loader
menu
© 2024 Eddyburg

«

Ciò di cui più abbiamo biso­gno è pro­durre nuovi punti di vista, non arren­derci al pre­sente, riu­scire ad incri­nare l’unica nar­ra­zione rimasta.

La sini­stra è morta se non rie­sce ad imma­gi­nare il cam­bia­mento, ad inter­pre­tare non solo un gene­rico e dif­fuso males­sere, ma a pro­spet­tare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pen­siero cri­tico ha per­duto la sua radi­ca­lità, schiac­ciata dal peso del pre­sente. I diritti arre­trano, le nostre forze sce­mano. Se siamo giunti sin qui è inu­tile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo inter­pre­tare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è ser­vito a nulla, nulla abbiamo difeso.

Ora, che poco abbiamo da per­dere, dovremmo cer­care di uscire dalla palude, per misu­rarci con le nostre idee e non più solo con la razio­na­lità del reale. Dovremmo ripren­dere seria­mente in con­si­de­ra­zione la distin­zione tra stra­te­gia e tat­tica (la dop­piezza togliat­tiana?). La prima per la rico­stru­zione di una pro­spet­tiva di sini­stra che sap­pia aggre­gare le forze poli­ti­che e i sog­getti sociali neces­sari per il cam­bia­mento futuro; la seconda per resi­stere e per con­tra­stare la poli­tica dominante.

La mia impres­sione è che una grande colpa della sini­stra sia stata quella di non cre­dere in se stessa, nella sua capa­cità di cam­biare. Gran parte di essa (la sini­stra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lot­tare, sod­di­sfatta delle con­qui­ste otte­nute nel corso del Nove­cento, si è limi­tata a gover­nare il pre­sente, cer­cando — ben che fosse — di osta­co­lare gli spi­riti più sel­vaggi, fre­nare gli arre­tra­menti più vistosi. Alla fine, però, ha per­duto se stessa. Rinun­ciando a pro­durre una sua nar­ra­zione, non poteva che venir attratta fatal­mente dal potere costi­tuito, dalla forze dominati.

Una giu­sti­fi­ca­zione è stata data per moti­vare que­sto chiu­dersi nei palazzi della sini­stra di governo, richia­mando una auto­re­vole e tutt’altro che banale tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale ita­liana: l’autonomia della poli­tica come stru­mento per imporre il cam­bia­mento. Se non lo strappo rivo­lu­zio­na­rio, almeno le ragione del pro­gresso si sareb­bero potute affer­mare den­tro le isti­tu­zioni per poi con­qui­stare una società che non sem­pre dà prova di civiltà o di essere in sin­to­nia con i prin­cipi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dun­que che si potesse «costruire» il popolo attra­verso la poli­tica dall’alto, l’intermediazione del lea­der. Lasciamo per­dere la discus­sione teo­rica, che coin­vol­ge­rebbe figure che hanno fatto la sto­ria della sini­stra del nostro paese (da Anto­nio Gram­sci a Mario Tronti) e che oggi tro­vano peral­tro nuove con­so­nanze (Erne­sto Laclau, Chan­tal Mouffe); limi­tia­moci a rile­vare quel che è stato l’effetto sul piano più stret­ta­mente poli­tico. La defi­ni­tiva cesura tra popolo e suoi rap­pre­sen­tanti.

Uno iato che si è sem­pre più esteso e che dimo­stra la mio­pia — il fal­li­mento — della classe diri­gente della sini­stra. Dimen­ti­chi di una vec­chia lezione della sto­ria: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vin­cono gli inte­ressi costi­tuiti. Se non si voleva ricor­dare Peri­cle, sarebbe stato suf­fi­ciente non dimen­ti­care Berlinguer.

Per chi si pro­po­neva di tra­sfor­mare il reale, è stato que­sto l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme pro­mosse dalla sini­stra hanno finito per peg­gio­rare le con­di­zioni del suo popolo, men­tre la crisi eco­no­mica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci pre­vale sulla tutela dei diritti fon­da­men­tali. In Ita­lia, ma non solo.

Il popolo della sini­stra nel frat­tempo s’è sper­duto, guarda altrove o non guarda più da nes­suna parte. È rima­sto solo il lea­der che pensa alla nazione, riflet­tendo su se stesso, sulla pro­pria imma­gine, come allo spec­chio.

Chi, nono­stante tutto, ha con­ser­vato uno spi­rito cri­tico ha pro­vato a rea­gire. Ha otte­nuto impor­tanti suc­cessi (il refe­ren­dum sull’acqua, quello sulle riforme costi­tu­zio­nali), ha com­bat­tuto con intran­si­genza (no Tav), ha matu­rato espe­rienze cul­tu­rali di rot­tura (i beni comuni). Tutte espe­rienze che hanno incon­trato però un limite: tutte hanno sot­to­va­lu­tato la que­stione della neces­sità di una rap­pre­sen­tanza poli­tica. Rima­nendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lon­tane dalla poli­tica isti­tu­zio­nale, le lotte più inno­va­tive e di rot­tura non sono riu­scite a ren­dersi ege­moni, anzi alla lunga hanno mostrato le pro­prie debo­lezze. Le vit­to­rie refe­ren­da­rie sono state pre­sto dimen­ti­cate e non hanno tro­vato un neces­sa­rio seguito isti­tu­zio­nale, le espe­rienze locali sono rima­ste tali e alla fine si con­dan­nano all’esaurimento.

Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movi­menti la que­stione del rap­porto con il «potere» e la neces­sità della media­zione isti­tu­zio­nale delle lotte sociali. Ter­reno sci­vo­loso, non gra­dito a chi nella lotta esau­ri­sce il pro­prio oriz­zonte pole­mico. Anche in que­sto caso si è attinto a piene mani ad una tra­di­zione poli­tica e cul­tu­rale che ha attra­ver­sato l’intera sto­ria della sini­stra, quella più radi­cale e com­bat­tiva. Non sem­pre quella vin­cente. Così, l’autogoverno, la demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, l’esaltazione del comune sono state uni­la­te­ral­mente assunte, senza nulla appren­dere dalle cri­ti­cità che la sto­ria ha evi­den­ziato, sin dalla comune di Parigi.

Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripar­tire ponendo al cen­tro della nostra rifles­sione pro­prio la que­stione dei limiti dell’autonomia della poli­tica e quella della rap­pre­sen­tanza poli­tica. L’autonomia della poli­tica potrebbe essere intesa come capa­cità di pro­get­tare il futuro, distac­can­dosi dall’immediatamente rile­vante, men­tre la rap­pre­sen­tanza poli­tica dovrebbe essere assunta come la neces­sa­ria «misura» di que­sta capa­cità di pro­get­ta­zione entro un con­te­sto istituzionale.

Vediamo di sin­te­tiz­zare con una sola esem­pli­fi­ca­zione un discorso che meri­te­rebbe di essere altri­menti sviluppato.

Pen­siamo — ad esem­pio — alla riforma della costi­tu­zione. Se è vero, come su que­sto gior­nale abbiamo ripe­tuto tante volte, che la revi­sione in corso è espres­sione di un com­ples­sivo dise­gno regres­sivo, che, se appro­vata, ci poterà indie­tro nel tempo, ver­ti­ca­liz­zerà le dina­mi­che poli­ti­che, aprirà a sce­nari non ras­si­cu­ranti, se que­ste sono le nostre con­vin­zioni, come pos­siamo pen­sare che la solu­zione di ogni male sia far eleg­gere i sena­tori anzi­ché farli votare dai Con­si­gli regionali?

E se poi va a finire che il «prin­cipe» con­cede la gra­zia e accetta l’elezione diretta dei sena­tori avremmo per caso un buon Senato e una accet­ta­bile riforma del testo della costi­tu­zione? Ma non scher­ziamo. Avremmo sol­tanto allun­gato la nostra ago­nia e data nuova linfa al lea­der indi­scusso del pen­siero unico e di governo.

Alziamo allora lo sguardo e lot­tiamo per la nostra riforma, accet­tiamo e rilan­ciamo la sfida, mostrando ai finti inno­va­tori il nostro volto «rivo­lu­zio­na­rio». È vero, il bica­me­ra­li­smo per­fetto è da supe­rare, ma per ragioni oppo­ste a quelle che la reto­rica poli­tica domi­nante afferma. Va supe­rato sia per affer­mare la cen­tra­lità del par­la­mento con­tro il domi­nio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rap­pre­sen­tanza poli­tica offesa da un sistema elet­to­rale che ne nega il valore subli­man­dolo nel fetic­cio della gover­na­bi­lità. Che ci si batta allora per una solu­zione che meglio ha espresso nel corso della sto­ria que­sta dop­pia esi­genza: un sistema mono­ca­me­rale affian­cato da una legge elet­to­rale pro­por­zio­nale per rites­sere le fila della rap­pre­sen­tanza poli­tica strappata.

Sono pro­po­ste fuori dall’agenda poli­tica del momento. E dun­que qual­cuno si potrebbe chie­dere: chi ci ascol­te­rebbe? Ma per­ché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipen­derà da noi.

Se sapremo rac­con­tare una sto­ria per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo con­qui­starla. Potremmo, ad esem­pio, andare al refe­ren­dum costi­tu­zio­nale del pros­simo anno non per difen­dere un par­la­mento in ago­nia, ma per pro­vare a cam­biare lo stato di cose presenti.

Nella Gre­cia antica si distin­gueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vis­suta (bios). Più che chie­derci se c’è vita a sini­stra dovremmo inter­ro­garci su quale vita ci sia a sinistra.

Sembra paradossale, ma è tutto vero. Una buona base per cominciare a ragionare su che cosa possa essere l'equivalente della "sinistra" nel XXI secolo «Per uscire dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama crescita e quella del lavoro salariato».

Il manifesto, 30 settembre 2015

L’organismo della sini­stra è assai poco vitale, ma com­pren­si­bil­mente non vuole dir­selo e nem­meno sen­tir­selo dire. E se pro­vas­simo ad affron­tare la que­stione da un punto di vista un po’ meno pre­ve­di­bile? Se comin­cias­simo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.

Per­ché que­sta è la verità: non c’è vita, se mai c’è soprav­vi­venza eroica ma sten­tata di un vasto numero di asso­cia­zioni e orga­ni­smi di base che cer­cano di garan­tire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.

Se comin­cias­simo col dirci la verità che dal tronco della sini­stra del Nove­cento non sboc­cerà più alcun fiore, forse allora riu­sci­remmo a vedere la realtà pre­sente in maniera più rea­li­stica e forse anche a imma­gi­nare una via d’uscita per il pros­simo futuro.

Se sini­stra vuol dire una for­ma­zione capace di rag­giun­gere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a suf­fi­cienza. Gra­zie alla demo­gra­fia, gra­zie all’ampiezza dei ran­ghi degli ultra-sessantenni pos­siamo ancora spe­rare di costi­tuire una for­ma­zione che mandi in par­la­mento qual­che depu­tato prima di esau­rirsi per estin­zione pros­sima della gene­ra­zione che si formò negli anni della democrazia.

Ma se sini­stra vuol dire una forza capace di imma­gi­nare una svolta nella sto­ria sociale eco­no­mica e poli­tica del mondo, una forza capace di attrarre le ener­gie della gene­ra­zione pre­ca­ria e con­net­tiva, se sini­stra vuol dire una forza capace di rove­sciare il rap­porto di forze che il capi­ta­li­smo glo­ba­liz­zato ha impo­sto all’umanità — allora è meglio non rac­con­tarci bugie pie­tose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.

I con­tri­buti che ho letto sul mani­fe­sto sono più o meno apprez­za­bili, alcuni mi sono pia­ciuti molto. Ma non ne ho tratto la per­ce­zione che qual­cuno voglia vedere quel che sta acca­dendo e che acca­drà, e soprat­tutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.

La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola demo­cra­zia non cor­ri­sponde nulla. Per­ché dovrei ancora pren­dere sul serio la demo­cra­zia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occor­reva l’esperienza greca, per sapere che la demo­cra­zia non è più una strada per­cor­ri­bile. Basta ricor­darsi del refe­ren­dum ita­lico con­tro la pri­va­tiz­za­zione dell’acqua, i suoi risul­tati trion­fali, e i suoi effetti pra­ti­ca­mente nulli sulla realtà eco­no­mica e politica.

E allora, se la demo­cra­zia non è una strada per­cor­ri­bile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che tal­volta nella vita (e nella sto­ria) è oppor­tuno par­tire da un’ammissione di impo­tenza. Non posso, non pos­siamo farci niente.

Cioè, fermi un attimo. Due cose dob­biamo farle, e se volete chia­marle sini­stra allora sì, ci vuole la sinistra.

La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni l’Unione euro­pea, ormai entrata in una situa­zione di scol­la­mento poli­tico, di odii incro­ciati, di pre­da­zione colo­niale, finirà nel peg­giore dei modi: a destra. Pos­siamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbat­tere la dit­ta­tura finan­zia­ria euro­pea è la destra?

Dovremmo dirlo, per­ché que­sto è quello che sta già acca­dendo, e le con­se­guenze saranno vio­lente, san­gui­nose, cata­stro­fi­che dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dob­biamo allora smet­tere i gio­chi già gio­cati cento volte per met­terci in ascolto dell’onda che arriva.

Pos­siamo pre­ve­dere che nei pros­simi anni gli effetti del col­lasso finan­zia­rio del 2008 mol­ti­pli­cati per gli effetti del col­lasso cinese di que­sti mesi pro­durrà una reces­sione glo­bale. Pos­siamo pre­ve­dere che la cre­scita non tor­nerà per­ché non è più pos­si­bile, non è più neces­sa­ria, non è più com­pa­ti­bile con la soprav­vi­venza del pia­neta, e ogni ten­ta­tivo di rilan­ciare la cre­scita coin­cide con deva­sta­zione ambien­tale e sociale.

La decre­scita non è una stra­te­gia, un pro­getto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si tra­duce in un’aggressione siste­ma­tica con­tro il sala­rio, e con­tro le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni. E si tra­duce in una guerra civile pla­ne­ta­ria che solo Fran­ce­sco I ha avuto il corag­gio di chia­mare col suo nome: guerra mondiale.

La seconda cosa da fare è: imma­gi­nare.

Imma­gi­nare una via d’uscita dall’inferno par­tendo dal punto cen­trale su cui l’inferno pog­gia: la super­sti­zione che si chiama cre­scita, la super­sti­zione che si chiama lavoro sala­riato. Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un punto: pre­di­cano la cre­scita in un momento sto­rico in cui non è più né auspi­ca­bile né pos­si­bile, e soprat­tutto è ine­si­stente per la sem­plice ragione che non abbiamo biso­gno di pro­durre una massa più vasta di merci, ma abbiamo biso­gno di redi­stri­buire la ric­chezza esistente.

Le poli­ti­che dei governi di tutta la terra con­ver­gono su un secondo punto: lavo­rare di più, aumen­tare l’occupazione e con­tem­po­ra­nea­mente aumen­tare la pro­dut­ti­vità. Non c’è nes­suna pos­si­bi­lità che que­ste poli­ti­che abbiano suc­cesso. Al con­tra­rio la disoc­cu­pa­zione è desti­nata ad aumen­tare, poi­ché la tec­no­lo­gia sta pro­du­cendo in maniera mas­sic­cia la prima gene­ra­zione di automi intel­li­genti. Da cinquant’anni la sini­stra ha scelto di difen­dere l’occupazione, il posto di lavoro e la com­po­si­zione esi­stente del lavoro. Era la strada sba­gliata già negli anni ’70, diventò una strada cata­stro­fica negli anni ’80. Era una strada che ha por­tato i lavo­ra­tori alla scon­fitta, alla soli­tu­dine, alla guerra di tutti con­tro tutti.

Per­ché dovremmo difen­dere la sini­stra visto che è stata pro­prio la sini­stra a por­tare i lavo­ra­tori nel vicolo cieco in cui si tro­vano oggi?

Di lavoro, sem­pli­ce­mente, ce n’è sem­pre meno biso­gno, e qual­cuno deve comin­ciare a ragio­nare in ter­mini di ridu­zione dra­stica e gene­ra­liz­zata del tempo di lavoro. Qual­cuno deve riven­di­care la pos­si­bi­lità di libe­rare una fra­zione sem­pre più ampia del tempo sociale per desti­narlo alla cura l’educazione e alla gioia.

So bene che non si tratta di un pro­getto per domani o per dopo­do­mani. Negli ultimi quarant’anni la sini­stra ha con­si­de­rato la tec­no­lo­gia come un nemico da cui pro­teg­gersi, si tratta invece di riven­di­care la potenza della tec­no­lo­gia come fat­tore di libe­ra­zione, e si tratta di tra­sfor­mare le aspet­ta­tive sociali, libe­rando la cul­tura sociale dalle super­sti­zioni che la sini­stra ha con­tri­buito a formare.

Quanto tempo ci occorre? Baste­ranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guar­dare, visto che nulla pos­siamo fare. Guar­dare cosa? La cata­strofe che è ormai in corso e che nes­suno può fer­mare. Stiamo a guar­dare il pro­cesso di finale disgre­ga­zione dell’Unione euro­pea, la vit­to­ria delle destre in molti paesi euro­pei, il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita della società. Sono pro­cessi scritti nella mate­riale com­po­si­zione del pre­sente, e nel rap­porto di forza tra le classi.

Ma natu­ral­mente non si può stare a guar­dare, per­ché si tratta anche di sopravvivere.

Ecco un pro­getto straor­di­na­ria­mente impor­tante: soprav­vi­vere col­let­ti­va­mente, sobria­mente, ai mar­gini, in attesa. Riflet­tendo, imma­gi­nando, e dif­fon­dendo la coscienza di una pos­si­bi­lità che è iscritta nel sapere col­let­tivo, e per il momento non si can­cella: la pos­si­bi­lità di fare del sapere la leva per libe­rarci dallo sfruttamento.

Atten­dere il mat­tino come una talpa.

Noam Chomsky e le convinzioni sulla rinascita di una sinistra radicale negli Usa, i germi di nuova sinistra in Europa continentale (Syriza e Podemos), Regno Unito (Jeremy Corbin) e USA (Bernie Sanders), sul potenziale della gente a produrre cambiamento radicale.

Jacobin, 22 settembre 2015

In una intervista di un paio di anni fa, lei ha detto che il movimento Occupy Wall Street aveva creato un raro sentimento di solidarietà negli Stati Uniti. Il 17 settembre è stato il quarto anniversario del movimento OWS. Qual è la tua valutazione dei movimenti socialicome OWS negli ultimi venti anni? Sono stati efficaci nel determinare il cambiamento? Come potrebbero migliorare?

«Hanno avuto un impatto; essi non si sono coalizzati in movimenti persistenti e continui. Si tratta di una società molto atomizzata. Ci sono pochissime organizzazioni continuative che hanno memoria istituzionale, che sanno come muoversi nella fase successiva e così via. Questo è in parte a causa della distruzione del movimento operaio, che era solito offrire una sorta di base fissa per molte attività; ormai, praticamente le uniche istituzioni persistenti sono le chiese. Tante cose sono basate sulla chiesa.

«E’ difficile per un movimento prendere piede. Ci sono spesso movimenti di giovani, che tendono ad essere transitori; d’altra parte c’è un effetto cumulativo, e non si sa mai quando qualcosa farà da scintilla per un grande movimento. E’ accaduto tante volte: il movimento per i diritti civili, il movimento delle donne. Quindi, continuate a provare fino a quando qualcosa decolla».

La crisi del 2008 ha dimostrato chiaramente i difetti della dottrina economica neoliberista. Tuttavia, il neoliberismo sembra ancora persistere ed i suoi principi sono ancora applicati in molti paesi. Perché, anche con i tragici effetti della crisi del 2008, la dottrina neoliberista sembra essere così resistente? Perché non vi è ancora stata una risposta forte come dopo la Grande Depressione?

«Prima di tutto, le risposte europee sono state molto peggio delle risposte degli Stati Uniti, il che è abbastanza sorprendente. Negli Stati Uniti ci sono stati lievi sforzi di stimolo, quantitative easing e così via, che lentamente hanno permesso all’economia di riprendersi. Infatti, la ripresa dalla Grande Depressione fu effettivamente più veloce in molti paesi di quanto lo sia oggi, per un sacco di motivi. Nel caso dell’Europa, uno dei motivi principali è che la creazione di una moneta unica è stato un disastro automatico, come molte persone hanno sottolineato. Meccanismi per rispondere alla crisi non sono disponibili in Europa: la Grecia, ad esempio, non può svalutare la propria moneta.

«L’integrazione europea ha avuto sviluppi molto positivi per certi aspetti ed è stata dannosa in altri, soprattutto quando è sotto il controllo di poteri economici estremamente reazionari, che impongono politiche economicamente distruttive e che sono fondamentalmente una forma di guerra di classe.

«Perché non c’è reazione? Beh, i paesi deboli non stanno ottenendo il sostegno degli altri. Se la Grecia avesse avuto il sostegno di Spagna, Portogallo, Italia e altri paesi avrebbero potuto essere in grado di resistere alle forze degli eurocrati. Questi sono i tipi di casi particolari che hanno a che fare con gli sviluppi contemporanei. Negli anni ’30, ricordate che le risposte non erano particolarmente attraenti: una di esse era il nazismo».

Alcuni mesi fa Alexis Tsipras, leader di Syriza, è stato eletto come primo ministro della Grecia. Alla fine, però, ha dovuto fare molti compromessi a causa della pressione imposta su di lui dai poteri finanziari, ed è stato costretto ad attuare dure misure di austerità. Pensi che, in generale, un vero cambiamento può venire quando un leader della sinistra radicale, come Tsipras arriva al potere, o gli stati nazionali hanno perso troppa sovranità e sono anche loro dipendenti dalle istituzioni finanziarie che possono disciplinarli se non seguono le regole del libero mercato?

«Come ho detto, nel caso della Grecia, se ci fosse stato il sostegno popolare per la Grecia da altre parti d’Europa, la Grecia avrebbe potuto essere in grado di resistere all’assalto dell’alleanza banca eurocrati. Ma la Grecia era sola – non ha avuto molte opzioni.

Ci sono ottimi economisti come Joseph Stiglitz che pensano che la Grecia avrebbe dovuto solo tirarsi fuori dalla zona euro. Si tratta di un passo molto rischioso. La Grecia è una piccola economia, non è granché un’economia di esportazione, e sarebbe troppo debole per resistere alle pressioni esterne. Ci sono persone che criticano la tattica di Syriza e la posizione che hanno preso, ma penso che sia difficile vedere quali opzioni avevano con la mancanza di supporto esterno».

Immaginiamo per esempio che Bernie Sanders vinca le elezioni presidenziali del 2016. Cosa pensi che accadrebbe? Potrebbe portare il cambiamento radicale delle strutture di potere del sistema capitalista?

«Supponiamo che Sanders vinca, che è piuttosto improbabile in un sistema di elezioni comprate. Lui sarebbe solo: non ha rappresentanti del Congresso, non ha governatori, che non ha il supporto nella burocrazia, non ha legislatori statali; e isolato in questo sistema, non potrebbe fare molto. Una vera alternativa politica dovrebbe essere generalizzata, non solo una figura alla Casa Bianca.

«Dovrebbe essere un ampio movimento politico. In effetti, la campagna Sanders penso che è preziosa – sta aprendo problemi, potrebbe forse spingere un po’ in una direzione progressista i Democratici mainstream , e sta mobilitando un sacco di forze popolari e il risultato più positivo sarebbe se rimangono mobilitate dopo le elezioni.

«E’ un grave errore essere solo orientati alla stravaganza elettorale quadriennale e poi tornare a casa. Non è questo il modo in cui i cambiamenti avvengono. La mobilitazione potrebbe portare ad una permanente organizzazione popolare che potrebbe forse avere un effetto nel lungo periodo».

Qual è il suo parere in merito alla comparsa di figure come Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Pablo Iglesias in Spagna, o Bernie Sanders negli Stati Uniti? È un nuovo movimento di sinistra in crescita, o queste sono solo reazioni sporadiche alla crisi economica?

«Dipende da quello che la reazione popolare è. Prendete Corbyn in Inghilterra: è sotto attacco feroce, e non solo dall’establishment conservatore, ma anche dalla classe dirigente del Labour. Si spera che Corbyn sarà in grado di sopportare questo tipo di attacco; questo dipende dal sostegno popolare. Se il pubblico è disposto a supportarlo a fronte della diffamazione e delle tattiche distruttive, allora può avere un impatto. Stessa cosa con Podemos in Spagna.

Come si può mobilitare un gran numero di persone che su tali questioni complesse?

«Non è così complesso. Il compito degli organizzatori e attivisti è quello di aiutare le persone a capire e far loro riconoscere che loro hanno il potere, che non sono impotenti. Le persone si sentono impotenti, ma questo deve essere superato. Questo è ciò intorno a cui ruota l’organizzare e l’attivismo . A volte funziona, a volte non riesce, ma non ci sono segreti. E’ un processo a lungo termine – è sempre stato il caso. E ha avuto successo. Nel corso del tempo c’è una sorta di traiettoria generale verso una società più giusta, con regressioni e inversioni di rotta.

Quindi tu diresti che, durante il corso della vita, l’umanità è progredita nella costruzione di una società un po ‘più giusta?

«Ci sono stati enormi cambiamenti. Basta guardare qui al MIT. Fate una passeggiata nella hall e date un’occhiata alla natura del corpo studentesco: circa la metà è composta da donne , un terzo dalle minoranze, vestiti informalmente, relazioni casuali tra le persone e così via. Quando sono arrivato qui nel 1955, se tu camminavi per la stesso sala ci sarebbero stati maschi bianchi, giacche e cravatte, molto educati, obbedienti, che non ponevano molte domande. Questo è un enorme cambiamento.
E non è solo qui – è dappertutto. Tu e io non avremmo avuto questo aspetto, e infatti probabilmente tu non saresti stato qui. Questi sono alcuni dei cambiamenti culturali e sociali che hanno avuto luogo grazie a coscienzioso e solerte attivismo .

«Altre cose non sono andate così, come il movimento operaio, che è stato sotto duro attacco durante tutta la storia americana e in particolare a partire dai primi anni ’50. E’ stato seriamente indebolito: nel settore privato è marginale, ed viene ora attaccato nel settore pubblico. Questa è una regressione.

Le politiche neoliberiste sono certamente una regressione. Per la maggior parte della popolazione negli Stati Uniti, c’è stata praticamente stagnazione e declino nell’ultima generazione. E non a causa di alcune leggi economiche. Queste sono le politiche. Proprio come l’austerità in Europa non è una necessità economica – in realtà, è una sciocchezza economica. Ma si tratta di una decisione politica intrapresa dai progettisti per i propri scopi. Penso che in fondo è una sorta di guerra di classe, e si può resistere, ma non è facile. La storia non va in linea retta».

Come pensi che il sistema capitalista sopravviverà, considerando la sua dipendenza dai combustibili fossili e il suo impatto sull’ambiente?

«Quello che è chiamato il sistema capitalista è molto lontano da qualsiasi modello di capitalismo o di mercato. Prendete le industrie dei combustibili fossili: c’era un recente studio del Fondo monetario internazionale, che ha cercato di stimare il contributo che le aziende energetiche ottengono da parte dei governi. Il totale era colossale. Penso che sia stato intorno a 5.000 miliardi $ all’anno. Questo non ha niente a che fare con i mercati e il capitalismo. Lo stesso vale per altre componenti del cosiddetto sistema capitalistico. Ormai, negli Stati Uniti e altri paesi occidentali, c’è stato, nel periodo neoliberista, un forte aumento della finanziarizzazione dell’economia. Le istituzioni finanziarie negli Stati Uniti avevano circa il 40 per cento dei profitti delle imprese, alla vigilia del crollo del 2008, per il quale avevano una grande parte di responsabilità.

«C’è un altro studio del Fmi che ha indagato i profitti delle banche americane, e ha scoperto che erano quasi completamente dipendenti sovvenzioni pubbliche implicite. C’è una sorta di garanzia – non è sulla carta, ma è una garanzia implicita – che se si trovano nei guai saranno tirate fuori fuori. Questo lo chiamano too big to fail.

E le agenzie di rating del credito naturalmente lo sanno, lo prendono in considerazione e con elevato merito creditizio le istituzioni finanziarie ottengono un accesso privilegiato al credito più conveniente, ricevono i sussidi se le cose vanno male e molti altri incentivi, che ammontano di fatto a forse il loro profitto totale . La stampa economica ha cercato di fare una stima di questo numero e si presume di circa $ 80 miliardi di dollari all’anno. Questo non ha niente a che fare con il capitalismo.
E’ lo stesso in molti altri settori dell’economia. Quindi la vera domanda è, questo sistema di capitalismo di Stato, che è quello che è, sopravviverà all’uso continuato dei combustibili fossili? E la risposta è, naturalmente, no.

«Ormai c’è un piuttosto forte consenso tra gli scienziati che dicono che la maggior parte dei combustibili fossili rimanenti, forse l’80 per cento, devono essere lasciati nel terreno, se speriamo di evitare un aumento della temperatura che sarebbe piuttosto letale. E non sta accadendo. Gli esseri umani possono stare distruggendo le loro possibilità di sopravvivenza decente. Non ucciderà tutti, ma cambierebbe il mondo in modo drammatico».

Riferimenti
Questo articolo, pubblicato sul sito della rivista Jacobin, è stato ripreso tradotto da Maurizio Acerbo sulla mailing listi di Altra Europa.

Prosegue il dibattito sulla costruzione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Un intervento che richiama provvidamente l'attualità pensiero di un gigante, più studiato e apprezzato all'estero che nel suo paese.

Il manifesto, 12 settembre 2015

Gram­sci, come risorsa per la defi­ni­zione di un nuovo sog­getto poli­tico di sini­stra. Sem­bra che si sia final­mente giunti alla deci­sione di costi­tuire in Ita­lia un nuovo sog­getto poli­tico di Sini­stra. Provo allora ad elen­care qual­che snodo deci­sivo come con­tri­buto alla discus­sione. E’ impor­tante par­tire con idee chiare, supe­rando ogni sorta di per­ples­sità e atten­di­smo. In que­sto con­te­sto ci può aiu­tare la ric­chezza dell’attività gior­na­li­stica e poli­tica di Gram­sci degli anni tori­nesi. Le que­stioni affron­tate, poi, da Gram­sci nei Qua­derni, sono tante e com­plesse che riman­dano ai temi di stretta attua­lità dei giorni nostri, là dove Gram­sci descrive una classe bor­ghese che diventa casta, e per man­te­nersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sot­to­va­lu­tati i temi sto­rici della «teo­ria della prassi» e i nodi con­cet­tuali di «società civile», «ege­mo­nia», «rivo­lu­zione passiva».

Vor­rei però oggi sof­fer­marmi sull’analisi gram­sciana di «coscienza di classe» e «ruolo e fun­zione del par­tito». Come spunto di rifles­sione per la costru­zione in Ita­lia di un nuovo sog­getto poli­tico a Sini­stra, che riven­di­chi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.

Gram­sci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del con­te­sto sto­rico) non ci sia sog­get­ti­vità, quindi sia ine­vi­ta­bile la subal­ter­nità al potere domi­nante. Senza coscienza di classe, la massa è indis­so­lu­bil­mente legata al domi­nio della bor­ghe­sia capi­ta­li­stica. La con­qui­sta della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel pro­cesso che potrà por­tare a costruire un nuovo sog­getto poli­tico di Sini­stra, poi­ché signi­fica dive­nire con­sa­pe­voli del con­flitto sociale e poli­tico in atto. Così come lo sono stati il par­tito Gia­co­bino nella Rivo­lu­zione fran­cese del 1789, i Mille di Gari­baldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il par­tito bol­sce­vico nella Rivo­lu­zione d’Ottobre il nuovo sog­getto poli­tico è chia­mato a svol­gere una fun­zione peda­go­gica in ter­mini ege­mo­nici e non auto­ri­tari, con l’autorevolezza e il pre­sti­gio della direzione.

Com­pito primo di que­sta nuova forza poli­tica di Sini­stra è, in altri ter­mini, farsi sog­getto pro­mo­tore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere diri­gente già prima di con­qui­stare il potere gover­na­tivo, quindi con­ce­pire da subito i germi della nuova società, ini­ziando a costruire lin­guaggi alter­na­tivi, codici, forme, rela­zioni, espe­rienze sot­tratte al domi­nio dello sfrut­ta­mento capi­ta­li­stico e finan­zia­rio. Quindi riba­dire con forza i temi della Sini­stra: ruolo pub­blico nel mer­cato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pen­sioni, scuola pub­blica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gram­sci il par­tito è un insieme di diri­genti all’altezza delle neces­sità e in grado di stare nel conflitto.

«Coscienza e orga­niz­za­zione» costi­tui­scono per Gram­sci un bino­mio indis­so­lu­bile. Il dovere più urgente, dice Gram­sci, è il pro­blema di orga­niz­za­zione, di forza, di corpi fisici e di cer­vello, di orga­niz­za­zione delle menti cioè for­ma­zione e coor­di­na­mento. Per Gram­sci orga­niz­zare è sino­nimo di dire­zione, di con­sa­pe­vo­lezza, di com­pe­tenza delle cono­scenze e di coe­renza sul piano pra­tico.

Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», carat­te­ri­stico e fon­dante della teo­ria gram­sciana del par­tito. Lavo­rare tra le masse vuol dire essere con­ti­nua­mente pre­senti, essere in prima fila in tutte le lotte. Stra­te­gico e deci­sivo è quindi creare gruppi diri­genti «orga­nici e ade­guati» per la crea­zione e la for­ma­zione di un’autonomia cul­tu­rale e poli­tica che sap­pia dare rispo­ste con­crete, qui e ora al «Socia­li­smo del XXI secolo». In que­sto arci­pe­lago di movi­menti di Sini­stra, fon­da­men­tale sarà la pre­senza di un forte e nuovo Par­tito Comunista.

Il caso Grecia ha mostrato che la vera natura dell'Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche».

Sbilanciamocie.info, newsletter 11 settembre 2015


L'estate del 2015 resterà una data fatale per l’Unione europea. È la prima volta che è emersa la possibilità che un paese esca dalla zona euro e nel medesimo tempo la crisi greca ha dimostrato, malgrado il ricordo di tutti i padri costituenti, che la vera natura della Ue non è di essere una comunità destinata ad aiutare in modo concertato lo sviluppo e l’integrazione dei suoi diversi stati, ma una super contabilità delle loro economie pubbliche in vista di costituire un grande mercato con regole ferree, funzionando come una super banca oppure andarsene. Non si tratta di aiutarsi a superare debolezze storiche mettendosi in condizioni di crescere, ma di garantire che ogni credito sia rimborsato, rigidamente nei tempi previsti dai trattati o simili. Non per caso l’indice di sviluppo degli stati del sud oscilla dallo zero virgola all’uno virgola, cioè al di sotto di ogni possibilità di crescita.

La piccola Grecia è stata il primo terreno di questa esperienza, la vittoria elettorale di Syriza ha permesso di formare, con l’aiuto di una modesta forza eterogenea, un governo di grande consenso, che ha sperato di trovare nel continente un’udienza favorevole, fino a spingere a non accettare come interlocutore la Troika – Bce, Fmi e Commissione – perché non rappresentano un organo eletto, quindi non formalmente valido. Era un rifiuto simbolico, perché di fatto questo trio è stato il rappresentante di Bruxelles e si è presentato come controparte, ma anche un simbolo ha un valore politico per cui la cosa ha irritato sommamente le autorità europee e la loro stampa.

Il programma del governo di Syriza è stato costituito da una serie di misure favorevoli ai ceti più deboli ed è stato accompagnato dalla richiesta di ristrutturare il debito pubblico e di ottenere dalla Germania la restituzione degli ingenti danni di guerra. Tali misure, presentate dal primo ministro Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, sono state tutte respinte proponendo come condizione preliminare a ogni discussione alcune riforme strutturali destinate a soddisfare i creditori.

Il dialogo non è stato possibile. Anzi, nel corso di alcuni mesi venuti a scadenza nell’agosto 2015 le richieste di rimborso si sono fatte ultimative portando il governo greco a scontrarsi con Angela Merkel e il ministro delle finanze tedesco Schauble, ambedue – e specie il secondo – irritatissimi con le tesi e il modo di presentarsi di Varoufakis che ha sostenuto la linea greca anche con la sua autorità di economista contro la filosofia dell’austerità.

In breve l’Ue, piacesse o no ad Atene, è stata rappresentata dalla Troika che ha fatto scudo contro Tsipras fino a rendere del tutto evidente che parte dell’Europa avrebbe preferito, piuttosto che accedere alla sue richieste, un’uscita dall’euro, detta “grexit” dall’alfabeto barbarico ora in uso.

Non sono mancati i rilievi sulle storture finanziarie del piccolo paese, ereditate dai governi precedenti: una fiscalità disordinata, che per esempio esentava, scrivendolo nientemeno che nella Costituzione, gli armatori e la chiesa ortodossa dalle imposte, nonché una quantità giudicata eccessiva di spese per il personale pubblico e soprattutto per la difesa, e una struttura industriale debolissima, situazioni che Tsipras si proponeva di risanare chiedendo qualche tempo e qualche mezzo per far fronte ai bisogni più impellenti: «Privatizzate, rinunciate alla spesa pubblica e abbassate le pensioni» è stata la risposta di Bruxelles accanto alla richiesta del rimborso del debito da concordare con i creditori, l’ultimo incontro con i quali si è rivelato insostenibile.

Nello scontro con questi inflessibili giganti, la Grecia è rimasta isolata, la esibita disponibilità del rappresentante francese, di Juncker e della stessa Merkel è rimasta strettamente limitata sul piano personale (qualche pacca sulle spalle e qualche buffetto esibiti davanti alle camere televisive nell’incontro con Tsipras), dall’Italia neanche questo, il tentativo di ottenere aiuti finanziari dai Brics si è risolto in nulla, la Russia essendo oggetto di sanzioni da parte dell’Europa.

A Tsipras non è rimasta altra scelta che mangiar quella minestra o saltare dalla finestra. Varoufakis si è ritirato dopo il successo al referendum di luglio e Tsipras doveva accettare o rifiutare i no della Troika su tutto il fronte. Tsipras ha preferito restare al suo posto combattendo metro per metro ma proponendo che il 20 settembre il popolo greco gli confermi o tolga la fiducia in straordinarie elezioni politiche.

L’Ue e la stampa dei suoi governi sono andati fuori dai gangheri: mossa cinica, come è cinico il personaggio è stato il rimprovero più moderato che gli è stato mosso. Varoufakis resta fuori e Syriza si è spaccata in due. Con soddisfazione di tutti i paesi europei che non avevano nascosto il timore di imitazione da parte di altri paesi del sud della linea di Tsipras, cioè l’ostinato rifiuto delle condizioni poste dalla Troika e in genere dalla linea dell’austerità.

Incombono le lezioni spagnole; Podemos simpatizza con Syriza, e la sua vittoria sul partito popolare di Rajoy è per Bruxelles una prospettiva più pericolosa della rivolta greca. Le dimensioni della Spagna sono ben più vaste e un’infezione di democrazia spaventa l’establishment europeo. Meglio l’Europa a due velocità, auspicata dal ministro delle finanze tedesco. Ben diversa da una scelta dei popoli verso la quale premono anche alcune delle sinistre extraparlamentari italiane, per le quali un’uscita dall’euro e il ritorno a una piena sovranità per ogni stato sembra auspicabile al di là dei prezzi da pagare.

Singolare lettura psicologica della sconfitta della linea "razionale" di Varoufakis nel conflitto con Schäuble. Meglio Tsipras. Il manifesto, 5 agosto 2015

Durante la sua breve guida del mini­stero greco dell’Economia, Yan­nis Varou­fa­kis ha subor­di­nato il suo agire a due idee: una buona e una cattiva. L’idea buona era che la vita austera, sobria e digni­tosa, nulla ha a che fare con le poli­ti­che di auste­rità. L’idea cat­tiva (che ha avuto fau­tori illu­stri a par­tire da Pla­tone) era che la ragione poli­tica coin­cide con il ragio­nare cor­ret­ta­mente («orthos logos»). Il pen­siero che valuta e cal­cola tutto in modo rigo­ro­sa­mente logico, dà risul­tati eccel­lenti nel campo delle scienze natu­rali, ma nel campo del governo della Polis, delle fac­cende umane che ne sono la mate­ria viva, deve fare i conti con la psi­co­lo­gia. I fat­tori psi­co­lo­gici poli­ti­ca­mente più influenti sono le pas­sioni e la paura. Le pas­sioni sono le forze che tra­sfor­mano la vita in pro­fon­dità, la spinta pro­pul­siva di ogni cam­bia­mento reale. La paura è il sen­ti­mento domi­nante, quando le dif­fi­coltà che incon­tra un cam­bia­mento neces­sa­rio, sfo­ciano in una situa­zione di insta­bi­lità dura­tura, o troppo repen­tina, ren­dendo il futuro imprevedibile.

La sini­stra ha pro­mosso tra­sfor­ma­zioni sociali pro­fonde (nel solco dell’evento rivo­lu­zio­na­rio o di un grande pro­getto di riforma) solo quando ha saputo farsi inter­prete di una grande pas­sione, di un movi­mento di eman­ci­pa­zione delle masse pro­dotto dal desi­de­rio, dall’apertura senza riserve e esi­ta­zioni all’inconsueto. Tut­ta­via, le pas­sioni sono dif­fi­cili da gestire: dete­stano il cal­colo e sono mode­rate solo dal senso di respon­sa­bi­lità, dall’intima neces­sità di pro­teg­gere le cose desi­de­rate. Sle­gate dalla respon­sa­bi­lità, si ridu­cono a forze pura­mente desta­bi­liz­zanti, favo­rendo la rea­zione delle forze con­ser­va­tive. La destra ha sem­pre tenuto conto della paura, incen­ti­van­dola. Ciò le asse­gna un indub­bio van­tag­gio tat­tico: la paura (spe­cie se mesco­lata con la rab­bia e l’odio) si può mani­po­lare facil­mente. Con­vo­gliata in vie di sca­rica super­fi­ciali, crea iner­zia psi­chica che pro­duce un senso di sta­bi­lità rassicurante.

Varou­fa­kis non è riu­scito a man­te­nere lo scon­tro con Shau­ble su un piano auten­ti­ca­mente poli­tico, di con­fronto tra pas­sione respon­sa­bile e paura. Il suo attac­ca­mento all’astrazione logica l’ha messo in una posi­zione sim­me­trica a quella dei suoi avver­sari. La debo­lezza della poli­tica nei con­fronti dei cir­cuiti finan­ziari, sta favo­rendo un potere «iper­po­li­tico», potere puro, al di là di ogni dia­let­tica tra padrone e servo, fon­dato sull’eccezione dalla regola e dalla vita. Que­sto potere, che coniuga l’azzardo con l’arbitrio, è l’espressione gene­ra­liz­zata del prin­ci­pio: «Testa vinco io, croce perdi tu». Orien­tato a pro­durre pro­fitti, tanto insen­sati tanto espo­nen­ziali, non è capace, per costi­tu­zione, di risol­vere nes­suno dei pro­blemi umani.
Si può subire la pre­po­tenza del più forte senza essere per sem­pre scon­fitti. La scon­fitta di Varou­fa­kis è nell’aver fon­dato un pro­getto poli­tico sul pri­mato impro­prio della logica sulle pas­sioni, le incer­tezze e le paure che attra­ver­sano l’Europa. La sua cri­tica a Tsi­pras deriva dalla fede a una logica strin­gente, vis­suta come verità, che è figlia di orgo­glio intel­let­tuale. Dimen­tica che in poli­tica una teo­ria, anche la più intel­li­gente, è vera se pro­duce una tra­sfor­ma­zione reale.

Tsi­pras è restato nel campo poli­tico, difen­dendo la pas­sione euro­pea del suo popolo (l’amore per la pace e la demo­cra­zia) e rispet­tando le sue ango­sce. Può per­dersi in una serie di com­pro­messi inter­mi­na­bile, ma non ha altra strada per resi­stere all’eccesso di arbi­trio che avanza nel nostro mondo. Que­sto arbi­trio, che riduce la vita in quan­tità mani­po­la­bili, nel con­fronto pura­mente logico non teme rivali.
Una posizione largamente condivisibile nel dibattito sulla sinistra, ma con molte questioni da discutere, a patire dal significato del "lavoro, del nome preciso del "sistema", del significato di "sinistra " nel XXI secolo. Ci ripromettiamo di farlo.

Comune.info, 2 settembre 2015

Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l’obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com’è. Nel 900 il partito comunista faceva la politica del primo tipo, giusto o sbagliato che fosse il progetto. Poi è caduto il muro di Berlino e facendosi più realista del re ha deciso di imboccare la strada del pragmatismo fino a diventare il più strenuo sostenitore del liberismo. La fine fatta dal Pd è sotto gli occhi di tutti.

A sinistra molti criticano il Pd solo per avere perso totalmente l’anima sociale, ma ne condividono l’impostazione di fondo: il sistema è questo, non solo non si può cambiare, ma va bene così: bisogna solo porgli qualche regola affinché non si incagli nelle sue contraddizioni e bisogna rafforzare i paracaduti sociali per soccorrere le vittime che inevitabilmente produce. Non a caso la nuova parola d’ordine è diventata “sinistra di governo”, che meglio di ogni altra espressione ne racchiude il concetto.

In controtendenza, io penso che oggi più che mai la sinistra ha bisogno di un progetto alternativo perché questo sistema ci è nemico nell’impostazione di fondo.Cercare di correggere gli aspetti più odiosi è una regola di sopravvivenza, ma farlo senza intervenire sul senso di marcia è come preoccuparsi della tappezzeria in un treno che va verso il baratro. Tradizionalmente il tema forte della sinistra è la distribuzione, le correnti più moderate accontentandosi di spostare quote crescenti di reddito a vantaggio dei salari e della collettività; le correnti più radicali pretendendo di destinare tutto a salari e collettività non riconoscendo diritto di cittadinanza al profitto. Da cui i sistemi socialisti, ormai tramontati per varie cause che nessuno ha ancora studiato in tutti gli aspetti. Ma questa impostazione, per così dire distributivista, ha portato la sinistra a condividere la stessa matrice capitalista di adulazione della ricchezza.

Per entrambi, la ricchezza è un valore. Il capitalismo vuole produrne sempre di più per garantire alle imprese merci crescenti finalizzate al profitto; la sinistra vuole produrne sempre di più per creare nuove opportunità di lavoro e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Del resto c’è un detto classico nella sinistra: “Non si può distribuire la miseria: prima si produce la ricchezza, poi la si distribuisce”. Ed è così che anche a sinistra c’è una forte febbre produttivista: laddove più si riesce ad estrarre, più si riesce ad asfaltare e cementificare, più si riesce a manipolare la natura, più si riesce ad accrescere la tecnologia, in una parola più si riesce ad innalzare il Pil, meglio si sta. Una concezione un po’ antiquata che configura il benessere solo con la quantità di cose che siamo capaci di buttare nel carrello della spesa, dimenticando che prima di tutto abbiamo bisogno di una buona aria e che oltre alle esigenze del corpo abbiamo anche quelle psichiche, affettive, spirituali, sociali.

La questione della qualità della vita e la questione ambientale, hanno l’aria di essere temi ancora estranei alla sinistra. Ma se nell’ottocento potevano essere ignorati perché altre erano le priorità ed altro era il contesto ambientale, oggi la distruzione della casa comune rappresenta il tema che condiziona ogni altro aspetto sanitario, sociale, economico. Il concetto che più di ogni altro siamo costretti a rimettere in discussione è quello di crescita e benché sappiamo che varie attività consentono spazi di crescita senza maggior consumo di risorse e senza maggior produzione di rifiuti, il problema è il paradigma.

Sappiamo che trattando in maniera più intelligente i rifiuti, ricorrendo di più all’agricoltura biologica, potenziando i servizi alla persona, si può creare Pil e occupazione sostenibile, ma per fare pace con la natura dovremmo annientare, o giù di lì, l’industria dell’automobile, dovremmo cambiare totalmente il sistema distributivo per ridurre al minimo gli imballaggi, dovremmo smetterla di creare nuovi bisogni. In definitiva dovremmo chiudere per sempre con un sistema che ha fatto dell’aumento delle vendite il suo cuore pulsante. E se razionalmente sentiamo che questa è la strada da battere, dall’altra siamo bloccati per la disoccupazione che ne può derivare. Preoccupazione più che legittima in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita.

L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile.Cambiando prospettiva ci renderemo conto che il mercato non è l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni, né il lavoro salariato l’unico modo per produrre ciò che ci serve. I due grandi canali, se non alternativi, sicuramente complementari, sono il fai da te e l’economia comunitaria che hanno il vantaggio della gratuità e della piena inclusione lavorativa senza bisogno della crescita dei consumi.

La costruzione di una società che finalmente sappia mettere la persona al centro della sua attenzione e sappia porsi come obiettivo, non già l’offerta di lavoro, ma la garanzia a tutti, donne e uomini, giovani e vecchi, abili e inabili, di una vita sicura dalla culla alla tomba, nella piena soddisfazione di tutte le dimensioni umane e nel rispetto dei limiti del pianeta, dovrebbe essere il vero progetto politico della sinistra perché tiene insieme tutti i valori che la contraddistinguono: equità, rispetto, sostenibilità, solidarietà, autonomia.

Un progetto che, certo, ci costringe a ripensare tutto, dal senso e la funzione del lavoro ai tempi di vita, dal modo di produrre ciò che ci serve all’uso e il governo del denaro, dal ruolo del mercato al ruolo dell’economia collettiva, dal modo di concepire la tecnologia al modo di partecipare all’economia collettiva. Ma è ciò di cui abbiamo bisogno in un momento che il sistema di mercato sta mettendo in evidenza tutto il suo fallimento umano, sociale, ambientale, financo economico.

Con un progetto di società, non solo potremmo riaccendere la passione per la politica nei milioni di cittadini che oggi vivono ai margini perché stanchi e delusi, ma potremmo tornare al ruolo di forza con un’agenda da perseguire, non più costretta a giocare perennemente in difesa. Finalmente smetteremmo di correre dietro alle falle che crea il sistema e metteremmo a punto il nostro piano strategico di trasformazione della società, con proposte per tutti i livelli: da quello personale a quello comunale, da quello regionale a quello nazionale, da quello europeo a quello mondiale. Perché un’altra certezza è che la costruzione di un’altra società esige non solo una nuova visione dell’economia e della società, ma anche una nuova concezione del modo di fare politica.


Con­cordo con pres­so­ché tutti i punti del deca­logo for­mu­lato da Norma Ran­geri su que­ste colonne (28 luglio) per l’apertura della discus­sione. Tut­ta­via, fra gli obiet­tivi e la loro pre­su­mi­bile rea­liz­za­zione s’interpone da parte mia un cumulo di dubbi e di per­ples­sità (come sem­pre più spesso, ahimè, mi capita), che sem­bre­rebbe, forse, oscu­rare gli obiet­tivi di cui sopra (non sarebbe, nono­stante tutto, nelle mie inten­zioni). Ma vediamo.

1) La crisi della sini­stra non è solo ita­liana: è euro­pea, anzi glo­bale. E’ sotto gli occhi di tutti: strano che se ne parli così poco in que­sti ter­mini. Som­ma­ria­mente (certo, troppo som­ma­ria­mente) io l’attribuisco a due fat­tori (in que­sto senso soprat­tutto europei).

Il primo: la scon­fitta che il lavoro e, in senso più spe­ci­fico e sostan­ziale, la classe ope­raia hanno subito nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: in Inghil­terra; in Ger­ma­nia; in Ita­lia (in forme diverse, certo, ma orien­tate tutte nella mede­sima dire­zione). Ora, non c’è sini­stra (in senso clas­sico) senza rap­pre­sen­tanza del lavoro: per­ché la visione pro­gres­si­sta e rifor­ma­trice della “vera sini­stra” è sem­pre nata da lì (c’è biso­gno di esempi sto­rici). Se ne può fare a meno?

La scon­fitta del pro­le­ta­riato (anche in que­sto senso clas­sico) e della classe ope­raia ha pro­vo­cato nella società post-industriale e post-fordista l’emergere di due feno­meni, con­tem­po­ra­nei e al tempo stesso con­tra­stanti fra loro: una sorta di bor­ghe­siz­za­zione spu­ria e dispersa e una sorta di pro­le­ta­riz­za­zione spu­ria e dispersa di parti diverse della società. Manca il col­lante, poli­tico e sociale, che le tenga insieme. A mio giu­di­zio, anche la grande for­tuna attuale del verbo francescano-cattolico deriva da que­sto: sic­come non c’è forza ter­rena che ci rie­sca, la parola della Chiesa, che non ha biso­gno di veri­fi­che pra­ti­che allo scopo di gover­nare (dispe­rata mis­sione dei poveri poli­tici umani), appare comun­que, anche ai laici, una rispo­sta con­for­tante e consolatoria.

Come pos­sono di nuovo stare insieme le due cose? Dove deve met­tere le sue radici la “nuova sini­stra”? Come si rap­pre­senta un lavoro pro­fon­da­mente diverso dal pas­sato, — nel quale, natu­ral­mente, con­ti­nua a occu­pare un ruolo impor­tan­tis­simo la classe ope­raia, ma non più in posi­zione ege­mo­nica, — e lo si ri-organizza per rove­sciare l’ondata tra­vol­gente, mon­diale, del capi­ta­li­smo finan­zia­rio? Se non si risponde a que­ste domande, inter­viene l’atrofia dei muscoli e del cervello.

In fondo, l’emergere di una nuova feno­me­no­lo­gia poli­tica (non solo, ma soprat­tutto) nei paesi più deboli dell’orizzonte euro­peo occi­den­tale, — Spa­gna, Gre­cia, Ita­lia, — Pode­mos, Syriza, per­sino Grillo e il gril­li­smo, rap­pre­senta una rispo­sta a que­ste domande. Non ne con­di­vi­diamo uno per uno tutti gli orien­ta­menti e ne scru­tiamo spesso con qual­che pre­oc­cu­pa­zione gli obiet­tivi, ma non pos­siamo non rico­no­scere che in una società mobile e disar­ti­co­lata le loro sono rispo­ste più à la page delle nostre.

Il secondo: l’Europa vive ormai sotto l’incubo (anche arta­ta­mente gon­fiato, ammet­tia­molo) di uno scar­di­na­mento pro­vo­cato da un’ondata migra­to­ria di cui indub­bia­mente non esi­stono pre­ce­denti. La rea­zione è quella di una chiu­sura a ric­cio: da parte dei ceti bor­ghesi, o pseu­do­bor­ghesi, allo scopo di difen­dere i pro­pri pri­vi­legi; e da parte dei nuovi ceti pro­le­tari e sot­to­pro­le­tari allo scopo di difen­dere una loro pos­si­bile, ancor­ché impro­ba­bile, ascesa verso l’alto. In ogni caso, è fuori discus­sione che il feno­meno ali­menti qual­siasi tipo di rea­zione “popu­li­sta” (io pre­fe­ri­rei dire “mas­si­sta”, ma devo farmi inten­dere dai let­tori). Se il punto pre­ce­dente si sal­dasse con que­sto, il qua­dro potrebbe diven­tare deva­stante. Non a caso Beppe Grillo, che se ne intende, ha for­mu­lato pro­po­ste estre­ma­mente restrit­tive rispetto al feno­meno dell’immigrazione. E’ un dato di fatto, tut­ta­via, che la sini­stra, sia quella “sto­rica” sia quella “nuova”, su que­sto punto non ha saputo for­mu­lare altro che gene­ri­che pro­po­ste d’ingenuo soli­da­ri­smo, quando in Europa non s’è alli­neata tout court con le posi­zioni dei governi e dei ceti con­ser­va­tori. Il soli­da­ri­smo uma­ni­ta­rio è il nostro credo. Ma se non ha un pro­gramma, e forze e mezzi per rea­liz­zarlo, rischia di diven­tare straor­di­na­ria­mente autolesionistico.

Senza biso­gno di ricor­rere, come taluno auspica, a una nuova Poi­tiers, è vero per tutti che l’Europa a sini­stra si salva sia dall’interno sia dall’esterno. E’ una scom­messa bestiale, me ne rendo conto. Ma solo chi la vince, vince l’intera par­tita.

2) Quello che in Europa rap­pre­senta un deca­lage sto­rico impres­sio­nante, — ci sono governi mode­rati o con­ser­va­tori o di estrema destra in tutti i paesi, esclusa la Fran­cia, dove il socia­li­sta Hol­lande si appre­sta a lasciare il pre­mie­rato niente di meno che a un lea­der con­ser­va­tore, anzi rea­zio­na­rio, di primo pelo come Sar­kozy; in Ger­ma­nia i social­de­mo­cra­tici si limi­tano a navi­gare nella scia di Angela Mer­kel; in Inghil­terra i labu­ri­sti sono stati scon­fitti recen­te­mente per la seconda volta da Came­ron, in attesa che la stella di Cor­byn si levi in cielo dall’orizzonte, — diviene in Ita­lia, come sem­pre più spesso capita, un alle­gro (o meglio: squal­lido) spet­ta­colo della “com­me­dia dell’arte”. Non c’è un prov­ve­di­mento del governo Renzi che sia mini­ma­mente con­di­vi­si­bile. Il Jobs act. Il pro­gramma deva­stante e anti­am­bien­ta­li­sta delle Grandi Opere. La cosid­detta “Pes­sima Scuola”. Tutto è diven­tato com­mer­ciale, usu­frui­bile, sfrut­ta­bile: se non lo è, lo deve diven­tare a viva forza. La vicenda delle nomine dei diret­tori dei grandi musei ita­liani è uno schiaffo alla dignità nazio­nale e un’offesa ai fun­zio­nari che hanno il com­pito isti­tu­zio­nale di difen­dere il patri­mo­nio arti­stico e i beni culturali.

Il caso Azzol­lini è uno schizzo di fango sulla toga già non del tutto imma­co­lata del Pd: l’ammonimento sus­se­guente e con­se­guente del Pre­si­dente del Con­si­glio, — «non siamo i pas­sa­carte dei Pm», — suona ine­qui­vo­ca­bil­mente come un’apertura di cre­dito nei con­fronti dei poli­tici cor­rotti e cor­rut­ti­bili («State tran­quilli, qual­siasi cosa fac­ciate, ci siamo noi pronti ad aiu­tarvi e proteggervi»).

Ma quel che più conta è l’obiettivo cui mira la riforma costi­tu­zio­nale già in atto: ne rias­sumo le con­clu­sioni. Se il pro­getto del ducetto di Rignano sull’Arno dovesse andare in porto, un par­tito del 35% (il 20%, più o meno degli aventi diritto al voto), avrebbe nelle pro­prie mani, a par­tire dalle pros­sime ele­zioni, non solo il Par­la­mento, la Pre­si­denza del Con­si­glio e il Governo, ma anche la Pre­si­denza della Repub­blica e la Corte Costi­tu­zio­nale.

Quando si parla con orgo­glio del Par­tito della Nazione, si dimen­tica che que­sta ano­mala carat­te­riz­za­zione è stata usata in pas­sato solo dai nazio­na­li­sti di primo Nove­cento, poi con­fluiti trion­fal­mente nel fasci­smo della prima ora, e poi, per l’appunto, con moti­va­zione ancor più evi­dente, nel Par­tito Nazio­nale Fasci­sta. Non è un caso che la forza inne­ga­bile, e temi­bile, di Mat­teo Renzi con­si­sta nell’avere a dispo­si­zione una pos­sente arma di riserva. Se le cose doves­sero andar­gli male, o solo un po’ peg­gio, l’alleanza con la destra ber­lu­sco­niana sarebbe sem­pre a por­tata di mano. Altro che inter­ru­zione o declino del Patto del Naza­reno! Il Patto del Naza­reno è stato calato gene­ti­ca­mente nelle fibre costi­tu­tive del Governo Renzi, può essere rein­te­grato in ogni momento, anzi, più esat­ta­mente, non è mai venuto meno.

Cioè: siamo in Ita­lia di fronte al rischio di un vero e pro­prio cam­bia­mento di regime.

La con­clu­sione di que­sto punto è che in Ita­lia, — un paese da tutti i versi nel degrado più com­pleto, (cor­ru­zione poli­tica, cri­mine orga­niz­zato, per­dita gene­ra­liz­zata di fidu­cia nella poli­tica) — la bat­ta­glia della sini­stra per le sue tra­di­zio­nali parole d’ordine, (libertà, giu­sti­zia, egua­glianza) — deve essere ispi­rata anche for­te­mente ai biso­gni e alle pro­spet­tive di una difesa e di un rein­te­gro degli assetti isti­tu­zio­nali e costi­tu­zio­nali, della pre­senza e della dignità dello Stato e della ricerca di quell’obiettivo, che, forse un po’ troppo gene­ri­ca­mente, ma anche molto effi­ca­ce­mente, si defi­ni­sce “bene comune”.

E’ quel che accade oggi? Le con­nes­sioni tra le varie parti di que­sto dif­fi­cile e sca­lare discorso, — poli­tica, eco­no­mia, assetti sociali, rap­porto istituzioni-lotta di classe, — ci sono evi­denti e per­ce­pi­bili, più o meno nello stesso modo, da Son­drio a Capo Pachino? Direi di no, per ora.

3) La sini­stra, — un po’ tutta: quella del centro-sinistra-destra, che ci governa, e quella della “sini­stra al tempo stesso clas­sica e nuova”, in Ita­lia non ha (e/o non vuole avere) memo­ria. Non ha intro­iet­tato e tanto meno meta­bo­liz­zato la Bolo­gnina di Occhetto, la bica­me­rale di D’Alema, la teo­riz­zata e con­cla­mata auto­suf­fi­cienza dei Ds di Wal­ter Vel­troni, la pugna­lata nella schiena inferta al Governo Prodi da Rifon­da­zione Comu­ni­sta, il vigo­roso tra­monto della stella rin­no­va­trice di Anto­nio Bas­so­lino, per­sino il recente, smi­su­rato soste­gno isti­tu­zio­nale e costi­tu­zio­nale del Pre­si­dente Napo­li­tano all’esperimento Renzi.

Tanto meno ha intro­iet­tato e meta­bo­liz­zato i ten­ta­tivi di vol­tar pagina, che pure in que­sta nostra sini­stra ci sono stati. Più o meno dieci anni fa (2004–2005), in una con­giun­tura enor­me­mente più favo­re­vole di quella odierna, un gruppo di com­pa­gni diede vita a una cosa che si chia­mava “Camera di con­sul­ta­zione della sini­stra” e pro­pu­gnava, per l’appunto, l’unità della sini­stra radi­cale (Rifon­da­zione comu­ni­sta, Comu­ni­sti ita­liani, Verdi, parti impor­tanti della sini­stra Ds, gruppi auto­nomi, ecc ecc.). L’esperienza ebbe una larga e ricca gesta­zione, fu soste­nuta da un dibat­tito inte­res­san­tis­simo su il mani­fe­sto, ospite soli­dale e par­te­cipe, sfo­ciò in una grande Assem­blea nazio­nale alla Fiera di Roma. Il giorno in cui (12 aprile 2005) il lavoro avrebbe dovuto con­clu­dersi con un voto su di un docu­mento pro­gram­ma­tico, e di lì pas­sare ai fatti, Fau­sto Ber­ti­notti, segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta, ne sabotò dura­mente il pro­se­gui­mento. Si avvi­ci­na­vano le ele­zioni. Il suo pro­gramma era un altro. La vit­to­ria elet­to­rale e, con­se­guen­te­mente, la par­te­ci­pa­zione a un governo for­te­mente spo­stato a sini­stra? No, la Pre­si­denza della Camera dei depu­tati. Oltre al fal­li­mento del pre­detto ten­ta­tivo, ne deri­va­rono diverse altre con­se­guenze nega­tive, fra cui, al limite, anche la scis­sione di Rifon­da­zione comu­ni­sta: una prova lam­pante di cosa signi­fi­chi lavo­rare, ala­cre­mente e astu­ta­mente, non per l’unità della sini­stra ma per la sua disunione.

Risen­ti­mento? Ran­core? Sì, certo. Ma anche qual­cosa di più. Abbiamo alle spalle un numero straor­di­na­rio di scon­fitte, gio­cate sia sul piano sto­rico e poli­tico sia su quello per­so­nale. Un ele­mento di rifles­sione sto­rica e poli­tica riguarda ad esem­pio l’impressionante declino della classe poli­tica comu­ni­sta post-berlingueriana.

Uno sto­rico serio dovrebbe affron­tare la que­stione e spie­garci come que­sto sia potuto acca­dere, e in que­sta misura. Un ele­mento di rifles­sione per­so­nale e antro­po­lo­gica riguarda invece la ina­spet­tata insor­genza e poi, deci­sa­mente, la pre­va­lenza, nei rap­pre­sen­tanti più in vista di tale ceto poli­tico; di que­gli ele­menti di un’etica degra­data e per­so­na­li­stica, che ci asse­diano da tutte le parti e che, a parole, ma a dir la verità sem­pre meno spesso, viene con­dan­nata nella società che ci circonda.

Con­clu­sione: se non si intro­ietta e rie­la­bora tutto que­sto, meglio non ricominciare.

4) Veniamo ora, scon­so­la­ta­mente, dalla disil­lusa e pres­so­ché dispe­rata rie­vo­ca­zione del pas­sato, ai buoni pro­po­siti del futuro. Ci vor­rebbe, — con­di­tio sine qua non: tener conto, certo, e farne il fon­da­mento, dei punti elen­cati ai n. 1, 2 e 3, — un nuovo Par­tito: un par­tito for­te­mente demo­cra­tico (una testa, un voto, e fin dall’inizio); for­te­mente rifor­mi­sta (non è più il tempo di un pro­te­stan­te­simo gene­rico e paro­laio, biso­gna indi­care con esat­tezza cal­vi­ni­sta le cose da fare, la gerar­chia con cui farle, per chi e come farle); e for­te­mente euro­pei­sta (per un’Europa fede­rata poli­ti­ca­mente, all’interno della quale valga il cri­te­rio politico-istituzionale della rap­pre­sen­tanza e non la forza di con­tra­sto e di ricatto della potenza eco­no­mica capi­ta­li­stica e delle tec­no­cra­zie ad essa asservite).

Un par­tito, dico, non una rete. So per espe­rienza (l’esperienza che manca alla mag­gior parte dei miei pos­si­bili inter­lo­cu­tori) che da una rete, — una qual­siasi rete, di asso­cia­zioni, di comi­tati, di gruppi, — non si decolla mai verso l’alto, ci si allarga solo, se va molto bene, orizzontalmente.

Un par­tito, aggiungo, pro­mosso e fatto soprat­tutto da gio­vani: tren­ta­cin­que, qua­ran­tenni. L’esperienza, anche in que­sto caso, dimo­stra che, per sor­gere o risor­gere, biso­gna sca­vare un fos­sato ben visi­bile rispetto al pas­sato (Pode­mos, Syriza). Il per­so­nale poli­tico e intel­let­tuale della “nuova sini­stra” è più vetu­sto di quello di centro-sinistra-destra (sto par­lando di me in primo luogo, ovvia­mente). I gio­vani non ci sono? Se non ci sono, vuol dire che l’Italia di oggi non li pro­duce, e se è così, è un bel guaio. Ma forse, anche in que­sto caso, abbiamo fatto di tutto, e stiamo ancora facendo di tutto, per­ché l’Italia non li pro­duca. Se si pro­po­nesse una leva, con l’obiettivo dichia­rato ed espli­cito di cedere alle nuove gene­ra­zioni il bastone del comando, forse qual­cosa di nuovo potrebbe sal­tar fuori. Meglio i pos­si­bili, dif­fi­cil­mente pre­ve­di­bili errori dei gio­vani che quelli, asso­lu­ta­mente pre­ve­di­bili, anzi già oggi del tutto scon­tati, dei nostri vetu­sti dirigenti.

Poi ci vuole una Per­sona, un’identità ben pre­cisa sia maschile che fem­mi­nile. E oggi, in tempo di media­ti­che mat­tane, ancora di più. L’esperienza recente lo dimo­stra: senza Igle­sias, senza Tsi­pras, per­sino senza Grillo, il com­bi­nato dispo­sto di pro­te­sta, irri­ta­zione, ricerca del nuovo, tanto più in assenza di un auten­tico, mate­riale, evi­dente, punto di rife­ri­mento sociale, non qua­glia. Dov’è que­sta Per­sona? Non sarà che a restar chiusi ancora una volta, per un’elementare rea­zione di auto­di­fesa, nella pic­cola legione mace­done fatta di qua­dri vetu­sti e d’intellettuali sta­gio­nati, la per­sona non rie­sce a venir fuori, resta ancora una volta e per sem­pre il dete­stato ed esor­ciz­zato Pover’Uomo di fal­la­diana memoria?

Per­ché que­ste e tutte le altre prove e con­tro­prove siano fatte ci vuole dun­que una vera (sot­to­li­neo: vera) fase costi­tuente, nel corso della quale si veri­fi­chi seria­mente, non solo e non soprat­tutto, se siamo d’accordo fra noi, ma se ci sono altri che sono d’accordo con noi: dispo­sti noi di con­se­guenza a cam­biare, se gli altri, i “nuovi” del “par­tito nuovo”, ci per­sua­de­ranno che le loro ragioni sono migliori delle nostre (che poi è esat­ta­mente quello che ci si dovrebbe augu­rare che avvenga). Que­ste ragioni devono venire soprat­tutto dall’esterno: non pos­siamo pre­ten­dere oggi di farle tutte bell’e con­fe­zio­nate dal nostro stanco e mille volte scon­fitto cervello.

5) Infine. Abbiamo sotto gli occhi la recen­tis­sima lezione, al tempo stesso esal­tante e dram­ma­tica, della Gre­cia. Nello spa­zio di un colpo di ful­mine siamo pas­sati dall’ammirazione scon­fi­nata per il pro­cesso di libe­ra­zione corag­gio­sa­mente ini­ziato e por­tato avanti da Syriza alla con­tem­pla­zione pro­ble­ma­tica del pro­cesso di com­pro­messo con le potenze domi­nanti all’interno della Ue pre­di­spo­sto e accet­tato dal Governo Tsi­pras per sal­vare il sal­va­bile e con­ti­nuare al tempo stesso il pro­cesso.

Non avrebbe alcun senso fon­dare qual­siasi cosa, e in modo par­ti­co­lare una nuova orga­niz­za­zione poli­tica, senza scio­gliere il nodo che tale evo­lu­zione ci costringe a esa­mi­nare e valu­tare, e di con­se­guenza con­ti­nuare a por­tarlo e rumi­narlo den­tro, invece di lasciarlo fuori, come una delle tante ere­dità mefi­ti­che del nostro sem­pre con­trad­dit­to­rio pas­sato. Insomma: biso­gna dire con chi si sta.

Io sto con Ale­xis Tsipras.
«Il nodo delle rela­zioni non è una que­stione paral­lela, ma cen­trale. Sia nella valo­riz­za­zione di poteri alter­na­tivi sia nel creare coe­sione, per reg­gere lo scon­tro vio­lento. Per­ché sono l’oggetto dei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione in corso ad opera di un capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta che nella vita entra senza rite­gno, e la rimo­della a pro­prio piacimento».

Il manifesto, 26 agosto 2015

Quali erano i pen­sieri, le idee, i sogni di Paola, brac­ciante morta di fatica – cioè di lavoro secondo la lin­gua del sud – tra le vigne di Trani? E cosa pen­sano, desi­de­rano, sognano i dipen­denti Ikea che fanno scio­peri ine­diti in tutta Ita­lia, con la soli­da­rietà dei clienti? Cosa c’è nella loro mente? C’è l’idea di un mondo dove ci sia più giu­sti­zia? Col­ti­vano con­crete spe­ranze di poter cam­biare le loro con­di­zioni di vita? Su chi fanno affi­da­mento? Natu­ral­mente oltre i sindacati?

Rischio volu­ta­mente la reto­rica, nell’accostare l’arcaico capo­ra­lato e la moderna pre­ca­rietà mul­ti­forme, espe­rienze con­tem­po­ra­nee di cui gli esempi si potreb­bero mol­ti­pli­care, tutti accu­mu­nati da un sala­rio ora­rio inde­cente, o sem­pre più basso. La reto­rica spa­ri­sce se rove­scio la domanda: la sini­stra ha in mente Angela, i suoi com­pa­gni di lavoro, o i dipen­denti dell’Ikea? Pensa, la sini­stra, imma­gina, pro­getta come affron­tare, risol­vere i pro­blemi della vita di que­ste per­sone? Il modo per pro­teg­gerle dalla fero­cia del capi­ta­li­smo neo-liberista? Strade per­cor­ri­bili, anche audaci, con­flit­tuali, peri­gliose, e per­ché no, rivol­tose, ma che per­met­tano di intra­ve­dere modi diversi di vivere?

La rispo­sta è bru­tale: no, da molto tempo que­sto non avviene. E que­sto è il nodo cru­ciale del dibat­tito aperto da Norma Ran­geri e dal mani­fe­sto: l’incontro man­cato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in con­di­zioni di vita sem­pre più dura, — chi non rie­sce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è pre­ca­rio, pre­cari della cono­scenza che man­ten­gono con il loro lavoro semi­gra­tuito uni­ver­sità, cen­tri di ricerca e sistemi di infor­ma­zione – se ci sono, desi­deri e spe­ranze, dif­fi­cil­mente si chia­mano “sini­stra”. E dall’altra parte i pro­getti di chi dovrebbe aprire lo spa­zio di ela­bo­ra­zione e di pra­ti­che poli­ti­che che a quelle menti pos­sano par­lare, dare respiro e speranza.

Non inte­ressa, qui, fare l’analisi delle respon­sa­bi­lità. Fer­marsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi cri­mi­nale. Non c’è vita, nella recri­mi­na­zione e nel ran­core. E lo dico da fem­mi­ni­sta quale sono, sem­pre più sgo­menta nel con­sta­tare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini – di rico­no­scere il peso, l’influenza, l’acutezza della cri­tica fem­mi­ni­sta alla loro poli­tica, e che inca­paci come sono di acco­glierla espli­ci­ta­mente pro­ce­dono come se nulla fosse suc­cesso. Certa che que­sto muro di silen­zio sia parte del pro­blema, della dif­fi­coltà di met­tere a fuoco visioni ampie, inclu­sive, e nello stesso tempo con­vinta che anche il fem­mi­ni­smo sia impli­cato, nel vuoto che ci affligge.

Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fis­sate troppo sull’obiettivo pari­ta­rio, così facil­mente fatto pro­prio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occi­dente, alla libertà fem­mi­nile, avesse spinto a chiu­dere gli occhi su quanto avviene. Come se per esem­pio il feroce aumento della dise­gua­glianza eco­no­mica non riguar­dasse le donne. Che ne sono le prime vit­time, sotto mol­te­plici aspetti, dallo sfrut­ta­mento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo fem­mi­nile, della ripro­du­zione. Anche da parte di altre donne.

Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione effi­cace, aiuta a pren­dere coscienza della pesan­tezza delle con­di­zioni di vita, o a recu­pe­rare forme di auto-organizzazione come il mutua­li­smo, rico­struen­done il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica con­tem­po­ra­nea del “Quarto Stato” di Pelizza da Vol­pedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in brac­cio, die­tro e di lato a un uomo, a uomini che com­bat­tono in prima fila. Dove sareb­bero le donne? E gli stessi uomini? E i bam­bini? E que­sti, di chi sareb­bero figli?

Non sono det­ta­gli fuor­vianti. Come non capire che que­sto qua­dro mutato e mutante è parte essen­ziale di ciò che va pen­sato, anche nel met­tere a fuoco nuovo forme orga­niz­za­tive? Che il nodo delle rela­zioni non è una que­stione paral­lela, ma cen­trale? Sia nella valo­riz­za­zione di poteri alter­na­tivi sia nel creare coe­sione, per reg­gere lo scon­tro vio­lento. Per­ché sono l’oggetto dei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione in corso ad opera di un capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta che nella vita entra senza rite­gno, e la rimo­della a pro­prio piacimento.

Esat­ta­mente come agi­sce per la ride­fi­ni­zione– distru­zione di demo­cra­zia. Nel qua­dro delle isti­tu­zioni, euro­pee e non solo. Fanno parte di un unico dise­gno di comando che va combattuto.

Di que­sto si dovrebbe par­lare, se si parla di vita a sini­stra. Se si vuole entrare nella brec­cia che Ale­xis Tsi­pras con grande luci­dità poli­tica con­ti­nua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calen­da­rio di impe­gni tra movi­menti e orga­niz­za­zioni fino a novem­bre, che il gesto del dirsi “siamo qui, par­tiamo”, sia rapido, veloce, quasi non­cu­rante. Come chi sa che non c’è nulla da esal­tare, in effetti. Che orga­niz­zarsi non è occu­parsi di sé. L’urgenza è met­tersi in grado di aprire spazi e pen­sieri, libe­rare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.

Prosegue il dibattito su "La sinistra vive?"Un ragionevole elenco delle undici novità, rispetto alla sinistra novecentesca, di cui è indispensabile tenere conto se ci si propone per lavorare alla costruzione di una sinistra per il secondo millennio.

Il manifesto, 26 agosto 2015

Per sce­gliere come agire con­viene par­tire dalla cono­scenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:

a) Sta tor­nando, anche nel cuore di società ric­che, la schia­vitù; secondo una stima della Cgil in tale con­di­zione si tro­vano (ma le stime sono rife­rite a ciò che è visi­bile, non al som­merso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extra­co­mu­ni­tari; il “pro­fitto” se ne giova enormemente.

b) Stret­ta­mente con­nesso è il potere incon­tra­stato dei grandi e meno grandi cen­tri mafiosi equa­mente dif­fusi nel pia­neta. (Con la vit­to­ria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diven­tato un epi­cen­tro mafioso). Le ban­che rici­clano indi­stur­bate il “denaro sporco”, di cui droga, pro­sti­tu­zione, capo­ra­lato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capi­tale finan­zia­rio e mala­vita si è com­piuto. Nella totale pas­si­vità e com­pli­cità dei poteri politici.

c) Il cosid­detto feno­meno migra­to­rio ha carat­tere strut­tu­rale ed epo­cale. Ogni tro­vata mirante a inter­rom­perlo (respin­gi­menti, inter­venti nei luo­ghi di par­tenza) è risi­bile. E’ come voler svuo­tare il mare col mestolo. L’Occidente – fab­bri­canti di armi sem­pre pronti a com­muo­versi, inter­venti impe­riali in Irak, Siria, Libia ecc. — ha creato i disa­stri, una cui con­se­guenza è tale migra­zione di popoli.

d) La muta­zione della Cina in paese iper­ca­pi­ta­li­stico a carat­tere nazio­nal­so­cia­li­sta ha chiuso il ciclo nove­cen­te­sco del “socialismo”.

e) La fine del movi­mento comu­ni­sta ha com­por­tato anche il declino delle socialdemocrazie.

f) Il mec­ca­ni­smo elet­to­rale plu­ri­par­ti­tico (carat­te­ri­stica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò gra­zie a dina­mi­che liber­ti­cide irre­ver­si­bili: delega dei poteri deci­sio­nali a strut­ture tec­ni­che non elet­tive, e per di più mas­sic­cia intro­du­zione di sistemi elet­to­rali di tipo mag­gio­ri­ta­rio. Il de pro­fun­dis è stato il for­male misco­no­sci­mento della volontà espressa dal refe­ren­dum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qua­lun­que legit­ti­ma­zione elet­to­rale quale l’Eurogruppo.

g) Il sog­getto sociale tra­di­zio­nale dei par­titi di sini­stra è, nume­ri­ca­mente, in via di estin­zione. Mi rife­ri­sco all’operaio di fab­brica, o meglio a quella parte che veniva un tempo defi­nita “ope­rai coscienti”. Sono suben­trati per un verso la nuova schia­vitù, per l’altro un gigan­te­sco ceto medio con­dan­nato ad un cre­scente impo­ve­ri­mento, in alcuni paesi appe­san­tito dalle rigi­dità della moneta unica.

h) Una for­ma­zione poli­tica di sini­stra dovrebbe dun­que deci­dere se: (1) sce­gliere di rap­pre­sen­tare i nuovi dise­re­dati, ovvero (2) pun­tare, con qua­lun­que alleato, ad andare al governo a qua­lun­que costo per fare una qua­lun­que poli­tica. Da tempo, la ex-sinistra (in Ita­lia, Fran­cia, Ger­ma­nia, ora anche Gre­cia) ha scelto tale seconda opzione.

i) La sola bat­ta­glia pos­si­bile in que­sta situa­zione è di carat­tere cul­tu­rale, il più pos­si­bile di massa. Descri­vere scien­ti­fi­ca­mente il “capi­tale” del XXI secolo e sma­sche­rare la cosid­detta “demo­cra­zia occi­den­tale”; dif­fon­dere la con­sa­pe­vo­lezza della sua vera natura. I luo­ghi di inter­vento non sono molti. La grande stampa fun­ziona sulla base di una costante cen­sura del pen­siero cri­tico nei con­fronti dell’Occidente. Ma c’è un grande ter­reno di lotta cul­tu­rale, che è la scuola. E’ lì che si può indi­riz­zare una lotta tenace in favore del pen­siero critico.

j) Verrà sol­le­vata la que­stione: ma qual è la classe sociale di cui la sini­stra dovrebbe rap­pre­sen­tare gli inte­ressi? Lo sfrut­ta­mento non è affatto scom­parso, ma è ormai soprat­tutto sfrut­ta­mento del lavoro intel­let­tuale che costi­tui­sce la parte essen­ziale del ciclo pro­dut­tivo. E per­sino ai qua­dri medio/alti — per ora ben pagati – andrebbe fatto capire che anch’essi sono degli sfrut­tati e che chi li sfrutta è mera­mente parassitario.

k) Nell’epoca del domi­nio mon­diale del capi­tale finan­zia­rio, “il nemico” è quasi invisibile.

Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola “margine”. Si tratta di Al margine, di Francesco Magris (Bompiani) e di Margini d’Italia, di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene, possono riserbare delle sorprese.

Al margine” (ma forse si potrebbe leggere anche “sul margine”, ovvero, latinamente, “ de margine”) è un agile libretto, in cui l’autore investiga aspetti diversi di una parola – e delle realtà che di volta in volta le corrisponde – ricchissima di valenze di ogni genere, sia positive sia negative. Ma Magris, se non erro, segue di preferenza il percorso positivo. Ossia va sfogliando, di capitolo in capitolo, come sia possibile (e sia avvenuto, e possa avvenire) che, trovandosi o addirittura mettendosi ai margini, si scoprano potenzialità e forze nascoste che, restando cocciutamente ancorati al centro, non si sarebbero mai neanche sospettate.

In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell’ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell’immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.

Margini d’Italia è un ponderoso volume di storia italiana contemporanea. L’autore, David Forgacs, è uno di quegli storici inglesi e americani (o, talvolta, le due cose insieme), cui si devono assaggi così rilevanti – da un’ottica opportunamente spostata rispetto alla nostra – del nostro modo d’essere e della nostra identità. Il sottotitolo spiega forse meglio contenuti e obiettivi dell’opera. Recita: L’esclusione sociale dall’Unità a oggi .
Per Forgacs, dunque, il «margine » è il luogo (ideale, politico, culturale, antropologico) su cui le classi italiane dominanti, sia pure variamente motivate, hanno collocato (dal punto di vista ideologico, ma anche pratico e fattuale, spesso pesantemente fattuale) i subalterni, i diversi, gli alieni, i «marginalizzati», appunto.

Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud; i Manicomi; i Campi nomadi. Se si esclude l’ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.

Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).

Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l’espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano. La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un’esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi. Faccio un solo esempio, ma rilevante: l’Italia. L’Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).

Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l’Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall’innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.

È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.


Mi piacerebbe davvero discuterne, se avessi la forza di farlo. Soprattutto su due questioni: l'una teorica, l'altra pratica. (1) Se non ci si rinchiude in una logica capitalistica è giusto ridurre il concetto di "lavoro" a quello di "lavoro operaio"?. A me sembra di no. Se avessi ragione occorrerebbe poi domandarsi: (2) Se la crescente marginalizzazione della classe operaia fosse inarrestabile, non esistono altri "margini" suscettibili (ove acquistino coscienza di sé) di svolgere nel XXI secolo il ruolo svolto nei secoli precedenti dalla classe operaia? (e.s.)

«Parla Marco Revelli, intellettuale de L’Altra Europa con Tsipras: l’Europa o cambia o muore. E da novembre una nuova “casa” della sinistra in Italia». un'intervista di Luigi Pandolfi.

Linkiesta, giornale online, 15 agosto 2015
Intervista a Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”, promotore, insieme ad altri intellettuali, alle scorse elezioni europee della lista L’Altra Europa con Tsipras, di cui oggi è tra gli esponenti di maggiore spicco, parliamo di ciò che si muove alla sinistra del PD e delle prospettive di una nuova sinistra in Italia.

Professor Revelli, in molti Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale. A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?«È vero. Mentre in altri Paesi mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di "sinistre nuove" a vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo, dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi, appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma preponderante il quadro politico: non solo il populismo nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e "guardiano" di Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo "di governo" di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di innovazione - nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e nelle idee - e di forza».

Viste le esperienze del passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare radicalità e ambizione di governo?
«Sufficiente sicuramente no. Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare. L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento sociale - le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure riuscire a combattere - ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia oggi, come ho detto, una condizione necessaria - tanto necessaria da richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili - ma non sufficiente per fare ciò che la crisi ci richiede di fare.
«Necessaria perché la frammentazione rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma non sufficiente perché senza un segnale chiaro di "nuovo inizio", senza un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente facendola sentire "la propria gente", con cui si condivide sofferenza e destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che chiamiamo il "processo costituente" fallirebbe in partenza. Non farebbe che riproporre l’immagine di una "sinistra senza popolo" circondata da "populismi senza sinistra"».

Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
«Non sottovaluto il ruolo della leadership. Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si chiamava "la formazione del gruppo dirigente". Ma anche di quella individuale: l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà difficile trovare le figure che lo rappresentan»o.

L’esito della trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione per la sinistra?
«La notte tra il 13 e il 14 luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea. Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea - questa Unione Europea - è purtroppo incompatibile con la democrazia e con l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus" germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza economici la chiave del’ordine politico. Più che di una "questione greca" la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una enorme "questione europea" e, dentro a questa, di una gigantesca "questione tedesca"».

Perché vede una “questione europea”?
«Perché l’Europa così come si è rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive.
«Vorrei dire di più: senza una dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza, militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo, con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata, colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati, capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo».

In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Mi ripeto. L’Europa rivelatasi nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi (contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa – l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o muore».

«Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa. Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario? Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si potrebbe giocare una bella partita».

Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
«Qualcosa è successo, nelle ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un embrione di road map.
«Già all’inizio di settembre sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa: che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200 incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente sia un mero assemblaggio “dall’alto”.
«Gruppi di lavoro sono già previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”… Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia».

«La mutazione antropologica. Bisognerebbe raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche».

Il manifesto, 13 agosto 2015

Che ci sia (o meglio, che ci potrebbe essere) “vita a sini­stra” è quasi “natu­rale” con­si­de­rato come va il mondo, ovvero verso una rotta di col­li­sione ine­vi­ta­bile con l’ambiente, la povertà dif­fusa, l’esodo ine­vi­ta­bile di masse enormi di popo­la­zione dai ter­ri­tori deva­stati da guerre, care­stie, sic­cità. Ma rima­nendo alle disgra­ziate sorti ita­li­che, se poco poco si ascol­tano i rap­pre­sen­tanti delle gio­vani gene­ra­zioni, si ha la sen­sa­zione che nes­suno creda più a una qual­che pos­si­bi­lità col­let­tiva di riscatto, di alternativa.

Cir­co­lano per­fino mito­lo­gie antro­po­lo­gi­che sulla dan­na­zione della spe­cie umana, come a dire: l’uomo è fatto così, le guerre sono ine­vi­ta­bili, la povertà di molti è neces­sa­ria al fun­zio­na­mento dell’economia. Basta osser­vare, per con­vin­cersi della dif­fu­sione di que­sto virus, l’atteggiamento di tante (troppe) per­sone qua­lun­que nei riguardi degli esodi di massa dai paesi che si affac­ciano sull’altra sponda del Medi­ter­ra­neo: non pos­siamo acco­glierli tutti — si dice nel migliore dei casi -, fini­remmo col diven­tare come loro, ci rubano il lavoro (che non c’è). E poi ancora, a me sgo­menta il fatto che il Papa venga oscu­rato; i suoi mes­saggi com­pa­iono come tra­fi­letti nei media nazio­nale; quelli inter­na­zio­nali nep­pure lo citano: non era mai suc­cesso in pas­sato. C’è di che ras­se­gnarsi a una estin­zione di massa per asfis­sia cul­tu­rale, per impo­tenza poli­tica, per dispe­ra­zione. “Spe­riamo che io me la cavo” sem­bra essere il motto delle nuove gene­ra­zioni. Non può certo stu­pire il suc­cesso di Renzi: è pur sem­pre meglio cre­dere alla befana che ras­se­gnarsi alla cruda realtà che costei non esista.

E a vedere i tele­gior­nali il qua­dro si incu­pi­sce ancora di più: beghe con­do­mi­niali, litigi per­so­nali, lea­de­ri­smo occu­pano l’intero spa­zio poli­tico, quello dal quale dovrebbe nascere il pro­getto di futuro. Ha ragione Bevi­lac­qua a dire (il mani­fe­sto dell’8 ago­sto) che la sini­stra è oggi una testa senza gambe. Le gambe, quando ci sono, cam­mi­nano da sole senza testa, e la testa ancora non si accorge di non avere le gambe, o forse più cini­ca­mente pensa di non averne più biso­gno come in quei romanzi di fan­ta­scienza dove si parla di imma­gi­na­rie menti senza l’ingombro del corpo che par­to­ri­scono pen­sieri e comandi. Que­sto il punto cru­ciale all’ordine del giorno della politica.

Così come ha ragione Michele Pro­spero (il mani­fe­sto del 4 ago­sto) a dire che la mino­ranza Pd, piac­cia o no, è molto utile al gioco del par­tito della nazione for­nendo la sua mal­de­stra stam­pella all’esercito dei vin­centi. Chi mai, tra i gio­vani (e anche tra i non gio­vani) può cre­dere ad essa? Se vogliamo con­ti­nuare con i ten­ta­tivi di sui­ci­dio, fac­ciamo pure un nuovo par­tito, inven­tia­moci un nuovo lea­der per avere l’illusione di esi­stere ancora. Tutto ciò che resta dell’attuale sini­stra non è più cre­di­bile agli occhi di nes­suno, quando essa non viene addi­rit­tura rite­nuta la respon­sa­bile degli attuali guai nostrani per averci illuso – e ingan­nato — che esi­steva un altro mondo diverso da questo.

Per espe­rienza per­so­nale posso citare la que­stione dram­ma­tica dell’università. Tra i vec­chi docenti impe­gnati, molti hanno fatto domanda di pen­sio­na­mento anti­ci­pato, altri, pur restando, vivono in soli­tu­dine senza impe­gno a curare i pro­pri (legit­timi) inte­ressi di ricerca. Un’intera classe diri­gente ha dato for­fait: chi può scappa, chi rimane tace dif­fi­dando dell’impegno poli­tico, men­tre l’ideologia libe­ri­sta meri­to­cra­tica si dif­fonde alla velo­cità della luce attra­verso il disbrigo quo­ti­diano di schede da riem­pire e valu­ta­zioni da fare per dimo­strare di essere i “migliori” e acce­dere alle gra­dua­to­rie nazio­nali e inter­na­zio­nali. Se vuoi avere suc­cesso parla pure in ita­liano (ancora è con­sen­tito) ma scrivi in inglese e su rivi­ste che sono accre­di­tate da impro­po­ni­bili agen­zie di valu­ta­zione pagate a peso d’oro dalle isti­tu­zioni. Un intero sistema for­ma­tivo essen­ziale per lo svi­luppo del paese è stato sman­tel­lato nel giro di pochi anni e ancor di più minac­cia di esserlo prossimamente.

Ser­vi­rebbe, come è suc­cesso a L’Aquila, un popolo delle car­riole che cominci a rac­co­gliere i cocci dello svi­luppo e con quelle mace­rie ini­ziare a costruire nuove archi­tet­ture come si faceva con le cat­te­drali goti­che, quando ancora la figura dell’Architetto non era nata. C’erano però i Mastri che con la loro sapienza gui­da­vano i lavori, inven­tando di volta in volta e col­let­ti­va­mente le forme e le solu­zioni tec­ni­che quando com­pa­ri­vano pro­blemi. Biso­gne­rebbe che poi le car­riole, con il loro cor­redo di rovine, con­fluis­sero verso una stessa dire­zione anzi­ché andar­sene a spasso ognuna per suo conto.

In un altro mondo, quello che noi vor­remmo, a quello sco­no­sciuto migrante che ha attra­ver­sato a piedi il tun­nel sotto La Manica sfi­dando cavi ad alta ten­sione e treni ad alta velo­cità, avremmo attri­buito una meda­glia d’oro: è lui il vero mara­to­neta delle Olim­piadi gre­che. La rispo­sta di Fran­cia e Inghil­terra è stata: ma dov’è la falla nei nostri sistemi di sicurezza?

«L’indeterminatezza della parola sinistra che consente al renzismo di rivendicarla deve spingerci a declinarla in modo nuovo: non siamo "più a sinistra", siamo "diversi"». Il manifesto, 13 agosto 2015, con postilla

Ai molti aspetti para­dos­sali che con­trad­di­stin­guono la sfera poli­tica in Ita­lia, pos­siamo aggiun­gere un altro para­dosso che riguarda diret­ta­mente l’oggetto su cui Norma Ran­geri ci ha invi­tato a discu­tere. Quanto più la «sini­stra» diventa inco­no­sci­bile nelle «cose» tanto più estende i suoi con­fini nelle «parole».

A «sini­stra del Pd» si stanno aprendo vastis­simi spazi per la «sini­stra». Con for­mu­la­zioni appena un po’ dif­fe­renti, frasi di tal genere ven­gono costan­te­mente ripe­tute anche sulle colonne di que­sto gior­nale. Lo si dice ormai da tanto tempo, ma lo stato di cose pre­sente ci prova in maniera dif­fi­cil­mente con­tro­ver­ti­bile quanto grande sia la dif­fe­renza tra affer­ma­zioni desi­de­ranti e realtà effet­tuale. Comun­que non è senza inte­resse chie­dersi quale sia il modo con cui è pos­si­bile inten­dere il ter­mine «sinistra».

Pro­ba­bil­mente la mag­gio­ranza di coloro che si sen­tono impe­gnati nella costru­zione della cosid­detta «casa comune» ritiene che la «sini­stra» in fieri, quella che dovrà occu­pare gli spazi lasciati liberi dal Pd, sia la sola legit­ti­mata all’uso di quel ter­mine. Ci sono però anche coloro che pen­sano ad un sog­getto poli­tico «a sini­stra» del Pd. C’è poi il Pd che ha risco­perto il valore nella comu­ni­ca­zione (nella pro­pa­ganda cioè) di una parola dalla quale, pro­prio nel suo momento fon­dante, aveva invece teso a sot­to­li­neare la distanza. Ricor­diamo bene Vel­troni, fon­da­tore e primo segre­ta­rio, defi­nire la nuova ragione del par­tito con espres­sione di radi­cale chia­rezza. A chi gli faceva notare che ormai egli non pro­nun­ciava più «la pala­bra izquierda», rispon­deva : «Es que somos refor­mi­stas, no de izquier­das» («El País», 1/03/2008). Ora Vel­troni ha risco­perto la «parola», così come il suo crea­tivo epi­gono Renzi.

Natu­ral­mente, trat­tan­dosi di pura comunicazione/propaganda, la «parola» deve flut­tuare nell’aria, non avere alcun peso ed alcuna radice nelle «cose». Sini­stra è «cam­bia­mento», sini­stra è «fare», come diceva com­pul­si­va­mente Ber­lu­sconi, al mas­simo sini­stra è un fle­bile richiamo ai sem­pi­terni valori. Tal­mente sem­pi­terni che, pre­scin­dendo da qual­si­vo­glia dimen­sione storico-analitica dei con­creti rap­porti eco­no­mici e sociali, pos­sono andar bene per tutti.

Pro­prio per que­sto lo «sdo­ga­na­mento» (così ha tito­lato «la Repub­blica») veltron-renziano del ter­mine «sini­stra» è sem­pli­ce­mente fun­zione del mer­cato elet­to­rale. Fun­zione effi­cace peral­tro per­ché a) richiama una tra­di­zione di lungo periodo i cui effetti di tra­sci­na­mento non sono certo esau­riti; b) spo­sta il con­fronto con qual­siasi altro sog­getto che voglia defi­nirsi di sini­stra su un piano esclu­si­va­mente assiale.

La col­lo­ca­zione sulla dimen­sione assiale, essendo le deno­mi­na­zioni poli­ti­che stru­menti di bat­ta­glia, non è la con­se­guenza di una tec­nica natu­rale, ma degli esiti di lotte poli­ti­che e cul­tu­rali. Per que­sto tali col­lo­ca­zioni si ride­fi­ni­scono con­ti­nua­mente e vanno valu­tate come sin­tomi di pro­cessi in corso, del tutto esterni rispetto a qual­siasi cri­te­rio di ogget­ti­vità. È evi­dente, quindi, il van­tag­gio del Pd che, restando sul piano assiale, può com­pe­tere con un forza che si col­loca ine­vi­ta­bil­mente «più a sini­stra». E il «più a sini­stra» è il luogo di tutte le forme di «estre­mi­smo», è il luogo del «più uno».

L’espressione «quelli del più uno» veniva usata dal sin­da­cato (Fiom) e dal Pci di Piom­bino, la città-fabbrica dove è avve­nuta la mia prima for­ma­zione poli­tica. La città fab­brica dove, per un periodo non breve, la realtà della dire­zione ope­raia ha coin­ciso con le ipo­tesi for­mu­late negli scritti dei nostri clas­sici. Veniva usata nei con­fronti dei «grup­pu­scoli», che dopo ogni lotta e dopo il suc­ces­sivo accordo, e nei primi anni Set­tanta gli accordi erano sem­pre favo­re­voli ai «pro­dut­tori», ai side­rur­gici, si pre­sen­ta­vano ai can­celli della grande fab­brica insi­stendo sull’insufficienza di que­gli accordi, sulla scarsa radi­ca­lità delle lotte. Quelli del «più uno», appunto.

In un asse dove è col­lo­cata una forza di esta­blish­ment che si defi­ni­sce come «sini­stra» e così viene defi­nita dalla stra­grande mag­gio­ranza dei media, la con­tem­po­ra­nea pre­senza di una forza «più a sini­stra», indi­pen­den­te­mente dalle prassi poli­ti­che reali, fini­sce ine­vi­ta­bil­mente per ripre­sen­tare quella stessa dinamica.

Cer­ta­mente è la parola «sini­stra» ad avere assunto, ed ormai da lungo tempo, una tale inde­ter­mi­na­tezza seman­tica da per­met­tere qual­si­vo­glia scor­re­ria pro­pa­gan­di­stica. Un breve inter­vento non è la sede per discu­tere della con­ti­nuità o meno del suo uso nel pro­cesso in corso. D’altra parte quello che appare logi­ca­mente giu­sto assai spesso non lo è nei pro­cessi di realtà. Ciò che, però, dob­biamo del tutto evi­tare è qual­siasi rife­ri­mento ad un posi­zio­na­mento «più a sini­stra» del Pd.

Karl Polany ha affer­mato: «Il socia­li­smo è essen­zial­mente la ten­denza ine­rente ad una civiltà indu­striale a supe­rare il mer­cato auto­re­go­lato subor­di­nan­dolo con­sa­pe­vol­mente ad una società demo­cra­tica» (“La grande tra­sfor­ma­zione. Le ori­gini eco­no­mi­che e poli­ti­che della nostra epoca”, 1944). Se que­sta con­clu­sione della lunga ana­lisi di Polany, diventa il minimo comun deno­mi­na­tore di tutte le forze impe­gnate nella costru­zione della «casa comune», ecco che la col­lo­ca­zione assiale cessa di avere senso. Non si tratta di essere «più a sini­stra», bensì di fare un salto qua­li­ta­tivo, di essere «diversi».

In fondo il pro­blema della «diver­sità» è tutto qui. Il prius della diver­sità, anche quella di Ber­lin­guer, non stava nell’etica, nell’antropologia, stava in una con­ce­zione della poli­tica e degli obbiet­tivi della poli­tica.

Affer­mare una teo­ria e una prassi che ten­dono a subor­di­nare il «mer­cato auto­re­go­lato» alla società «demo­cra­tica» è com­pito che con­di­ziona tutti gli ambiti della poli­tica, tutta la sfera dei diritti ed anche la sfera dei valori. Il rife­ri­mento ai «valori», infatti, ha senso solo all’interno di una pre­cisa con­cre­tezza ana­li­tica. Frutto, cioè, di una con­si­de­ra­zione dei «valori» come dimen­sione non sepa­rata dalla con­ce­zione del rap­porto tra demo­cra­zia e forme del capi­tale indi­cato da Polany.

Tutto ciò è di sinistra?

postilla

Nomina sunt consequentia rerum. "Sinistra" è parola che esprime contenuti otto-novecenteschi. Forse varrebbe la pena di iniziare la riflessione su quale fosse la realtà (sociale, economica, ideologica) che in quei secoli (in quelle fasi del capitalismo) allora la parola "sinistra" esprimeva, e quale quella che vogliamo che sia espressa oggi da un nuovo soggetto politico che rappresenti oggi la "diversità".

...(continua a leggere)

Del fitto decalogo che Norma Rangeri ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la sinistra aspira da tempo.

E tuttavia partendo da una considerazione generale.Non pochi si stupiscono, che proprio in Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple: SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.

Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile. La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.

Ora sono almeno due i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo, debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare, ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti. C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero, gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi, decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori , farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una prospettiva politica?

Questo bagno sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li fa somigliare a tutti gli altri.

L'altro grande problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità, di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza. Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista – con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di massa.

Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici, puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza, regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di sinistra.

Costruire un’alternativa e renderla credibile e concreta si può, ma è necessario sapersi confrontare, discutere e alla fine convergere. Per questo è importante evitare la tentazione di piantare ciascuno la propria bandierina come è fondamentale rinunciare a qualche quarto di identità in favore della posta (alta) in gioco nei prossimi mesi». Il manifesto, 27 luglio 2015

Venerdì scorso dopo la sco­perta scien­ti­fica di “un’altra terra” nella Via Lat­tea, molti hanno soste­nuto che un altro mondo è pos­si­bile. Noi siamo più mode­sti e vogliamo sco­prire se un’altra sini­stra è pos­si­bile.Pen­sare a un’altra sini­stra signi­fica per­cor­rere molte strade nel pros­simo futuro, ma prio­ri­ta­ria è una discus­sione libera e schietta. Per­ciò il mani­fe­sto — da domani — mette a dispo­si­zione le pro­prie pagine, che ospi­te­ranno inter­venti, opi­nioni, com­menti delle donne e degli uomini che vogliono ragio­nare e con­fron­tarsi sul pre­sente e sul domani del nostro Paese. Per ini­ziare ecco, secondo me, alcuni spunti neces­sari alla riflessione.
E pro­prio per­ché si tratta di spunti — tanti altri pos­sono essere aggiunti — non è impor­tante l’ordine in cui ven­gono espo­sti. Dunque.

1) La for­ma­zione di un par­tito alla vec­chia maniera? Sarebbe oppor­tuno ten­tare un’evoluzione della spe­cie. La nascita di un nuovo sog­getto poli­tico? Auspi­ca­bile ma sarebbe ancora meglio met­tere insieme diversi “sog­getti” poli­tici, sociali, cul­tu­rali. Nelle forme più ampie pos­si­bile. Più aperte. Le meno set­ta­rie. Le più alter­na­tive. Per­ché c’è vita a sini­stra (del Pd), e si tratta di milioni di per­sone che vor­reb­bero vedere tra­sfor­mate in realtà le loro volontà di cambiamento.

2) Potremmo ragio­nare a lungo sul ruolo avuto dall’ex Pci nell’ultimo tren­ten­nio. Ci aiu­te­rebbe a capire quanto sono pro­fonde le ragioni che hanno osta­co­lato la nascita di una nuova sini­stra (nella quale va inse­rita anche la sto­ria del gruppo del Mani­fe­sto e del Pdup). Ma andremmo troppo lontano.
Con­cen­tria­moci invece sullo spa­zio lasciato dal Pd alla sua sini­stra. Ampio sicu­ra­mente, eppure sem­pre estre­ma­mente fram­men­tato: dai movi­menti per i diritti sociali a quelli per i diritti civili (emersi nel nostro arre­trato paese anche gra­zie allo scavo costante della cul­tura fem­mi­ni­sta, pro­ta­go­ni­sta e madre di un altro modo di pen­sare la politica).
Un ampio fronte che passa anche per alcune forme di aggre­ga­zione poli­tica strut­tu­rate in orga­niz­za­zioni e par­titi. Un fronte dif­fuso e varie­gato, privo però di una spinta uni­ta­ria con­vin­cente. Si pos­sono tro­vare diverse ragioni per spie­gare l’autoreferenzialità, magari anche utile per pun­tare l’attenzione sulle idee diverse di alter­na­tiva. Ma nes­suna iden­tità può bloc­care la neces­sità, e ormai l’urgenza, di tro­vare forme, obiet­tivi, uni­tari. Con l’ambizione di essere un’alternativa poli­tica oggi e di governo domani. E quindi in grado di pre­sen­tarsi con pro­grammi e alleanze sociali lar­ghe e tra­sver­sali. In Ita­lia e in Europa.

3) Oggi all’ordine del giorno non c’è la rivo­lu­zione ma un’idea di rifor­mi­smo di sini­stra in grado di per­sua­dere milioni di per­sone. Kark Marx ai cri­tici del suo soste­gno alla legge delle dieci ore rispon­deva così: «Per la prima volta alla chiara luce del sole, l’economia poli­tica del pro­le­ta­riato ha pre­valso sull’economia poli­tica del Capi­tale». Nes­suna rivo­lu­zione, ideo­lo­gica e auto con­tem­pla­tiva ma cam­bia­menti radi­cali, di base.
Quei cam­bia­menti che un tempo si chia­ma­vano “riforme di strut­tura”, per indi­care un metodo paci­fico e pro­gres­sivo di muta­zioni pro­fonde nell’assetto eco­no­mico e sociale. Fino a poco tempo fa pen­sa­vamo che que­sta idea forte di rifor­mi­smo fosse impos­si­bile da rea­liz­zare. La con­qui­sta del governo di Tsi­pras e la recente affer­ma­zione di Pode­mos, hanno dimo­strato che le nuove idee pos­sono avere grande riscon­tro tra­sver­sal­mente nei diversi strati sociali ridi­se­gnati dall’impoverimento pro­vo­cato dalla crisi, e den­tro le forme della demo­cra­zia. Diretta, refe­ren­da­ria, inter­net­tiana, assem­bleare, e comun­que rappresentativa.
Ma il con­senso arriva solo quando tutto que­sto rie­sce ad essere con­vin­cente per­ché viene rap­pre­sen­tato da per­sone, gruppi, movi­menti che hanno saputo inter­pre­tare con serietà e prag­ma­ti­smo la lotta per il cambiamento.

4) Tutto quello che si muove al di fuori del Pd è con­vin­cente, signi­fi­ca­tivo? Intanto una parte dell’area sociale e cul­tu­rale alter­na­tiva — soprat­tutto quella gio­va­nile — si è rico­no­sciuta nel Movi­mento 5Stelle. Non per­ché (non solo) non esi­steva un’altra pro­po­sta forte, ma per­ché il M5S è andato a fondo con­tro il sistema cor­rotto dei par­titi, pun­tando sull’onestà ammi­ni­stra­tiva, sulla lotta al malaf­fare e ai pri­vi­legi della casta, sulla capa­cità di fare oppo­si­zione sui temi dei diritti civili e dell’ambientalismo. Tut­ta­via anche i 5Stelle, per diven­tare una forza ege­mo­nica, dovranno libe­rarsi da una strut­tura auto­ri­ta­ria costi­tuita da un capo poli­tico e da uno ideo­lo­gico. Da una voca­zione set­ta­ria che può diven­tare peri­co­losa, pro­prio per­ché con­vince milioni di per­sone. Il M5S l’ha già vinta e potrà vin­cere altre impor­tanti par­tite elet­to­rali, tut­ta­via l’ideologia del “chi non è con me è con­tro di me” non ci piace, per­ché dispo­tica e violenta.

5) Una vasta area di ita­liani, milioni di donne, uomini, gio­vani, anziani hanno scelto Sel, l’altra Europa di Tsi­pras, più pic­cole orga­niz­za­zioni che si richia­mano al comu­ni­smo, oppure solo la lotta di piazza, per i diritti civili e sociali o su obiet­tivi spe­ci­fici (i no Tav, i no Triv quelli che Renzi chiama “comi­tati e comi­ta­tini”) e anche il non voto.
C’è la parte di società rap­pre­sen­tata da Lan­dini e quella che si rico­no­sce diret­ta­mente nei fuo­riu­sciti del Pd (Civati e Fas­sina) e nella mino­ranza anti­ren­ziana. La lotta che il movi­mento sin­da­cale ha orga­niz­zato, trai­nato dalla Cgil, con­tro il Jobs Act e con­tro le nuove leggi sulla scuola ha espresso una potente sog­get­ti­vità, gua­da­gnan­dosi l’attacco duro e costante del premier/segretario dell’ex par­tito di rife­ri­mento. Que­ste e altre sono le poten­zia­lità di una “cosa” di nuova sinistra.
Ma qui ripeto una rifles­sione che Vit­to­rio Foa ci pro­po­neva già nel fati­dico 1977: «Come mai le scon­fitte elet­to­rali, sociali e poli­ti­che non scal­fi­scono le nostre sicu­rezze?». Una domanda che faceva rife­ri­mento a un sistema poli­tico ancora fon­dato sui grandi par­titi di massa. Quei par­titi sono scom­parsi, ma l’errore rischia di per­ma­nere per­ché la ten­ta­zione di pian­tare cia­scuno la pro­pria ban­die­rina, la cat­tiva abi­tu­dine di non saper rinun­ciare a parti della pro­pria iden­tità in favore dell’unità, è una sorta di tara gene­tica dif­fi­cile da curare.

6) Natu­ral­mente è vitale per la sini­stra essere in grado di misu­rarsi con i pro­fondi cam­bia­menti inter­ve­nuti negli ultimi anni nel mondo del lavoro, sem­pre più dif­fi­cile da rap­pre­sen­tare per la pro­gres­siva, pro­fonda, ine­dita par­cel­liz­za­zione delle figure pro­fes­sio­nali. Accanto a lavori imma­te­riali che pro­iet­tano lo sguardo nel mondo delle reti dove tempo di vita e tempo di lavoro non sono più distin­gui­bili, con­vi­vono lavori pri­mi­tivi, poveri, di sfrut­ta­mento ottocentesco.
Chi sono oggi i lavo­ra­tori? Cos’è il lavoro? E come e quanto viene rico­no­sciuto? Su que­sto aspetto della vita col­let­tiva sono avve­nuti i cam­bia­menti più forti, che hanno por­tato ad un inde­bo­li­mento della rap­pre­senta tra­di­zio­nale e ad un nuovo sfrut­ta­mento, con lavori sot­to­pa­gati, prov­vi­sori, pre­cari. Per milioni di per­sone c’è povertà e non c’è futuro: una sini­stra vera deve pen­sare non solo a chi ha un posto assi­cu­rato, ma ai più deboli, ai più fra­gili, a quei milioni di donne e di uomini costretti alla soprav­vi­venza da pen­sioni da fame. Una forza nuova di sini­stra dovrebbe avere come prio­rità l’impegno per i gio­vani senza lavoro o pre­cari e i pen­sio­nati meno protetti.

7) L’immigrazione dei nostri tempi è un feno­meno strut­tu­rale che insieme alla crisi eco­no­mica, ai nuovi con­flitti che ali­men­tiamo (nella spi­rale guerra-terrorismo-guerra), all’invecchiamento della popo­la­zione euro­pea sti­mola pro­getti e alter­na­tive visioni del mondo. Met­tendo in discus­sione e a dura prova uno degli aspetti fon­danti dell’economia e della società occi­den­tale: il wel­fare. Sem­pre più povero, sem­pre meno inclusivo.
Ma quale sarà la strut­tura eco­no­mica di base se il capi­ta­li­smo tem­pe­rato dalla social­de­mo­cra­zia non ha tro­vato nem­meno una voce nella lunga, aspra, rive­la­trice lotta del pic­colo David greco con­tro il gigante Golia euro­peo? Sul nostro gior­nale alcuni e diversi intel­let­tuali hanno ini­ziato ad abboz­zare idee e linee di un piano su immigrazione-lavoro-beni cul­tu­rali e ambien­tali che andrebbe svi­lup­pato. Ma la rispo­sta alla tra­ge­dia che coin­volge in par­ti­co­lare i dispe­rati del Sud del mondo non può essere l’egoismo, la ripro­po­si­zione del privilegio.
A quelli che ven­gono in Europa con una spe­ranza di vita e con ener­gie intel­let­tuali da offrire, dob­biamo dare un inse­ri­mento rispet­toso delle cul­ture e delle tra­di­zioni altrui. E dob­biamo essere intran­si­genti con­tro chi spe­cula e cerca con­sensi. Una società non soli­dale non ci interessa.

8) Le riforme sono molto impor­tanti, anche quelle isti­tu­zio­nali ed elet­to­rali. Solo chi è cieco non vede che con le nuove leggi si dà troppo potere ad un solo par­tito e solo al capo di quel par­tito. Non a caso men­tre si met­tono in un angolo i con­trap­pesi isti­tu­zio­nali, si cavalca il web come stru­mento di demo­cra­zia diretta, si inde­bo­li­scono le rap­pre­sen­tanze di base, si orienta la mac­china elet­to­rale verso forme di unzione popo­lare. Si punta — dall’avvento del ber­lu­sco­ni­smo — a raf­for­zare il ruolo dell’uomo solo al comando. (A que­sto pro­po­sito dovrebbe essere con­tra­stata la ten­denza al lea­de­ri­smo esasperato).
Comun­que appli­care la Costi­tu­zione non signi­fica imbal­sa­marla ma pro­porre una riforma del bica­me­ra­li­smo e della legge elet­to­rale per una nuova orga­niz­za­zione dei poteri. Ini­ziando dal modello comu­nale, pos­si­bile labo­ra­to­rio di altre forme par­te­ci­pa­tive (e ambien­ta­li­ste), di espe­rienze sul campo per l’applicazione dell’idea dei beni comuni, lon­tani da vec­chie logi­che sta­ta­li­ste, nono­stante l’interpretazione dei mono­toni libe­ri­sti che dila­gano sul Cor­riere della Sera. Fino alla forma di governo nazio­nale, al rap­porto tra Legi­sla­tivo e Esecutivo.

9) Non si può met­tere tra paren­tesi o dimen­ti­care ciò che nel mondo con­tem­po­ra­neo tutto ingloba e resti­tui­sce: la comu­ni­ca­zione. Cosa diversa dall’informazione, dall’autonomia dei media dai poteri indu­striali e finan­ziari. La comu­ni­ca­zione è oggi mar­ke­ting poli­tico, nar­ra­zione di nuove lea­der­ship come dimo­strano gril­li­smo e M5S. Si tratta di stru­menti che la sini­stra poli­tica sa usare poco ma che per for­tuna i gio­vani dei movi­menti rie­scono a maneg­giare meglio (la maschera di Ano­ny­mous, i flash mob, le moda­lità della piazza).
Tut­ta­via il potere dei media in Ita­lia è ancora e soprat­tutto tele­vi­sivo, fin dai tempi della tv di Ber­na­bei per arri­vare a Ber­lu­sconi. Un par­tito padrone della tv, più o meno magna­nimo e plu­ra­li­sta. E ancora oggi assi­stiamo a una non-riforma, a una non-modernizzazione, ma sem­pli­ce­mente a una con­cen­tra­zione del potere in un’unica figura di deci­sore. Men­tre la stampa risponde a logi­che di gruppi indu­striali nazio­nali sem­pre più deboli e inde­bi­tati, sem­pre più dispo­sti a omag­giare il potere poli­tico, in una com­mi­stione spesso inestricabile.
Com’è pos­si­bile che oggi tutti sia come e peg­gio di sessant’anni fa?

10) La vicenda greca, che ha impe­gnato e ancora impe­gnerà a lungo tutti noi, ha chia­rito che non c’è — e non c’è mai stata — l’Europa pen­sata dai padri fon­da­tori come Altiero Spi­nelli. Oggi c’è un’Europa che viag­gia a diverse velo­cità, divisa tra Nord e Sud, che si regola sulle eco­no­mie dei paesi più forti. L’idea degli Stati Uniti d’Europa ha ancora una sua forza trai­nante? E’ la moneta che decide o è uno stru­mento della poli­tica che la determina?
Quindi la que­stione cen­trale è in una domanda: c’è vita a sini­stra? Sì, c’è, ed è un mondo. Però dopo viene tutto il resto. Chi dovrebbe farne parte? Quali pro­po­ste di governo dovrebbe avere? Che idea di futuro può pro­porre? Come deve orga­niz­zarsi? Ha biso­gno di un lea­der come nella sini­stra greca e spagnola?

Questo è solo l'inizio della riflessione che il manifesto intende ospitare.
E che dovrà essere ampia, aperta, veri­tiera, libera da vec­chi schemi e inges­sa­ture poli­ti­che. Vedremo dove appro­derà. Ma sono certa che potrà dare un senso a quel con­fronto ormai non più rin­via­bile per tutti coloro che hanno cre­duto e cre­dono in una società demo­cra­tica, diversa, attenta e impe­gnata sui diritti sociali e civili di milioni di persone.

Cam­biare si deve. Ma le espe­rienze greca e spa­gnola ci dicono soprat­tutto che si può.
Attenta analisi della nascita, crescita e conquista dell'economia da parte del neoliberismo, in una visione gramsciana della lotta per il potere. Come ha fatto a vincere l'ideologia che domina, utilizzando strumenti che la sinistra novecentesca ha gettato alle ortiche (e i vagiti di quelle del nostro secolo stenta a saper usare).

La Repubblica, 27 luglio 2015

Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza.

Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”. Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa. Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali. Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la superiorità fuor di discussione del libero mercato; la categorica riduzione del ruolo dello Stato a costruttore e guardiano delle condizioni che permettono la massima diffusione dell’uno e dell’altro.
Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi. Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine, ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe) quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».

Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi. Ai tempi della presidenza Reagan ( 1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica, furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris. I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps, intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.

Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore), Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.

Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia. Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky.

Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica economica della UE contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia — come ha dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi, poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino. La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia, in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.

La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni. I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com, glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.

Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE.

Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare ». Al fiume di pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti.

Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica, civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici, basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento; dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della privatizzazioni?

Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti, funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.

Il manifesto, 11 luglio 2015
La prima que­stione che la vicenda greca richiama riguarda una domanda che emerge pro­prio dalla stessa crisi: è pos­si­bile, nell’Europa attuale, un governo di sini­stra? Quello di Syriza è il primo governo di sini­stra nell’Unione Euro­pea. È sicu­ra­mente un caso par­ti­co­lare, di uno stato troppo debole e inde­bi­tato per eser­ci­tare, al momento, un governo com­piu­ta­mente auto­nomo. Ma la natura dell’Ue lascia pen­sare che se anche un governo di sini­stra si affer­masse in paesi più forti e meno sot­to­po­sti al con­trollo della Troika, le dif­fe­renze con il caso greco sareb­bero di grado, non di sostanza.

Il governo Tsi­pars è riu­scito in poco tempo a costruire una forte ege­mo­nia interna, come hanno san­cito la vit­to­ria del No e il fatto che le prin­ci­pali oppo­si­zioni abbiano dovuto deci­dere di soste­nerlo nelle trat­ta­tive con l’Europa. Que­sto è già molto, ed è raro. Solo alcuni governi latino-americani sono riu­sciti negli ultimi anni a uti­liz­zare il governo per costruire ege­mo­nia, sven­tando gra­zie a que­sta ege­mo­nia ten­ta­tivi di golpe, pro­prio com’è acca­duto a Syriza nelle ultime set­ti­mane (il refe­ren­dum ha momen­ta­nea­mente fer­mato il ten­ta­tivo euro­peo di rove­sciare il governo). Mai, invece, que­sta ope­ra­zione ege­mo­nica è riu­scita a un governo euro­peo di centro-sinistra, che di solito crolla nei con­sensi nel giro di settimane.

Nello stesso tempo, ciò che Syriza sta riu­scendo a otte­nere da una posi­zione di governo – che, nel con­te­sto dato, è il mas­simo che potesse otte­nere – è piut­to­sto lon­tano dai suoi obiet­tivi ori­gi­nari. L’Unione euro­pea rende sostan­zial­mente impos­si­bile la rea­liz­za­zione di pro­grammi redi­stri­bu­tivi, la ripresa di un signi­fi­ca­tivo inter­vento pub­blico in eco­no­mia, una poli­tica indu­striale, e per­fino poli­ti­che di soste­gno alla povertà (che cini­ca­mente la mano dell’Ue can­cella con la penna rossa dalle pro­po­ste di Atene). Si tratta di rea­li­smo, non di ideo­lo­gia: il pro­gramma di Syriza era un pro­gramma rifor­mi­sta, ma anche que­sto sem­bra irrealizzabile.

Come ren­derlo realizzabile?

I par­titi della sini­stra radi­cale in Europa hanno acqui­sito un’ottica di governo: vogliono gover­nare, da soli o se neces­sa­rio in coa­li­zione. Come la situa­zione greca mette in luce, nell’attuale con­te­sto euro­peo la rea­liz­za­zione di un pro­gramma di sini­stra è quasi impos­si­bile. Si può scom­met­tere sul fatto che la vit­to­ria di Syriza abbia aperto un ciclo poli­tico che porti le sini­stre a vin­cere in Spa­gna, in Irlanda, in Por­to­gallo e poi magari in Ita­lia, e che in que­sta situa­zione i rap­porti di forza si modi­fi­chino al punto da poter cam­biare la costi­tu­zione mate­riale dell’Ue.

Ma ciò può anche non suc­ce­dere. È impen­sa­bile, allora, che una sini­stra che aspira al governo si ponga il pro­blema di una «exit stra­tegy»? Se l’Europa rende impos­si­bile qual­siasi poli­tica key­ne­siana e redi­stri­bu­tiva, l’appartenenza all’Eurozona dev’essere con­fer­mata a ogni costo? Anche se la rispo­sta è affer­ma­tiva, la domanda non può essere, rea­li­sti­ca­mente, elusa. Una forza nego­ziale si costrui­sce anche sulla base di alter­na­tive per­cor­ri­bili. Che non pos­sono però riguar­dare un solo paese, ma impli­cano la costru­zione di un vasto sistema di alleanze inter­na­zio­nali alter­na­tive, o com­ple­men­tari, a quelle attuali.

In secondo luogo. Non c’è solo l’Unione euro­pea a para­liz­zare l’azione dei governi. Lo fanno anche il capi­tale finan­zia­rio e quello pro­dut­tivo. Gli Stati sono total­mente dipen­denti dai mer­cati finan­ziari. Una poli­tica non gra­dita a que­sti ultimi ver­rebbe col­pita da attac­chi spe­cu­la­tivi e dal man­cato finan­zia­mento del debito pub­blico. Le imprese, nazio­nali o stra­niere, hanno poi il potere di rea­gire a poli­ti­che redi­stri­bu­tive o favo­re­voli al lavoro con la minac­cia dello spo­sta­mento della pro­du­zione, come hanno fatto da ultimo gli arma­tori greci.

Come si può rea­li­sti­ca­mente affron­tare que­sta dop­pia minaccia?

La «sini­stra di governo» deve costruire un’alternativa agli attuali stru­menti di finan­zia­mento del debito, e deve pen­sare a come costruire una nuova eco­no­mia pub­blica, una nuova capa­cità di inter­vento diretto dello Stato nell’economia pro­dut­tiva, che con­tem­pli anche la pro­prietà diretta delle imprese (in forme sicu­ra­mente inno­va­tive). È l’unico modo per dotarsi di una capa­cità di rea­zione alla minac­cia di «esodo» del set­tore pri­vato. Sto­ri­ca­mente si è assi­stito a ciclici con­flitti tra Stato e capi­tale. Biso­gna imma­gi­nare le forme con­tem­po­ra­nee di tale conflitto.

Infine, è pos­si­bile che della crisi eco­no­mica in corso abbiamo visto solo la prima parte. Lo spo­sta­mento a Est del cen­tro dell’economia mon­diale rende sta­bile la crisi di cre­scita delle eco­no­mie occi­den­tali. Vista l’attuale redi­stri­bu­zione della pro­du­zione e dei ser­vizi a livello inter­na­zio­nale, biso­gna pren­dere atto del fatto che le società occi­den­tali stanno spe­ri­men­tando una «decre­scita» for­zata della pro­du­zione e dei livelli di vita.

Ana­lisi rigo­rose sulla disoc­cu­pa­zione tec­no­lo­gica evi­den­ziano poi come l’automazione e la robo­tiz­za­zione stiano for­te­mente ridu­cendo, dopo l’occupazione manuale, quella intel­let­tuale. È pos­si­bile che nei pros­simi due decenni tassi di disoc­cu­pa­zione del 30% (secondo stu­diosi seri come Ran­dall Col­lins, anche del 40 o 50%) diven­tino nor­mali, per­ché l’innovazione tec­no­lo­gica non si ferma. Come affron­tare que­sti pro­blemi? È pos­si­bile pro­get­tare sistemi sociali ad alto svi­luppo tec­no­lo­gico in cui il lavoro sia ampia­mente redi­stri­buito e sia comun­que garan­tito a tutti il red­dito neces­sa­rio per una vita digni­tosa? Come farlo? La ridu­zione dell’orario di lavoro e il red­dito di cit­ta­di­nanza potreb­bero richie­dere appli­ca­zioni molto più estese e radi­cali di quelle a cui si pensa attualmente.

Que­sti due aspetti – crisi di cre­scita e aumento della disoc­cu­pa­zione tec­no­lo­gica – fanno anche dire a un altro impor­tante scien­ziato sociale, Imma­nuel Wal­ler­stein, che il capi­ta­li­smo andrà incon­tro a una crisi siste­mica nell’arco di 30 anni, anche per il fatto che nes­suno Stato, dopo gli Usa, avrà la forza suf­fi­ciente per costruire uno sta­bile ordine mon­diale. Abbiamo di fronte, poten­zial­mente, sce­nari di que­sta portata.

Fino a 30 anni fa, la sini­stra era anti­ci­pa­zione, la destra con­ser­va­zione e difesa. Da trent’anni la sini­stra si difende. Riu­sciamo a costruire con­flitti impor­tanti solo per difen­dere diritti con­so­li­dati. Di solito li per­diamo. La sini­stra di governo deve rico­min­ciare ad anti­ci­pare i cam­bia­menti, prima che si mani­fe­stino come emer­genza. Biso­gna appro­fon­dire nel det­ta­glio tutte le varia­bili in gioco e dotarsi di pro­grammi di governo rea­li­stici. Rea­li­stico signi­fica ade­guato alla radi­ca­lità dei muta­menti in corso.

La società è sot­to­po­sta a un movi­mento for­tis­simo, pro­ba­bil­mente desti­nato a cre­scere. Tutto è in gioco: gli assetti eco­no­mici e sociali, le forme della poli­tica, le strut­ture isti­tu­zio­nali, i rap­porti tra le cul­ture. Per poter essere parte di que­sto movi­mento e can­di­darsi addi­rit­tura a gui­darlo, la sini­stra deve tor­nare a incar­nare un intero modello di società.

«Dopo il referendum. Il rifiuto greco del memorandum interroga gli altri paesi del sud dell'Europa. Se la sinistra italiana non saprà rispondere alla sfida lanciata da Atene il nostro default politico sarebbe totale». Il manifesto, 8 luglio 2015

Non si è trat­tato di una sfida tra demo­cra­zia e tec­no­cra­zia, bensì tra due con­ce­zioni di demo­cra­zia, tra due visioni poli­ti­che. Non è vero infatti che sia stata la troika a imporre l’austerità, sono stati i governi degli Stati — legit­ti­ma­mente eletti — a dele­gare alle isti­tu­zioni finan­zia­rie il com­pito di attuare le misure eco­no­mi­che di stampo neo­li­be­ri­sta volon­ta­ria­mente decise dagli Stati stessi in sede europea.

Visioni incon­ci­lia­bili

I Trat­tati e i rei­te­rati accordi tra i paesi mem­bri dell’Unione euro­pea (dal Six-Pack al Fiscal com­pact al Two-Pack) sono le fonti nor­ma­tive che hanno gene­rato le misure di rigore euro­pee. Il governo greco — anch’esso legit­ti­ma­mente eletto — chiede ora di cam­biare, denun­cia l’insuccesso delle misure di auste­rità sin qui seguite che hanno por­tato molti paesi ad un passo dal tra­collo, hanno impe­dito la ripresa, non sono riu­scite ad affron­tare le que­stioni che strut­tu­ral­mente carat­te­riz­zano la debo­lezza eco­no­mica dei sin­goli paesi. In que­sto qua­dro c’è poi la que­stione spe­ci­fica della Gre­cia, il cui debito è un osta­colo per ogni pos­si­bile ripresa del paese.

Ciò che ha impe­dito l’accordo tra i diciotto Stati dell’eurozona non è stato il debito, bensì le incon­ci­lia­bili visioni di poli­tica eco­no­mica. È que­sta la vera que­stione che il governo greco e ora anche il suo popolo ci pongono.

Incam­mi­narsi verso l’ignoto

Il No greco al memo­ran­dum dei cre­di­tori e all’ideologia da que­sto espresso rap­pre­senta il rifiuto di un modello di svi­luppo. Ci carica di respon­sa­bi­lità inter­ro­gan­doci sulla nostra con­ce­zione di demo­cra­zia, sul rap­porto tra diritti e mer­cato, sull’idea di società. Ci invita ad abban­do­nare il noto (le poli­ti­che sin qui seguite) per incam­mi­narci verso l’ignoto (almeno in Europa: negli Stati uniti la ripresa c’è stata pro­prio gra­zie all’abbandono delle poli­ti­che recessive).

Una sfida straor­di­na­ria. Sapremo in grado di raccoglierla?

Quel che può dirsi e che non baste­ranno le astu­zie o i ten­ta­tivi di addol­cire le poli­ti­che sin qui seguite. La Gre­cia ci ha mostrato che non si può pun­tare su un’«austerità espan­siva», ma è neces­sa­rio pun­tare ad una rot­tura di continuità.

Ciò vuol dire cam­biare i Trat­tati e gli accordi che defi­ni­scono le poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali tra Stati. Vuol dire risco­prire un’Europa poli­tica e sociale, pren­dere sul serio quel che è pur scritto nel pre­am­bolo della Carte dei diritti dell’Unione euro­pea («L’Unione pone la per­sona al cen­tro della sua azione»), ma che è stato tra­volto dal domi­nio arro­gante e disu­mano delle poli­ti­che di mercato.

È evi­dente che un’impresa così grande non è nella dispo­ni­bi­lità di un solo paese o di un pic­colo popolo, per quanto orgo­glioso e con­sa­pe­vole possa essere. Ed è anche per que­sto che il refe­ren­dum greco ci inter­roga diret­ta­mente e asse­gna ai popoli e a tutti gli Stati euro­pei una respon­sa­bi­lità immensa.

Niente egoi­smi nazionali

L’obiettivo di cam­biare i Trat­tati e far adot­tare poli­ti­che sociali alle isti­tu­zioni euro­pee (com­prese quelle finan­zia­rie e ban­ca­rie) potrà essere rag­giunto solo a seguito di una dif­fi­cile e respon­sa­bile lotta poli­tica da svol­gere in Europa. Non si potrà con­ce­dere nulla al popu­li­smo, nep­pure a quello radi­cale che tanto alletta parte della sini­stra. Non ci si potranno for­mare alleanze spu­rie con gli anti­eu­ro­pei­sti, nazio­na­li­sti, gli egoi­smi nazio­nali di varia natura.

Non si potrà fare affi­da­mento nep­pure sulle grandi social­de­mo­cra­zie, che potranno pur cam­biare e alla fine dare una mano, ma solo se costrette. I paesi del sud d’Europa dovreb­bero essere le più inte­res­sate a cam­biare: oltre la Gre­cia, la Spa­gna. La vit­to­ria di Pode­mos può essere un tas­sello deci­sivo in que­sta stra­te­gia. Poi il Por­to­gallo, chissà che ne sarà dell’ondivaga Fran­cia. E l’Italia?

La dele­ga­zione più folta

Se si guarda al nostro paese oggi non c’è da essere otti­mi­sti. Non c’è nes­suno che sia in grado di rap­pre­sen­tare con ade­guata forza le istanze del cam­bia­mento reale. Saremo anche pieni di buone inten­zioni e, a volte, per­sino gene­rosi. Ma c’è egual­mente da dispe­rare: la dele­ga­zione più folta che ha festeg­giato la vit­to­ria del refe­ren­dum ad Atene era quella ita­liana. Per forza, cia­scuno rap­pre­sen­tava se stesso! Per la Ger­ma­nia c’era la Linke, per la Spa­gna Pode­mos, per l’Irlanda Sinn Fein, e così via. Per l’Italia un eser­cito diviso di per­so­na­lità disor­ga­niz­zate e indistinte.

Ora vera­mente non c’è più tempo. Se noi ita­liani non sapremo rispon­dere alla sfida che è stata lan­ciata dalla Gre­cia rischiamo di com­pro­met­tere una stra­te­gia di riscatto dei popoli euro­pei. Un debito che poi non potremmo mai più resti­tuire e il nostro default poli­tico sarebbe totale.Un No che ci carica di responsabilità

Dopo il referendum. Il rifiuto greco del memorandum interroga gli altri paesi del sud dell'Europa. Se la sinistra italiana non saprà rispondere alla sfida lanciata da Atene il nostro default politico sarebbe totale

Postilla

Ma che cos'è "la sinistra italiana"? riusciamo a vederne un po' se guardiamo le persone, ma se guardiamo i partiti non ne vediamo nulla.
«La ferocia liberista della socialdemocrazia europea» e «È il tracollo del socialismo europeo»: sono i titoli degli articoli di Marco Bascetta e Marco Revelli che sintetizzano con efficacia il dramma dell'Unione europea. Liberare lo scenario dai rottami della sinistra del secolo breve è forse il passo essenziale da compiere per combattere vittoriosamente il neoliberismo, fase finale del capitalismo.

Il manifesto, 7 luglio 2015

LA FEROCIA LIBERISTA DELLA SOCIALDIMOCRAZIA EUROPEA

di Marco Bascetta

Le due ali politiche istituzionali fanno a gara per imporre i memorandum della Bce e del Fmi all’Europa. E chiudono gli occhi di fronte all’esercizio della democrazia che viene dalla Grecia
Il volto gri­gio e tirato di Mar­tin Schulz, pre­si­dente dell’Europarlamento, costretto a bal­bet­tare il suo com­mento «isti­tu­zio­nale» al risul­tato del refe­ren­dum greco è forse l’immagine più vivida dello stato in cui versa quella che fu la social­de­mo­cra­zia europea. Solo poche ore prima, a urne ancora aperte, era inter­ve­nuto, con un gesto inam­mis­si­bile per il ruolo che rico­pre, a soste­gno dello schie­ra­mento del sì. Per poi, una volta scon­fitta la sua «parte», offrire, inde­cen­te­mente, un soste­gno «umanitario» alla Grecia.

Herr Schulz, le cui dimis­sioni dovreb­bero essere cosa scon­tata, rispec­chia tut­ta­via pie­na­mente l’idea di demo­cra­zia pre­va­lente nelle segre­te­rie delle for­ma­zioni social­de­mo­cra­ti­che euro­pee. Il suo par­tito, la Spd, si è speso tanto acca­ni­ta­mente in favore del rigore e delle poli­ti­che di auste­rità da osta­co­lare per­fino quel tanto di aper­ture che la can­cel­liera Angela Mer­kel avrebbe potuto azzar­dare in alcune fasi del nego­ziato con Atene.

Nean­che per un istante la diri­genza social­de­mo­cra­tica, in buona com­pa­gnia di ita­liani e fran­cesi, si è disco­stata, sia pur di poco, da quello schema che pone al cen­tro della costru­zione euro­pea il rap­porto tra debi­tori e cre­di­tori e il rispar­mio a disca­pito dei red­diti e dei diritti. Cosic­ché oggi la social­de­mo­cra­zia tede­sca è tagliata fuori, per eccesso di zelo, (e per for­tuna) da qua­lun­que pos­si­bile ruolo nella ripresa di un nego­ziato con Atene. Come una can­ti­lena, ormai stan­tia, si limita a ripe­tere che il refe­ren­dum greco ha reso la ricerca di una solu­zione ancora più dif­fi­cile, per non dire impos­si­bile. Ma si guarda bene dall’aggiungere che que­sta «dif­fi­coltà» altro non è che il rifiuto di Syriza di gover­nare secondo regole ostili o indif­fe­renti alla volontà dei gover­nati, come sarebbe auspi­ca­bile secondo la gover­nance europea.

L’Europa sarebbe insomma minac­ciata da una over­dose di demo­cra­zia che rischia di legare le mani dei governi. E non è un caso che nell’Italia delle «riforme» si lavori a ren­dere sem­pre più dif­fi­col­toso il ricorso allo stru­mento refe­ren­da­rio, suscet­ti­bile di scom­pa­gi­nare i gio­chi dell’esecutivo. Oltre che sociale, la socialdemocrazia ha dunque cessato anche di essere democratica.

Resta così, nel ruolo sem­pre più pate­tico e impro­ba­bile di «pon­tiere», la figura più pal­lida e impo­po­lare che i par­titi socia­li­sti d’Europa abbiano mai espresso: Fra­nçois Hollande. Mezzo medi­ter­ra­neo e mezzo gover­nante sem­pre più in bilico di una grande nazione deci­siva per l’Unione euro­pea, ma del tutto subal­terno a quella visione tede­sca del Vec­chio con­ti­nente, che un tempo pre­oc­cu­pava non poco i governi di Parigi. La Francia, da tempo, più che una soluzione è diventata una parte rilevante del problema.

È il paese che ha votato no alla Costi­tu­zione poli­tica euro­pea, affos­san­done defi­ni­ti­va­mente per­fino l’idea, ma che in nes­sun modo si è poi spesa nel cor­reg­gerne la costi­tu­zione mate­riale, ossia i rap­porti di forze eco­no­mici e gli assetti gerar­chici che ne con­fi­gu­rano l’equilibrio: «No alla Costi­tu­zione, si ai Memo­ran­dum», que­sta la lieta novella che pro­viene da Parigi. Nel repub­bli­ca­ne­simo fran­cese si anni­dano molti più sen­ti­menti anti­eu­ro­pei di quanti se ne pos­sano incon­trare dalle parti di Atene. E non è sor­pren­dente che nel suo seno pro­speri e si svi­luppi una forza come il Front Natio­nal di Marine le Pen. Né che la social­de­mo­cra­zia fran­cese si riveli del tutto inca­pace di farvi in alcun modo fronte.

Sotto un velo reto­rico sem­pre più sot­tile e tra­spa­rente l’Unione va tra­sfor­man­dosi in un tavolo nego­ziale tra crip­to­scio­vi­ni­smi di potenza dise­guale, con l’entusiastica ade­sione delle social­de­mo­cra­zie in costante declino di cre­dito elet­to­rale. Affan­nato e petu­lante, truc­cando spu­do­ra­ta­mente i numeri del «suc­cesso», il nostro Pd par­te­cipa alla gara nelle seconde file. La «prio­rità dell’interesse nazio­nale» non è più l’evocazione impro­nun­cia­bile di una sto­ria obbro­briosa, ma un buon argo­mento da cam­pa­gna elettorale. In un sif­fatto con­te­sto in cui l’ipocrisia si fa neces­sità sto­rica, diventa essen­ziale soste­nere che il «no» uscito trion­fante dal refe­ren­dum greco è un no all’Europa e una delle molte insor­genze «popu­li­ste» o «ros­so­brune» che minano la costru­zione euro­pea e aprono sull’ignoto.

Sem­bre­rebbe esservi una sin­go­lare teo­ria che cir­cola da qual­che tempo nei prin­ci­pali media euro­pei e nel dibat­tito pub­blico. Se una volta anda­vano in gran voga gli «oppo­sti estre­mi­smi» ora sem­bra venuto il tempo dei «con­ver­genti estre­mi­smi» che, da destra e da sini­stra, allean­dosi fra loro, pun­tano a demo­lire la sta­bi­lità del Vec­chio con­ti­nente e a inde­bo­lirne le auree regole. Ogni voce cri­tica viene auto­ma­ti­ca­mente attri­buita a que­sto inquie­tante sce­na­rio. Non manca nem­meno chi anno­vera Alba dorata tra i soste­ni­tori di Tsi­pras, comun­que ricor­ren­te­mente assi­mi­lato al Front natio­nal, al Movimento5 stelle o ai nazio­na­li­sti polac­chi. Natu­ral­mente in com­pa­gnia del temu­tis­simo Podemos.

Que­sta opera di disin­for­ma­zione ha rag­giunto il paros­si­smo alla vigi­lia del refe­ren­dum in Gre­cia. Il quale espri­meva invece un punto irri­nun­cia­bile, riba­dito con gran­dis­sima insi­stenza: la per­ma­nenza nell’Unione euro­pea e la crea­zione di con­di­zioni tali da non far dipen­dere que­sta appar­te­nenza da un rap­porto tra cre­di­tori e debi­tori uni­ver­sal­mente rico­no­sciuto come insostenibile. Ciò che risulta vera­mente indi­ge­ri­bile dell’esperienza greca è appunto il suo con­vinto euro­pei­smo. Il quale minac­ce­rebbe non tanto i trat­tati euro­pei quanto gli inte­ressi nazio­nali (sovente più ideo­lo­gici che con­ta­bili) degli stati che gover­nano di fatto l’Unione.

Se di «salto nel buio» si deve par­lare non è certo rife­ren­dosi alla mossa refe­ren­da­ria di Tsi­pras, quanto alla capar­bia difesa di uno squi­li­brio che sta spia­nando la strada alle peg­giori forme di nazio­na­li­smo, alle quali la social­de­mo­cra­zia euro­pea risponde facen­dosi a sua volta por­ta­voce «ragio­ne­vole» dell’«interesse nazio­nale». E’ que­sta la deriva che sta minac­ciando l’Europa e che la crisi greca non ha certo pro­dotto, ma piut­to­sto chia­ra­mente rivelato.

E’ IL TRACOLLO DEL SOCIALISMO EUROPEO

di Marco Revelli

La valanga di «No» non è solo una vit­to­ria del governo e del popolo greco. E’ una vit­to­ria di tutti gli euro­pei che non hanno voluto smet­tere di cre­dere nella democrazia.

La paura è stata scon­fitta. Cla­mo­ro­sa­mente. Il ten­ta­tivo di semi­nare il ter­rore nell’elettorato da parte dei prin­ci­pali espo­nenti delle isti­tu­zioni euro­pee, a comin­ciare dal gover­na­tore della Bce Mario Dra­ghi (che togliendo l’ossigeno finan­zia­rio alle ban­che e al popolo greco si è assunto una respon­sa­bi­lità per­so­nale gra­vis­sima), è fal­lito. Occor­re­vano dav­vero degli «eroi ome­rici» per resi­stere a quel ricatto, e sono stati all’altezza della loro sto­ria migliore. Hanno dimo­strato che anche in tempi di crisi della poli­tica, la «grande poli­tica» è pos­si­bile. Per­ché è «grande poli­tica» mostrare che la pra­tica della demo­cra­zia è pos­si­bile, in un con­te­sto euro­peo che sem­bra aver dimen­ti­cato que­sto valore, e di fronte a oli­gar­chie che non la tol­le­rano e non per­dono occa­sione per dimo­strarlo. Ed è «grande poli­tica» aver mostrato - da quella che potrebbe appa­rire un’estrema peri­fe­ria del con­ti­nente e che invece se ne rivela il vero cen­tro - che l’architettura su cui si basa l’Unione euro­pea non regge. Che va cam­biata dalla radice. Pena la fine dell’Europa.

Dopo que­sto voto Ale­xis Tsi­pras assume sta­tura e ruolo di lea­der euro­peo. Quel «ragazzo», come lo chia­mano affet­tuo­sa­mente in patria, rap­pre­senta tutti gli euro­pei - e sono dav­vero tanti - che non si rico­no­scono in que­sta gestione inu­mana, arro­gante, egoi­stica e irre­spon­sa­bile da parte di coloro che - in nome di un dogma fal­li­men­tare - hanno por­tato l’Europa sull’orlo del disa­stro, tra­den­done gli ideali fon­da­tivi, ren­den­dola odiosa agli occhi del suo stesso popolo. Dovremo d’ora in poi gri­darlo forte, tutti insieme, con un coro trans­na­zio­nale, che l’Europa è troppo impor­tante per lasciarla nelle mani di oli­gar­chi di tal fatta. Di figure dal pro­filo tre­men­da­mente basso, inca­paci di visione, di sguardo, chiuse nella pic­ci­ne­ria di un’esistente inso­ste­ni­bile nel futuro, anche nel più vicino, di fronte alle quali spicca, per dif­fe­renza, la gran­dezza del gesto di Yanis Varou­fa­kis - l’eroe di piazza Syn­tagma, l’uomo accla­mato dal popolo del «No», un vin­ci­tore indi­scusso - che si dimette per favo­rire un accordo che va nell’interesse del pro­prio popolo. Per togliere anche un bri­ciolo di alibi ad avver­sari ran­co­rosi e nella sostanza meschini, in una situa­zione che è, con tutta evi­denza, durissima.

Il voto greco rivela anche il cata­stro­fico col­lasso del socia­li­smo euro­peo. La presa di posi­zione del vice-cancelliere tede­sco Gar­briel, schie­rato addi­rit­tura alla destra della Mer­kel a fare il lavoro sporco per lei – a riba­dirne la «peda­go­gia impe­ria­li­sta» di cui nel suo stesso paese è accu­sata (Der Spie­gel) -, è qual­cosa di ancor più tra­gico del cele­bre voto dei cre­diti di guerra nel 1914, per­ché segna una assi­mi­la­zione ormai senza più resi­dui. La dichia­rata fine di un’identità poli­tica. Così come la ver­go­gnosa posi­zione assunta da Mar­tin Schultz, offen­siva dello stesso par­la­mento euro­peo che dovrebbe rap­pre­sen­tare, esem­pio dell’abisso in cui è caduta la social­de­mo­cra­zia tede­sca ma anche dell’incapacità di rico­prire con dignità un ruolo isti­tu­zio­nale che dovrebbe essere rap­pre­sen­ta­tivo di tutti. Un par­la­mento degno di que­sto nome non dovrebbe esi­tare nem­meno un giorno a chie­derne le dimis­sioni. Per non par­lare delle posi­zioni assunte dal pre­si­dente del con­si­glio ita­liano Mat­teo Renzi: la sua imba­raz­zante per­for­mance di fronte alla can­cel­liera Mer­kel, gra­tuita forma di ser­vi­li­smo a danno degli stessi inte­ressi ita­liani, è il sim­bolo di un defi­ni­tivo degrado poli­tico, cul­tu­rale e morale. Che ne vani­fica ogni pos­si­bile aspi­ra­zione da «media­tore» di alcunché.

Da oggi inco­min­cia una nuova sto­ria per tutte le sini­stre euro­pee, a comin­ciare dalla nostra. I greci hanno aperto una brec­cia. Con­tro di loro si sca­ri­cherà la voglia di ven­detta degli scon­fitti, ancora incre­duli della pro­pria scon­fitta per­ché fidu­ciosi nell’onnipotenza dei pro­pri mezzi. Ten­te­ranno di con­ti­nuare a usarli quei mezzi di dis­sua­sione di massa. Ten­te­ranno di pro­lun­gare il vero e pro­prio asse­dio di tipo medie­vale che hanno pra­ti­cato nell’ultima set­ti­mana. Strin­ge­ranno ancora la gar­rota al collo dei greci per ten­tare di pie­garne i nego­zia­tori. Sta a tutti noi essere all’altezza del com­pito. Per­ché adesso tocca a noi fare la nostra parte, rom­pendo quell’assedio.

Facendo sen­tire forte la voce della vera Europa. Mobi­li­tan­doci per­ché è della nostra stessa pelle che si tratta.

Mambiailmondo, 6 luglio 2015

"Il referendum di domenica 5 luglio resterà nella storia come un momento unico in cui una piccola nazione europea si è ribellata alla stretta del debito. Come tutte le lotte per i diritti democratici, anche questo rifiuto storico dell’ultimatum dell’Eurogruppo del 25 giugno ha il suo prezzo. E’ quindi essenziale che il grande capitale elargito al nostro governo da questo splendido NO sia investito immediatamente in un SI' per una risoluzione adeguata – in un accordo che preveda la ristrutturazione del debito, meno austerità, ridistribuzione a favore dei bisognosi, e riforme reali.

Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum, sono stato messo al corrente di una certa preferenza da parte di alcuni partecipanti all’Eurogruppo, e ‘partner’, per la mia … ‘assenza’ da queste riunioni; un’idea che il Primo Ministro ha giudicato potenzialmente utile per trovare un accordo. Per questo lascio il Ministero delle Finanze oggi.

Considero un mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare, come gli sembra opportuno, il capitale che il popolo greco ci ha accordato attraverso il referendum di ieri. E io porterò con orgoglio il disprezzo dei creditori.

Noi della sinistra sappiamo come agire collettivamente, iincuranti per i privilegi che derivano delle cariche. Sosterrò pienamente il Primo Ministro Tsipras, il nuovo ministro delle Finanze e il nostro governo. Lo sforzo sovrumano per rendere onore al coraggioso popolo greco, e al formidabile OXI (NO) che hanno affidato ai democratici di tutto il mondo, è appena cominciato, "

Il testo inglese

Like all struggles for democratic rights, so too this historic rejection of the Eurogroup’s 25th June ultimatum comes with a large price tag attached. It is, therefore, essential that the great capital bestowed upon our government by the splendid NO vote be invested immediately into a YES to a proper resolution – to an agreement that involves debt restructuring, less austerity, redistribution in favour of the needy, and real reforms.


Soon after the announcement of the referendum results, I was made aware of a certain preference by some Eurogroup participants, and assorted ‘partners’, for my… ‘absence’ from its meetings; an idea that the Prime Minister judged to be potentially helpful to him in reaching an agreement. For this reason I am leaving the Ministry of Finance today.

I consider it my duty to help Alexis Tsipras exploit, as he sees fit, the capital that the Greek people granted us through yesterday’s referendum. And I shall wear the creditors’ loathing with pride.

We of the Left know how to act collectively with no care for the privileges of office. I shall support fully Prime Minister Tsipras, the new Minister of Finance, and our government.
The superhuman effort to honour the brave people of Greece, and the famous OXI (NO) that they granted to democrats the world over, is just beginning."
«In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico».

Il manifesto, 11 giugno 2015

Non si sa se ridere o piangere quando si legge sulla stampa “maggiore” che l’unico interesse rivolto alla Assemblea della coalizione sociale di sabato e domenica a Roma è ancora incentrato sulla presenza silente tra il folto pubblico di Oreste Scalzone e Franco Piperno. Quella assemblea ha tutta la possibilità e il diritto di essere valutata su ben altri criteri.

Diciamo pure che era cominciata un po’ in sordina. Il documento preparatorio non era di quelli che hanno la forza di farti sobbalzare sulla sedia. Forse era un tattica di voluta prudenza. Poi, soprattutto nel passaggio tra la prima e la seconda giornata, l’ Assemblea ha preso quota e acquistato senso. Certamente ha influito la ricca discussione che si è tenuta nei vari gruppi tematici nel pomeriggio di sabato, ben sintetizzati dai report della mattina seguente. Alcuni dei quali possono essere considerati come un approfondimento specifico di una proposta di alternativa le cui fila si vanno tessendo in varie sedi e modalità.

Avendo partecipato come osservatore a uno di questi gruppi e sulla base dei report, balza agli occhi che le tematiche sono le stesse che vengono affrontate in altri incontri che si definiscono o vengono considerati direttamente politici. In altre parole quella distinzione fra il politico e il sociale, un po’ ingessata nelle prolusioni iniziali, si è molto assottigliata nel proseguo della discussione, mano a mano che si entrava nel merito di analisi e di proposte.

Non c’è da stupirsi. I temi per la costruzione di una opposizione e di una alternativa politica e sociale non possono in realtà che essere gli stessi, derivando entrambi dalle palesi contraddizioni del mondo contemporaneo. La distinzione – che non va risolta nell’autonomia del politico o per converso nell’assolutizzazione del primato del sociale – sta nella diversità dei piani con cui gli stessi temi e obiettivi vengono affrontati e portati avanti. La lotta al job act - per fare solo un esempio - va fatta, per essere efficace, sul terreno culturale, quanto su quello sociale; a partire dai luoghi di lavoro e dai territori; deve coinvolgere la dimensione sindacale e quella giudiziale; avrebbe dovuto – e qui il punto dolente - trovare più energica ed efficace opposizione a livello parlamentare; potrà raggiungere una piena dimensione di massa se si giungerà – come da più parti si sta riflettendo – ad un referendum abrogativo.

Non c’è solo bisogno di una ovvia moltiplicazione delle forze e dei punti di attacco utili per ottenere un risultato, ma soprattutto è in atto una ridefinizione del sistema di potere capitalistico nelle società mature che si è definitivamente separato dalla democrazia - pur nei limiti con cui l’abbiamo conosciuta e praticata -; che nega alla radice la dualità fra capitale e lavoro, quindi il conflitto; che vuole costruire un suo spazio , a-democratico ed extragiudiziale, oltre che no unions, per regolare, se possibile individualmente, il rapporto con il lavoratore. Il quale non è solo colui che lo è effettivamente, ma chi aspira ad esserlo, o lo è in modo intermittente o chi sta per perdere quella condizione.

In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico, di cui ha anche parlato Stefano Rodotà nel suo intervento all’Assemblea andando ben al di là della tradizionale denuncia della corruzione e dell’italico stato duale.

Anche cambiando l’oggetto dell’intervento, che so io la “buona scuola”, l’Italicum oppure la privatizzazione dei beni comuni, il ragionamento di fondo non cambia, tanto per i soggetti sociali che per quelli politici.

Solo che se i primi non stanno benissimo – altrimenti non si parlerebbe di nuova coalizione sociale e perfino di rifondazione del sindacato – i secondi mancano del tutto. Per questo Renzi - pur avendo perso milioni di voti tra un’elezione e l’altra; pur affidandosi ad una maggioranza che si è fatta ancora più esile al Senato; pur apparendo meno “pigliatutto” (definizione che preferisco a quella di partito della nazione, visto che qui siamo di fronte ad una articolazione delle elites europee) di quanto lo era poche settimane fa - non ha per ora moltissimo da temere. Se non della propria arroganza.

Nei prossimi mesi può aprirsi una interessante e strategica campagna referendaria, dalla legge elettorale alle contro-riforme della Costituzione; dai decreti attuativi del job act allo scempio della legge sulla scuola. Dipenderà in primo luogo dai soggetti sociali promuovere concretamente questo percorso. Ma cosa succederà se non ci sarà in campo - quindi ben prima della tornata elettorale politica, al netto di elezioni anticipate - una forza politica dotata di credibilità e di una qualche consistenza che sappia a sinistra essere protagonista di queste battaglie? A parte il fatto che la legge elettorale chiama direttamente in causa la rappresentanza politica, anche nell’ipotesi di una vittoria ci potremmo trovare nella situazione nella quale già siamo, dove avendo pur vinto il referendum sull’acqua, non si riesce ad applicarne tutte le necessarie conseguenze sul piano operativo.

So bene che c’è bisogno di nuovi protagonisti e che dunque quelli che con luci e soprattutto ombre hanno popolato fin qui lo spazio enorme che si è aperto alla sinistra del Pd farebbero bene a scegliere per sé compiti da seconda e terza fila, peraltro non meno entusiasmanti. Ma potrebbero dare il là - e sarebbe un bel passaggio di testimone - all’avvio concreto di un processo di riunificazione delle disperse membra della sinistra d’alternativa, quale parte iniziale di un progetto ben più ambizioso di ricostruzione della sinistra in Italia. Farlo con una dichiarazione congiunta che contemporaneamente proponga una grande assemblea di tutte e di tutti entro l’estate, sarebbe la migliore risposta positiva, da parte di chi opera prevalentemente nel desertificato terreno politico, all’Assemblea della coalizione sociale.

«Uscire da questo capitalismo non è una "bubbola", come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi». Sbilanciamoci.info, 3 giugno 2015
Ha ragione Valentino Parlato, il quale su Sbilanciamoci del 15 maggio sosteneva che da questa crisi, persistente e distruttiva che investe l’Italia, l’Europa e il mondo, non si esce se non si ricostruisce la politica. Ma - aggiungeva - la politica, e per quel che ci riguarda una politica di sinistra, non si ricostruisce se non si dà una giusta analisi della crisi. Sono convinto che il punto da cui muovere sia esattamente questo, se vogliamo rovesciare la tendenza al declino e aprire la strada a una prospettiva nuova.

Da anni ormai conviviamo con una crisi difficile da afferrare, che nel suo svolgimento ha assunto in continuazione forme nuove. Emersa negli Usa sul finire del 2007 con i mutuisubprime, esplosa successivamente come crisi bancaria e finanziaria, è venuto poi il turno degli Stati nazionali e dell’intera Europa. In un contesto dominato dalla recessione e dalla stagnazione, che alimentano disoccupazione, lavori sottopagati e precarietà, e dunque una condizione di malessere umano e di rischio ambientale crescenti.

Nonostante gli sforzi per occultarne e mistificarne la natura più profonda, se andiamo alla sostanza dobbiamo oggettivamente prendere atto che siamo in presenza di una crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, le cui espressioni si manifestano in varia forma. Ormai, sebbene anche le interpretazioni della crisi siano le più diverse, è sempre più difficile negare che viviamo in una società spaccata in due, non solo in Italia e in Europa. Nella quale la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini è costretta a vendere in condizioni di subalternità e di permanente incertezza le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere a una classe dominante di proprietari universali, peraltro sempre più ristretta e parassitaria, che le usa allo scopo di ricavarne il massimo profitto.

Se non si prende atto di questo elementare dato di realtà, non per caso ideologicamente mascherato con destrezza, è difficile compiere qualche significativo passo avanti sul terreno politico. Come insegnava quel tale di Treviri, la lotta di classe è sempre lotta politica. Soprattutto in questa fase storica, giacché il capitale, prima ancora di una cosa o di un semplice algoritmo, di un accumulo di merci e di mezzi finanziari, è una relazione tra esseri umani, un rapporto sociale storicamente determinato. Non statico e sempre uguale a se stesso, bensì in incessante movimento per effetto del rivoluzionamento continuo degli strumenti della produzione e delle conquiste delle scienza e della tecnica, ma segnato da una contraddizione insuperabile, oggi diventata dirompente.

Aldo Tortorella direbbe che il capitale è vittima delle sue stesse macchinazioni. Per accrescere i profitti deve contenere i salari. Ma i bassi salari comprimono il potere d’acquisto impedendo la realizzazione dei profitti. E poiché la capacità di consumo dei produttori diretti è strutturalmente legata alla capacità di generare un plusvalore che è alla base del profitto, se questo plusvalore non viene generato, o non si realizza perché le merci restano invendute, la produzione si ferma e il lavoratore viene licenziato. Cioè, cancellato come produttore e come consumatore. Il suo destino è quello di andare ad accrescere l’esercito dei disoccupati e degli esclusi, con la conseguenza di rendere ancora più acuta la contraddizione tra capitale e lavoro.

Le crisi ricorrenti, come ben sappiamo, sono state finora il mezzo che ha consentito di riportare in temporaneo equilibrio il sistema attraverso la massiccia distruzione di capitali e di forze produttive umane e naturali, fino all’esplosione di guerre catastrofiche per l’accaparramento delle risorse del pianeta. In teoria, dalla crisi di un sistema il cui fine è l’estrazione del massimo profitto privato dagli esseri umani e dalla natura, su cui si conforma l’intero assetto della società e delle istituzioni, e quindi della politica, si esce in due modi. O attraverso un’ulteriore stretta del dominio del capitale sul lavoro e sull’intera comunità, con la conseguenza di acutizzare tutte le contraddizioni e con esiti imprevedibili. O attraverso l’avvio di un processo di superamento del sistema diventato insostenibile, ponendo dei limiti al dominio del capitale e aprendo la strada a una gestione comunitaria della produzione di ricchezza.

Un’altra soluzione non è data. Non dimentichiamo che dalla Grande Depressione del 1929-33, si è usciti temporaneamente in Europa con il nazismo e la seconda guerra mondiale. Oggi, mentre alle porte dell’Europa premono masse di diseredati e si moltiplicano le guerre guerreggiate, il ricatto cui viene sottoposta la Grecia è il paradigma di una regressione senza precedenti imposta dai poteri capitalistici dominanti: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi la vita delle persone. La finanziarizzazione universale, tipica di questa fase di globalizzazione, non ha attenuato il processo di subordinazione del lavoro. Al contrario, lo ha generalizzato e modernizzato nelle modalità di sfruttamento, con l’intento di contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto e alla perdita di efficienza del sistema.

La spinta a fare denaro con il denaro bypassando la produzione ha generato, come osservava Hilferding, uno «schema mistico» del capitale, rivestendolo di sacralità e impenetrabilità. Nei fatti, garantendo alti rendimenti, ha moltiplicato i valori finanziari rispetto all’economia reale, diffuso la speculazione e la corruzione, accresciuto a dismisura le disuguaglianze. Grazie all’indebitamento di massa inventato dalle economie anglosassoni, si è ottenuto per un certo tempo il miracolo di tenere alti i consumi in regime di bassi salari. Ma il debito come fattore propulsivo dell’economia, in sostituzione della valorizzazione del lavoro, è il segnale vistoso del decadimento di un sistema.

D’altra parte, la rivoluzione scientifica e tecnologica, con l’uso dell’informatica e della microelettronica, non ha posto fine al lavoro, ma rivoluzionando il modo di lavorare e di vivere richiederebbe la formazione di una classe lavoratrice di livello superiore per cultura generale e conoscenze specifiche, e quindi un’attenzione particolare all’istruzione e alla ricerca. Mentre il superamento della tradizionale nozione del tempo e dello spazio consentirebbe di accorciare globalmente i tempi di lavoro allungando i tempi di vita, e di pianificare un’occupazione dignitosa per tutte e per tutti.

Ma alla socializzazione crescente dei processi produttivi, di comunicazione e di ricerca, cui concorre una molteplicità di soggetti diversi, non corrisponde la socializzazione della proprietà e la comune gestione degli strumenti indispensabili per il governo di tali processi. Il risultato è la formazione di un enorme esercito di manodopera di riserva nel mondo, disponibile per qualsiasi tipo di lavoro precario. Di qui la concorrenza e la guerra tra poveri. Il rapporto di proprietà capitalistico è diventato una gabbia che imprigiona il libero sviluppo di tutti e di ciascuno. La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di proprietà, tra il lavoro e il capitale, è arrivata a un punto limite che è necessario riconoscere e mettere a nudo. Se non si vuole che al conflitto di classe si sostituisca una guerriglia permanente e senza sbocchi tra i subalterni.

Nella controrivoluzione liberista di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher si si è incarnato al massimo livello il dominio totalitario del capitale sul lavoro. Una vera e propria dittatura, non solo in ambito economico-sociale, ma anche nel linguaggio e nella comunicazione, fino al formarsi di un diffuso senso comune. In una fase di massima espansione della lotta di classe del capitale contro il lavoro è stata teorizzata la fine della lotta di classe, addirittura la fine delle classi. Lo slogan di lady Thatcher detta TINA (There Is No Alternative), secondo cui la società non esiste, esistono solo individui, ha fatto molta strada ed è assurto al rango di principio universalmente riconosciuto anche a sinistra con conseguenze politiche devastanti.

E’ evidente infatti che se si sostiene, come sostenne a suo tempo Giorgio Ruffolo scambiando lucciole per lanterne, che ormai «abbiamo una società di individui» e con ciò la sinistra ha raggiunto il suo scopo, vale a dire «la società senza classi», non ha alcun senso la presenza di una forza politica delle classi subalterne, essendo state le classi sociali cancellate. Peraltro, non da una rivoluzione socialista ma dalla forza egemonica del pensiero unico liberista. Nel deserto popolato da individui egoisti privi di legami sociali anche la visione del capitale come rapporto sociale viene azzerata, e si erge dominante l’homo oeconomicus, l’individuo che dispone dei mezzi necessari per mettere al lavoro a suo piacimento altri individui, ridotti al rango di capitale umano, spossessati anche della loro storia, oltre che della loro comunità sindacale e politica.

L’impianto egemonico neoliberista, nella sostanza acquisito e perfezionato dalla socialdemocrazia di Blair e di Schröder, ha espulso dall’agenda e dalla pratica politica europea e italiana un clamoroso dato di realtà: il conflitto capitale-lavoro, che pure segna il destino di milioni di donne e di uomini. Da una parte, i sindacati sono additati come un ostacolo da abbattere sulla via della piena libertà del capitale. Dall’altra, è stata semplicemente cancellata l’autonoma e libera presenza politica delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo. La politica come protesi dell’economia, cioè del capitale, è stato il punto di approdo. E con ciò è stato definitivamente archiviato il vecchio compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro. In un sistema politico-rappresentativo monoclasse, in cui i diritti diventano una variabile dipendente dal rendimento dei capitali, la democrazia traligna inevitabilmente in autoritarismo e oligarchia.

Su questa linea, corresponsabile dell’innesco e del dilagare della crisi ma presentata come una novità strabiliante, si è attestato Matteo Renzi. Ormai, dopo le più recenti vicende, il suo obiettivo dovrebbe risultare chiaro anche ai ciechi. Né più né meno, è la definitiva soppressione del fondamento politico della Repubblica democratica. Ma il corrispettivo potenziamento del capitalismo italiano cui mira Renzi attraverso radicali misure di internazionalizzazione e di privatizzazione che lo liberino da storiche inefficienze e incrostazioni, e insieme da ogni residua responsabilità sociale secondo il modello anglosassone, non ci farà uscire stabilmente dalla crisi perché non ne mette in discussione i fattori strutturali.

Un conto è il miglioramento dei parametri europei, definiti stupidi da Romano Prodi, o di quelli imposti dai colossi multinazionali del rating, che li fissano per assicurarsi laute rendite di posizione. Altro conto è affrontare i nodi della piena occupazione; di una remunerazione del lavoro che garantisca a tutte e tutti una vita dignitosa e degna di essere vissuta; di un nuovo welfare universale; della salvaguardia dell’ambiente e della pace; del trasferimento all’intera comunità dei benefici che la rivoluzione scientifica e tecnologica mette a disposizione. Di che parliamo, se non di un altro modello di società? Di un avanzamento di civiltà oltre i limiti imposti dal dominio del capitale? Un nuovo socialismo? Sì, se la parola non fosse stata deturpata e stravolta dai molti che se ne sono abusivamente appropriati.

Muovere nella direzione opposta a quella indicata da Renzi e dai governanti europei vuol dire costruire un’alternativa politica al dominio del capitale. È questa la questione di fondo che non si può eludere. E che innanzitutto richiede, per essere affrontata con qualche probabilità di successo, una visione del lavoro che abbandoni senza rimpianti lo schema novecentesco. In altre parole, c’è bisogno di una visione non limitata alla classe operaia tradizionalmente intesa come unico soggetto trainante dell’antagonismo al capitale, bensì allargata ai nuovi soggetti indotti dalla rivoluzione elettronica e digitale in tutti i campi delle attività lavorative. Perciò aperta al lavoro cognitivo e creativo, seppure erogato in forma individuale e a distanza. E nel contempo in grado di coinvolgere tutti coloro, giovani e donne innanzitutto, ma anche le teste grigie, che da qualunque forma di lavoro vengono esclusi.

In secondo luogo, occorre prendere atto una volta per sempre che l’esperienza del movimento operaio novecentesco, in tutte le sue forme, è davvero definitivamente conclusa. E non è ripetibile. Sia nella forma del cosiddetto socialismo realizzato nella Russia sovietica, sia nella forma socialdemocratica nell’Occidente europeo, che ha sposato i dogmi della controrivoluzione liberista. Come aveva intuito Enrico Berlinguer, esaurite le due fasi novecentesche del movimento operaio, adesso «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico», e dunque di «porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo».

Una sinistra nuova ha senso, e avrà un avvenire, se assume questa prospettiva, peraltro delineata con sufficiente chiarezza dalla Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un progetto di portata europea per il quale vale la pena di impegnarsi e di lottare, attraverso l’espansione massima di una democrazia progressiva e partecipata. Uscire da questo capitalismo non è una «bubbola», come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi.

, nell'ultimo mezzo secolo, hanno condotto alla frantumazione della sinistra e al trionfo del renzismo. Una novità nelle posizioni dell'autrice: il riconoscimento delle ragioni dell'ambientalismo. S

bilanciamoci.info, newsletter n. 420, 26 maggio 2015


Dietro le formule nebulose del Jobs Act del governo si rivela la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile sia in entrata che in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione che nel licenziamento. Ma un'alternativa è possibile. ll testo dell'introduzione al Workers Act di Sbilanciamoci!

Le pagine che seguono spiegano, nella prima parte, il Jobs act del governo di Matteo Renzi e nella seconda presentano un’alternativa a esso: non per caso si chiamano “Workers act” perché esprimono il punto di vista dei lavoratori. È necessario spiegarlo perche l’insieme di testi presentato dal governo, non per essere discusso ma affidato con una serie di deleghe all’esecutivo, va chiarito a coloro che vi saranno obbligati senza aver potuto contribuire alla sua elaborazione. Dietro le formule nebulose si rivela, non detta, la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile in entrata e in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione, sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo quel che restava dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, dopo il già grave ridimensionamento operato dalla riforma Fornero del 2012.

Il lavoro diventa soggetto a tutte le versioni e forme diverse di precariato; il contratto a tempo indeterminato, definito in modo ingannevole “a tutele crescenti”, allarga tempi e spazi di precariato a cominciare senza remora alcuna dai primi tre anni, quando è perfino esente da imposizione fiscale per l’impresa. La troppo vasta tipologia dei contratti, con regolamenti relativi, non è stata corretta salvo in parte nel contratto a progetto, dov’era diventata scandalosa. In genere la molteplicità delle misure recepisce quella che – quando l’attuale Pd era ancora Pci e il sindacalismo cattolico aveva i suoi anni di gloria – era comunemente definita “giungla contrattuale”. I ripetuti annunci di semplificazione sono brutalmente smentiti da una legislazione il cui arruffamento non è indice di confusione, quanto moltiplicazione delle vie offerte al datore di lavoro di trattare i suoi dipendenti con il metodo “usa e getta”.
Si tratta di un arretramento poderoso dei lavoratori nei rapporti di forza con il capitale, perseguito dal governo nella convinzione – almeno presentata come tale – di agevolare l’imprenditore in un rilancio della crescita dell’economia, come se la sua attuale fluttuazione dallo zero allo zerovirgola si dovesse alle pretese eccessive imposte dai dipendenti, dai “lacci e lacciuoli” da loro messi allo sviluppo. L’assenza di qualsiasi piano di reindustrializzazione e di riduzione della disoccupazione crescente in Italia dimostra la miopia dell’attuale esecutivo nell’operare questa stretta.
Essa non è dovuta alla crisi, ma ne profitta per ridurre le tutele dei lavoratori e l’importo dei salari, insomma per allargare i profitti dell’impresa e indurre una ripresa degli investimenti a spese dei salariati, senza modificare il prodotto o le tecniche di produzione. È una svolta di 180 gradi rispetto alla linea keynesiana che aveva sorretto la crescita del dopoguerra; una svolta che non solo penalizza i dipendenti ma non riesce a vivificare il mercato, che già fa sapere di non contare su più di un punto di crescita come conseguenza dell’applicazione del Jobs act. Il cardine della politica di austerità si rivela non solo socialmente ingiusto, ma inefficace, producendo tensioni sociali e soffocamenti; l’esempio più negativo è quello che Bruxelles insiste ad imporre alla Grecia con filosofia del rimborso totale e in tempi stretti del debito, ma è una politica che pesa su tutti i paesi del sud Europa, mettendone in pericolo l’integrazione. È evidente l’intenzione di dare all’Europa una configurazione squilibrata fra nord e sud, confermando il potere dei primi, mentre si accantona ogni tentativo di definire condizioni uguali per tutti nella fiscalità e nelle strutture produttive.
Il Jobs act ha imposto di forza una diminuzione dei diritti del lavoro che interpella il parlamento e i partiti decisivi in esso, in primis il Pd, sulla svolta culturale avvenuta in questi anni; l’idea che un paese si fa del rapporto di lavoro è infatti fondamentale per la qualità della democrazia e della socialità che si persegue. L’idea del lavoro ha conosciuto una crescita difficoltosa ma costante dalla seconda guerra mondiale e dalla sconfitta del fascismo fino agli anni novanta del secolo scorso, e un’involuzione decisiva nella legificazione dell’attuale governo; è significativo che essa avvenga sotto l’egida di un premier espresso dal più grande partito di sinistra, fino a venti anni fa simbolo del movimento operaio. Non siamo una eccezione, sono chiamati governi di sinistra o di coalizione con la sinistra quelli che trascinano l’Europa sulla via dell’austerità, con la restrizione dei diritti sociali, del welfare e della spesa pubblica.
Questa svolta culturale ha radici lontane. C’è da riflettere sul fatto che il movimento sociale più partecipato e liberatorio, quello del 1968, che esplode alla fine di un decennio di lotte, apre in Italia la strada a due nuove e decisive forme del politico: il movimento delle donne (femminista) e quello ecologico, fra loro disuniti, ma prorompenti su strati e soggetti sociali nuovi rispetto al movimento operaio, e spinti più che a integrarlo a metterlo sotto accusa per la balbuzie con i quali i suoi esponenti politici e sindacali, piuttosto che sposarne gli intenti, vi restano in concreto estranei. Femministe e verdi accusano la già eccessivamente conclamata “fabbrica” di sordità sulla questione delle donne (sordità dovuta al maschilismo dominante sia a destra che a sinistra) e, peggio, di aver appoggiato o addirittura spinto a uno sviluppismo industriale sconsiderato, cieco ai limiti del pianeta e quindi opposto alla sostenibilità della produzione e dei territori.
Sta di fatto che questi grandi filoni di critica del presente investono masse crescenti ma divise e incapaci di parlarsi, ciascuna in contrapposizione alle altre e aspirante all’egemonia. La cosiddetta crisi della politica è stata una porta spalancata al liberismo che pareva espulso dall’orizzonte e vi è trionfalmente rientrato, e con tanto più impatto in quanto che essa si verifica contemporaneamente al precipitare delle società dette comuniste. L’Unione sovietica, la Repubblica popolare cinese e Cuba, rivoluzioni nate in condizioni storiche diverse ma che hanno avuto in comune l’obiettivo della liberazione del lavoro dal capitale sono tutte e tre passate – dopo il 1989 – a forme esplicite di capitalismo di stato, aperto all’iniziativa privata.
È stato il caso più evidente di eterogenesi dei fini di un movimento internazionale giovanile che, mirando a un approfondimento inedito del pensiero politico moderno e delle sue principali istituzioni attraverso uno scavo delle radici dell’autoritarismo ai fini di una più compiuta liberazione della persona, perde di vista la mondializzazione del capitale, e ritenendo impossibile metterla in causa , ha finito con l’offuscare dalle coscienze l’importanza del rapporto di lavoro, un tempo considerato “centrale”.
Certo non da solo; le modifiche dell’organizzazione proprietaria e della produzione, il venir meno della grande fabbrica, già contenitore della parte essenziale della forza lavoro e quindi luogo deputato delle sue elaborazioni politiche e sindacali, ha favorito la presa profonda nella società di alcune realtà e di alcune favole: la fine della figura operaia, proprio mentre essa assumeva proporzioni inedite sul globo, la fine di una identificabile proprietà del mezzo di produzione, il moltiplicarsi delle esternalizzazioni e delle tipologie contrattuali, il dilagare del prodotto immateriale rispetto alla fisicità del prodotto industriale, l’immaterialità delle tecniche del processo produttivo, la crescita, rispetto alle capacità elementari del lavoro parcellizzato, del ricorso a un “intelletto generale” che implicava facoltà e molteplici saperi della vita urbana. Tutto questo ha prodotto e accompagnato la frammentazione della coscienza dei lavoratori e il minore impatto delle loro organizzazioni tradizionali. Sta di fatto che dagli anni ottanta in poi l’aderenza di una “coscienza operaia” alle trasformazioni proprietarie e del processo produttivo è andata sfocandosi e indebolendosi, mentre nel formarsi in misura crescente di movimenti puntuali ma separati, appare perduta un’interpretazione comune dell’avversario capitalistico e del “che fare” degli sfruttati. I gruppi di ricerca infittiscono ma non comunicano, neanche nelle forme razionali: c’è la separatezza dei sindacati anche in Europa, il frantumarsi di un’opinione politica comune, fatta eccezione per Syriza in Grecia e Podemos in Spagna.
Neanche quando il governo lancia un’operazione capitalistica su grande scala, come il Jobs act, essa produce una scossa immediata di percezione da parte del blocco popolare, probabilmente perché di “blocco” non si può più, o non ancora, parlare – e qui si viene alla proposta di coalizione sociale di Maurizio Landini. In Italia occorre molto tempo perché si realizzi una manifestazione nazionale di protesta, mentre l’infiacchirsi dei meccanismi maggioranza/opposizione in democrazia induce reazioni scomposte del governo.
Non va dimenticato infatti che il frutto più velenoso della “crisi della politica”, visibile specialmente negli eventi elettorali, è l’impoverimento della rappresentanza e delle sue regole primarie che dà luogo al confuso emergere di un “partito della nazione” immaginato da Renzi, in cerca di un’investitura popolare, che rinnovi i fasti del 40% ottenuto alle elezioni europee, sul quale si basa l’autorità di cui fa sfoggio per indebolire il patto costituzionale. La ricezione inizialmente senza intoppi – tranne quelli venuti dalla Cgil o, come questo lavoro, da Sbilanciamoci!, nel silenzio del Partito democratico – è significativa di un’ennesima caduta culturale e morale del paese. Di qui l’importanza negativa del Jobs act e di questo tentativo di opporgli una critica e un’alternativa, offerte come materiale di lavoro alla classe operaia e ai suoi gruppi di studio, cui spetta discuterle ed eventualmente modificarle.
© 2024 Eddyburg