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Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto , Venezia, Corte del Fontego Editore, 2010, pagg. XLVII+240



Il ruolo delle città e del territorio nei processi di sviluppo, presente nelle ricerche e negli studi della Svimez sin dall’inizio della propria attività, appare di nuovo all’attenzione delle politiche regionali. Gli orientamenti comunitari, che alla coesione economica e sociale hanno affiancato il termine “territoriale”, prevedono un ruolo specifico delle città, nelle quali gli aspetti positivi della dimensione urbana (imprenditorialità, innovazione, occupazione) convivono con aspetti negativi (sacche di povertà e disoccupazione, congestione del traffico, inquinamento); pertanto, per rafforzare l’attrattività e l’apporto delle città ad una crescita economica sostenibile (accompagnata – cioè – da contestuali misure destinate a ridurre la povertà, l’esclusione sociale e i problemi ambientali), si ritiene che le azioni nelle aree urbane si debbano concentrare su quattro punti fondamentali: i trasporti, l’accessibilità e la mobilità; l’accesso ai servizi ed alle attrezzature; l’ambiente naturale e fisico; il settore culturale. Obiettivi recepiti in Italia dalla politica regionale unitaria, varata con l’adozione del QSN 2007-2013; che - tuttavia - non sembra abbiano suscitato la dovuta attenzione.

Il governo del territorio, nei suoi aspetti sia fisici sia sociali, attraversa un periodo di grave incertezza nei riferimenti culturali e disciplinari, e di grande confusione nelle procedure di gestione; come evidenziato in alcuni recenti interventi su questa Rivista. Per orientarci a comprendere come si sia potuta produrre una tale situazione, può risultare un ausilio determinante la testimonianza di oltre mezzo secolo di storia vissuta, offerta dalle memorie da Edoardo Salzano che – detto senza retorica – sembra aver dedicato la propria vita all’urbanistica, nei diversi ruoli di professionista, politico di opposizione, politico di governo, docente, divulgatore.

Già da studente di ingegneria si trova coinvolto nelle pratiche della ricostruzione del dopoguerra, che evidenziano la necessità di fornire una casa (non solo) ai ceti meno abbienti, adoperandosi contestualmente per la costruzione di una città moderna. Cultura tecnica e impegno sociale accompagnano la sua attività culturale (prevalentemente all’interno dell’Istituto nazionale di urbanistica) e politica (come consigliere comunale di opposizione a Roma e nella direzione nazionale del PCI). Determinante il trasferimento a Venezia nel 1975, dove nel successivo decennio, in qualità di assessore comunale all’urbanistica, ha la responsabilità di proporre uno scenario per il futuro della città lagunare. Dopodiché, manifestatasi la crisi di identificazione sia con l’INU sia con il PCI, dei quali non condivide l’evoluzione delle rispettive scelte, si dedica completamente all’insegnamento ed alla divulgazione, che comunque già lo impegnavano e che da ultimo sono concretizzate nella gestione del sito eddyburg, il cui oggetto principale è la città (nei suoi diversi aspetti funzionali, formali, sociali, politici, ecc.), e nella sua scuola estiva, che ogni anno tratta uno specifico tema di rilievo sull’urbanistica e il governo del territorio.

La complessità dell’esposizione memorialistica non può essere banalizzata da una sintesi. La ricostruzione, la mai attuata riforma della legge urbanistica, la nascita e l’evoluzione delle Regioni a statuto ordinario, gli strumenti di conoscenza del territorio, la tutela dell’ambiente e del paesaggio, sono solo alcuni dei temi incrociati dalla vita vissuta. Le considerazioni espresse vanno assunte quali testimonianze piuttosto che quali tesi. Tuttavia, quello che colpisce nella narrazione è la totale assenza di qualsivoglia espressione autocritica, ammissione di errore, ripensamento; per un periodo che ne ha prodotti in abbondanza nella medesima area culturale (avendo come testimone d’eccezione Pietro Ingrao con il suo Volevo la luna).

Al riguardo mi permetto di fare alcune osservazioni, legate ad un periodo molto indietro nel tempo, nel quale la mia vita si è parzialmente incrociata con quella di Salzano.

Negli anni ’70, quando Salzano era consigliere di opposizione al comune di Roma, come studente di architettura partecipavo alle attività dei Comitati di quartiere e dei Comitati di lotta per la casa, presenti in maniera attiva ancorché conflittuale nelle vicende urbanistiche della Capitale, ma soprattutto espressione di una domanda di sostanziale rinnovamento della politica all’interno delle regole democratiche. Nonostante questa esperienza coinvolgesse un numero assai rilevante di cittadini, l’attenzione dei partiti - in quel periodo e in riferimento al conflitto sociale - era presa pressoché esclusivamente dal fenomeno del terrorismo (che, nonostante la sua drammaticità, coinvolgeva comunque un numero di persone di gran lunga inferiore), i cui rappresentanti nelle istituzioni mantenevano, con riferimento alle istanze sociali (la casa, l’urbanistica, i servizi sociali, ecc.), un prevalente atteggiamento di distacco stile “non disturbare il manovratore”. Fa piacere che, a distanza di tempo, venga rivalutato il ruolo delle reti dei cittadini; ma forse sarebbe stata utile una riflessione sui motivi dell’attuale assenza di sedi della rappresentanza sociale.

Nel biennio 1978-1979 ho lavorato, quale giovane funzionario, presso l’assessorato all’urbanistica del comune di Venezia, diretto dall’assessore Salzano. Esperienza repentinamente conclusa per motivi esclusivamente personali (il livello stipendiale mi impediva di mantenere a Venezia la famiglia appena costituita), la quale tuttavia mi ha consentito di formarmi una prima personale idea sul governo della città ed il ruolo dell’urbanistica. Uno degli incarichi principali assolti è stato quello di redigere e portare all’approvazioni i piani per l’edilizia economica e popolare delle isole minori. In particolare quello per l’isola di Mazzorbo (di fronte a Burano) avrebbe dovuto consentire, con la realizzazione del primo intervento di nuove costruzioni, la demolizione e la sostituzione di case popolari monopiano malsane e non risanabili. Il piano è stato attuato con un nuovo intervento realizzato a seguito di un ottimo progetto di Giancarlo De Carlo; ma le case minime sono ancora al loro posto. La cultura professionale degli architetti e degli ingegneri attribuisce un significato totalizzante al progetto di piano, del quale curare l’ottima redazione ma disinteressandosi del tutto della gestione. Lo stesso piano della città di Venezia, come ci racconta Salzano, redatto nel decennio 1975-1985, producendo ottime innovazioni sugli aspetti disciplinari, è stato approvato nel 1992. Essendo intercorsi 18 anni solo per il progetto, viene da domandarsi come sia stato gestito il governo della città nel medesimo periodo; temporalmente coincidente con l’affermarsi della politica del “decisionismo”, della quale si denunciano le negative conseguenze ma non si riflette sui modi con i quali sarebbe stato possibile evitarne l’affermazione.

La memoria è soprattutto riflessione su una vita vissuta, che, inevitabilmente, ha visto convivere luci ed ombre, ed anche da un sereno riconoscimento di errori e/o ingenuità sarebbe possibile disegnare il futuro.

Nota dell’autore del libro



Innanzitutto una precisazione. Agli eventi degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso ho partecipato più come spettatore e studioso che come attore. Ne ho scritto con una certa ampiezza perché mi proponevo di inquadrare in quegli eventi quelli degli anni cui partecipai pù direttamente.



Gallia pone una domanda, cui devo rispondere, con qualche precisazione e, soprattutto, con riferimento al contesto: se negli anni Ottanta si è posta con tanta enfasi la questione della governabilità e ha trionfato il “decisionismo”, questo non sarà perché i tempi impiegato per decidere erano divenuti intollerabilmente lunghi? E assume come esempio del vizio che ha generato l’errore il lungssimo periodo di gestazione del piano della città storica di Venezia.



In effetti, come scrivo nel libro, il piano fu iniziato all’inizio degli anni Ottanta, e la prima approvazione (l’adozione) intervenne solo nel 1992. Dodici anni sono certamente molti per fare un piano urbanistico. Eravamo perfettamente consapevoli del fatto che la pianificazione non poteva avere tempi così lunghi. Proprio per questo sostenevamo che occorreva “passare dal piano alla pianificazione”: che occorreva superare la concezione, e la prassi, secondo cui si faceva un “piano” ogni 10, 15, 20 anni, ogni volta ricominciando daccapo, e bisognava invece considerare la pianificazione come un’attività continua e costante nella quale – sulla base di un’impalcatura di conoscenze organizzate e di strategie definite, unitariamente definita una volta per tutte e sistematicamente aggiornata - si procedeva quinquennio per quinquennio alla definizione di scelte relative al periodo immediatamente successiva. (Chi abbia interesse ad approfondire questo punto potrà trovare maggiori delucidazione in due miei scritti: “L'urbanistica dal ‘piano’ alla ‘pianificazione’”, la Rivista Trimestrale , - nuova serie , n. 3, dicembre 1985, e “Sull’articolazione dei piani urbanistici in due componenti”, Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentini , n.11-12, anno 10, aprile 2008, tomo 2). Intendevamo costruire a Venezia appunto l’impalcatura generale, che avrebbe permesso di trasformare la pianificazione in un’attività continua, capace di reagire tempestivamente al mutare della domanda sociale e politica pur conservando la fedeltà a determinate scelte di fondo (“invarianti”) e una costante visione d’insieme. Ciò richiedeva di mettere a punto un insieme di strumenti (da un ufficio efficace e motivato, a un sistema informativo sistematicamente alimentato, a un efficace coordinamento tra i diversi settori dell’amministrazione, per non citare che alcuni aspetti). Ci riuscimmo solo in parte, e i risultati non furono consolidati.



Per quanto riguarda l’edilizia storica il nostro tentativo (riuscito) era di superare la prassi fino ad allora seguita in Italia, di formare prima un “piano regolatore generale” e poi, su questa base, un più approfondito “piano particolareggiato”, adottando invece un metodo che ci consentisse di definire le scelte di conservazione/trasformazione dell’edilizia storica già a livello del piano generale: è il metodo dell’analisi tipologico-morfologica, che cerco di descrivere sinteticamente nel libro. Essa ci consentiva anche di sfuggire, nell’approvazione dei progetti di restauro e trasformazione dell’edilizia storica, alla discrezionalità della scelta caso per caso, affidata al gusto del tecnico o alla preferenza del politico, inevitabili quando non ci sono regole chiaramente definite e facilmente applicabili da qualsiasi soggetto.



Il nostro tentativo era certamente ambizioso. Sarebbe stato arduo raggiungere l’obiettivo anche in un clima culturale nel quale la pianificazione urbanistica fosse stata riconosciuta, politicamente e socialmente, un’attività essenziale per il governo della città. Così era stato, in qualche momento dei decenni precedenti e in qualche luogo. Ma il clima cambiò radicalmente proprio in quegli anni. Lo testimonia il fatto che non riuscii neppure a ottenere che la giunta comunale discutesse e approvasse l’ampio documento nel quale illustravamo il nostro progetto di piano. Tardammo a comprendere il cambiamento? Certamente, ma era l’intero mondo cui appartenevamo che si dissolveva. E, come imparai più tardi, era un fenomeno mondiale: non riuscimmo (non riuscì la sinistra nel suo insieme) a comprenderlo e a tentar di contrastarlo.



A Venezia si riuscì fortunosamente a portare il piano all’approvazione, ma la maggioranza (sempre di centrosinistra) che subentrò negli anni successivi smantellò quello che poteva smantellare. Ne racconta alcuni passaggi decisivi Luigi Scano, in uno scritto del 1997 riportato in appendice al suo libro Venezia: terra e acqua , Corte del fontego, 2009. E ne raccontano i numerosi documenti ospitati in eddyburg , dove si possono trovare anche i testi citati.

È un'altra Italia quella che ha vissuto Edoardo Salzano. Urbanista. amministratore pubblico, ex assessore a Venezia, giornalista. Un intellettuale e un politico che ha traversato l'ultima metà del secolo partecipando attivamente al cambiamento.Ce lo racconta in «Memorie di un'urbanista. L'Italia che ho vissuto (Corte del Fontego, 240 pgg. 20 euro), titolo riduttivo per un volume denso, aperto da un prologo di memorie giovanili, e quello era davvero un altro secolo. Poi il registro cambia, si fa più politico: per questo figlio della borghesia napoletana (suo nonno è il generale Armando Diaz, che annunciò la disfatta il 4 novembre 1018) gli anni dell'università romana e l'inizio della professione sono fondanti. Gli si apre davanti un mondo intellettuale ricchissimo, conosce Franco Rodano, Pietro Scoppola, Dado Morandi, Alberto Durante. Negli anni del dopoguerra e del boom, tra neorealismo e ansia di modernità, scopre una bussola che userà per tutta la vita: il primato dell'interesse pubblico, civile, sulla proprietà privata e sull'ansia speculativa. La crescita, l'evoluzione delle città va governata con mano ferma e indifferente alla proprietà dei suoli ma attentissima alle esigenze e ai diritti di chi le abiterà. Primo tra i quali, il diritto alla città.
L'entusiasmo da ricercatore e l'impegno nel sperimentare nuove strade lo porta a collaborare alla rivista francese Esprit e a quella italiana Il dibattito politico con Mario Melloni e Tonino Tatò, Beppe Chiarante, Ugo Baduel, Lucio Magri.


Poi approda al Ministero dei Lavori pubblici, insieme a Vezio De Lucia, Antonio Cederna, Marcello Vittorini, Fabrizio Giovenale, Giovanni Astengo... Corollario, l'impegno da consigliere comunale del Pci a Roma insieme a Aldo Natoli e Piero Della Seta, la battaglia per salvare aree verdi dalla speculazione, prima di tutte Capocotta. Lavora all'Inu, assiste al suo declino, s'impegna all'università e, è ormai il 1975, diventa assessore a Venezia. Assisterà poi al declino della politica, alla demolizione della pianificazione, alla mercificazione della cosa pubblica sottomessa ai progetti privati iniziata da tangentopoli e da Milano2, oggi diventata quasi senso comune, azione di governo. Anche perché, insiste Salzano, politica e urbanistica dovrebbero saper guardare al futuro, questa nel modificare le città, quella nel costruire la società. Senza, si asfissia nelle miserie quotidiane.

Ma non si sente uno sconfitto, Eddy Salzano, nell'era dell'urbanistica neoliberista, quella alla Lupi per intenderci, che lascia il sestante delle decisioni in mano alle lobby del mattone e spregia gli interessi collettivi. Ottantenne sempre curioso del nuovo, indaga tra i movimenti di base, studia, si documenta. E ha fondato un sito internet, «Eddyburg» che è ormai punto di riferimento per chiunque si interessi di urbanistica. Attualità politica, riflessioni, polemiche. E una serie di articoli documentatissimi si scempi e orrori, dall'invasione dei centri commerciali - non-luoghi patinati, finti villaggi - all'incessante avanzata dello sprawl, il consumo di territorio pezzo a pezzo. E alla devastazione del paesaggio, patrimonio e ricchezza d'Italia. Eddyburg è luogo di incontro e di conoscenza per urbanisti e non solo. Perché, conclude Salzano, l'urbanista - quello vero, che a a cuore il futuro della città per cu lavora e la qualità della vita dei suoi cittadini - non può che essere un intellettuale dai saperi vasti, il cui campo di lavoro è interdisciplinare. E la rete è uno splendido medium.

CAGLIARI. Se il rapporto tra urbanistica e politica non passa attraverso il partito degli affari, ma sceglie come luogo d’incontro la tutela del paesaggio, « Memorie di un urbanista» diventa un testo indispensabile.

Il libro è stato presentato al Ghetto di Cagliari, con un incontro organizzato dai Presidi del libro, cui hanno partecipato insieme all’autore Edoardo Salzano, anche Renato Soru, Sandro Roggio, e Gianvalerio Sanna che con il grande urbanista napoletano hanno lavorato alla realizzazione del Piano paesaggistico regionale. «La stesura del libro è iniziata dieci anni fa, e la ragione per cui l’ho scritto è emersa man mano che l’Italia cambiava in peggio - ha esordito Salzano - La cancellazione della storia nella testa degli italiani ha provocato cose terribili: la maggior parte dei giovani non sa nulla ed è convinta che tutto si riassuma nel presente. Questo vuol dire che non c’è alternativa ai Cappellacci che vediamo. Riconquistare la storia è un’operazione decisiva per dare spessore al passato e prospettiva al futuro».

Per rendere il suo pensiero azione concreta, Salzano cura personalmente il sito eddyburg.it dove discute tutto ciò che riguarda città e paesaggio, ma anche vita e poesia, in un’ottica che riunisce uomo e ambiente, lavoro e cultura, ed è oggi strumento operativo per amministratori, urbanisti, filosofi, ambientalisti, reti di cittadini. Il grande urbanista ha ricordato l’incontro con Soru che esponeva le linee guida del Piano: «La valorizzazione non ci interessa. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra cento anni, che pezzi di territorio vergine ci sopravvivano». Un’intuizione che per l’ex presidente risale alla comprensione «del valore immenso del silenzio e del buio di uno stazzo intatto in Costa Smeralda. Oggi ho un solo cruccio: non aver avuto il tempo di lavorare sulle zone rurali interne».

Al piano sardo Salzano ha dato contributi d’idee e sensibilità ma anche la dimensione serena di un padre credibile, capace di tenere insieme studiosi di discipline estranee. Come ha spiegato Gianvalerio Sanna: «La grande povertà della Sardegna è una concezione proprietaria del terreno, che prima di essere tuo è un bene collettivo». Consapevole dei guasti attuali Salzano mantiene saldo l’ottimismo gramsciano e cita la scuola di Barbiana dove i giovani imparano che «Il mio problema è il problema di tutti, risolverlo da soli è avarizia risolverlo con gli altri è politica». La stessa politica che difende Tuvixeddu e la Riserva dello zingaro vicino a Trapani, un lembo di terra che la regione Sicilia voleva lottizzare fermata con una catena umana. È la cittadinanza attiva.

Quando vi capita di stare davanti a un funzionario comunale, o a un guru dell’architettura, che vi parla di urbanistica in modo iniziatico, mistico, oscuro, e comunque incomprensibile, rincuoratevi. I casi sono due: o avete sbagliato posto oppure (più probabile) avete davanti un imbecille. Un imbecille magari acculturato, dalla parlantina sciolta, prodigo di battutine e calore umano. Oppure un imbecille ad hoc, che sta sul vago a bella posta, graniticamente convinto che parlarvi della città, com’è fatta, cosa ci state a fare lì dentro voi e lui (o lei per par condicio), sia cosa superiore a qualunque possibilità di impegno. Insomma l’idea corrente è che quando il gioco si fa duro i duri incominciano a giocare, e niente è più duro del cemento, asfalto, intrico di interessi che tengono insieme quell’oggetto misterioso che chiamiamo città.

Non deve essere per forza così. La città, la buccia artificiale impastata di natura che ci siamo costruiti nei millenni, è qualcosa che ci appartiene e che possiamo capire benissimo. Certo, negli stessi millenni è diventata assai più complicata del primo gruppetto di case raccolte attorno a un pozzo, a un incrocio di strade, magari all’ombra di una fortezza o di un tempio, ma questo non significa che capirla sia qualcosa che va oltre la possibilità di chi ne è già in qualche modo il massimo esperto: il cittadino.

È questa la sfida raccolta con passione, metodo e gran classe divulgativa da uno dei più noti urbanisti italiani, Edoardo Salzano, che nel suo ultimo Ma Dove Vivi? La Città Raccontata (Corte del Fontego, 2007) condensa e rielabora diversi decenni di “esperienza critica” da cittadino: amministratore, docente universitario, autore di libri e consulente di grandi piani, urbani e territoriali.

Ma non c’è niente di compiaciutamente autobiografico, in questo agile libretto di un centinaio di pagine, pensato e laboriosamente costruito perché “L’urbanistica, un modo corretto di vivere e trasformare la città, non vince se non diventa un sapere diffuso, radicato fin dai primi gradi di apprendimento”. Evidente come un modo corretto di vivere e trasformare la città sia qualcosa che si colloca lontanissimo dall’idea di un sapere iniziatico, di terminologie tecniche intricate, di grandi intuizioni dei grandi pensatori, poi somministrate in pillole da qualificati pulpiti. Insomma la città sei tu, impara a conoscerti.

Il che detto in altre parole significa ad esempio chiarire come sia l’inestricabile impasto fra le idee e le pietre a costituire il cuore della città, non altro. Città quindi da non confondere con la sola trasformazione fisica dello spazio: sono certo in qualche modo “città” anche i nuclei abitati raccolti attorno al castello del signore o al monastero che regna sul contado, ma rappresentano solo una tappa verso la città dei cittadini, portatori di diritti che non a caso iniziano in corrispondenza del confine delle mura.

In questa prospettiva, il piano regolatore urbanistico non è affatto (solo) quell’elaborato tecnico complesso con cui normalmente il cittadino si scontra, emanazione del potere costituito a limitarne in un modo o nell’altro la libera espressione, ma il tentativo costante di regolare la convivenza di centinaia, migliaia, milioni di individui tutti con l’ostinata tendenza ad adattarsi all’ambiente naturale … modificandolo. Chi più, chi molto meno, naturalmente.

Esemplare, da questo punto di vista, la vicenda di New York, da due secoli icona urbana e urbanistica. È per Manhattan, ci racconta Salzano, che una commissione di saggi delinea il primo piano urbanistico moderno, ben diverso dai grandi schemi ingegneristico-architettonici di papi e sovrani. All’inizio del XIX secolo il piano per l’isola di Manhattan, anche sulla base di analisi e proiezioni, nasce per delibera municipale tracciando l’ormai leggendaria maglia ortogonale di Streets est-ovest e Avenues nord-sud a formare i grandi isolati rettangolari su cui nei secoli cresceranno prima qualche magazzino di mattoni e travi in legno, poi i grattacieli che conosce tutto il mondo. Quei grandi isolati sono ciò che il mercato chiede, ed è all’interno di quella maglia regolare che si applicheranno via via le regole edilizie e di convivenza scelte dalla società dei cittadini.

A New York anche la natura, prima nemica ed esclusa fuori dalle mura della città, farà il suo grande ritorno nell’urbanistica della generazione successiva, verso il 1850. Per motivi sanitari, culturali, di prestigio anche economico, un’altra Commissione decide che un’ampia parte degli stessi isolati rettangolari, al centro dell’isola, non potrà essere edificata, ma che solcata da tortuosi sentieri rappresenterà per i cittadini un piccolo catalogo tascabile dell’ambiente naturale, e naturalmente nella logica di mercato farà aumentare i valori dei terreni più vicini a quei nuovi ampi viali alberati per carrozze e borghesi a passeggio. Ancora alla tutela dei valori immobiliari, all’inizio del XX secolo il piano di New York sperimenterà su larga scala il cosiddetto zoning, ovvero la suddivisione della città in parti omogenee per attività (residenza, industria, commercio …) e tipi di edifici (le casette unifamiliari, i capannoni industriali, i grattacieli per uffici). E così, con notevoli varianti locali sia nel tempo che nello spazio, che soprattutto nelle forme di partecipazione dei cittadini, è accaduto e accade in tutte le città del mondo.

Il libro poi si sofferma con attenzione sul caso italiano, la nascita dell’urbanistica moderna nel Novecento, la ricostruzione del dopoguerra e le distorsioni tipiche del nostro paese, con la sua democrazia fragile anche e soprattutto quando si tratta delle sue forme più immediate e quotidiane, come quelle appunto del diritto alla città. Fino ad arrivare sino ai nostri tempi, con l’emergere delle grandi tematiche ambientali, come quelle legate all’industria o al traffico, o più direttamente connesse alle forme dell’insediamento, dalla villettopoli diffusa coi centri commerciali alla qualità della vita per gli abitanti dei quartieri.

Tutto questo, senza mai perdere di vista l’idea che sta alla base di tutto questo densissimo e “leggero” libro: non c’è nessuno più qualificato del semplice cittadino, per capire, decidere, progettare, trasformare la città. Nel rispetto di sé stessi e degli altri. Salvo prima appunto chiedersi, in modo approfondito e critico, magari anche sulla scorta della lunga serie di informazioni e prospettive fornite dal volume: ma dove viviamo?

Una delle spiegazioni più accreditate sulle motivazioni del discorso agli uccelli, afferma che Francesco d’Assisi percependo il disinteresse verso i suoi discorsi, prese a parlare con i volatili proprio per sottolineare che di fronte all’insensibilità o alla sordità umana, si può sempre instaurare un rapporto con i marginali, nel caso specifico rappresentati dal genere animale.

Edoardo Salzano ha speso la vita nel sostenere il primato dell’urbanistica come metodo per governare le città e il territorio e affermare il primato pubblico sulle visioni particolaristiche degli interessi privati. Ha scritto libri fondamentali nel settore (Urbanistica e società opulenta, 1969, e Fondamenti di urbanistica, 1998), ha fondato e diretto riviste di grande diffusione come Urbanistica informazioni. E’ stato consigliere comunale d’opposizione a Roma nella battaglia contro il sacco di Roma. A Venezia ha ricoperto il ruolo di assessore all’urbanistica redigendo insieme a Luigi Scano un piano del centro storico che è uno splendido esempio di rigore e intelligenza. Nel ruolo di docente si è speso per la preparazione di generazioni di tecnici. E’ stato per quasi un decennio presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, prima della deriva culturale che lo ha attraversato ultimamente. Salzano, insomma, è da quarant’anni un protagonista dell’urbanistica italiana.

Viene oggi pubblicato “Ma dove vivi? La città raccontata“ per i tipi della Corte del Fontego di Venezia (euro 14,50). Il libro è destinato in particolare ai giovani e alle persone che vogliono comprendere le città e i principi fondativi della materia urbanistica. Questo carattere è il principale merito del libro: con parole semplici e concetti di grande chiarezza, il lettore viene condotto in un complesso percorso in cui la città diventa un luogo aperto e comprensibile. E dove viene dimostrato che la questione fondamentale è che il destino delle città deve essere mantenuto nelle mani pubbliche. Afferma l’autore che “La pianificazione nasce, nei tempi moderni, come tentativo di dare una risposta positiva alla crisi della città dell’ottocento. Il prevalere dell’individualismo nell’organizzazione della città aveva dato luogo ad anarchia, disagio, inefficienza. Occorreva regolare lo sviluppo urbano con uno strumento che riuscisse a dare coerenza ad azioni che arano diventate contraddittorie”. Soltanto le amministrazioni pubbliche, dunque, hanno titolo per delineare il futuro delle città. Esse non sono la sommatoria casuale di progetti di interesse privato: sono belle e vivibili soltanto se ancorate ad un progetto organico di trasformazione.

Nell’agile volume viene dunque condensato un pensiero complesso, costruito da Salzano in decenni di riflessioni e esperienze concrete. Riflessioni che in un pese appena civile ed evoluto dovrebbero essere alla base dell’azione amministrativa delle pubbliche amministrazioni. Oggi è purtroppo vero il contrario. Per una serie di ragioni puntualmente indagate nel capitolo 3, Fortune e sfortune della pianificazione in Italia, l’autore tratteggia “i terribili anni novanta” in cui la pianificazione urbanistica è stata pressoché cancellata per essere sostituita dal dominio incontrastato della rendita parassitaria immobiliare. Tra rendita e impresa, l’Italia del neoliberismo ha scelto di premiare la prima, allontanandosi così dagli altri paesi europei ad economia liberale che continuano a praticare senza scandalo il governo pubblico di quel bene comune che è il territorio.

Ecco il motivo per cui, a mio giudizio, Salzano ha scritto la più recente fatica. Di fronte alla sconfitta di chi voleva città più belle e funzionali, paesaggi storici da preservare come simbolo delle radici culturali dei luoghi, ambienti naturali tutelati come patrimoni intangibili da trasmettere alle generazioni future, è più opportuno “parlare agli uccelli”, tentare di formare nelle nuove generazioni sensibilità e consapevolezze oggi assenti dal panorama politico e stituzionale. E’ un atteggiamento, si badi, tutt’altro che ripiegato su se stesso o venato di pessimismo. La prova di quanto affermo sta nello straordinario sito Eddyburg, che Salzano ha costruito con leggerezza e caparbietà in questi ultimi anni e che, passo dopo passo, è diventato il più autorevole punto di riferimento dell’urbanistica italiana. Non c’è amministratore, studioso o cittadino impegnato per rendere vivibile la propria città, che non conosca il sito e non trovi al suo interno un giacimento di informazioni, riflessioni e prospettive. Un’azione di formazione insostituibile al pari del prezioso volume. Che ha, peraltro, un altro piccolo ma importante pregio. L’editore veneziano Corte del Fontego ha ormai alle spalle numerosi titoli. Tutti hanno la stessa caratteristica: oltre ad essere interessanti sono anche belli e curati. Aggiungono all’interesse il piacere di scorrere le pagine.

Nel 1946 nel primo capitolo del suo “Modo di pensare l’urbanistica”, Charles Edouard Jeanneret, noto con il nome di Le Corbusier, riflettendo compiutamente sulla città moderna e su come essa sia malamente progettata e abitata, afferma che “c’erano già stati grandi urbanisti i quali non maneggiavano la matita ma le idee: Balzac, Fourier, Considérant, Proudhon”.

Nel libro recente di Edoardo Salzano, “Ma dove vivi?”, l’urbanistica converge verso la storia, la filosofia e la letteratura. Il testo si conclude con Lucrezio e il rapporto tra la natura e l’uomo che la vive, con la Manchester industriale, razionale e inumana descritta da Engels nel XIX secolo, la Napoli di Matilde Serao nella quale vince, sino dall’ottocento, la speculazione edilizia. Il capo indiano Sealth, profeticamente e con profonda filosofia, vede la futura degenerazione del rapporto uomo “consumatore di risorse” e il mondo naturale che porta ovunque la traccia del divino, invisibile ai colonizzatori.

Questa necessità di una visione “universale” della città sentita da Edoardo Salzano, è evidente sin dall’incipit. Le prime pagine sono dedicate alla nascita della città. La storia che Salzano, nella foto, racconta incomincia con l’aggregazione umana e, attraverso una lunga parabola, l’Autore spiega la forma urbana di oggi.

Numerosi e in perfetta consequenzialità storica i riferimenti alla realtà italiana nella quale il consumo dei suoli è indirizzato dal predominio della sterile rendita su ogni altra economia. Sono proprio i meccanismi della storia, di quella grande e di quella piccola ( le vicende di tangentopoli, le ingerenze della micropolitica, i disastri degli anni novanta ), che guidano i capitoli del libro. L’urbanistica, i meccanismi applicati ad un’azione essenziale e primaria qual è l’abitare i luoghi, spiegati attraverso la storia. Le planimetrie di Siena e di Lipsia medievali, insieme a tante altre tavole tutte dense di significato, servono a decifrare la contemporaneità sulla quale Salzano si concentra. L’oggi spiegato utilizzando il passato. Chi non possiede gli strumenti per comprendere la realtà soffre perché non ha altra possibilità che subirla. Così l’Autore cerca di fornire al lettore i mezzi per comprendere. Anche quelli normativi, a partire dalla prima legge che dota le amministrazioni di uno strumento che è un punto di partenza, la legge 1150 dell’agosto del 1942. Da allora le città smettono, in Italia, di svilupparsi caso per caso e lo Stato detta le direttive attraverso i piani regolatori. Da qui l’Autore dipana un lineare racconto sulle cose, piccole e enormi, che molti cittadini vedono avvenire nelle proprie città, senza comprenderle, senza interrogarsi.

La divulgazione è un compito riservato ai “saggi” i quali possiedono la conoscenza in un grado così elevato da raggiungere la semplicità. “Ma dove vivi?” è, perfino nel titolo, uno sforzo di far ragionare chi non si fa domande sul dove vive, neppure quando, dice l’Autore, avverte la fatica e il peso di abitare in luoghi difficili, complessi e talvolta dolorosi come le nostre città. Un tentativo di far guardare chi non vede. La divulgazione “alta” che Salzano opera felicemente, fa comprendere come l’Urbanistica non sia una specialità culturale riservata agli architetti ( i quali praticano un artigianato e in casi rarissimi producono perfino arte ma non sono che una via possibile all’urbanistica ) ma è una conoscenza intricata che si regge su una serie di discipline, richiede la capacità di interpretare i luoghi e le società, una visione storica del mondo intorno ed esige, come nel caso di Lucrezio e di Capo Sealth, una filosofia che la sostenga.

Infine le riflessioni sulle condizioni di rischio ambientale planetario calate nelle realtà quotidiane, la qualità ambientale e l’insostenibilità di uno sviluppo ottusamente fondato sul pil. L’accenno ai princìpi latouchani sulla necessità di una decrescita di un meccanismo economico che invece tende alla crescita progressiva e inesorabile. La sostenibilità malignamente confusa con la tollerabilità e le conseguenze terribili di questa confusione. Il collegamento tra i grandi sistemi e la nostra città attuale, la città italiana e la fatica di abitarla, la fatica giornaliera di spostarsi dentro i nostri sistemi urbani. La dimostrazione di quanto una teoria economica entri nel nostro quotidiano e lo influenzi. Gli argomenti si susseguono rapidamente, sempre espressi con rigore e chiarezza esemplari.

Salzano trova perfino il tempo, in chiusura, di ipotizzare un’urbanistica salvifica la cui energia dovrebbe provenire dalla partecipazione di ognuno alla costruzione della città, spesso “pensata” e imposta dal cosiddetto “alto” della politica davanti al quale il cittadino debole sceglie la via del proprio “particolare” sul quale si concentra e dentro il quale si rinchiude. Non è un esercizio retorico rivolgersi ai giovani visto che in essi, se non altro per biologia, è contenuta l’energia sociale sulla quale l’Autore fonda la speranza di un contenimento armonico della crescita al posto dell’aggregazione di uomini e costruzioni chiamata città. Ai giovani è esplicitamente rivolto il libro, ma non solo. Anche il prezioso, accurato glossario è uno strumento ulteriore che l’Autore mette a disposizione del lettore giovane e non più giovane che si avvicina, magari per la prima volta, all’argomento.

L’Autore, l’abbiamo accennato, conclude con “l’urbanistica dei filosofi e degli scrittori” e il lettore chiude il libro con la convinzione che tutti dovremmo essere in possesso di una spinta naturale a riflettere sui luoghi che abitiamo, su come sono fatti e su come dovrebbero essere. Tutti dovremmo diventare urbanisti delle nostre città.

Edoardo Salzano – “Ma dove vivi?” – Edizioni Corte del Fondego – Venezia, 2007.

Un decennio contraddittorio

Riprendiamo dall’analisi delle trasformazioni avvenute nel periodo che comprende i decenni Cinquanta e Sessanta e dagli avvenimenti che ne scaturiscono, il cui svolgimento contrassegnerà contraddittoriamente l’intero corso degli anni Settanta. Sono anni che si aprono con le grandi e innovative tensioni del Sessantotto studentesco e operaio, si sviluppano, attraverso una serie di crisi politiche e di attentati dinamitardi, attorno ai temi dell’intervento pubblico nel settore della casa, degli espropri, dell’attuazione dell’ordinamento regionale, dei tentativi di programmazione economica.

Il quadro istituzionale dell’urbanistica cambia considerevolmente. La drammaticità degli scontri sociali sulle questioni del territorio e della città sembrano ridare fiato alla riforma urbanistica. La politica della casa entra a far parte dell’armamentario della pianificazione. L’istituzione delle regioni introduce un soggetto pubblico potenzialmente decisivo. Sebbene non si raggiunga una vera riforma del regime dei suoli, vengono introdotte alcune significative innovazioni, in parte vanificate dalla sentenze della Corte costituzionale.

Mentre da un lato sembra procedere, attraverso tappe parziali, un disegno di riforma, dall’altro lato si mettono in moto forze controriformatrici, le quali agiscono a volte con gli attentati terroristici, a volte con sottili tattiche di svuotamento delle leggi innovative.

Squilibri territoriali e politica edilizia

Ricorda De Lucia che “in un decennio (1961-1971) gli abitanti del Mezzogiorno si sono ridotti dal 36,7% al 34,8% della popolazione nazionale, con un decremento più veloce che nel recedente periodo intercensuario” [i].

In realtà, nel decennio sono nate nelle regioni del Sud circa 2 milioni e mezzo di persone, ma oltre 2 milioni e 300 mila sono state costrette ad emigrare. L’occupazione, dal 1961 al 1971, è aumentata del 21% nel Mezzogiorno e del 79% nel resto del paese. Su 2 mila e 500 comuni meridionali, quasi 2 mila sono quelli dove si registra una diminuzione della popolazione in valore assoluto. I 4/5 del territorio meridionale sono in via di abbandono e di disgregazione, è in disfacimento l’agricoltura collinare e montana, aumentano vertiginosamente frane e dissesti.

“Nei quindici anni che vanno dal 1955 al 1970 cambiano residenza 17 milioni di italiani. Gli spostamenti avvengono prevalentemente: dal Mezzogiorno verso il triangolo Milano, Torino, Genova; dalle zone interne verso la fascia costiera; dai centri minori verso le città più grandi. Lo sviluppo dei fenomeni migratori è assolutamente “spontaneo” e contrasta vistosamente con gli obiettivi osti dai tentativi di programmazione economica che si susseguono e che socialmente la componente riformista del centrosinistra cerca di difendere, puntigliosamente, nonostante le continue delusioni. Intanto, l’intervento statale di gran lunga prevalente, specialmente nel Mezzogiorno, continua ad essere la costruzione delle strade e, soprattutto, delle autostrade [ii].

Del resto, l’impegno dello Stato è stato gigantesco”

“Dal 1960 si sono avute in Italia costruzioni per una media di 208 km annui contro i 170 della Germania e 127 della Francia. Di conseguenza gli investimenti a favore dei trasporti collettivi su rotaie sono rimasti strozzati dall’impegno autostradale, che di fatto risultava uno stimolo diretto a sostenere e rafforzare l’industria automobilistica e quelle consorelle” [iii].

Paradossale è il tentativo di programmare la politica abitativa. Lo “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-1964” (il cosiddetto “schema Vanoni”, primo tentativo di programmazione economica) poneva come obiettivo per risolvere il problema della casa quello di realizzare 13 milioni di vani nel decennio considerato. L’obiettivo fu ampiamente superato: dal 1955 al 1964 si costruirono in Italia oltre 19 milioni di vani. Il problema della casa avrebbe dovuto considerarsi risolto. Invece, nello stesso anno 1964, il “progetto di programma di sviluppo economico” per il quinquennio 1965-1969 predisposto dal ministro per il bilancio Antonio Giolitti prevede un “fabbisogno ottimale di abitazioni” corrispondente addirittura a 20 milioni di stanze!

“Eppure, più case si fanno più ce ne vogliono: è questo il paradosso della situazione italiana. In effetti le case ci sarebbero per tutti, come confermano i dati del censimento. Nel 1971 ci sono in Italia 54 milioni di abitanti ed oltre 63 milioni di stanze. Nel decennio 1961-1971 la popolazione è cresciuta del 6,7% ed il patrimonio edilizio del 33,8%. L’indice di affollamento medio nazionale è di 0,85 abitanti/stanza. Ma è un indice teorico perché quasi un quarto del patrimonio esistente è inoccupato o sottutilizzato. Le case ci sarebbero per tutti, solo che costano troppo, oppure sono lontane da dove ormai è costretta a vivere la maggioranza degli abitanti, oppure sono seconde o terze case. Questi dati, dapprima elaborati e discussi in ristretti ambienti specialistici, diventano gli argomenti e slogan della contestazione sindacale ed operaia. Sotto accusa è il “modello di sviluppo” basato sull’esaltazione degli squilibri. Il problema della casa, irrisolvibile fino a quando continueranno poderosi flussi migratori, è all’origine dell’autunno caldo” [iv].

Le lotte per la casa e l’autunno caldo

Nel marzo 1969 la Fiat pubblica un bando per assumere negli stabilimenti di Torino 15 mila nuovi addetti, reclutandoli nel Mezzogiorno 15 mila addetti: con le loro famiglie, 60 mila nuovi immigrati a Torino. Le organizzazioni sindacali rilevano subito che i programmi di espansione degli impianti e dell’occupazione della Fiat aggraverebbero la tendenza in atto alla emarginazione delle regioni meridionali. Nell’area torinese si manifesta una decisa opposizione contro ogni indiscriminato aumento della popolazione che farebbe saltare le già precarie strutture residenziali, e quel po’ di attrezzature sociali funzionanti nei comuni della cintura. La protesta sbocca nello sciopero generale provinciale del 3 luglio 1969 “contro il caro-casa e per un massiccio e tempestivo intervento dello Stato nell’edilizia”. I fatti di Torino, gli altri scioperi generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste dei baraccati, il ripetersi delle occupazioni di alloggi pongono in primo piano la necessità di una nuova politica della casa. Ed è proprio con la vertenza nazionale per la casa e per una nuova politica urbanistica che le centrali sindacali avviano l’autunno caldo del 1969.

Le confederazioni Cgil, Cisl e Uil aprono la vertenza per la casa, i servizi, i trasporti, il superamento degli squilibri territoriali. Secondo i sindacati, i nuovi interventi di edilizia pubblica vanno realizzati nell’ambito di una nuova legislazione urbanistica che deve regolare il regime delle aree urbane attraverso il diritto di superficie e l’esproprio generalizzato. Anche per le Acli condizione principale per rendere possibile un mercato della casa alla portata di tutti è la pubblicizzazione dei suoli, l’abolizione dell’attuale regime, l’esproprio generalizzato e la definizione del diritto di superficie. Si estende il dibattito, fioriscono le proposte. La questione approda al Parlamento.

“Si arriva cosi al momento culminante della mobilitazione: il grande sciopero nazionale del 19 novembre 1969, indetto dalle tre confederazioni sindacali nonostante i ripetuti tentativi del governo per evitarlo. Si ferma l’intero paese, è una delle più forti manifestazioni popolari dell’Italia contemporanea. Prima conseguenza è la decisione governativa di accantonare due disegni di legge, frettolosamente predisposti dai ministri Natali e Carlo Donat Cattin, evidentemente inadeguati rispetto alle rivendicazioni. L’indiscutibile successo dello sciopero contribuisce certo ad accelerare le manovre dei poteri più o meno occulti che governano la strategia della tensione. E infatti le bombe di Milano e Roma del 12 dicembre distraggono l’opinione pubblica dal problema della casa, ma solo per qualche settimana. I primi mesi del 1970 sono di nuovo punteggiati da numerosi dibattiti ed i sindacati riprendono l’iniziativa politica”[v].

Nel marzo 1971 il ministro dei lavori pubblici Lauricella presenta alla Camera il disegno di legge n. 3199 contenente “Norme sull’espropriazione per pubblica utilità, modifiche ed integrazioni alla legge 18 aprile 1962, n. 167, ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata”. La riforma urbanistica è invece rinviata sine die. Si avviano l’esame del disegno di legge e le consultazioni con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali, degli imprenditori, degli inquilini, delle associazioni comunque interessate al problema, e con le neonate amministrazioni regionali (le prime elezioni regionali si erano svolte il 7 giugno 1970).

La legge per la casa del 1971

Il dibattito parlamentare si conclude con la definitiva approvazione della legge il 22 ottobre 1971. La legge 865/1971 affronta organicamente e compiutamente i nodi del problema della casa in Italia.

Il primo titolo riguarda la programmazione e il coordinamento dell’intervento pubblico. Spetta alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l’edilizia stabiliti dal governo sulla base di un “piano di attribuzione” redatto in funzione dei fabbisogni regionali e alimentato da tutte le risorse pubbliche nazionali destinate al settore.

Il secondo titolo riguarda l’espropriazione per pubblica utilità. Il campo di applicazione comprende gli immobili (aree ed edifici) necessari: per gli interventi previsti dalla stessa legge n. 865; per i piani di zona della legge n. 167; per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, compresi i parchi pubblici; per le singole opere pubbliche; per il risanamento, anche conservativo, degli agglomerati urbani; per la ricostruzione di edifici o quartieri distrutti o danneggiati da eventi bellici o da calamità naturali; per l’attuazione di zone di espansione urbana, a norma dell’articolo 18 della legge urbanistica del 1942; per la formazione di parchi nazionali; per le zone che gli strumenti urbanistici destinano ad impianti industriali, artigianali, commerciali e turistici. Le aree espropriate sono assegnate in concessione (per periodi rinnovabili da 60 a 99 anni) oppure in proprietà.

La legge non riconosce, nell’indennità espropriativa, il maggiore valore acquisito dall’area per effetto dell’opera che vi si dovrà insediare o della destinazione d’uso stabilita dal piano regolatore. La rendita di posizione è solo in parte riconosciuta con il ricorso a parametri che moltiplicano il valore agricolo iniziale in funzione della ubicazione (più o meno centrale) del bene da espropriare e della dimensione demografica dei comuni.

Il terzo titolo della legge riguarda le modifiche alla legge 167/1962 e raccoglie i perfezionamenti richiesti da quasi un decennio di esperienza in materia di piani di zona. Si stabilisce in particolare che l’estensione delle aree destinate all’edilizia economica e popolare non può superare il 60% del fabbisogno complessivo di edilizia abitativa prevista per un decennio. Viene disposta l’abrogazione dell’articolo 16 della originaria legge 167/1962, che consentiva ai proprietari di aree ricadenti nei piani di zona di intervenire direttamente. Come osserva De Lucia,

“in tal modo, la legge per la casa, imponendo ai comuni di acquisire le aree e di assegnarle agli enti ed ai costruttori privati che si impegnano a realizzare abitazioni economiche e popolari nel rispetto di determinati vincoli, rappresenta un risoluto passo avanti nel controllo dei meccanismi di formazione della rendita fondiaria. In sostanza, per la prima volta, viene affermata una netta separazione fra proprietà fondiaria e attività costruttiva, traducendo in termini concreti il principio dell’indifferenza dei proprietari alle destinazioni del piano” [vi].

Il quarto ed il quinto titolo della legge riguardano aspetti finanziari dell’intervento pubblico in edilizia e tradizionali agevolazioni per l’edilizia privata. Si tratta di norme dichiaratamente transitorie, in attesa di quella organica legge di spesa per l’edilizia residenziale, che sarà approvata dopo sette anni (il cosiddetto “piano decennale” del luglio 1978).

Speranze, tentativi e crisidelle programmazione economica

Nella storia dei tentativi di programmare lo sviluppo dell’economia per evitare i danni e le strozzature un posto di rilievo spetta alla “Nota aggiuntiva” alla relazione annuale di contabilità economica nazionale, presentata nel maggio 1962 dal ministro repubblicano Ugo La Malfa. La “Nota aggiuntiva” traccia un lucido consuntivo dei caratteri salienti del processo di sviluppo degli anni Cinquanta. Segnala il persistente scompenso fra le regioni nordoccidentali ed il resto del paese, ed i disordinati fenomeni di migrazione interna con la conseguenza della congestione di alcune aree e dello spopolamento di altre. Di squilibri territoriali si parla in termini approfonditi, ma le analisi e gli obiettivi della politica economica continuano ad essere esposti in una forma aggregata: ciò non consente di dedurre dalle scelte di sviluppo produttivo concrete indicazioni di assetto del territorio. Nel 1964, il vicepresidente della Commissione nazionale per la programmazione economica, Pasquale Saraceno, presenta il Rapporto 4 che costituisce la base del programma economico nazionale. La volontà meridionalistica obbliga a collocare il riequilibro del territorio al primo posto fra gli obiettivi dell’intervento pubblico.

Analoghe indicazioni sono contenute nel Progetto di programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969 presentato dal ministro per il bilancio Antonio Giolitti nel giugno 1964, e ripresentato con alcune modifiche nel gennaio successivo dal nuovo ministro Luigi Pieraccini. L’assetto del territorio rimane tuttavia un capitolo del documento e, anche per la fiducia riposta nelle procedure e nei contenuti innovativi della nuova legge urbanistica (la cui approvazione è data per certa ed immediata), non diventa una “dimensione” della politica di programmazione.

Nel 1967 viene finalmente approvato con legge il Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-1970. E il primo ed unico documento di programmazione economica nazionale sancito in un atto ufficiale. In verità, sui temi della programmazione economica, presso il ministero del bilancio, operarono in quegli anni alcuni dei più coerenti sostenitori della politica di riforma (primi Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo). Anche in materia di assetto del territorio furono prodotti ipotesi e ragionamenti spesso di notevole impegno intellettuale. L’organizzazione territoriale, assente nei primi documenti, diventa via via parte essenziale della logica di programmazione. Ma dopo la crisi economica del 1973 i riferimenti alla politica territoriale si affievoliscono di nuovo, e poi scompaiono del tutto.

Una compiuta integrazione dell’assetto del territorio nella strategia della programmazione viene proposta nel Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-1975, più noto come “Progetto ‘80” [vii]. Il superamento degli squilibri non è più affrontato in termini esclusivamente economici, ma in una prospettiva dinamica di cui si prefigurano le conseguenze territoriali. Viene proposto [viii] un modello di assetto (un vero e proprio schema di “piano territoriale nazionale”), fondato sull’individuazione di “sistemi di città” potenzialmente alternativi rispetto alle agglomerazioni urbane esistenti ed alle loro degenerazioni “spontanee”. La politica di riequilibrio territoriale non è proposta solo alla scala delle grandi ripartizioni geografiche ma anche ai livelli locali.

Dopo continui slittamenti, la programmazione economica scompare infine dalle azioni di governo. La crisi economica fa scattare il “ricatto della congiuntura”: la logica di piano viene presentata come un lusso che non ci si può consentire quando urgono problemi di sopravvivenza economica. I nuovi documenti programmatici tornano cosi ad occuparsi esclusivamente dei grandi aggregati economici e delle loro compatibilità.

L’attuazione delle regioni a statuto ordinario

La Costituzione della Repubblica italiana era stata approvata il 27 dicembre 1947, e promulgata il 1° gennaio successivo. Essa prevedeva l’istituzione delle regioni come “enti autonomi con propri poteri e funzioni” (articolo 115), e attribuiva loro rilevanti competenze. Tra queste, la potestà legislativa in materia urbanistica (articolo 117). Alla vigilia degli anni Settanta l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione non era ancora stato attuato: erano state istituite solo, in ragione di diverse contingenze e opportunità politiche, le cinque regioni “a statuto speciale”: la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta e il Trentino-Alto Adige (poi disaggregata nelle due province di Trento e Bolzano) nel 1948, e il Friuli-Venezia Giulia nel 1963. La causa principale della mancata attuazione del dettato costituzionale su questo punto così rilevante per il funzionamento dell’ordinamento dello Stato era certamente costituito da una preoccupazione politica della DC e dei suoi alleati: si temeva del ruolo che avrebbero svolto i comunisti e i loro alleati socialisti, allora all’opposizione e considerati come “nemici” dall’intero schieramento internazionale cui l’Italia apparteneva, che avevano la maggioranza elettorale nelle tre regioni centrali (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria) e forse anche nella Liguria. Uno degli obiettivi della politica riformatrice degli anni Sessanta era quindi l’attuazione della norma costituzionale relativa alle regioni a statuto ordinario. Delle regioni si parlava del resto nelle proposte di legge di riforma urbanistica dei primi anni Sessanta.

I quindici consigli regionali a statuto ordinario sono eletti per la prima volta nella primavera del 1970, ma l’effettivo trasferimento dei poteri avviene nel febbraio del 1972, in base a decreti del Presidente della repubblica. Per quanto riguarda l’urbanistica, accanto al potere di legiferare già attribuito dalla Costituzione, alle regioni vengono trasferite tutte le funzioni amministrative che la legge del 1942, e le successive leggi di modifica e di integrazione, affidavano agli organi centrali e periferici del Ministero dei lavori pubblici: l’approvazione degli strumenti urbanistici (piani territoriali di coordinamento, piani regolatori generali comunali e intercomunali, piani di ricostruzione, regolamenti edilizi e programmi di fabbricazione, piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate) e dei piani per l’edilizia economica e popolare; il controllo e la vigilanza sull’attività edilizia ed urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario viene anche trasferito il potere di redigere e di approvare i piani territoriali paesistici previsti dalla legge per la tutela delle bellezze naturali del 1939.

Agli organi centrali dello Stato è riservata la funzione di “indirizzo e coordinamento” delle attività amministrative regionali “che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”. Allo Stato sono riservate inoltre le competenze relative alla rete autostradale; alle costruzioni ferroviarie, ai porti, alle opere idrauliche e di navigazione interna di maggiore importanza; all’edilizia statale, demaniale e universitaria, ecc.

Al trasferimento delle materie stabilite dall’articolo 117 della Costituzione si affianca la delega delle “funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l’esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate”. Viene istituita una commissione (presieduta da Massimo Severo Giannini) le cui proposte forniscono la base al decreto del presidente della repubblica n. 616 del luglio 1977, che chiude quasi un decennio di dibattiti e di produzione legislativa circa l’ordinamento regionale.

Secondo il decreto 616/1977, l’urbanistica è “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente”: tutto ciò è di competenza regionale. Allo Stato resta affidata la “identificazione, nell’esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento [...], delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”. Si tratta però, di funzioni non precisamente determinate, di cui non si prescrivevano modalità, tempi e procedure di esercizio.

La “linea dei sistemi urbani”

L’approvazione della legge per la casa avrebbe dovuto rappresentare, come abbiamo già detto, l’avvio di un profondo rinnovamento nell’organizzazione pubblica dell’edilizia. Il governo di centro-destra che si costituisce nel giugno del 1972 (cosiddetto governo Andreotti-Malagodi) insedia invece una commissione con il dichiarato intento di fare marcia indietro rispetto alla legge di riforma approvata nel novembre precedente. Parallelamente a questa iniziativa istituzionale si sviluppano una serie di operazioni che nascono dal mondo della produzione: si tratta di quella che in quegli anni fu definita la “linea dei sistemi urbani”. Si tratta di un disegno che ha origine nel settore delle partecipazioni statali, dove la ricerca di nuove fonti di profitto e di rendita si salda con una più ampia trama politica che mira all’affermazione di un complesso modello di sviluppo fondato sulla “efficienza”, che dovrebbe essere garantita da un sistema di formazione delle decisioni accentrato in “agenzie” ovvero “amministrazioni funzionali” inevitabilmente estraneo, o meglio antagonista, rispetto agli organismi elettivi degli enti locali.

Una prima manifestazione della linea dei sistemi urbani si era avuta nella primavera del 1969 con l’iniziativa di un consorzio che raggruppava Iri, Impresit-Fiat, Bonifica ed altri, il quale proponeva di costruire la “nuova città nolana”: un insediamento di 100 mila abitanti, alle porte di Napoli. Da allora si susseguono le proposte di affidare alle imprese a partecipazione statale funzioni che fino ad allora erano di stretta ed esclusiva competenza dello Stato e degli enti locali. Si propone di affidare all’Iri il potenziamento dei porti, la costruzione dei nuovi aeroporti, dei nuovi centri universitari, delle infrastrutture urbane, metropolitane e territoriali.

Il riconoscimento ufficiale dell’interesse di aziende del sistema delle partecipazioni statali a gestire in prima persona il settore dell’edilizia e dell’urbanistica appare durante l’iter di formazione della legge sulla casa, quando l’allora presidente del Consiglio Emilio Colombo propose di superare la crisi del settore mediante la realizzazione di “sistemi urbani integrati”, che non sono mai stati definiti chiaramente, ma che avrebbero dovuto essere una specie di città nuove all’italiana, realizzate da enti pubblici e privati e da aziende a partecipazione statale.

In prima linea nella denuncia dei rischi insiti nelle manovre del governo e delle partecipazioni statali è l’Inu.

“Quale autonomia potranno avere le regioni nella predisposizione o nell’attuazione di una politica della casa e del territorio? Quale potere di pianificare lo sviluppo della città potrà rimanere agli enti locali? Il nuovo “cartello”, verticisticamente organizzato e sottoposto all’unico controllo di un organo dell’esecutivo (il Cipe?, non potrà non schiacciare il tessuto democratico delle autonomie locali (ancora stentato e precario) in nome delle esigenze dell’efficienza. E infatti evidente che nelle attuali condizioni solo particolari ed ingiustificabili privilegi potrebbero consentire funzionalità ed efficienza ai nuovi enti, e questi privilegi non potranno che essere pagati in termini di delega ad essi delle funzioni sociali e democratiche della collettività “ [ix].

L’approvazione della legge per la casa non sconfigge la linea dei sistemi urbani. Sembra anzi che le più potenti centrali del capitalismo italiano si siano preparate da tempo per gestire in proprio la nuova legge. Già sul finire del 1971 la Fondazione Agnelli propone un modello di programmazione dell’edilizia sul quale tenta (senza peraltro riuscirvi) di ottenere l’adesione delle regioni e dei sindacati. Subito dopo è l’Isvet (un istituto di ricerche dell’Eni) a muoversi sulla stessa strada e con proposte quasi identiche.

La linea dei sistemi urbani, il fascino dell’efficienza, il pretesto dell’ecologia riescono a raccogliere l’adesione di settori sempre più consistenti del mondo progressista (specialmente nel sindacato e nelle organizzazioni cooperative). La schiera degli oppositori è sempre più esigua ed isolata, fino a quando la crisi energetica conseguente alla guerra araboisraeliana del 1973 mette in crisi i presupposti essenziali delle manovre eversive di cui si è detto. Il repentino tramonto del modello di sviluppo basato sull’energia a basso costo rende di fatto insostenibile ogni ragionamento fondato sulle “magnifiche sorti e progressive” di uno sviluppo economico illimitato. Comincia la stagione delle vacche magre, delle risorse scarse. Ma è anche una stagione non arida di risultati. Enrico Berlinguer avvia la riflessione sull’austerità. Sono gli anni della solidarietà nazionale, in cui le forze che avevano condotto alla formazione della Repubblica e al varo della sua Costituzione sembrano trovare le ragioni profonde di una nuova intesa. Il completamento del processo di riforma avviato con la legge 167 del 1962 sembra un obiettivo possibile. Si riesce infatti ad ottenere l’approvazione di tre leggi importanti: quella sul regime dei suoli, quella per le procedure ed il finanziamento pluriennale dell’edilizia pubblica (cosiddetto “piano decennale”) e, soprattutto, quella che istituisce l’equo canone.

La legge Bucalossi sul regime dei suoli

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero senza che fosse assunta alcuna concreta iniziativa e si fu così costretti, nell’ultimo giorno utile, ad approvare un’altra proroga biennale. Nel novembre 1975 ancora un rinvio di un anno. Questa volta è però accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente, dopo un’ultima proroga di tre mesi, è approvato nel gennaio 1977. È la legge 28 gennaio 1977, n. 10, più nota come legge Bucalossi, dal nome del Ministro repubblicano per i lavori pubblici che ne fu l’autore.

Alla base della legge c’è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà. In verità, sullo “scorporo” del diritto di edificare dal diritto di proprietà la Dc non dà mai un’adesione convinta. L’intesa fra i partiti di governo si realizza soprattutto grazie all’impegno di Pietro Bucalossi che minaccia le dimissioni (e quindi la crisi di governo) in caso di mancata approvazione del disegno di legge. Il principio della separazione viene però affermato

“in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile al partito della proprietà, se è vero che qualche esponente della proprietà edilizia che aveva prima parlato “di una vera confisca (sic), giustificata dal troppo evidente inganno che la proprietà rimane nella titolarità dei proprietari”, dopo l’approvazione del consiglio dei ministri, afferma - peraltro con la medesima superficialità del primo giudizio - che “la legge non esprime più l’adozione di quel principio sovversivo” [x].

Il disegno di legge Bucalossi è approvato dal Consiglio dei ministri il 29 novembre 1975 e presentato al Parlamento 1’11 dicembre. Gli elementi portanti della riforma sono l’istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell’edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.

Il regime di concessione onerosa ha come presupposto la riserva pubblica del diritto di edificare. L’ente pubblico assente la concessione di questo diritto al proprietario dell’area, ovvero a chi ne ha la legittima disponibilità, per l’edificazione di opere conformi agli strumenti urbanistici. La concessione non incide sulla proprietà - che resta privata - dell’immobile realizzato. L’onerosità della concessione è parziale, nel senso che il contributo di concessione non costituisce il corrispettivo dell’intero plusvalore dell’area. Il contributo è infatti formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.

Il convenzionamento dell’edilizia abitativa dovrebbe essere uno dei punti qualificanti della legge. Esonerando l’edilizia convenzionata dagli oneri di concessione si possono favorire gli imprenditori disposti a concordare con il comune i prezzi di vendita ed i canoni di locazione degli alloggi da destinare alle categorie meno abbienti, e quindi esercitare consensualmente un controllo del mercato delle locazioni.

Il programma poliennale di attuazione degli strumenti urbanistici serve ad evitare una delle più macroscopiche distorsioni che hanno accompagnato la crescita delle città, e cioè la contemporanea diffusione dell’attività edilizia in tutte le direzioni possibili e senza alcuna correlazione con gli interventi volti alla realizzazione delle infrastrutture e attrezzature. In tal modo i comuni sono stati costretti ad inseguire la disordinata diffusione delle iniziative private, sostenendo ingenti spese per la costruzione delle reti di urbanizzazione e per assicurare i minimi servizi (si pensi ai trasporti). Il programma poliennale di attuazione consente invece ai comuni di definire quali delle opere previste dal piano regolatore si possono realizzare in un determinato periodo, organizzando per tempo, ed in rapporto alle proprie disponibilità finanziarie, gli interventi pubblici necessari.

La nuova normativa contro l’abusivismo, fenomeno già allora in forte espansione, prevede, nei casi di maggior gravità, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera abusiva. La demolizione resta l’unica sanzione quando l’abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il fatto che l’acquisizione al patrimonio comunale non sia una facoltà ma un atto dovuto per il comune sembra il deterrente decisivo. Ma, come vedremo, l’abusivismo esploderà più violento di prima.

Il dibattito in parlamento rinfocola i contrasti. Il disegno di legge è in parte migliorato. Non vengono invece chiariti i nodi relativi al regime di proprietà delle aree edificabili.

“La mancata esplicitazione del principio della separazione costituisce un grave errore - anche politico - perché le riforme non si fanno con le riserve mentali (se c’è separazione, come c’è, non si vede per quale motivo non Si debba dirlo chiaramente), perché non ci può essere confusione su un principio che costituisce il presupposto del regime concessori (senza la separazione, infatti, la concessione si ridurrebbe ad un fatto meramente nominalistico), perché infine si potrebbe rischiare di incorrere in una nuova declaratoria di incostituzionalità (la logica della sentenza n. 55, è bene ricordarlo, è stata ribadita dalla Corte in una recente pronuncia)” [xi].

Facile profezia. Nel gennaio 1980, a tre anni dalla Bucalossi, la Corte costituzionale si pronuncerà ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica.

Nuove esigenze nella politica della casa

Nonostante le riforme legislative operate dal 1962 la questione della casa era ben lontana dall’esser risolta. Il settore era, nel suo complesso, estremamente articolato e ricco di sperequazioni e differenze quasi patologiche. Dal punto di vista degli utenti, si potevano distinguere cinque grandi segmenti dello stock di abitazioni:

1. gli alloggi abitati direttamente dei proprietari, di cui la politica centrista aveva continuamente aumentato il numero portandolo a livelli sconosciuti negli altri paesi europei,

2. gli alloggi privati condotti in affitto libero, che pagavano prezzi crescenti,

3. gli alloggi privati condotti a fitto “bloccato”, cioè ancorato al valore originario senza tener conto dell’aumento dell’inflazione, per effetto di una serie di leggi che, a partire dagli anni della guerra, avevano teso a proteggere gli inquilini dei ceti meno abbienti dai notevoli aumenti dei prezzi,

4. gli alloggi privati realizzati in aree Peep, preventivamente espropriate e assegnati a fitti convenzionati,

5. gli alloggi di proprietà pubblica, assegnati a canone “sociale”.

Gli inconvenienti di questa situazione erano notevoli: sperequazioni tra proprietari a fitto bloccato e altri proprietari, liberi di affittare a qualsiasi prezzo; sperequazioni tra inquilini, alcuni privilegiati dal livello irrisorio dei fitti (quelli bloccati e quelli sociali); rigidità del “mercato” e impossibilità di accedervi da parte delle giovani coppie; eccesso di alloggi nelle zone dell’esodo e carenze nelle zone d’immigrazione.

Particolarmente pesante era la situazione determinata dal blocco dei fitti. Questo era nato nel 1920, quando nei maggiori comuni erano stati istituiti i commissariati del governo per gli alloggi, con il compito di regolare in via provvisoria gli aumenti connessi alla proroga del blocco dei fitti e di determinare il canone più giusto nei casi controversi. Da allora si è andati avanti alternando il blocco con parziali liberalizzazioni: dal 1945 al 1978 si sono succedute ben quarantaquattro proroghe del blocco. La Corte costituzionale, nel gennaio 1976, ammonisce i pubblici poteri: un regime di blocco che può considerarsi legittimo solo in momenti eccezionali e con caratteri di “temporaneità” e di “straordinarietà”. Dopo la pronuncia della Corte si è perciò costretti a porre mano concretamente alla legge di regolamentazione degli affitti.

D’altra parte, lo stesso contenimento dei prezzi operato nelle aree Peep (per effetto della decurtazione iniziale della rendita fondiaria e del controllo sul prezzo finale operato con il convenzionamento) veniva vanificato dalla “concorrenza” provocata da un “mercato libero”, libero di spingere all’insù i prezzi degli alloggi. Né era possibile limitarsi a “sbloccare” la parte vincolata dello stock privato, ciò che avrebbe provocato tensioni sociali insostenibili.

Per affrontare risolutivamente la questione abitativa non bastava quindi più limitarsi a costruire abitazioni economiche per le fasce più disagiate, ne limitare l’intervento pubblico alla costruzione di nuove case. Del resto, in quegli anni erano emerse due consapevolezze nuove: da un lato, il fatto che l’età dell’espansione continua e indefinita era terminata, che “più case si fanno più ce ne vogliono”, e che non si poteva proseguire con “lo spreco edilizio” [xii]; dall’altra parte, il fatto che l’esigenza di disporre di un alloggio ad un prezzo commisurato al reddito e alla conseguente capacità di spesa era un “diritto sociale”, che doveva essere garantito a tutti.

Appariva infine palesemente errato proseguire con la tendenza di promuovere la proprietà diretta della casa: era un obiettivo ormai in contrasto con il trasformarsi dell’Italia in un’economia industriale matura, nella quale la mobilità della forza lavoro (da settore a settore e da luogo a luogo) diventava un’esigenza dello stesso sistema economico: è evidente che la carenza di case offerte in affitto a prezzi ragionevoli costituiva un ostacolo fortissimo alla mobilità sul territorio.

Ecco le ragioni per cui maturò la necessità di affrontare la questione abitativa nell’insieme dello stock edilizio, superando il blocco di una parte dello stock con una politica di “prezzi amministrati”: l’equo canone.

L’equo canone

Anche la vicenda della formazione della legge per l’equo canone è quella di una profonda interrelazione tra proposte del governo, lavoro parlamentare, confronto con le forze. Il primo disegno di legge governativo viene reso noto nella primavera del 1976. Le forse politiche e le parti sociali avanzano a loro volta proposte. Il dibattito parlamentare procede faticosamente per diciotto mesi, soprattutto sugli aspetti normativi. La legge finalmente approvata a larghissima maggioranza (29 luglio 1978, n. 392, “Disciplina delle locazioni degli immobili urbani”) è una legge oscura, ottantaquattro articoli densi di errori e di difficoltà interpretative.

Sulla base di una proposta del sindacato degli edili (che a sua volta riprende una proposta avanzata dall’Inu) si manifesta la linea di soluzione che verrà poi approvata. Si tratta di definire l’equo canone come una percentuale del valore locativo dell’immobile. Il valore locativo il prodotto della superficie convenzionale per il costo unitario di produzione. La superficie convenzionale è, più o meno, la superficie netta dell’alloggio. Il costo unitario di produzione è invece un costo base (250 mila lire a mq per il centronord e [1] 225 mila per il Mezzogiorno) moltiplicato per alcuni coefficienti correttivi (tipologia catastale, classe demografica dei comuni, ubicazione dell’immobile nel territorio comunale, stato di conservazione e manutenzione, ecc.) i cui valori numerici variano (nel disegno di legge) da 0,6 a 1,6. La prevalenza di valori inferiori o superiori all’unità determina, almeno da un punto di vista teorico, un campo di variabilità abbastanza ampio.

La legge per l’equo canone è stata spesso criticata, e infine dissolta. E’ necessario precisare che le colpe maggiori non sono della legge, quanto della sua mancata gestione.

[1]

[i]V. De Lucia, op. cit., p.93

[ii]Ivi, p. 94.

[iii] C. De Seta, La politica stradale dalla ricostruzione al miracolo economico, in “Il Ponte”, aprile 1969.

[iv] Ivi, p. 95.

[v] Ivi, p. 97.

[vi] Ivi, p. 104

[vii] Ministero del Bilancio e della programmazione economica, Progetto 80; rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-75, Libreria Feltrinelli, 19692.

[viii] Centro di studi e piani economici, Le proiezioni territoriali del Progetto ‘80, Roma 1971.

[ix] Inu, Documento sulla politica della casa, Inu, Roma 1970.

[x] M. Martuscelli, nell’introduzione a: F. Bottino, V. Brunetti, Il nuovo regime dei suoli, Edizioni per le autonomie, Roma 1977, p. 20.

[xi] Ivi, p 27.

[xii]Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Padova 1972. È una importante raccolta di testi sulla situazione della residenza in Italia negli anni di cui ci occupiamo. Cfr. anche: M. Marcelloni e G. Ferracuti, La casa: Mercato, Programmazione, Einaudi, Milano 1982

I tre ultimi capitoli sono costituiti da un notevole ampliamento dei contenuti del precedente decimo capitolo, che è stato integrato soprattutto con alcune informazioni e valutazioni a proposito della legislazione urbanistica delle regioni, e con qualche riflessione su argomenti all’ordine del giorno del dibattito urbanistico (come la governance e, più in generale, i rapporti tra pubblico e privato), oppure riproposti nelle pratiche di pianificazione degli ultimi anni (come la questione dei “vincoli urbanistici”). Infine, qualche ulteriore riflessione sulla figura e il ruolo dell’urbanista è stata occasionata da alcune ricerche che ho avuto modo di seguire nell’ambito della facoltà di Pianificazione del territorio e del dipartimento di Pianificazione dell’IUAV. Questo il sommario degli ultimo tre capitoli. L’indice completo lo trovate qui.

X. Un nuovo contesto

La pianificazione all’inizio del nuovo secolo: Cambiamenti della società, trasformazioni del territorio - La città: la scimmiotto e la svuoto - La risposta delle istituzioni - Liquidata la politica della casa - Italia S.p.A. - Serve ancora la pianificazione?

Valori e obiettivi per la pianificazione: I valori della collettività - L’uovo o la gallina - La democrazia è sostenibile? - La storia e la natura - Pianificare la conservazione - Il «sistema delle qualità»

I limiti della pianificazione tradizionale: Il piano criticato - Tre versanti critici - Il modello milanese - Un’altra «terza via»

XI. Una nuova pianificazione: dai principi alle leggi regionali

Dal «piano» alla pianificazione: Una definizione della pianificazione - Gli obiettivi della pianificazione - La coerenza nello spazio e nel tempo - Una sintesi tra flessibilità e coerenza

Un nuovo meccanismo di pianificazione: Scelte strutturali e scelte programmatiche - Un nuovo rapporto tra «piano» e tempo - Due condizioni irrinunciabili - Il nuovo meccanismo nelle legislazioni regionali

I livelli della pianificazione: Il «principio di pianificazione» - Il principio di sussidiarietà - Dall’approvazione alla verifica di conformità

Pianificazione ordinaria e pianificazione specialistica: Troppi piani? - Piani diversi, per esigenze diverse - I piani per il paesaggio, la difesa del suolo, le aree protette

L’ambiente nella pianificazione: qualche passo avanti: Le condizioni alle trasformazioni - L’ambiente nelle legislazioni regionali - Le azioni per la tutela e la valorizzazione

«Governance»: significato e limiti d’un termine nuovo: La «governance», come nasce - Non è vero che tutti gli attori sono uguali - Gli interessi privati - Governare la «governance» - E la partecipazione?

XII. Requiem per la «riforma urbanistica»?

Tentativi a Roma, nuove leggi altrove: Le proposte ci sono - La 1150 era una buona legge - La «mannaia» della Corte costituzionale

La questione dei «vincoli urbanistici»: Una distinzione preliminare - Le sentenze costituzionali - Chi pone i vincoli ricognitivi? - I vincoli «urbanistici»: è incostituzionale non indennizzarli se sono «espropriativi» - Ma non è sempre illegittimo reiterare i vincoli urbanistici - Può il prg eliminare senza danni l’edificabilità di un’area? - Il diritto non richiede di «compensare» o «perequare»

Per concludere: Pianificare si può - La questione del consenso - La politica - Gli urbanisti - La stella polare

Edoardo Salzano, docente emerito di fondamenti di urbanistica allo IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia), figura storica di questa disciplina in Italia, è stato anche presidente dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) ed è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali va ricordato almeno “Fondamenti di urbanistica” (Laterza, 1998).

Ha redatto numerosi piani regolatori comunali in varie parti d’Italia ed ha creato, tra l’altro, il sito www.eddyburg.it, sul quale compaiono scritti di numerosissimi autori sulla politica, la società, e (ovviamente) l’urbanistica, ma anche su “ciò che rende bella, interessante e piacevole la vita”, ricette comprese. Di certo, un sito straordinariamente ricco di materiali, documenti (anche rari), interventi e notizie per chi si interessa dei temi attinenti la gestione del territorio.

La presentazione dell’autore è importante, per introdurre un libro come “Ma dove vivi? La città raccontata”. Si tratta infatti di una sorta di storia della città (di tutte le città, specie quelle europee), narrata dal punto di vista di chi cerca di individuare i modi per risolverne i tanti problemi, pur consapevole dell’enormità e della difficoltà dell’impresa.

Ecco quindi apparire subito la centralità della questione del regime dei suoli e della proprietà di questi – qui Salzano si rifà alle analisi di Hans Bernoulli – con il ruolo determinante della rendita immobiliare (”attività” intrinsecamente parassitaria) nel determinare storicamente le dinamiche della trasformazione urbana nell’età moderna, ma anche nel provocare la crisi delle città e lo stravolgimento del territorio circostante. Fenomeno particolarmente accentuato in Italia, come anche le cronache triestine degli ultimi tempi non mancano di sottolineare.

Derivano da ciò, ad esempio, la dispersione degli insediamenti di ogni tipo (villette, capannoni industriali-artigianali-commerciali, infrastrutture di ogni tipo, ecc.) nelle campagne, che ormai rendono irriconoscibile quella che una volta era la pianura padano-veneta. Per tacere degli ignominiosi scempi compiuti lungo le coste del (ormai ex?) “Belpaese”.

Alla crisi della città, manifestatasi già agli inizi del XIX secolo, si cercò di dare risposta con l’urbanistica, cioè con la ripresa del controllo da parte dell’autorità pubblica, sulle trasformazioni urbane. Dal primo piano regolatore dell’età moderna (New Kork, 1811), a quello “poliziesco” del barone Haussmann per la Parigi del secondo impero, via via fino ai giorni nostri, comincia quindi la cavalcata di Salzano tra le norme, i principi e gli elementi costitutivi di uno strumento urbanistico, spiegati in modo chiaro e semplice, senza inutili tecnicismi e quindi accessibile a tutti. Nulla a che fare, insomma, con l’astruso gergo “urbanistichese” di tanti addetti ai lavori….

Scorrono così le vicende della legge urbanistica italiana del 1942, la “ricostruzione” (che ha significato spesso distruzione) postbellica, e il tentativo fallito di riforma urbanistica del ministro Sullo nel 1963. Fino ai giorni nostri, con le scorribande degli “immobiliaristi”, la commistione tra interessi speculativi e politici, Tangentopoli e l’urbanistica contrattata, la legge “Lupi” fortunatamente accantonata e le sfide del futuro.

Rispetto a queste ultime, l’autore indica alcune fondamentali linee-guida: la città e le sue parti da considerare come beni comuni e non merci, la necessità di una pianificazione unitaria dell’organismo-città, la centralità degli aspetti ambientali, lo sforzo per la riduzione della mobilità meccanizzata, la necessità di stimolare la partecipazione dei cittadini fin dalle prime fasi della progettazione urbanistica, il ruolo imprescindibile dei poteri pubblici nelle decisioni, e altro ancora.

Completano il libro un utile glossario, una bibliografia essenziale ed un’antologia di testi (la Lucrezio a Engels, da Matilde Serao ad Antonio Cederna) che in epoche diverse e da diversi punti di vista hanno affrontato gli stessi argomenti trattati da Salzano.

A tutti coloro che soffrono la fatica di vivere in città caotiche, sovraffollate, inquinate, inefficienti (che sono tantissimi). E a coloro (tanti anche questi) che invano cercano un alloggio accessibile mentre esistono grandi quantità di edifici interamente inabitati. E a quanti (sempre molti) vorrebbero luoghi di naturale incontro e socializzazione con il loro prossimo e non ne trovano. E a quelli (non pochi) che si domandano come sia possibile che antichi centri urbani di straordinaria bellezza vengano soffocati e stravolti dal cemento dilagante. E anche a quelli (pochi ma incavolatissimi) che si indignano di fronte alla quasi certa impunità per qualsiasi abuso edilizio. A tutti costoro va sentitamente consigliata la lettura di un assai pregevole libretto appena edito da Corte del Fontego, il quale in poco più di cento pagine indica e illustra cause e vicende che hanno condotto il nostro paese a questa deplorevole situazione.

Ma dove vivi?(pp. 136, euro 14,90) è, appunto, il titolo. La città raccontata il sottotitolo. L'autore è Edoardo Salzano, urbanista noto non solo per numerosi libri, saggi e articoli, ma anche per le tante battaglie che ha condotto e conduce: da docente universitario, da consulente e partecipe alla definizione di piani regolatori, e come titolare e conduttore di «eddyburg», un sito web aperto da parecchi anni, che riesce a essere puntualmente e tenacemente, oltre che sapientemente, impegnato in tutte le cause legate al tremendo guasto urbanistico d'Italia, ma anche attento giono dopo giorno all'intero panorama delle vicende politiche e culturali che del guasto, non soltanto urbanistico, sono responsabili.

Parte da lontano, questa «città raccontata». Addirittura dai primi aggregati stanziali umani, cioè dal momento in cui i nostri lontani progenitori «inventano» il villaggio, antefatto della città. La quale nasce e si organizza per la soddisfazione di esigenze che riguardano l'intero gruppo, cioè nel segno della collettività, della reciprocità, della socialità; e anche in seguito, nella sua evoluzione economica demografica architettonica, continua a essere l'espressione più significativa della società cui appartiene. In pratica è la storia intera ricostruita in queste pagine, attraverso la descrizione di piccoli antichissimi centri abitati, cresciuti spontaneamente come alberi, oppure di imponenti moderni complessi architettonici, e di vasti spazi via via organizzati secondo fermi criteri e precise normative.

Città che spesso parlano di rapporti duramente diseguali, e che però tra la cattedrale, il palazzo comunale o il castello signorile e l'intrico di abitazioni modeste o poverissime, non mancano mai di uno spazio - la piazza centrale di solito - dedicato ai rapporti personali, alla vita comunitaria. Città che si dilatano nel tempo, con l'aumento della popolazione, della produzione, dei traffici; che vedono le fabbriche sostituire via via l'antico artigianato; che poco a poco invadono il territorio circostante, a tratti fino a cancellare la campagna. Che però fino a qualche decennio fa continuavano a offrire luoghi in cui riconoscersi e comunicare, a consentire quel senso di appartenenza che garantisce sicurezza, certezza della «città come bene comune».

Tutto ciò oggi è finito, ridotta la città a «mero agglomerato di merci e di gente». Questa vicenda Salzano la percorre da esperto conoscitore della materia e ne indica le cause: la scomparsa della proprietà indivisa dei suoli, la rivoluzione borghese, l'industrializzazione intensiva del mondo, la guerra seguita da una «ricostruzione distruttiva», la crisi di viabilità connessa al dominio indiscusso della motorizzazione privata; e anche i tentativi di risposta alla crisi, posti in essere mediante pianificazione urbanistica e territoriale, obbligo di «piani regolatori», tutte cose che all'estero, in particolare in diversi paesi europei, hanno avuto anche apprezzabili risultati.

Ma in Italia, dopo vari quanto inutili tentativi di arrestare il degrado, le cose sono andate senza sosta peggiorando, fino ai «terribili anni Novanta», nei quali l'autore indica il momento di più forsennato assalto al «bel paese» da parte della speculazione immobiliare, nel silenzio spesso omertoso delle amministrazioni locali e la generale «disattenzione» politica, anche delle sinistre. Il tutto aggravato da nuovi tremendi problemi: le sempre più numerose e folte migrazioni, cospicuo contributo all'aumento esplosivo della popolazione urbana di tutto il mondo; l'aumento continuo e continuamente sollecitato dei consumi, che tra l'altro rende ormai ingestibile il problema dei rifiuti; la minaccia sempre più evidente, e da nessuno infatti più negata, della crisi ecologica planetaria. Il tutto d'altronde rapportabile a quello che è stato efficacemente definito «l'immaginario capitalistico dell'illimitato».

Il libro è inoltre corredato da una serie di informazioni e dati tecnici, riguardanti i contenuti e le regole di un piano urbanistico, la produzione legislativa italiana e straniera in materia, i tentativi italiani di riforma e i relativi fallimenti. E anche da una piccola ma significativa antologia, una bibliografia ragionata, un glossario, e una serie di affascinanti illustrazioni. Quanto basta a farne anche un utile strumento didattico. Non sarebbe male se i nostri svagatissimi giovani venissero informati di queste cose e fossero sollecitati a rifletterci su.

Nota: altri commenti su questa stessa cartella Recensioni e Segnalazioni (f.b.)

Edoardo Salzano, per noi, è sempre “il professore”. Non perchè abbia insegnato ai gruppi dirigenti di mezzo Pci l’abc dell’urbanistica e tanto meno perchè in lui ci sia il benché minimo atteggiamento professorale, ma proprio per la sua chiarezza espositiva, rigore disciplinare e, appunto, amore per la didattica. Per rendersene conto basta entrare in eddyburg.it , diventato uno dei siti di attualità urbanistica più aggiornati e visitati. Ora Eddy ci regala un piccolo gioiello: Ma dove vai? La città raccontata, Corte del Fontego, Venezia 2007, pp.118, euro 14,90, con annessa piccola bibliografia ragionata, glossario e una gustosa antologia di quasi aforismi di Lucrezio, Engels, il capo pellirossa di Seattle, Calvino e altri. Un compendio di storia dell’urbanistica – meglio, sulle “ragioni dell’urbanistica” - di immediata comprensione, rivolto a un pubblico non necessariamente esperto. Anzi, pensato proprio per i giovani, poiché all’autore “piacerebbe che (l’urbanistica) si insegnasse dalle scuole elementari”.

Dopo una vita lavorativa come docente all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, nella cattedra che fu di Astengo, autore di Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma (1998), intransigente osservatore di ogni operazione di trasformazione territoriale avvenuta nel nostro paese, per Salzano è naturale sentire il bisogno di ribadire ad un pubblico più vasto possibile la necessità della pianificazione urbana. Nonostante le pessime prove che la città ha subito dall’avvento del neoliberismo, dall’affermazione del capitale finanziario e dalla globalizzazione, per Salzano continua ad essere la “casa della società”. E’ nata con la missione di facilitare ed elevare la vita degli uomini e dovrebbe continuare a corrispondervi. Ma se la città è la nostra “seconda natura”, la materializzazione delle nostre scelte culturali, allora è impossibile separare la sua scienza (l’urbanistica) da quella del governo dei beni pubblici: la politica. “Nella sua sostanza il piano è l’espressione d’una volontà collettiva, quindi politica” (p.41). Così: “L’urbanistica è una parte della politica”, ed infatti – ricorda l’autore - hanno la stessa radice nelle nostre due lingue antiche: urbs e polis significano entrambe città. Il titolo (“Ma dove vivi?”) è un invito a prendere concretamente, individualmente coscienza delle ragioni che hanno determinato i diversi assetti territoriali nella storia delle popolazioni insediate e un invito a partecipare attivamente alle decisioni che investono il territorio.

Il libro è la descrizione della parabola dell’urbanistica nel nostro paese, dalle grandi speranze degli anni ’60, alla deregulation iniziata negli anni ’80; dai tentativi di riforma di Fiorentino Sullo, all’”urbanistica contrattata”; dall’idea di piano, agli immobiliaristi. Gli effetti catastrofici sono quotidianamente di fronte ai nostri occhi, e non solo in termini estetici. Lo spawl (leggo nel glossario: “letteralmente: sdraiarsi sguaiatamente”) urbano è anche inquinamento, congestione, segregazione… Nelle sua espansione senza pianificazione, la città esplode, mentre: “L’extraurbano è diventato terra di nessuno: luogo di attesa per l’ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell’urbano, luogo dlele discariche, dell’esportazione degli scarti urbani, residuo esso stesso” (p.26). Vivere nelle moderne megalopoli aumenta le sofferenze. L’utopia fondativa della città dell’armonia, del benessere, della democrazia si è rovesciata nel suo contrario. Mi viene in mente Mike Davis Il pianeta degli slum. Ma Eddy non dispera, per lui sono così evidenti i vantaggi che si avrebbero riprendendo in mano la vecchia disciplina, che pare impossibile non tornare a quella “pratica di governo, quell’insieme di regole, strumenti e procedimenti con cui una comunità regola le trasformazioni fisiche e funzionali del suo territorio” (p.82). La città come “bene comune”, liberata dalla rendita fondiaria urbana, riaffidata a processi decisionali pubblici. Chissà se davvero qualche professore di scuola media vorrà adottare il testo di Salzano e chissà se qualche nostro sindaco e ministro vorrà tornare sui banchi di scuola.

Il volume non poteva essere dedicato che a Gigi Scano, recentemente scomparso, che in Eddy aveva trovato un maestro, un amico e un compagno di mille battaglie.

Sono passati quarant’anni da quando ho conosciuto Edoardo Salzano, per tutti Eddy. Allora era consigliere comunale a Roma, eletto da indipendente nelle liste del Pci, e frequentava la direzione generale dell’urbanistica del ministero dei Lavori pubblici, dove io lavoravo. La direzione era governata con pugno di ferro da Michele Martuscelli, l’uomo di Agrigento, l’autore della famosa inchiesta sulla frana che nel 1966 aveva devastato la città dei templi. L’inchiesta aveva svelato senza reticenze la ragnatela di interessi e di delitti che avvolgeva le vicende urbanistiche non solo di Agrigento, ma di tutte le città italiane, con pochissime eccezioni. Suscitò uno scandalo enorme che per mesi occupò le cronache dei giornali e fu grazie a quello scandalo che il ministro, il socialista Giacomo Mancini, riuscì a far approvare l’unica legge urbanistica dell’Italia repubblicana che abbia rafforzato il potere pubblico e assicurato un po’ d’ordine nella frenesia dell’attività edilizia di allora (non tanto diversa da quella di oggi). Martuscelli era un personaggio rigoroso ed efficiente, ma dal carattere impossibile, incontentabile, severo e sprezzante nei giudizi. Mi stupì e m’incuriosì che solo del giovanissimo Salzano parlasse sempre bene, ne aveva grande stima. “Eddy è un cervello – diceva – uno dei pochi fra gli urbanisti italiani”.

Un altro straordinario riconoscimento a Salzano venne da Giuliano Prasca, bella persona, ex pugile, dirigente dell’Unione italiana sport popolari di Roma e giornalista sportivo che attraverso lo sport educava i giovani alla vita civile e democratica. Con l’Uisp, l’Arci, l’Udi, eravamo impegnati a definire e sviluppare sotto varie forme la “partecipazione dal basso”, strumento che ci pareva indispensabile per guadagnare scelte ampiamente condivise e lungimiranti nel governo del territorio. Giuliano Prasca dichiarò e scrisse più volte che Salzano gli aveva insegnato a “dare del tu al territorio”. Un’espressione che sintetizza bene l’insieme delle esperienze di vita e di lavoro di Eddy. E’ stato consigliere comunale a Roma, assessore all’urbanistica a Venezia, consigliere regionale del Veneto; docente universitario all’Iuav e preside del corso di laurea in urbanistica; presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (che dopo di lui è precipitato nel pozzo senza fondo del revisionismo, fino a trovarsi a fianco di Berlusconi), fondatore e per venti anni direttore della rivista “Urbanistica informazioni”; pubblicista, autore di centinaia di saggi su decine di riviste specializzate, scrittore di libri basilari (Urbanistica e società opulenta, Fondamenti di urbanistica)che hanno formato generazioni di urbanisti e di cittadini consapevoli.

Negli ultimi anni, la vita di Salzano coincide quasi con eddyburg, il suo sito che si occupa di “urbanistica, società, politica e di argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita”, al quale Salzano dedica ogni energia e al quale collaborano autorevoli studiosi, anche di altre discipline. In pochi anni è diventato il più accreditato riferimento (decine di migliaia di visitatori al mese) per chi pensa che il territorio non debba essere privatizzato; e sempre nuove iniziative editoriali, formative e di approfondimento gravitano intorno a eddyburg. Il sito interviene anche direttamente nello scontro politico, per esempio, nel 1995, quando ha duramente contestato il disegno di legge (cosiddetto Lupi) di riforma urbanistica della destra, contribuendo sicuramente a non farlo approvare alla scadenza della XIV legislatura e poi elaborando una propria proposta di legge che è alla base dei testi parlamentari di rifondazione comunista e degli altri schieramenti di sinistra, sui quali da qualche settimana è cominciata la discussione al Senato.

Il filo rosso che unisce la multiforme attività di Salzano sta proprio nel “dare del tu al territorio”, nell’assunzione dell’impegno politico e culturale come lavoro collettivo e rigorosamente organizzato. Soprattutto nel riconoscimento che il primato dell’interesse comune sull’interesse del singolo debba essere inteso come un vero e proprio principio della civiltà europea e della nostra storia. Tutto ciò sta in nuce in Ma dove vivi, un testo smilzo, però completo, corredato d’immagini efficaci, di un glossario, di una bibliografia essenziale, di un’antologia di testi che è indispensabile conoscere. Il libro parte dalla storia remota dell’insediamento umano, all’alba dell’uomo sulla Terra, e ne percorre le tappe fondamentali, raccontando storie splendide, come quella del primo piano regolatore, quello di New York del 1811. Fino alle cronache italiane più recenti, fino ai “terribili anni Novanta” e al “punto più basso” (i mesi nei quali si discuteva il disegno di legge Lupi), oggetto del terzo capitolo del libro. L’ultima parte è dedicata alle questioni di oggi, quelle nuove (l’ambiente, la sostenibilità, …), e quelle antiche mai risolte (la casa, la mobilità, …). L’obiettivo dichiarato è di raggiungere un pubblico largo e soprattutto giovane. E di riuscire a comprendere la natura delle città, le ragioni della loro crisi, gli strumenti disponibili per trasformarle.

Penso che il modo migliore per chiudere sia di utilizzare le parole con le quali Salzano conclude il suo libro: “Dove vivete? La speranza dell’autore è che quanto esposto in questo libro con un linguaggio che si è voluto rendere semplice, senza negare la complessità delle cose, vi aiuti a rispondere a questa domanda: E a diventare cittadini che agiscono con efficacia per migliorare il «bene comune» nel quale vivete e che anche a voi è affidato”.

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Edoardo Salzano, Ma dove vivi? La città raccontata, Corte del Fontego, Venezia, 2007, € 14,90

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