Ciò di cui più abbiamo bisogno è produrre nuovi punti di vista, non arrenderci al presente, riuscire ad incrinare l’unica narrazione rimasta.
La sinistra è morta se non riesce ad immaginare il cambiamento, ad interpretare non solo un generico e diffuso malessere, ma a prospettare un futuro diverso. Da troppo tempo, invece, il pensiero critico ha perduto la sua radicalità, schiacciata dal peso del presente. I diritti arretrano, le nostre forze scemano. Se siamo giunti sin qui è inutile negare che sia anche per colpa nostra: non abbiamo saputo interpretare il reale, ci siamo chiusi in difesa. Ma non è servito a nulla, nulla abbiamo difeso.
Ora, che poco abbiamo da perdere, dovremmo cercare di uscire dalla palude, per misurarci con le nostre idee e non più solo con la razionalità del reale. Dovremmo riprendere seriamente in considerazione la distinzione tra strategia e tattica (la doppiezza togliattiana?). La prima per la ricostruzione di una prospettiva di sinistra che sappia aggregare le forze politiche e i soggetti sociali necessari per il cambiamento futuro; la seconda per resistere e per contrastare la politica dominante.
La mia impressione è che una grande colpa della sinistra sia stata quella di non credere in se stessa, nella sua capacità di cambiare. Gran parte di essa (la sinistra di governo) si è da tempo arresa, stanca di lottare, soddisfatta delle conquiste ottenute nel corso del Novecento, si è limitata a governare il presente, cercando — ben che fosse — di ostacolare gli spiriti più selvaggi, frenare gli arretramenti più vistosi. Alla fine, però, ha perduto se stessa. Rinunciando a produrre una sua narrazione, non poteva che venir attratta fatalmente dal potere costituito, dalla forze dominati.
Una giustificazione è stata data per motivare questo chiudersi nei palazzi della sinistra di governo, richiamando una autorevole e tutt’altro che banale tradizione politica e culturale italiana: l’autonomia della politica come strumento per imporre il cambiamento. Se non lo strappo rivoluzionario, almeno le ragione del progresso si sarebbero potute affermare dentro le istituzioni per poi conquistare una società che non sempre dà prova di civiltà o di essere in sintonia con i principi dell’eguaglianza e della libertà sociale. L’idea dunque che si potesse «costruire» il popolo attraverso la politica dall’alto, l’intermediazione del leader. Lasciamo perdere la discussione teorica, che coinvolgerebbe figure che hanno fatto la storia della sinistra del nostro paese (da Antonio Gramsci a Mario Tronti) e che oggi trovano peraltro nuove consonanze (Ernesto Laclau, Chantal Mouffe); limitiamoci a rilevare quel che è stato l’effetto sul piano più strettamente politico. La definitiva cesura tra popolo e suoi rappresentanti.
Uno iato che si è sempre più esteso e che dimostra la miopia — il fallimento — della classe dirigente della sinistra. Dimentichi di una vecchia lezione della storia: senza il «popolo» nel chiuso dei palazzi vincono gli interessi costituiti. Se non si voleva ricordare Pericle, sarebbe stato sufficiente non dimenticare Berlinguer.
Per chi si proponeva di trasformare il reale, è stato questo l’errore più grave. È così che le «grandi» riforme promosse dalla sinistra hanno finito per peggiorare le condizioni del suo popolo, mentre la crisi economica impone ora le sue leggi e l’equilibrio dei bilanci prevale sulla tutela dei diritti fondamentali. In Italia, ma non solo.
Il popolo della sinistra nel frattempo s’è sperduto, guarda altrove o non guarda più da nessuna parte. È rimasto solo il leader che pensa alla nazione, riflettendo su se stesso, sulla propria immagine, come allo specchio.
Chi, nonostante tutto, ha conservato uno spirito critico ha provato a reagire. Ha ottenuto importanti successi (il referendum sull’acqua, quello sulle riforme costituzionali), ha combattuto con intransigenza (no Tav), ha maturato esperienze culturali di rottura (i beni comuni). Tutte esperienze che hanno incontrato però un limite: tutte hanno sottovalutato la questione della necessità di una rappresentanza politica. Rimanendo — per scelta o per obbligo — fuori dai palazzi, lontane dalla politica istituzionale, le lotte più innovative e di rottura non sono riuscite a rendersi egemoni, anzi alla lunga hanno mostrato le proprie debolezze. Le vittorie referendarie sono state presto dimenticate e non hanno trovato un necessario seguito istituzionale, le esperienze locali sono rimaste tali e alla fine si condannano all’esaurimento.
Credo sia giunto il tempo per porre anche ai movimenti la questione del rapporto con il «potere» e la necessità della mediazione istituzionale delle lotte sociali. Terreno scivoloso, non gradito a chi nella lotta esaurisce il proprio orizzonte polemico. Anche in questo caso si è attinto a piene mani ad una tradizione politica e culturale che ha attraversato l’intera storia della sinistra, quella più radicale e combattiva. Non sempre quella vincente. Così, l’autogoverno, la democrazia partecipativa, l’esaltazione del comune sono state unilateralmente assunte, senza nulla apprendere dalle criticità che la storia ha evidenziato, sin dalla comune di Parigi.
Ora siamo ad un bivio. Si potrebbe ripartire ponendo al centro della nostra riflessione proprio la questione dei limiti dell’autonomia della politica e quella della rappresentanza politica. L’autonomia della politica potrebbe essere intesa come capacità di progettare il futuro, distaccandosi dall’immediatamente rilevante, mentre la rappresentanza politica dovrebbe essere assunta come la necessaria «misura» di questa capacità di progettazione entro un contesto istituzionale.
Vediamo di sintetizzare con una sola esemplificazione un discorso che meriterebbe di essere altrimenti sviluppato.
Pensiamo — ad esempio — alla riforma della costituzione. Se è vero, come su questo giornale abbiamo ripetuto tante volte, che la revisione in corso è espressione di un complessivo disegno regressivo, che, se approvata, ci poterà indietro nel tempo, verticalizzerà le dinamiche politiche, aprirà a scenari non rassicuranti, se queste sono le nostre convinzioni, come possiamo pensare che la soluzione di ogni male sia far eleggere i senatori anziché farli votare dai Consigli regionali?
E se poi va a finire che il «principe» concede la grazia e accetta l’elezione diretta dei senatori avremmo per caso un buon Senato e una accettabile riforma del testo della costituzione? Ma non scherziamo. Avremmo soltanto allungato la nostra agonia e data nuova linfa al leader indiscusso del pensiero unico e di governo.
Alziamo allora lo sguardo e lottiamo per la nostra riforma, accettiamo e rilanciamo la sfida, mostrando ai finti innovatori il nostro volto «rivoluzionario». È vero, il bicameralismo perfetto è da superare, ma per ragioni opposte a quelle che la retorica politica dominante afferma. Va superato sia per affermare la centralità del parlamento contro il dominio dell’esecutivo sia per ridare un senso alla rappresentanza politica offesa da un sistema elettorale che ne nega il valore sublimandolo nel feticcio della governabilità. Che ci si batta allora per una soluzione che meglio ha espresso nel corso della storia questa doppia esigenza: un sistema monocamerale affiancato da una legge elettorale proporzionale per ritessere le fila della rappresentanza politica strappata.
Sono proposte fuori dall’agenda politica del momento. E dunque qualcuno si potrebbe chiedere: chi ci ascolterebbe? Ma perché, adesso chi ci ascolta? E poi, in fondo, dipenderà da noi.
Se sapremo raccontare una storia per la quale valga la pena vivere, l’attenzione potremmo conquistarla. Potremmo, ad esempio, andare al referendum costituzionale del prossimo anno non per difendere un parlamento in agonia, ma per provare a cambiare lo stato di cose presenti.
Nella Grecia antica si distingueva tra la nuda vita (zoé) e la vita degna di essere vissuta (bios). Più che chiederci se c’è vita a sinistra dovremmo interrogarci su quale vita ci sia a sinistra.
Il manifesto, 30 settembre 2015
L’organismo della sinistra è assai poco vitale, ma comprensibilmente non vuole dirselo e nemmeno sentirselo dire. E se provassimo ad affrontare la questione da un punto di vista un po’ meno prevedibile? Se cominciassimo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Perché questa è la verità: non c’è vita, se mai c’è sopravvivenza eroica ma stentata di un vasto numero di associazioni e organismi di base che cercano di garantire la tenuta di alcuni livelli minimi(ssimi) di solidarietà.
Se cominciassimo col dirci la verità che dal tronco della sinistra del Novecento non sboccerà più alcun fiore, forse allora riusciremmo a vedere la realtà presente in maniera più realistica e forse anche a immaginare una via d’uscita per il prossimo futuro.
Se sinistra vuol dire una formazione capace di raggiungere il 5% o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a sufficienza. Grazie alla demografia, grazie all’ampiezza dei ranghi degli ultra-sessantenni possiamo ancora sperare di costituire una formazione che mandi in parlamento qualche deputato prima di esaurirsi per estinzione prossima della generazione che si formò negli anni della democrazia.
Ma se sinistra vuol dire una forza capace di immaginare una svolta nella storia sociale economica e politica del mondo, una forza capace di attrarre le energie della generazione precaria e connettiva, se sinistra vuol dire una forza capace di rovesciare il rapporto di forze che il capitalismo globalizzato ha imposto all’umanità — allora è meglio non raccontarci bugie pietose. Non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile.
I contributi che ho letto sul manifesto sono più o meno apprezzabili, alcuni mi sono piaciuti molto. Ma non ne ho tratto la percezione che qualcuno voglia vedere quel che sta accadendo e che accadrà, e soprattutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.
La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli ultimi anni è che alla parola democrazia non corrisponde nulla. Perché dovrei ancora prendere sul serio la democrazia dopo l’esperienza di Syriza? Ma non occorreva l’esperienza greca, per sapere che la democrazia non è più una strada percorribile. Basta ricordarsi del referendum italico contro la privatizzazione dell’acqua, i suoi risultati trionfali, e i suoi effetti praticamente nulli sulla realtà economica e politica.
E allora, se la democrazia non è una strada percorribile, ce ne viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che talvolta nella vita (e nella storia) è opportuno partire da un’ammissione di impotenza. Non posso, non possiamo farci niente.
Cioè, fermi un attimo. Due cose dobbiamo farle, e se volete chiamarle sinistra allora sì, ci vuole la sinistra.
La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai entrata in una situazione di scollamento politico, di odii incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi: a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra?
Dovremmo dirlo, perché questo è quello che sta già accadendo, e le conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto dell’onda che arriva.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni gli effetti del collasso finanziario del 2008 moltiplicati per gli effetti del collasso cinese di questi mesi produrrà una recessione globale. Possiamo prevedere che la crescita non tornerà perché non è più possibile, non è più necessaria, non è più compatibile con la sopravvivenza del pianeta, e ogni tentativo di rilanciare la crescita coincide con devastazione ambientale e sociale.
La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei fatti, nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome: guerra mondiale.
La seconda cosa da fare è: immaginare.
Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato. Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un punto: predicano la crescita in un momento storico in cui non è più né auspicabile né possibile, e soprattutto è inesistente per la semplice ragione che non abbiamo bisogno di produrre una massa più vasta di merci, ma abbiamo bisogno di redistribuire la ricchezza esistente.
Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un secondo punto: lavorare di più, aumentare l’occupazione e contemporaneamente aumentare la produttività. Non c’è nessuna possibilità che queste politiche abbiano successo. Al contrario la disoccupazione è destinata ad aumentare, poiché la tecnologia sta producendo in maniera massiccia la prima generazione di automi intelligenti. Da cinquant’anni la sinistra ha scelto di difendere l’occupazione, il posto di lavoro e la composizione esistente del lavoro. Era la strada sbagliata già negli anni ’70, diventò una strada catastrofica negli anni ’80. Era una strada che ha portato i lavoratori alla sconfitta, alla solitudine, alla guerra di tutti contro tutti.
Perché dovremmo difendere la sinistra visto che è stata proprio la sinistra a portare i lavoratori nel vicolo cieco in cui si trovano oggi?
Di lavoro, semplicemente, ce n’è sempre meno bisogno, e qualcuno deve cominciare a ragionare in termini di riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro. Qualcuno deve rivendicare la possibilità di liberare una frazione sempre più ampia del tempo sociale per destinarlo alla cura l’educazione e alla gioia.
So bene che non si tratta di un progetto per domani o per dopodomani. Negli ultimi quarant’anni la sinistra ha considerato la tecnologia come un nemico da cui proteggersi, si tratta invece di rivendicare la potenza della tecnologia come fattore di liberazione, e si tratta di trasformare le aspettative sociali, liberando la cultura sociale dalle superstizioni che la sinistra ha contribuito a formare.
Quanto tempo ci occorre? Basteranno dieci anni? Forse. E intanto? Intanto stiamo a guardare, visto che nulla possiamo fare. Guardare cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare. Stiamo a guardare il processo di finale disgregazione dell’Unione europea, la vittoria delle destre in molti paesi europei, il peggioramento delle condizioni di vita della società. Sono processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel rapporto di forza tra le classi.
Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere.
Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa. Riflettendo, immaginando, e diffondendo la coscienza di una possibilità che è iscritta nel sapere collettivo, e per il momento non si cancella: la possibilità di fare del sapere la leva per liberarci dallo sfruttamento.
Attendere il mattino come una talpa.
Jacobin, 22 settembre 2015
In una intervista di un paio di anni fa, lei ha detto che il movimento Occupy Wall Street aveva creato un raro sentimento di solidarietà negli Stati Uniti. Il 17 settembre è stato il quarto anniversario del movimento OWS. Qual è la tua valutazione dei movimenti socialicome OWS negli ultimi venti anni? Sono stati efficaci nel determinare il cambiamento? Come potrebbero migliorare?
«Hanno avuto un impatto; essi non si sono coalizzati in movimenti persistenti e continui. Si tratta di una società molto atomizzata. Ci sono pochissime organizzazioni continuative che hanno memoria istituzionale, che sanno come muoversi nella fase successiva e così via. Questo è in parte a causa della distruzione del movimento operaio, che era solito offrire una sorta di base fissa per molte attività; ormai, praticamente le uniche istituzioni persistenti sono le chiese. Tante cose sono basate sulla chiesa.
«E’ difficile per un movimento prendere piede. Ci sono spesso movimenti di giovani, che tendono ad essere transitori; d’altra parte c’è un effetto cumulativo, e non si sa mai quando qualcosa farà da scintilla per un grande movimento. E’ accaduto tante volte: il movimento per i diritti civili, il movimento delle donne. Quindi, continuate a provare fino a quando qualcosa decolla».
La crisi del 2008 ha dimostrato chiaramente i difetti della dottrina economica neoliberista. Tuttavia, il neoliberismo sembra ancora persistere ed i suoi principi sono ancora applicati in molti paesi. Perché, anche con i tragici effetti della crisi del 2008, la dottrina neoliberista sembra essere così resistente? Perché non vi è ancora stata una risposta forte come dopo la Grande Depressione?
«Prima di tutto, le risposte europee sono state molto peggio delle risposte degli Stati Uniti, il che è abbastanza sorprendente. Negli Stati Uniti ci sono stati lievi sforzi di stimolo, quantitative easing e così via, che lentamente hanno permesso all’economia di riprendersi. Infatti, la ripresa dalla Grande Depressione fu effettivamente più veloce in molti paesi di quanto lo sia oggi, per un sacco di motivi. Nel caso dell’Europa, uno dei motivi principali è che la creazione di una moneta unica è stato un disastro automatico, come molte persone hanno sottolineato. Meccanismi per rispondere alla crisi non sono disponibili in Europa: la Grecia, ad esempio, non può svalutare la propria moneta.
«L’integrazione europea ha avuto sviluppi molto positivi per certi aspetti ed è stata dannosa in altri, soprattutto quando è sotto il controllo di poteri economici estremamente reazionari, che impongono politiche economicamente distruttive e che sono fondamentalmente una forma di guerra di classe.
«Perché non c’è reazione? Beh, i paesi deboli non stanno ottenendo il sostegno degli altri. Se la Grecia avesse avuto il sostegno di Spagna, Portogallo, Italia e altri paesi avrebbero potuto essere in grado di resistere alle forze degli eurocrati. Questi sono i tipi di casi particolari che hanno a che fare con gli sviluppi contemporanei. Negli anni ’30, ricordate che le risposte non erano particolarmente attraenti: una di esse era il nazismo».
Alcuni mesi fa Alexis Tsipras, leader di Syriza, è stato eletto come primo ministro della Grecia. Alla fine, però, ha dovuto fare molti compromessi a causa della pressione imposta su di lui dai poteri finanziari, ed è stato costretto ad attuare dure misure di austerità. Pensi che, in generale, un vero cambiamento può venire quando un leader della sinistra radicale, come Tsipras arriva al potere, o gli stati nazionali hanno perso troppa sovranità e sono anche loro dipendenti dalle istituzioni finanziarie che possono disciplinarli se non seguono le regole del libero mercato?
«Come ho detto, nel caso della Grecia, se ci fosse stato il sostegno popolare per la Grecia da altre parti d’Europa, la Grecia avrebbe potuto essere in grado di resistere all’assalto dell’alleanza banca eurocrati. Ma la Grecia era sola – non ha avuto molte opzioni.
Ci sono ottimi economisti come Joseph Stiglitz che pensano che la Grecia avrebbe dovuto solo tirarsi fuori dalla zona euro. Si tratta di un passo molto rischioso. La Grecia è una piccola economia, non è granché un’economia di esportazione, e sarebbe troppo debole per resistere alle pressioni esterne. Ci sono persone che criticano la tattica di Syriza e la posizione che hanno preso, ma penso che sia difficile vedere quali opzioni avevano con la mancanza di supporto esterno».
Immaginiamo per esempio che Bernie Sanders vinca le elezioni presidenziali del 2016. Cosa pensi che accadrebbe? Potrebbe portare il cambiamento radicale delle strutture di potere del sistema capitalista?
«Supponiamo che Sanders vinca, che è piuttosto improbabile in un sistema di elezioni comprate. Lui sarebbe solo: non ha rappresentanti del Congresso, non ha governatori, che non ha il supporto nella burocrazia, non ha legislatori statali; e isolato in questo sistema, non potrebbe fare molto. Una vera alternativa politica dovrebbe essere generalizzata, non solo una figura alla Casa Bianca.
«Dovrebbe essere un ampio movimento politico. In effetti, la campagna Sanders penso che è preziosa – sta aprendo problemi, potrebbe forse spingere un po’ in una direzione progressista i Democratici mainstream , e sta mobilitando un sacco di forze popolari e il risultato più positivo sarebbe se rimangono mobilitate dopo le elezioni.
«E’ un grave errore essere solo orientati alla stravaganza elettorale quadriennale e poi tornare a casa. Non è questo il modo in cui i cambiamenti avvengono. La mobilitazione potrebbe portare ad una permanente organizzazione popolare che potrebbe forse avere un effetto nel lungo periodo».
Qual è il suo parere in merito alla comparsa di figure come Jeremy Corbyn nel Regno Unito, Pablo Iglesias in Spagna, o Bernie Sanders negli Stati Uniti? È un nuovo movimento di sinistra in crescita, o queste sono solo reazioni sporadiche alla crisi economica?
«Dipende da quello che la reazione popolare è. Prendete Corbyn in Inghilterra: è sotto attacco feroce, e non solo dall’establishment conservatore, ma anche dalla classe dirigente del Labour. Si spera che Corbyn sarà in grado di sopportare questo tipo di attacco; questo dipende dal sostegno popolare. Se il pubblico è disposto a supportarlo a fronte della diffamazione e delle tattiche distruttive, allora può avere un impatto. Stessa cosa con Podemos in Spagna.
Come si può mobilitare un gran numero di persone che su tali questioni complesse?
«Non è così complesso. Il compito degli organizzatori e attivisti è quello di aiutare le persone a capire e far loro riconoscere che loro hanno il potere, che non sono impotenti. Le persone si sentono impotenti, ma questo deve essere superato. Questo è ciò intorno a cui ruota l’organizzare e l’attivismo . A volte funziona, a volte non riesce, ma non ci sono segreti. E’ un processo a lungo termine – è sempre stato il caso. E ha avuto successo. Nel corso del tempo c’è una sorta di traiettoria generale verso una società più giusta, con regressioni e inversioni di rotta.
Quindi tu diresti che, durante il corso della vita, l’umanità è progredita nella costruzione di una società un po ‘più giusta?
«Ci sono stati enormi cambiamenti. Basta guardare qui al MIT. Fate una passeggiata nella hall e date un’occhiata alla natura del corpo studentesco: circa la metà è composta da donne , un terzo dalle minoranze, vestiti informalmente, relazioni casuali tra le persone e così via. Quando sono arrivato qui nel 1955, se tu camminavi per la stesso sala ci sarebbero stati maschi bianchi, giacche e cravatte, molto educati, obbedienti, che non ponevano molte domande. Questo è un enorme cambiamento.
E non è solo qui – è dappertutto. Tu e io non avremmo avuto questo aspetto, e infatti probabilmente tu non saresti stato qui. Questi sono alcuni dei cambiamenti culturali e sociali che hanno avuto luogo grazie a coscienzioso e solerte attivismo .
«Altre cose non sono andate così, come il movimento operaio, che è stato sotto duro attacco durante tutta la storia americana e in particolare a partire dai primi anni ’50. E’ stato seriamente indebolito: nel settore privato è marginale, ed viene ora attaccato nel settore pubblico. Questa è una regressione.
Le politiche neoliberiste sono certamente una regressione. Per la maggior parte della popolazione negli Stati Uniti, c’è stata praticamente stagnazione e declino nell’ultima generazione. E non a causa di alcune leggi economiche. Queste sono le politiche. Proprio come l’austerità in Europa non è una necessità economica – in realtà, è una sciocchezza economica. Ma si tratta di una decisione politica intrapresa dai progettisti per i propri scopi. Penso che in fondo è una sorta di guerra di classe, e si può resistere, ma non è facile. La storia non va in linea retta».
Come pensi che il sistema capitalista sopravviverà, considerando la sua dipendenza dai combustibili fossili e il suo impatto sull’ambiente?
«Quello che è chiamato il sistema capitalista è molto lontano da qualsiasi modello di capitalismo o di mercato. Prendete le industrie dei combustibili fossili: c’era un recente studio del Fondo monetario internazionale, che ha cercato di stimare il contributo che le aziende energetiche ottengono da parte dei governi. Il totale era colossale. Penso che sia stato intorno a 5.000 miliardi $ all’anno. Questo non ha niente a che fare con i mercati e il capitalismo. Lo stesso vale per altre componenti del cosiddetto sistema capitalistico. Ormai, negli Stati Uniti e altri paesi occidentali, c’è stato, nel periodo neoliberista, un forte aumento della finanziarizzazione dell’economia. Le istituzioni finanziarie negli Stati Uniti avevano circa il 40 per cento dei profitti delle imprese, alla vigilia del crollo del 2008, per il quale avevano una grande parte di responsabilità.
«C’è un altro studio del Fmi che ha indagato i profitti delle banche americane, e ha scoperto che erano quasi completamente dipendenti sovvenzioni pubbliche implicite. C’è una sorta di garanzia – non è sulla carta, ma è una garanzia implicita – che se si trovano nei guai saranno tirate fuori fuori. Questo lo chiamano too big to fail.
E le agenzie di rating del credito naturalmente lo sanno, lo prendono in considerazione e con elevato merito creditizio le istituzioni finanziarie ottengono un accesso privilegiato al credito più conveniente, ricevono i sussidi se le cose vanno male e molti altri incentivi, che ammontano di fatto a forse il loro profitto totale . La stampa economica ha cercato di fare una stima di questo numero e si presume di circa $ 80 miliardi di dollari all’anno. Questo non ha niente a che fare con il capitalismo.
E’ lo stesso in molti altri settori dell’economia. Quindi la vera domanda è, questo sistema di capitalismo di Stato, che è quello che è, sopravviverà all’uso continuato dei combustibili fossili? E la risposta è, naturalmente, no.
«Ormai c’è un piuttosto forte consenso tra gli scienziati che dicono che la maggior parte dei combustibili fossili rimanenti, forse l’80 per cento, devono essere lasciati nel terreno, se speriamo di evitare un aumento della temperatura che sarebbe piuttosto letale. E non sta accadendo. Gli esseri umani possono stare distruggendo le loro possibilità di sopravvivenza decente. Non ucciderà tutti, ma cambierebbe il mondo in modo drammatico».
Riferimenti
Questo articolo, pubblicato sul sito della rivista Jacobin, è stato ripreso tradotto da Maurizio Acerbo sulla mailing listi di Altra Europa.
Il manifesto, 12 settembre 2015
Gramsci, come risorsa per la definizione di un nuovo soggetto politico di sinistra. Sembra che si sia finalmente giunti alla decisione di costituire in Italia un nuovo soggetto politico di Sinistra. Provo allora ad elencare qualche snodo decisivo come contributo alla discussione. E’ importante partire con idee chiare, superando ogni sorta di perplessità e attendismo. In questo contesto ci può aiutare la ricchezza dell’attività giornalistica e politica di Gramsci degli anni torinesi. Le questioni affrontate, poi, da Gramsci nei Quaderni, sono tante e complesse che rimandano ai temi di stretta attualità dei giorni nostri, là dove Gramsci descrive una classe borghese che diventa casta, e per mantenersi tale, non esclude l’opzione della guerra. Né vanno sottovalutati i temi storici della «teoria della prassi» e i nodi concettuali di «società civile», «egemonia», «rivoluzione passiva».
Vorrei però oggi soffermarmi sull’analisi gramsciana di «coscienza di classe» e «ruolo e funzione del partito». Come spunto di riflessione per la costruzione in Italia di un nuovo soggetto politico a Sinistra, che rivendichi non solo i diritti civili ma anche l’eguaglianza sociale.
Gramsci muove dall’idea che senza coscienza (di sé ‚della realtà, del contesto storico) non ci sia soggettività, quindi sia inevitabile la subalternità al potere dominante. Senza coscienza di classe, la massa è indissolubilmente legata al dominio della borghesia capitalistica. La conquista della coscienza sociale è quindi il primo atto di quel processo che potrà portare a costruire un nuovo soggetto politico di Sinistra, poiché significa divenire consapevoli del conflitto sociale e politico in atto. Così come lo sono stati il partito Giacobino nella Rivoluzione francese del 1789, i Mille di Garibaldi nel 1860, la Comune di Parigi nel 1870, il partito bolscevico nella Rivoluzione d’Ottobre il nuovo soggetto politico è chiamato a svolgere una funzione pedagogica in termini egemonici e non autoritari, con l’autorevolezza e il prestigio della direzione.
Compito primo di questa nuova forza politica di Sinistra è, in altri termini, farsi soggetto promotore della contro-egemonia di classe, la quale deve a sua volta essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo, quindi concepire da subito i germi della nuova società, iniziando a costruire linguaggi alternativi, codici, forme, relazioni, esperienze sottratte al dominio dello sfruttamento capitalistico e finanziario. Quindi ribadire con forza i temi della Sinistra: ruolo pubblico nel mercato, la pace, acqua e beni comuni, lavoro, pensioni, scuola pubblica, l’Europa dei popoli, il No alla Nato, diritti civili ecc.. Per Gramsci il partito è un insieme di dirigenti all’altezza delle necessità e in grado di stare nel conflitto.
«Coscienza e organizzazione» costituiscono per Gramsci un binomio indissolubile. Il dovere più urgente, dice Gramsci, è il problema di organizzazione, di forza, di corpi fisici e di cervello, di organizzazione delle menti cioè formazione e coordinamento. Per Gramsci organizzare è sinonimo di direzione, di consapevolezza, di competenza delle conoscenze e di coerenza sul piano pratico.
Entra quindi in gioco il tema del «lavoro di massa», caratteristico e fondante della teoria gramsciana del partito. Lavorare tra le masse vuol dire essere continuamente presenti, essere in prima fila in tutte le lotte. Strategico e decisivo è quindi creare gruppi dirigenti «organici e adeguati» per la creazione e la formazione di un’autonomia culturale e politica che sappia dare risposte concrete, qui e ora al «Socialismo del XXI secolo». In questo arcipelago di movimenti di Sinistra, fondamentale sarà la presenza di un forte e nuovo Partito Comunista.
Sbilanciamocie.info, newsletter 11 settembre 2015
La piccola Grecia è stata il primo terreno di questa esperienza, la vittoria elettorale di Syriza ha permesso di formare, con l’aiuto di una modesta forza eterogenea, un governo di grande consenso, che ha sperato di trovare nel continente un’udienza favorevole, fino a spingere a non accettare come interlocutore la Troika – Bce, Fmi e Commissione – perché non rappresentano un organo eletto, quindi non formalmente valido. Era un rifiuto simbolico, perché di fatto questo trio è stato il rappresentante di Bruxelles e si è presentato come controparte, ma anche un simbolo ha un valore politico per cui la cosa ha irritato sommamente le autorità europee e la loro stampa.
Il programma del governo di Syriza è stato costituito da una serie di misure favorevoli ai ceti più deboli ed è stato accompagnato dalla richiesta di ristrutturare il debito pubblico e di ottenere dalla Germania la restituzione degli ingenti danni di guerra. Tali misure, presentate dal primo ministro Tsipras e dal ministro dell’economia Varoufakis, sono state tutte respinte proponendo come condizione preliminare a ogni discussione alcune riforme strutturali destinate a soddisfare i creditori.
Il dialogo non è stato possibile. Anzi, nel corso di alcuni mesi venuti a scadenza nell’agosto 2015 le richieste di rimborso si sono fatte ultimative portando il governo greco a scontrarsi con Angela Merkel e il ministro delle finanze tedesco Schauble, ambedue – e specie il secondo – irritatissimi con le tesi e il modo di presentarsi di Varoufakis che ha sostenuto la linea greca anche con la sua autorità di economista contro la filosofia dell’austerità.
In breve l’Ue, piacesse o no ad Atene, è stata rappresentata dalla Troika che ha fatto scudo contro Tsipras fino a rendere del tutto evidente che parte dell’Europa avrebbe preferito, piuttosto che accedere alla sue richieste, un’uscita dall’euro, detta “grexit” dall’alfabeto barbarico ora in uso.
Non sono mancati i rilievi sulle storture finanziarie del piccolo paese, ereditate dai governi precedenti: una fiscalità disordinata, che per esempio esentava, scrivendolo nientemeno che nella Costituzione, gli armatori e la chiesa ortodossa dalle imposte, nonché una quantità giudicata eccessiva di spese per il personale pubblico e soprattutto per la difesa, e una struttura industriale debolissima, situazioni che Tsipras si proponeva di risanare chiedendo qualche tempo e qualche mezzo per far fronte ai bisogni più impellenti: «Privatizzate, rinunciate alla spesa pubblica e abbassate le pensioni» è stata la risposta di Bruxelles accanto alla richiesta del rimborso del debito da concordare con i creditori, l’ultimo incontro con i quali si è rivelato insostenibile.
Nello scontro con questi inflessibili giganti, la Grecia è rimasta isolata, la esibita disponibilità del rappresentante francese, di Juncker e della stessa Merkel è rimasta strettamente limitata sul piano personale (qualche pacca sulle spalle e qualche buffetto esibiti davanti alle camere televisive nell’incontro con Tsipras), dall’Italia neanche questo, il tentativo di ottenere aiuti finanziari dai Brics si è risolto in nulla, la Russia essendo oggetto di sanzioni da parte dell’Europa.
A Tsipras non è rimasta altra scelta che mangiar quella minestra o saltare dalla finestra. Varoufakis si è ritirato dopo il successo al referendum di luglio e Tsipras doveva accettare o rifiutare i no della Troika su tutto il fronte. Tsipras ha preferito restare al suo posto combattendo metro per metro ma proponendo che il 20 settembre il popolo greco gli confermi o tolga la fiducia in straordinarie elezioni politiche.
L’Ue e la stampa dei suoi governi sono andati fuori dai gangheri: mossa cinica, come è cinico il personaggio è stato il rimprovero più moderato che gli è stato mosso. Varoufakis resta fuori e Syriza si è spaccata in due. Con soddisfazione di tutti i paesi europei che non avevano nascosto il timore di imitazione da parte di altri paesi del sud della linea di Tsipras, cioè l’ostinato rifiuto delle condizioni poste dalla Troika e in genere dalla linea dell’austerità.
Incombono le lezioni spagnole; Podemos simpatizza con Syriza, e la sua vittoria sul partito popolare di Rajoy è per Bruxelles una prospettiva più pericolosa della rivolta greca. Le dimensioni della Spagna sono ben più vaste e un’infezione di democrazia spaventa l’establishment europeo. Meglio l’Europa a due velocità, auspicata dal ministro delle finanze tedesco. Ben diversa da una scelta dei popoli verso la quale premono anche alcune delle sinistre extraparlamentari italiane, per le quali un’uscita dall’euro e il ritorno a una piena sovranità per ogni stato sembra auspicabile al di là dei prezzi da pagare.
Comune.info, 2 settembre 2015
Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l’obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com’è. Nel 900 il partito comunista faceva la politica del primo tipo, giusto o sbagliato che fosse il progetto. Poi è caduto il muro di Berlino e facendosi più realista del re ha deciso di imboccare la strada del pragmatismo fino a diventare il più strenuo sostenitore del liberismo. La fine fatta dal Pd è sotto gli occhi di tutti.
A sinistra molti criticano il Pd solo per avere perso totalmente l’anima sociale, ma ne condividono l’impostazione di fondo: il sistema è questo, non solo non si può cambiare, ma va bene così: bisogna solo porgli qualche regola affinché non si incagli nelle sue contraddizioni e bisogna rafforzare i paracaduti sociali per soccorrere le vittime che inevitabilmente produce. Non a caso la nuova parola d’ordine è diventata “sinistra di governo”, che meglio di ogni altra espressione ne racchiude il concetto.
In controtendenza, io penso che oggi più che mai la sinistra ha bisogno di un progetto alternativo perché questo sistema ci è nemico nell’impostazione di fondo.Cercare di correggere gli aspetti più odiosi è una regola di sopravvivenza, ma farlo senza intervenire sul senso di marcia è come preoccuparsi della tappezzeria in un treno che va verso il baratro. Tradizionalmente il tema forte della sinistra è la distribuzione, le correnti più moderate accontentandosi di spostare quote crescenti di reddito a vantaggio dei salari e della collettività; le correnti più radicali pretendendo di destinare tutto a salari e collettività non riconoscendo diritto di cittadinanza al profitto. Da cui i sistemi socialisti, ormai tramontati per varie cause che nessuno ha ancora studiato in tutti gli aspetti. Ma questa impostazione, per così dire distributivista, ha portato la sinistra a condividere la stessa matrice capitalista di adulazione della ricchezza.
Per entrambi, la ricchezza è un valore. Il capitalismo vuole produrne sempre di più per garantire alle imprese merci crescenti finalizzate al profitto; la sinistra vuole produrne sempre di più per creare nuove opportunità di lavoro e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Del resto c’è un detto classico nella sinistra: “Non si può distribuire la miseria: prima si produce la ricchezza, poi la si distribuisce”. Ed è così che anche a sinistra c’è una forte febbre produttivista: laddove più si riesce ad estrarre, più si riesce ad asfaltare e cementificare, più si riesce a manipolare la natura, più si riesce ad accrescere la tecnologia, in una parola più si riesce ad innalzare il Pil, meglio si sta. Una concezione un po’ antiquata che configura il benessere solo con la quantità di cose che siamo capaci di buttare nel carrello della spesa, dimenticando che prima di tutto abbiamo bisogno di una buona aria e che oltre alle esigenze del corpo abbiamo anche quelle psichiche, affettive, spirituali, sociali.
La questione della qualità della vita e la questione ambientale, hanno l’aria di essere temi ancora estranei alla sinistra. Ma se nell’ottocento potevano essere ignorati perché altre erano le priorità ed altro era il contesto ambientale, oggi la distruzione della casa comune rappresenta il tema che condiziona ogni altro aspetto sanitario, sociale, economico. Il concetto che più di ogni altro siamo costretti a rimettere in discussione è quello di crescita e benché sappiamo che varie attività consentono spazi di crescita senza maggior consumo di risorse e senza maggior produzione di rifiuti, il problema è il paradigma.
Sappiamo che trattando in maniera più intelligente i rifiuti, ricorrendo di più all’agricoltura biologica, potenziando i servizi alla persona, si può creare Pil e occupazione sostenibile, ma per fare pace con la natura dovremmo annientare, o giù di lì, l’industria dell’automobile, dovremmo cambiare totalmente il sistema distributivo per ridurre al minimo gli imballaggi, dovremmo smetterla di creare nuovi bisogni. In definitiva dovremmo chiudere per sempre con un sistema che ha fatto dell’aumento delle vendite il suo cuore pulsante. E se razionalmente sentiamo che questa è la strada da battere, dall’altra siamo bloccati per la disoccupazione che ne può derivare. Preoccupazione più che legittima in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita.
L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile.Cambiando prospettiva ci renderemo conto che il mercato non è l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni, né il lavoro salariato l’unico modo per produrre ciò che ci serve. I due grandi canali, se non alternativi, sicuramente complementari, sono il fai da te e l’economia comunitaria che hanno il vantaggio della gratuità e della piena inclusione lavorativa senza bisogno della crescita dei consumi.
La costruzione di una società che finalmente sappia mettere la persona al centro della sua attenzione e sappia porsi come obiettivo, non già l’offerta di lavoro, ma la garanzia a tutti, donne e uomini, giovani e vecchi, abili e inabili, di una vita sicura dalla culla alla tomba, nella piena soddisfazione di tutte le dimensioni umane e nel rispetto dei limiti del pianeta, dovrebbe essere il vero progetto politico della sinistra perché tiene insieme tutti i valori che la contraddistinguono: equità, rispetto, sostenibilità, solidarietà, autonomia.
Un progetto che, certo, ci costringe a ripensare tutto, dal senso e la funzione del lavoro ai tempi di vita, dal modo di produrre ciò che ci serve all’uso e il governo del denaro, dal ruolo del mercato al ruolo dell’economia collettiva, dal modo di concepire la tecnologia al modo di partecipare all’economia collettiva. Ma è ciò di cui abbiamo bisogno in un momento che il sistema di mercato sta mettendo in evidenza tutto il suo fallimento umano, sociale, ambientale, financo economico.
Con un progetto di società, non solo potremmo riaccendere la passione per la politica nei milioni di cittadini che oggi vivono ai margini perché stanchi e delusi, ma potremmo tornare al ruolo di forza con un’agenda da perseguire, non più costretta a giocare perennemente in difesa. Finalmente smetteremmo di correre dietro alle falle che crea il sistema e metteremmo a punto il nostro piano strategico di trasformazione della società, con proposte per tutti i livelli: da quello personale a quello comunale, da quello regionale a quello nazionale, da quello europeo a quello mondiale. Perché un’altra certezza è che la costruzione di un’altra società esige non solo una nuova visione dell’economia e della società, ma anche una nuova concezione del modo di fare politica.
Concordo con pressoché tutti i punti del decalogo formulato da Norma Rangeri su queste colonne (28 luglio) per l’apertura della discussione. Tuttavia, fra gli obiettivi e la loro presumibile realizzazione s’interpone da parte mia un cumulo di dubbi e di perplessità (come sempre più spesso, ahimè, mi capita), che sembrerebbe, forse, oscurare gli obiettivi di cui sopra (non sarebbe, nonostante tutto, nelle mie intenzioni). Ma vediamo.
1) La crisi della sinistra non è solo italiana: è europea, anzi globale. E’ sotto gli occhi di tutti: strano che se ne parli così poco in questi termini. Sommariamente (certo, troppo sommariamente) io l’attribuisco a due fattori (in questo senso soprattutto europei).
Il primo: la sconfitta che il lavoro e, in senso più specifico e sostanziale, la classe operaia hanno subito nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: in Inghilterra; in Germania; in Italia (in forme diverse, certo, ma orientate tutte nella medesima direzione). Ora, non c’è sinistra (in senso classico) senza rappresentanza del lavoro: perché la visione progressista e riformatrice della “vera sinistra” è sempre nata da lì (c’è bisogno di esempi storici). Se ne può fare a meno?
La sconfitta del proletariato (anche in questo senso classico) e della classe operaia ha provocato nella società post-industriale e post-fordista l’emergere di due fenomeni, contemporanei e al tempo stesso contrastanti fra loro: una sorta di borghesizzazione spuria e dispersa e una sorta di proletarizzazione spuria e dispersa di parti diverse della società. Manca il collante, politico e sociale, che le tenga insieme. A mio giudizio, anche la grande fortuna attuale del verbo francescano-cattolico deriva da questo: siccome non c’è forza terrena che ci riesca, la parola della Chiesa, che non ha bisogno di verifiche pratiche allo scopo di governare (disperata missione dei poveri politici umani), appare comunque, anche ai laici, una risposta confortante e consolatoria.
Come possono di nuovo stare insieme le due cose? Dove deve mettere le sue radici la “nuova sinistra”? Come si rappresenta un lavoro profondamente diverso dal passato, — nel quale, naturalmente, continua a occupare un ruolo importantissimo la classe operaia, ma non più in posizione egemonica, — e lo si ri-organizza per rovesciare l’ondata travolgente, mondiale, del capitalismo finanziario? Se non si risponde a queste domande, interviene l’atrofia dei muscoli e del cervello.
In fondo, l’emergere di una nuova fenomenologia politica (non solo, ma soprattutto) nei paesi più deboli dell’orizzonte europeo occidentale, — Spagna, Grecia, Italia, — Podemos, Syriza, persino Grillo e il grillismo, rappresenta una risposta a queste domande. Non ne condividiamo uno per uno tutti gli orientamenti e ne scrutiamo spesso con qualche preoccupazione gli obiettivi, ma non possiamo non riconoscere che in una società mobile e disarticolata le loro sono risposte più à la page delle nostre.
Il secondo: l’Europa vive ormai sotto l’incubo (anche artatamente gonfiato, ammettiamolo) di uno scardinamento provocato da un’ondata migratoria di cui indubbiamente non esistono precedenti. La reazione è quella di una chiusura a riccio: da parte dei ceti borghesi, o pseudoborghesi, allo scopo di difendere i propri privilegi; e da parte dei nuovi ceti proletari e sottoproletari allo scopo di difendere una loro possibile, ancorché improbabile, ascesa verso l’alto. In ogni caso, è fuori discussione che il fenomeno alimenti qualsiasi tipo di reazione “populista” (io preferirei dire “massista”, ma devo farmi intendere dai lettori). Se il punto precedente si saldasse con questo, il quadro potrebbe diventare devastante. Non a caso Beppe Grillo, che se ne intende, ha formulato proposte estremamente restrittive rispetto al fenomeno dell’immigrazione. E’ un dato di fatto, tuttavia, che la sinistra, sia quella “storica” sia quella “nuova”, su questo punto non ha saputo formulare altro che generiche proposte d’ingenuo solidarismo, quando in Europa non s’è allineata tout court con le posizioni dei governi e dei ceti conservatori. Il solidarismo umanitario è il nostro credo. Ma se non ha un programma, e forze e mezzi per realizzarlo, rischia di diventare straordinariamente autolesionistico.
Senza bisogno di ricorrere, come taluno auspica, a una nuova Poitiers, è vero per tutti che l’Europa a sinistra si salva sia dall’interno sia dall’esterno. E’ una scommessa bestiale, me ne rendo conto. Ma solo chi la vince, vince l’intera partita.
2) Quello che in Europa rappresenta un decalage storico impressionante, — ci sono governi moderati o conservatori o di estrema destra in tutti i paesi, esclusa la Francia, dove il socialista Hollande si appresta a lasciare il premierato niente di meno che a un leader conservatore, anzi reazionario, di primo pelo come Sarkozy; in Germania i socialdemocratici si limitano a navigare nella scia di Angela Merkel; in Inghilterra i laburisti sono stati sconfitti recentemente per la seconda volta da Cameron, in attesa che la stella di Corbyn si levi in cielo dall’orizzonte, — diviene in Italia, come sempre più spesso capita, un allegro (o meglio: squallido) spettacolo della “commedia dell’arte”. Non c’è un provvedimento del governo Renzi che sia minimamente condivisibile. Il Jobs act. Il programma devastante e antiambientalista delle Grandi Opere. La cosiddetta “Pessima Scuola”. Tutto è diventato commerciale, usufruibile, sfruttabile: se non lo è, lo deve diventare a viva forza. La vicenda delle nomine dei direttori dei grandi musei italiani è uno schiaffo alla dignità nazionale e un’offesa ai funzionari che hanno il compito istituzionale di difendere il patrimonio artistico e i beni culturali.
Il caso Azzollini è uno schizzo di fango sulla toga già non del tutto immacolata del Pd: l’ammonimento susseguente e conseguente del Presidente del Consiglio, — «non siamo i passacarte dei Pm», — suona inequivocabilmente come un’apertura di credito nei confronti dei politici corrotti e corruttibili («State tranquilli, qualsiasi cosa facciate, ci siamo noi pronti ad aiutarvi e proteggervi»).
Ma quel che più conta è l’obiettivo cui mira la riforma costituzionale già in atto: ne riassumo le conclusioni. Se il progetto del ducetto di Rignano sull’Arno dovesse andare in porto, un partito del 35% (il 20%, più o meno degli aventi diritto al voto), avrebbe nelle proprie mani, a partire dalle prossime elezioni, non solo il Parlamento, la Presidenza del Consiglio e il Governo, ma anche la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale.
Quando si parla con orgoglio del Partito della Nazione, si dimentica che questa anomala caratterizzazione è stata usata in passato solo dai nazionalisti di primo Novecento, poi confluiti trionfalmente nel fascismo della prima ora, e poi, per l’appunto, con motivazione ancor più evidente, nel Partito Nazionale Fascista. Non è un caso che la forza innegabile, e temibile, di Matteo Renzi consista nell’avere a disposizione una possente arma di riserva. Se le cose dovessero andargli male, o solo un po’ peggio, l’alleanza con la destra berlusconiana sarebbe sempre a portata di mano. Altro che interruzione o declino del Patto del Nazareno! Il Patto del Nazareno è stato calato geneticamente nelle fibre costitutive del Governo Renzi, può essere reintegrato in ogni momento, anzi, più esattamente, non è mai venuto meno.
Cioè: siamo in Italia di fronte al rischio di un vero e proprio cambiamento di regime.
La conclusione di questo punto è che in Italia, — un paese da tutti i versi nel degrado più completo, (corruzione politica, crimine organizzato, perdita generalizzata di fiducia nella politica) — la battaglia della sinistra per le sue tradizionali parole d’ordine, (libertà, giustizia, eguaglianza) — deve essere ispirata anche fortemente ai bisogni e alle prospettive di una difesa e di un reintegro degli assetti istituzionali e costituzionali, della presenza e della dignità dello Stato e della ricerca di quell’obiettivo, che, forse un po’ troppo genericamente, ma anche molto efficacemente, si definisce “bene comune”.
E’ quel che accade oggi? Le connessioni tra le varie parti di questo difficile e scalare discorso, — politica, economia, assetti sociali, rapporto istituzioni-lotta di classe, — ci sono evidenti e percepibili, più o meno nello stesso modo, da Sondrio a Capo Pachino? Direi di no, per ora.
3) La sinistra, — un po’ tutta: quella del centro-sinistra-destra, che ci governa, e quella della “sinistra al tempo stesso classica e nuova”, in Italia non ha (e/o non vuole avere) memoria. Non ha introiettato e tanto meno metabolizzato la Bolognina di Occhetto, la bicamerale di D’Alema, la teorizzata e conclamata autosufficienza dei Ds di Walter Veltroni, la pugnalata nella schiena inferta al Governo Prodi da Rifondazione Comunista, il vigoroso tramonto della stella rinnovatrice di Antonio Bassolino, persino il recente, smisurato sostegno istituzionale e costituzionale del Presidente Napolitano all’esperimento Renzi.
Tanto meno ha introiettato e metabolizzato i tentativi di voltar pagina, che pure in questa nostra sinistra ci sono stati. Più o meno dieci anni fa (2004–2005), in una congiuntura enormemente più favorevole di quella odierna, un gruppo di compagni diede vita a una cosa che si chiamava “Camera di consultazione della sinistra” e propugnava, per l’appunto, l’unità della sinistra radicale (Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi, parti importanti della sinistra Ds, gruppi autonomi, ecc ecc.). L’esperienza ebbe una larga e ricca gestazione, fu sostenuta da un dibattito interessantissimo su il manifesto, ospite solidale e partecipe, sfociò in una grande Assemblea nazionale alla Fiera di Roma. Il giorno in cui (12 aprile 2005) il lavoro avrebbe dovuto concludersi con un voto su di un documento programmatico, e di lì passare ai fatti, Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, ne sabotò duramente il proseguimento. Si avvicinavano le elezioni. Il suo programma era un altro. La vittoria elettorale e, conseguentemente, la partecipazione a un governo fortemente spostato a sinistra? No, la Presidenza della Camera dei deputati. Oltre al fallimento del predetto tentativo, ne derivarono diverse altre conseguenze negative, fra cui, al limite, anche la scissione di Rifondazione comunista: una prova lampante di cosa significhi lavorare, alacremente e astutamente, non per l’unità della sinistra ma per la sua disunione.
Risentimento? Rancore? Sì, certo. Ma anche qualcosa di più. Abbiamo alle spalle un numero straordinario di sconfitte, giocate sia sul piano storico e politico sia su quello personale. Un elemento di riflessione storica e politica riguarda ad esempio l’impressionante declino della classe politica comunista post-berlingueriana.
Uno storico serio dovrebbe affrontare la questione e spiegarci come questo sia potuto accadere, e in questa misura. Un elemento di riflessione personale e antropologica riguarda invece la inaspettata insorgenza e poi, decisamente, la prevalenza, nei rappresentanti più in vista di tale ceto politico; di quegli elementi di un’etica degradata e personalistica, che ci assediano da tutte le parti e che, a parole, ma a dir la verità sempre meno spesso, viene condannata nella società che ci circonda.
Conclusione: se non si introietta e rielabora tutto questo, meglio non ricominciare.
4) Veniamo ora, sconsolatamente, dalla disillusa e pressoché disperata rievocazione del passato, ai buoni propositi del futuro. Ci vorrebbe, — conditio sine qua non: tener conto, certo, e farne il fondamento, dei punti elencati ai n. 1, 2 e 3, — un nuovo Partito: un partito fortemente democratico (una testa, un voto, e fin dall’inizio); fortemente riformista (non è più il tempo di un protestantesimo generico e parolaio, bisogna indicare con esattezza calvinista le cose da fare, la gerarchia con cui farle, per chi e come farle); e fortemente europeista (per un’Europa federata politicamente, all’interno della quale valga il criterio politico-istituzionale della rappresentanza e non la forza di contrasto e di ricatto della potenza economica capitalistica e delle tecnocrazie ad essa asservite).
Un partito, dico, non una rete. So per esperienza (l’esperienza che manca alla maggior parte dei miei possibili interlocutori) che da una rete, — una qualsiasi rete, di associazioni, di comitati, di gruppi, — non si decolla mai verso l’alto, ci si allarga solo, se va molto bene, orizzontalmente.
Un partito, aggiungo, promosso e fatto soprattutto da giovani: trentacinque, quarantenni. L’esperienza, anche in questo caso, dimostra che, per sorgere o risorgere, bisogna scavare un fossato ben visibile rispetto al passato (Podemos, Syriza). Il personale politico e intellettuale della “nuova sinistra” è più vetusto di quello di centro-sinistra-destra (sto parlando di me in primo luogo, ovviamente). I giovani non ci sono? Se non ci sono, vuol dire che l’Italia di oggi non li produce, e se è così, è un bel guaio. Ma forse, anche in questo caso, abbiamo fatto di tutto, e stiamo ancora facendo di tutto, perché l’Italia non li produca. Se si proponesse una leva, con l’obiettivo dichiarato ed esplicito di cedere alle nuove generazioni il bastone del comando, forse qualcosa di nuovo potrebbe saltar fuori. Meglio i possibili, difficilmente prevedibili errori dei giovani che quelli, assolutamente prevedibili, anzi già oggi del tutto scontati, dei nostri vetusti dirigenti.
Poi ci vuole una Persona, un’identità ben precisa sia maschile che femminile. E oggi, in tempo di mediatiche mattane, ancora di più. L’esperienza recente lo dimostra: senza Iglesias, senza Tsipras, persino senza Grillo, il combinato disposto di protesta, irritazione, ricerca del nuovo, tanto più in assenza di un autentico, materiale, evidente, punto di riferimento sociale, non quaglia. Dov’è questa Persona? Non sarà che a restar chiusi ancora una volta, per un’elementare reazione di autodifesa, nella piccola legione macedone fatta di quadri vetusti e d’intellettuali stagionati, la persona non riesce a venir fuori, resta ancora una volta e per sempre il detestato ed esorcizzato Pover’Uomo di falladiana memoria?
Perché queste e tutte le altre prove e controprove siano fatte ci vuole dunque una vera (sottolineo: vera) fase costituente, nel corso della quale si verifichi seriamente, non solo e non soprattutto, se siamo d’accordo fra noi, ma se ci sono altri che sono d’accordo con noi: disposti noi di conseguenza a cambiare, se gli altri, i “nuovi” del “partito nuovo”, ci persuaderanno che le loro ragioni sono migliori delle nostre (che poi è esattamente quello che ci si dovrebbe augurare che avvenga). Queste ragioni devono venire soprattutto dall’esterno: non possiamo pretendere oggi di farle tutte bell’e confezionate dal nostro stanco e mille volte sconfitto cervello.
5) Infine. Abbiamo sotto gli occhi la recentissima lezione, al tempo stesso esaltante e drammatica, della Grecia. Nello spazio di un colpo di fulmine siamo passati dall’ammirazione sconfinata per il processo di liberazione coraggiosamente iniziato e portato avanti da Syriza alla contemplazione problematica del processo di compromesso con le potenze dominanti all’interno della Ue predisposto e accettato dal Governo Tsipras per salvare il salvabile e continuare al tempo stesso il processo.
Il manifesto, 26 agosto 2015
Rischio volutamente la retorica, nell’accostare l’arcaico caporalato e la moderna precarietà multiforme, esperienze contemporanee di cui gli esempi si potrebbero moltiplicare, tutti accumunati da un salario orario indecente, o sempre più basso. La retorica sparisce se rovescio la domanda: la sinistra ha in mente Angela, i suoi compagni di lavoro, o i dipendenti dell’Ikea? Pensa, la sinistra, immagina, progetta come affrontare, risolvere i problemi della vita di queste persone? Il modo per proteggerle dalla ferocia del capitalismo neo-liberista? Strade percorribili, anche audaci, conflittuali, perigliose, e perché no, rivoltose, ma che permettano di intravedere modi diversi di vivere?
La risposta è brutale: no, da molto tempo questo non avviene. E questo è il nodo cruciale del dibattito aperto da Norma Rangeri e dal manifesto: l’incontro mancato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in condizioni di vita sempre più dura, — chi non riesce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è precario, precari della conoscenza che mantengono con il loro lavoro semigratuito università, centri di ricerca e sistemi di informazione – se ci sono, desideri e speranze, difficilmente si chiamano “sinistra”. E dall’altra parte i progetti di chi dovrebbe aprire lo spazio di elaborazione e di pratiche politiche che a quelle menti possano parlare, dare respiro e speranza.
Non interessa, qui, fare l’analisi delle responsabilità. Fermarsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi criminale. Non c’è vita, nella recriminazione e nel rancore. E lo dico da femminista quale sono, sempre più sgomenta nel constatare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini – di riconoscere il peso, l’influenza, l’acutezza della critica femminista alla loro politica, e che incapaci come sono di accoglierla esplicitamente procedono come se nulla fosse successo. Certa che questo muro di silenzio sia parte del problema, della difficoltà di mettere a fuoco visioni ampie, inclusive, e nello stesso tempo convinta che anche il femminismo sia implicato, nel vuoto che ci affligge.
Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fissate troppo sull’obiettivo paritario, così facilmente fatto proprio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occidente, alla libertà femminile, avesse spinto a chiudere gli occhi su quanto avviene. Come se per esempio il feroce aumento della diseguaglianza economica non riguardasse le donne. Che ne sono le prime vittime, sotto molteplici aspetti, dallo sfruttamento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo femminile, della riproduzione. Anche da parte di altre donne.
Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione efficace, aiuta a prendere coscienza della pesantezza delle condizioni di vita, o a recuperare forme di auto-organizzazione come il mutualismo, ricostruendone il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica contemporanea del “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in braccio, dietro e di lato a un uomo, a uomini che combattono in prima fila. Dove sarebbero le donne? E gli stessi uomini? E i bambini? E questi, di chi sarebbero figli?
Non sono dettagli fuorvianti. Come non capire che questo quadro mutato e mutante è parte essenziale di ciò che va pensato, anche nel mettere a fuoco nuovo forme organizzative? Che il nodo delle relazioni non è una questione parallela, ma centrale? Sia nella valorizzazione di poteri alternativi sia nel creare coesione, per reggere lo scontro violento. Perché sono l’oggetto dei processi di riorganizzazione in corso ad opera di un capitalismo neoliberista che nella vita entra senza ritegno, e la rimodella a proprio piacimento.
Esattamente come agisce per la ridefinizione– distruzione di democrazia. Nel quadro delle istituzioni, europee e non solo. Fanno parte di un unico disegno di comando che va combattuto.
Di questo si dovrebbe parlare, se si parla di vita a sinistra. Se si vuole entrare nella breccia che Alexis Tsipras con grande lucidità politica continua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calendario di impegni tra movimenti e organizzazioni fino a novembre, che il gesto del dirsi “siamo qui, partiamo”, sia rapido, veloce, quasi noncurante. Come chi sa che non c’è nulla da esaltare, in effetti. Che organizzarsi non è occuparsi di sé. L’urgenza è mettersi in grado di aprire spazi e pensieri, liberare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.
Il manifesto, 26 agosto 2015
Per scegliere come agire conviene partire dalla conoscenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:
a) Sta tornando, anche nel cuore di società ricche, la schiavitù; secondo una stima della Cgil in tale condizione si trovano (ma le stime sono riferite a ciò che è visibile, non al sommerso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extracomunitari; il “profitto” se ne giova enormemente.
b) Strettamente connesso è il potere incontrastato dei grandi e meno grandi centri mafiosi equamente diffusi nel pianeta. (Con la vittoria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diventato un epicentro mafioso). Le banche riciclano indisturbate il “denaro sporco”, di cui droga, prostituzione, caporalato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capitale finanziario e malavita si è compiuto. Nella totale passività e complicità dei poteri politici.
c) Il cosiddetto fenomeno migratorio ha carattere strutturale ed epocale. Ogni trovata mirante a interromperlo (respingimenti, interventi nei luoghi di partenza) è risibile. E’ come voler svuotare il mare col mestolo. L’Occidente – fabbricanti di armi sempre pronti a commuoversi, interventi imperiali in Irak, Siria, Libia ecc. — ha creato i disastri, una cui conseguenza è tale migrazione di popoli.
d) La mutazione della Cina in paese ipercapitalistico a carattere nazionalsocialista ha chiuso il ciclo novecentesco del “socialismo”.
e) La fine del movimento comunista ha comportato anche il declino delle socialdemocrazie.
f) Il meccanismo elettorale pluripartitico (caratteristica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò grazie a dinamiche liberticide irreversibili: delega dei poteri decisionali a strutture tecniche non elettive, e per di più massiccia introduzione di sistemi elettorali di tipo maggioritario. Il de profundis è stato il formale misconoscimento della volontà espressa dal referendum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qualunque legittimazione elettorale quale l’Eurogruppo.
g) Il soggetto sociale tradizionale dei partiti di sinistra è, numericamente, in via di estinzione. Mi riferisco all’operaio di fabbrica, o meglio a quella parte che veniva un tempo definita “operai coscienti”. Sono subentrati per un verso la nuova schiavitù, per l’altro un gigantesco ceto medio condannato ad un crescente impoverimento, in alcuni paesi appesantito dalle rigidità della moneta unica.
h) Una formazione politica di sinistra dovrebbe dunque decidere se: (1) scegliere di rappresentare i nuovi diseredati, ovvero (2) puntare, con qualunque alleato, ad andare al governo a qualunque costo per fare una qualunque politica. Da tempo, la ex-sinistra (in Italia, Francia, Germania, ora anche Grecia) ha scelto tale seconda opzione.
i) La sola battaglia possibile in questa situazione è di carattere culturale, il più possibile di massa. Descrivere scientificamente il “capitale” del XXI secolo e smascherare la cosiddetta “democrazia occidentale”; diffondere la consapevolezza della sua vera natura. I luoghi di intervento non sono molti. La grande stampa funziona sulla base di una costante censura del pensiero critico nei confronti dell’Occidente. Ma c’è un grande terreno di lotta culturale, che è la scuola. E’ lì che si può indirizzare una lotta tenace in favore del pensiero critico.
j) Verrà sollevata la questione: ma qual è la classe sociale di cui la sinistra dovrebbe rappresentare gli interessi? Lo sfruttamento non è affatto scomparso, ma è ormai soprattutto sfruttamento del lavoro intellettuale che costituisce la parte essenziale del ciclo produttivo. E persino ai quadri medio/alti — per ora ben pagati – andrebbe fatto capire che anch’essi sono degli sfruttati e che chi li sfrutta è meramente parassitario.
k) Nell’epoca del dominio mondiale del capitale finanziario, “il nemico” è quasi invisibile.
Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola “margine”. Si tratta di Al margine, di Francesco Magris (Bompiani) e di Margini d’Italia, di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene, possono riserbare delle sorprese.
In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell’ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell’immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.
Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud; i Manicomi; i Campi nomadi. Se si esclude l’ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.
Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).
Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l’espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano. La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un’esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi. Faccio un solo esempio, ma rilevante: l’Italia. L’Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).
Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l’Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall’innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.
È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.
Mi piacerebbe davvero discuterne, se avessi la forza di farlo. Soprattutto su due questioni: l'una teorica, l'altra pratica. (1) Se non ci si rinchiude in una logica capitalistica è giusto ridurre il concetto di "lavoro" a quello di "lavoro operaio"?. A me sembra di no. Se avessi ragione occorrerebbe poi domandarsi: (2) Se la crescente marginalizzazione della classe operaia fosse inarrestabile, non esistono altri "margini" suscettibili (ove acquistino coscienza di sé) di svolgere nel XXI secolo il ruolo svolto nei secoli precedenti dalla classe operaia? (e.s.)
Linkiesta, giornale online, 15 agosto 2015
Intervista a Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”, promotore, insieme ad altri intellettuali, alle scorse elezioni europee della lista L’Altra Europa con Tsipras, di cui oggi è tra gli esponenti di maggiore spicco, parliamo di ciò che si muove alla sinistra del PD e delle prospettive di una nuova sinistra in Italia.
Professor Revelli, in molti Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale. A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?«È vero. Mentre in altri Paesi mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di "sinistre nuove" a vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo, dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi, appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma preponderante il quadro politico: non solo il populismo nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e "guardiano" di Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo "di governo" di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di innovazione - nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e nelle idee - e di forza».
Viste le esperienze del passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare radicalità e ambizione di governo?
«Sufficiente sicuramente no. Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare. L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento sociale - le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure riuscire a combattere - ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia oggi, come ho detto, una condizione necessaria - tanto necessaria da richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili - ma non sufficiente per fare ciò che la crisi ci richiede di fare.
«Necessaria perché la frammentazione rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma non sufficiente perché senza un segnale chiaro di "nuovo inizio", senza un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente facendola sentire "la propria gente", con cui si condivide sofferenza e destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che chiamiamo il "processo costituente" fallirebbe in partenza. Non farebbe che riproporre l’immagine di una "sinistra senza popolo" circondata da "populismi senza sinistra"».
Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
«Non sottovaluto il ruolo della leadership. Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si chiamava "la formazione del gruppo dirigente". Ma anche di quella individuale: l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà difficile trovare le figure che lo rappresentan»o.
L’esito della trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione per la sinistra?
«La notte tra il 13 e il 14 luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea. Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea - questa Unione Europea - è purtroppo incompatibile con la democrazia e con l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus" germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza economici la chiave del’ordine politico. Più che di una "questione greca" la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una enorme "questione europea" e, dentro a questa, di una gigantesca "questione tedesca"».
Perché vede una “questione europea”?
«Perché l’Europa così come si è rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive.
«Vorrei dire di più: senza una dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza, militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo, con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata, colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati, capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo».
In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Mi ripeto. L’Europa rivelatasi nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi (contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa – l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o muore».
«Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa. Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario? Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si potrebbe giocare una bella partita».
Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
«Qualcosa è successo, nelle ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un embrione di road map.
«Già all’inizio di settembre sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa: che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200 incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente sia un mero assemblaggio “dall’alto”.
«Gruppi di lavoro sono già previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”… Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia».
«La mutazione antropologica. Bisognerebbe raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche».
Il manifesto, 13 agosto 2015
Che ci sia (o meglio, che ci potrebbe essere) “vita a sinistra” è quasi “naturale” considerato come va il mondo, ovvero verso una rotta di collisione inevitabile con l’ambiente, la povertà diffusa, l’esodo inevitabile di masse enormi di popolazione dai territori devastati da guerre, carestie, siccità. Ma rimanendo alle disgraziate sorti italiche, se poco poco si ascoltano i rappresentanti delle giovani generazioni, si ha la sensazione che nessuno creda più a una qualche possibilità collettiva di riscatto, di alternativa.
Circolano perfino mitologie antropologiche sulla dannazione della specie umana, come a dire: l’uomo è fatto così, le guerre sono inevitabili, la povertà di molti è necessaria al funzionamento dell’economia. Basta osservare, per convincersi della diffusione di questo virus, l’atteggiamento di tante (troppe) persone qualunque nei riguardi degli esodi di massa dai paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo: non possiamo accoglierli tutti — si dice nel migliore dei casi -, finiremmo col diventare come loro, ci rubano il lavoro (che non c’è). E poi ancora, a me sgomenta il fatto che il Papa venga oscurato; i suoi messaggi compaiono come trafiletti nei media nazionale; quelli internazionali neppure lo citano: non era mai successo in passato. C’è di che rassegnarsi a una estinzione di massa per asfissia culturale, per impotenza politica, per disperazione. “Speriamo che io me la cavo” sembra essere il motto delle nuove generazioni. Non può certo stupire il successo di Renzi: è pur sempre meglio credere alla befana che rassegnarsi alla cruda realtà che costei non esista.
E a vedere i telegiornali il quadro si incupisce ancora di più: beghe condominiali, litigi personali, leaderismo occupano l’intero spazio politico, quello dal quale dovrebbe nascere il progetto di futuro. Ha ragione Bevilacqua a dire (il manifesto dell’8 agosto) che la sinistra è oggi una testa senza gambe. Le gambe, quando ci sono, camminano da sole senza testa, e la testa ancora non si accorge di non avere le gambe, o forse più cinicamente pensa di non averne più bisogno come in quei romanzi di fantascienza dove si parla di immaginarie menti senza l’ingombro del corpo che partoriscono pensieri e comandi. Questo il punto cruciale all’ordine del giorno della politica.
Così come ha ragione Michele Prospero (il manifesto del 4 agosto) a dire che la minoranza Pd, piaccia o no, è molto utile al gioco del partito della nazione fornendo la sua maldestra stampella all’esercito dei vincenti. Chi mai, tra i giovani (e anche tra i non giovani) può credere ad essa? Se vogliamo continuare con i tentativi di suicidio, facciamo pure un nuovo partito, inventiamoci un nuovo leader per avere l’illusione di esistere ancora. Tutto ciò che resta dell’attuale sinistra non è più credibile agli occhi di nessuno, quando essa non viene addirittura ritenuta la responsabile degli attuali guai nostrani per averci illuso – e ingannato — che esisteva un altro mondo diverso da questo.
Per esperienza personale posso citare la questione drammatica dell’università. Tra i vecchi docenti impegnati, molti hanno fatto domanda di pensionamento anticipato, altri, pur restando, vivono in solitudine senza impegno a curare i propri (legittimi) interessi di ricerca. Un’intera classe dirigente ha dato forfait: chi può scappa, chi rimane tace diffidando dell’impegno politico, mentre l’ideologia liberista meritocratica si diffonde alla velocità della luce attraverso il disbrigo quotidiano di schede da riempire e valutazioni da fare per dimostrare di essere i “migliori” e accedere alle graduatorie nazionali e internazionali. Se vuoi avere successo parla pure in italiano (ancora è consentito) ma scrivi in inglese e su riviste che sono accreditate da improponibili agenzie di valutazione pagate a peso d’oro dalle istituzioni. Un intero sistema formativo essenziale per lo sviluppo del paese è stato smantellato nel giro di pochi anni e ancor di più minaccia di esserlo prossimamente.
Servirebbe, come è successo a L’Aquila, un popolo delle carriole che cominci a raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche, quando ancora la figura dell’Architetto non era nata. C’erano però i Mastri che con la loro sapienza guidavano i lavori, inventando di volta in volta e collettivamente le forme e le soluzioni tecniche quando comparivano problemi. Bisognerebbe che poi le carriole, con il loro corredo di rovine, confluissero verso una stessa direzione anziché andarsene a spasso ognuna per suo conto.
In un altro mondo, quello che noi vorremmo, a quello sconosciuto migrante che ha attraversato a piedi il tunnel sotto La Manica sfidando cavi ad alta tensione e treni ad alta velocità, avremmo attribuito una medaglia d’oro: è lui il vero maratoneta delle Olimpiadi greche. La risposta di Francia e Inghilterra è stata: ma dov’è la falla nei nostri sistemi di sicurezza?
Ai molti aspetti paradossali che contraddistinguono la sfera politica in Italia, possiamo aggiungere un altro paradosso che riguarda direttamente l’oggetto su cui Norma Rangeri ci ha invitato a discutere. Quanto più la «sinistra» diventa inconoscibile nelle «cose» tanto più estende i suoi confini nelle «parole».
A «sinistra del Pd» si stanno aprendo vastissimi spazi per la «sinistra». Con formulazioni appena un po’ differenti, frasi di tal genere vengono costantemente ripetute anche sulle colonne di questo giornale. Lo si dice ormai da tanto tempo, ma lo stato di cose presente ci prova in maniera difficilmente controvertibile quanto grande sia la differenza tra affermazioni desideranti e realtà effettuale. Comunque non è senza interesse chiedersi quale sia il modo con cui è possibile intendere il termine «sinistra».
Probabilmente la maggioranza di coloro che si sentono impegnati nella costruzione della cosiddetta «casa comune» ritiene che la «sinistra» in fieri, quella che dovrà occupare gli spazi lasciati liberi dal Pd, sia la sola legittimata all’uso di quel termine. Ci sono però anche coloro che pensano ad un soggetto politico «a sinistra» del Pd. C’è poi il Pd che ha riscoperto il valore nella comunicazione (nella propaganda cioè) di una parola dalla quale, proprio nel suo momento fondante, aveva invece teso a sottolineare la distanza. Ricordiamo bene Veltroni, fondatore e primo segretario, definire la nuova ragione del partito con espressione di radicale chiarezza. A chi gli faceva notare che ormai egli non pronunciava più «la palabra izquierda», rispondeva : «Es que somos reformistas, no de izquierdas» («El País», 1/03/2008). Ora Veltroni ha riscoperto la «parola», così come il suo creativo epigono Renzi.
Naturalmente, trattandosi di pura comunicazione/propaganda, la «parola» deve fluttuare nell’aria, non avere alcun peso ed alcuna radice nelle «cose». Sinistra è «cambiamento», sinistra è «fare», come diceva compulsivamente Berlusconi, al massimo sinistra è un flebile richiamo ai sempiterni valori. Talmente sempiterni che, prescindendo da qualsivoglia dimensione storico-analitica dei concreti rapporti economici e sociali, possono andar bene per tutti.
Proprio per questo lo «sdoganamento» (così ha titolato «la Repubblica») veltron-renziano del termine «sinistra» è semplicemente funzione del mercato elettorale. Funzione efficace peraltro perché a) richiama una tradizione di lungo periodo i cui effetti di trascinamento non sono certo esauriti; b) sposta il confronto con qualsiasi altro soggetto che voglia definirsi di sinistra su un piano esclusivamente assiale.
La collocazione sulla dimensione assiale, essendo le denominazioni politiche strumenti di battaglia, non è la conseguenza di una tecnica naturale, ma degli esiti di lotte politiche e culturali. Per questo tali collocazioni si ridefiniscono continuamente e vanno valutate come sintomi di processi in corso, del tutto esterni rispetto a qualsiasi criterio di oggettività. È evidente, quindi, il vantaggio del Pd che, restando sul piano assiale, può competere con un forza che si colloca inevitabilmente «più a sinistra». E il «più a sinistra» è il luogo di tutte le forme di «estremismo», è il luogo del «più uno».
L’espressione «quelli del più uno» veniva usata dal sindacato (Fiom) e dal Pci di Piombino, la città-fabbrica dove è avvenuta la mia prima formazione politica. La città fabbrica dove, per un periodo non breve, la realtà della direzione operaia ha coinciso con le ipotesi formulate negli scritti dei nostri classici. Veniva usata nei confronti dei «gruppuscoli», che dopo ogni lotta e dopo il successivo accordo, e nei primi anni Settanta gli accordi erano sempre favorevoli ai «produttori», ai siderurgici, si presentavano ai cancelli della grande fabbrica insistendo sull’insufficienza di quegli accordi, sulla scarsa radicalità delle lotte. Quelli del «più uno», appunto.
In un asse dove è collocata una forza di establishment che si definisce come «sinistra» e così viene definita dalla stragrande maggioranza dei media, la contemporanea presenza di una forza «più a sinistra», indipendentemente dalle prassi politiche reali, finisce inevitabilmente per ripresentare quella stessa dinamica.
Certamente è la parola «sinistra» ad avere assunto, ed ormai da lungo tempo, una tale indeterminatezza semantica da permettere qualsivoglia scorreria propagandistica. Un breve intervento non è la sede per discutere della continuità o meno del suo uso nel processo in corso. D’altra parte quello che appare logicamente giusto assai spesso non lo è nei processi di realtà. Ciò che, però, dobbiamo del tutto evitare è qualsiasi riferimento ad un posizionamento «più a sinistra» del Pd.
Karl Polany ha affermato: «Il socialismo è essenzialmente la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica» (“La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca”, 1944). Se questa conclusione della lunga analisi di Polany, diventa il minimo comun denominatore di tutte le forze impegnate nella costruzione della «casa comune», ecco che la collocazione assiale cessa di avere senso. Non si tratta di essere «più a sinistra», bensì di fare un salto qualitativo, di essere «diversi».
In fondo il problema della «diversità» è tutto qui. Il prius della diversità, anche quella di Berlinguer, non stava nell’etica, nell’antropologia, stava in una concezione della politica e degli obbiettivi della politica.
Affermare una teoria e una prassi che tendono a subordinare il «mercato autoregolato» alla società «democratica» è compito che condiziona tutti gli ambiti della politica, tutta la sfera dei diritti ed anche la sfera dei valori. Il riferimento ai «valori», infatti, ha senso solo all’interno di una precisa concretezza analitica. Frutto, cioè, di una considerazione dei «valori» come dimensione non separata dalla concezione del rapporto tra democrazia e forme del capitale indicato da Polany.
Tutto ciò è di sinistra?
postilla
Nomina sunt consequentia rerum. "Sinistra" è parola che esprime contenuti otto-novecenteschi. Forse varrebbe la pena di iniziare la riflessione su quale fosse la realtà (sociale, economica, ideologica) che in quei secoli (in quelle fasi del capitalismo) allora la parola "sinistra" esprimeva, e quale quella che vogliamo che sia espressa oggi da un nuovo soggetto politico che rappresenti oggi la "diversità".
...(continua a leggere)
Del fitto decalogo che Norma Rangeri ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la sinistra aspira da tempo.
E tuttavia partendo da una considerazione generale.Non pochi si stupiscono, che proprio in Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple: SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.
Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile. La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.
Ora sono almeno due i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo, debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare, ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti. C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero, gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi, decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori , farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una prospettiva politica?
Questo bagno sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li fa somigliare a tutti gli altri.
L'altro grande problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità, di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza. Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista – con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di massa.
Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici, puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza, regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di sinistra.
Costruire un’alternativa e renderla credibile e concreta si può, ma è necessario sapersi confrontare, discutere e alla fine convergere. Per questo è importante evitare la tentazione di piantare ciascuno la propria bandierina come è fondamentale rinunciare a qualche quarto di identità in favore della posta (alta) in gioco nei prossimi mesi». Il manifesto, 27 luglio 2015
La Repubblica, 27 luglio 2015
Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza.
Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi. Ai tempi della presidenza Reagan ( 1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica, furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris. I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps, intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.
Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore), Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.
Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia. Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky.
La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni. I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com, glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.
Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE.
Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica, civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici, basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento; dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della privatizzazioni?
Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti, funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.
Il manifesto, 11 luglio 2015
La prima questione che la vicenda greca richiama riguarda una domanda che emerge proprio dalla stessa crisi: è possibile, nell’Europa attuale, un governo di sinistra? Quello di Syriza è il primo governo di sinistra nell’Unione Europea. È sicuramente un caso particolare, di uno stato troppo debole e indebitato per esercitare, al momento, un governo compiutamente autonomo. Ma la natura dell’Ue lascia pensare che se anche un governo di sinistra si affermasse in paesi più forti e meno sottoposti al controllo della Troika, le differenze con il caso greco sarebbero di grado, non di sostanza.
Il governo Tsipars è riuscito in poco tempo a costruire una forte egemonia interna, come hanno sancito la vittoria del No e il fatto che le principali opposizioni abbiano dovuto decidere di sostenerlo nelle trattative con l’Europa. Questo è già molto, ed è raro. Solo alcuni governi latino-americani sono riusciti negli ultimi anni a utilizzare il governo per costruire egemonia, sventando grazie a questa egemonia tentativi di golpe, proprio com’è accaduto a Syriza nelle ultime settimane (il referendum ha momentaneamente fermato il tentativo europeo di rovesciare il governo). Mai, invece, questa operazione egemonica è riuscita a un governo europeo di centro-sinistra, che di solito crolla nei consensi nel giro di settimane.
Nello stesso tempo, ciò che Syriza sta riuscendo a ottenere da una posizione di governo – che, nel contesto dato, è il massimo che potesse ottenere – è piuttosto lontano dai suoi obiettivi originari. L’Unione europea rende sostanzialmente impossibile la realizzazione di programmi redistributivi, la ripresa di un significativo intervento pubblico in economia, una politica industriale, e perfino politiche di sostegno alla povertà (che cinicamente la mano dell’Ue cancella con la penna rossa dalle proposte di Atene). Si tratta di realismo, non di ideologia: il programma di Syriza era un programma riformista, ma anche questo sembra irrealizzabile.
Come renderlo realizzabile?
I partiti della sinistra radicale in Europa hanno acquisito un’ottica di governo: vogliono governare, da soli o se necessario in coalizione. Come la situazione greca mette in luce, nell’attuale contesto europeo la realizzazione di un programma di sinistra è quasi impossibile. Si può scommettere sul fatto che la vittoria di Syriza abbia aperto un ciclo politico che porti le sinistre a vincere in Spagna, in Irlanda, in Portogallo e poi magari in Italia, e che in questa situazione i rapporti di forza si modifichino al punto da poter cambiare la costituzione materiale dell’Ue.
Ma ciò può anche non succedere. È impensabile, allora, che una sinistra che aspira al governo si ponga il problema di una «exit strategy»? Se l’Europa rende impossibile qualsiasi politica keynesiana e redistributiva, l’appartenenza all’Eurozona dev’essere confermata a ogni costo? Anche se la risposta è affermativa, la domanda non può essere, realisticamente, elusa. Una forza negoziale si costruisce anche sulla base di alternative percorribili. Che non possono però riguardare un solo paese, ma implicano la costruzione di un vasto sistema di alleanze internazionali alternative, o complementari, a quelle attuali.
In secondo luogo. Non c’è solo l’Unione europea a paralizzare l’azione dei governi. Lo fanno anche il capitale finanziario e quello produttivo. Gli Stati sono totalmente dipendenti dai mercati finanziari. Una politica non gradita a questi ultimi verrebbe colpita da attacchi speculativi e dal mancato finanziamento del debito pubblico. Le imprese, nazionali o straniere, hanno poi il potere di reagire a politiche redistributive o favorevoli al lavoro con la minaccia dello spostamento della produzione, come hanno fatto da ultimo gli armatori greci.
Come si può realisticamente affrontare questa doppia minaccia?
La «sinistra di governo» deve costruire un’alternativa agli attuali strumenti di finanziamento del debito, e deve pensare a come costruire una nuova economia pubblica, una nuova capacità di intervento diretto dello Stato nell’economia produttiva, che contempli anche la proprietà diretta delle imprese (in forme sicuramente innovative). È l’unico modo per dotarsi di una capacità di reazione alla minaccia di «esodo» del settore privato. Storicamente si è assistito a ciclici conflitti tra Stato e capitale. Bisogna immaginare le forme contemporanee di tale conflitto.
Infine, è possibile che della crisi economica in corso abbiamo visto solo la prima parte. Lo spostamento a Est del centro dell’economia mondiale rende stabile la crisi di crescita delle economie occidentali. Vista l’attuale redistribuzione della produzione e dei servizi a livello internazionale, bisogna prendere atto del fatto che le società occidentali stanno sperimentando una «decrescita» forzata della produzione e dei livelli di vita.
Analisi rigorose sulla disoccupazione tecnologica evidenziano poi come l’automazione e la robotizzazione stiano fortemente riducendo, dopo l’occupazione manuale, quella intellettuale. È possibile che nei prossimi due decenni tassi di disoccupazione del 30% (secondo studiosi seri come Randall Collins, anche del 40 o 50%) diventino normali, perché l’innovazione tecnologica non si ferma. Come affrontare questi problemi? È possibile progettare sistemi sociali ad alto sviluppo tecnologico in cui il lavoro sia ampiamente redistribuito e sia comunque garantito a tutti il reddito necessario per una vita dignitosa? Come farlo? La riduzione dell’orario di lavoro e il reddito di cittadinanza potrebbero richiedere applicazioni molto più estese e radicali di quelle a cui si pensa attualmente.
Questi due aspetti – crisi di crescita e aumento della disoccupazione tecnologica – fanno anche dire a un altro importante scienziato sociale, Immanuel Wallerstein, che il capitalismo andrà incontro a una crisi sistemica nell’arco di 30 anni, anche per il fatto che nessuno Stato, dopo gli Usa, avrà la forza sufficiente per costruire uno stabile ordine mondiale. Abbiamo di fronte, potenzialmente, scenari di questa portata.
Fino a 30 anni fa, la sinistra era anticipazione, la destra conservazione e difesa. Da trent’anni la sinistra si difende. Riusciamo a costruire conflitti importanti solo per difendere diritti consolidati. Di solito li perdiamo. La sinistra di governo deve ricominciare ad anticipare i cambiamenti, prima che si manifestino come emergenza. Bisogna approfondire nel dettaglio tutte le variabili in gioco e dotarsi di programmi di governo realistici. Realistico significa adeguato alla radicalità dei mutamenti in corso.
La società è sottoposta a un movimento fortissimo, probabilmente destinato a crescere. Tutto è in gioco: gli assetti economici e sociali, le forme della politica, le strutture istituzionali, i rapporti tra le culture. Per poter essere parte di questo movimento e candidarsi addirittura a guidarlo, la sinistra deve tornare a incarnare un intero modello di società.
Non si è trattato di una sfida tra democrazia e tecnocrazia, bensì tra due concezioni di democrazia, tra due visioni politiche. Non è vero infatti che sia stata la troika a imporre l’austerità, sono stati i governi degli Stati — legittimamente eletti — a delegare alle istituzioni finanziarie il compito di attuare le misure economiche di stampo neoliberista volontariamente decise dagli Stati stessi in sede europea.
Visioni inconciliabili
I Trattati e i reiterati accordi tra i paesi membri dell’Unione europea (dal Six-Pack al Fiscal compact al Two-Pack) sono le fonti normative che hanno generato le misure di rigore europee. Il governo greco — anch’esso legittimamente eletto — chiede ora di cambiare, denuncia l’insuccesso delle misure di austerità sin qui seguite che hanno portato molti paesi ad un passo dal tracollo, hanno impedito la ripresa, non sono riuscite ad affrontare le questioni che strutturalmente caratterizzano la debolezza economica dei singoli paesi. In questo quadro c’è poi la questione specifica della Grecia, il cui debito è un ostacolo per ogni possibile ripresa del paese.
Ciò che ha impedito l’accordo tra i diciotto Stati dell’eurozona non è stato il debito, bensì le inconciliabili visioni di politica economica. È questa la vera questione che il governo greco e ora anche il suo popolo ci pongono.
Incamminarsi verso l’ignoto
Il No greco al memorandum dei creditori e all’ideologia da questo espresso rappresenta il rifiuto di un modello di sviluppo. Ci carica di responsabilità interrogandoci sulla nostra concezione di democrazia, sul rapporto tra diritti e mercato, sull’idea di società. Ci invita ad abbandonare il noto (le politiche sin qui seguite) per incamminarci verso l’ignoto (almeno in Europa: negli Stati uniti la ripresa c’è stata proprio grazie all’abbandono delle politiche recessive).
Una sfida straordinaria. Sapremo in grado di raccoglierla?
Quel che può dirsi e che non basteranno le astuzie o i tentativi di addolcire le politiche sin qui seguite. La Grecia ci ha mostrato che non si può puntare su un’«austerità espansiva», ma è necessario puntare ad una rottura di continuità.
Ciò vuol dire cambiare i Trattati e gli accordi che definiscono le politiche economiche e sociali tra Stati. Vuol dire riscoprire un’Europa politica e sociale, prendere sul serio quel che è pur scritto nel preambolo della Carte dei diritti dell’Unione europea («L’Unione pone la persona al centro della sua azione»), ma che è stato travolto dal dominio arrogante e disumano delle politiche di mercato.
È evidente che un’impresa così grande non è nella disponibilità di un solo paese o di un piccolo popolo, per quanto orgoglioso e consapevole possa essere. Ed è anche per questo che il referendum greco ci interroga direttamente e assegna ai popoli e a tutti gli Stati europei una responsabilità immensa.
Niente egoismi nazionali
L’obiettivo di cambiare i Trattati e far adottare politiche sociali alle istituzioni europee (comprese quelle finanziarie e bancarie) potrà essere raggiunto solo a seguito di una difficile e responsabile lotta politica da svolgere in Europa. Non si potrà concedere nulla al populismo, neppure a quello radicale che tanto alletta parte della sinistra. Non ci si potranno formare alleanze spurie con gli antieuropeisti, nazionalisti, gli egoismi nazionali di varia natura.
Non si potrà fare affidamento neppure sulle grandi socialdemocrazie, che potranno pur cambiare e alla fine dare una mano, ma solo se costrette. I paesi del sud d’Europa dovrebbero essere le più interessate a cambiare: oltre la Grecia, la Spagna. La vittoria di Podemos può essere un tassello decisivo in questa strategia. Poi il Portogallo, chissà che ne sarà dell’ondivaga Francia. E l’Italia?
La delegazione più folta
Se si guarda al nostro paese oggi non c’è da essere ottimisti. Non c’è nessuno che sia in grado di rappresentare con adeguata forza le istanze del cambiamento reale. Saremo anche pieni di buone intenzioni e, a volte, persino generosi. Ma c’è egualmente da disperare: la delegazione più folta che ha festeggiato la vittoria del referendum ad Atene era quella italiana. Per forza, ciascuno rappresentava se stesso! Per la Germania c’era la Linke, per la Spagna Podemos, per l’Irlanda Sinn Fein, e così via. Per l’Italia un esercito diviso di personalità disorganizzate e indistinte.
Ora veramente non c’è più tempo. Se noi italiani non sapremo rispondere alla sfida che è stata lanciata dalla Grecia rischiamo di compromettere una strategia di riscatto dei popoli europei. Un debito che poi non potremmo mai più restituire e il nostro default politico sarebbe totale.Un No che ci carica di responsabilità
Dopo il referendum. Il rifiuto greco del memorandum interroga gli altri paesi del sud dell'Europa. Se la sinistra italiana non saprà rispondere alla sfida lanciata da Atene il nostro default politico sarebbe totale
Postilla
Il manifesto, 7 luglio 2015
Le due ali politiche istituzionali fanno a gara per imporre i memorandum della Bce e del Fmi all’Europa. E chiudono gli occhi di fronte all’esercizio della democrazia che viene dalla Grecia
Il volto grigio e tirato di Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento, costretto a balbettare il suo commento «istituzionale» al risultato del referendum greco è forse l’immagine più vivida dello stato in cui versa quella che fu la socialdemocrazia europea. Solo poche ore prima, a urne ancora aperte, era intervenuto, con un gesto inammissibile per il ruolo che ricopre, a sostegno dello schieramento del sì. Per poi, una volta sconfitta la sua «parte», offrire, indecentemente, un sostegno «umanitario» alla Grecia.
Herr Schulz, le cui dimissioni dovrebbero essere cosa scontata, rispecchia tuttavia pienamente l’idea di democrazia prevalente nelle segreterie delle formazioni socialdemocratiche europee. Il suo partito, la Spd, si è speso tanto accanitamente in favore del rigore e delle politiche di austerità da ostacolare perfino quel tanto di aperture che la cancelliera Angela Merkel avrebbe potuto azzardare in alcune fasi del negoziato con Atene.
Neanche per un istante la dirigenza socialdemocratica, in buona compagnia di italiani e francesi, si è discostata, sia pur di poco, da quello schema che pone al centro della costruzione europea il rapporto tra debitori e creditori e il risparmio a discapito dei redditi e dei diritti. Cosicché oggi la socialdemocrazia tedesca è tagliata fuori, per eccesso di zelo, (e per fortuna) da qualunque possibile ruolo nella ripresa di un negoziato con Atene. Come una cantilena, ormai stantia, si limita a ripetere che il referendum greco ha reso la ricerca di una soluzione ancora più difficile, per non dire impossibile. Ma si guarda bene dall’aggiungere che questa «difficoltà» altro non è che il rifiuto di Syriza di governare secondo regole ostili o indifferenti alla volontà dei governati, come sarebbe auspicabile secondo la governance europea.
L’Europa sarebbe insomma minacciata da una overdose di democrazia che rischia di legare le mani dei governi. E non è un caso che nell’Italia delle «riforme» si lavori a rendere sempre più difficoltoso il ricorso allo strumento referendario, suscettibile di scompaginare i giochi dell’esecutivo. Oltre che sociale, la socialdemocrazia ha dunque cessato anche di essere democratica.
Resta così, nel ruolo sempre più patetico e improbabile di «pontiere», la figura più pallida e impopolare che i partiti socialisti d’Europa abbiano mai espresso: François Hollande. Mezzo mediterraneo e mezzo governante sempre più in bilico di una grande nazione decisiva per l’Unione europea, ma del tutto subalterno a quella visione tedesca del Vecchio continente, che un tempo preoccupava non poco i governi di Parigi. La Francia, da tempo, più che una soluzione è diventata una parte rilevante del problema.
È il paese che ha votato no alla Costituzione politica europea, affossandone definitivamente perfino l’idea, ma che in nessun modo si è poi spesa nel correggerne la costituzione materiale, ossia i rapporti di forze economici e gli assetti gerarchici che ne configurano l’equilibrio: «No alla Costituzione, si ai Memorandum», questa la lieta novella che proviene da Parigi. Nel repubblicanesimo francese si annidano molti più sentimenti antieuropei di quanti se ne possano incontrare dalle parti di Atene. E non è sorprendente che nel suo seno prosperi e si sviluppi una forza come il Front National di Marine le Pen. Né che la socialdemocrazia francese si riveli del tutto incapace di farvi in alcun modo fronte.
Sotto un velo retorico sempre più sottile e trasparente l’Unione va trasformandosi in un tavolo negoziale tra criptosciovinismi di potenza diseguale, con l’entusiastica adesione delle socialdemocrazie in costante declino di credito elettorale. Affannato e petulante, truccando spudoratamente i numeri del «successo», il nostro Pd partecipa alla gara nelle seconde file. La «priorità dell’interesse nazionale» non è più l’evocazione impronunciabile di una storia obbrobriosa, ma un buon argomento da campagna elettorale. In un siffatto contesto in cui l’ipocrisia si fa necessità storica, diventa essenziale sostenere che il «no» uscito trionfante dal referendum greco è un no all’Europa e una delle molte insorgenze «populiste» o «rossobrune» che minano la costruzione europea e aprono sull’ignoto.
Sembrerebbe esservi una singolare teoria che circola da qualche tempo nei principali media europei e nel dibattito pubblico. Se una volta andavano in gran voga gli «opposti estremismi» ora sembra venuto il tempo dei «convergenti estremismi» che, da destra e da sinistra, alleandosi fra loro, puntano a demolire la stabilità del Vecchio continente e a indebolirne le auree regole. Ogni voce critica viene automaticamente attribuita a questo inquietante scenario. Non manca nemmeno chi annovera Alba dorata tra i sostenitori di Tsipras, comunque ricorrentemente assimilato al Front national, al Movimento5 stelle o ai nazionalisti polacchi. Naturalmente in compagnia del temutissimo Podemos.
Questa opera di disinformazione ha raggiunto il parossismo alla vigilia del referendum in Grecia. Il quale esprimeva invece un punto irrinunciabile, ribadito con grandissima insistenza: la permanenza nell’Unione europea e la creazione di condizioni tali da non far dipendere questa appartenenza da un rapporto tra creditori e debitori universalmente riconosciuto come insostenibile. Ciò che risulta veramente indigeribile dell’esperienza greca è appunto il suo convinto europeismo. Il quale minaccerebbe non tanto i trattati europei quanto gli interessi nazionali (sovente più ideologici che contabili) degli stati che governano di fatto l’Unione.
Se di «salto nel buio» si deve parlare non è certo riferendosi alla mossa referendaria di Tsipras, quanto alla caparbia difesa di uno squilibrio che sta spianando la strada alle peggiori forme di nazionalismo, alle quali la socialdemocrazia europea risponde facendosi a sua volta portavoce «ragionevole» dell’«interesse nazionale». E’ questa la deriva che sta minacciando l’Europa e che la crisi greca non ha certo prodotto, ma piuttosto chiaramente rivelato.
E’ IL TRACOLLO DEL SOCIALISMO EUROPEO
La valanga di «No» non è solo una vittoria del governo e del popolo greco. E’ una vittoria di tutti gli europei che non hanno voluto smettere di credere nella democrazia.
La paura è stata sconfitta. Clamorosamente. Il tentativo di seminare il terrore nell’elettorato da parte dei principali esponenti delle istituzioni europee, a cominciare dal governatore della Bce Mario Draghi (che togliendo l’ossigeno finanziario alle banche e al popolo greco si è assunto una responsabilità personale gravissima), è fallito. Occorrevano davvero degli «eroi omerici» per resistere a quel ricatto, e sono stati all’altezza della loro storia migliore. Hanno dimostrato che anche in tempi di crisi della politica, la «grande politica» è possibile. Perché è «grande politica» mostrare che la pratica della democrazia è possibile, in un contesto europeo che sembra aver dimenticato questo valore, e di fronte a oligarchie che non la tollerano e non perdono occasione per dimostrarlo. Ed è «grande politica» aver mostrato - da quella che potrebbe apparire un’estrema periferia del continente e che invece se ne rivela il vero centro - che l’architettura su cui si basa l’Unione europea non regge. Che va cambiata dalla radice. Pena la fine dell’Europa.
Dopo questo voto Alexis Tsipras assume statura e ruolo di leader europeo. Quel «ragazzo», come lo chiamano affettuosamente in patria, rappresenta tutti gli europei - e sono davvero tanti - che non si riconoscono in questa gestione inumana, arrogante, egoistica e irresponsabile da parte di coloro che - in nome di un dogma fallimentare - hanno portato l’Europa sull’orlo del disastro, tradendone gli ideali fondativi, rendendola odiosa agli occhi del suo stesso popolo. Dovremo d’ora in poi gridarlo forte, tutti insieme, con un coro transnazionale, che l’Europa è troppo importante per lasciarla nelle mani di oligarchi di tal fatta. Di figure dal profilo tremendamente basso, incapaci di visione, di sguardo, chiuse nella piccineria di un’esistente insostenibile nel futuro, anche nel più vicino, di fronte alle quali spicca, per differenza, la grandezza del gesto di Yanis Varoufakis - l’eroe di piazza Syntagma, l’uomo acclamato dal popolo del «No», un vincitore indiscusso - che si dimette per favorire un accordo che va nell’interesse del proprio popolo. Per togliere anche un briciolo di alibi ad avversari rancorosi e nella sostanza meschini, in una situazione che è, con tutta evidenza, durissima.
Il voto greco rivela anche il catastrofico collasso del socialismo europeo. La presa di posizione del vice-cancelliere tedesco Garbriel, schierato addirittura alla destra della Merkel a fare il lavoro sporco per lei – a ribadirne la «pedagogia imperialista» di cui nel suo stesso paese è accusata (Der Spiegel) -, è qualcosa di ancor più tragico del celebre voto dei crediti di guerra nel 1914, perché segna una assimilazione ormai senza più residui. La dichiarata fine di un’identità politica. Così come la vergognosa posizione assunta da Martin Schultz, offensiva dello stesso parlamento europeo che dovrebbe rappresentare, esempio dell’abisso in cui è caduta la socialdemocrazia tedesca ma anche dell’incapacità di ricoprire con dignità un ruolo istituzionale che dovrebbe essere rappresentativo di tutti. Un parlamento degno di questo nome non dovrebbe esitare nemmeno un giorno a chiederne le dimissioni. Per non parlare delle posizioni assunte dal presidente del consiglio italiano Matteo Renzi: la sua imbarazzante performance di fronte alla cancelliera Merkel, gratuita forma di servilismo a danno degli stessi interessi italiani, è il simbolo di un definitivo degrado politico, culturale e morale. Che ne vanifica ogni possibile aspirazione da «mediatore» di alcunché.
Da oggi incomincia una nuova storia per tutte le sinistre europee, a cominciare dalla nostra. I greci hanno aperto una breccia. Contro di loro si scaricherà la voglia di vendetta degli sconfitti, ancora increduli della propria sconfitta perché fiduciosi nell’onnipotenza dei propri mezzi. Tenteranno di continuare a usarli quei mezzi di dissuasione di massa. Tenteranno di prolungare il vero e proprio assedio di tipo medievale che hanno praticato nell’ultima settimana. Stringeranno ancora la garrota al collo dei greci per tentare di piegarne i negoziatori. Sta a tutti noi essere all’altezza del compito. Perché adesso tocca a noi fare la nostra parte, rompendo quell’assedio.
Facendo sentire forte la voce della vera Europa. Mobilitandoci perché è della nostra stessa pelle che si tratta.
Mambiailmondo, 6 luglio 2015
Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum, sono stato messo al corrente di una certa preferenza da parte di alcuni partecipanti all’Eurogruppo, e ‘partner’, per la mia … ‘assenza’ da queste riunioni; un’idea che il Primo Ministro ha giudicato potenzialmente utile per trovare un accordo. Per questo lascio il Ministero delle Finanze oggi.
Considero un mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare, come gli sembra opportuno, il capitale che il popolo greco ci ha accordato attraverso il referendum di ieri. E io porterò con orgoglio il disprezzo dei creditori.
Noi della sinistra sappiamo come agire collettivamente, iincuranti per i privilegi che derivano delle cariche. Sosterrò pienamente il Primo Ministro Tsipras, il nuovo ministro delle Finanze e il nostro governo. Lo sforzo sovrumano per rendere onore al coraggioso popolo greco, e al formidabile OXI (NO) che hanno affidato ai democratici di tutto il mondo, è appena cominciato, "
Like all struggles for democratic rights, so too this historic rejection of the Eurogroup’s 25th June ultimatum comes with a large price tag attached. It is, therefore, essential that the great capital bestowed upon our government by the splendid NO vote be invested immediately into a YES to a proper resolution – to an agreement that involves debt restructuring, less austerity, redistribution in favour of the needy, and real reforms.
Il manifesto, 11 giugno 2015
Diciamo pure che era cominciata un po’ in sordina. Il documento preparatorio non era di quelli che hanno la forza di farti sobbalzare sulla sedia. Forse era un tattica di voluta prudenza. Poi, soprattutto nel passaggio tra la prima e la seconda giornata, l’ Assemblea ha preso quota e acquistato senso. Certamente ha influito la ricca discussione che si è tenuta nei vari gruppi tematici nel pomeriggio di sabato, ben sintetizzati dai report della mattina seguente. Alcuni dei quali possono essere considerati come un approfondimento specifico di una proposta di alternativa le cui fila si vanno tessendo in varie sedi e modalità.
Avendo partecipato come osservatore a uno di questi gruppi e sulla base dei report, balza agli occhi che le tematiche sono le stesse che vengono affrontate in altri incontri che si definiscono o vengono considerati direttamente politici. In altre parole quella distinzione fra il politico e il sociale, un po’ ingessata nelle prolusioni iniziali, si è molto assottigliata nel proseguo della discussione, mano a mano che si entrava nel merito di analisi e di proposte.
Non c’è da stupirsi. I temi per la costruzione di una opposizione e di una alternativa politica e sociale non possono in realtà che essere gli stessi, derivando entrambi dalle palesi contraddizioni del mondo contemporaneo. La distinzione – che non va risolta nell’autonomia del politico o per converso nell’assolutizzazione del primato del sociale – sta nella diversità dei piani con cui gli stessi temi e obiettivi vengono affrontati e portati avanti. La lotta al job act - per fare solo un esempio - va fatta, per essere efficace, sul terreno culturale, quanto su quello sociale; a partire dai luoghi di lavoro e dai territori; deve coinvolgere la dimensione sindacale e quella giudiziale; avrebbe dovuto – e qui il punto dolente - trovare più energica ed efficace opposizione a livello parlamentare; potrà raggiungere una piena dimensione di massa se si giungerà – come da più parti si sta riflettendo – ad un referendum abrogativo.
Non c’è solo bisogno di una ovvia moltiplicazione delle forze e dei punti di attacco utili per ottenere un risultato, ma soprattutto è in atto una ridefinizione del sistema di potere capitalistico nelle società mature che si è definitivamente separato dalla democrazia - pur nei limiti con cui l’abbiamo conosciuta e praticata -; che nega alla radice la dualità fra capitale e lavoro, quindi il conflitto; che vuole costruire un suo spazio , a-democratico ed extragiudiziale, oltre che no unions, per regolare, se possibile individualmente, il rapporto con il lavoratore. Il quale non è solo colui che lo è effettivamente, ma chi aspira ad esserlo, o lo è in modo intermittente o chi sta per perdere quella condizione.
In altre parole la politicizzazione del sociale è un processo necessario e inevitabile se si vuole contrapporre un nuovo potere costituente ad un potere costituito nelle attuali condizioni di degenerazione delle istituzioni e delle forme del potere politico, di cui ha anche parlato Stefano Rodotà nel suo intervento all’Assemblea andando ben al di là della tradizionale denuncia della corruzione e dell’italico stato duale.
Anche cambiando l’oggetto dell’intervento, che so io la “buona scuola”, l’Italicum oppure la privatizzazione dei beni comuni, il ragionamento di fondo non cambia, tanto per i soggetti sociali che per quelli politici.
Solo che se i primi non stanno benissimo – altrimenti non si parlerebbe di nuova coalizione sociale e perfino di rifondazione del sindacato – i secondi mancano del tutto. Per questo Renzi - pur avendo perso milioni di voti tra un’elezione e l’altra; pur affidandosi ad una maggioranza che si è fatta ancora più esile al Senato; pur apparendo meno “pigliatutto” (definizione che preferisco a quella di partito della nazione, visto che qui siamo di fronte ad una articolazione delle elites europee) di quanto lo era poche settimane fa - non ha per ora moltissimo da temere. Se non della propria arroganza.
Nei prossimi mesi può aprirsi una interessante e strategica campagna referendaria, dalla legge elettorale alle contro-riforme della Costituzione; dai decreti attuativi del job act allo scempio della legge sulla scuola. Dipenderà in primo luogo dai soggetti sociali promuovere concretamente questo percorso. Ma cosa succederà se non ci sarà in campo - quindi ben prima della tornata elettorale politica, al netto di elezioni anticipate - una forza politica dotata di credibilità e di una qualche consistenza che sappia a sinistra essere protagonista di queste battaglie? A parte il fatto che la legge elettorale chiama direttamente in causa la rappresentanza politica, anche nell’ipotesi di una vittoria ci potremmo trovare nella situazione nella quale già siamo, dove avendo pur vinto il referendum sull’acqua, non si riesce ad applicarne tutte le necessarie conseguenze sul piano operativo.
So bene che c’è bisogno di nuovi protagonisti e che dunque quelli che con luci e soprattutto ombre hanno popolato fin qui lo spazio enorme che si è aperto alla sinistra del Pd farebbero bene a scegliere per sé compiti da seconda e terza fila, peraltro non meno entusiasmanti. Ma potrebbero dare il là - e sarebbe un bel passaggio di testimone - all’avvio concreto di un processo di riunificazione delle disperse membra della sinistra d’alternativa, quale parte iniziale di un progetto ben più ambizioso di ricostruzione della sinistra in Italia. Farlo con una dichiarazione congiunta che contemporaneamente proponga una grande assemblea di tutte e di tutti entro l’estate, sarebbe la migliore risposta positiva, da parte di chi opera prevalentemente nel desertificato terreno politico, all’Assemblea della coalizione sociale.
Da anni ormai conviviamo con una crisi difficile da afferrare, che nel suo svolgimento ha assunto in continuazione forme nuove. Emersa negli Usa sul finire del 2007 con i mutuisubprime, esplosa successivamente come crisi bancaria e finanziaria, è venuto poi il turno degli Stati nazionali e dell’intera Europa. In un contesto dominato dalla recessione e dalla stagnazione, che alimentano disoccupazione, lavori sottopagati e precarietà, e dunque una condizione di malessere umano e di rischio ambientale crescenti.
Nonostante gli sforzi per occultarne e mistificarne la natura più profonda, se andiamo alla sostanza dobbiamo oggettivamente prendere atto che siamo in presenza di una crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, le cui espressioni si manifestano in varia forma. Ormai, sebbene anche le interpretazioni della crisi siano le più diverse, è sempre più difficile negare che viviamo in una società spaccata in due, non solo in Italia e in Europa. Nella quale la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini è costretta a vendere in condizioni di subalternità e di permanente incertezza le proprie abilità fisiche e intellettuali in cambio dei mezzi per vivere a una classe dominante di proprietari universali, peraltro sempre più ristretta e parassitaria, che le usa allo scopo di ricavarne il massimo profitto.
Se non si prende atto di questo elementare dato di realtà, non per caso ideologicamente mascherato con destrezza, è difficile compiere qualche significativo passo avanti sul terreno politico. Come insegnava quel tale di Treviri, la lotta di classe è sempre lotta politica. Soprattutto in questa fase storica, giacché il capitale, prima ancora di una cosa o di un semplice algoritmo, di un accumulo di merci e di mezzi finanziari, è una relazione tra esseri umani, un rapporto sociale storicamente determinato. Non statico e sempre uguale a se stesso, bensì in incessante movimento per effetto del rivoluzionamento continuo degli strumenti della produzione e delle conquiste delle scienza e della tecnica, ma segnato da una contraddizione insuperabile, oggi diventata dirompente.
Aldo Tortorella direbbe che il capitale è vittima delle sue stesse macchinazioni. Per accrescere i profitti deve contenere i salari. Ma i bassi salari comprimono il potere d’acquisto impedendo la realizzazione dei profitti. E poiché la capacità di consumo dei produttori diretti è strutturalmente legata alla capacità di generare un plusvalore che è alla base del profitto, se questo plusvalore non viene generato, o non si realizza perché le merci restano invendute, la produzione si ferma e il lavoratore viene licenziato. Cioè, cancellato come produttore e come consumatore. Il suo destino è quello di andare ad accrescere l’esercito dei disoccupati e degli esclusi, con la conseguenza di rendere ancora più acuta la contraddizione tra capitale e lavoro.
Le crisi ricorrenti, come ben sappiamo, sono state finora il mezzo che ha consentito di riportare in temporaneo equilibrio il sistema attraverso la massiccia distruzione di capitali e di forze produttive umane e naturali, fino all’esplosione di guerre catastrofiche per l’accaparramento delle risorse del pianeta. In teoria, dalla crisi di un sistema il cui fine è l’estrazione del massimo profitto privato dagli esseri umani e dalla natura, su cui si conforma l’intero assetto della società e delle istituzioni, e quindi della politica, si esce in due modi. O attraverso un’ulteriore stretta del dominio del capitale sul lavoro e sull’intera comunità, con la conseguenza di acutizzare tutte le contraddizioni e con esiti imprevedibili. O attraverso l’avvio di un processo di superamento del sistema diventato insostenibile, ponendo dei limiti al dominio del capitale e aprendo la strada a una gestione comunitaria della produzione di ricchezza.
Un’altra soluzione non è data. Non dimentichiamo che dalla Grande Depressione del 1929-33, si è usciti temporaneamente in Europa con il nazismo e la seconda guerra mondiale. Oggi, mentre alle porte dell’Europa premono masse di diseredati e si moltiplicano le guerre guerreggiate, il ricatto cui viene sottoposta la Grecia è il paradigma di una regressione senza precedenti imposta dai poteri capitalistici dominanti: prima la remunerazione del capitale finanziario, poi la vita delle persone. La finanziarizzazione universale, tipica di questa fase di globalizzazione, non ha attenuato il processo di subordinazione del lavoro. Al contrario, lo ha generalizzato e modernizzato nelle modalità di sfruttamento, con l’intento di contrastare la tendenza alla caduta del saggio di profitto e alla perdita di efficienza del sistema.
La spinta a fare denaro con il denaro bypassando la produzione ha generato, come osservava Hilferding, uno «schema mistico» del capitale, rivestendolo di sacralità e impenetrabilità. Nei fatti, garantendo alti rendimenti, ha moltiplicato i valori finanziari rispetto all’economia reale, diffuso la speculazione e la corruzione, accresciuto a dismisura le disuguaglianze. Grazie all’indebitamento di massa inventato dalle economie anglosassoni, si è ottenuto per un certo tempo il miracolo di tenere alti i consumi in regime di bassi salari. Ma il debito come fattore propulsivo dell’economia, in sostituzione della valorizzazione del lavoro, è il segnale vistoso del decadimento di un sistema.
D’altra parte, la rivoluzione scientifica e tecnologica, con l’uso dell’informatica e della microelettronica, non ha posto fine al lavoro, ma rivoluzionando il modo di lavorare e di vivere richiederebbe la formazione di una classe lavoratrice di livello superiore per cultura generale e conoscenze specifiche, e quindi un’attenzione particolare all’istruzione e alla ricerca. Mentre il superamento della tradizionale nozione del tempo e dello spazio consentirebbe di accorciare globalmente i tempi di lavoro allungando i tempi di vita, e di pianificare un’occupazione dignitosa per tutte e per tutti.
Ma alla socializzazione crescente dei processi produttivi, di comunicazione e di ricerca, cui concorre una molteplicità di soggetti diversi, non corrisponde la socializzazione della proprietà e la comune gestione degli strumenti indispensabili per il governo di tali processi. Il risultato è la formazione di un enorme esercito di manodopera di riserva nel mondo, disponibile per qualsiasi tipo di lavoro precario. Di qui la concorrenza e la guerra tra poveri. Il rapporto di proprietà capitalistico è diventato una gabbia che imprigiona il libero sviluppo di tutti e di ciascuno. La contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di proprietà, tra il lavoro e il capitale, è arrivata a un punto limite che è necessario riconoscere e mettere a nudo. Se non si vuole che al conflitto di classe si sostituisca una guerriglia permanente e senza sbocchi tra i subalterni.
Nella controrivoluzione liberista di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher si si è incarnato al massimo livello il dominio totalitario del capitale sul lavoro. Una vera e propria dittatura, non solo in ambito economico-sociale, ma anche nel linguaggio e nella comunicazione, fino al formarsi di un diffuso senso comune. In una fase di massima espansione della lotta di classe del capitale contro il lavoro è stata teorizzata la fine della lotta di classe, addirittura la fine delle classi. Lo slogan di lady Thatcher detta TINA (There Is No Alternative), secondo cui la società non esiste, esistono solo individui, ha fatto molta strada ed è assurto al rango di principio universalmente riconosciuto anche a sinistra con conseguenze politiche devastanti.
E’ evidente infatti che se si sostiene, come sostenne a suo tempo Giorgio Ruffolo scambiando lucciole per lanterne, che ormai «abbiamo una società di individui» e con ciò la sinistra ha raggiunto il suo scopo, vale a dire «la società senza classi», non ha alcun senso la presenza di una forza politica delle classi subalterne, essendo state le classi sociali cancellate. Peraltro, non da una rivoluzione socialista ma dalla forza egemonica del pensiero unico liberista. Nel deserto popolato da individui egoisti privi di legami sociali anche la visione del capitale come rapporto sociale viene azzerata, e si erge dominante l’homo oeconomicus, l’individuo che dispone dei mezzi necessari per mettere al lavoro a suo piacimento altri individui, ridotti al rango di capitale umano, spossessati anche della loro storia, oltre che della loro comunità sindacale e politica.
L’impianto egemonico neoliberista, nella sostanza acquisito e perfezionato dalla socialdemocrazia di Blair e di Schröder, ha espulso dall’agenda e dalla pratica politica europea e italiana un clamoroso dato di realtà: il conflitto capitale-lavoro, che pure segna il destino di milioni di donne e di uomini. Da una parte, i sindacati sono additati come un ostacolo da abbattere sulla via della piena libertà del capitale. Dall’altra, è stata semplicemente cancellata l’autonoma e libera presenza politica delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo. La politica come protesi dell’economia, cioè del capitale, è stato il punto di approdo. E con ciò è stato definitivamente archiviato il vecchio compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro. In un sistema politico-rappresentativo monoclasse, in cui i diritti diventano una variabile dipendente dal rendimento dei capitali, la democrazia traligna inevitabilmente in autoritarismo e oligarchia.
Su questa linea, corresponsabile dell’innesco e del dilagare della crisi ma presentata come una novità strabiliante, si è attestato Matteo Renzi. Ormai, dopo le più recenti vicende, il suo obiettivo dovrebbe risultare chiaro anche ai ciechi. Né più né meno, è la definitiva soppressione del fondamento politico della Repubblica democratica. Ma il corrispettivo potenziamento del capitalismo italiano cui mira Renzi attraverso radicali misure di internazionalizzazione e di privatizzazione che lo liberino da storiche inefficienze e incrostazioni, e insieme da ogni residua responsabilità sociale secondo il modello anglosassone, non ci farà uscire stabilmente dalla crisi perché non ne mette in discussione i fattori strutturali.
Un conto è il miglioramento dei parametri europei, definiti stupidi da Romano Prodi, o di quelli imposti dai colossi multinazionali del rating, che li fissano per assicurarsi laute rendite di posizione. Altro conto è affrontare i nodi della piena occupazione; di una remunerazione del lavoro che garantisca a tutte e tutti una vita dignitosa e degna di essere vissuta; di un nuovo welfare universale; della salvaguardia dell’ambiente e della pace; del trasferimento all’intera comunità dei benefici che la rivoluzione scientifica e tecnologica mette a disposizione. Di che parliamo, se non di un altro modello di società? Di un avanzamento di civiltà oltre i limiti imposti dal dominio del capitale? Un nuovo socialismo? Sì, se la parola non fosse stata deturpata e stravolta dai molti che se ne sono abusivamente appropriati.
Muovere nella direzione opposta a quella indicata da Renzi e dai governanti europei vuol dire costruire un’alternativa politica al dominio del capitale. È questa la questione di fondo che non si può eludere. E che innanzitutto richiede, per essere affrontata con qualche probabilità di successo, una visione del lavoro che abbandoni senza rimpianti lo schema novecentesco. In altre parole, c’è bisogno di una visione non limitata alla classe operaia tradizionalmente intesa come unico soggetto trainante dell’antagonismo al capitale, bensì allargata ai nuovi soggetti indotti dalla rivoluzione elettronica e digitale in tutti i campi delle attività lavorative. Perciò aperta al lavoro cognitivo e creativo, seppure erogato in forma individuale e a distanza. E nel contempo in grado di coinvolgere tutti coloro, giovani e donne innanzitutto, ma anche le teste grigie, che da qualunque forma di lavoro vengono esclusi.
In secondo luogo, occorre prendere atto una volta per sempre che l’esperienza del movimento operaio novecentesco, in tutte le sue forme, è davvero definitivamente conclusa. E non è ripetibile. Sia nella forma del cosiddetto socialismo realizzato nella Russia sovietica, sia nella forma socialdemocratica nell’Occidente europeo, che ha sposato i dogmi della controrivoluzione liberista. Come aveva intuito Enrico Berlinguer, esaurite le due fasi novecentesche del movimento operaio, adesso «si tratta di aprirne un’altra e di aprirla, prima di tutto, nell’Occidente capitalistico», e dunque di «porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo».
Una sinistra nuova ha senso, e avrà un avvenire, se assume questa prospettiva, peraltro delineata con sufficiente chiarezza dalla Costituzione della Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un progetto di portata europea per il quale vale la pena di impegnarsi e di lottare, attraverso l’espansione massima di una democrazia progressiva e partecipata. Uscire da questo capitalismo non è una «bubbola», come pensa Scalfari. E neanche un insostenibile fardello da mettere sulle spalle dei nipoti. È invece un problema drammaticamente aperto, riproposto dagli effetti devastanti della crisi.
bilanciamoci.info, newsletter n. 420, 26 maggio 2015
Le pagine che seguono spiegano, nella prima parte, il Jobs act del governo di Matteo Renzi e nella seconda presentano un’alternativa a esso: non per caso si chiamano “Workers act” perché esprimono il punto di vista dei lavoratori. È necessario spiegarlo perche l’insieme di testi presentato dal governo, non per essere discusso ma affidato con una serie di deleghe all’esecutivo, va chiarito a coloro che vi saranno obbligati senza aver potuto contribuire alla sua elaborazione. Dietro le formule nebulose si rivela, non detta, la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile in entrata e in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione, sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo quel che restava dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, dopo il già grave ridimensionamento operato dalla riforma Fornero del 2012.