro intenso e partecipato per cui è bene che tutti si attrezzino.
In quest’ottica di percorso (di ampliamento della nostra base e di approfondimento dei nostri contenuti) il risultato della Lista L'altra Europa con Tsipras il 25 maggio, può essere considerato, sia pur moderatamente, un buon punto di partenza, date le condizioni in cui era la sinistra italiana, e un incoraggiamento per il futuro: si è evitato il rischio - il "paradosso" come l' aveva definito Tsipras - che per la seconda volta la sinistra italiana non fosse rappresentata in Europa (sono stati portati al PE tre rappresentanti di alto livello); si è dimostrato che anche la soglia incostituzionale del 4% poteva essere superata; si è data a 1.103.000 elettori la possibilità di esprimersi con una scelta limpidamente di sinistra; si è aperta una strada per un percorso che altrimenti, in caso di fallimento, sarebbe stata irrimediabilmente chiusa. Né va sottovalutato il ruolo di Alexis Tsipras, che ci ha permesso di dare con chiarezza al nostro progetto – unico tra tutti - un respiro di esperienza, di pratica e di organizzazione politica trans-nazionale con respiro europeo.
Quel (ancora parziale) successo si è ottenuto con il concorso di diverse forze e realtà: la rete delle associazioni in lotta per un’alternativa e parti dei movimenti critici dell’esistente, a cominciare da quello per l'acqua e i beni comuni; un'area di opinione democratica, impegnata nella difesa della Costituzione e dei diritti e preoccupata della deriva autoritaria dei governo Renzi; le diverse realtà organizzate in forma di partito, fino ad allora divise e talvolta contrapposte; e infine, ma non meno importante, anzi, un robusto gruppo di intellettuali e di esponenti del mondo della cultura che hanno "fatto la differenza" per quanto riguarda l'immagine della lista, oltre al gran numero di persone, cittadini, attivisti, simpatizzanti che si sono impegnati nei comitati (e anche fuori di essi, spontaneamente). E' convinzione condivisa – ed è d’altra parte un dato di fatti evidente - che nessuna di tali componenti sia stata prevalente, perché tutte sono state INDISPENSABILI per garantire il superamento della soglia.
Per questa ragione il percorso oltre l'esperienza elettorale europea per la nascita di una sinistra italiana deve proporsi di mantenere entro i limiti del possibile il coinvolgimento di tutti i soggetti e le realtà che hanno contribuito a quel successo, con l'obbiettivo dichiarato non solo di consolidarlo ma di ampliarlo. Non ci si nasconde infatti che quel 1.103.000 elettori è solo una parte, sottile, di elettorato potenziale: rappresenta un voto ancora prevalentemente d'opinione, concentrato negli strati più colti e informati di popolazione. Occorrerà lavorare molto per radicarci nei territori e tra gli strati di popolazione più sofferenti per la crisi, in parte rifugiatisi nell' astensione, in parte convinti dal populismo grillino, in parte sedotti dalle elemosine di Renzi. Un lavoro inevitabilmente lungo, perché ogni realtà locale ha la propria storia e attori politici eterogenei e richiede attenzione alle specificità”di luogo”, rispetto delle differenti dinamiche di territorio (sfuggendo allo schema da “partito novecentesco” che imponeva la presentazione automatica delle proprie liste a ogni livello elettorale e in ogni sede territoriale), capacità di “governare” il rapporto tra progetto generale e domanda locale secondo logiche non schematiche e soprattutto con attenzione intelligente al rapporto “mezzi-fini”.
Siamo consapevoli che non sarà facile: le condizioni della campagna europea erano in qualche modo eccezionali e ci favorivano, sia per il riferimento a Tsipras, sia perché era senso comune che o si faceva come si è fatto, con una certa forzatura anche verso le forze più organizzate in forma di partito, o non si sarebbe concluso nulla. Quelle condizioni non ci sono più: ora bisogna condurre un percorso condiviso, che porti ad una definizione di forme di rappresentanza pienamente legittimate, e procedere a un complesso lavoro diplomatico di cucitura e convergenza, rispettoso di tutte le storie e di tutte le identità ma anche consapevole della necessita di superare distinzioni e sopravvivenze sempre più parziali e meno riconosciute, consapevoli dell’insufficienza, sempre più palese, di un approccio affidato alla vecchia pratica degli accordi tra apparati di partito o frazioni di ceto politico tanto più dopo che l’attesa di una rottura significativa nei gruppi dirigenti del PD si è rivelata clamorosamente vana (altro discorso, naturalmente, riguarda l’elettorato di quel partito e quanto resta del suo corpo militante).
Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, iniziare a tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. Per far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario, preliminarmente, tracciare il campo dei partecipanti al processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. E, in connessione con ciò, la proposta che chiediamo di discutere è di aprire l’Associazione L’Altra Europa con Tsipras, a tutt’oggi rappresentante legale della Lista, all’adesione individuale di massa, scrivendone lo Statuto (entro mesi 9 dall’avvio dalla campagna di adesione) in una chiave partecipativa e democratica e rivolgendoci a tutti coloro che hanno partecipato alla campagna per le europee, che appartengano o meno a partiti o a movimenti o ad altre formazioni. Ai soggetti collettivi, d’altra parte, (partiti, movimenti, associazione) non è richiesto di sciogliersi come condizione di partecipazione al percorso (ogni soggettività è titolare delle proprie scelte), ma ne auspichiamo l’impegno convinto e l’assunzione dell’obbiettivo finale (la necessità e l’urgenza di dar vita a una forma di rappresentanza unitaria nella scena politica nazionale), così come è stato per le elezioni europee.
D’altra parte, intorno a noi, c’è un mondo di donne e di uomini che ogni giorno si sbatte per resistere e per cambiare, o comunque che “non ci sta”: c’è una “sinistra fuori dalla sinistra”, che non trova sponda in ciò che c’è (o che si vede) e che meriterebbe una rappresentanza politica degna di questo nome. E’ con loro che dobbiamo camminare.
Ci saranno senza dubbio tensioni e difficoltà, lungo questo cammino, ma siamo convinti che la forza del progetto generale, come nel modello tracciato da Syriza, sarà più forte.
Il manifesto 15 novembre 2014 (m.p.r.)
Non per enfatizzare le solite mazzate che «rovinano» i giorni di lotta, ma le cariche democratiche distribuite gratuitamente ieri a Milano dimostrano ancora una volta che in questo paese c’è una gran voglia di menare le mani. Sul campo è rimasto qualche contuso e un punto interrogativo sul perché a un certo punto la polizia abbia deciso di dare una’energica riordinata alla strana giornata milanese, con tre cortei diversi (ma non troppo) che per tutta la mattina hanno girato intorno alla questione «più diritti per tutti». A volte incrociandosi, spesso ignorandosi, e sempre desiderando di convergere tutti insieme chissà dove, forse in un mondo nuovo con un popolo nuovo che ha perso memoria di sigle, sette, sommatorie e impossibili «unità» a sinistra. Erano tutti lì, concentrati in pochi chilometri quadrati. Decine di migliaia griffati Fiom diretti in Duomo, qualche migliaio dietro agli striscioni dei sindacati di base sbucati in piazza San Babila dopo tanto girovagare e più di 5.000 scioperanti sociali, una prima assoluta, un esperimento tanto suggestivo quanto complicato che ha anche emozionato alcuni lavoratori — «ho preso mezza giornata, questo è il mio primo sciopero». A 32 anni, sono conquiste.
Il manifesto, 12 novembre 2014
Le ragioni dello «sciopero sociale» del 14 novembre sono definite con chiarezza. I bersagli, dal Jobs Act, alla legge 30, al «patto per la scuola», anche. Le rivendicazioni perfettamente comprensibili: dal salario minimo europeo al reddito di cittadinanza. Eppure che cosa sia uno «sciopero sociale» resta una domanda alla quale è molto difficile rispondere.
Come la quadratura del cerchio nessuna approssimazione esaurisce il problema, tanto da lasciarne sospettare l’inevitabile inconcludenza. Il nodo gordiano consiste, in sintesi, nel fatto che la produzione di valore e la sua appropriazione avvengono in larga misura al di fuori del lavoro dipendente e perfino al di fuori da una sfera di attività agevolmente identificabili come «lavoro». Quando diciamo «la vita messa al lavoro» il termine «sciopero» rischia di assumere un significato sinistro.
Una larga parte della società resta comunque esistenzialmente esposta all’ «estrazione» del valore e delle risorse che produce. Chi cerca lavoro, chi ci ha rinunciato, chi va a ingrossare gratuitamente le schiere governate dall’economia politica della promessa, chi si ingegna nell’individuare nuove forme produttive, chi agisce semplicemente la propria socialità è condannato ad alimentare i dispositivi dell’accumulazione e della diseguaglianza in una condizione di «autonomia eterodiretta» e indebitata.
Per il lavoratore precario lo sciopero può costare lo straccio di lavoro con cui sbarca il lunario, per il lavoratore gratuito la perdita di una pur fievole speranza, per chi cerca di inventare la propria strada una perdita di tempo. Quanto a chi smettesse di cercare lavoro, a chi importerebbe? Esistono naturalmente, e non sono affatto pochi, i lavoratori salariati, fabbriche, uffici, servizi che, per quanto sotto crescente ricatto, possono essere fermati.
Il 14 novembre sciopererà la Fiom e questo sarà ben visibile. Agli altri non resta però che la solidarietà e una partecipazione alle manifestazioni di piazza per affermare «ci siamo anche noi, siamo tanti, produttivi e privi di reddito e diritti».
È una occasione da cogliere, ma non l’esercizio di una forza propria, poiché è su quella del lavoro salariato che si continua a poggiare chiedendo (non senza ragioni che lo riguardino direttamente) di veicolare i bisogni e le rivendicazioni di chi invece ne è escluso. Per quanto si tratti di una risorsa politica e sociale si tratta anche di una lacuna e di un limite.
Lo «sciopero sociale» rimane una affermazione di principio, la «generalizzazione dello sciopero» un fatto argomentativo che spesso si risolve in azioni generose ma frequentemente rituali e che non varcano i confini del simbolico. Si può puntare alla sospensione di stage e tirocini, si può immaginare il picchettaggio dei luoghi del lavoro gratuito, ma spesso quest’ultimo non ha luoghi o è talmente disperso e frammentato da risultare fisicamente irrintracciabile, cosicché l’astensione stessa da queste forme di prestazione d’opera rischia di rimanere invisibile, salvo assumere dimensioni tanto estese che è difficile immaginare nella condizione di estrema ricattabilità in cui versano.
Si può conquistare come palcoscenico delle proprie ragioni qualche luogo di visibilità, un monumento, una piazza, ma anche questo non risolverebbe il problema dello «sciopero» inteso come sottrazione temporanea della propria capacità creativa alla produzione di ricchezza e al funzionamento della macchina economica. Per dirla in modo classico, servirebbe uno sciopero del valore d’uso contro il valore di scambio.
Il fatto è che «sciopero sociale», preso alla lettera, significa smettere di fare società, sospendere cioè quelle azioni e interazioni che caratterizzano il normale svolgimento della vita sociale, mantenendo quest’ultima, depurata dei suoi caratteri «funzionali», in una dimensione altra che ne contraddica l’asservimento alla condizione del lavoro e della produzione in senso più generale. Un altro tempo e un altro spazio.
Senza alcun intento blasfemo o irrispettoso, semmai il contrario, un modello assai radicale lo indicherei nello Shabbat ebraico. In quella festività, sebbene nella forma del divieto religioso che non coincide certo con la nostra idea di libertà, l’astensione dal lavoro viene estesa ad una serie di gesti e attività che caratterizzano il normale funzionamento della macchina sociale. Shabbat esclude appunto, con una geniale intuizione, tutti quegli aspetti della vita che sono sospettati di essere «messi al lavoro», valorizzando invece quei tratti della vita umana privi di significato strumentale.
Non si tratta certo di stilare una lista di attività (Shabbat ne prevede 39) proibite ma di cercare di individuare, con la massima fantasia e inventiva, i terreni della sottrazione possibile e quelli di pieno esercizio della libertà individuale e collettiva. Il paragone è decisamente strampalato e vale semplicemente come suggestione, tuttavia mi sembra utile a orientare lo sguardo in una materia che è finora rimasta oscura o del tutto indefinita.
Tornando, però, alle più consuete categorie laiche, lo «sciopero sociale» non può che trasformarsi in una nuova forma di «sciopero politico» che, messo da parte il miraggio della presa del potere, riesca a esercitarne il più possibile, rendendo ogni gesto di sottrazione una critica esplicita dell’ordine sociale ed economico esistente.
Il manifesto, 8 novembre 2014
Un pezzetto di quel muro caduto 25 anni fa ce l’ho ancora sulla mia scrivania: un frammento di intonaco colorato che strappai con le mie mani quando accorsi anche io a Berlino mentre ancora, a frotte, quelli dell’est esondavano verso l’agognato Occidente. Furono giornate gioiose attorno a quel simbolo di una guerra – quella fredda – che era scoppiata meno di due anni dopo la fine di quella calda.
Per oltre quarant’anni quella frontiera, e già molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attraversata solo illegalmente: negli anni ’50 perché il mio governo non mi dava un passaporto valido per i paesi oltre la cortina di ferro (dovevamo rimanere chiusi nell’area della Nato) e perciò per parlarsi con tedeschi della Ddr, ungheresi o bulgari si prendeva il metro a Berlino e dall’altra parte ti fornivano una sorta di passaporto posticcio.
Poi, dopo la costruzione del muro, quando noi potevamo legalmente andare ad est e invece quelli di Berlino est non potevano più venire a ovest, ridiventammo clandestini: per potere incontrare, senza incappare nella sorveglianza della Stasi, i nostri compagni pacifisti del blocco sovietico, dissidenti rispetto ai loro regimi, ma convinti che a una evoluzione democratica non sarebbero serviti i missili perché solo il disarmo e il dialogo avrebbero potuto facilitarla.
Per questo, gioia in quell’autunno dell’89 e anche un po’ di orgoglio per il merito che per questo esito aveva avuto anche il nostro movimento pacifista, l’End «per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali». Avevamo prodotto una deterrenza politica, contribuendo ad isolare chi, per abbattere il muro, avrebbe voluto scegliere la più sbrigativa via delle bombe.
E però l’89 non fu solo gioiosa rivoluzione libertaria. Fu un passaggio assai più ambiguo, gravido di conseguenze, non tutte meravigliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto dolorosamente nella memoria che evoca in me. Peraltro quel 9 novembre di 25 anni fa per me, credo per tanti, non è dissociabile dalle date che seguirono di pochi giorni: il 12 novembre, quando Achille Occhetto, alla Bolognina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comunicò ufficialmente alla traumatica riunione della direzione del partito di cui, dopo che il Pdup era confluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così imponendoci – a tutti – la vergogna di passare per chi sarebbe stato comunista perché si identificava con l’Unione sovietica e le orribili democrazie popolari che essa aveva creato.
Non c’era bisogno della caduta del muro per convincersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo possibile che volevamo, non solo per noi che avevamo dato vita al Manifesto, ovviamente, ma nemmeno più per la stragrande maggioranza degli iscritti al Pci e dei suoi elettori.
Ma non si trattava soltanto della sinistra italiana, il mutamento che segnò l’89 ha avuto portata assai più vasta: è in quell’anno che si può datare la vittoria a livello mondiale di questa globalizzazione che tuttora viviamo, accelerata dalla conquista al dominio assoluto del mercato di quel pezzo di mondo che pur non essendo riuscito a fare il socialismo gli era tuttavia rimasto estraneo.
Ci fu, certo, liberazione da regimi diventati oppressivi, ma solo in piccola parte perché non aveva vinto un largo moto animato da un positivo disegno di cambiamento: c’era stata, piuttosto, la brutale riconquista da parte di un Occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Tatcher, Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante e pervasivo, il capitalismo più selvaggio, sradicando valori e aggregazioni nella società civile, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, corruzione, violenza. Il coraggioso tentativo di Gorbaciov non era riuscito, il suo partito, e la società in cui aveva regnato, erano ormai decotte e rimasero passive.
E così il paese anziché democratizzarsi divenne preda di un furto storico colossale, ci fu un vero collasso che privò i cittadini dei vantaggi del brutto socialismo che avevano vissuto senza che potessero godere di quelli di cui il capitalismo avrebbe dovuto essere portatore. (A proposito di democrazia: chissà perché nessuno, mai, ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liquidato Gorbaciov, arrivò a bombardare il suo stesso Parlamento colpevole di non approvare le sue proposte?).
Come scrisse Eric Hobsbawm nel ventesimo anniversario del crollo «il socialismo era fallito, ma il capitalismo si avviava alla bancarotta».
Avrebbe potuto andare diversamente? La storia, si sa, non si fa con i se, ma riflettere sul passato si può e si deve ( e purtroppo non lo si è fatto che in minima parte)E allora è lecito dire che c’erano altri possibili scenari e che se la storia ha preso un’altra strada non è perché il «destino è cinico e baro», ma perché a quell’appuntamento di Berlino si è giunti quando si era già consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.
Le responsabilità sono molteplici. Perché se è vero che il campo sovietico non era più riformabile e che una rottura era dunque indispensabile, altro sarebbe stato se i partiti comunisti , in Italia e altrove, avessero avanzato una critica aperta e complessiva di quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limitarsi – come avvenne nel ’68 in occasione dell’invasione di Praga – a parlare solo di errori.
In quegli anni i rapporti di forza stavano infatti positivamente cambiando in tutti i continenti ed era ancora ipotizzabile una uscita da sinistra dall’esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c’è stata. E così nell’89, anziché avviare finalmente una vera riflessione critica, si scelse l’abiura, che avallò l’idea che era il socialismo che proprio non si poteva fare.
Gorbaciov restò così senza interlocutori per portare avanti il tentativo di dar almeno vita, una volta spezzata la cortina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva perseguito con tenacia, offrendo più volte lui stesso alla Germania la riunificazione in cambio della neutralizzazione e denuclearizzazione del paese.
Fu l’Occidente a rifiutare. Mancò all’appello, quando unilateralmente il presidente sovietico diede via libera all’abbattimento della cortina di ferro, il più grande partito comunista d’occidente, quello italiano, frettolosamente approdato all’atlantismo e impegnato ad accantonare, quasi con irrisione, il tentativo di una “terza via” fondata su uno scioglimento dei due blocchi avanzata da Berlinguer alla vigilia della sua morte improvvisa.
E mancò la socialdemocrazia, che aveva in quell’ultimo decennio marginalizzato gli uomini che pure si erano con lungimiranza battuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Kreiski. È così che l’89 ci ha consegnato un’altra sconfitta, quella dell’Europa. Che perse l’occasione di costruirsi finalmente un ruolo e una soggettività autonome, quella “Casa comune europea” che Gorbaciov aveva sostenuto e indicato, e che trovò solo un simpatizzante – ma debolissimo — in Jaques Delors, allora presidente della Commissione europea.
Nell’89 l’Unione Europea avrebbe finalmente potuto coronare l’ambizione di liberarsi dalla sudditanza americana che l’esistenza dell’altro blocco militare aveva facilitato, e invece si ritrasse quasi spaventata. Avviandosi negli anni successivi lungo la disastrosa strada indicata dalla Nato: ricondurre al vassallaggio le ex democrazie popolari per poter estendere i propri confini militari fino a ridosso della Russia.
Non andò molto meglio neppure in Germania. Anche qui ci fu certo la grande gioia della riunificazione del paese che aveva vissuto la dolorosissima ferita della divisione, ma anche qui, più che di un nuovo inizio, si trattò di una annessione condotta secondo le regole di un brutale vincitore.
A 25 anni di distanza la disuguaglianza fra cittadini tedeschi dell’ovest e dell’est è più profonda di quella fra nord e sud d’Italia, perché la «Treuhand» incaricata di privatizzare quanto era pubblico nell’economia della Ddr preferì azzerare le imprese per lasciar il campo libero alla conquista di quelle della Rft. Cinque anni fa nel commemorare il crollo del muro il settimanale Spiegel rese noti i risultati di un sondaggio: il 57% degli abitanti della ex Germania dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne avevano nostalgia
Oggi probabilmente quella che viene chiamata «Ostalgie» è cresciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scomparsa: tornava da un giro ad est in occasione della prima campagna elettorale del paese riunificato ed era desolato per come la riunificazione era stata condotta. La Spd non aveva del resto nascosto, sin dall’inizio, la sua contrarietà a come era stato avviato il processo).
Per tutte queste ragioni non condivido la spensierata (agiografica) festosità che accompagna, anche a sinistra, la celebrazione del crollo del Muro. Soprattutto perché – e questa è forse la cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di persone prende fine la speranza – e persino la voglia – di cambiare il mondo, quasi che il socialismo sovietico fosse stato il solo modello praticabile. E via via è finita per passare anche l’idea che tutto il secolo impegnato a costruirlo anche da noi era stata vana perdita di tempo.
Un colpo durissimo inferto alla coscienza e alla memoria collettiva, alla soggettività di donne e uomini che per questo avevano lottato. E nessuno sforzo per riflettere criticamente su cosa era accaduto per trarre forza in vista di un più adeguato nuovo progetto. Non è un caso che anche i posteriori tentativi di dar vita a nuovi partiti di sinistra abbiano prodotto formazioni tanto impasticciate: perché incapaci di fare davvero i conti con la storia. E perciò qualche ristagno ideologico o la resa a un pensiero unico che indica il capitalismo come solo orizzonte della storia.
Nel dire queste parole amare rischio come sempre di fare la nonna noiosa che continua a rimuginare sul passato senza guardare al presente. So bene che ci sono oggi nuovi movimenti animati da generazioni nate ben dopo la famosa storia del Muro che si propongono a loro modo di inventarsi un mondo diverso.
Ma non mi rassegno a subire senza reagire il disinteresse che avverto in tanti di loro per il nostro passato, non perché vorrei ci assolvessero dai nostri errori, ma perché non sono convinta si possa andar lontano se non si ha rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c’è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su un’idea di libertà — quella ufficialmente celebrata in questo venticinquennale del Muro — così meschina da apparire arretrata persino rispetto alla rivoluzione francese dove almeno era stato aggiunto uguaglianza e fraternità, ormai considerati obiettivi puerili e controproducenti: il mercato, infatti, non li può sopportare.
Non ho molta credibilità nel proporre la creazione di partiti, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con straordinario successo. E tuttavia ora ne vorrei davvero fare uno: il partito dei nonni. Non perché insegnino ai giovani cosa devono fare, per carità, ma perché vorrei che almeno due generazioni uscissero dal mutismo in cui hanno finito per rinchiudersi, intimiditi da rottamatori di destra e di sinistra.
Vorrei che riprendessero la parola, riacquistassero soggettività: per dire che sulla storia di prima del crollo del muro vale la pena di riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie ( a cominciare dalla rivoluzione d’ottobre di cui giustamente Berlinguer disse che aveva perso la sua spinta propulsiva, non che era meglio non farla). Buttare tutto nel cestino significa incenerire ogni velleità di cambiamento, di futuro.
Per finire: da quando è caduto il muro di Berlino ne sono stati eretti altri mille, materiali (Messico/Usa; Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la disuguaglianza globale e i muri europei «a mare» nel Mediterraneo e di terra a Melilla, contro i migranti). Non proprio una festa.
Critiche sensate ai padri di Renzi, ma significativa elusione di un nodo centrale: qual'è il giudizio sul sistema capitalistico, e quale la conseguente strategia? e quali i principi e valori da assumere a fondamento della societa'? Il manifesto, 30 ottobre 2014, con postilla
postilla
Il tema proposto da Della Seta è indubbiamente centrale. La questione del lavoro è certamente decisiva per chi voglia affrontare una lotta seria contro il renzismo e la “emergenza democratica” che esso ha provocato. Così come lo è la questione dell'ambiente. La connessione tra queste due questioni è anzi la chiave di volta per riconnettere quelle che per semplicità chiamero’ la vecchia e la nuova sinistra: quella che abbiamo conosciuto e quella che vogliamo costruire. Ma porre quelle due questioni volendo effettivamente risolvere ( e non mitigare, addolcire, depeggiorare) significa recuperare la tensione che è la ragione stessa del “comunismo”: la tensione, e la prospettiva, del superamento del capitalismo. In particolare del capitalismo di oggi: quello che ha ormai esaurito ogni sua “forza propulsiva” ed è diventato meramente distruttivo. Hic Rhodus, hic salta, caro Roberto Della Seta.
Per chi si pone in questa prospettiva il declino e la definitive sconfitta della sinistra ex PCI inizia forse ben prima della rottura di Occhetto: nasce quando all’interno stesso del PCI la visione di Enrico Berlinguer fu sconfitta, e la grande proposta strategica del “compromesso storico” fu immiserita riducendola al rango di una intesa di potere tra
quel PCI, ormai disideologizzato, e quella DC, opportunamente privata della leadership di Aldo Moro. E forse è anche utile sottolineare - visto che, seguendo Della Seta, abbiamo ricordato la “cosa” di Occhetto - che il primo successore del PCI, il PDS, aveva tra i suoi obiettivi strategici la “riconversione ecologica dell’economia”, che evocava una trasformazione radicale del sistema economico sociale, rapidamente degenerate in “green economy”.
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Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie alle notizie apparse di recente su quasi tutta la stampa nazionale. In questa regione si è resa necessaria una sentenza del TAR per costringere i partiti ad andare alle urne. Loro intenzione era traccheggiare sino al compimento della legislatura, nonostante il governo regionale fosse in crisi da mesi, dopo la condanna in primo grado a 6 anni di carcere, nel marzo di quest'anno, del suo presidente. La fertile fantasia affaristica di questo ceto, che si applica con tanta fervida cura alle sorti delle popolazioni, ha addirittura partorito una revisione della legge elettorale palesemente incostituzionale (una soglia del 15% per i partiti non coalizzati) allo scopo di creare la paralisi istituzionale e continuare a fare nomine, a percepire circa 10 mila euro al mese tra indennità di carica e “spese di esercizio”.
Oggi, alla vigilia delle elezioni che si svolgeranno a novembre, c'è una possibilità di svolta, che potrebbe lanciare un messaggio a tutto il Paese. Il sindaco di Lamezia, Gianni Speranza, che ha governato bene, subendo attacchi ripetuti dalla 'ndrngheta' locale, osteggiato in mille modi dal PD, ha denunciato sul Manifesto del 10/9 l'esistenza del “partito trasversale” che inchioda la Calabria nella regnatela dei suoi piccoli e sordidi traffici. Di questo partito trasversale - non è una novità - è parte costituiva il PD regionale. Nonostante la presenza in esso di cittadini onesti e giovani intraprendenti, il PD non è che un insieme di gruppi notabilari. Solo una forza esterna, libera dalle storiche e sotterranee connivenze, può liberare la Calabria da un ceto politico che letteralmente la opprime e mette ai margini della vita nazionale.
Il manifesto, 18 ottobre 2014
C’è un mondo del non lavoro che comprende oggi otto milioni di persone. Ex-occupati che hanno perso il lavoro, giovani che lo cercano per la prima volta e non lo trovano, donne che, per ristrettezze familiari, lo cercano anche se non più giovanissime.
Lo compongono altrettante persone che non sanno a chi rivolgersi e, quindi, non lo cercano “intensamente” e, perciò, non rientrano tra i disoccupati, ma tra gli “scoraggiati”, categoria di persone prima psicologica ed adesso, finalmente, anche statistica. Lo compongono anche tanti cassintegrati, statisticamente occupati e psicologicamente esclusi, ed i “lavoratori in mobilità”, che popolano quel purgatorio tra un lavoro perduto ed uno che difficilmente troveranno.
Considerando anche loro, quindi, il bacino elettorale si allarga oltre i 15 milioni. Un “mercato elettorale potenziale” di queste dimensioni fa gola a molti ed è terreno di conquista. Una volta si pensava che questo fosse un bacino elettorale “naturalmente” orientato a sinistra e le lotte “per il lavoro e per il sud”, promosse dalla Cgil di Di Vittorio e protrattesi fino agli anni settanta, costituivano il nesso sociale tra disoccupazione, lavoro e sinistra. Ma erano veramente altri tempi. Negli ultimi decenni giovani e disoccupati hanno votato più Forza Italia che sinistra ed adesso, col declino di Berlusconi, questo “mondo del non lavoro allargato” di cui stiamo parlando è elettoralmente “contendibile” da tutti.
Questo lo aveva capito per primo Grillo, diventando la maggiore forza tra i disoccupati, e subito dopo lo ha capito Renzi che, parlando invece che di “piano del lavoro” di jobs act, usando inglese, tweet ed hashtag e martellando sulla fiducia nel futuro, cerca di fare di questo mondo la sua base di massa. In questo tragitto comunicativo, sindacati, sinistra e lavoratori a tempo indeterminato vengono additati come responsabili, difensori di privilegi acquisiti, capri espiatori. Da qui a dire che se i giovani non trovano lavoro è per colpa dell’art.18, il passo è stato breve e scambiare qualche diritto in meno, con la speranza di qualche posto di lavoro in più una conseguenza logica e naturale.
A me sembra che, in questo campo, Renzi abbia una precisa strategia che non è solo comunicativa, ma politica. Renzi ha una sua idea di redistribuzione ed una sua filosofia politica: la globalizzazione e le politiche monetarie dominanti lasciano pochi margini per riforme economiche in grado di ridurre le disuguaglianze; la redistribuzione, perciò, non può essere quella teorizzata dalla sinistra, tra lavoro e capitale, dai ceti ricchi a quelli poveri; essa non può che essere “interna” al mondo del lavoro ed agli strati medio — bassi della società; quindi, niente vecchi arnesi dell’armamentario di sinistra come tassazione dei grandi patrimoni o progressività, ma idee “nuove”.
Redistribuzione dei diritti. Togliere diritti ad alcuni, promettere lavoro ad altri. Che quello che si toglie sia certo e quello che si promette incerto, conta poco perché ci si rivolge a due soggetti ai quali non si toglie niente: agli imprenditori, italiani e soprattutto stranieri, invitati ad investire, ai giovani, invitati a sperare. Ci saranno questi effetti? Molto probabilmente no, ma l’importante è dimostrare che Renzi ci crede e mantenere questo feeling fino alle prossime elezioni, quando questi voti saranno necessari per prendere in mano il paese per cinque-anni-cinque e ridimensionare ogni opposizione interna ed esterna.
Redistribuzione dei redditi. Rientra in questa tipologia, innanzitutto la scelta degli 80 euro che sul piano macroeconomico non ha pagato perché non ha rilanciato la domanda, ma su quello elettorale sì. Che poi essa venga coperta con minori servizi e maggiori tasse locali conta poco. I “beneficiari” sono identificabili e sono stati in buona parte grati. I “sacrificati” sono molti di più, ma sono sparpagliati. Tra loro ci sono anche i beneficiari, ma essi non hanno potuto cogliere la relazione tra soldi che entravano e soldi che uscivano ed anzi sono stati indotti a pensare che quelli che entravano sono merito di Renzi, quelli che uscivano, dopo, a rate e per tasse dai nomi mutevoli, sono colpa degli amministratori locali, spreconi ed inefficienti. Colpa della politica. Quindi bene ha fatto il nostro ad eliminare gli eletti al senato ed alle province.
In questa stessa tipologia di redistribuzione “interna”, di una sorta di partita di giro, rientra l’idea di colpire i redditi alti, ma fermandosi ai redditi da lavoro o da pensione e non spingendosi certo a quelli da profitto o da rendita. Questa idea è stata affacciata e poi ritirata, è scritta nel libro sacro di Gutgeld (pensato con Renzi), potrà essere riproposta, ma intanto ha lasciato il segno: Renzi vuole colpire in alto (naturalmente non tanto in alto da colpire grandi redditi e grandi patrimoni), ma incontra resistenze.
Può rientrare qui anche l’idea, più recente, di anticipare l’utilizzo del Tfr. Qui siamo in una nuova categoria di redistribuzione: quella tra presente e futuro. Al primo no degli industriali, questa idea, è stata ridimensionata, ma poco importa: Renzi ha comunque segnato un altro punto a suo favore dimostrando che pur di fare aumentare la domanda se ne inventa una al giorno, perlomeno è in buona fede, ci crede, quindi, facciamolo lavorare. Fermiamoci qui.
L’operazione è risultata finora vincente perché al disagio sociale di cui abbiamo parlato si offrono due messaggi efficaci: ce la sto mettendo tutta e ci credo, stiamo pagando gli abusi di ieri, quindi, i “privilegiati” debbono pagare. Ma chi sono i privilegiati? In una società in crisi, individualizzata e frantumata, terribilmente impoverita sul piano culturale, diventano quelli più vicini a noi. Chi ha un lavoro è privilegiato per chi non lo ha, chi lo ha fisso è privilegiato per chi è precario, chi guadagna duemila euro lo è per chi ne guadagna mille. E gli altri? I ricchi veri?
Quelli sono lontani e non si vedono. Nella colonna sociale che non marcia più in avanti, si guarda al vicino con invidia. E se non si riesce più a vedere in chi sta molto più avanti il soggetto al quale togliere qualcosa per darlo a chi sta soffrendo, viene naturale guardare a chi ci sta accanto. E così dalla lotta di classe si scade nell’invidiadentro la classe.
Dobbiamo a un valente demografo, Massimo Livi Bacci, una circostanziata analisi della questione giovanile in Italia alla vigilia della Grande Recessione (Avanti giovani alla riscossa, Il Mulino, 2008). Lo studioso mostrava come la fascia di popolazione tra i 15 e 30 anni viveva una condizione di emarginazione sociale che la distingueva tra i Paesi dell'Europa a 15. I giovani italiani, ad esempio, dipendevano per il 50% dal reddito della famiglie, contro il 30% della media europea. Gli adulti in Italia guadagnavano in media 2,8 volte il reddito dei giovani, contro 2,5 volte in Francia, 1,9 volte in Germania. Ma in generale i nostri ragazzi risultavano più indietro nel completamento degli studi, nel trovare occupazione, metter su casa, formare una propria famiglia. In sintesi, il grado di autonomia, la capacità di emancipazione e di libertà individuale della gioventù italiana apparivano inferiori a quella di gran parte dei coetanei europei per quasi tutti gli indici presi in esame. E quell'analisi non scendeva alla più basse fasce d'età. A metà anni '90 i bambini italiani sotto la linea mediana ufficiale della povertà rappresentavano il 21,3% del totale, terzi dopo USA (26,3%) e Russia(21,3) (The Dynamics of Child poverty in industrialised Countries, Cambridge 2001). Un piazzamento davvero onerevole.
Ricordo questi dati – cui sono seguite e continuano a seguire altre importanti ricerche come il Rapporto dell'Istituto G.Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino 2013 – per sventare in anticipo una manipolazione consueta della realtà: quella di rappresentare un grave problema strutturale come esito transitorio della “crisi”degli ultimi anni. E' evidente invece che la condizione di emarginazione della nostra gioventù precede la crisi, è l'esito aggravato di un corso politico che dura da decenni, alla cui base c'è la sempre più dispiegata disoccupazione e la precarizzazione del lavoro. Alla falange dei giovani che negli ultimi decenni accedevano alle prime occupazioni si è parato dinanzi una crescente mancanza di sbocchi e la strada stretta di una legislazione sempre più svantaggiosa ed emarginante. Sicchè non stupisce se la disoccupazione giovanile tocca oggi il picco del 44%, mentre il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi formazione (Neet) hanno raggiunto il primato europeo del 22,25%. Con la crisi la divaricazione generazionale è solo aumentata: gli over 65 sono diventati più ricchi, quelli sotto i 40 ancora più poveri.
Forse però questi dati non dicono ancora la grande novità storica: la classe dirigente anziana che detiene il potere da anni sta muovendo una vera e propria lotta di classe contro la gioventù del nostro Paese. Padri e nonni ricchi contro figli e nipoti poveri. Essa surroga sempre più il welfare con la famiglia, i diritti universali con il familismo. Ovviamente quando la famiglia non si trova in condizioni di povertà. Lo fa con gli strumenti del governo, attraverso il ceto politico, e direttamente nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi di lavoro privati. Pochi dati da aggiungere a quelli più noti, inflitti dalla “legislazione di guerra” messa in atto dall'ultimo governo Berlusconi-Tremonti (allungamento dell'età pensionabile, tagli lineari alla scuola e all'Università) e poi proseguita dal dicastero Monti, dal governo Letta e ora estesa con furia novatrice dall'esecutivo di Renzi.
Dovrebbe dunque essere chiara l'enormità economica, politica, umana della questione giovanile in Italia, articolazione generazionale della disuguaglianza strutturale creata dalle pratiche neoliberistiche in tutto il mondo. Almeno due generazioni stanno letteralmente andando perdute, consumeranno la loro gioventù tra lavori intermittenti, disoccupazione, attese, frustrazioni, scarso reddito, impossibilità di progettare alcunché. Il declino dell'Italia si identifica esattamente con la condizione dei suoi giovani. Il nostro Paese sta rinunciando, per balorda miopia, grettezza, illimitata mediocrità delle sue classi dirigenti, all'energia vitale, alla creatività, capacità di lavoro e di progetto della sua scarsa riserva demografica. Scarsa, perché i giovani sono una minoranza: poco più di 10 milioni tra i 20 e i 34 anni al censimento del 2011, a fronte di quasi 49 milioni e mezzo del totale. Tutto questo mentre ci assorda la retorica sulla necessità della competizione, della valorizzazione del “capitale umano”, sulla crescita, e le altre fuffe che la miserabile cultura capitalistica dei nostri anni riesce a elaborare.
Ora, io credo che la questione giovanile costituisca una straordinaria occasione politica per la sinistra. Alle retoriche del governo e sue adiacenze si può contrapporre un vero e proprio programma per la gioventù, quale parte di un progetto per l'intero paese. La prospettazione di una serie di obiettivi che possano mobilitare il consenso e anche l'entusiasmo giovanile, oggi sommerso sotto una montagna di delusioni e rancore. Non si tratta solo di rivendicare il reddito minimo di base, che comporta rilevanti impegni di spesa, ma anche di puntare a iniziative legislative “minori”, che possano ricreare un clima di fiducia tra la politica – che è cosa diversa dalla propaganda elettorale – e le nuove generazioni.
Sbilanciamoci.info, 7 ottobre 2014
Neppure un'incorreggibile gufa come me avrebbe immaginato che Matteo Renzi avrebbe cercato di portare velocemente il Pd verso una mutazione genetica, anche se covava da tempo, forse da quando Achille Occhetto, in qualità di segretario, aveva chiesto il beneficio di inventario nel richiamarsi non alla presa del palazzo d'inverno del 1917, ma alla rivoluzione francese del 1789. La Costituente sì, la Convenzione no. Viva l'abate Sieyès, abbasso Robespierre. Ma sulla Dichiarazione dei diritti erano stati d'accordo tutti, ed è quella che i socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni hanno portato dentro la fabbrica con lo Statuto dei lavoratori.
Già era stato stupefacente per me che di tutta la direzione del Pd soltanto D'Alema e Bersani hanno dichiarato di non essere d'accordo con l'abolizione dell'articolo 18 e il contratto unico, cosiddetto a tutele crescenti, che costringerebbe ogni nuovo occupato a tre anni di precariato prima di essere regolarmente assunto (e va a vedere se la creatività degli imprenditori italiani non troverà qualche marchingegno per far apparire "nuovo e primo” ogni tipo di contratto), in modo da far transitare tutta la manodopera da un apprendistato a un altro.
Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice, nel caso della risoluzione di un punto delicato come un conflitto di lavoro, piuttosto che a un arbitrato consegnato alla parte sociale dominante? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?
La verità è che forse il Jobs Act va letto, suggeriva maliziosamente ieri Melania Mazzucco, come l'acronimo di "jump our business", avanti subito con i nostri affari, ora che l'intralcio di un diritto dei dipendenti è stato gentilmente tolto di mezzo da quel che restava del Pci. Forse Renzi coglierà l'occasione per dichiarare, come già Veltroni, "Non sono stato comunista mai". Eppure lo zoccolo duro del Pci, la base confluita nelle sue successive trasformazioni, è stata sempre costituita da gente che lavorava sotto padrone. Passata al Pd come i suoi dirigenti, aveva ragionevolmente creduto che colui che spediva a Palazzo Chigi l'avrebbe difesa. Quando ha cominciato a dubitarne, il partito si è andato liquefacendo. Oggi lo vediamo, il famoso 40 per cento degli elettori per l'Europa sono un milione in meno di coloro che votarono Veltroni nel 2008, per non parlare di Berlinguer.
Il manifesto, 12 ottobre 2014
Insomma, è proprio il caso di dirlo: molto rumore per nulla.
Dopo lo scontro sulla «riforma» del Senato, ora di nuovo, sul lavoro, la minoranza Pd inghiotte il rospo. La sinistra interna (3 eccezioni su 26 confermano la regola) si è piegata al ricatto della fiducia. Come se un ricatto costituisse un alibi, come se la debolezza fosse una ragione. Ma se lo scorso agosto si trattò forse di un imprevisto, adesso siamo a un copione sperimentato, del resto conforme alla sortita di Bersani di qualche giorno fa. L’avviso sulla lealtà alla «ditta» – peraltro ribadito anche da ultimo – non fu dunque una voce dal sen fuggita, ma il previdente annuncio di quanto era già intuito, assunto, metabolizzato.
È stata una scelta grave in un passaggio strategico. Renzi ha aperto la guerra interna nel Pd su materie cruciali. La modifica della Camera Alta stravolge l’architettura costituzionale e mina alle fondamenta la rappresentanza democratica, alterando la natura dello Stato. L’attacco ai diritti essenziali del lavoro subordinato colpisce il cardine della Repubblica antifascista, oltre che la ragion d’essere di una sinistra che possa legittimamente dirsi tale. Non si tratta di scelte improvvisate, e non è casuale che su questi terreni il «capo del governo» abbia deciso di giocarsi la partita. Sfondando sulla divisione dei poteri e sui diritti del lavoro, mortificando il dissenso e sfottendo le organizzazioni sindacali, Renzi intende mostrarsi in grado di guidare il «cambiamento»: di svuotare la Costituzione del ’48 e di varare una nuova forma di governo funzionale alla sovranità del capitale privato.
Solo chi avesse perso qualsiasi capacità di giudizio potrebbe sottovalutare la gravità di quanto accade. Nel giro di pochi mesi viene prendendo vita un regime autoritario nel quale il capo della fazione prevalente potrà controllare tutti gli snodi della decisione politica. E si viene regredendo verso un’oligarchia neofeudale in cui il lavoro è senza garanzie, precarizzato nella radice del rapporto contrattuale, quindi ricattabile in ogni momento e destinato a salari sempre più bassi. Nemmeno manca, per i palati più esigenti, il grazioso sarcasmo delle «tutele crescenti».
In tale scenario non incombe sui parlamentari democratici alcun vincolo politico o morale di lealtà verso il partito e il gruppo, né, tanto meno, verso l’esecutivo.
Non solo perché – anche grazie alla comprovata obbedienza dei dissidenti – il Pd è diventato un partito personale, comandato col ricatto, il dileggio, l’insulto. Non solo perché ogni vincolo viene meno quando sono travolti principi fondamentali della Carta e perché, chiedendo la fiducia su una delega in bianco («indefinita e sfuggente nei criteri», nota la Cgil), il governo ha violato la Costituzione (e di ciò il presidente della Repubblica dovrebbe tener conto, invece di lasciarsi andare a impropri apprezzamenti del Jobs Act). Ciascun parlamentare del Pd ha il diritto e il dovere di decidere in piena autonomia anche perché il governo procede rovesciando di sana pianta il programma in base al quale i parlamentari democratici sono stati eletti. Un tale governo non va preservato. Va contrastato e fatto cadere al più presto, impegnandosi affinché il paese imbocchi la strada della riscossa democratica.
Dire, com’è stato detto, che negare la fiducia sarebbe stato «irresponsabile» perché la scelta sarebbe tra Renzi e la Troika è soltanto un modo per nascondere la realtà. Non solo questo governo si attiene in toto ai dettami di Washington, Bruxelles e Francoforte (o qualcuno si meraviglia per la soddisfazione di Draghi e della Merkel?). Lo fa, per di più, impedendo alla gente di capire e di sottrarsi alla morsa del nuovo regime che soffoca il paese. Se una politica di destra è fatta da un partito che si dichiara, almeno in parte, di sinistra, che senso hanno ancora queste vetuste parole, e come si può pensare di poter cambiare rotta?
Ma allora perché, ancora una volta, questo cedimento, che, come ognuno vede, demolisce la credibilità della sinistra democratica? Perché questa obbedienza che rischia di ridurre il dissenso interno a una farsa; che induce a parlare di tradimento del mandato parlamentare (questo ha detto in sostanza il senatore Tocci intervenendo in aula); che rende la minoranza complice del nuovo padrone del Pd, al quale non solo è offerta una preziosa sanzione di onnipotenza (delle sue sprezzanti risposte alle timide richieste di modifica della delega resterà memoria), ma è anche concessa gratis l’opportunità di esibire, quando serve, una patente contraffatta di sinistra? Si può tergiversare e predicare cautela, pur di sottrarsi al giudizio. Si può tacere, augurandosi di limitare il danno o di propiziare sviluppi positivi. Ci si illude. Da sé le cose non cambieranno certo in meglio. Noi stiamo piuttosto con il segretario generale della Fiom che arrischia un giudizio durissimo (votare la fiducia serve a «difendere le poltrone») e ne trae le dovute conclusioni («di un parlamento così non sappiamo che farci»).
Nondimeno, siamo tra i testardi che pensano che in politica non si è mai all’ultima spiaggia e che nessun frangente, per quanto grave, è irreparabile e definitivo. Anche in questo caso, nonostante tutto, staremo a vedere come andrà avanti questa storia e come si concluderà. Sentiamo che alcuni dissidenti saranno il piazza con la Cgil il 25 ottobre. E che un esponente della minoranza del Pd, l’onorevole D’Attorre, annuncia battaglia sul Jobs Act alla Camera, definendo «inaccettabile» che anche in quella sede il governo ponga la fiducia. Ne prendiamo atto. Osservando che, se le parole hanno ancora un valore, queste equivalgono a promettere che, in tale non improbabile evenienza, la sinistra del Pd arriverà finalmente a quella rottura che non ha sin qui nemmeno ventilato. Vedremo.
Intanto resta che viviamo giorni cupi, gravidi di pericoli, forieri di nuove violenze e di più gravi ingiustizie. Giorni che gettano nuove inquietanti ombre sul futuro di questa Repubblica.
L’accelerazione impressa da Matteo Renzi nel suo “semestre europeo” lascia sul terreno cumuli di macerie (a cominciare da quelle del suo partito). E apre almeno tre grandi questioni, clamorosamente evidenti in questi giorni solo a volerle vedere: una questione istituzionale, annunciatasi fin dalla battaglia d’estate sul (e contro il) Senato. Una “nuova” questione sociale: nuova perché si poteva pensare che già col governo Monti si fosse arrivati a mordere sull’osso del mondo del lavoro, e invece ora si affondano i colpi ben sotto la cintura. Infine una grave questione democratica, resa drammatica dall’intrecciarsi delle prime due, e dal ruolo che la crisi gioca nel dettarne modi e tempi di sviluppo.
Renzi – nonostante le retoriche che ne accompagnano e potremmo dire ne costituiscono l’azione – non rappresenta una possibile soluzione della crisi economica e sociale italiana. Non ha né la forza (nei rapporti inter-europei) né le idee per aprire anche solo uno spiraglio. Ma condensa in sé – nella propria stessa persona, nel proprio linguaggio e nei propri comportamenti quotidiani, oltre che nelle misure che impone – il modo con cui la crisi lavora. E’, si potrebbe dire, il lavoro della crisi tradotto in politica: ne converte in pratica di governo tutto il potenziale destabilizzante. Ne accompagna e ne garantisce lo sfondamento dei residui livelli di resistenza e di ostacolo al libero dispiegarsi del potere del denaro da parte di ciò che resta dei corpi sociali e delle loro consolidate tutele. Ne conduce a compimento la liquidazione dei patti che avevano costituito il tessuto connettivo della “vecchia” società industriale, e delle culture che ne avevano accompagnato sviluppo e conflitto.
In questo senso Renzi non è l’alternativa all’intervento “d’ufficio” della Troika, un male minore rispetto a quello toccato alla “povera Grecia” che ha dovuto subire i tre Commissari-guardiani. Renzi è la Troika, interiorizzata. E’ la forma con cui l’Europa dell’Austerità e del Rigore governa il nostro Paese. Nell’unico modo possibile nelle condizioni date: con una formidabile pressione dall’esterno, e con un’altrettanto forte carica di populismo all’interno. Se li si leggono con un po’ d’attenzione si vedrà che i punti del suo programma, imposti con stile gladiatorio e passo di corsa a un mondo politico attonito, ricalcano fedelmente il famigerato Memorandum che ha prodotto la morte sociale della Grecia: privatizzazioni con la motivazione di far cassa, in realtà per metter sul mercato tutto ciò che può costituire un buon affare; abbattimento delle garanzie e del potere contrattuale del lavoro in nome dei “diritti dell’impresa”; ridimensionamento del pubblico impiego in termini di spesa e di occupazione; rimozione degli ostacoli alla rapidità decisionale da parte delle forme tradizionali della rappresentanza politica e sociale.
Se collocati in questo quadro si spiegano, allora, quelli che altrimenti sembrerebbero solo una sequela di strappi, forzature, ostentazioni di arroganza, maleducazione, guasconeria e improvvisazione (che pure non manca). E’ evidente infatti che un simile progetto non può essere messo in atto con mezzi “ordinari”. Richiede un’eccezionalità emergenziale, sia per quanto riguarda lo sfondamento dell’assetto costituzionale: e a questo è servito l’auto da fé in diretta di uno dei simboli della democrazia rappresentativa, la “camera alta”. Sia per quanto attiene al livello simbolico: ed è quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi con l’umiliazione ostentata del movimento sindacale e del mondo del lavoro. Perché se maramaldeggiare con i brandelli residui dell’articolo 18 e con ciò che resta dello Statuto dei lavoratori non porterà un solo posto di lavoro, come è chiaro pressoché a tutti, è pur vero che la celebrazione del sacrificio spettacolare, in piena piazza mediatica, secondo i vecchi riti dell’ordalia, continua ad avere un effetto simbolico straordinario. Tanto più se la vittima sacrificale – l’homo sacer direbbe Agamben -, è uno dei protagonisti centrali del nostro passato prossimo come, appunto, il lavoro nella forma politico-sociale del movimento dei lavoratori.
Imporne la degradazione pubblica. Liquidarlo in otto minuti d’introduzione e un’oretta di udienza. Abbattere anche le residue garanzie perché, come ho sentito dire autorevolmente, occorre liberare gli imprenditori dall’ ”arbitrio di un giudice” (sic!), significa nell’immaginario collettivo rovesciare il mondo. Riscrivere l’articolo uno della Costituzione affermando che “L’Italia è un’oligarchia plebiscitaria fondata sull’impresa” e, al secondo comma, che “la sovranità appartiene ai mercati, i quali l’esercitano in modi e forme discrezionali, senza limiti di legge”. Ha ragione Susanna Camusso nell’affermare che l’unica cosa che interessa al premier è presentarsi all’Europa degli affari con lo scalpo dei lavoratori in mano. Con un’aggiunta: che Renzi quello scalpo lo vuole usare anche nei confronti dei suoi, e di un elettorato frantumato, impoverito, rancoroso per le umiliazioni subìte spesso senza trovare adeguata difesa da parte dei propri rappresentanti politici e sindacali, da catturare con l’immagine forte di una vittoria sacrificale.
Per questo dico – e sono consapevole del peso delle parole – che siamo in presenza di una “emergenza democratica”. Non solo perché il “renzismo” ha già cambiato il DNA del suo partito d’origine, trasformandolo in un ectoplasma risucchiato in alto, tra le mura di Palazzo Chigi, e avviandosi verso quello che a ragione è stato definito il “partito unico del Premier”. Non solo perché, parallelamente, ha ridotto un Parlamento amputato a ufficio di segreteria del Governo, chiamato a firmarne le carte (come si è visto ieri), mentre col patto del Nazareno ha definitivamente omologato l’antropologia politica, rendendo pressoché indistinguibili quelle che un tempo erano state “due Italie” eticamente e culturalmente diverse e ampliando così, d’incanto, il serbatoio di voti a cui attingere. Ma soprattutto perché con Renzi si conclude una vera e propria mutazione genetica del nostro sistema politico e istituzionale, con la verticalizzazione brutale di tutti i processi, concentrati nella figura apicale del Premier; la riconduzione del potere Legislativo non solo “sotto”, ma “dentro” il potere Esecutivo, come sua appendice secondaria; la tendenziale liquidazione dei corpi intermedi – la “società di mezzo”, come la chiama De Rita, comprendente le variegate forme di aggregazione e di rappresentanza sociale -, che potrebbero fare da ostacolo al rapporto diretto del Capo col “suo” Popolo, fascinato (“sciamanizzato”) retoricamente secondo la classica immagine del Demagogo. Con la pessima tecnica di convertire la disperazione in speranza mediante espedienti verbali e l’evocazione del “miracolo”. Una forma di plebiscitarismo dell’illusione, che lascia tutti i problemi irrisolti, ma che premia enormemente in termini di potere personale.
Ora se questo è vero, o anche solo in parte condiviso, quello che s’impone, d’urgenza, è non solo un’opposizione convinta e intransigente sui singoli provvedimenti (che è condizione necessaria, anche se non sufficiente) ma, al di là di ciò, la costruzione di una proposta ampia – politica, sociale, culturale, morale – in grado di contrastare questo processo all’altezza della sfida che lancia. Un fronte articolato, imperniato sui diritti e sul lavoro, capace di radunare tutto ciò che ancora nello spazio rarefatto della politica “resiste” ma soprattutto in grado di mobilitare forze nuove, oggi disperse, con linguaggi, idee, forme organizzative innovative e aperte. Di fare e conquistare opinione e impegno.
Lo dico con molto rispetto per posizioni che so vicine a questo sentire, come quella espressa sul manifesto da Airaudo e Marcon: se ci limitassimo ad assemblare semplici pezzi di classe politica - ciò che resta della sinistra politica “che non si arrende”, i “refrattari” dell’arena parlamentare o delle sue immediate vicinanze -, se pensassimo che il “renzismo” si arresta mobilitando per linee interne la cosiddetta “minoranza” del Pd (alla cui patetica prova abbiamo assistito ieri) saldata a ciò che rimane del tradizionale e ormai cancellato “centro-sinistra” proponendone una nuova piccola casa, temo che non andremmo molti avanti. E anzi, forniremmo a Matteo Renzi un bersaglio perfetto contro cui sparare a palle incatenate, nominandosi campione del nuovo contro tutto ciò che sa di “residuo”.
Serve al contrario, a mio avviso, sfidarlo sul terreno alto dell’alternativa a tutto campo, italiana ma in un quadro a dimensione europea (perché è pur sempre lì che si gioca la partita che conta), dello stile politico e dell’egemonia culturale. Un processo inclusivo di tutti, senza esami del DNA, aperto, innovativo, in grado di riportare dentro quella ampia sinistra diffusa che sta fuori dalla sempre più ristretta sinistra politica. La “chimica” della lista L’altra Europa con Tsipras ha, in qualche modo, anticipato questo approccio (anche nel suo respiro europeo) e costituito un primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida: il suo milione e centomila elettori può esserne un nucleo iniziale, non l’intero corpo. Ma credo che sia su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre. Altre ne verranno.
Il manifesto, 6 ottobre 2014, con postilla
L’editoriale di Norma Rangeri (il manifesto del 5 ottobre) merita una riflessione a partire dalle “parole” che definiscono il campo politico: la destra e la sinistra nel nuovo secolo. Rangeri parte dalla constatazione di una sinistra da troppi anni terribilmente divisa, litigiosa, autodistruttiva, e auspica la nascita di una «sinistra dei diritti». Soprattutto, mette il dito sul «furto di parole» che contano come «libertà» e «cambiamento», rubate da Berlusconi, la prima, da Renzi la seconda. Ne aggiungerei un’altra rubata dal Pd di Renzi, complice l’ex-Cavaliere: la sinistra.
Ripartirei da qui: dal senso delle parole che nel campo della politica, come lo definiva Bourdieu, contano come pietre, almeno quanto in un campionato di calcio contano i gol. Per questo vale lo sforzo di provare a storicizzare la metamorfosi del linguaggio e delle categorie politiche dell’ultimo trentennio.
C’era una volta una netta distinzione tra i militanti e gli elettori della destra e della sinistra. I primi si potevano identificare facilmente con i conservatori, i secondi con i progressisti. Essere conservatori significava difendere lo status quo, l’ordine sociale e gerarchico esistente, credere in determinati valori quali religione-patria-famiglia, e quindi battersi per la conservazione delle forme sociali, economiche e politiche ereditate, a partire dalla sacralità della proprietà privata. Essere progressisti significava volere il cambiamento dell’ordine sociale, mettere in discussione i privilegi, le forme alienanti della religione, le superstizioni e le forme arcaiche delle culture locali, promuovere il progresso e la modernizzazione della società, della cultura, delle istituzioni.
Cambiamento-Progresso-Modernizzazione: queste sono state per più di un secolo le parole chiave delle forze politiche della Sinistra. Costituivano i pilastri di una visione positivistica della storia umana, che aveva iscritto nel suo codice genetico un lieto fine: la liberazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’umanità, grazie al progresso tecnologico, si sarebbe liberata dalla schiavitù del lavoro legata al bisogno, così come era avvenuto per il lavoro dei servi e degli schiavi nelle società premoderne. Questo scenario, in cui si combinavano e marciavano insieme le conquiste di nuovi diritti per i lavoratori e per le fasce più deboli della società (welfare State), la crescita economica ed il progresso tecnologico si è spezzato, prima sul piano culturale e poi politico, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Si è verificata una “catastrofe”, nell’accezione di René Thom, vale a dire una biforcazione tra forze che si intrecciavano lungo una linea ascendente e che adesso procedono per linee divergenti.
Un primo elemento forte di rottura, all’interno della sinistra europea, è nato con la questione delle centrali nucleari: per la sinistra “storica” rappresentavano una risposta progressista al fabbisogno di energia per lo sviluppo economico; per la sinistra “alternativa” – movimenti pacifisti, ambientalisti, ecc. – le centrali nucleari erano solo il bisogno drogato di un modello di sviluppo energivoro e pericoloso che andava radicalmente cambiato. Quasi contemporaneamente nasceva, nell’area della sinistra “alternativa”, una opposizione all’espansione dell’agricoltura industriale (fino alla contestazione dei primi esperimenti di Ogm), agli ipermercati e alla cementificazione indiscriminata, per finire con la contestazione di alcune Grandi Opere che si andavano progettando. Nasceva un’idea di “locale” come opposizione ai processi di globalizzazione capitalistica, di tradizioni e identità da recuperare (una volta appannaggio della destra storica), di una alternativa alla stessa categoria dello “sviluppo”, come fine dell’agire sociale. In breve: l’equazione progresso/tecnologia/modernizzazione/progresso dell’umanità, era saltata.
Nel corso degli anni ’90 e del primo decennio del nuovo secolo questa spaccatura all’interno della sinistra politica è diventata sempre più profonda, mentre sul campo avverso nasceva una nuova destra neoliberista che si appropriava delle parole “cambiamento”, “progresso”, e persino “rivoluzione” (nei confronti dello Stato burocratico e dei lacci e lacciuoli prodotti dai diritti dei lavoratori). Scioccata dalla vergognosa e rovinosa caduta dei paesi “socialisti”, la sinistra storica tentava di inseguire i processi di modernizzazione capitalistica diventando più realista del re. Le leggi di mercato e la crescita economica, senza se e senza ma, erano diventate le nuove stelle polari, il terreno su cui sfidare la nuova destra.
Questi veloci cambiamenti nel linguaggio come nelle categorie politiche, qui sinteticamente riassunti, hanno portato alla formazione di un Pensiero Unico da cui è difficile uscirne. Allo stesso tempo, il modo di produzione capitalistico si è profondamente trasformato, sia attraverso una torsione finanziaria (il Finanzcapitalismo, secondo la felice definizione di Luciano Gallino), sia attraverso l’adozione di tecnologie sempre più invasive e distruttive rispetto all’ecosistema.
Se tutto questo è vero, allora è facile capire perché oggi, soprattutto tra le nuove generazioni, destra e sinistra sono parole vuote, o se volete contenitori usa e getta. Parlare di “nuovo soggetto politico della sinistra” è un’espressione che parla solo agli addetti ai lavori o alla generazione che ha vissuto le lotte degli anni ’60 e ’70. Intanto, questa ossessione del “nuovo”, come valore in sé, fa parte della stessa ideologia del sistema in cui viviamo e in cui ogni giorno la pubblicità ci mostra un nuovo prodotto. Così come “cambiamento”, la parola più usata da Renzi (e una volta dalle forze della sinistra) è una parola priva di senso. Il mondo cambia comunque perché la vita è divenire di per sé. Bisognerebbe eliminarla dal vocabolario politico o specificare quale cambiamento si vuole produrre.
Piuttosto ci sarebbe da domandarsi come è possibile che un sistema economico-politico fallimentare, che crea povertà crescenti nell’era dell’abbondanza delle merci e delle tecnologie, che crea insicurezza economica e sociale nella maggioranza della popolazione, non venga rovesciato. Come possiamo ricreare un legame sociale e culturale tra milioni di persone, ridotte a individui, che lottano o resistono solo rispetto a una specifica situazione (condizioni di precarietà, licenziamenti, ecc.), ma sono incapaci di mettersi insieme, di essere solidali con chi vive nelle stesse condizioni.
Un esempio tra i tanti: la chiusura della Fiat di Termini Imerese, con cinquemila famiglie sul lastrico, non ha suscitato la solidarietà della società siciliana, a partire dai circa ottomila precari (Lsu, Lpu) che ogni tanto scendono in piazza per i fatti loro. Le parole della Thatcher , alla fine del secolo scorso, suonano come una funesta profezia: «La società non esiste, esistono solo gli individui».
Gramsci scriveva dal carcere che il Mezzogiorno appare come una «grande disgregazione sociale», oggi è tutta l’Italia a trovarsi in questa condizione. Per questo penso che non esista una via di uscita solo pensando al “soggetto politico”, che poi dovrà confrontarsi con un mercato elettorale dove impera ormai un duopolio, in Italia come negli Usa, dove il controllo dei mass media è determinante. Abbiamo invece urgente bisogno di una grande tessitura sociale e culturale e di parole in grado di costruire la visione del futuro desiderabile e credibile. A questo impegno siamo chiamati in tanti, anche chi si è allontanato dalla politica.
postilla
Proprio sabato prossimo, l'11 ottobre, se ne discuterà a Firenze, alla Libera univerità Ipazia, al Giardino dei ciliegi, via dell'Agnolo 8. Qui il link alla locandina