Premessa
Condivido il desiderio di fare chiarezza, in primo luogo sulle parole. D’accordo, quindi, a contrastare la temibile deriva che, mediante la progressiva scialbatura dei termini (nel senso proprio di “confini”, in questo caso dei significati), ne produce prima l’omologazione e poi il lento di-senso, talvolta semplicemente per caso, senza intenzionalità da parte di alcuno. Ma talaltra no: in quest’ultima circostanza sarei anche disposto a menare, se solo potessi identificare i responsabili.
Con questo animo, e giacché di glossario si deve trattare, propongo quattro lemmi (a-d) che cercano anche di rispondere alle sollecitazioni/domande sul modesto testo che ho inviato per la documentazione preparatoria. Trattano tutti, ovviamente, dello stretto ambito storico-archeologico, né potrei avventurarmi altrove, e sono rappresentati da parole singole o locuzioni ormai indissolubili, sui quali si è da tempo manifestato un qualche tipo di di-senso. Aggiungo un neologismo (e) che mi servirà per affrontare, a voce, un ragionamento più ampio.
Archeologia del paesaggio
Riassumo qui quanto scritto nel testo preparatorio perché la definizione precisa degli strumenti di indagine può tornare utile per inquadrare anche le relative visioni disciplinari. La grande fortuna della definizione landscape archaeology inizia già da quando il termine, in senso epistemologico, cavalcava e, ad un tempo, contribuiva a costruire il definitivo riconoscimento degli strumenti propri dell’Archeologia nel momento cruciale del suo affrancamento dalla Storia, in riferimento ad una archeologia che guardasse ai contesti (e non solo per distinguere le pratiche di ricerche condotte direttamente sul terreno ma senza il ricorso allo scavo). Nel testo preparatorio ho scritto che, guardando con attenzione ai termini che formano la definizione originaria nonché alla sua traduzione italiana, e confrontandoli con i risultati delle ricerche che vi afferiscono, occorre prendere atto che, in realtà, tali ricerche non si occupano - né pervengono alla ricostruzione - di “paesaggi”, semmai di “assetti territoriali antichi”. Perché una archeologia, o storia, del paesaggio, dovrebbe occuparsi della sequenza delle rappresentazioni culturali dello spazio vissuto, considerando nella sua dimensione diacronica anche lo sguardo delle compagini umane sui luoghi che hanno frequentato o abitato stabilmente. Una ricerca sulle antiche percezioni, dunque, imperniata sulle pratiche della sacralizzazione dello spazio, sulle sue descrizioni, sul discernimento, sulla razionalizzazione e sulle fobie, e non (o non solo) tesa esclusivamente alla ricostruzione dell’assetto insediamentale e del suo funzionamento economico in un momento dato (il “paesaggio” nuragico, romano, medievale…), scelto in base allo specifico indirizzamento tematico della ricerca (tradotto: in base alla formazione disciplinare del gruppo di ricerca); oppure, ma con senso corrispondente, a formare una sequenza di istantanee di alcuni di questi “momenti”, colti nel loro sviluppo e “scelti”, di solito, in funzione dell’indice più alto di attestazioni materiali sul terreno.
Sembra in fondo che, per chiarire l’oggetto specifico di questo tipo di ricerca, sia meno ambigua l’espressione braudeliana “Archeologia dello spazio”, che ha però avuto scarsa fortuna. E lo sarebbe soprattutto quella nostrana, “Topografia Antica”, se non pagasse un debito inestinguibile ad un pestifero provincialismo intellettuale. Detto questo, occorre però affermare con forza che, a prescindere dal nome che la identifica, è su questo tipo di analisi che si è basato il primo superamento dello stadio tassonomico della conoscenza archeologica territoriale, attraverso il quale si è entrati nello spazio delle relazioni (cfr. sotto s.v. “Contesto”) dei processi di formazione, sviluppo, dismissione dei “sistemi” urbani e territoriali.
Patrimonio (giacimento, bene, risorsa) culturale…
Il politicamente-corretto ha prodotto nel linguaggio quotidiano involucri ipocriti per parole vecchie ma oneste, che l’uso vernacolare aveva forse reso ruvide (…ma sei cieco?, sembri uno spazzino! non fare l’handicappato…) ma certo non insignificanti, producendo contestualmente l’ironico fiorire di caricature (a partire dal non-trombante monicelliano all’ultimo, geniale, diversamente bianco), che infine ci hanno portato a percepire queste ormai usuali perifrasi come più volgari e offensive degli originali. Ma ancor peggio sono i neologismi finalizzati alla persuasione, anche se coniati a fin di bene. Ad esempio, questa apprensiva attenzione nel sottolineare mediante le parole che i “beni” culturali sono, appunto, beni, non vi sembra voler coprire il fatto che non lo sono affatto o, almeno, non nel senso “produttivo” del termine? Sembra volerci convincere che un qualcosa che risorsa economica non è né vuole essere, lo sia e, ad un tempo, dell’urgenza che sia percepita come tale. Una sorta di giustificazione di tanta (troppa?) attenzione e troppo (sic!) denaro dedicati a cose che stanno lì e non producono e, anzi, talvolta impicciano. Come se, ad un certo punto, la naturalezza con la quale si diceva monumento, opera d’arte, bel paesaggio, la serena ammissione di un gradevole vizio con la quale si era affrontato a viso scoperto “il culto moderno del monumento”, fosse stata pervasa dal senso di colpa derivante da sindrome di improduttività industrial-turistico-commerciale, e costretta a cercarsi un alibi. Col rischio che il primo commercialista di passaggio la prendesse sul serio, quella perifrasi, ben pensando di venderseli, i giacimenti-beni-risorse. Per persuadere con le parole sarebbe assai meglio impegnarci tutti con qualcosa del tipo “eredità” culturale, che fa pur sempre riferimento ad un patrimonio, ma implicitamente indica anche una responsabilità per il futuro e l’impegno per meritarla. E tacitamente insinua l’incertezza di esserne i veri destinatari.
Conservazione/tutela
Il problema non è qui nella perdita di significato, o nel fraintendimento delle parole, ma nel fatto che, nell’uso quotidiano e soprattutto mediatico, siano ormai considerate sinonimi. L’affermazione, specie per gli addetti ai lavori, è ovvia, così come la differenza tra i due termini, ma una riflessione su di essi può rivelarsi utile. Si dirà: la tutela non può che mirare alla conservazione e dunque decidere di tutelare equivale a manifestare l’intento di conservare: la sinonimia è dunque ammissibile. Ma se il serbare originario vale il nostro conservare, il cum-serbare latino rafforza il senso di appartenenza, suggerendo una volontà di portare “con sé”, magari “per sempre”. Questa funzione si pone in evidente parallelo con lo scopo del “monumento” letto, ricordando prima Arnaldo Momigliano e poi Lucien Fevre, come “ammonimento”, cioè prodotto della storia - principalmente della storia fatta da e per i “potenti” della terra - che intende ammonire, per ricordare ma anche per spingere il consenso in una direzione predeterminata. Mentre la tutela, intesa come protezione, insegnamento, cura, ma anche come potestà e responsabilità, subito rimanda, specie nella percezione del quotidiano, a contesti educativi (il vecchio tutore, ma anche il tutore ortopedico): in altre parola da applicare a qualcosa che può, anzi deve, crescere, svilupparsi, modificarsi, oltre (e forse a prescindere da) l’atto tutelante. Nel conservare si nasconde l’intento di fissare qualcosa ad un punto dato per serbarne memoria, dalla scala del personale a quella globalizzata: conservare fa dunque parte del lato immobile delle culture, quello della tradizione e delle identità (cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma.-Bari 2006). Tutelare dissimula invece la possibilità - e la volontà - di un progetto di modifica, insito nel flusso di una vitalità incontenibile anche se, come nel nostro caso, legata a qualcosa che vivo non è più. Insomma: attenzione alla sinonimia, che rischia di smorzare il potenziale progettuale dell’opera di tutela e ridurne il suo già arduo obiettivo all’accantonamento statico di oggetti vecchi (o al loro restauro, ma questo è un altro discorso). Infine, una suggestione: Marc Augè ci ricorda il significato originario di seduzione, da se-ducere, attrarre a sé, convincere, trascinare: corrispondente certo ma, direi, oppositivo al cum-serbare. La seduzione del paesaggio, e non solo quella estetica (la sua arguzia, direbbe Farinelli) è la più radicata delle seduzioni, che trascina (seduce) soprattutto per il suo carattere continuamente mutante. Pericoloso, dunque, tentare di immobilizzarla “conservandola”.
Contesto (storico, archeologico…)
L’archeologia “contestuale”: un’altra definizione che, durante la stagione delle rivendicazioni epistemologiche, intendeva imprimere un corso non “object oriented” (come direbbero gli informatici) alla ricerca storica sul territorio. Partiamo a dal livello conoscitivo: ho scritto nel testo introduttivo che un catasto delle presenze archeologiche allo stato grezzo, in assenza cioè di sintesi interpretativa, risulta essenziale nella prassi della tutela puntuale (oggettuale), ma del tutto insufficiente sia per l’individuazione dei paesaggi “storici”, sia per la salvaguardia paesaggistica, sia, come è ovvio, per gli effetti di queste pratiche sulla pianificazione urbanistica e territoriale. Proprio da questo punto di vista l’attenzione per i contesti sarebbe, a tutti gli effetti, soluzione ad un tempo teoricamente pregnante e pragmaticamente operativa. Il problema semmai è dar conto di questa ingombrante aggettivazione - storico? archeologico? - in applicazione ad un cum-textum, ambito di relazioni culturali para e supra testuali, appunto, che difficilmente può essere esente da un coinvolgimento di tipo storico. Insisto su questo punto, e sulla impossibilità (nonché sul pericolo insito nel) distinguere i paesaggi “storici” dagli altri: io tento di “sviluppare l’idea nelle sue conseguenze operative (ecco l’urbanista…)” ma voi provate a mettervi nei panni di uno storico del territorio, o di un amministratore della tutela che giornalmente è chiamato a operare questa scissione tra sacro e sacrificabile. E soprattutto proviamo a circostanziare non tanto le risposte, quanto le domande che il Progetto dovrebbe rivolgere alla Storia, in funzione della semplice osservazione che la conoscenza dei processi storici che hanno determinato la forma dei luoghi nei quali si vive, dovrebbe servire a garantire non tanto la conservazione di quelli più meritevoli (e chi lo decide?) quanto l’equilibrio, o almeno il compromesso, tra rispetto dei processi passati e necessaria evoluzione di forme e funzioni, attraverso rinnovati processi e non mediante il congelamento di alcuni che abbiano il solo requisito di essere, per qualche verso, previi.
Cioè superare, e insisto anche su questo punto, la consolidata opinione che un contesto “storico” sia un contenitore di oggetti storici particolarmente evidenti e, possibilmente, fisicamente ben conservati. E questo vale anche per il Progetto “storico” per eccellenza, l'unico che elegga la memoria culturale e i suoi feticci ad assoluti protagonisti: il progetto di tutela, di recupero, di valorizzazione. Anzi: il travaglio del pensare per “monadi” e non per “contesti” tipico della nostra cultura e da questa proiettato su secoli, ormai, di legislazioni sui Beni Culturali, è in questo caso esasperato - in modo che talvolta sfiora il ridicolo - dal contrasto tra un apparato legislativo (la Convenzione Europea, ma anche, in certe parti, lo stesso Codice Urbani) che dice di guardare alla tutela del contesto ed una oggettiva difficoltà ideologica e culturale a capire (prima ancora di far capire) i Contesti. I quali, peraltro, sono caratterizzati in modo maledettamente ineluttabile dal non essere tutelabili attraverso la conservazione in vitro delle loro singole componenti. Quali esse siano.
Cronodiversità
Il neologismo, infine. Colpito dalla buffa coincidenza tra le definizioni di biodiversità e quelle di “sfera del diritto territoriale” offerte da N. Irti (Norma e luoghi, Laterza, Roma-Bari 2006), nonché profondamente invidioso della fortuna comunicativa (oltre che scientifica) della Biodiversità, ho coniato il neologismo, che tento di spiegare nel testo introduttivo. Qui vorrei solo richiamare la giusta osservazione di Edoardo a un mio scritto, che riporto integralmente:
“oltre a documentare la presenza della storia sul terreno, sarebbe necessario spiegare […] la sensazione positiva che provoca nell’uomo contemporaneo l’essere immerso in un contesto che in qualsiasi modo riconosce come “storico”, a prescindere dalla certificazione scientifica di questo stato”. Mi sembra contraddittorio con la definizione del paesaggio come “percezione”. Se nella valutazione del paesaggio domina la sensazione, per quale ragione occorre documentarne le presenze storiche? E se tutti paesaggi sono storia, tutti i paesaggi di conseguenza dovrebbero suscitare sensazioni positive: belli o brutti, di eccellenza o degradati, significanti o amorfi”.
Con il fine di tentare di fare chiarezza su questo punto, che neppure a me è ben chiaro (come è ben evidente!). Da un lato, razionalmente, cerco di orientare il senso della mia disciplina verso una visione meno “per monadi” di quella che, per tradizione e per tipo di cultura, la disciplina stessa mi impone. Mi si chiede, allora, giustamente: “ma perché occorre documentare le singole presenze storiche?”. Semplice: perché è questo il mio mestiere e non posso rinnegarlo: quel tipo di ricerca mi fornisce le basi giuste per sviluppare qualsiasi tipo di ragionamento successivo; inoltre: perché esiste una Legge che ne impone la salvaguardia singola (diretta) e, in modo perfettibile, anche quella contestuale (indiretta). La posso contestare nei modi e nei termini ma la devo osservare e, anzi, oggi sono tenuto a farla osservare; per farlo non posso che documentare secondo tradizione, cioè punto per punto. Però: posso orientare la mia ricerca (e, perché no, provare a ri-orientare anche la Legge) nel tentativo di contribuire al progetto di un futuro che mi piaccia di più: lascio allora, irrazionalmente, lo stretto ambito disciplinare e provo a volgermi al paesaggio - che è qualcosa di più e di più complesso sia della ricostruzione storica di uno o più assetti territoriali antichi, sia della “percezione” di insider o outsider, del dettato di convenzioni e codici, delle “definizioni” di geografi, ecologi, giuristi, archeologi... Mi rendo allora conto che, malgrado le mie affermazioni di principio circa la storicità insita in tutti i paesaggi, ce ne sono alcuni - vi prego perdonatemi - più storici di altri. E, contemporaneamente: a) capisco la mia contraddizione, b) scorgo una diffusa condivisione di questa esperienza percettiva, c) intuisco che non dipende assolutamente dalla presenza di nuraghi, pievi, necropoli etrusche e villaggi medievali, d) soprattutto mi rendo conto che questa prospettiva è cambiata nel tempo e cambia, rapidissima anche se quasi inavvertibile, in continuazione. Oggi brutto domani bello, la storia, nel paesaggio, lavora con l’inganno: che “fascinosa bellezza” quella miniera abbandonata sulla riva del mare che, se progettata oggi, sarebbe considerata un eco-mostro; e che disastro ambientale l’organizzazione centuriale romana nel momento in cui veniva imposta ai paesaggi dei celti o dei nuargici. La cronodiversità, esattamente come la biodiversità, è garanzia di vita (culturale) sulla terra: occorre manutenerla ma non si può prevederne l’evoluzione, né istituirla ex novo, né bloccarla in una sua fase.
Vorrei in questa sede proporre una riflessione sul concetto di paesaggio traendo spunto da una mia recente esperienza. Questa è consistita nella partecipazione a un comitato di esperti nominati dalla giunta regionale della Sardegna al fine di fornire consulenza alla redazione del Piano Paesaggistico Regionale (d’ora in poi PPR, www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico).
Oggi si discute molto in Sardegna di piani e di identità paesaggistica. Anche pensando al paesaggio, l’identità, se è anche altro, non può non essere un progetto del futuro in rapporto col passato nel contesto del resto del mondo. Che lo si sappia o meno, è sempre così. Se le identità sono soggettivamente plurime, e lo sono sempre, può essere considerato urgente sviluppare il senso della comunità di tutti i sardi, il senso dell’appartenenza e dell'unità di passato e futuro che lega l'insieme dei sardi al di là delle proprie diversità interne. Questo affinché un nuovo patriottismo sardo (non etnicisticamente sostanzialista e fissista) diventi supporto e impegno a farci riscoprire il senso della cittadinanza, sarda italiana europea mediterranea e planetaria, ma anche il senso della legalità e dell’impegno civile, senza di che ogni pianificazione non può avere fondamento stabile e unitario. Un piano che si dice paesaggistico comporta prima di tutto promozione di attività in campo politico, sociale, culturale, economico, scientifico, artistico e così via.
Anche nel caso specifico della pianificazione paesaggistica, promuovere l’identità come rapporto e progetto deve significare promuovere, gestire e amministrare luoghi e occasioni d'incontro tra le diverse discipline scientifiche, tecnologiche e artistiche, favorendone lo studio complessivo, la diffusione e anche la formazione di professionalità specifiche oltre ad un’utilizzazione collettiva.
Identità e paesaggio sono nozioni tanto poco dicibili quanto molto efficaci e onnipresenti. Il concetto stesso di paesaggio, mutuato dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 e definito come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni…”, se ci ha fatto discutere, non è però by-passabile. Questa percezione delle popolazioni locali, che genera il loro paesaggio e ne fonda territorialmente l’identità, sembra ad alcuni troppo rispettosa di percezioni paesaggistiche non condividibili, le quali infatti anche in Sardegna producono i danni che tutti lamentiamo. Eppure il paesaggio deve pensarsi come un processo di percezione di un territorio, senza implicare che ogni percezione (e azione che ne consegua) sia positiva e rispettabile. Infatti ogni percezione è da considerare, e da tenere in conto, come forza in campo, senza di che si continuano a fare errori "centralistici" o "illuministici" o “dirigistici” (Gambino, Romani, Camporesi). Conoscere gli elementi della percezione comune del proprio paesaggio da parte di una popolazione, e le diversità interne di questa percezione, è condizione imprescindibile per la pianificazione, soprattutto quando di quelle percezioni si voglia sia utilizzare e sia mutare qualche aspetto. Tenere conto della percezione delle popolazioni è condizione politicamente neutra, preliminare a ogni piano. Ma non ci sono solo teste da cambiare in fatto di percezioni correnti sarde sul paesaggio, ci sono certo elementi del senso comune vecchio e nuovo in fatto di paesaggio che possono giocare un ruolo positivo anche in fase di pianificazione, per non fare la fine del Parco del Gennargentu. Non si può programmare un aggiornato senso comune sardo paesaggistico fingendo che nelle teste dei sardi di oggi ci sia tabula rasa di percezioni, gusti, abitudini e codici emotivi in fatto di paesaggio. Essi infatti pur se più o meno espliciti, anzi di solito molto impliciti e anche per ciò potenti ed efficienti, giocano un ruolo nel bene e nel male. I pianificatori devono almeno essere coscienti del fenomeno, se non anche attrezzati a riconoscerlo e ad affrontarlo, con la consapevolezza dello stato della Sardegna di oggi che guarda al suo futuro.
Per struttura geologica, associazioni florofaunistiche e segni della storia umana, la varietà frantuma il paesaggio sardo, vero mosaico geo-bio-antropico. Ma come il mosaico in figura, anche il paesaggio sardo è percepibile nella sua unità, fatta, per esempio, dalle presenze unificanti di orizzonti larghi e piatti (e forme arrotondate), dove è caratteristica la macchia mediterranea (con innovazioni come il ficodindia o l’eucalipto), o le lagune costiere con faune tipiche. E sono solo esempi di tratti unificanti. L’unità si deve anche ai segni della preistoria (come, per esempio, le migliaia di nuraghi in tutta l’isola), della storia (come le chiesette romaniche spesso solitarie), o ai modi della presenza umana, a lungo quasi nulla in buona parte delle coste, che ha stabilizzato ovunque un habitat accentrato e rado (con distinzione netta tra abitato e disabitato), dove dominano i segni della lunga durata delle due grandi attività della cerealicoltura e della pastorizia (Angioni e Sanna), con l’openfield ma anche coi muretti a secco, e gli effetti dell’azione dell’incendio estivo e del maestrale che piega tutto il piegabile a sud-est.
La Convenzione Europea del Paesaggio, salutata subito in tutta Europa come felicemente innovativa, definisce il paesaggio “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Credo che non ci sia antropologo culturale che non sia di questo parere, quando pensa al paesaggio o si sforza di definirlo (a me, a conferma, è venuta spesso in mente la pagina di Ernesto De Martino sul Campanile di Marcellinara), sebbene anche l’antropologo sia pronto a osservare che ritenere il paesaggio una percezione (soprattutto visiva) delle popolazioni non implica per forza il riconoscimento di un valore positivo. In ogni caso però, tale percezione sarebbe utilizzabile sì come valore positivo, ma comunque sempre da rilevare e analizzare. Infatti anche nel caso che una certa percezione del paesaggio sia ritenuta inadeguata, arretrata o comunque negativa vi si può intervenire, se non altro perché si può criticare e modificare meglio ciò che meglio si conosce, si documenta, si analizza. Sempre nella Convenzione di Firenze, l’antropologo non può non apprezzare il mettere insieme la nozione di paesaggio con quelle di processo e di dinamica, e quindi di progetto. L’urbanista, il territorialista, il naturalista non hanno, mi pare, difficoltà a pensare la processualità e la dinamicità nel paesaggio e nella sua percezione, quando si tratti di progettualità e pianificazione esplicita e programmatica. Più difficile è farsi prendere sul serio quando si tenti di mettere in evidenza che le dimensioni dinamiche e processuali del paesaggio, ma più in generale le dinamiche e i processi territoriali, hanno aspetti oscuri e impliciti che non sono meno importanti di quelli chiari ed espliciti e propri dei vari specialismi abituati giustamente a partire dalla rilevazione e dall’analisi per arrivare al progetto, al piano, alla norma, alla sua applicazione. Vanno affrontati, infatti, con forme e modalità diverse di costruzione della conoscenza. C’è anche qui un problema di "ricostruzione” del modo di conoscere il territorio, che è ancora tenacemente fondato sulla conoscenza analitica, e basato su percorsi lineari che conducono dall’analisi al progetto e che in un certo senso affidano a grandi apparati informativi il ruolo di sistema nervoso centrale della conoscenza territoriale.
La definizione di paesaggio della Convenzione Europea di Firenze viene riproposta nella sua sostanza nella legge 42/2004 o Codice Urbani (Trentini), e prenderla sul serio, in parola, spinge a chiedersi, com’è successo nel caso del PPR sardo, quando si parla di percezione del paesaggio a chi, a quali ceti o strati o classi delle popolazioni locali occorra prestare attenzione, e magari dare voce e credito. Riflettere sul paesaggio come percezione, latamente sensoriale e soprattutto visiva, posta subito a intendere che anche in piccole porzioni di territorio le percezioni sono tanto stratificate e differenziate almeno tanto quanto è stratificata socialmente e culturalmente la popolazione locale o comunque interessata a quel territorio. In effetti le comunità locali, soprattutto nelle coste, ma anche nei paesi dell’interno, attraverso i rappresentanti democraticamente eletti, in Sardegna molto spesso si sono fatte interpreti, “piuttosto che delle sensibilità profonde e dei valori del paesaggio storicamente configuratosi dall’integrazione tra uomo e ambiente, di gruppi ed interessi che nulla avevano a che fare con la tutela del paesaggio come bene ambientale di interesse strategico collettivo e sovra-comunale” (Relazione Tecnica, www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico).
Spesso si è fatto cenno ai potentati dell’economia turistica internazionale, che cercano di determinare la configurazione generale del paesaggio, e se è così, "non si comprende perché a ciò non debbano concorrere anche le istituzioni sovra-comunali e le istituzioni scientifiche che indagano sui processi degli ecosistemi e sulle conseguenze nella lunga durata degli interventi sul territorio". Concepire il paesaggio come percezione dei diretti interessati o comunque interessati a un territorio, lungi dal semplificare generalizzando, pone di fronte alla complessità dei problemi e richiede, operativamente non solo in quanto pianificatori, cercare di attingere una “integrazione delle percezioni dei vari soggetti ed una sintesi che recepisca l’interesse generale”, magari slegato dagli interessi contingenti di parte più o meno leciti. Intendere il paesaggio come percezione, dunque, a parte tutta la miriade di altre osservazioni, costringe a tenere conto dei ruoli di ognuno e di organizzare la partecipazione democratica ai processi di pianificazione paesaggistica, evitando il più possibile il prevalere casuale o di mero potere lobbistico, anch’essi legati e coerenti con interpretazioni soggettive del paesaggio e quindi anche a interessi sul territorio. La visione dinamica del paesaggio come percezione obbliga poi a una pianificazione in cui anche la fantasia visiva, applicata al futuro, previdente e quasi preveggente, abbia ruolo progettuale primario (Assunto, Cazzani, Ritter).
Giulio Angioni è ordinario di Antropologia Culturale all’Università di Cagliari, studioso della Sardegna, specialmente contadina e pastorale, e della storia degli studi antropologici: www.giulioangioni.net.
Le diverse origini semantiche di territorio e paesaggio
Paesaggio e territorio hanno una diversa semantica. La questione non ha solo un significato etimologico, ma assume un’importanza operativa nel momento che le politiche sul paesaggio sono sempre più rivolte ai cittadini come attori - ne fanno fede la Convenzione europea sul Paesaggio, ne sono prova i comitati che si mobilitano per difendere il loro paesaggio.
Ritorneremo su questo punto nelle conclusioni. Per ora ci basta accennare che il paesaggio nasce come presa di distanza dal “paese”, vale a dire come momento di contemplazione e riflessione sul territorio. Si deve, inoltre, aggiungere che sia territorio che paesaggio sono termini che si riferiscono a concetti, sono cioè paradigmi che servono ad estrarre da una realtà preintesa e non definita alcuni caratteri significativi rispetto alle intenzioni del soggetto; conseguentemente non esistono concetti univoci e consolidati, bensì relativi e variabili a seconda delle epoche, del senso comune, degli apparati disciplinari, della cultura e delle pratiche reali all’interno dei quali il termine viene concretamente definito.
Dal nostro punto di vista, cioè di pianificatori e progettisti che operano sul territorio è, inoltre cruciale quale concetto di paesaggio sia assunto negli apparati legislativi che tendono più che a sostituire un concetto con un altro ad operare una stratificazione dei diversi paradigmi, peraltro spesso non definiti e perciò con non pochi aspetti controversi se non addirittura contraddittori.
Tutto il territorio è (anche) paesaggio?
Vorrei iniziare questa riflessione a proposito dei rapporti tra i concetti di paesaggio e quelli di territorio – riflessione che è finalizzata ad evidenziare le conseguenze sul piano operativo dei diversi concetti utilizzati - con una domanda apparentemente banale: tutto il territorio è paesaggio? o sono “paesaggi” solo alcuni territori dotati di particolari caratteristiche e valori? Se rivolgete questa domanda agli esperti della disciplina paesaggistica nella stragrande maggioranza dei casi vi sarà risposto che ovviamente tutto il territorio è anche paesaggio e che non esistono solo paesaggi belli, ma anche paesaggi degradati o, più spesso, paesaggi della quotidianità - paesaggi che senza avere caratteri di particolare valore, tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità. Tuttavia la risposta non è così scontata se ancora negli anni ’80 del secolo scorso – in occasione del dibattito che fu aperto dalla approvazione della L 431/85 (la cosiddetta legge Galasso) che istituiva i piani paesistici (o piani urbanistico-territoriali con particolare considerazione dei valori paesistici-ambientali) – uno dei più autorevoli geografi italiani – Lucio Gambi – sosteneva che non tutto lo spazio è territorio e non tutto il territorio è paesaggio. Solo un territorio costruito con cognizione e coscienza dai propri abitanti, secondo Gambi, poteva essere definito come “paesaggio”. Gambi metteva in evidenza due fattori che, a sua avviso erano costituivi del concetto di paesaggio. Il primo è la sua costruzione sociale; il secondo è che questa costruzione sociale è avvenuta o avviene seguendo certe regole condivise che fanno sì che “un paesaggio” presenti una identità definita che si traduce anche in una riconoscibilità visiva.
A ben considerare questo paradigma di paesaggio è una versione storico-geografica del paesaggio inteso come territorio dotato di valore estetico e di testimonianze storico culturali – cioè il concetto di paesaggio che deriva dalla tradizione legislativa italiana, in una certa misura accolto nella legge 1497 del ’39 e che tutt’ora presiede alla individuazione dei cosiddetti “beni paesaggistici” e all’applicazione dei relativi vincoli.
La tendenza generalizzata dei pianificatori è – come si è accennato – di eliminare queste caratteristiche di valore dalla nozione di paesaggio e tuttavia questa posizione apre problemi rilevanti – sia sul piano concettuale sia sul piano operativo – problemi che in buona parte devono ancora essere risolti, a meno, ovviamente di elidere completamente il concetto di paesaggio in quello di territorio.
La definizione della Convenzione europea del paesaggio
L’importanza politica, la problematicità operativa
I concetti di paesaggio che attribuiscono questa “qualità (l’essere paesaggio) alla totalità del territorio e non soltanto ad alcune parti dotate di specifici valori trovano un fondamentale riferimento nel primo articolo della Convenzione europea del paesaggio siglata nel 2000, recepita con modifiche dal Codice dei beni culturali del paesaggio e da qui entrata nella legislazione regionale e nel PIT adottato. La Convenzione recita, infatti: " Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.
E’ evidente che la definizione implica che ciascuna parte del territorio è (anche) paesaggio dal momento che “un paesaggio” è “un territorio” così come è percepito dalle popolazioni. La definizione è indubbiamente importante da un punto di vista politico perché pone le “popolazioni” al centro della nozione di paesaggio, ma apre problemi spinosi dal punto di vista della pianificazione. In particolare occorre rispondere a tre domande:
a) come articolare il territorio in “determinate parti”?
b) cosa significa percepire un territorio (o se si preferisce un territorio percepito)?
c) quali popolazioni?
La prima e la terza domanda sono evidentemente collegate; la questione potrebbe essere risolta se il territorio fosse nella realtà attuale articolato in ambiti ciascuno dei quali riferito ad una specifica società locale, qualcosa di simile a quanto poteva essere osservato nel mondo preindustriale. Ma ai nostri giorni le articolazioni del territorio significative dal punto di vista dei caratteri paesaggistici e ambientali – ad esempio le unità di paesaggio con cui i piani provinciali, sia pure con criteri estremamente difformi articolano il territorio – non hanno alcuna relazione con specifiche società locali. Lo stesso concetto di società locale, intesa in senso comunitario, è contraddetto da stili di vita e comportamenti in cui il territorio viene vissuto come una rete fatta di relazioni e di nodi, piuttosto che di aree compatte. D’altra parte le circoscrizioni amministrative, in particolare i Comuni, che potrebbero essere considerati almeno in certi casi gli embrioni di nuove forme di socializzazione comunitaria hanno confini che quasi mai coincidono con delimitazioni paesaggistiche o ambientali significative. Non possiamo, quindi, nell’Italia contemporanea immaginarci una corrispondenza fra forme di organizzazione fisica del territorio e forme di organizzazione socio-culturale e probabilmente una stretta corrispondenza fra le due realtà non è mai esistita neanche nel passato se non in qualche particolare valle alpina o appenninica.
In altri termini, quali sono le “popolazioni” del Chianti, o della Val d’Orcia o della Versilia o della Lunigiana (faccio riferimento agli ambiti di paesaggio identificati dal Piano d’inquaramento territoriale della Toscana)? Sono solamente gli abitanti? O la gente che comunque ha un interesse (economico, culturale, affettivo) rispetto a questi territori?. Interessata ai destini delle colline di Fiesole o della Val d’Orcia o dei Monti del Chianti o delle coste toscane non è forse una popolazione assi più vasta, a volte una popolazione distribuita a livello mondiale? Perché dovremmo disinteressarci di un paesaggio in cui non abitiamo ma che amiamo e con cui sentiamo legami di appartenenza? Dobbiamo immaginarci un territorio in cui ognuno si sente padrone in casa propria come negli antichi municipi?
Infine, anche ammettendo che ogni popolazione decida rispetto allo specifico territorio in cui è insediata, dobbiamo ammettere che non vi è – salvo casi eccezionali – un’unica percezione del territorio stesso. Le percezioni non sono mai “ingenue” sono sempre mediate da apparati culturali e da interessi. Una ricerca sul Montalbano – un rilievo collinare montuoso ben definito da un punto di vista morfologico e con una sua identità storica - condotta recentemente ha dimostrato che gli abitanti hanno rispetto al paesaggio di questo territorio valori e d interessi diversi a seconda che siano coltivatori diretti, imprenditori agricoli, residenti stranieri, residenti pendolari e anche a seconda dell’età e della cultura all’interno di ciascun gruppo? Quale percezione deve prevalere? Quale è il paesaggio del Montalbano nel momento che si riconosce che il paesaggio non è un percezione immediata ma una costruzione culturale?
Lascio il compito di rispondere esaurientemente a queste domande ai sostenitori entusiasti della convenzione europea del paesaggio; qui mi limito ad osservare che i principi della Convenzione non possono essere applicati sic et simpliciter, ma hanno bisogno di un’elaborazione politica e culturale di non poco conto. Torniamo dunque al problema cui abbiamo accennato all’inizio di queste note, accettando dalla Convenzione europea in prime battuta l’idea che tutto il territorio sia paesaggio, senza affrontare per ora i nodi problematici aperti dalla definizione contenuta nel primo articolo dalla Convenzione stessa. Possiamo notare che nella legislazione italiana e specificatamente nel Codice dei beni culturali e del paesaggio siano presenti entrambe le nozioni. Il paesaggio come territorio dotato di particolare valore, nella normativa riguardante i beni paesaggistici e il paesaggio/territorio che si manifesta in tutte le possibili forme (dall’eccezionalità al degrado) negli articoli che riguardano la pianificazione paesaggistica. Qui si apre un’altra contraddizione sostanzialmente non risolta nel PIT toscano e che inevitabilmente ci riporta alla questione iniziale cioè alla distinzione fra i concetti di territorio e paesaggio. Distinzione che negli anni ’60-’70 del secolo scorso era stata risolta assorbendo completamente la nozione di paesaggio in quello del territorio (il paesaggio da molti urbanisti veniva addirittura considerato una frivolezza borghese) ma che viene riproposta in modo esplicito ed ineludibile dalla normativa vigente quando recita che:
"Lo Stato e le regioni assicurano che il paesaggio sia adeguatamente conosciuto, tutelato e valorizzato. A tale fine le regioni, anche in collaborazione con lo Stato, nelle forme previste dall'articolo 143, sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l'intero territorio regionale, entrambi di seguito denominati "piani paesaggistici".
I piani paesaggistici, in base alle caratteristiche naturali e storiche, individuano ambiti definiti in relazione alla tipologia, rilevanza e integrità dei valori paesaggistici.
"Al fine di tutelare e migliorare la qualità del paesaggio, i piani paesaggistici definiscono per ciascun ambito specifiche prescrizioni e previsioni ordinate"
(Art. 135 del Codice)
Il Codice sottolinea in più punti la specificità della disciplina paesaggistica rispetto a quella urbanistica e territoriale. Questa indicazione fondamentale non incontra problemi quando si riferisce a parti altrettanto specifiche del territorio, come i “beni paesistici” o le aree vincolate ex lege dell’art. 142. Le difficoltà e i problemi nascono quando il piano paesaggistico interseca e si sovrappone alla “normale” pianificazione territoriale, come nella definizione degli ambiti paesaggistici (che coprono tutto il territorio) per cui il decreto prescrive che siano individuate “...le linee di sviluppo urbanistico ed edilizio compatibili con i diversi livelli di valore riconosciuti e con il principio del minor consumo del territorio, e comunque tali da non diminuire il pregio paesaggistico di ciascun ambito, con particolare attenzione alla salvaguardia dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO e delle aree agricole”.
Riassumendo: sembra che il Codice preveda una doppia disciplina paesaggistica. Una riservata ai beni e alle aree di particolare valore culturale o ambientale e una a tutto il territorio. Ed è questa seconda tipologia di disciplina che incontra notevoli difficoltà nella sua traduzione in termini di piano perché la distinzione fra paesaggio e territorio e quindi di ciò che è soggetto all’una o l’altra disciplina è quanto mai problematica.
Ricapitolando i termini del problema. All’art. 136 del Codice si dice che:
1. Ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni;
2. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili.
Inoltre, riassumendo altri articoli del codice stesso:
3. La disciplina paesaggistica riguarda l’intero territorio ed è specifica;
4. La disciplina paesaggistica è sovraordinata e cogente rispetto alla normale pianificazione urbanistica e settoriale.
Dunque sembrerebbe che la “traduzione” della Convenzione europea nel Codice possa essere la seguente. “ Paesaggio” sono i valori del territorio espressi come manifestazioni identitarie percepibili (da chi?). da cui segue che: La pianificazione paesaggistica è specifica anche se integrata con la normale pianificazione territoriale ed è volta alla tutela e valorizzazione di quei valori del territorio che sono percepiti come identitari (da parte delle popolazioni)".
La disciplina paesaggistica nel PIT della Regione Toscana
Vediamo ora come il Piano di Indirizzo Territoriale adottato tratta la disciplina paesaggistica. Impresa non semplice perché questa, anche se ha il suo cuore nello Statuto del PIT (la disciplina del PIT) è tuttavia distribuita in varie parti del piano:
Nello Statuto del territorio, la disciplina (specifica) paesaggistica è distribuita in modo ineguale nelle diverse invarianti e irregolarmente all’interno di ciascuna invariante. E’ praticamente assente nella prima invariante “ la città policentrica toscana”, del tutto assente nelle invarianti “ la presenza industriale” e “ le infrastrutture di interesse unitario regionale”, scarsamente presente nell’invariante “ il patrimonio costiero”, mentre appare ripetutamente nell’invariante “ il patrimonio collinare”. Va da sé che l’invariante “ I beni paesaggistici di interesse unitario regionale” si occupi di paesaggio nel senso di oggetti o aree dotati di un particolare valore, cioè nell’accezione restrittiva della nozione di paesaggio cui abbiamo fatto cenno all’inizio di queste note.
Non voglio in questa sede operare una disamina puntuale degli articoli e di commi dello Statuto che hanno un riferimento in qualche modo al paesaggio. In sintesi possono essere avanzate le seguenti notazioni.
A) Nonostante l’affermazione di principio che tutto il territorio è anche paesaggio, sembra che questa qualità sia riservata quasi esclusivamente al territorio collinare, mentre è assente nelle altre parti del territorio regionale e soprattutto nel territorio urbanizzato.
B) La tutela del paesaggio è quasi integralmente espressa come raccomandazioni ed indirizzi ai piani provinciali e comunali. Vale a dire che a livello regionale non vi è alcuna norma immediatamente prescrittiva, se si fa eccezione di un comma che riguarda il “ patrimonio collinare”che a seguito delle osservazioni presentate è stata estesa anche al patrimonio costiero:
- Il comma 8 dell’art 21 che recita: “ Nelle more degli adempimenti comunali recanti l’adozione di una disciplina diretta ad impedire usi impropri o contrari al valore identitario di cui al comma 2 dell’art. 20, sono da consentire, fatte salve ulteriori limitazioni stabilite dagli strumenti della pianificazione territoriale o dagli atti del governo del territorio, solo interventi di manutenzione, restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia senza cambiamento di destinazione d’uso, né eccessiva parcellizzazione delle unità immobiliari”.
Tuttavia il valore prescrittivo della norma (che suona come una disposizione di salvaguardia) è condizionato dall’individuazione, ancorché provvisoria, dell’ambito in cui si applica (cioè dei confini del “ patrimonio collinare”), mentre sembra che una simile definizione non sia prevista nel PIT.
C) Le direttive e gli indirizzi contenuti nello Statuto sono genericamente rivolti alla tutela di valori paesaggistici (a volte definiti come identitari), ma quasi mai individuano con precisione questi valori. Un’eccezione è costituita dall’art 22 dove sono individuate alcune risorse del patrimonio collinare aventi valore paesaggistico. Tuttavia la norma si limita ad impegnare la Regione, le Province e i Comuni ad una corretta gestione di tali risorse.
D) La tutela del patrimonio collinare (continuiamo a riferirci a questa invariante strutturale, perché è l’unica che con i limiti già accennati appaia una disciplina specificatamente paesaggistica) si basa quasi esclusivamente su valutazioni ex-post dei progetti di trasformazione sulla base di criteri peraltro ambigui e facilmente eludibili, ad esempio:
a) la verifica pregiudiziale della funzionalità strategica degli interventi sotto i profili paesistico, ambientale, culturale, economico e sociale e – preventivamente – mediante l’accertamento della soddisfazione contestuale dei requisiti di cui alla lettere successive del presente comma;
b) la verifica dell’efficacia di lungo periodo degli interventi proposti sia per gli effetti innovativi e conservativi che con essi si intendono produrre e armonizzare e sia per gli effetti che si intendono evitare in conseguenza o in relazione all’attivazione dei medesimi interventi;
c) la verifica concernente la congruità funzionale degli interventi medesimi alle finalità contemplate nella formulazione e nella argomentazione dei “metaobiettivi” di cui ai paragrafi 6.3.1 e 6.3.2 del Documento di Piano del presente Pit.
d) la verifica relativa alla coerenza delle finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva di detti interventi per motivare la loro attivazione, rispetto alle finalità, agli argomenti e agli obiettivi che i sistemi funzionali - come definiti nel paragrafo 7 del Documento di Piano del presente Pit - adottano per motivare le strategie di quest’ultimo.”
In sostanza, lo statuto del PIT assegna ai Comuni il compito di verificare la congruità degli interventi che loro stessi propongono rispetto alla loro “funzionalità strategica”, agli “effetti innovativi e conservativi”, all’“efficacia di lungo periodo” alla “congruità funzionale”, e ad altri requisiti ancora più indecifrabili. E’ difficile immaginare che un Comune dichiari una propria previsione – magari lungamente contrattata - come non strategica, non innovativa, non funzionale e non efficace nel lungo periodo e che “le finalità degli argomenti e degli obiettivi di cui si avvale la formulazione propositiva dell’intervento non sia coerente con le finalità degli argomenti e degli obiettivi adottati dai sistemi funzionali del PIT”, il tutto dopo una verifica condotta e certificata magari dagli stessi estensori del piano.
Generalizzando l’esempio emerge l’idea che sta alla base di tutto il PIT. Il PIT non prescrive che le trasformazioni del territorio debbano corrispondere a regole statutarie - le regole con cui questi territori sono stati costruiti nel corso della storia e che definiscono a tutt’oggi la loro sostenibilità e la loro identità (ad esempio: nei territori collinari gli insediamenti devono porsi sulle dorsali e mai sulle pendici dei versanti; devono essere aderenti agli insediamenti esistenti e non creare nuovi poli di urbanizzazione; non devono utilizzare il tipo insediativo della lottizzazione); l’idea del PIT è, invece, che tutto si possa fare sulla base di verifiche rispetto a criteri estremamente vaghi se non fumosi, verifiche svolte a posteriori da parte degli stessi Comuni proponenti.
Impossibile un esame dettagliato della disciplina paesaggistica contenuta nel PIT e distribuita, come è stato notato - in una molteplicità di documenti. Tuttavia, in questo quadro complicato è doveroso proporre un esame, ancorché sintetico, delle descrizioni e direttive contenute nelle schede riferite agli ambiti paesaggistici e ai relativi obiettivi di qualità, componenti fondamentali del piano paesaggistico secondo il Codice.
Il territorio regionale è articolato i 38 ambiti paesaggistici. Per ogni ambito è stata preparata una scheda organizzata come una griglia in cui le diverse componenti territoriali (insediamenti e infrastrutture, territorio rurale, geologia, idrografia, ecc.) sono incrociate con i caratteri strutturali ed ordinari del territorio e con i valori relativi alla loro qualità ambientale, storico-culturale ed estetico-percettiva. Infine ogni scheda contiene, sempre per le stesse componenti, l’individuazione delle “relazioni strutturali e delle tendenze in atto” e degli obiettivi di qualità paesaggistica.
Il contenuto delle schede è abbastanza vario, perché si tratta di un tentativo di sistematizzazione di quanto poteva essere ricavato dai documenti esistenti in particolare dai PTC che sono estremamente diversificati sia per quanto riguarda l’approfondimento dei quadri conoscitivi, sia per quanto riguarda l’incisività e l’efficacia della normativa. In ogni caso è apprezzabile l’inquadramento metodologico delle schede che cerca di introdurre elementi di chiarezza concettuale in un panorama obiettivamente complicato.
Quanto agli obiettivi di qualità alcuni hanno un carattere specificatamente paesaggistico, altri riguardano politiche di natura economica e funzionale tuttavia in qualche modo legate agli obiettivi precedenti. Le schede sono chiaramente disomogenee, soprattutto per quanto riguarda l’identificazione dei “valori”, che in larga parte sono desunti dai decreti relativi ai vincoli paesaggistici esistenti. Sono evidentemente incomplete nell’identificazione delle relazioni strutturali e tuttavia possono essere prese come base di una disciplina paesaggistica, come elementi di uno statuto in cui la distinzione concettuale fra territorio e paesaggio possa produrre risultati positivi piuttosto che confusione e sostanziale inefficacia.
Inutile aggiungere, data l’impostazione generale del PIT che le schede rimandano alle Province e ai Comuni una loro traduzione operativa.
Conclusioni
Accettando in linea di principio la nozione di paesaggio contenuta nella Convenzione del paesaggio e recepita (sia pure in modo contraddittorio) nel Codice, vale a dire che si intenda per “paesaggio” i valori identitari del territorio, così come sono percepiti ed elaborati culturalmente dalle popolazioni comunque interessate (il cui nucleo è evidentemente costituito dagli abitanti), una disciplina specificatamente paesaggistica non può che basarsi sul riconoscimento di questi valori identitari. Tuttavia - sono sicuro che questa mia affermazione susciterà la contrarietà di alcuni esperti di paesaggio (mi auguro non di tutti) - la relazione fra paesaggio e popolazioni non può avere una natura meramente fenomenologica e riferita al presente.
Vi è una curiosa contraddizione fra il concetto di paesaggio come “eredità culturale e memoria” da tutelare e rinnovare e l’idea che chi abita qui e ora il nostro pianeta debba decidere cosa sia da considerare risorsa e cosa sia da buttare. Occorre quindi, quando si tratta di paesaggio, cioè di valori identitari del territorio, abbandonare il concetto di “risorsa” a favore del concetto di “patrimonio”. Il paesaggio perciò dovrebbe essere concettualizzato come patrimonio territoriale, cioè come un sistema costituito da strutture di lunga durata e delle regole inerenti la loro conservazione e trasformazione. Nella definizione di queste strutture e regole hanno voce le popolazioni attuali, ma anche quelle del passato, cioè coloro che le hanno faticosamente costruite e gestite, lasciandole a noi come eredità, e le popolazioni future, cioè quelle cui si riferiscono i concetti di sostenibilità. Definire lo statuto del territorio significa perciò individuare le strutture e le regole che formano il patrimonio territoriale che intendiamo trasmettere alle generazioni future, non come eredità immodificabile, ma come una combinazione di invarianti, cioè elementi da conservare nei loro caratteri costitutivi e di regole che devono presiedere alla loro trasformazione, regole che sono iscritte in parte nel loro codice genetico e in parte devono essere scritte di nuovo per rispondere ai problemi posti dall’innovazione tecnologica, dalla competizione, dal mercato.
Il territorio è quindi “un tutto” un sistema complesso, da cui i diversi punti di vista - ambientale, funzionale, paesaggistico - estraggono alcuni elementi e alcune relazioni come significative rispetto a specifiche intenzioni pragmatiche e anche semplicemente culturali e contemplative. Perciò il punto di vista ambientale legge il territorio come sistema di ecosistemi. Il punto di vista funzionale come complesso di risorse con le loro performances; il punto di vista del paesaggio legge il territorio – per ripetere le parole con cui Gian Franco di Pietro introduce il Piano territoriale di coordinamento di Arezzo - come “ l’unica impalcatura (territoriale) che sussiste... il luogo riconoscibile, la dimora, la grande casa comune, la dove si torna e si riconosce, la fonte del senso di appartenenza”.
Questa frase che a me sembra particolarmente felice sintetizza alcune qualità specifiche del concetto di paesaggio che finora abbiamo cercato di spiegare. La profondità storica, la strutturalità, l’essere fonte del senso di identità e di appartenenza. Senso di identità e di appartenenza che in certi casi sono dati, dove le trasformazioni della società locale hanno avuto una certa sedimentazione e in altri deve essere costruito. Lo statuto del territorio – come piano paesaggistico – articolato in diversi livelli strutturali che possono accordarsi con diversi livelli istituzionali - è una grande occasione per rendere attuali le identità storiche e per costruire nuovo senso di appartenenza.
In eddyburg:
- il testo e alcune riflessioni sulla convenzione europea del paesaggio sono contenute nella cartella BBCC, paesaggio, ambiente;
- critiche e commenti relativi al nuovo PIT della Regione Toscana sono raccolte nella cartella dedicata alla vicenda di Monticchiello.
Il debutto
In Sardegna, ancora fino a mezzo secolo fa, le strade che portano al mare sono quelle di sempre, pochi tratturi percorribili con disagio pure dai pastori.
I sardi non hanno abitato volentieri in prossimità dei litorali. Il mare ha portato invasori e malattie e nel tempo non ci sono stati motivi in grado di convincere la popolazione a insediarsi nei pressi dei litorali, verso i quali i pregiudizi hanno resistito a lungo. Poi, quando il mare non è più un pericolo, ha prevalso un sentimento di sostanziale disinteresse nei confronti di spiagge e scogliere. Dove, ancora al tempo di “Sapore di sale”, non succede quasi nulla, e nessuno crede che un giorno quei luoghi selvaggi saranno usati per redditizi investimenti immobiliari. I viaggiatori più attenti, che giungono in Sardegna nei primi decenni del Novecento, osservano con stupore come le risorse dell’ isola non siano state ancora sfruttate in chiave turistica, nonostante gli esempi della Sicilia. e della Corsica. Così c’è chi pensa, come lo studioso Maurice Le Lannou, che quei paesaggi, così lontani dal Continente, resteranno ancora per molto tempo fuori dai circuiti, “le sue strade sconosciute alle lunghe file di pullman zeppi di gente”.
Nessuno all’epoca coglie appieno il senso di queste considerazioni. Di turismo si parla con disincanto, e i sardi che scrivono dell’isola, per spiegarla agli istranzos, dimenticano di dare informazioni sugli ambienti costieri, molti dei quali sono sconosciuti anche alle comunità locali, almeno a quelle che abitano nei paesi dell’interno. Ma il turismo arriva a un certo punto anche in Sardegna, d'improvviso. E trova impreparata la sua classe dirigente, che appena intravista questa prospettiva, si prodiga per agevolarla senza incertezze e senza precauzioni. Da tempo si auspica che l’isola muova velocemente i suoi passi nella competizione per lo sviluppo del Mezzogiorno. La grande povertà dei sardi è la condizione sempre evocata nei discorsi politici, presupposto di patti, non sempre nell’ interesse comune, da contrarre per combattere la disoccupazione. Si pensa di promuoverla la Sardegna ed escono i libri in bianco e nero a cura della Regione, che celano la precarietà degli insediamenti, timbrati per il passaggio dei disinfestatori e le insufficienze infrastrutturali, mitigano i dati sull'emigrazione, offrono versioni pittoresche del banditismo.
Nel frattempo Pasquangela Crasta malediceva la famiglia per via dell'usanza che nelle divisioni patrimoniali vedeva penalizzate le femmine, alle quali andavano di solito le terre vicine al mare. E odiato i fratelli, fortunati eredi delle vigne esauste di cannonau e dei pascoli di collina.
Cortigiani e turisti
Anita Ekberg si bagna nella vasca di fontana di Trevi, e non nelle acque di Gallura, quando il giovane Aga Khan è arrivato in Sardegna. Si diffonde in fretta il mito del principe benefattore, che può contare sulla presenza a Porto Cervo di esponenti delle casate nobiliari ( da Margaret d’Inghilterra ai coniugi di Liegi), dei veri ricchi ( mister Miller della Banca mondiale), di attrici del calibro di Ingrid Bergman, tutti suoi ospiti.
Le coste isolane, sono pronte per entrare nel giro delle cose da vendere. La politica decide di fare conto sulla grande intrapresa turistica, per poli di sviluppo E non si fa granché per fare crescere le iniziative a conduzione familiare, per suscitare lo sviluppo dal basso, come diciamo oggi ( il gruppo di Rovelli – la Sir – sta già provvedendo alle prime assunzioni a Porto Torres, alimentando il sogno infranto della chimica).
Le notizie sui movimenti in corso arrivano a speculatori e faccendieri che intuiscono di poter contare a lungo sull’onda della reclame. I costi delle aree sono bassi e ce n’è per tutti. Per contro è debole la volontà di governare il territorio, come se la politica avesse deciso di stare a guardare, compiaciuta, la calca attorno alla mercanzia. Così chiunque venga in Sardegna per fare affari, ha buon gioco: i timbri per sancire la legittimità di progetti di qualunque foggia, si ottengono in fretta.
Così ognuno presenta i suoi conti. Nei primi anni Settanta “Costa Smeralda” progetta la sua crescita (370.000 vani), mettendo in secondo piano l’attività ricettività. Una circostanza che non emerge; e prende forza l’idea secondo cui il tornaconto del turismo è proporzionale alle case edificate, e mai è evidenziata adeguatamente la grande, sostanziale differenza, tra palazzinari e albergatori o pizzaioli.
I comuni e la Regione stanno al gioco e rilanciano. La previsione di crescita, pari a oltre settanta milioni di metri cubi darealizzare un po’ dappertutto, è una quantità abnorme che comincia a preoccupare le persone di buo senso. D’altra parte i segni della frenetica attività edilizia di quegli anni sono evidenti un po’ dappertutto. Si riconosce nei paesaggi alterati, in alcune marine brutalmente cancellate, il procedere rapido e sciatto di chi ha sfruttato la congiuntura favorevole. Il trattamento iniquo toccato a Pasquangela Crasta si è volto nel frattempo a vantaggio. I figli hanno venduto le terre poco buone battute dal vento salmastro per un bel po’ di soldi. Il villaggio realizzato nei luoghi detestati, fronte mare, è frequentato dai divi della televisione, e a Pasquangela viene ogni tanto il sospetto che gli istranzos abbiano fatto un ottimo affare.
Resistenze alle riforme
Negli anni Ottanta. “Costa Smeralda” non è più il giocattolo del principe. E’ un'agguerrita impresa che tratta alla pari con le istituzioni, nello sfondo il dibattito per l’approvazione della legge urbanistica regionale e dei primi Piani paesistici. L' iter si conclude nel 1993 tra polemiche e ambiguità. Sono fissati i principi di tutela erga omnes ma si offrono i presupposti per derogare sui casi che contano. “Costa Smeralda” che influisce molto sul processo di formazione delle decisioni della Regione insieme al progetto di “Costa Turchese” della famiglia Berlusconi, sempre in Gallura.
Le altre imprese fanno il tifo, confidando nell’effetto domino. Si spera di bucare il sistema delle regole attraverso qualche accordo in deroga con le parti pubbliche. Mediante un procedimento impudentemente fondato sull’eccezione: difficile da realizzare, nonostante la linea di alcuni soggetti in causa che confina con la subordinazione agli interessi privati. La partita si trascina negli ultimi dieci anni con vari tentativi di accordo. L’obiettivo è la rivalsa nei confronti di una stagione di riforme – specie il vincolo di inedificabilità nella fascia dei 300 metri dal mare – con il proposito di eliminarle.
Ma la strumentazione, pure lacunosa, è più stabile di quanto non appaia. E saranno proprio i gravi difetti – denunciati da un’ associazione ambientalista – a persuadere i giudici della necessità di invalidare i Piani paesistici. Con la conseguenza di un vuoto dilazionato pericolosamente ( e consapevolmente). Trascorrono quasi due legislature – maggioranza di centrosinistra prima, poi di centrodestra – senza che si avvii il processo per ripristinare la legalità. Un vantaggio di cui si giovano in molti, com’ è ovvio, senza che si sappia garnchè di una fase oscura nella storia della Regione.
Gli anni recenti
Soru ha esposto le sue idee nel 2004 e i più allenati al linguaggio della politica hanno tra l'altro colto l’alto livello dello sdegno per il malgoverno dei territori costieri. Mettere un freno all’aggressione a quei paesaggi è l'obiettivo dichiarato. Punto in evidenza nel programma del centrosinistra, molto esitante al riguardo, che poi ha vinto le elezioni, com’ è noto.
C’è chi ha auspicato la inconcludenza di sempre – tra ritardi e conflitti – mentre il malcontento è attizzato, sindaci di destra in prima linea, qualcuno di sinistra nelle retrovie. Ma il Piano è stato approvato. Uno strumento dichiaratamente intransigente. Un passo rilevante, una svolta per la tutela del paesaggio sardo, con riconoscimenti importanti nei confronti del modello, che mette la Sardegna all’avanguardia tra le regioni italiane, la prima a cimentarsi con il Codice Urbani.
Il paesaggio, bene comune, è al centro del progetto e le trasformazioni ammesse sono pochissime, mai per fare case da vendere. I territori che non hanno subito modifiche saranno conservati. Si vuole dare la certezza di ritrovarla integra quella spiaggia, quella scogliera, quella campagna: ai sardi prima che ai turisti. Sono previsti progetti estesi di riordino urbanistico per rimediare a forme di degrado. L'idea di fondo è quella di valorizzare e potenziare gli insediamenti esistenti, soprattutto quelli abitati tutto l'anno, in grado con pochi accorgimenti, di dare ospitalità meglio dei finti villaggi frontemare. Ai quali fa pericolosamente da controcanto lo spopolamento progressivo dei paesi dell’interno: il più cupo degli squilibri, con prevedibili effetti nel territorio e nel corpo sociale.
Circola la domanda riguardo al reale consenso sul progetto, posta proprio per via dell'intransigenza senza eccezioni ( protestano i proprietari di piccoli appezzamenti in agro che vedono nelle opportune limitazioni la negazione di un diritto atavico). Nello sfondo i mugugni sui rapporti tra i poteri, dato che il presidente esercita il suo limitando mediazioni pur di attuare il programma. E ancora: ci si chiede com’è che il Piano, avversato con forza dai tifosi del neoliberismo, non susciti passioni nella sinistra sarda.
Vedremo nei prossimi mesi il grado di consenso attorno al progetto anche alla luce delle modalità attraverso cui i comuni costruiranno le loro proposte di pianificazione e dalle quali potranno venire idee per migliorare il Piano paesaggistico. Molto dipende da come le forze politiche si atteggeranno ( i detrattori sono al lavoro, molte le cause al Tar di imprese e comuni di destra). L’auspicio è quello di consegnare alle generazioni future un'isola bellissima che non può consentirsi altri sprechi.
I nipoti di Pasquangela sono quasi tutti disoccupati o camerieri per un mese.
Per chi vuole approfondire, ampio materiale disponibile nella cartella SOS Sardegna
In calce, i pdf scaricabili della traiettoria
LA STRADA
Fiumefreddo Bruzio è un piccolo paese in provincia di Cosenza, abbarbicato su una rupe del monte Cocuzzo, che, oltre ad avere un bel centro storico molto ben tenuto, ha una terrazza panoramica, da cui è possibile apprezzare la vista verso la costa. Il turista che si accinge a fotografare il suggestivo panorama probabilmente resterà deluso, trovandosi di fronte una fascia, più o meno ampia, stretta tra mare e montagna, in mezzo alla quale strada e ferrovia gli appariranno forse come gli unici elementi ordinatori nel più totale caos edilizio.
Quella strada è la statale 18, la Tirrenica Inferiore, la prima Salerno-Reggio Calabria del ’900. Anche se alcuni tratti erano preesistenti, la strada venne interamente costruita negli anni ’30, quando in pieno fascismo si procedette al riordino stradale di tutto il paese. Fino ad allora l’unica vera via d’accesso alla Calabria era la cosiddetta Strada delle Calabrie, un tracciato ottocentesco che, seguendo la romana via Popilia, partiva da Capua, si inerpicava sul Pollino, attraversava Cosenza e l’entroterra e raggiungeva Pizzo Calabro, per poi proseguire fino a Reggio lungo la costa. Questa strada oggi esiste ancora come SS19 ed è stato il tracciato ricalcato, per volere di Giacomo Mancini, dall’A3 negli anni ’70; contemporaneamente ai lavori dell’autostrada, anche la statale 18 fu modificata, con parziali ampliamenti e cambiamenti nel tracciato.
A ben vedere, quella fascia che da Fiumefreddo sembrava così continua e omogenea è al suo interno variamente articolata e il nostro turista potrà ben rendersene conto dal basso, percorrendola in macchina e apprezzando quel caos spesso informe da una prospettiva diversa. In un’ora e mezza circa di macchina, da Paola, la città di San Francesco, a Pizzo Calabro, la città del gelato, vedrà come quel caos assume diverse configurazioni, tutte originate, però, dal fatto di trovarsi su una stessa strada.
Si parte da Paola, in provincia di Cosenza, si percorre un tracciato a mezza costa che lambisce molti piccoli comuni (S.Lucido, Torremezzo, Falconara Albanese, Fiumefreddo, Longobardi, Belmonte) fino ad arrivare ad Amantea, uno dei centri più popolati; da qui si prosegue nella provincia di Catanzaro, attraversando Nocera, Falerna, Gizzeria, tutte frazioni marine dei rispettivi paesi collinari; si attraversa per qualche chilometro la parte costiera del comune di Lamezia Terme, il più grande di tutto il percorso, e di altri piccoli comuni (Maida, Curinga, Francavilla), per arrivare infine nel territorio della provincia di Vibo Valentia, con l’ultimo comune di Pizzo Calabro.
Questi 80 km circa possono essere letti in base ad alcuni elementi, quali la delimitazione della strada, le modalità di accesso, gli allineamenti, la densità edilizia, la presenza di spazi pedonali definiti, il tipo di incroci, quantità e qualità del mix funzionale; l’insieme di questi elementi ci permette di riconoscere una certa varietà di paesaggi. La diversità individuata trova spesso una conferma in quella che è la storia del territorio e la politica regionale e provinciale, ma mantiene sempre un minimo comune denominatore: la costante presenza dell’edificato, a carattere prevalentemente residenziale.
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IL VIAGGIO
Il basso tirreno cosentino da Paola ad Amantea (km 317-340)
Il nostro viaggio inzia a Paola, all’incrocio con la statale 107, proveniente da Cosenza; siamo più o meno equidistanti dai due capi della SS18, a 250 km da Salerno e a 217 da Reggio Calabria. Ci troviamo a mezza costa, ad una quota molto più alta rispetto al mare; la statale qui è l’unica via di comunicazione, dato che l’A3 è ancora all’altezza di Cosenza. I lati della strada sono disseminati di “casette”, generalmente articolate secondo lo schema commercio/bottega + appartamento genitori + 1 o più appartamenti per i figli, e di qualche albergo-ristorante: piccoli saggi di sprawl. Va avanti così per diversi km: gli edifici ora si addensano, ora si diradano, in relazione alla vicinanza con i centri abitati lambiti, ma mai attraversati. Si tratta per lo più di piccoli e piccolissimi centri: con l’eccezione di Paola e Amantea che si attestano rispettivamente sui 17.000 e sui 13.000 abitanti, non superano i 5.000 abitanti.
Hanno tutti, però una caratteristica comune: il centro storico si trova sulla costa e spesso il lungomare è parte integrante del paese; originariamente, infatti, non erano attraversati dalla statale, che passava ad una quota più alta. Con la modifica del tracciato degli anni ’70 la crescita edilizia si è poi orientata verso la statale che è rimasta così una strada periferica rispetto al centro.
In questo tratto, dunque, la SS18 è una vera e propria strada extraurbana, delimitata da guard-rail, lungo la quale gli edifici si allineano solo in prossimità dei centri abitati. Ai paesi si accede mediante semplici incroci a raso, localizzati in genere in corrispondenza delle originarie strade di crinale. In molti casi sono semplicemente le insegne, più o meno vistose, a suggerirci la nostra localizzazione.
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Il paese-nastro: Amantea e Campora (km 340-351)
A darci il benvenuto nel comune di Amantea, oltre al consueto cartello, troviamo anche un semaforo. Nulla di straordinario, se non fosse che, allo scatto del verde, entriamo in un tratto di statale molto diverso dal precedente; a meno di cento metri dal semaforo un marciapiede, un portico e fronti perfettamente allineati; ancora qualche centinaia di metri e un altro semaforo ci introduce in una vera e propria via cittadina.
Amantea, come i piccoli centri già incontrati, vive soprattutto d’estate, ma non solo; si tratta di zone stabilmente abitate, dove si trovano scuole, uffici, e servizi di vario genere. Proseguendo, troviamo alcuni elementi “canonici” delle strade urbane: il commercio ai piani terra, edifici che arrivano anche a 5 piani, un mix funzionale “a grana fine”, spazi pedonali ben definiti, parcheggi a bordo strada. L’espansione verso la costa qui è cosa recente. Si tratta dello stesso fenomeno già osservato nel tratto precedente – la crescita edilizia da un centro esistente verso la statale – con la differenza che qui il centro storico è in collina e non sul mare.
Dopo circa 4 km, la via cittadina ritorna ad essere strada extraurbana; gli edifici a bordo strada ci sono ancora, ma sono “sparsi” qua e là, senza un ordine preciso. Prima di arrivare alla galleria di Coreca, uno dei pochi punti paesaggisticamente interessanti di tutto il percorso, notiamo che verso l’interno, sulla collina, sta succedendo qualcosa; strade in mezzo al vuoto e, in alto, una nuova serie di villette. E’ qui che la città ha deciso di espandersi e le opere di urbanizzazione sono già pronte.
Attraversata la galleria ci si trova nella zona di Campora S.Giovanni; una fascia non più larga di 150 m, stretta tra la montagna da un lato e la ferrovia e il mare dall’altra, si snoda fino al km 351. Qui, sulla sinistra, perpendicolare alla statale, si apre il “corso” di Campora, lungo il quale si densifica l’edificato. Questa fascia oggi è interamente costruita: l’edilizia prevalente è sempre la stessa – edificio con più appartamenti per la stessa famiglia con commercio e/o spazio lavoro al piano terra – ed è corredata di spazi esterni che diventano nel migliore dei casi piccoli orticelli privati; è assente, però, quell’ordine “cittadino” riscontrato ad Amantea. Il tipo di edifici e la grande varietà di stili ci suggerisce che la crescita edilizia è avvenuta nel tempo per singole aggiunte, a seconda delle dimensioni dei lotti di proprietà e secondo il proprio gusto personale.
Amantea e Campora ricadono nello stesso confine amministrativo; a separare i due “centri” una fascia lunga meno di 10 km. Quelle nuove urbanizzazioni prima della galleria di Coreca, dunque, sono una presa d’atto della pianificazione comunale di una saldatura edilizia che lenta e inesorabile è avvenuta negli ultimi trent’anni, legalmente e abusivamente. Per questa ragione possiamo sicuramente parlare di un paese-nastro: un’unica entità amministrativa, in cui due centri hanno polarizzato la crescita edilizia. Se e quanto questa crescita sia stata controllata non è ancora ben chiaro; certo è che questa fascia oggi appare come uno spazio “ibrido”, simile ad una strada extraurbana nella forma, ma dove le pratiche d’uso sono simili a quelle di una qualunque strada cittadina.
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Da Campora a Nocera (km 351 – 357)
Un tratto breve ma interessante quello che inizia al km 351, dopo il semaforo che segna l’uscita dal centro di Campora, perchè rappresenta uno dei pochi momenti di tregua lungo il nostro percorso tra gli edifici. Si tratta inoltre del primo tratto veramente costiero della SS18: l’accesso alla spiaggia, infatti, è direttamente a bordo strada. Da un punto di vista amministrativo siamo a cavallo tra il comune di Amantea, ultimo centro della provincia cosentina, e quello di Nocera Terinese, primo centro della provincia di Catanzaro. Pochi i segni di antropizzazione: due o tre edifici, l’immancabile porticciolo turistico, un distributore di benzina. Intorno molti piccoli campi coltivati.
Il fatto che questo tratto sia rimasto sostanzialmente libero non è certo un caso; come sempre accade è un fatto di pura convenienza, sia economica che logistica. Attraversiamo, infatti, una zona troppo lontana dalle attrezzature e dai servizi di Amantea e dallo svincolo autostradale di Falerna, che sta più a sud, perché possa essere presa d’assalto dalle seconde case o diventare sede di residenze stabili. Ma c’è probabilmente anche un fatto culturale: Amantea e Campora sono comunque legate a Cosenza, verso la quale c’è un forte pendolarismo. Nocera è già rivolta verso Lamezia Terme, così come lo saranno tutti gli “agglomerati” che incontreremo verso sud. Una zona di confine, dunque, una frontiera fisica e culturale che segna una prima importante discontinuità nel nostro percorso.
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Il villaggio nastro: Nocera e Falerna (km 357 – 364)
Al km 357 la visuale si riapre verso il mare. La strada qui è più alta rispetto ai bordi, di circa 5-6 m; una costellazione di piccoli e grandi edifici ci accompagna per circa 7 km. Per qualche chilometro gli edifici sono tutti ad una quota più bassa, sia a destra, dove hanno un accesso direttissimo al mare, che a sinistra; i collegamenti sono rappresentati da ripide rampe carrabili e scalette per i pedoni. Il confine tra i due comuni, Nocera Torinese e Falerna, entrambi frazioni marine dei rispettivi paesi a monte, non è segnato; al km 360 le indicazioni di un incrocio ci avvertono che siamo in prossimità dello svincolo autostradale di Falerna; da qui fino a Reggio Calabria la statale e l’A3 proseguiranno quasi parallele.
Oltre l’incrocio la strada e i suoi bordi ritornano sulla stessa quota: siamo su uno dei tratti originari della statale (l’unico percorso finora è quello tra la galleria di Coreca e il km 351), come testimoniano anche alcuni edifici più datati e un allineamento seguito rigorosamente anche dalla crescita edilizia degli ultimi decenni. Al km 363 il lato destro diventa un quasi-lungomare attrezzato, luogo deputato alle “vasche” estive, con chioschi, panchine, alberi; il quasi sta nel fatto che tra la promenade e il mare c’è un ampio parcheggio a pagamento. I cartelli ci informano che un pezzo di questo quasi-lungomare è di Falerna, mentre l’altro pezzo ricade nel territorio di Gizzeria (altra frazione marina di un paese collinare). L’edificato e il lungomare terminano di colpo quando la ferrovia (che da Campora abbiamo sul lato sinistro) si fa più vicina alla strada, troppo per lasciare spazio a qualsiasi costruzione.
I 7 km compresi tra Nocera e Falerna ( e Gizzeria per un breve tratto) sono l’opposto del sistema Amantea/Campora. Lì c’è un nastro che è cresciuto in relazione alla presenza di due centri piccoli ma stabilmente abitati; qui c’è la crescita di un nastro fatto di alberghi, villaggi e seconde case. Una crescita che è avvenuta per singole unità immobiliari o al massimo per piccole lottizzazioni, e che non ha mai visto formarsi un centro; il lungomare infatti è cosa recente e la sua differenziazione formale a seconda del comune di appartenenza è solo l’ultimo esempio di un’assenza storica di un coordinamento sovracomunale in questa crescita.
Completamente spopolato da settembre a giugno, congestionato ai limiti della praticabilità nei mesi estivi, vista anche l’assenza di una strada alternativa, il villaggio formato da Nocera e Falerna è un continuum di edifici, grandi e piccoli, più o meno vicini al mare (alcuni molto – forse troppo – vicini). C’è una probabile spiegazione dietro questa situazione: la presenza dell’autostrada. Non pare solo un caso, infatti, che lo svincolo autostradale sia più o meno al km 360, a 3 km dall’ingresso di Nocera e a 4 km dall’uscita da Falerna. Una quasi perfetta equidistanza che diventa ancor più interessante se si pensa che a 20 km a sud dallo svincolo di Falerna c’è quello di Lamezia Terme e che negli ultimi trent’anni molti lametini hanno eletto Nocera e Falerna a luoghi prediletti per le vacanze estive di lungo periodo.
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Da Falerna a Lamezia Terme (km 364 – 371)
Usciti da Falerna, restiamo nel comune di Gizzeria per circa 7 km; percorriamo un altro lungo tratto sostanzialmente libero, almeno per ora: le gru, infatti, sono già in azione per colonizzare gli ultimi spazi vuoti. Anche in questo caso possiamo spiegare la mancanza di edifici con la lontananza dall’autostrada; lungo la strada incrociamo solo qualche hotel e qualche attività commerciale isolata, che danno il nome alla località. Gli spazi aperti sono generalmente incolti, vengono coltivati solo piccoli appezzamenti di terreno. La ferrovia costeggia ancora la strada sul lato sinistro e in alcuni punti sono separate solo da pochi metri.
Verso la fine di questo tratto incontriamo il centro di Gizzeria Marina; anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un villaggio estivo ma stavolta di dimensioni più compatte e ridotte. La statale, qui, lambisce l’agglomerato, il cui centro si trova sul lato destro, a ridosso del mare. Anche questo piccolo villaggio conferma le considerazioni fatte precedentemente: oltrepassato l’abitato, ci troviamo all’incrocio con una diramazione della SS18 che raggiunge il centro di Lamezia Terme. I villaggi estivi crescono dunque a ridosso dei punti di accesso al mare da Lamezia: per chi proviene dall’autostrada Nocera e Falerna, per chi proviene dalla statale Gizzeria. I conti tornano.
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Da Lamezia Terme a Pizzo (km 371-372)
L’incrocio con la diramazione della 18 segna il confine tra Gizzeria e Lamezia Terme; siamo ancora molto vicini al mare, tuttavia il turista che arriva qui dall’interno probabilmente non avrà la sensazione di trovarsi a così poca distanza dalla costa: non un’indicazione, un cartello, solo piccole strade, alcune sterrate, che si perdono nella vegetazione. Lungo la strada troviamo solo pochi piccoli capannoni: tra questi spicca quello occupato dal “centro culturale islamico”. Una grossa comunità marocchina è presente sul territorio e, come spesso accade, ha trovato uno spazio stabile lontano dal centro più grande, quello di Lamezia. Gran parte di loro risiede proprio a Gizzeria Marina, ed è quindi logico trovare qui una struttura di questo tipo: vicino a casa loro, lontano dalla casa degli altri.
Procedendo oltre, oltrepassiamo, tra il km 373 e il km 375, un altro nodo importante della statale, dove si incrociano , in una grande rotonda, gli accessi all’aeroporto, alla stazione di Lamezia, alla superstrada per Catanzaro e alla provinciale che raggiunge il centro di Lamezia. Proseguiamo con un tratto in sopraelevata che ci evita il transito sulla rotonda; da qui fino a Pizzo il paesaggio è abbastanza omogeneo: pochissimi edifici, molti campi coltivati - soprattutto frutteti specializzati - , i vivai come attività prevalente. In questo contesto risaltano particolarmente i capannoni, nuovi e vecchi, nell’area dell’ex-SIR, in quella che è la più grande area progettata per essere industriale del meridione ma di fatto mai utilizzata.
Il mare da qui resta abbastanza lontano per vedere costruzioni a ridosso della strada, ma non mancano gli ingressi ai resort e ai grandi complessi turistici immersi nel verde. Anche in questo caso, per capire il perchè della conformazione della strada dobbiamo rapportarci all’A3, che qui corre parallela, come anche la ferrovia, alla 18. La lontananza dal mare e il fatto che qui sia l’autostrada il corridoio privilegiato per il trasporto su gomma ha fatto sì che questo pezzo rimanesse un’eccezione nel panorama di continuum costruito lungo la statale.
Statale 18 e A3 si ricongiungono sotto il viadotto ferroviario presso il bivio dell’Angitola (che prende il nome dall’omonimo lago) e da qui seguono poi tracciati diversi fino a Vibo Valentia; il fatto che questo bivio sia un vero e proprio crocevia (qui arriva anche la statale 19, la vecchia Strada delle Calabrie) è testimoniato dalla presenza costante nel tempo dei bazar sotto i piloni.
Oltre il viadotto, continua il carattere di eccezione di questo tratto rispetto non solo al continuum di edifici tra Paola e Pizzo ma rispetto a tutta la statale 18 nel tratto calabrese. In questo caso, la mancanza di costruito è dovuto alla morfologia della strada, che in questo tratto sale di quota con strettoie e continui tornanti. Gli edifici fanno di nuovo la loro comparsa arrivati al km 428, all’ingresso di Pizzo. Ritroviamo qui i caratteri di via urbana che avevamo già visto ad Amantea, con una densità edilizia sensibilmente maggiore. Anche in questo caso l’apertura della statale ha comportato una saldatura da un centro storico, che si trova ad una quota più bassa, verso la nuova strada a monte.
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QUALCHE CONSIDERAZIONE
Dovendo descrivere in sintesi il nostro viaggio alla scoperta della SS18, potremmo raccontare di tre paesaggi principali che, forse non a caso, rientrano nei confini amministrativi delle tre province:
1) quello del cosentino, da Paola a Campora, in cui lo sprawl è di tipo puntuale (singoli edifici disposti seguendo la logica dei lotti di proprietà) e in cui tutto sommato si registra la presenza di centri grandi e piccoli costruiti e cresciuti secondo una logica più “urbana”, con un mix funzionale abbastanza consolidato
2) quello del catanzarese, dominato dai nastri di seconde case e villaggi, che assomiglia più alla periferia estiva di un centro più grande come Lamezia che a un insieme di piccoli centri dotati di una loro autonomia, in cui prevale la monofunzionalità
3) quello del vibonese, come già detto l’eccezione nel panorama di tutta la costa tirrenica calabrese, dove la lontananza dal mare e dall’autostrada e l’orografia hanno interrotto il continuum di edifici che caratterizza il resto della statale.
L’elemento chiave per la lettura della traiettoria è il tipo di residenza. Da una parte c’è la residenza stabile, di chi abita un luogo tutto l’anno. Dall’altra c’è la residenza stagionale, la “seconda casa”, abitata solo da giugno a settembre. Possiamo dunque parlare di centri abitati veri e propri (la definizione di urbano è impropria viste le dimensioni dei comuni) e di “luoghi di aggregazione estiva”, per indicare quegli agglomerati che centri diventano solo d’estate. I primi sono quasi tutti nel territorio cosentino, mentre in quello catanzarese prevalgono i secondi.
Gli 80 km analizzati condensano probabilmente tutta la diversità di paesaggi lungo l’intera statale nel tratto calabrese; una diversità che però trova sempre una ragione comune nella presenza della statale e da questo punto di vista può essere considerata assolutamente unitaria. Semplificando, possiamo dire che i diversi paesaggi lungo la SS18 corrispondono ad altrettante modalità di sfruttamento edilizio della costa.
Come si è arrivati a tutto questo? E quali esaltanti prospettive ci regalerà il futuro? Alla prima domanda è facile rispondere: anni di mancanza totale di pianificazione o di gravi carenze negli strumenti urbanistici esistenti, a livello regionale, provinciale e comunale. Anni in cui gli abitanti stessi hanno dimostrato scarsa sensibilità verso il proprio territorio. Anni in cui non si è riusciti a frenare o a coordinare le spinte autonomistiche dei comuni, anche di quelli più piccoli, che hanno puntato su politiche, non solo urbanistiche, autoreferenziali. E c’è, last but not least, un’illegalità diffusa, che ha favorito l’abusivismo, soprattutto quello di piccolo “taglio” costantemente ripetuto.
Il futuro non sembra molto più roseo per quanto riguarda la pianificazione: se è vero che le tre province stanno finalmente preparando i piani territoriali è anche vero che ormai si troveranno di fronte ad uno stato di fatto difficilmente modificabile. Quali le soluzioni possibili? Prendere atto della tendenza esistente e agevolare la saldatura come sta facendo Amantea con le nuove lottizzazioni? Dichiarare guerra aperta all’abusivismo e procedere con le demolizioni per ripristinare lo status quo come sta faticosamente provando a fare il sindaco di Falerna? Cercare di lavorare sulla sensibilizzazione degli abitanti come cerca di fare la Regione con un programma, “Paesaggi e identità”, volto a coinvolgere la popolazione e le istituzioni locali nella lotta agli ecomostri costieri? Ce lo dirà forse il turista che tra qualche anno si affaccerà di nuovo sulla terrazza di Fiumefreddo per ammirare il panorama.
Qui una traiettoria nel parmense, qui una lungo la costa ligure e qui, in calce all'articolo, un'altra lungo la statale adriatica. I "compiti a casa" della "Scuola di Eddyburg" 2007
In calce, il pdf scaricabile della traiettoria
"Sazia e disperata
Con o senza tv
Piatta monotona moderna
attrezzata ben servita consumata,
afta epizootica, nebbia, calce
copertoni bruciati
cataste di maiali sacrificati….”
Cccp – “Rozzemilia ”
Una piccola introduzione
Un percorso dal Po alle colline dell’Appennino, da Casalmaggiore (Cr) a Fornovo Taro (Pr), lambendo Parma percorrendo la tangenziale ovest. Nel tratto di pianura fino a Parma percorrendo l’Asolana e poi, una volta “scavalcato” il capoluogo imboccando Via Spezia. Non si tratta di un percorso omogeneo, tuttavia se si osservano i Sistemi Locali di Lavoro (SSL) ci si accorge che il percorso scelto rappresenta un asse che attraversa il SSL di Parma. Il tragitto fotografa quindi aspetti molto interessanti delle trasformazioni territoriali in un passaggio cruciale della vita economica parmense: il passaggio da un’economia la cui chiave di volta è da quasi un secolo l’industria agroalimentare, a un’economia basata sul cosiddetto “terziario avanzato”, la logistica e il settore immobiliare.
Una realtà economica che ha lasciato la sua impronta sul paesaggio con sedimentazioni stratificate nel tempo. Il paesaggio rurale caratterizzato da agricoltura intensiva associata spesso a zootecnia e attività casearie. Alcune grandi industrie multinazionali locali che hanno generato una filiera industriale verticale sparsa sul territorio, senza creare un vero e proprio distretto come nel resto della regione (eccezion fatta per quello del prosciutto di Langhirano). Questo il quadro di insieme per iniziare la riflessione sul paesaggio che sfuma dal finestrino in una bella giornata d’Agosto, tra Casalmaggiore e Fornovo, attraversando quella che è stata definita Food Valley.
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Da Casalmaggiore a Parma
Appena superato il ponte sul Po, oltre il guard-rail sfila un paesaggio agrario in cui ai capannoni si alterano vecchie case e che riflette la storia produttiva sopra menzionata. E’ un paesaggio prevalentemente agricolo, regolare, punteggiato da rotatorie che rompono appena la monotonia della retta di asfalto che taglia quasi perfettamente a metà la pianura parmense da nord a sud. La presenza insediativa è molto diradata e bisogna attendere di arrivare nella piccola frazione di Osteria per osservare una concentrazione insediativa degna di menzione. Si tratta di vecchie case rurali trasformate in villette o in attesa di diventarlo e di un pugno di costruzioni nuove che stanno cominciando a sorgere in questa zona, particolarmente appetibile per i bassi costi degli immobili rispetto al capoluogo e alle zone limitrofe. Le nuove villette, da qui in poi sempre più frequenti, costituiscono un’importante mutazione genetica del tessuto sociale di questa zona, i cui abitanti si scollano progressivamente dal tessuto produttivo circostante. Un fenomeno qui appena percettibile ma che di chilometro in chilometro si fa più evidente.
Prendendo una delle viuzze laterali probabilmente arrivi in una di quelle trattorie sperdute in pianura, dove per una modica cifra puoi farti un buon pasto che inizia sempre, quasi senza chiedertelo, con del salume buono e, se sei fortunato, ti capita che nel piatto ti mettano anche il prelibato culatello. Ma devi saperlo. Gli unici cartelli sulla strada sono per improbabili cantanti di piano bar o di liscio che si esibiranno in qualche festa dell’Unità o dell’Avis, lì nei dintorni.
Dopo 9 chilometri l’Asolana passa attraverso Colorno, sede della residenza estiva della duchessa di Parma, Maria Luigia, un paese incastrato tra zone agricole e i primi insediamenti industriali di una certa consistenza. San Polo, frazione di Torrile, 6 chilometri dopo Colorno, è il luogo che più di ogni altro in questo percorso esprime l’equilibrio tra insediamenti e produzione. La frazione, sviluppatasi ai margini dell’Asolana è dominata dalla mole grigia di un grande mangimificio lungo il percorso è possibile osservare ergersi in mezzo alle colture i silos o la silouhette allungata dei capannoni. Nonostante la forte pressione demografica che ha fatto registrare uno degli incrementi di popolazione più consistenti degli ultimi in anni in provincia, il Comune di Torrile ha avuto un’urbanizzazione meno consistente, soprattutto confrontando il trend degli altri comuni limitrofi e del capoluogo. Le attività agricole perdono terreno anche in conseguenza della crisi industriale del comparto alimentare, costretto a confrontarsi con mercati molto competitivi, tuttavia la perdita di suolo agricolo si limita in pianura al 6%, modesta in confronto alle media provinciale, la più alta in regione (-19%).
San Polo è anche l’ingresso in quella che potremmo chiamare l’area metropolitana di Parma: gli appezzamenti agricoli non dominano più lo spazio ma sono semplici intervalli, verrebbe quasi da definirli “vuoti”, tra i capannoni e i piccoli insediamenti residenziali, fino al cavalcavia sulla A1, che taglia perpendicolarmente l’Asolana.
Subito sull’autostrada si stagliano sul lato sinistro della strada i palazzoni del complesso residenziale di Paradigma, un’area monofunzionale ad alta densità. Dritti fino all’imbocco della tangenziale, vere proprie nuove mura che debilitano il contesto urbano “vero e proprio”, si innalzano sovrastando i parcheggi zeppi d’auto anche in Agosto, come torri di vedetta, due mall, Centro Torri e Eurotorri. Un intreccio cavalcavia e rotatorie per poi lambire dal lato ovest la città di cui si vedono i tetti più alti sfocati nell’aria afosa e appiccicaticcia.
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Da Parma a Fornovo
La tangenziale, a due corsie per senso di marcia, corre ad anello intorno alla città; il tratto nord è il più vecchio, mentre oltrepassata la via Emilia, a sud-ovest è uno dei pezzi più recenti; dall’anonimo ripetersi di viadotti e curve segnalate con sensori luminosi si spunta dal sottopasso in via Spezia, ormai fuori dalla città. Alcune industrie attorno alla strada, superstiti dello sviluppo industriale degli sessanta, sopravvivono alla loro trasformazione in uffici, banche o attività commerciali. L’ex Simonazzi fa capolino sulla destra a Vigheffio, un’industria di imbottigliamento di prodotti alimentari, tra le più importanti della provincia, passata da diverse proprietà ed ora in mano alla multinazionale Sidel: un destino emblematico della realtà industriale parmense….
A Vigheffio, prima frazione in direzione Collecchio, si notano villette, palazzine e i prati incolti da cui si innalzano cartelli che illustrano il loro destino: riempire quello che sempre più viene considerato vuoto, uno spazio che andrebbe “sprecato” se usato per l’agricoltura, e che renderebbe molto bene dal punto di vista immobiliare. Il Comune di Parma dagli anni sessanta ad oggi ha avuto un’urbanizzazione dai ritmi vertiginosi (+27.4%), in particolare negli anni ’90, nonostante abbia subito un calo demografico dal 1980 in poi, arrestatosi solo a metà degli anni ’90 registrando nel 2003 un saldo positivo rispetto al 1960 pari all’11.7%.
Dati analoghi a quelli del Comune di Collecchio, cosicché la via Spezia da Parma a Collecchio quasi un continuum: residenziale a bassa densità nella zona di Vigheffio, attività artigianali e piccole industrie oltre i pioppi in fila indiana a separare la strada dal fosso, a Lemignano e Stradella, prime frazioni del Comune di Collecchio. Da Stradella in poi il paesaggio, come dire, si rilassa. Cominciano a vedersi i primi rilievi collinari e si diradano le costruzioni. I piccoli rilievi sembrano pettinati accuratamente in attività agricole e la vista è sicuramente più gradevole….
Poi arriva Collecchio all’ingresso del quale una serie di rotatorie ti chiede di scegliere se passare dentro il paese o by-passarlo tramite una tangenziale con gli immancabili cartelli Parmalat. E l’impronta di quello che fu il settimo gruppo industriale italiano, che ha lasciato un segno indelebile sul paesaggio. Innanzi tutto il centro sportivo del Parma F.C., il vecchio giocattolo dei Tanzi, che occhieggia discreto con un cartello posto di fronte a fila di alberi proprio all’ingresso del paese.
La crisi del gruppo di Collecchio è una sorta di rimosso nella coscienza civile della provincia, non una riga è uscita dall’università sul crac finanziario più grande della storia europea e i giornali locali ne parlano con pudore non parlando nemmeno di crac Parmalat ma di crac Tanzi, quasi a voler scongiurare un coinvolgimento che suona quasi come un “excusatio non petita”. Collecchio non è solo la Parmalat ma senza la Parmalat Collecchio forse non avrebbe avuto la sua tangenziale gigantesca e deserta come ti immagini una strada americana, in questi giorni di Agosto, simile a quella di Parma, sebbene di formato ridotto per girare intorno a un paese di 8 mila anime.
Uscendo dalla tangenziale di Collecchio si esce di fatto da quella che abbiamo già definito l’area metropolitana di Parma e la via Spezia si snoda tra il Parco Fluviale del Taro e il parco dei Boschi di Carrega e il paesaggio appena oltre le prime colline coltivate concede le cime dei castagni di uno dei tratti collinari più pittoreschi del parmense. Il ristorante messicano proprio lì, sulla strada dice che sei arrivato a Gaiano, un pugno di case compatte e un po’ datate di qua e di là dalla strada a due corsie che taglia i campi che si estendono fino alle colline della val Parma. Per un lungo tratto solo campi punteggiati di case coloniche e capannoni dedicati alla zootecnia. La forte vocazione produttiva di queste aree è minacciata dalla suaccennata crisi agricola e zootecnica, che in quest’area è più forte che in pianura. La vocazione zootecnica del settore primario parmense è fortissima, tant’è che le aziende agricole che possiedono allevamenti sfiorano il 55%, 10 punti percentuali in più che in regione. La dimensione della crisi si può leggere nel drastico calo del numero di aziende agricole dotate di allevamenti (-47.2% dal 1990 al 2003; Emilia-Romagna -38,8%). Oltre al fenomeno della concentrazione è anche l’abbandono di queste attività a contribuire alla diminuzione del numero di aziende.
La strada comincia salire sulle prime colline costeggiando il torrente Taro e attraversando piccole frazioni come Ozzano Taro e Riccò. Dopo qualche curva si addentra a Fornovo, la vecchia Forum Novum di fondazione romana, punto strategico sulla riva destra Taro, punto nevralgico dal punto di vista militare in passato e oggi snodo di vie di comunicazioni importanti per la provincia. La Via Spezia a Fornovo tocca l’A15. Anche qui l’attività principale è quella agro-industriale, ma affiancata dalla chimica e dall’estrazione del metano, e sono queste attività altre a sorvegliare il ponte che porta all’imbocco dell’autostrada. Il ponte apre la visuale alla valle del Taro, appena oltre un bar grande e piuttosto affollato vista la vicinanza all’autostrada e il periodo. E di fatti è usanza per tanti abitanti di Parma uscire dell’A15 a Fornovo quando si torna dal mare per contenere i costi di un’autostrada incredibilmente cara. .E’ qui che mi fermo per il caffè, a viaggio concluso
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Conclusioni
La rottura di quell’equilibrio tra forma e sostanza, tra economia e territorio e benessere, peraltro anche in precedenza piuttosto precario, che si sta consumando nella provincia di Parma credo possa avere effetti piuttosto gravi e non solo sul paesaggio ma anche sul piano sociale.
Rompere l’equilibrio tra a agricoltura e industria, puntando tutto su logistica e terziario può rivelarsi un errore incredibile. Innanzi tutto i prodotti agro-indutriali parmensi sono concorrenziali in particolare per la loro qualità e quindi strettamente dipendenti da un equilibrio tra produzione e salvaguardia di determinate caratteristiche ambientali. L’evoluzione urbanistica e le politiche industriali devono essere molto attente a questo meccanismo, e devono cercare di rafforzarlo invece di indebolirlo.
Non è soltanto un problema di paesaggio: spesso, quello che vediamo è anche quello che mangiamo.
Qui una traiettoria lungo la costa tirrenica calabrese, qui una lungo la costa ligure e qui, nel pdf in calce all'articolo, un'altra lungo la statale adriatica. I "compiti a casa" della "Scuola di eddyburg" 2007
In calce, i pdf scaricabili della traiettoria
E' una breve traiettoria, 35 Km circa sulla Strada Provinciale 1 Aurelia, dal porto di Savona allo snodo viario di Voltri sito nel centro dell'arco ligure alle soglie della periferia di Genova. Il segmento scelto è forse il meno noto, ma contiene tutti i tratti caratteristici e soprattutto i problemi del territorio ligure. In primo luogo occorre specificare che per i liguri, l'Aurelia non è solo una strada. E' il filo conduttore del territorio. Un filo di una collana in cui ogni paese della costa sa di essere collocato e sa che attraverso essa può far parte di un insieme che ha una identità precisa. Questa consapevolezza però è abbastanza recente.
L'Aurelia infatti non è la strada romana. La via Aurelia che partiva da Roma terminava a Pisa. La strada romana ligure che si chiama Æmilia Scauri, costruita nel 109 a.C., secondo la testimonianza del geografo Strabone raggiungeva Vada Sabatia - l'odierna Vado Ligure - presso Savona, partendo da Luna (Luni), ma il tracciato non coincide quasi mai con quello dell'attuale Aurelia.
Il tratto ligure dell'Aurelia contemporanea nasce all'interno del grande disegno napoleonico di organizzazione del territorio europeo, come segmento della strada imperiale di prima classe da Parigi a Napoli. La continuità territoriale della regione si può considerare dunque una conquista recente: basti dire che in nessun dialetto ligure esiste una parola che significhi Liguria.
Per i liguri percorrerla è fondamentale: è la conoscenza di se stessi come liguri, ovvero connotati da quel territorio. L'Aurelia è specifica di questo territorio: "non è che una ricucitura, un orlo a giorno tra il mare e le montagne" (Maggiani).
Su questo orlo a giorno è concentrata gran parte della vita dei centri rivieraschi e ogni suo cm quadrato è sempre più denso di attenzioni, di tensioni e di azioni che mutano gli scenari e i panorami già di per sé vari e complessi.
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Chiamarlo viaggio è un po' presuntuoso, ma solo cento anni fa muoversi via terra su questo lembo di costa era difficilissimo, si preferiva decisamente il mare, perchè era meno rischioso. Chi vive in questi luoghi avverte questi limiti, non si ci si può muovere a 360°,ci si può solo spostare lungo una linea; verso est ci si ritrova a Genova, che attrae ma è più facile che respinga, cambiando direzione di marcia sempre sulla stessa linea si va ad ovest, verso il confine francese.
Gli spostamenti con l'auto o con il treno possibili sono generalmente solo ad est e ovest, perché a sud c'è il mare e a nord le montagne. Questa schematicamente è la condizione mentale dell'orientamento spaziale di chi vive in Liguria. Inoltre è diverso spostarsi da un luogo all'altro, dal viaggiare. Il viaggio è la condizione ottimale per vedere cose nuove, ma anche per vedere consapevolmente per la prima volta cose che si avevano da sempre sotto gli occhi.
E' uno splendido pomeriggio di inizio settembre e mentre raggiungo il punto di partenza e percorro già l'Aurelia verso ovest lasciandomi alle spalle Genova, mi viene alla mente un brano di un famoso viaggiatore che ha percorso anch'esso questi tratti di strada: "Erano le prime ore del pomeriggio e splendeva il sole. Sotto il mare era azzurro, pieno di creste bianche di spuma verso Savona. Lontano al largo del promontorio l'acqua giallastra e quella azzurra si fondevano. Davanti a noi un piroscafo mercantile navigava lungo la costa. «Vedi Genova?» «Oh sì.» «Il prossimo promontorio dovrebbe coprircela» «La vedremo ancora a lungo. Dietro vedo ancora la punta di Portofino». Finalmente non riuscimmo più a scorgere Genova. Guardai indietro quando girammo la punta del promontorio ma non vidi che il mare e sotto, nella baia, una fetta di spiaggia piena di barche da pesca e sopra, sul fianco della collina, un paese e promontori a perdita d'occhio lontano lungo la costa." (E. Hemingway, Che ti dice le Patria, in Quarantanove racconti).
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Km 572 della SP1, che qui si chiama Corso G. Mazzini; infatti, pur rimanendo se stessa, l'Aurelia quando entra nei centri urbani si adegua e assume i nomi dei riferimenti storici o geografici locali. Infatti siamo vicino al Priamar fortezza del XVI secolo, costruita dai Genovesi, che divenne nell'ottocento un centro di guarnigione militare e prigione e dove vi fu recluso, tra gli altri, G. Mazzini. Attualmente il Priamar è un contenitore culturale di grande prestigio, la scultura che compare dal finestrino dell'auto e sembra dare il via al viaggio è la Rosa nel deserto di Arnaldo Pomodoro. Dopo pochi metri si svolta a sinistra in via Antonio Gramsci e si ha ora il privilegio di osservare un grosso vuoto. Uno spazio vuoto fa sempre un grosso effetto in questa regione che ne é spesso priva, ma generalmente non dura per molto. Questo è il luogo dove sorgeva lo stabilimento Omsav/Italsider, le cui vicende sono molto bene narrate da Bruno Lugaro (giornalista del quotidiano locale Il Secolo XIX), nel libro intitolato Il fallimento perfetto.
E qui sta per crescere il Crescent denominato già crescempio, una costruzione residenziale lunga 150 m e alta 8 piani. Nel libro si traccia una precisa e approfondita cronistoria delle aree che, da proprieta' demaniale e ad uso industriale (ovvero le aree Omsav/Italsider), si sono trasformate, con metodi poco chiari, in terreno di proprieta' di privati, con destinazione d'uso residenziale. Un'area che per secoli è stata occupata prima dagli spalti della fortezza genovese e poi dagli impianti industriali. Un'area vasta più di 250.000 mq, dei quali soli 33.500 di proprietà privata; un'area superiore a quella occupata dall'intera città murata del 1800; un'area che ha uno sviluppo sul mare di oltre 1200 metri. Un'area di grandissimo valore; un patrimonio, quasi tutto di proprietà pubblica, sul quale si gioca l'avvenire della Città.
La via fiancheggia il porto e in piazza Leon Pancaldo si passa accanto alla torretta medievale simbolo di Savona che appare sempre più sparuta, vicino alle altezzosità algide delle architetture griffate Bofill. Anche dal finestrino di un auto in transito questa architettura, né dritta né storta , comunica instabilità e fredda estraneità, non pare sia abitata, dai savonesi è già stata simpaticamente denominata "Il box doccia di Godzilla".
Superate le vecchie funivie che servivano per il trasporto del carbone, l'Aurelia percorre un tratto di strada più recente (1933) realizzata all'interno di un più vasto progetto comprendente l'allargamento della strada esistente per Vado Ligure: l'intervento presentava alcuni aspetti interessanti sotto il profilo tecnico e dimostrava la volontà di conferire alla nuova strada un carattere fortemente monumentale. Il tratto più vicino a Savona era stato realizzato in viadotto, con l'acqua che circondava la strada da due lati. L'intervento è ancora percepibile dalla banchina della Darsena Vecchia: l'effetto originario è tuttavia andato completamente perduto, a causa dei riempimenti e delle edificazioni. Notevoli anche, per l'imponenza, le opere di sostegno presso la punta della Margonara, che ancora oggi caratterizzano l'immagine di questo segmento di costa. Per queste caratteristiche, che dimostrano come volesse essere utilizzata anche come macchina di comunicazione, il tratto tra Savona e Albissola Marina è stato fatto oggetto, sia pure con intenzioni diverse, di interessanti rappresentazioni pittoriche: un ciclo di affreschi, dipinto da Raffaele Collina (1932- 1934) che adorna la sala di giunta del palazzo comunale di Savona, e una tela di Mario Rossello intitolata Un chilometro di strada da Albissola e Savona (1975). L'opera, lunga 35 metri, è stata esposta con l'aiuto di un congegno capace di far scorrere in un periodo di circa 7 minuti la tela davanti al pubblico.
Usciti dalla galleria Valloria, al km 570 circa, si raggiunge punta della Margonara; su rocce prospicienti la strada appaiono improvvisamente, come fantasmi, alcuni lenzuoli con scritte di protesta contro la cementificazione annunciata del tratto di costa della Margonara. Qui è prevista la realizzazione di un porticciolo e la costruzione di una torre residenziale di 120 m. Il progetto è anch'esso d'autore, pare però sia un ciclone riciclato, ma tanto che importa il genio globale non ha bisogno di contestualizzarsi. Anche la Madonnina sullo scoglio di fronte sembra augurarsi una sorte migliore.
"Ma il cielo è sempre più blu " cantava Rino Gaetano ed è meglio lasciarsi alle spalle questi incubi per percorrere la passeggiata degli artisti, il lungomare di Albissola Marina, con i suoi colori e le sue ceramiche, "la cui industria fa concorrenza a quella di Vallauris" diceva Liégéard (lo scrittore che ha nel 1887 ha coniato il nome di Costa Azzurra): "La strada principale (l'Aurelia) è una lunga interminabile fabbrica di terraglie che espone marmitte ad ogni porta, che appende casseruole ad ogni finestra. E' un miracolo se il turista non mette i piedi sopra un piatto....che sta seccando sul marciapiede".
Ancora oggi ci si accorge subito che non è un luogo come un altro: la pensilina con la panchina di ceramica, la vela di ceramica al bordo della spiaggia, i lampioni colorati. Qui nel secolo passato vi fu una grande concentrazione di episodi artistici, in gran parte legati alla ceramica, da cui l'Aurelia si propone ancor come grande vetrina. Vi sono rimasti fortemente impressi due momenti magici vissuti ad Albissola marina nel secolo scorso: gli anni trenta, con alcuni edifici di pregio che si affacciano sulla strada, e il secondo dopoguerra che ha trovato la sua migliore espressione nella passeggiata degli artisti. Inaugurata nel 1963, costituisce con i suoi 800 metri di sviluppo lineare e 4000 metri di superficie un grande museo “calpestabile”. La sua particolarità è costituita dalla presenza di 20 pannelli di pavimentazione policromi di 10 x 5 m realizzati su disegni di 20 artisti (Caldanzano, Capogrossi, Crippa, De Salvo, Fabbri, Fontana, Franchini, Gambetta, Garelli, Lam, Luzzati, Porcù, Quattrini, Rambaldi, Rossello, Sabatelli, Salino, Sassu, Siri, Strada).
Il successivo tratto di strada una volta, attraversato il ponte sul torrente Sansobbia che scende dalle valli di Stella (paese di Pertini), è sempre intasato di traffico che confluisce dal vicino casello autostradale e guidare in certe ore del giorno è un'impresa di grande pazienza e attenzione.
Superata la galleria di Albisola Capo, aperta nei primi anni del secondo dopoguerra, si entra in una dimensione completamente differente, in cui l'Aurelia riacquista il carattere di grande spazio aperto. Siamo al Km.567: la storia ritorna con le sue memorie ad ogni curva e qui si trova una lapide che ricorda delle vittime di un bombardamento aereo del 1944.
Un altro cartello ci avvisa che siamo entrati nella Riviera del Parco del Beigua, un altopiano che sovrasta la zona e che dà il nome anche ad un Parco Naturale Regionale.
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Questa alternanza di litorali e di promontori, di spazi urbani e di spazi naturali, crea un effetto di pausa e di attesa che rende gradevole il percorso; purtroppo le opere stradali di contenimento a monte sono dei tagli nei vari promontori che abbiamo incontrato di notevole entità; hanno in alcuni casi ferite permanenti, dove le frane a volte invadono la carreggiata stradale nonostante gli imbrigliamenti delle pareti.
In alcuni tratti sembra che ci siano solo cielo e mare poi improvvisamente, sotto il parco Bottini, si svolta e qui c'è uno dei punti di vista dove particolare è il gradimento estetico in quanto appare improvvisamente l'armonico fronte mare del centro storico di Celle Ligure.
La brutta edilizia speculativa degli anni ’60 e ’70 qui prende una pausa. Ultimamente sono stati curati in questi Comuni di riviera gli arredi stradali, le passeggiate a mare e il rifacimento delle facciate dei vecchi palazzi; inoltre, la dismissione della ferrovia in questo tratto ha permesso di ricucire il paese con la spiaggia e in altri di formare una lunga passeggiata costiera. L' Aurelia lambisce il centro storico di Celle a monte, senza separarlo dal mare, come invece succede negli altri centri.
Altro promontorio, Punta dell'Aspera, km 561 circa, ed ecco il nuovo esteso porto di Varazze; questa volta la sorpresa ha un sapore surreale perchè i tetti verdi tipo baita delle valli alpine sbucano improvvisamente dal mare.
L'Aurelia, che per Celle era di Levante, (ma per Varazze è a ponente) prende il nome di via Savona, in quanto a levante dell'abitato, e passa in mezzo ai capannoni dei cantieri per la realizzazione di imbarcazioni, attività che ha reso famosa Varazze nell'800. Anche qui, al posto di queste aree produttive, sorgeranno alti palazzi residenziali.
La strada corre adiacente alla passeggiata di Varazze, il traffico in questo punto è notevole e molti pedoni la attraversano qua e là, bisogna stare sempre molto attenti, le macchine sono spesso posteggiate nella sede dell'Aurelia. In questo tratto stanno predisponendo delle opere a mare, pennelli e barriere sommerse per proteggere la spiaggia dalle erosioni. E' inevitabile, quando si realizza un'opera a mare si modifica l'andamento dei depositi, ma non la loro quantità. Se la spiaggia aumenta da una parte, diminuisce da un'altra.
Ora l'Aurelia, che qui si chiama via Genova in quanto a ponente di Varazze, ultimo paese della costa nella provincia di Savona, sale faticosamente con curve e contro curve verso i Piani d'Invrea (km 555 circa). La consueta apparizione dell' astronave dell'Autogrill della Autostrada A10 Genova - Ventimiglia, ci segnala la momentanea adiacenza delle due uniche vie stradali orizzontali della costa. Poi ci si rimmerge nella vegetazione ancora rigogliosa della suggestiva Punta d'Invrea.
Una curva dopo l'altra qui si avverte il piacere di viaggiare quasi volando fra cielo mare. Le cicale riescono a farsi sentire anche da un viaggiatore distratto e tornano alla mente le parole di una famosa la descrizione di C.E. Gadda: "qui la cicala persiste. Le tombe dei Marchesi Centurione vedo che non difettan d'epigrafe, nella frescura e nella penombra della piccola chiesa dove i maggiori hanno pace, dove arriva ancora, sommesso come una divozione, lo stridere antico: dai lecci, dalla vastità polverosa del meriggio....."
Ma siamo quasi al confine provinciale sul torrente Arresta, al km 554. E si entra in tutt'altra realtà. Cogoleto, ora è un centro balneare ma ha un’antica tradizione industriale. Il lungomare è stato risistemato e anche il centro storico è molto migliorato negli ultimi tempi: forse i lampioni sono persino eccessivi, come certe barriere antiattraversamento della passeggiata, (forse è solo eccessivo campanilismo da parte mia in quanto abito ad Arenzano ).
Purtroppo questi due paesi adiacenti una cosa in comune l'hanno di certo ed è l'area della ex Fabbrica Stoppani nella valle del Lerone, torrente che segna il confine fra i due territori comunali. Infatti alla prima curva a 90° verso nord eccola là la famigerata azienda chimica costruita ai primi del ‘900, che produceva additivi per la cromatura e per la nichelatura, causando un inquinamento del suolo e delle acque le cui dimensioni sono perfino difficili da immaginare. Dati della Regione Liguria parlano di 92.000 mc di fanghi tossici stoccati nella discarica di Pian di Masino contenenti elevatissime quantità di metalli pesanti, mentre l'agenzia regionale protezione ambiente (Arpal) ha trovato concentrazioni di cromo esavalente nelle acque di falda 64.000 volte superiore. Da molto tempo è in atto una vicenda che vede coinvolti tutti gli Enti territoriali per bonificare il sito e poterlo utilizzare per un progetto che possa rappresentare la possibilità di creare nuove prospettive di lavoro, non in contrasto con l'ambiente.
Con notevoli e impattanti muraglioni l'Aurelia aggira un altopiano costituito da un antichissimo cristallino marino,ampiamente lottizzato da residenze per vacanze negli anni ’60 – ’70. Valicata la Colletta, l'Aurelia prende il nome di Via di Francia e scende di nuovo verso il mare nel centro di Arenzano; recentemente sono state costruite due rotonde che hanno sfoltito il traffico proveniente dal casello autostradale e soprattutto interrotto le discese troppo ardite di alcuni automobilisti e motociclisti. Questo è il luogo dove vivo e lavoro e pertanto è per me sede di mille problemi, pur essendo oggettivamente un paese gradevole e con molte risorse sia ambientali sia per risolvere i suoi problemi .
L'Aurelia anche qui divide il frontemare del centro storico dalla passeggiata, costituendo, come nel caso di quasi tutti gli altri centri attraversati, un pericolo costante per i pedoni. Purtroppo, anche se spesso ci sono semafori, in alcuni tratti si crea confusione, congestione e distrazione, che anche quest'anno hanno causato delle vittime. Da tempo si cerca di trovare un tracciato alternativo, ma visto il territorio compresso e complesso non è stato ancora possibile trovarne uno fattibile.
Abbandonato il centro di Arenzano si transita in una galleria al Km 547 denominata del Pizzo, in quanto attraversa il Promontorio del Pizzo. Questo tratto di strada è sempre stato oggetto di interventi in relazione alla situazione instabile delle rocce soprastanti; nel corso di tali opere è andato perduto uno dei punti più suggestivi del percorso, l'arco scavato nella roccia di cui restano delle fotografie d'epoca, il Garbo du Pizzo.
Siamo al Km 546 dove, in una vasta ansa, l'Aurelia circumnaviga un camping, sovrastante una vasta Cava detta della Lupara,oggi in disuso, nella quale vi sono in atto progettazioni e realizzzazioni infrastrutturali. Ma al Km 545 si incontra ancora Vesima formata da due nuclei: il primo è quello che si è sviluppato attorno all'antico convento dei Padri Cruciferi, costruito nel 1155 e poi diventato dimora estiva di nobili famiglia genovesi, mentre il secondo, a Punta Nave, conosciuto anche come Villa Azzurra, è diventato famoso dopo che l'architetto Renzo Piano vi ha insediato il proprio quartier generale. La struttura che si vede vicino alla galleria di Villa Azzurra segnala la localizzazione del sito. Nei pressi si posso notare dei resti del muro a sostegno a mare del percorso ottocentesco, mentre alcuni tratti della vecchia strada sono stati dismessi a causa della rettifica in galleria del tracciato attuale (1980-1990) che utilizza il sedime ferroviario a sua volta dismesso. Questo tratto di curve e contro curve, sebbene un po' pericoloso, è l'ultimo contatto dell'Aurelia con il mare prima che si immerga nel tessuto cittadino periferico della cosiddetta grande Genova. In alto si intravede la chiesa del borgo Crevari. Uno slargo sul mare, capolinea dell'autobus n.1, segna il confine tra la città e la riviera. A Voltri, snodo viario antico e moderno, incrocio di ponti e viadotti, dove si può andare anche verso Nord, attraverso il passo del Turchino, e verso Sud, perchè qui sul mare si è ormai esteso il porto di Genova, si conclude questo piccolo viaggio.
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Considerazioni
Il percorrere con l'intenzione di guardarlo e l' attenzione necessaria per poi raccontarlo fa sì che anche un breve tragitto percorso mille volte diventi improvvisamente ricolmo di tante informazioni inaspettate. Inevitabilmente, su una strada come l'Aurelia non si può che percorrere parallelamente altre strade: una sola nello spazio presente, le altre nella dimensione temporale, in un passato e un futuro prossimo.
Viaggiare per questa strada con lentezza, con gli occhi aperti, aderendo alle sue curve, alla circolazione della vita delle comunità attraversate, godendo della continua mutazione dei punti di vista, è davvero ritrovare un filo conduttore, non solo fra un luogo e l'altro, ma fra passato e futuro senza troppa nostalgia per il primo e paura per il secondo, per quanto siamo di nuovo di fronte ad un fenomeno analogo a quello degli anni ’60 – ’70, quando Italo Calvino così bene descriveva la situazione ligure: “Certo, in questo affidarsi alla domanda del mercato come all'unica realtà sicura c'è anche una profonda sfiducia per la civiltà contemporanea, da cui ci si aspetta sempre il peggio e da cui non resta che strappare giorno per giorno qualcosa che è come indennizzo d'un bene perduto. Un fondo di diffidenza e pessimismo cova sotto l'efficienza e l'immediatezza: è l'eredità che i secoli di vita guardinga e ostinata hanno trasmesso agli abitanti di questa regione, come condizione di sopravvivenza. Oggi la Liguria sta diventando qualcosa di completamente diverso da quello che è stata: economicamente fa parte d'un tutto italiano ed europeo che presenta sempre meno soluzioni di continuità; e ancor più è diversa la popolazione. Come negli ultimi centocinquant'anni una diaspora di liguri mise radici nelle Americhe, così negli ultimi decenni masse nuove si sono stabilite in Liguria, (omissis). Nel giro di poche generazioni si parlerà della Liguria in nuovi termini, che ancora non riusciamo a prevedere. A rappresentare un antico modo di "vivere in Liguria "non resterà che la patella attaccata allo scoglio."(1973).
Alla luce di quello che è successo e probabilmente succederà, non si può che convenire con queste parole, sebbene molto amare. Non si può inoltre nemmeno dire che questa porzione di territorio non sia stata pianificata. Ormai siamo alla terza o quarta generazione di piani regolatori, compresi i numerosi piani regionali e provinciali che certamente hanno prodotto delle norme la cui assenza sarebbe stata disastrosa, soprattutto riguardo al periodo ’80 – ’90.
Purtroppo l'assalto non è finito, anzi, si ripresenta più duro che in passato: l'aggressione delle coste da parte di "pirati contemporanei", che mirano solo a rapinare le risorse di tutti e lasciare accumuli di materie informi e nocive, è più imminente che mai. Non resta che ritrovare attraverso la partecipazione degli abitanti delle nuove sensibilità, per comprendere quanto sia necessario bonificare l'ambiente delle nostre vite, non solo dall' inquinamento da petrolio o da cromo, ma da quello di un mercato perverso e volgare, dalla disarmonia, dal disamore dei luoghi e dalla disequità sociale che avvelenano, a volte senza che ce ne rendiamo conto, di infelicità le nostre anime. In questa ottica, pare sia un progetto della Regione Liguria, che si intitola Aurelia e le altre in quanto propone, attraverso una lettura strutturata e articolata della strada, di individuare un grande parco culturale e paesistico, oggi non ancora adeguatamente apprezzato e conosciuto. La conoscenza di questa arteria vitale penso che possa far comprendere, anche agli stessi patrocinatori del progetto, che l'Aurelia e quindi la Liguria non necessitano, per essere alla moda, di mostuose spettacolarità, gli basta essere se stesse.
Qui una traiettoria lunco la costa tirrenica calabrese, qui una nel parmense e qui, in calce all'articolo, un'altra lungo la statale adriatica. I "compiti a casa" della "Scuola di Eddyburg" 2007
Lo scritto di Roberto Camagni riprende e sviluppa una delle lezioni tenute alla seconda edizione della Scuola di eddyburg (2006). Il testo visibile sul monitor non compende: le tabelle e le figure, l’intera parte dedicata al confronto tra Milano e Monaco di Baviera e la bibliografia. Il testo integrale è scaricabile in formato .pdf (in calce)
Premessa
La città è innanzitutto un grande bene pubblico, fatto di strade, parchi, stazioni, aeroporti, reti di mobilità e di comunicazione, servizi, tutti elementi che implicano una spesa pubblica, nazionale o locale, in conto capitale o in conto corrente.
Essa può essere anche considerata un “bene di club” - una categoria intermedia fra i beni pubblici, che sono a disposizione di tutti e per i quali non esiste una “rivalità” nell’uso, e i beni privati (tipicamente “rivali”) - in quanto la sua disponibilità:
- avvantaggia chi è socio del club, e cioè nel caso della città, innanzitutto gli stockholder urbani (proprietari), e poi in modo decrescente i residenti e i city-users, ma in modo limitato gli esterni;
- fornisce una utilità proporzionale alla dimensione del club (“effetto rete” o “esternalità di rete”, tipico ad esempio dei soci di un network telefonico); nel caso della città, questo effetto deriva dalla presenza di economie di agglomerazione [1].
Ad essere ancora più precisi, possiamo dire che la città è un bene “collettivo”, creato e definito da investimenti e decisioni sia pubbliche che private.
Da tutto ciò segue una conseguenza importante: il valore economico delle sue singole parti non è determinato dall’azione singola, ma dall’azione collettiva, esterna al singolo attore, dal fatto cioè che si verificano sinergie e esternalità incrociate con tutte le decisioni – localizzative, di investimento, di gestione – che avvengono o sono avvenute nell’intorno fisico del luogo in cui la decisione individuale si è realizzata.
Come si vedrà, questo elemento risulta estremamente importante allorché si tratta di reperire le risorse per effettuare gli investimenti pubblici che fanno vivere la città. Il tramite, logico prima che economico, è costituito dalla rendita fondiaria urbana, il valore dell’unità fondiaria o immobiliare su cui si realizza l’investimento privato: se tale valore infatti dipende in misura rilevante dagli investimenti che la pubblica amministrazione realizza nel contesto urbano nonché dagli investimenti che altri soggetti privati realizzano nell’intorno, esso può essere almeno parzialmente tassato.
Il problema del finanziamento degli investimenti pubblici è divenuto cruciale negli anni recenti, in presenza della cosiddetta crisi fiscale dello stato: per effetto di numerosi elementi – globalizzazione, interventi pregressi di finanza pubblica allegra che hanno creato un vistoso debito pubblico, espansione delle tipologie di beni pubblici cruciali nella nuova fase di sviluppo ma anche necessità di alleggerire il peso fiscale sulle attività economiche – lo stato non è più in grado di realizzare tutti gli investimenti pubblici che appaiono necessari (Camagni, 1999).
Questo lavoro intende esplorare le modalità con le quali oggi è possibile finanziare la realizzazione di beni pubblici, senza incrementare il debito pubblico esistente: attraverso la tariffazione dell’uso e la realizzazione a carico di privati (project financing), o attraverso varie forme di tassazione degli incrementi di valore patrimoniale che si vengono a manifestare per effetto degli investimenti pubblici stessi o in occasione di trasformazioni urbane rilevanti.
Quest’ultimo caso viene affrontato alla fine del lavoro, attraverso una analisi comparativa delle modalità di tassazione immobiliare (oneri di urbanizzazione e concessori) nel caso dei grandi progetti di trasformazione urbanistica a Milano e a Monaco di Baviera. Emerge nel caso milanese una forte differenza, a favore del privato e a sfavore del pubblico, rispetto al caso tedesco, una differenza facilmente estendibile al caso italiano.
I beni pubblici tariffabili e il project financing
L’intero ragionamento sul finanziamento degli investimenti pubblici prende le mosse dall’evidenza della crisi del modello tradizionale, che vedeva lo stato farsi carico di tutte le anticipazioni necessarie, stampando moneta (fino agli anni ’70) o emettendo titoli del debito pubblico. Lo sviluppo economico che ne seguiva, generando redditi (profitti, salari, rendite) e consumi, permetteva, attraverso la tassazione, di ripianare il debito (Fig. 1).
La crisi fiscale dello stato, generata dall’accumularsi esplosivo di deficit di bilancio pubblico e dal costo del conseguente servizio del debito per interessi, ha generato una impossibilità per lo stato di contrarre nuovi debiti per finanziare gli investimenti pubblici. Di qui la ricerca di modalità nuove di finanziamento dei pur necessari interventi, nell’attesa di generare risparmio pubblico sufficiente attraverso la riduzione delle spese correnti.
Al fine di identificare una delle possibili soluzioni, facendo intervenire il privato nel finanziamento delle opere pubbliche, occorre costruire una tipologia dei beni pubblici. Essi si distinguono dai beni privati per due caratteristiche essenziali: la non-rivalità nell’uso (la mia fruizione di una piazza non implica la non-fruizione di altri, se non vi è congestione) e la non-escludibilità (impossibilità tecnica di escludere selettivamente qualcuno dall’uso). Emergono quattro categorie di beni (Fig. 2):
- i beni privati, escludibili e rivali,
- i beni pubblici puri, non-escludibili e non-rivali,
- i beni tariffabili ( toll goods), escludibili e non-rivali,
- i beni comuni, non-escludibili ma rivali.
Due categorie intermedie emergono con piena rilevanza territoriale. Innanzitutto i commons o beni comuni, che sono disponibili in quantità limitata ma che, non avendo un costo, vengono spesso sperperati (“la tragedia dei commons”): aria, acqua, balene e pesci nei mari e nei laghi, ma anche suolo e paesaggio. Le possibili risposte risiedono alternativamente in un forte controllo pubblico, nella privatizzazione ove possibile (secondo gli insegnamenti di Coase: un privato gestore di un lago pescoso non consente l’esaurimento delle trote), o in un faticoso ma virtuoso processo di reidentificazione collettiva con il patrimonio e le identità locali (Magnaghi, 2005).
La seconda categoria è costituita dai beni tariffabili, in quanto tecnicamente escludibili: grazie a quest’ultima caratteristica infatti, tali tipi di beni possono essere soggetti a tariffazione, e dunque possono essere assegnati ai privati con un contratto di concessione di costruzione e gestione. Il settore pubblico in questo caso non deve impegnare risorse finanziarie ma solo controllare il rispetto degli obblighi contrattuali sulle caratteristiche delle opere, la loro manutenzione e le modalità di tariffazione. E’ chiaro che in questo caso l’utente deve pagare un prezzo per l’uso dei beni (autostrade, ponti, infrastrutture in generale), un prezzo che garantisca la profittabilità privata dell’operazione; il privato, naturalmente, non regala nulla, anche se apparentemente fornisce un bene pubblico.
E’ per questa categoria di beni che, al di là del tradizionale contratto di concessione, è possibile fare ricorso a nuove fattispecie contrattuali come la cosiddetta finanza di progetto (project finance) (Carbonaro, 1993; Camagni, Mutti, 1994; Imperatori, 1998; Medda, Carbonaro). Si tratta di una tecnica di finanziamento di un progetto basata sulla certezza del flusso di cassa che esso può generare al fine del ripagamento del servizio del debito e sulla “bontà” del progetto stesso, anziché su garanzie patrimoniali fornite dal promotore/debitore. In sostanza, si passa dal concetto tradizionale di “finanziamento per un progetto” a quello di “finanziamento di un progetto”: non si valuta da parte del finanziatore la capacità di rimborso del promotore e la sua solidità patrimoniale, ma le prospettive reddituali del progetto (Tab. 1).
Operativamente, la finanza di progetto prevede la creazione di una società di progetto (“veicolo finanziario”), giuridicamente distinta rispetto ai singoli promotori, che cura la realizzazione dell’iniziativa, e una rete di attori, pubblici e privati, con compiti complementari: finanziatori, imprese di costruzione, fornitori, enti pubblici locali e non che garantiscono contratti di concessione, impegni normativi e di servizio e contributi a fondo perduto (Fig. 3). La struttura contrattuale fra questa rete di attori, e in particolare fra attori pubblici e attori privati, è assai più complessa di un montaggio finanziario tradizionale; per questo è essenziale un rapporto di fiducia reciproca.
I vantaggi di questa forma di realizzazione, al di là del fatto che non impegna l’ente pubblico in un investimento diretto, sono costituiti dal fatto che in generale l’operatore privato è più efficiente nella realizzazione dell’investimento, in quanto apprezza in modo assai più stringente il costo del tempo. D’altra parte, il privato deve essere messo nella condizione di assumere interamente il rischio del progetto: l’eventuale supporto pubblico per l’evidenza di una insufficiente redditività deve essere definito ex-ante e non assumere la forma di garanzia contro rischi di aumenti di costi o di minore domanda. In quest’ultimo caso infatti (project financing “sporco”, spesso utilizzato in Italia) viene meno l’incentivo all’efficienza privata, e dunque il vero vantaggio economico di ricorrere a questa forma di finanziamento.
Nel caso infine che le tecnostrutture pubbliche di realizzazione diano sufficiente garanzia di efficienza, il project finance appare inutile e maggiormente costoso: si aggiunge infatti il profitto del promotore privato ai costi complessivi da sostenere, e il maggiore costo per interessi rispetto a una grande struttura pubblica. Per questa ragione ad esempio SNCF non ha fatto ricorso a questa tecnica nella realizzazione delle nuove linee TGV in Francia (salvo il caso del tunnel sotto la Manica).
Tasse di scopo e recupero di plusvalori fondiari
Il ricorso alla finanza di progetto, o ai metodi più tradizionali di concessione di costruzione e gestione per le grandi infrastrutture (beni pubblici escludibili, come abbiamo visto), non esaurisce le modalità di finanziamento dei beni pubblici urbani. Come è possibile vedere in Figura 4, altri strumenti a carattere fiscale sono disponibili, che presentano solide giustificazioni dal punto di vista economico.
Al di là di possibili trasferimenti pubblici da parte del governo centrale, a fronte di riduzioni di esternalità negative o per favorire esternalità positive, altri due tipologie di interventi sono percorribili:
- la tassazione di eventuali produttori di diseconomie esterne (pensiamo alla utilizzazione di auto privata in città, che può essere tassata con tasse di scopo, con tariffazione della sosta o dell’attraversamento – parking pricing e road pricing ) e la utilizzazione diretta delle entrate per approntare modalità alternative di mobilità ( earmarking), e
- la tassazione dei plusvalori fondiari, effettivi o potenziali, che derivano dalle decisioni di fornitura di beni pubblici urbani (in genere infrastrutture di mobilità, ma anche servizi o interventi sulla qualità urbana).
Per comprendere appieno questa seconda fattispecie, è necessario un breve excursus sulla teoria della rendita fondiaria urbana.
Beni pubblici e rendita fondiaria.
E’ importante subito comprendere che la rendita fondiaria urbana, intesa come il valore di scambio per l’uso del suolo, è ineliminabile: essa infatti si manifesta come la controparte in termini di valore dei vantaggi localizzativi offerti da ciascuna particella di suolo urbano. In conseguenza, essa è indipendente dal regime di proprietà dei suoli, anche se, in diversi regimi di proprietà, cambiano le modalità della sua appropriazione (utilità individuali o rendita burocratica di chi è addetto alla allocazione delle risorse territoriali: in entrambi i casi, essa è facilmente monetizzabile, a fronte, appunto, dei vantaggi localizzativi).
Infine, la rendita fondiaria urbana costituisce strumento potente di allocazione “ottimale” delle attività nel territorio. Si dimostra infatti facilmente come uno dei modelli storici maggiormente rilevanti in questo caso, il modello di von Thünen, non solo interpreti insieme la struttura delle localizzazioni settoriali e il profilo della rendita dal centro alla periferia, ma indichi contemporaneamente il modello insediativi ottimale dal punto di vista, duplice, della massimizzazione del reddito complessivo e della minimizzazione dei costi di trasporto [2].
I vantaggi localizzativi a loro volta sono creati dalla localizzazione dei seguenti asset:
- i beni pubblici di accessibilità,
- i beni pubblici di qualità urbana e ambientale,
- i servizi pubblici localizzati,
- la dimensione complessiva della città e la sua generale attrattività (efficienza, qualità della vita, identità).
I primi tre casi stanno alla base della rendita differenziale, a carattere micro-territoriale, specifica di ogni unità spaziale; il quarto sta alla base della formazione della rendita assoluta, a carattere macroterritoriale, che si manifesta su tutte le unità di suolo urbano in modo simile.
Dunque: i vantaggi localizzativi (e la conseguente rendita fondiaria)sono creati dagli investimenti pubblici, dalla pianificazione e da quello che gli economisti classici chiamavano lo “sviluppo generale della società”. In conseguenza la rendita fondiaria sarebbe “un reddito non guadagnato”, che deriva da quanto accade per decisione in parte pubblica e in parte privata nello spazio circostante di ogni unità territoriale.
Importante è la conseguenza pratica che segue da questo ragionamento: come affermava Alfred Marshall alla fine dell’ottocento, se la rendita fondiaria fosse tassata al 100%, ciò costituirebbe uno sconvolgimento politico maggiore, ma dal punto di vista economico non genererebbe alcun effetto, “il vigore dell’industria e dell’accumulazione non ne sarebbe necessariamente danneggiato”[3].
Da tutto quanto precede, si può derivare la giustificazione per il secondo tipo di interventi, citato nel paragrafo precedente, per finanziare la produzione di beni pubblici urbani: la tassazione dei plusvalori fondiari derivanti dall’offerta e la localizzazione di nuovi beni pubblici (in una percentuale da definire “politicamente”)[4].
Questo tipo di interventi può assumere tre forme parzialmente differenti (Camagni, 1999):
- il “ recapture” di plusvalori patrimoniali immobiliari derivante dalla fornitura di beni pubblici localizzati (ad esempio, nuove stazioni lungo linee di trasporto pubblico metropolitano); le betterment levies inglesi e i contributi di miglioria specifica introdotti per qualche anno nella nostra legislazione negli anni ’60 appartengono a questa categoria [5];
- la tassazione dei developer, che trasformano terreni urbani divenuti appetibili grazie alla sopravvenuta (maggiore) centralità, anche attraverso procedure negoziali divenute normali nella maggior parte dei paesi avanzati;
- la internalizzazione di esternalità: con questo termine si intende la valorizzazione di terreni adiacenti alle aree di nuova accessibilità (nuove stazioni) attraverso la concessione di permessi di costruire edifici a varia funzionalità, in modo da poter generare plusvalori fondiari e immobiliari rilevanti da far rientrare nella disponibilità pubblica attraverso una tassazione. Nella maggior parte dei casi internazionali, il developer è costituito qui da una grande agenzia pubblica, ma niente vieta che si tratti di privati con i quali avviare una negoziazione pubblico/privato (come nel caso, ricordato in Fig. 4, parte di una procedura complessa di project financing).
Dunque, si procede in genere alla tassazione della rendita fondiaria in presenza di trasformazioni, cioè allorché si manifesta (e il privato si appropria di) una differenza fra la rendita potenziale e la rendita attuale:
- perché gli usi storici sono divenuti impropri (aree dismesse)
- per effetto del degrado cumulativo (“ rent gap theory”)
- per urbanizzazione di aree agricole perturbane
- per processi di riqualificazione del centro storico
- per effetto della predisposizione di nuovi beni pubblici (metro, ..).
Si chiede al privato di partecipare genericamente ai costi pubblici di manutenzione della città, più specificamente ai nuovi costi pubblici che sono implicati dalle trasformazioni (oneri di urbanizzazione) o agli investimenti pubblici che valorizzerebbero il patrimonio privato.
[omissis]
Conclusioni
In questo lavoro si sono volute esplorare le diverse forme possibili di finanziamento della “città pubblica” in epoca di crisi della finanza locale. Si sono analizzate le diverse forme di project financing e soprattutto le diverse forme di “ri-cattura” dei plusvalori fondiari e immobiliari conseguenti alle operazioni di trasformazione urbanistica. Tali plusvalori emergono proprio per effetto della costruzione dell’insieme di opere e infrastrutture pubbliche (oltre che dei conseguenti investimenti immobiliari privati), in presenza di un “non-lavoro” da parte dei proprietari: emerge così una giustificazione forte perché una parte di essi possa ritornare al pubblico proprio per finanziare le opere.
Si sono poi analizzate le modalità con cui in Italia si utilizzano gli oneri di urbanizzazione allo scopo di realizzare le normali infrastrutture e sovrastrutture, e si è effettuato un confronto fra un Programma Integrato di Intervento a Milano e simili programmi negoziati fra pubblico e privato a Monaco di Baviera. Appare evidente che a Milano l’introduzione di una procedura di negoziazione urbanistica - se pure ha certamente consentito di flessibilizzare e accelerare i processi di trasformazione - non ha in nessun modo alterato la storica sotto-tassazione delle trasformazioni urbane e degli incrementi di valore generati. Ad essere ottimisti, il pubblico ottiene solo un terzo di quanto realizzato a Monaco.
Questo appare dunque un campo aperto al miglioramento delle pratiche negoziali da parte dei comuni, spesso colpevolmente inerti o incapaci di difendere adeguatamente l’interesse pubblico; ma anche un campo in cui sarebbe essenziale il supporto di una nuova legislazione urbanistica nazionale e di nuove regole sulla tassazione delle rendite e dei plusvalori immobiliari.
[1] Si veda al proposito il Cap. 1 del mio manuale di economia urbana: Camagni, 2000.
[2] Si veda al proposito Camagni, 2000, cap. 6.
[3] Interessante notare come, in successive ristampe dei suoi Principles, Marshall abbia censurato questa frase: era intervenuta nel frattempo l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che scomunicava, insieme al marxismo, il “georgismo”, la dottrina che prevedeva un’unica imposta del 100% sulla rendita e l’abolizione delle imposte su profitti e salari. Si veda Camagni, 2000, p. 193.
[4]La cosiddetta “regola d’oro” della finanza locale afferma che, in equilibrio, la spesa in beni pubblici eguaglia il “surplus” della città (differenza fra valore prodotto e costi) e questo eguaglia (è assorbito da) la rendita fondiaria.
[5] Il limite di questa tipologia consiste nel fatto che si tassano plusvalori potenziali ma non realizzati su alcun mercato (almeno finché il proprietario non aliena il suo immobile rivalutato), e questo dà luogo a probabili e costosi contenziosi.
Beni/merci
Beni e merci sono termini che si riferiscono ai medesimi oggetti. Si tratta di punti di vista diversi. Se considero, a esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne traggo, quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto definirlo come merce. Il bene è destinato all'uso, la merce allo scambio. In riferimento a questa distinzione gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti inteso come bene o come merce.
Naturalmente ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, sono certamente beni, ma non sono merci.
Produzione/consumo; consumo/fruizione
Nell’attività economica si distinguono due momenti principali: la produzione (che è l’attività di formazione di beni nuovi mediante l’impiego di beni esistenti, ivi compresi il lavoro e la cultura del produttore) e il consumo (che è l’impiego dei beni prodotti,o di altri beni esistenti in natura, da parte del produttore o del processo produttivo). Il produttore consuma abiti, cibo, aria e acqua, cultura e altri beni materiali o immateriali; il processo produttivo consuma materie prime, naturali o a loro volta prodotte da un altro processo produttivo, e lavoro.
È opportuno distinguere il consumo, destinato al proseguimento del processo produttivo, dalla fruizione, finalizzata invece alle esigenze dell’uomo. Si tratta della medesima attività, ma, per riprendere una distinzione già fatta, quando parliamo di consumo ci riferiamo alla merce (e al valore di scambio), quando parliamo di fruizione ci riferiamo al bene (e al valore d’uso).
Reddito: rendita, profitto, salario
A differenza di quanto accadesse qualhc decina d’anni fa, nel linguaggio corrente (ma anche in quello politico e amministrativo) oggi reddito e rendita sono termini tra loro molto confusi; spesso si adopera l’uno come sinonimo dell’altro. Nel governo del territorio, in tutti i suoi aspetti, la rendita assume un significato molto importante, quindi è necessario definirla con sufficiente precisione.
L’economia classica distingue tre forme di reddito (cioè di guadagno). La rendita è il reddito derivante a un soggetto per il fatto che è proprietario di un bene, utile e scarso (questi due requisiti definiscono un bene “economico”); egli può cederne o meno l’uso (o la proprietà) a qualcuno che lo desideri o ne abbia bisogno. Il profitto è il reddito derivante a un soggetto (il capitalista) che associa diversi elementi (materie prime, lavoro, impianti fissi etc.) e organizza un processo produttivo finalizzato alla produzione di merci. Il salario è il reddito percepito dal soggetto (il proletario) che mette a disposizione, per un determinato periodo di tempo, la sua capacità di lavorare.
La rendita fondiaria è quella che deriva dalla proprietà di una terra (fondo); quella edilizia dalla proprietà di un edificio: la rendita immobiliare comprende l’una e l’altra. La rendita immobiliare è costituita dalla rendita assoluta e dalla rendita relativa o di posizione. La prima corrisponde al minimo comune denominatore di tutte le rendite immobiliari in quella determinata area, la seconda dipende dalla maggiore o minore appetibilità di quel determinato immobile rispetto agli altri.
La rendita non puà essere eliminata del tutto. Essa però può essere fortemente controllata e ridotta da un’attenta politica urbanistica, mentre è aperto da oltre un secolo il dibattito sull’opportunità che la rendita immobiliare, che dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività (storica e attuale), torni alla collettività mediante la politica fiscale.
Sviluppo / crescita
Sviluppo è un termine ambiguo. Per meglio dire, è adoperato in modi diversi, e assume diversi significati. E’ un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia.
Nel linguaggio corrente, il termine sviluppo è riferito all’economia, alla crescita cioè di una serie di dati quantitativi a loro volta correlati a grandezze che si ritengono funzionali al benessere umano, come l’occupazione, il reddito delle persone, il fatturato delle imprese, la quantità di merci prodotte. Espressioni quali sviluppo ineguale o sviluppo squilibrato esprimono l’idea che lo sviluppo possa avere anche aspetti negativi e innescare processi non giusti, ma raramente si critica il fatto che concetto di sviluppo sia stato ridotto a quello di crescita quantitativa.
Ora è dimostrato che lo sviluppo, inteso nel significato corrente, provoca (ha già provocato) danni gravi e minacce paurose al destino del genere umano. Da qui è nata una riflessione e - in sede internazionale - il tentativo di correre ai ripari. Pur senza criticare a fondo il concetto di sviluppo (e i concreti processi economici e sociali in cui esso si manifesta) la Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'ONU ha proposto una mediazione, espressa nel termine sviluppo sostenibile.
Sostenibile / durevole
Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che «soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ai loro». È certamente – come dimostrano gli stessi testi ufficiali - una "definizione di compromesso". Gia ai tempi della Commissione dell’Onu che coniò il termine (1989) la sostenibilità non era contraddittoria con la crescita, sebbene esprimesse chiaramente la convinzione che le condizioni del pianeta impongono del “limiti” allo sviluppo economico. Sebbene sia certamente un compromesso avanzato e una definizione severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo capitalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.
Quanto compromesso fosse avanzato è comunque testimoniato dalle successive trasformazioni del termine. Mentre originariamente la sostenibilità era riferita all’ambiente, e in particolare alla sua componente naturale, successivamente si è parlato della necessità di garantire alla sviluppo sostenibilità ambientale, economica, sociale. La scarsità delle risorse non pone quindi limiti invalicabili alla crescita, pochè non è stabilita nessuna priorità alla sostenibilità ambientale ma essa è posta sullo stesso piano di quella sociale e, soprattutto, di quelle economica. Si sa che nel conflitto tra ambeinte ed economia à la seconda che vince. Di fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland. Nella lingua francese il concetto di sviluppo sostenibile viene sostituito da quello di “developpement durable”, “sviluppo durevole”, che forse esprime meglio il concetto originario.
Risorse / patrimonio
Tra le definizioni di risorsa che più si avvicinano all’uso nel linguaggio corrente vi è questa: “i mezzi di cui si dispone e che possono costituire sorgente di guadagno e di ricchezza” (Il Nuovo Zingarelli, 1983). Cioè il termine risorsa suggerisce un’utilizzazione economica del bene, disponibile o accumulato naturale o frutto del lavoro dell’uomo. Il termine patrimonio è apparentemente molto simile: “complessodi elementi materiali e non materiali, di valori e simili, aventi origini più o meno lontane nel tempo, peculiari di una persona, una collettività, una nazione”. Strettamente connesso al termine patrimonio è però l’dea della conservazione e della trasmissione agli eredi. Non a caso il francese patrimoine è declinato nell’inglese heritage, eredità. Significative le definizioni francesi (Larousse, Dictionnaire de la langue française, 1989): “Ensemble des biens de famille reçus en heritage” e “Bien commun d’une collectivité, d’un groupe humain, de l’humanité consideré comme un héritage transmis par les ancètres” (“Insieme dei beni di famiglia ricevuti in eredità” e “ Beni comuni d’una collettività, d’un gruppo umano, dell’umanità, considerato come un’eredità trasmessa dagli antenati”).
Il termine risorsa evoca quindi l’dea di uno sfruttamento economico del bene, della sia trasformazione in merce, della sua commercializzazione, mentre il tyerminme patrimonio contiene in sé l’idea della conservazione e della trasmissione, e in qualche misura quella dell’appartenenza a una comunità: dalla famiglia, allargata verso i posteri, della comunità, dell’umanità intera.
Comune/individuale; pubblico/privato
Nel linguaggio corrente si tende a confondere privato con individuale e comune (o collettivo) con pubblico. Sono termini tra i quali è bene distinguere: parlo di comune e individuale quando mi riferisco all’uso, parlo invece di privato e pubblico quando mi riferisco alla proprietà e alla gestione.
Così, per esempio, un servizio di trasporto collettivo, autobus o treno, può essere organizzato o gestito da un soggetto pubblico (il comune, la provincia o un’azienda appartenente a enti pubblici), ma anche da un soggetto privato. E un mezzo di trasporto individuale, come a esempio la bicicletta, può essere messo a disposizione dei cittadini da un soggetto pubblico, come avviene in molte città europee.
Ambiente, territorio, paesaggio
Ambiente, territorio, paesaggio sono termini usati spesso come equivalenti. Sarebbe utile invece distinguerli, poiché si riferiscono ad aspetti differenti della medesima realtà.
In ecologia l’ambiente, secondo Mario Di Fidio, è «l’insieme dei fattori abiotici (fisici e chimici) e biotici (animali e vegetali) in cui vivono i diversi organismi ed in particolare l’uomo» (Dizionario di ecologia, Milano, Pirola, 1996, p. 40). Con riferimento specifico alla società umana, l’ambiente ha assunto un significato più ampio: esso è tutto ciò che riguarda l’uomo, lo può influenzare e, viceversa, può esserne influenzato.
Per territorio intendiamo invece una porzione di ambiente delimitata da un confine. Sovente si tratta di un confine amministrativo a cui corrisponde, in genere, un ente definito, appunto, territoriale. Secondo Piero Bevilacqua il territorio è la «natura degli storici: vale a dire l’ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso» (Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Roma, Donzelli, 1996, p.9. ).
Il termine paesaggio esprime in ultima analisi la forma del territorio, il suo aspetto esterno, fisico. È stato definito e interpretato a partire da considerazioni prevalentemente estetiche, oppure di tipo geografico, riferite a una serie di variabili più estesa di quelle percepibili visivamente, come il clima, la morfologia, l’idrologia e la vegetazione, per arrivare ad abbracciare nuovamente il rapporto fra l’ambiente naturale e l’azione dell’uomo. Così, a esempio, per Emilio Sereni il paesaggio agrario è «quella forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale» (Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 21).
Negli anni più recenti si è posta l'attenzione sul ruolo del paesaggio come elemento che caratterizza l’identità di una determinata popolazione, e quindi anche al modo in cui il paesaggio è percepito dalla popolazione che lo vive.
Alla domanda che intitola il seminario odierno viene voglia di rispondere: “Tutti in teoria, nessuno in pratica”.
Perché è questa, purtroppo, l’esperienza di chi cerca – da semplice cittadino, ancorché talvolta organizzato insieme ad altri in associazioni, comitati, ecc. - di cimentarsi nell’arduo compito di impedire almeno gli scempi più vistosi, le distruzioni più assurde, le speculazioni più evidenti.
1. Un po’ di storia. Il PURG del ’78 e la sua (mancata) attuazione
Vediamo il caso della mia Regione, il Friuli-Venezia Giulia, un tempo additata come modello in Italia proprio in fatto di pianificazione del territorio. Fu la prima, infatti (in realtà la seconda, dopo l’Umbria), a dotarsi di uno strumento di pianificazione che oggi si direbbe d’”area vasta”, vale a dire il Piano Urbanistico Regionale Generale (PURG) approvato nel 1978.
Un piano, certo, ancora “sviluppista”, anche se va tenuto conto che a PURG ormai pronto si verificò il terremoto del Friuli del maggio ’76, il quale – come tutte le “emergenze”, almeno in Italia – produsse da un lato la conseguenza di irrobustire la forte corrente di pensiero ostile all’urbanistica in quanto tale. Dall’altro lato, con l’enfatizzazione del successo dei sindaci nel gestire la ricostruzione, pose le basi psicologiche e politiche per una progressiva enfatizzazione del ruolo delle comunità locali nelle scelte territoriali.
Il PURG avrebbe potuto, tuttavia, rappresentare una buona base di partenza nel senso di una gestione del territorio “sostenibile” o meglio fondata sul principio della tutela della biodiversità e quindi delle reti ecologiche (più che delle sole aree protette intese in senso tradizionale), avendo previsto il sistema degli ambiti di tutela ambientale (76) e dei parchi regionali (14), estesi su circa il 30 % del territorio regionale. Un sistema, va detto e sottolineato, che nasceva da un forte coinvolgimento nella stesura del piano delle migliori conoscenze scientifiche allora disponibili in merito alle valenze ambientali presenti sul territorio regionale.
Un sistema che non sarebbe stato difficile, volendo, far evolvere verso un’autentica “rete ecologica” (in parte lo era già). Si preferì invece ripiegare su una gestione molto tradizionale e burocratica della materia, delegando ogni iniziativa sui parchi e gli ambiti di tutela ai Comuni e trasformando così un’idea originale e innovativa nell’ennesima occasione per la spartizione più o meno clientelare – e casuale - di incarichi per la progettazione di piani e per la realizzazione di opere pubbliche, non di rado discutibili (il prolungamento della “Napoleonica” in Comune di Trieste, ad esempio). Risultato : alcuni “parchi di carta” e nessuna effettiva tutela degli ecosistemi.
E ovviamente neppure del paesaggio.
Senza contare che talvolta fu la stessa Giunta regionale a decretare la “morte” di alcuni ambiti di tutela, a vantaggio di interessi economici privati evidentemente ben rappresentati in sede politica (è accaduto ad alcune preziose aree naturali della pianura friulana, distrutte dalla sciagurata politica dei riordini fondiari).
L’esperienza fallimentare di quegli anni avrebbe potuto essere di insegnamento almeno per evitare di ricadere in errori analoghi. Era infatti del tutto evidente come non fosse saggio affidare al livello comunale (in una sorta di devolution ante litteram) la responsabilità della gestione di un patrimonio tanto prezioso, quanto delicato e soggetto ad innumerevoli pressioni e minacce.
E invece la successiva legge urbanistica regionale, la n. 52 del 1991, rappresentò un ulteriore decisivo passo verso la rinuncia della Regione – a vantaggio dei Comuni – ad un ruolo “forte” sia nella pianificazione territoriale, sia nella tutela del paesaggio. Basti riflettere alla sub-delega ai Comuni (senza indirizzi e direttive di sorta) della competenza sulle autorizzazioni paesaggistiche e all’autentico abominio cui sono oggi ridotte gran parte delle Commissioni Edilizie Integrate comunali.
Una rinuncia, va ricordato, non accompagnata da alcun contrappeso istituzionale, come avrebbe potuto essere ad esempio un rafforzamento della trasparenza e della partecipazione (che è anche, inevitabilmente, controllo) da parte dei cittadini, insieme all’inserimento organico del ruolo di alcuni organi dello Stato (le Soprintendenze, ad esempio) nell’elaborazione dei piani.
Per tacere del fatto che fu completamente ignorato un problema sostanziale : l’inadeguatezza tecnica e strutturale di molti Comuni (quelli più piccoli, in primo luogo, che sono però la stragrande maggioranza) a gestire attività e procedure complesse come quelle relative ai PRGC ed ai PRPC (Piani regolatori particolareggiati comunali).
Il tutto nell’assenza totale di un quadro di riferimento sovracomunale o d’area vasta, perchè il PTRG (Piano territoriale regionale generale) previsto dalla 52/1991 in sostituzione del PURG, com’è noto, non ha mai visto la luce. Benché, com’è forse meno noto, fosse stata prodotta in funzione del PTRG medesimo una copiosa – e costosa – serie di studi preparatori e lo stesso PTRG fosse in realtà pronto nella seconda metà degli anni ’90 (in due versioni successive, come hanno spiegato altri relatori di questo convegno).
Nel frattempo alcune importanti novità, che avrebbero dovuto indurre la Regione ad adottare un approccio più consapevole rispetto ai valori ambientali (magari riprendendo, sviluppando e soprattutto applicando sul serio le previsioni già contenute nel PURG), erano pur intervenute.
Prima fra tutte la cosiddetta legge “Galasso” (431/1985) sulla tutela del paesaggio.
Invece, non soltanto non fu colta la fondamentale novità di questa legge, che concepiva il paesaggio meritevole di tutela non più come meri “quadri naturali” identificati da vincoli puntuali, bensì come insieme di ambienti naturali (le aree costiere, i fiumi, i laghi, le montagne, i boschi, ecc.) da assoggettare in quanto a tutela e specifica pianificazione.
Non soltanto ci si rifiutò di cogliere questo aspetto, ma ci si attardò in un miope arroccamento a difesa dell’”autonomia” regionale, contro le “ingerenze” statali, arrivando ad impugnare la legge davanti alla Corte Costituzionale.
Un errore tragico – se di mero errore si trattò – la cui responsabilità ricade ovviamente sulla classe politica al potere in quegli anni, ma anche sul livello tecnico dirigenziale.
Nel frattempo e da allora in poi, naturalmente, l’urbanistica – comunale – ha marciato (e marcia) a pieno ritmo, producendo gli effetti che ognuno può constatare de visu sul territorio.
A dirigerla non c’era ovviamente un quadro di riferimento generale, né un sistema organico di tutele per l’ambiente naturale ed il paesaggio (inesistenti entrambi, come si è detto). C’erano - e ci sono – inevitabilmente soltanto gli interessi, più o meno organizzati di categorie, lobbies, gruppi economici grandi, piccoli e piccolissimi, tutti adeguatamente rappresentati nelle amministrazioni comunali.
Tant’è che il processo di formazione e discussione di un PRGC (o di un PRPC) si riduce spesso - di fatto - ad un penoso gioco autoreferenziale, senza alcun momento di reale trasparenza, tra sindaci e consiglieri (spesso soltanto alcuni consiglieri) comunali, più o meno “ispirati” dai diretti interessati alle trasformazioni, con professionisti e funzionari ridotti al ruolo di notai di decisioni altrui.
Tutto (o quasi) legittimo, beninteso, “legale” e nel rispetto delle regole canoniche. Nulla a che vedere con l’abusivismo anarchico dilagante in altre parti d’Italia. E tuttavia gli effetti negativi sul territorio non sono molto dissimili da quelli che si possono notare in una regione giustamente vituperata per la sua dissennatezza urbanistica, come il vicino Veneto.
Basti pensare a cos’è diventata l’area del pordenonese, oppure all’incredibile congerie di centri commerciali – con relative infrastrutture - a nord di Udine, tanto per citare solo due esempi.
Anche qui, come in Veneto (e non solo), un’allucinante sfilata di capannoni ed edifici dalle più svariate destinazioni, disseminati lungo le statali e le provinciali, al di fuori di qualsiasi logica, con le inevitabili (e queste sì logiche !) conseguenze : congestione viabilistica, scomparsa del paesaggio agrario, spreco di territorio, ecc.
Nessuno, men che meno i Comuni, ha saputo resistere alla spinta verso la proliferazione di zone produttive o “miste” artigianali-commerciali, o artigianali poi trasformatesi in commerciali, o commerciali tout court, qua e là sul territorio. Non si è voluto costruire un serio coordinamento delle scelte insediative, per evitare almeno che ogni Comune si costruisse (con soldi pubblici, si badi !) la propria zona artigianale e poi anche quella commerciale, con tutto l’inevitabile corredo di infrastrutture viarie e non.
Nessuno, neppure le organizzazioni agricole, che pensasse ad una vera tutela del suolo coltivabile di fronte all’inarrestabile espansione del cemento e dell’asfalto.
O meglio, qualcuno c’era (e c’è ancora) : i soliti rompiscatole ambientalisti, riuniti in associazioni (quelle “storiche”, su questi temi : WWF e Italia Nostra, in pratica, e basta), oppure in comitati spontanei di cittadini. Ma si sa, gli ambientalisti sono fondamentalisti per antonomasia, non hanno in mente lo “sviluppo”, soltanto i “vincoli”…
La natura ed il paesaggio, in un simile contesto, non potevano certo aver sorte diversa dal resto del territorio.
2. I PRGC dell’area triestina
Conviene soffermarsi, per ragioni che diverranno più chiare in seguito, soprattutto su alcuni esempi tratti dalla realtà del capoluogo regionale, Trieste, e del – minuscolo ma prezioso - territorio circostante.
Una serie di piani regolatori, nella seconda metà degli anni ’90, ha disegnato il futuro del territorio nei tre Comuni costieri della provincia triestina.
Il PRGC di Trieste, approvato nel ’97, nacque con l’intento dichiarato apertamente dal sindaco di allora (Riccardo Illy) di servire “al rilancio dell’attività edilizia triestina, da troppo tempo in crisi”. Non per nulla, assessore all’urbanistica nel periodo cruciale della discussione sul PRGC, fu nominato dal sindaco un uomo di punta del locale Collegio Costruttori (l’ing. Cervesi) ... Gli effetti concreti di quel piano sono sotto gli occhi di tutti, specie lungo la fascia costiera.
Va ricordato che la Regione tentò, intervenendo con gli strumenti limitati di cui disponeva in base alla citata legge urbanistica del ‘91, di porre rimedio almeno alle storture più evidenti del piano nelle aree di maggior pregio ambientale. Ne derivò un’asperrima battaglia politico-legale tra il sindaco (oggi presidente) e la Giunta regionale di allora, condotta dal primo in nome dell’”autonomia” comunale e – purtroppo – vinta davanti al Consiglio di Stato alla fine del ’99, proprio per la mancanza del piano paesistico previsto dalla “Galasso”. Come si vede, gli errori – politici e tecnici – prima o poi si pagano : il guaio è che di solito non li paga chi li ha commessi e in definitiva li paga l’ambiente.
Il PRGC di Muggia (approvato nel 1999) nasce invece sotto il segno dello “sviluppo turistico”, inteso naturalmente nell’accezione italiana, e quindi prevede colate di cemento, interramenti a mare, nuovi porti nautici e quant’altro lungo tutto il piccolo tratto di costa salvatosi (in parte) dagli scempi compiuti nei decenni passati (grazie alle giunte comunali “di sinistra” di allora). Il piano contiene sì un’analisi abbastanza accurata delle valenze naturalistiche e paesaggistiche, ma le contraddice sovrapponendovi previsioni edificatorie assolutamente inammissibili.
Il PRGC di Duino-Aurisina, sempre del ’99, pur con qualche cedimento e ingenuità, è l’unico a fondarsi su una profonda analisi dei valori ambientali e culturali ed a porsi programmaticamente l’obiettivo di tutelare con rigore lo straordinario patrimonio racchiuso su un territorio piccolo ma estremamente complesso e diversificato (ma anche piuttosto mal gestito fino ad allora).
Manco a dirlo, questo è il piano che corre i maggiori rischi di essere svuotato e stravolto dall’amministrazione comunale in carica.
Nessun esito, pur avendone in teoria la potenzialità, ha avuto il tentativo della Regione (tardo frutto della breve stagione in cui un barlume di consapevolezza si era fatto strada ai vertici della Giunta) di redigere un piano paesaggistico – ancorché sotto falso nome – per l’intera fascia costiera triestina.
Correva l’anno 2000 ed al potere c’era una Giunta di centro-destra, nefasta certo per molti aspetti (compreso un tentativo subito abortito di mettere mano alla legge urbanistica in combutta con i peggiori figuri dell’INU nazionale), ma mai quanto quel che sarebbe venuto dopo.
Ci ha pensato infatti, qualche anno dopo, il neo-eletto presidente della Regione (Illy, sempre lui…) a decretare – in aperto spregio della legislazione statale in materia - che il piano paesaggistico della costiera triestina “…non saranno inserite previsioni che contrastino o contraddicano gli strumenti urbanistici dei comuni interessati”, affossandolo quindi sul nascere.
Non sia mai che a qualcuno venga in mente di rivedere la villettizzazione prevista dal PRGC di Trieste proprio in quell’area!
3. L’urbanistica e il paesaggio in Friuli Venezia Giulia nell’era di Illy
Nel programma della Giunta Illy, sui temi della pianificazione territoriale e del paesaggio non c’è nulla, e assai poco anche su quelli ambientali. C’è parecchio invece per quanto concerne le politiche industriali, l’innovazione e la competitività del sistema produttivo regionale, ecc.
Un sintomo abbastanza chiaro, per chi l’avesse voluto cogliere, dell’indirizzo che il nostro intendeva dare all’attività dell’amministrazione regionale.
Gli atti successivi non facevano che confermare l’impressione di una Giunta intenta a rispondere soprattutto alle “esigenze” – spesso soltanto presunte - del sistema produttivo, così come rappresentate dalle istanze organizzate dello stesso (Confindustria in primis, ovviamente).
Ecco quindi, similmente a quanto fatto a Trieste per compiacere la lobby dei costruttori, l’enfasi estrema sulle infrastrutture di trasporto (ferrovie ad alta velocità, ma anche – e soprattutto – strade ed autostrade) e su quelle energetiche (elettrodotti, rigassificatori per GNL).
Il tutto, ben inteso, anche quando aveva ed ha ovvie e pesanti ricadute territoriali, paesaggistiche ed ambientali, al di fuori di qualsiasi quadro programmatico e pianificatorio: l’infrastruttura come postulato, come a priori. Non quindi un approccio problematico, che cerchi di capire – il più possibile oggettivamente, sulla base di studi, analisi costi-benefici, valutazioni strategiche e di impatto ambientale – quali e quante infrastrutture servano davvero al Friuli Venezia Giulia e siano compatibili con i valori irrinunciabili del suo territorio, bensì il progetto dell’opera come punto di arrivo che non si può discutere, al quale vanno subordinati piani e strumenti di tutela.
E’ per questo che il WWF, avendo iniziato subito un scrupoloso monitoraggio sull’attività della Giunta Illy in campo ambientale, ha infine riassunto le proprie valutazioni in un documento organico (v. allegato 1), inviato a tutti i possibili “portatori di interesse” e referenti istituzionali (anche nazionali), senza però –apparentemente – suscitare particolari reazioni nel mondo politico, neppure da parte della cosiddetta “sinistra radicale”.
L’impostazione politico-culturale della Giunta Illy porta talvolta anche a situazioni al limite del grottesco, come quella in cui il nostro diventa addirittura “certificatore di qualità paesaggistiche”. Accade a Sistiana, febbraio 2005, quando il presidente della Regione incontra il sindaco di Duino-Aurisina (un ex collega, in fondo…) e l’imprenditore privato (un altro collega…) che in quella baia vorrebbe realizzare un ignobile mega-progetto turistico-immobiliare e “attesta” l’alto valore paesaggistico dell’intervento, proponendo addirittura. delle “migliorie” (peraltro ridicole o impossibili a realizzarsi). Di fronte ad un progetto, si badi bene, tenuto segreto a tutti (ma non a lui) allora e per molto tempo anche dopo.
Ma bisogna pur aiutare le iniziative imprenditoriali.
Inutile dire che gli uffici regionali competenti in materia, di fronte a tanto autorevole certificazione, si sono prontamente adeguati….
Del resto, ancor prima a Lignano, la pineta di proprietà dell’EFA (carrozzone pseudo-assistenziale ma in realtà immobiliare, di proprietà della Curia di Udine), pur assoggettata a vincolo paesaggistico nei primi anni ’90 proprio per decisione della Regione, è stata sventrata per far posto ad alcuni edifici sportivi privati (che avrebbero potuto benissimo trovar posto altrove). In questo caso, non si è esitato ad applicare la normativa regionale sui lavori pubblici ereditata dalla precedente amministrazione di centro-destra, trattandosi sì di un intervento privato, ma sostenuto da un contributo regionale e quindi parificato ad un’opera di pubblica utilità. Una normativa, ça va sans dire, che permette di scavalcare agevolmente piani e vincoli ed è assai sbrigativa sotto il profilo delle valutazioni ambientali e paesaggistiche.
Non che il nostro sia del tutto allergico alla pianificazione, beninteso. Basta che i piani siano costruiti a sua immagine e somiglianza e cioè contengano tutto ciò che lui vuole (infrastrutture, ecc.) e non contengano ciò che non vuole (vincoli paesaggistici o ambientali insuperabili, ad esempio). Ecco quindi che, di fronte ad alcune – grosse - difficoltà insorte nell’iter di un progetto che gli sta particolarmente caro, cioè la linea ferroviaria ad alta velocità Venezia – Trieste, spunta improvvisamente l’urgenza (neppure accennata, come detto, nel programma di Giunta) di un Piano Territoriale Regionale. O meglio, di una legge che ne indichi finalità e procedure. L’obiettivo vero è però un altro, come vedremo.
Ecco, quindi, il solerte assessore alla pianificazione territoriale (nonché all’energia, alla mobilità e alle infrastrutture di trasporto…), Sonego, approntare di gran carriera quella che sarebbe diventata poi la legge regionale 30 del 2005. La quale all’art. 5 espone sinteticamente tutte le proprie “coordinate culturali”: l’economicismo di fondo, la confusione dei piani e degli obiettivi, la demagogia e l’indeterminatezza delle enunciazioni. E’ infatti questo, probabilmente, il primo caso in cui ad un Piano territoriale si impongono “equi-ordinate” finalità strategiche quali “la conservazione e la valorizzazione del territorio regionale, anche valorizzando le relazioni a rete tra i profili naturalistico, ambientale, paesaggistico, culturale e storico” insieme alle “migliori condizioni per la crescita economica del Friuli Venezia Giulia e lo sviluppo sostenibile della competitivita’ del sistema regionale”.
Che cosa significhi poi, anche dal mero punto di vista semantico, “lo sviluppo sostenibile della competitivita’ del sistema regionale”, è questione troppo ardua per essere risolta dalle modeste capacità del sottoscritto e richiederebbe ben altre doti esegetiche.
Ma tant’è, così si scrivono le leggi oggi in Friuli Venezia Giulia.
I contenuti “programmatici” della legge 30 sono stati successivamente ripresi, pari pari, nella nuova legge urbanistica regionale, la n. 5 del 2007, che ha sostituito la precedente n. 52 del ’91.
Per una disamina puntuale del testo normativo, si veda l’allegato 2, riferito in realtà al disegno di legge originario; le modifiche introdotte in fase di approvazione non sono però tali da mutare la sostanza dell’articolato e quindi neppure il giudizio del WWF su di esso. Un altro importante commento alla legge regionale 5/2007 è quello del compianto Luigi Scano, pubblicato su www.eddyburg.it
Naturalmente, il vero obiettivo della legge 30 era ben altro. Vale a dire le infrastrutture. Il Capo II della legge è infatti costruito con l’obiettivo dichiarato di “preservare la possibilità di realizzare infrastrutture strategiche ovvero di dotare la Regione di strumenti che ne facilitino la realizzazione”. Ecco quindi, sempre rigorosamente al di fuori di qualsiasi previsione pianificatoria, strumenti come la sospensione provvisoria dell’edificabilità “sulle domande di concessione o di autorizzazione edilizia in contrasto con progetti che siano stati dichiarati di interesse regionale”. La dichiarazione spetta, ovviamente, alla Giunta regionale. Il testo originario del disegno di legge indicava esplicitamente alcuni di questi progetti strategici: le “opere ferroviarie di attuazione del Corridoio V e quelle ad esso complementari” e le “opere del nuovo collegamento stradale Cervignano-Manzano e quelle ad esso complementari”. Indicazioni poi espunte, per pudore, nel testo definitivo.
Con tali premesse, appariva abbastanza chiaro cosa ci si potesse aspettare dal PTR.
Il piano vero e proprio è stato preceduto da un – corposissimo – “Documento preliminare al PTR”, sul quale è stato anche avviato un pretenzioso quanto vuoto ed insulso “processo partecipativo”, ispirato (si vorrebbe far credere) ai principi di Agenda 21.
Si rimanda al commento di dettaglio del WWF su tale elaborato (v. allegato 3). Basti dire che dalle 550 (!) pagine del documento non emerge alcun indirizzo chiaro, per quanto concerne elementi imprescindibili di ogni serio strumento di pianificazione territoriale, come le questioni ambientali e del paesaggio: imprescindibili specie per un PTR che si vorrebbe abbia anche valenza di piano paesaggistico!
Invece, anche qui, emerge con assoluta evidenza l’approccio essenzialmente economicistico alle questioni territoriali e l’enfasi sulle infrastrutture strategiche, accanto a “perle” di assoluto valore umoristico – ancorché involontario – quali l’impagabile finalità del Piano consistente nell’“offrire sostegno alla zootecnia ed al pascolo (con reintroduzione di cavalli, mucche, ovini che a livello di coscienza collettiva contribuiscono a ‘fare paesaggio’)”.
Men che meno, si rinvengono nel documento preliminare, indicazioni forti in merito ad una concezione moderna del paesaggio e dell’ambiente naturale, concezione che pur era presente – almeno in nuce – nel PURG del 1978. Una concezione, cioè, che si incentri sulla tutela degli ecosistemi, più che di singole “isole” di pregio naturalistico, che di conseguenza punti alla tutela e al recupero delle connessioni funzionali tra gli ecosistemi stessi attraverso un sistema di reti ecologiche e di corridoi naturalistici (tenuto conto, ovviamente, della straordinaria concentrazione di biodiversità presente – malgrado tutto - nel pur limitato territorio regionale). Una concezione, va riconosciuto, ardua da accettare per chi concepisce il futuro del Friuli Venezia Giulia essenzialmente come “piattaforma logistica” e le “reti” le vede rappresentate soltanto da strade, ferrovie ed elettrodotti…
Naturalmente, però, le infrastrutture non possono attendere i tempi, inevitabilmente lunghi, di un PTR. Ecco quindi che, a latere di tutto ciò, si percorrono anche altre strade.
Una di questa è quella che punta ad estorcere al Governo impegni – politici ed economici – per le cose che interessano. Ecco allora il Protocollo d’intesa tra la Regione Friuli Venezia Giulia e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, predisposto la scorsa estate dal presidente della Regione raccogliendo anche i contributi di vari esponenti politici di maggioranza ed opposizione e – ahinoi – sottoscritto dal Presidente del Consiglio il 6 ottobre 2006.
Il commento del WWF sul Protocollo è reperibile all’allegato 4. Qui basti rimarcare che, in perfetta continuità con quanto detto prima a proposito di infrastrutture, il Protocollo contiene una nutrita “lista della spesa” relativa alle opere – viarie – che la Regione chiede di finanziarie, ovvero di sostenere nelle successive fasi progettuali, ovvero di agevolare (è il caso della superstrada Sequals-Gemona) mettendo in riga i funzionari recalcitranti che in qualche Soprintendenza si ostinano a non volersi sottomettere ai desiderata dei sindaci e delle categorie economiche. Il tutto, al solito, prescindendo da qualsiasi pianificazione o programma, come dimostra il caso eclatante del collegamento autostradale tra la A 23 e la A 27 attraverso il traforo della Mauria, opera – voluta da alcuni ambienti economici soprattutto veneti - inserita a forza nel Protocollo soltanto perché “prevista” da un’intesa estemporanea stipulata nell’aprile 2004 tra il presidente del Friuli Venezia Giulia, quello del Veneto ed il ministro delle Infrastrutture. Sono questi gli unici atti programmatici che contano e che devono prevalere, secondo il nostro, su qualsiasi piano e programma.
Il guaio è che finiscono per prevalere anche su elementari considerazioni di sostenibilità tecnico-economica delle opere (per non parlare della sostenibilità ambientale), sulle doverose esigenze di coinvolgimento ed informazione dei cittadini, scavalcando di fatto perfino procedure di valutazione pur prescritte da Direttive europee come la V.A.S..
Proprio come accade con la linea ferroviaria ad alta velocità Venezia –Trieste.
Al Protocollo ha fatto seguito quest’anno un “atto aggiuntivo”, che ne aggiorna alcuni contenuti senza mutare la sostanza, né l’approccio politico-culturale di fondo. Stiamo tentando, in questi giorni, di far percepire ai decisori politici nazionali, l’inopportunità di assecondare Illy su questo terreno, ma la battaglia è in salita: già alcuni parlamentari eletti in Friuli Venezia Giulia hanno assicurato pieno sostegno all’atto aggiuntivo e lo stesso Prodi ha di recente promesso che lo firmerà quanto prima, sia pure previa verifica tecnica sui contenuti.
Bisogna però pur produrre uno straccio di piano, anche perché lo prescrivono le normative nazionali, almeno per quanto concerne il paesaggio (D. Lgs. 42/2004 e s.m.i.). Ovviamente, bisogna che il piano corrisponda, almeno nella forma, a quanto previsto dalle norme statali. Ecco allora intervenire l’Intesa interistituzionale tra la Regione, il Ministro per i beni e le attività culturali ed il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare “per l’elaborazione congiunta del piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici”, predisposta dal solerte Sonego e inviata per la sottoscrizione a Roma.
Un sintomo di rinsavimento? Mica tanto, perché il testo dell’Intesa proposto dalla Regione prevedeva (art. 3) che gli “indirizzi preliminari e generali di cui tener conto nell’elaborazione del PTR” siano costituiti, ovviamente, dal “Documento preliminare al PTR”, quello delle 550 pagine di cui sopra, con mucche, cavalli e ovini che contribuiscono a fare paesaggio.
Per fortuna, in extremis, qualcuno a livello ministeriale ha pensato bene di cassare questo punto. Ora si tratta di vedere se gli organi ministeriali (per il MBBAACC si tratta della Direzione regionale per il Friuli Venezia Giulia), ai quali è stato affidato il compito di seguire l’iter del PTR, avranno la forza di riappropriarsi del proprio ruolo, mettendo un freno alla deriva “sviluppista” ed infrastrutturale del Friuli Venezia Giulia. In fondo, a tutt’oggi, la competenza prevalente in merito alla tutela del paesaggio appartiene allo Stato e la Regione Friuli Venezia Giulia non ha certo ben meritato finora, in questo campo.
L’esame del PTR, disponibile in bozza ma non ancora adottato, è in corso e da un primo esame si può dire che quanto prodotto dagli uffici regionali non si discosta granché dal “Documento preliminare” citato prima.
E’ da augurarsi che non intervengano pressioni politiche, dirette o indirette, ad interferire con il lavoro dei tecnici dei ministeri, incaricati di interagire con gli uffici regionali nella definizione dei contenuti del PTR.
Un segnale pericoloso in questo senso è però rappresentato da quanto accaduto di recente.
4. Di nuovo Sistiana
Succede infatti che una parte (quella più corposamente edilizia, manco a dirlo) del progetto “segreto” per la cosiddetta valorizzazione turistica dalla baia di Sistiana, ottenga l’autorizzazione paesaggistica dal Comune di Duino-Aurisina. Qui si potrebbe aprire un – penoso – capitolo sul funzionamento delle Commissioni Edilizie Integrate, ma è meglio rinviarlo ad un altro momento.
Succede poi che il nuovo Soprintendente BPAASAE del Friuli Venezia Giulia, l’arch. Rezzi, annulli l’autorizzazione comunale, con una corposa e dettagliata motivazione, evidenziando in particolare la difformità della relazione paesaggistica presentata rispetto a quanto previsto nel DPCM 12/12/2005.
Plaudono gli ambientalisti, ma il sindaco è in campagna elettorale e l’argomento baia di Sistiana ne diventa il clou. Tanto che a pochi giorni dal voto il sindaco rilascia una nuova autorizzazione paesaggistica, anche perché nel frattempo il Comune ha incassato parte degli oneri di urbanizzazione dai proponenti del progetto…
Il sindaco viene rieletto con buon margine, ma un paio di mesi dopo il Soprintendente annulla per la seconda volta l’autorizzazione, rincarando la dose nelle motivazioni: il progetto era infatti rimasto tale e quale e così pure la relazione paesaggistica.
Pochi giorni dopo, è di passaggio a Trieste per un convegno di Confindustria sul turismo il ministro Rutelli, il sindaco di Duino-Aurisina e Illy colgono l’occasione al volo per perorare con lui la causa del progetto di Sistiana, che ora “è fatto bene” garantisce personalmente il presidente (già autoinvestitosi del ruolo di esperto paesaggista, come si è visto, cfr. sopra par. 3).
Il tentativo di mettere nell’angolo il Soprintendente è palese e spudorato. Vi si associa anche il sottosegretario agli interni (!), in quanto triestino e, soprattutto, fedelissimo di Illy (fu presidente del Consiglio comunale quando Illy era sindaco).
Piccolo dettaglio, tutto sommato irrilevante visti i tempi che corrono: il sindaco di Duino-Aurisina è di Forza Italia e guida una giunta di centro-destra, mentre il centro-sinistra – in teoria lo stesso schieramento che sostiene Illy - è all’opposizione.
Rutelli se la cava invitando il sindaco a rivolgersi ai superiori romani del Soprintendente. Pare però che l’incontro richiesto con l’arch. Cecchi non abbia ancora avuto luogo.
Intanto il Comune di Duino-Aurisina ha presentato ricorso al TAR contro l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica. Il WWF e Italia Nostra si affiancheranno all’Avvocatura dello Stato nel sostegno alla Soprintendenza e ha chiesto che il ministero faccia altrettanto (v. all. 5).
Il sindaco di ha però dichiarato il Consiglio comunale che anche la Regione interverrà nel giudizio, a fianco del Comune.
Se una Giunta regionale si comporta così per un progetto, è pensabile che non metta in moto tutte le leve politiche a sua disposizione anche per ottenere un trattamento di favore sul PTR?
5. Conclusioni
Tutto ciò può aiutare a dare risposta alle domande che compaiono nel programma della Scuola a proposito del tema di questo seminario?
Probabilmente solo in parte.
Il problema vero non sono infatti gli accorgimenti normativi e procedurali che consentano di meglio equilibrare il rapporto tra i vari poteri, oppure che garantiscano un corretto rapporto tra i cittadini e le istituzioni, oppure ancora che definiscano il rapporto tra la tutela e le decisioni sulle trasformazioni.
Beninteso, modifiche anche rilevanti alle norme attuali – sia in campo urbanistico, sia in quello paesaggistico, sia in quello ambientale – sono senz’altro necessarie e del resto sono state anche già proposte (si pensi ad esempio alla proposta di legge prodotta proprio da Eddyburg in materia di pianificazione del territorio). Tra queste, tengo a sottolineare l’urgenza di una modifica del Codice dei beni culturali e paesaggistici, che restituisca al Ministero BBAACC e alle Soprintendenze la facoltà di intervenire nel merito delle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate da Comuni e Regioni e non più soltanto per vizi di forma come oggi accade.
E’ chiaro altresì, ed è stato più volte ricordato autorevolmente in varie sedi, che un ripristinato ruolo di effettivo controllo sui beni paesaggistici da parte del Ministero BBAAC, non può assolutamente prescindere dal deciso potenziamento delle strutture periferiche (e non solo) dello stesso, oggi ridotte in condizioni di vergognosa indigenza.
Si potrebbe continuare a lungo, elencando le tante proposte di riforma necessarie ed urgenti.
Il problema vero, si sarebbe detto un tempo, è però la “volontà politica” di farle queste riforme e di farle funzionare. Volontà che non c’è, a quanto posso vedere, né a livello centrale, né – come credo di aver dimostrato – neppure a livello locale (almeno per quanto riguarda la mia Regione), anzi.
C’è piuttosto esattamente la volontà opposta, cioè quella di utilizzare tutti gli strumenti e gli organi istituzionali per asservirli agli interessi economici predominanti. C’è in buona sostanza la completa sottomissione del ceto politico - di centro-sinistra come di centro-destra - agli interessi delle lobbies confindustriali e immobiliari (quasi sempre coincidenti).
C’è anche l’asservimento sostanziale dei media a questo contesto politico-economico. Con la conseguente assuefazione della maggior parte dell’opinione pubblica al “pensiero unico” dominante.
Non scopro nulla, sia chiaro.
Però mi pare questo il nodo principale che bisogna provare a sciogliere, se si vogliono cambiare veramente le cose.
Il come farlo è problema che supera le mie capacità di immaginazione. Quel che so è che vale la pena di impegnarsi ad analizzare i problemi e battersi per diffondere con ogni mezzo l’informazione: qualcuno che ascolta prima o poi lo si trova e posso garantire che questa è un’attività che da molto fastidio al “Palazzo”. Prova sufficiente, credo, per concludere che è anche un’attività utile.
Nella sezione SOS Carso una ricca documentazione sulle vicende della Baia di Sistiana richiamate nel testo.
Nella pagine di eddyburg sono disponibili anche il testo della nuova legge urbanistica e una disamina critica di Luigi Scano.
PRESENTAZIONE
L’edizione 2007 della scuola estiva di eddyburg si occuperà del paesaggio e si terrà in Puglia, a Corigliano d’Otranto (25 km da Lecce, 23 da Otranto), nello splendido Castello de’ Monti, dal 26 al 29 settembre.
Come nelle passate edizioni saranno proposte riflessioni sui principi e sulle finalità del governo del territorio, informazioni sull’evoluzione della legislazione e dei contenuti degli strumenti di pianificazione, illustrazioni di esperienze particolarmente significative.
L’edizione di quest’anno prenderà avvio con una giornata dedicata al significato e all’utilizzazione di alcune parole chiave per la pianificazione paesaggistica che nel corso di questi ultimi anni hanno subito uno slittamento e talvolta uno svuotamento rispetto al loro significato originario. La parte centrale della settimana sarà dedicata all’illustrazione delle iniziative promosse dalle amministrazioni regionali della Sardegna (la prima regione ad avere attuato il nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio) e della Puglia (impegnata a restituire alla pianificazione il ruolo di strumento fondamentale per il governo delle trasformazioni del territorio). La giornata conclusiva della scuola, infine, sarà dedicata ad approfondire il tema delle relazioni tra istituzioni, cittadini, associazioni e movimenti nella tutela del paesaggio.
L’attività della scuola sarà preceduta durante l’estate da un lavoro di preparazione che vedrà coinvolti:
- un gruppo di esperti chiamati a costruire il glossario, contenente le definizioni delle parole-chiave, distribuito ai partecipanti e illustrato nella prima giornata della scuola;
- un gruppo di collaboratori di eddyburg, che preparerà i materiali per il seminario conclusivo;
- uno o più partecipanti, ai quali sarà chiesto di rappresentare con fotografie o video alcuni episodi di trasformazione del paesaggio italiano
I documenti prodotti, prima e durante il corso, saranno poi raccolti e selezionati, per confluire in una possibile successiva pubblicazione, su cd-rom e – se possibile – editoriale.
PROGRAMMA
Mercoledi 26, Prima giornata
Voci per un glossario
Riflessione collegiale con l’aiuto di esperti di altri settori sul significato e sull’uso di parole strettamente connesse al tema generale della scuola, come conservazione / tutela, sviluppo / crescita, sostenibile / durevole, risorse / patrimonio / beni, identità culturale / identità locale; e, naturalmente, paesaggio / ambiente / territorio.
L’obiettivo della giornata è quello di raccogliere una pluralità di voci e di testi per districarci da equivoci, slittamenti semantici, strumentalizzazioni, distorsioni e confusioni che governano l’uso di questi indispensabili strumenti del nostro lavoro che sono costituiti, appunto, dalle parole.
Abbiamo invitato a concorrere a una riflessione critica e alla costruzione di un glossario, proseguendo il lavoro iniziato nella seconda edizione della Scuola, esperti di diverse discipline
Nella mattinata verrà illustrato il glossario predisposto nel corso dell’estate da Giovanni Azzena, soprintendente ai beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro e docente di Topografia antica alla Facoltà di Architettura dell'Università di Sassari, Paolo Baldeschi, docente di Urbanistica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze ed esperto di pianificazione territoriale, urbanistica e pianificazione del paesaggio ed Edoardo Salzano, docente di Urbanistica alla Facoltà di Pianificazione del territorio dell’Università Iuav di Venezia e direttore di eddyburg).
Dopo le presentazioni gli studenti, riuniti in piccoli gruppi assistiti da un tutor, discuteranno tra loro e prepareranno le questioni da porre alla discussione. Nel pomeriggio la discussione proseguirà sulla base delle domande proposte dagli studenti.
Giovedi 27, Seconda giornata
Gli strumenti istituzionali
Il rilancio della pianificazione paesaggistica costituisce un’occasione per comprendere in che modo le riflessioni (e in particolare la memoria di quanto di buono è stato acquisito nel passato), può essere tradotto in azioni positive ed efficaci. La pubblica amministrazione è chiamata ad intervenire in prima persona, ma non sempre la sua azione appare coerente ed efficace. Discutiamo dei limiti e delle potenzialità dell’agire pubblico a partire dall’illustrazione di un’esperienza matura: il piano paesaggistico della Sardegna.
Nella mattinata verranno presentate tre comunicazioni: (1) Il quadro normativo della pianificazione paesaggistica (Edoardo Salzano), (2) L’attuazione del Codice nelle Regioni (Georg Frisch); (3) Il piano paesaggistico regionale della Sardegna (Edoardo Salzano). Dopo le presentazioni i gruppi di studenti prepareranno le questioni da porre alla discussione.
Nel pomeriggio, sulla base delle questioni poste degli studenti, si discuterà degli argomenti illustrati nella mattina. Nel corso della discussione interverranno anche Giorgio Todde, Sandro Roggio, Giulio Angioni, Giovanni Azzena, testimoni diretti della vicenda della Sardegna.
Venerdi 28, Terza Giornata
Voci di chi ci ospita
Tra scuola e territorio c’è un necessario legame. La Puglia racconta come sta affrontando la sfida della pianificazione territoriale e paesaggistica.
Angela Barbanente, assessore all’assetto del territorio della Regione Puglia racconterà la difficile esperienza in corso, i programmi di lavoro avviati, le difficoltà legate alla concreta situazione della società, della politica e dell’aministrazione in questa regione del Mezzogiorno e le speranze incontrate nel lavoro sul territorio.
Successivamente si svolgerà visita ad alcuni dei siti più rilevanti dell’area, preceduta e preparata da una presentazione di Marcello Guaitoli, preside della Facoltà di Beni culturali dell’università di Lecce e autore della Carta del rischio archeologico della Puglia,
Sabato 29, Quarta giornata
Seminario conclusivo: chi sono i custodi del paesaggio?
La difesa del territorio da cattive forme di urbanizzazione e infrastrutturazione è tema del tutto aperto. Sulle pagine di eddyburg e su quelle dei quotidiani si moltiplicano le denunce e gli appelli. I due più significativi provvedimenti legislativi degli ultimi anni (codice e convenzione) propongono visioni differenti e complementari; la prima, tutta interna al mondo delle istituzioni e degli strumenti di piano, la seconda aperta (sbilanciata?) al confronto con i soggetti e alla definizione di politiche.
Il degrado del territorio si è manifestato in tutto il paese, ma è particolarmente minaccioso in alcune sue parti. Gli strumenti impiegati (in primo luogo la pianificazione urbanistica) non sono stati sufficienti. Le istituzioni che dovrebbero difenderlo spesso lo aggrediscono: i comuni, le regioni, la cattiva pianificazione. Oppure non lo difendono adeguatamente: l’amministrazione dei Beni culturali, le province. Le popolazioni sempre più spesso protestano, in un rapporto spesso conflittuale e comunque sempre difficile con le istituzioni, ma non sanno o non possono proporre.
Dall’analisi critica scaturiscono una serie di domande. La tutela deve precedere le decisioni di trasformazioni, oppure l’una e l’altra devono essere stabilite contestualmente? Se la tutela del paesaggio è competenza della Repubblica (quindi dello stato, delle regioni, delle province, dei comuni) in che modo si articolano le diverse responsabilità nella concreta impostazione e gestione dei processi delle decisioni)? Quali conseguenze derivano nell’impiego degli strumenti previsti dalla legislazione vigente e quali loro modifiche sono necessarie? In un’epoca delle nostra storia nella quale la politica e la stessa democrazia rivelano segni vistosi di crisi, in che modo si deve o si può porre il rapporto tra i cittadini e le istituzioni? e quello tra la protesta e la decisione?
Alla relazione critica e a queste domande forniranno le loro risposte Alberto Magnaghi, presidente della associazione “Rete del Nuovo Municipio”, Stefano De Caro, direttore generale del Mibac per i beni archeologici, Marcello Guaitoli, preside della Facoltà di Beni culturali dell’università di Lecce, Oscar Mancini, segretario della Camera del lavoro di Vicenza, Dario Predonzan, responsabile territorio del WWF del Friuli-Venezia Giulia, e altri ospiti della Scuola di eddyburg. La discussione sarà moderata da Francesco Erbani, giornalista
ORGANIZZAZIONE
Articolazione delle giornate
Nelle prime tre giornate le comunicazioni dei docenti saranno concentrate nella prima parte della giornata (3 ore complessive, compreso pause). Alle comunicazioni seguiranno:
- una sessione di lavoro collegiale degli studenti, suddivisi in sottogruppi, per selezionare le domande da porre ai docenti (1-2 ore di lavoro di gruppo, affiancato da tutor della scuola);
- una una sessione di confronto collegiale sulla base delle domande poste dai gruppi (il pomeriggio, più rilassati e disposti alla chiacchiera, con eventuale prolungamento a cena e dopo cena).
L’ultima giornata comprenderà, oltre al seminario conclusivo, una sintesi delle giornate precedenti predisposta e illustrata dai partecipanti.
Attività facoltative
La presenza di persone che hanno lavorato a piani paesaggistici, la consapevolezza che nessuna rivista pubblica in modo sufficiente i piani e che i siti degli enti che li pubblicano integralmente non consentono una lettura agile, il fatto che i partecipanti spendono risorse per stare con noi, e infine il fatto che sia una “scuola”, induce offrire agli iscritti la possibilità di avere, nelle ore serali, l’illustrazione di alcun piani con interessante contenuto paesaggistico. Si chiede agli iscritti di prenotarsi, e si attiveranno le illustrazioni che raggiungano almeno 10 richieste.
Iscrizioni
E' stato raggiunto il numero massimo di persone ospitabili nei locali della Scuola. Non si accettano perciò ulteriori richieste di iscrizioni, mentre si renderanno note le modalità per ottenere i materiali prodotti.
“Avere il territorio come alleato vuol dire saper usare con intelligenza le sue irregolarità, i suoi punti alti e bassi, le sue curve, i suoi passaggi fissi e segreti, le zone abbandonate, le sue alture, ecc. traendo il massimo da tutto questo per il vantaggio delle azioni” (Carlos Marighella, Piccolo Manuale della Guerriglia Urbana)
E naturalmente non solo alla guerriglia urbana, è utile “avere il territorio come alleato”.
Ci sono molti modi per attraversare il territorio, il paesaggio, e altrettanti per riportarne impressioni, suggestioni, informazioni: dal pellegrino con bastone e blocchetto per appunti/schizzi, al regista della pellicola on the road, alla fantozziana famigliola che immortala l’annuale transumanza da casa al campeggio.
Ai partecipanti alla Scuola estiva di Eddyburg, che si è tenuta quest’anno al castello di Corigliano d’Otranto, è stato proposto di cercare di unire la lenta sistematicità del pellegrino coi suoi acquerelli, al fluire continuo del racconto parallelo alla strada, tipo Easy Rider, o più autarchicamente Il Sorpasso, o la bozzettistica naïve delle diapositive delle vacanze, spesso ricche di informazioni sparse che basta saper evidenziare. Obiettivo: alimentare con una “materia seconda” autoprodotta, una riflessione sia personale che collettiva, il percorso di apprendimento e scambio proposto dalla Scuola.
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Ma che sarà mai, una traiettoria nel paesaggio contemporaneo?
Sin dai primi vagiti novecenteschi dell’approccio della pianificazione territoriale ai temi della tutela del paesaggio, tutti sottolineano come si tratti di entità in costante mutamento ed evoluzione: vuoi per le lente trasformazioni dei suoi elementi naturali e/o legati all’agricoltura, vuoi per gli interventi più o meno vistosi dell’uomo in termini edilizi e infrastrutturali, vuoi infine per la particolare prospettiva in cui colloca questo insieme la sensibilità dell’osservatore e il contesto di osservazione.
Una delle prospettive più caratteristicamente “moderne” di osservazione del paesaggio, è senza dubbio quella rappresentata dall’automobile. Senza scomodare il solito Le Corbusier, che privilegiava comunque un paesaggio fruito ad alta velocità e dominato dagli elementi tecnologici delle (sue) architetture e infrastrutture urbane, forse va ricordata la definizione che il fondatore del Touring Club, Luigi Bertarelli dava dei paesaggi inquadrati per la prima volta dal finestrino di un’auto: “la riscoperta della Patria dimenticata”.
Ed è proprio a questo tipo di “riscoperta” che gran parte degli itinerari scelti si sono ispirati.
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Paesaggi urbani, metropolitani, dell’insediamento diffuso con qualche brandello di campagna. In qualche modo resi unici e fluidi dai nastri delle arterie di comunicazione, che arrivano a dominare, esplicitamente o implicitamente, sia le immagini che il punto di vista generale delle “traiettorie”. È una modernità certo invadente, e certo di notevole impatto: ma è l’ambiente nel quale siamo immersi, esposto nei termini più quotidiani e meno enfatici possibili.
Con quest’ambiente, piaccia o meno, dobbiamo confrontarci: da studiosi, operatori culturali, divulgatori, ma prima ancora da cittadini.
I risultati delle “traiettorie” riportati in questa cartella sono organizzati secondo un testo illustrato, che restituisce le riflessioni sui paesaggi attraversati, e una serie di materiali scaricabili, composti dagli scatti fotografici “in tempo reale”, con brevi didascalie e materiali di orientamento.
Come dicono sempre i critici cinematografici: buona visione.
Eddyburg.it organizza la seconda edizione della scuola estiva di pianificazione dedicata quest'anno al tema della costruzione pubblica della città.
La scuola si terrà dal 26 al 30 settembre 2006, presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, Parco archeominerario di San Silvestro Campiglia Marittima (LI).
Con essa si intende:
- fornire i presupposti, i riferimenti e gli obiettivi del governo della città e del paesaggio;
- informare sull’evoluzione del quadro legislativo e istituzionale;
- promuovere un confronto con le esperienze e tendenze europee.
Il tema
Dalla casa ai trasporti. Dall’ambiente ai servizi. Il soggetto pubblico ha visto ridursi progressivamente il proprio ruolo, ritirandosi non solo dall’intervento diretto, ma anche dall’esercizio di indirizzo e regolazione. In Italia, questa riduzione è stata accettata da destra e sinistra, vuoi per un convincimento culturale, vuoi per le inefficienze dell’amministrazione pubblica. Così facendo, si sono accresciute le disuguaglianze, sociali e territoriali, e i costi sopportati dai soggetti più deboli, dall’ambiente e dal paesaggio.
L’urgenza di un recupero della costruzione pubblica della città (o del territorio, qui inteso in modo equivalente) appare non più rinviabile. E’ in questo senso che possiamo tornare a parlare di “città pubblica”, concentrando l’attenzione sugli strumenti necessari per mantenere, ampliare o costruire il patrimonio di beni pubblici.
Come costruire una città vivibile, una città amica delle donne e degli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento? A queste domande si tenterà di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.
Il programma
Martedì 26 settembre:
Arrivo e registrazione
Mercoledì 27 settembre
m - Introduzione al corso: le parole chiave
m - Una nuova stagione di politiche abitative: la risorsa suolo per il diritto alla casa
p - Una nuova stagione di politiche per l’ambiente
Giovedì 28 settembre
m - Muoversi e sostare: idee e non opere per una città a misura dei cittadini.
p - a disposizione per lavori di gruppo
Venerdì 29 settembre
m - Una nuova stagione di politiche urbanistiche nazionali e regionali
p - Sostenere l’intercomunalità
Sabato 30 settembre
m + p - Seminario aperto. Chi paga la città pubblica? Il ruolo dell’economia sociale.
I docenti
Edoardo Salzano, già presidente dell’INU e già preside della facoltà di pianificazione del territorio dell'IUAV, direttore di eddyburg.it
Giovanni Caudo, ricercatore, Università Roma Tre.
Gabriele Rabaiotti, ricercatore, Politecnico di Milano.
Giancarlo Storto, già Segretario del CER.
Francesca De Lucia, architetto.
Maria Berrini, Istituto ricerche Ambiente Italia. Dario Franchini, dirigente provincia di Pisa.
Massimo Zucconi, presidente di Parchi Val Di Cornia spa.
Mauro Baioni, urbanista.
Maria Rosa Vittadini, professore, Università IUAV Venezia.
Armando Barp, professore, Università IUAV Venezia.
Elena Camerlingo, dirigente del settore trasporti - Comune di Napoli .
Maurizio Sani, dirigente del settore urbanistica Regione Emilia Romagna.
Angela Barbanente, urbanista, assessore al territorio - Regione Puglia.
Maria Cristina Gibelli, professore, Politecnico di Milano.
Roberto Camagni, professore, Politecnico di Milano.
Piero Cavalcoli, dirigente del settore urbanistica - Regione Puglia.
Francesco Erbani, giornalista de "la Repubblica".
Pierluigi Sullo, direttore di"Carta".
Oscar Mancini, Segretario della CGIL – Vicenza.
ISCRIZIONI
Modalità
Alla Scuola estiva di Pianificazione sono ammessi 30 partecipanti, ai quali sarà rilasciato un attestato di frequenza.
Per ricevere maggiori informazioni, o comunicare la propria volontà di adesione, vi invitiamo a rivolgervi ai recapiti sotto indicati, indicando nome, cognome, qualifica, e-mail, telefono.
Seguirà l’invio del modulo di conferma da compilare in ogni sua parte e da rispedire unitamente alla ricevuta di versamento di un acconto di 150,00 €.
Costi di partecipazione
Il costo di partecipazione è pari a 395 € + IVA e comprende la partecipazione alle lezioni e alle altre attività didattiche, il materiale didattico, i coffee break e il pranzo. Sono esclusi gli spostamenti, il pernottamento e la cena.
Studenti e urbanisti under-30 possono usufruire di una tariffa agevolata.
Pernottamento
Chi lo desidera può pernottare presso l’ostello di Palazzo Gowett, a pochi passi dalla sede del corso. Sono disponibili stanze doppie, triple o quadruple a 32 € per persona (trattamento di mezza pensione, escluso il servizio alberghiero).Altre soluzioni di alloggio saranno fornite su richiesta.
La sede
Le attività della Scuola si svolgeranno presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, nel cuore del Parco archeominerario di San Silvestro a Campiglia Marittima
L’area dei Parchi è situata a circa 80 km a sud di Livorno ed è attraversata dalla SS1 variante Aurelia che collega Rosignano a Civitavecchia.
I Parchi sono segnalati alle uscite di San Vincenzo nord, San Vincenzo sud, Piombino/Venturina, Riotorto/Vignale.
Per il Parco archeominerario di San Silvestro, l’uscita consigliata è San Vincenzo sud.
Dopo l’uscita seguire le indicazioni per Campiglia Marittima. Il Centro Villa Lanzi è indicato da un cartello bianco sulla sinistra, a pochi km dal paese.
Informazioni e pre-iscrizioni
Didattica e contenuti del corso: Mauro Baioni, tel: +39 335 5865736,
mabaion@tin.it
Iscrizioni e aspetti amministrativi: Monica Porciani, tel: +39 348 8883163,
villalanzi@parchivaldicornia.it
Mauro Baioni, Direttore di questa scuola, mi ha proposto di aprire questa sessione fornendo qualche elemento a proposito di un certo numero di “parole chiave”.
Parole rilevanti, sulle quali in eddyburg sono raccolte appropriate definizioni, che è utile ricordare qui, anche per costruire una sorta di lessico comune nei nostri colloqui. Le parole su cui vi intratterrò sono: pianificazione, democrazia, partecipazione, sussidiarietà, governance, sviluppo, beni e merci, lavoro, rendita.
Pianificazione
Vorrei partire dalla parola “pianificazione” – termine che adopero più spesso e più volentieri di “piano”. Naturalmente intendendo la pianificazione della città e del territorio. Io la definisco così:
“Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica (non faccio nessuna distinzione tra l’una e l’altra) quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.”
Per completare questa definizione, occorre precisare il significato che assumono i termini che ho adoperato per qualificarla. In primo luogo, qual è l’oggetto della pianificazione:
“Sono oggetto della pianificazione territoriale ed urbanistica le trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione.
“Dove per trasformazioni fisiche intendo quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali intendo quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono. A questo campo, solo a questo campo (ma, insieme, a tutto questo campo) deve essere secondo me diretta la responsabilità e la competenza della pianificazione.”
Prima di aggiungere un altro paio di definizioni vorrei precisare perché distinguo piano e pianificazione .
“In termini molto sintetici, occorre passare cioè dall'attuale concezione della pianificazione, centrata sull'idea di "piano" e consistente in una serie di piani che si succedono a salti di tempo, ciascuno dei quali viene, volta per volta, attuato, a una concezione della pianificazione basata sull'idea di "processo", e quindi su un succedersi, sistematico, continuo e cadenzato, di atti di pianificazione nei quali il momento del piano, quello dell'attuazione e quello della verifica ciclicamente si susseguono e - per così dire - si nutrono l'uno dell'altro.”
Ovviamente questa definizione comporta che gli atti e i documenti della pianificazione non vengano redatti da soggetti esterni all’amministrazione, ma prodotti al suo interno, con strutture adeguatamente qualificate e sorrette da competenze esterne.
Ecco altre due, definizioni, non contraddittorie né tra loro né con la mia. Quella di Antonio Cederna, che accentua l’aspetto morale della pianificazione urbanistica:
“La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese.”
Giorgio Ruffolo è un economista. In un importante saggio sulla necessità di una politica ambientale ha dato una definizione che mi sembra molto bella della pianificazione territoriale, che vi propongo:
“Il quarto pilastro di un ambientalismo moderno è la pianificazione territoriale. E’ lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico.”
La definizione di Ruffolo introduce il concetto di bellezza: “dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa”, produrre “valore aggiunto estetico”. Ma non si tratta della bellezza dell’oggetto: è una bellezza d’insieme. E nella differenza tra attenzione all’oggetto e attenzione all’insieme sta il fondo della differenza tra due mestieri che, nel nostro paese (a differenza di moltissimi altri) sono molto vicini e quasi confusi: l’urbanista e l’architetto. A me sembra molto chiaro un passo di Itali Calvino, che cito spesso per rispondere al quesito: che differenza c’è tra l’urbanista e l’architetto. Ecco il passo di Calvino.
“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco.”
L’urbanista si occupa dell’arco, l’architetto delle pietre. L’architetto progetta singoli oggetti, e definisce le regole secondo le quali essi devono essere costruiti. L’urbanista si occupa di definire le regole secondo le quali essi devono essere composti perché raggiungano, nel loro insieme, un’armonia e una funzionalità complessive. L’architetto disegna la casa dell’uomo, l’urbanista la casa della società.
Democrazia
“Disegnare la casa della società” significa esprimere quest’ultima. Da quando nasce l’urbanistica moderna ciò significa che è essenziale il legame tra urbanistica e pianificazione da un lato, società e democrazia dall’altro lato.
La democrazie non è una formula astratta, è un regime molto concreto, che è giunto a maturazione in un determinato processo storico e si è svolto in una determinata parte del mondo.
Della democrazia vorrei riportare innanzitutto una bella definizione, spirituale, di Norman Mailer:
“La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.
“Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.”
La democrazia che conosciamo non è l’unica esistita,né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi teniamocela, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione. Ricordiamo soprattutto che essa è stata messa in crisi da alcune cause precise, che Canfora sintetizza così:
“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo.”
Solo se siamo consapevoli dei suoi limiti ed errori – delle sue cause - potremo: 1) tentar di migliorarla nell’applicazione, 2) non interrompere la ricerca di un sistema migliore.
Sulla storia e sulla crisi della democrazia esistono intere biblioteche. Io consiglio il libro di Luciano Canfora, Democrazia, Storia di una ideologia, editore Laterza. Ne trovate qualche stralcio in eddyburg. Comunque ricordate sempre che le istituzioni hanno senso solo nel loro contesto (storico, territoriale, economico). Perciò non ha senso parlare di esportare istituzioni, senza che prima abbiano maturato le condizioni che lo rendano possibile. Aver dimenticato questo è uno degli errori della globalizzazione (termine sul quale dovremo prima o poi soffermarci).
Parlare di democrazia ci rinvia al altre questioni:le istituzioni attraverso le quali la democrazia rappresentativa si esprime, e il rapporto tra di esse; il rapporto tra le istituzioni (e in generale la democrazia) e la società. Incontriamo subito tre parole sulle quali è opportuno riflettere: sussidiarietà, governance, partecipazione.
Sussidiarietà
In un regime democratico rappresentativo esistono diversi livelli di governo. In Italia, Stato, regione, provincia o città metropolitana, comune. Si tratta di individuare un principio che consenta, in linea generale, di attribuire competenze ragionevolmente distinte ai diversi livelli. Questione rilevantissima per la pianificazione. Questo principio è stato individuato nella sussidiarietà.
Esistono due modi di intendere il principio di sussidiarietà. Il primo è demagogico e devastante, ed è quello che si traduce nello slogan “tutto il potere al basso”. Malauguratamente è l’interpretazione dominante in Italia. Eco il testo che la definisce:
“attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a).”
L’altra interpretazione è quella originaria, propria della cultura europea. Si può sintetizzare nella frase “a ciascuno degli istituti territoriali (Unione europea, stati nazionali, regioni,province, comuni) tutte e sole le decisioni relative a quegli oggetti ed aspetti che, nell’interesse generale, a quel livello possono più efficacemente essere governati”.
In appendice troverete un testo che argomenta ampiamente la questione.
Governance
L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno. Come moltissimi altri termini, viene usato spesso in modo impreciso, o addirittura distorto. In appendice trovate un testo nel quale ho cercato di precisare il significato e i modi d’uso della governance.
Molto sinteticamente vorrei sottolineare:
- che nella governance è decisivo stabilire quali sono gli attori che si siedono attorno al tavolo della concertazione, quali sono i rispettivi ruoli e interessi;
- che vanno in particolare distinti, e posti in una scala gerarchica, i portatori d’interessi generali, d’interessi diffusi, d’interessi economici e, tra questi, quelli che esprimono la produzione e quelli che esprimono la rendita;
- che particolare attenzione va posta tra i portatori d’interessi forti e portatori d’interesse deboli;
- che non possono essere attribuiti a sedi multiple, in cui siedono portatori d’interessi generali e portatori d’interessi particolari, responsabilità che competono a sedi istituzionali, cioè portatrici d’interessi generali;
- che la governance non è alternativa al government: la ricerca del consenso e della condivisione delle scelte non esclude, ma integra ed arricchisce il momento della decisione pubblica e autoritativa.
Partecipazione
Per l’urbanistica la partecipazione è una chimera raramente raggiunta. Per la democrazia la partecipazione è la condizione irrinunciabile e, quando non c’è, la testimonianza della crisi. La partecipazione è difficile, se non impossibile, quando domina l’ideologia dell’arricchimento individuale, pervasivamente e vittoriosamente propagandata da tutto il mondo dei massmedia, e in primo luogo da tutte le reti televisive.
Ciò apparirà chiaro se teniamo presente la bella definizione di Manuel Castells:
“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va “aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione
“Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.”
In eddyburg troverete una ottima “visita guidata” ai testi raccolti nel sito, redatta da Carla Maria Carlini, e nell’appendice un mio breve testo.
Economia
La cultura urbanistica ha smarrito la consapevolezza dell’importanza dell’economia nella vita e nei destini della città e del territorio. Eppure la città, nel suo sorgere come invenzione dell’uomo e nel suo affermarsi (come oggi nel suo dissolversi tra megalopoli e sprawl), è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.
Non possono mancare perciò alcune parole-chiave rilevanti a questo proposito: sviluppo, lavoro, rendita sono essenziali.
Sviluppo
Nel linguaggio corrente il termine sviluppo non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro utilità.
Consistenti correnti di pensiero, che cominciano a tradursi in pratiche, hanno rivelato che questo sviluppo è arrivato a un punto mortale. Si sono manifestati i limiti delle risorse disponibili sul pianeta, e la loro esistenza configge con la natura stessa di questo sistema economico, obbligato alla crescita indefinita.
L’espressione più felice è forse quella di Kenneth Boulding
“Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo, oppure un economista”.
Beni e merci; valore d’uso e valore di scambio
L’operazione culturale che ha dovuto essere compiuta per raggiungere un simile risultato è stata quella di ridurre ogni bene e merce,e di cancellare il valor d’uso riducendo ogni valore a valore di scambio. È allora importante tenere ben presenti queste distinzioni.
Il bene è un oggetto (o un servizio, o un sentimento) che ha valore di per se,per l’uso che ne fa l’essere umano; la merce è un oggetto (o un servizio) la cui funzione è solo quella di essere scambiato con un altro oggetto o servizio. Il bene è caratterizzato da identità, la merce da fungibilità: il fungibile universale è la moneta, espressione sublimata della merce. Il valor d’uso è riferito ovviamente al bene, il valore di scambio alla merce.
Questa economia nella quale viviamo riconosce il valore dei beni solo riducendoli in merce. Il che spesso significa eliminarne il valor d’uso, o attribuirne il godimento solo ad alcuni. Ma questa economia non è l’unica possibile: difendere oggi i beni (le coste e i boschi, i beni culturali sparsi sul territorio o sedimentati in essi e nelle città, i corsi d’acqua e le culture dei luoghi) ha senso anche perché tutela- in vista di una economia futura possibile -. Patrimoni che altrimenti sarebbero distrutti per sempre.
Lavoro
Anche il lavoro ha una duplice natura. È lo strumento per l’arricchimento interiore delle persone, per lo svolgimento d’una loro funzione sociale, oper l’espressione della sua identità. In questo senso è un bene. Ma è ridotto a merce quando comprato e venduto (preso e dato in affitto) per produrre altre merci. Cessa di avere un’identità, una personalità, una funzione umana (oppure la conserva solo marginalmente e opzionalmente), ed è finalizzato unicamente alla produzione di altra merce.
Ecco due belle definizioni di lavoro (Karl Marx, Capitale, 1867
“Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere.
“In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita.”
Rendita
Tra tutte le parole dell’economia quella che ha più incidenza per il territorio è indubbiamente la rendita. È grazie alla rendita, e al peso che essa ha nell’economia italiana, che quote rilevanti e del tutto ingiustificate del territorio vengono sottratte ai loro usi ragionevoli e trasformati in una “repellente crosta di cemento e asfalto”,come ripeteva Antonio Cederna. Che cos’è la rendita?
È una delle tre forme di reddito:il salario, remunerazione del lavoro, il profitto, remunerazione dell’impresa, la rendita, remunerazione della proprietà.
A differenza delle altre due forme di reddito, come ha scritto recentemente l’economista Giorgio Lunghini,
“la rendita non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà.”
Vediamo una definizione scientifica della rendita, quella di Claudio Napoleoni:
“Si chiama rendita il reddito che il proprietario di certi beni percepisce in conseguenza del fatto che tali beni sono, o vengono resi, disponibili in quantità scarsa; dove la scarsità va intesa in uno dei seguenti sensi:
1) i beni in questione appartengono alla categoria degli agenti naturali, disponibili in quantità limitata e inferiore al fabbisogno;
2) i beni in questione vengono resi disponibili da chi li possiede in quantità inferiore alla domanda che di essi si avrebbe in corrispondenza di prezzi uguali ai loro costi.”
Le tre forme di rendita esprimono differenti classi sociali. Al salario corrisponde l’operaio, proprietario della forza-lavoro. Al profitto corrisponde il capitalista, organizzatore della produzione che esercita comprando sul mercato le diverse componenti del capitale. Alla rendita corrisponde il proprietario degli immobili (aree ed edifici) adoperati nel processo produttivo.
Storicamente, la rivoluzione borghese (Inghilterra e Francia fine XVIII secolo, Germania metà XIX secolo) ha rappresentato la vittoria della borghesia capitalistica sulla proprietà fondiaria d’impronta feudale (ancien régime)
Una delle ragioni per cui l’Italia è distante dagli altri paesi europei è proprio l’incidenza della rendita,dovuta al fatto che la borghesia, giunta al potere in ritardo rispetto agli altri paesi europei, ha potuto prevalere solo alleandosi all’ancien régime, quindi alla rendita.
Paesaggio,ambiente, territorio
Mi piacerebbe a questo punto ragionare su altre parole, sulle quali si sono scritte cose molto interessanti anche se spesso confuse, adoperando i termini in modi molto diversi e attribuendo loro significati spesso scambiati: paesaggio,ambiente, territorio
Ma eddyburg ha ancora poco materiale a questo proposito, e alcuni di noi stanno pensando di preparare proprio a partire da queste parole la prossima scuola di Eddyburg: la terza edizione. Quindi, su queste parole rinviamo. Per ora, incamminiamoci sulla via della seconda edizione della scuola, e auguri a tutte e a tutti.
APPENDICE
Sussidiarietà
Salzano, Edoardo "Il principio di sussidiarietà", da Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)
Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino al completamento e al riordino del trasferimento e della delega delle competenze alle regioni, nel 1977. Fino alla ventata del “federalismo all’italiana” e delle “devoluzioni” il criterio che si cominciava ad adottare era quello di riferire le competenze a oggetti[1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”, ancor oggi celebrato a parole.
In Italia questo termine viene infatti adoperato spesso (come del resto il termine “sostenibilità”) in modo approssimativo. Nel linguaggio della Lega di Bossi, “sussidiarietà” significa tutto il potere al basso, il più lontano possibile da “Roma ladrona”. Nel linguaggio dei variopinti fautori (a destra, al centro e a sinistra) del “meno Stato più mercato”, significa delegare tutto il possibile ai privati. In un linguaggio più accettabile significa delegare ai livelli più vicini all’elettorato il maggior numero possibile di competenze. In realtà nella cultura europea il termine ha un significato alquanto diverso.
In omaggio al principio vichiano che “natura di cose altro non è che nascimento di esse” , è utile ricordare che il principio di sussidiarietà venne proposto da Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, per individuare i poteri degli organismi sovranazionali europei distinguendoli da quelli dei governi nazionali: una definizione “dall’alto”, quindi, e non “dal basso”, come tutte quelle che circolano in Italia. Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992, in cui il lungo dibattito trovò sbocco e sistemazione. L’articolo 3b afferma:
“La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità”
Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistema di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?
Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.
E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si vogliano rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.
La governance
Salzano, Edoardo, da “Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma”, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)
Come nasce
L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati . Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali, ed è quindi al modo in cui sono stati applicati altrove che è opportuno fare riferimento.
La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.
Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni.
“[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “ urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “ local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale”
L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).
Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti diversi, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come
“un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti”
altri come le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica.
La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come
“la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali”.
È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.
Non è vero che tutti gli attori sono uguali
Possiamo leggere quindi la governance, e la sua applicazione in Italia, anche come un tentativo di coinvolgere nel meccanismo delle decisioni sul territorio soggetti diversi, i quali tutti concorrono ai processi di trasformazione e utilizzazione dello spazio, ma non sono adeguatamente riconosciuti nel meccanismo definito dalle procedure vigenti. Nell’affrontare questo tema occorre però partire da una consapevolezza. Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Ogni attore esprime un interesse. E non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.
La prima grande distinzione che occorre compiere è quella che seleziona gli enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto. Allo stesso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali. La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.
Anche a questo proposito le innovazioni introdotte dalle leggi regionali recenti colgono alcuni risultati rilevanti, senza cedere a mode tendenti alla “concertazione assoluta” e, di conseguenza, alla deresponsabilizzazione di ciascuno dei soggetti coinvolti. Si tratta delle “conferenze di pianificazione” (o simili), cioè di incontri istituzionali dei diversi soggetti pubblici interessati a una questione nella quale sia coinvolta la responsabilità di ciascuno di essi. Si riuniscono, opportunamente documentati; esaminano la questione collegialmente; esprimono illico et immediate il loro parere, se possibile; se le posizioni sono contrastanti, discutono e cercano la mediazione; se è necessario un supplemento di analisi o d’istruttoria decidono lì per lì la data della prossima riunione, nella quale decideranno.
Un tavolo diverso è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali: per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore; e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricorso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.
Gli interessi privati
Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere. Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: il soggetto che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni. Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.
Altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del retino) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.
Governare la governance
Mi sembra quindi che, mentre la governance istituzionale non pone problemi che non siano “tecnici” alla sua utilizzazione in supporto al government, particolare attenzione deve essere posta a inserire correttamente nel processo delle decisioni i portatori d’interessi privati, in particolare quelli economici. L’ipotesi che si può formulare è che la governance, nel campo del governo del territorio , funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:
1. gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;
2. gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.
Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario – nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto in Italia, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole. Ed è certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio è quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.
La partecipazione
Salzano, Edoardo, da “Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma”, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)
Coinvolgere nella pianificazione i cittadini (in quanto tali, in quanto utenti della città e suoi “padroni”, e non in quanto proprietari di sue singole parti) è ambizione che l’urbanistica ha sempre coltivato. Con risultati, mi sembra, insoddisfacenti, salvo casi limitati che non hanno costituito precedenti significativi di pratiche diffuse. Il coinvolgimento è relativamente facile (là dove si adoperano tecniche adeguate e, soprattutto, volontà politica determinata) quando si tratta di trasformazioni urbane limitate: l’apertura di una strada, la ristrutturazione di un quartiere esistente, la progettazione di un intervento pubblico d’interesse locale. Ed è facile là dove si tratta di opporsi a un intervento negativo: lì la tensione NIMBY ( Not In My Back Yard: non nel mio cortile) costituisce un buon alimento se l’intervento proposto è negativo. Molto più complesso è lì dove l’argomento è un intero progetto di città o di territorio. Probabilmente non si tratta di un problema tecnico, ma politico. Lo sostiene un intelligente urbanista a tutto campo, Silvano Bassetti. Secondo Bassetti
“se per urbanistica intendiamo la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti; e se per partecipazione intendiamo il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia.”
Del resto, ho più volte affermato che urbanistica e politica sono due aspetti connessi d’un medesimo campo di interessi, obiettivi, procedure. In una civiltà politica che si è data la democrazia come regola generale, l’urbanistica è allora necessariamente anch’essa “urbanistica democratica”. Solo che, prosegue Bassetti,
“La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione.”
Per concludere che
“la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza.”
Con la stessa pazienza con la quale vanno ricostruite la politica e la democrazia.
Sostenibilità (sviluppo sostenibile), secondo l'ONU
Il testo originale del paragrafo 3, che contiene la definizione del termine “sviluppo sostenibile”, in due pagine del rapporto From One Earth to One World (Rapporto Brundtland) della World “Commission on Environment and Development”, pubblicato nel 1997 con il titolo Our Common Future, approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1989. Trad italiana da Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano 1988
L’umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ailoro. Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti dall'attuale stato delta tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attivita umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono pero essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica
La Commissione e del parere che la diffusa povertà non sia piu inevitabile. La povertà non e soltanto un male in sè, ma lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi ecologiche e d'altro genere. Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali.
Lo sviluppo globale sostenibile esige che i più ricchi facciano `propri stili di vita in sintonia con i mezzi ecologici del pianeta, per esempio per quanto riguarda 1'uso dell'energia. Inoltre, gli incrementi demografici possono aumentare la pressione sulle risorse e rallentare il miglioramento dei livelli di vita; sicché, uno sviluppo sostenibile puo essere perseguito solo se I'entità della popolazione e l'incremento demografico sono in armonia pm il mutevole potenziale produttivo dell'ecosistema.
In ultima analisi, però, lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definita condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento di risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali. Noi non affermiamo certo che il processo sia facile o rettilineo. Bisogna compiere difficili scelte. Sicché, a conti fatti, lo sviluppo sostenibile non puo che fondarsi sulla volontà politica.
Qualcuno ne ha parlato come di una "definizione di compromesso". In effetti, sebbene sia certamente un compromesso molto avanzato e una definizione molto severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo capitalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.
Quanto quel compromesso sia avanzato è testimoniato dal fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland.
Eddyburg.it organizza la seconda edizione della scuola estiva di pianificazione dedicata al tema della costruzione pubblica città .
La Scuola intende:
- fornire i presupposti, i riferimenti e gli obiettivi del governo della città e del territorio;
- informare sull’evoluzione del quadro legislativo e istituzionale;
- promuovere un confronto con le esperienze e tendenze europee.
Come l’anno passato, le attività si svolgono presso il Centro di documentazione e formazione Villa Lanzi, nel cuore del Parco archeominerario di San Silvestro a Campiglia Marittima (Livorno).
La città pubblica
Dalla casa ai trasporti. Dall’ambiente ai servizi. Il soggetto pubblico ha visto ridursi progressivamente il proprio ruolo, ritirandosi non solo dall’intervento diretto, ma anche dall’esercizio di indirizzo e regolazione. In Italia, questa riduzione è stata accettata da destra e sinistra, vuoi per un convincimento culturale, vuoi per le inefficienze dell’amministrazione pubblica. Così facendo, si sono accresciute le disuguaglianze, sociali e territoriali, e i costi sopportati dai soggetti più deboli, dall’ambiente e dal paesaggio.
L’urgenza di un recupero della costruzione pubblica della città (o del territorio , qui inteso in modo equivalente) appare non più rinviabile. E’ in questo senso che possiamo tornare a parlare di “città pubblica”, concentrando l’attenzione sugli strumenti necessari per mantenere, ampliare o costruire il patrimonio di beni pubblici.
Come costruire una città vivibile, una città amica delle donne edegli uomini, dei deboli e dei forti? Come implementare le politiche pubbliche necessarie? Quali risorse mettere in campo, a quali modelli economici fare riferimento?
A queste domande si tenterà di rispondere concentrando l’attenzione su quei temi “caldi” che costituiscono un evidente legame tra l’urbanistica e l’esperienza quotidiana: la casa, la mobilità, l’ambiente urbano.
Per saperne di più
Chi vuole avere ulteriori informazioni sulle attività svolte l’anno passato e visionare i materiali prodotti può consultare le pagine del sito dedicate alla edizione del 2005.
Chi vuole avere ulteriori informazioni sul luogo di svolgimento delle attività della scuola, può visitare il sito del Parco archeominerario di San Silvestro.
Per ricevere informazioni e comunicare la propria adesione
Vi invitiamo a rivolgervi ai recapiti sotto elencati, indicando nome, cognome, qualifica, e-mail, telefono.
mabaion@tin.it
Nei prossimi giorni
Sul sito eddyburg.it presenteremo:
- il programma dettagliato;
- i docenti partecipanti;
- i costi di partecipazione e le modalità di adesione.
Ciao Eddy, come va? è stato davvero un piacere conoscerti. Aver frequentato la tua scuola mi ha aperto a nuove curiosità e a nuove amicizie, e direi che questo è stato davvero moltissimo. Come già sai, a me è mancato parecchio il contatto con il mondo esterno. Ma - tu obietterai - eravamo a SCUOLA! E come darti torto! Ecco, allora direi che mi sono sentita un pò sequestrata, un pò isolata forse.
Confidando nel tuo senso dell'ironia ,da toscanaccia quale sono, ti invio alcune delle mie cattivissime vignette Un caro abbraccio, elena
Grazie Elena. Per l’anno prossimo stiamo pensando a una scuola un po’ meno “isolata”. Naturalmente sarai informata, e magari collaborerai. Grazie delle belle vignette (sono nel file allegato), e sopratutto dell’humour!
Il consumo di suolo è la misura dell’espansione delle aree urbanizzate a scapito dei terreni agricoli e naturali. Il suo monitoraggio è un tema di estremo interesse per l’urbanistica, poiché investe appieno alcune tra le principali questioni che la pianificazione è chiamata ad affrontare: la forma della città, la distribuzione sul territorio delle funzioni, il conflitto tra usi alternativi del suolo.
Nel sito Eddyburg.it e nella prima edizione della scuola estiva di pianificazione è stata avviata una riflessione che non si è limitata ai soli aspetti di tecnica urbanistica. Grande attenzione è stata dedicata a temi apparentemente distanti tra loro, come l’economia, la storia del territorio, la pianificazione dei trasporti, la valutazione ambientale, che solo nel loro complesso intreccio consentono di comprendere le ragioni dell’inarrestabile crescita delle aree urbanizzate, delle conseguenze – economiche e sociali – procurate dalla mancata regolazione dello sviluppo urbano e, solo a questo punto, dei rimedi che possono essere apportati attraverso la pianificazione territoriale e urbanistica.
Ragioni e fattori di crescita del consumo di suolo
E’ spettato a Edoardo Salzano, fondatore di Eddyburg.it e promotore della scuola, il compito di inquadrare il tema, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra consumo di suolo, economia e stili di vita, sottolineandone la patologia e indicandolo come uno degli effetti di un modello socio-economico che tende a disgregare progressivamente polis e urbs.[1]
Nel nostro paese assume un particolare rilievo la rottura dello stretto legame tra modi di produzione e territorio che aveva caratterizzato tutta la storia italiana fino al 1900, come ha spiegato Piero Bevilacqua. Per secoli la necessità di governare le acque, di adattare le terre per le coltivazioni, di rendere affidabili le reti di comunicazione e di difesa ha innervato il rapporto di mutua interazione tra uomo e natura. In poche generazioni questa necessità è venuta meno e con essa l’attenzione al territorio: il paesaggio, da costruzione collettiva del presente, è diventato memoria ingombrante del passato e l’urbanizzazione ha progressivamente e indistintamente invaso consistenti porzioni del suolo nazionale, nelle pianure, nelle coste, nei fondovalle.[2] Una trasformazione, ci ha ricordato Antonio di Gennaro, che ha investito non solo le aree urbane, ma - con altrettanta intensità - il territorio rurale, troppo spesso negletto dalla cultura urbanistica. Anche la campagna si è trasformata perché persino la produzione agricola, alla pari del commercio e della produzione industriale, ha perso il proprio legame con il territorio. Un cambiamento radicale, orientato da politiche commerciali definite a scala europea e mondiale, che si è rivelato comunque del tutto insufficiente a sostenere, economicamente oltre che culturalmente, la competizione con l’utilizzo urbano del suolo, come testimonia la drammatica dissipazione dei suoli fertili e ricchi di storia dell’entroterra napoletano.
L’espansione delle aree urbane è ben lontana da essersi arrestata. Al contrario, essa viene sostenuta dall’impennata delle rendite immobiliari con rinnovato vigore da una decina d’anni a questa parte. Spiega Giovanni Caudo che persino la produzione di abitazioni, edifici industriali e uffici sembra aver subito una mutazione genetica, all’apparenza smaterializzandosi[3]. Gli edifici diventano poste nei bilanci, sono oggetto di continui passaggi di mano tra società, acquistano un valore del tutto slegato dalla loro effettiva funzione. Gli effetti prodigiosi nelle casse delle società immobiliari sono ormai noti ai più, così come l’impennata dei costi di acquisto e affitto delle abitazioni. Dovrebbe essere evidente il nesso, causale e temporale, tra i due fenomeni, ma così non è. La pianificazione non ha finora risposto con la necessaria prontezza, anzi in taluni casi sembra voler agevolare questo perverso meccanismo. Molti sono gli esempi illustrati durante i cinque giorni della scuola.
La pianificazione:
strumento di controllo o di sostegno?
Il caso del Prg di Roma, indagato da Paolo Berdini, è esemplare di quanto possano incidere le scelte della pianificazione urbanistica nell’assecondare l’espansione delle aree urbane. Ma non si tratta di un comportamento isolato, tutt’altro. Anche in Emilia Romagna, nonostante il territorio sia pianificato con completezza e costanza da oltre trent’anni, l’espansione urbana e la dispersione degli insediamenti nel territorio hanno assunto proporzioni consistenti. Piero Cavalcoli ha mostrato la disseminazione di insediamenti produttivi nella piana bolognese, un centinaio di aree grandi 20 ettari o più, disposte a raggiera attorno al capoluogo. Lo stesso avviene in Toscana, dove sono state censite 130 aggregazioni con più di 50 ettari disseminate nei fondovalle e nelle poche aree pianeggianti. Oppure, con forza ancora maggiore, nel Veneto: 556 aggregazioni produttive censite nella sola provincia di Treviso. La razionalità delle singole decisioni assunte dai piani produce, dunque, una complessiva irrazionalità.
I difetti di questo modello, basato sulla sommatoria di decisioni particolari, sono amplificati dalle distorsioni nella rete dei trasporti. Come ha chiarito Alfredo Drufuca, la logica di costruzione e gestione di autostrade, strade e ferrovie è orientata a soddisfare prioritariamente se non esclusivamente le esigenze di bilancio e di funzionamento degli enti gestori, (monopolisti pubblici o privati, poco importa), ignorando la realtà territoriale in cui si collocano le infrastrutture, così come gli effetti territoriali delle scelte compiute. Paradossalmente, la congestione di alcune tratte e la dispersione degli insediamenti si alimentano a vicenda e le soluzioni usualmente proposte non fanno che amplificare i problemi.
Sembrerebbe necessario, dunque, spingere in direzione di una maggiore coerenza complessiva delle scelte, rafforzando il ruolo degli enti pubblici, in particolare di province e regioni. Tutto il contrario di quanto si va affermando con la proposta di legge urbanistica in discussione al Senato. Vezio de Lucia ha evidenziato come la proposta redatta dall’onorevole Lupi porti alle estreme conseguenze il modello “individualista” e frammentario delle decisioni che sta alla base della disarticolazione della crescita degli insediamenti: l’iniziativa sulle trasformazioni della città viene completamente delegata ai privati (rectius, agli investitori immobiliari) e l’autorità pubblica si limita a introdurre qualche correzione, con armi che la stessa legge provvede a spuntare. La debolezza del sistema della pianificazione viene ulteriormente esasperata da altri passaggi del testo legislativo, laddove si depotenziano i piani territoriali e si rinuncia ad una visione dell’urbanistica coincidente con il “governo del territorio”, a favore di una più angusta visione rivolta alle sole trasformazioni edilizie, al cemento e all’asfalto come avrebbe detto Antonio Cederna.
La separazione tra urbanistica, ambiente e paesaggio non è senza conseguenze. Nel ricordarci le difficoltà che hanno incontrato l’applicazione della VIA e la redazione dei piani specialistici, Dario Franchini e Maria Pia Guermandi hanno ben argomentato come questo scorporo finisca col rafforzare quella frattura tra società e ambiente di cui si è parlato all’inizio del paragrafo precedente. In una società sempre più avulsa dal territorio in cui abita, la protezione del paesaggio, dei beni culturali e dell’ambiente sono così percepiti come un vincolo, come un costo, persino come un lusso in tempi di crisi, e non – come sarebbe auspicabile – il fondamento delle scelte.
Modelli di crescita ed effetti prodotti
La crescita delle aree urbane non si è dunque arrestata, né in Italia, né nel resto del mondo, tutt’altro. Sprawl, diffusione, dispersione insediativa: attraverso questi termini Maria Cristina Gibelli ha spiegato come il consumo di suolo si accompagni ad un uso sempre più estensivo dello spazio, alla perdita dei confini della città, alla progressiva formazione di un magma di costruzioni, infrastrutture e aree agricole relitte. Fabrizio Bottini ha percorso una consistenze sezione della principale delle conurbazioni italiane, quella padana, e le sue fotografie – scattate lungo la strada che congiunge Torino a Venezia – illustrano nella loro sequenza quanto sia profonda la dilatazione e destrutturazione dello spazio urbano, a dispetto delle intenzioni dei piani territoriali. Nel panorama della conurbazione convivono tuttora forme tradizionali di espansione, come ricordato da Berdini e De Lucia a proposito di Roma: la crescita della città non costituisce affatto un rimedio alla congestione delle aree centrali. Al contrario, la deregulation dello sviluppo urbano comporta l’esasperazione congiunta di due fenomeni solo apparentemente opposti: l’uso sempre più intensivo di alcune parti del territorio e la dissipazione di superfici agricole sempre più ampie. Lo testimoniano le grandi trasformazioni urbane (Caudo), le dinamiche della mobilità (Drufuca, Cavalcoli) e persino il turismo (Ravaioli), i cui effetti negativi sono legati sia ad un eccesso di pressione nelle città d’arte o lungo le coste, sia ad una sua progressiva diffusione in aree poco vocate e accessibili.[4]
Il confronto con altre nazioni europee, compiuto da Georg Frisch, evidenzia l’abissale vuoto di conoscenze in Italia, a testimonianza di quanto sia poco in auge il tema del controllo degli usi del suolo. Mentre in Germania e in Gran Bretagna, accurati catasti degli usi e delle trasformazioni sono posti a fondamento di politiche di correzione delle dinamiche spontanee di crescita delle aree urbane, in Italia sono disponibili poche ricerche, effettuate senza alcun sostegno e coordinamento da parte dello stato e delle regioni. Quanti km di costa sarda sono destinati al turismo? Quante porzioni dei fondovalle appenninici o delle pianure interne sono stati consumati, in nome dello sviluppo industriale delle piccole imprese? Chi abita nelle nostre campagne? Qual’è la mappa reale degli spostamenti che compiamo ogni giorno?
Altre domande scaturiscano dall’osservazione della distribuzione di costi e vantaggi. Il mancato controllo del consumo di suolo e la dispersione degli insediamenti generano una serie di costi collettivi la cui entità è stata stimata, per la prima volta in Italia, in una ricerca condotta da Camagni, Gibelli e Rigamonti, della quale Gibelli ha presentato gli esiti. Il fatto che pochi gruppi sociali si avvantaggino di una consistente esternalizzazione dei costi, ambientali, sociali ed economici non sembra essere ben compreso. Una sottovalutazione che provoca distorsioni evidenti: attualmente è più vantaggioso urbanizzare il terreno agricolo, rispetto alla ristrutturazione di aree dismesse; attualmente i comuni derivano gran parte del proprio sostentamento da oneri di urbanizzazione e ICI (cioé dalla consistenza e dalla crescita delle aree urbane); nella prospettiva indicata da alcune leggi regionali e fatta propria dalla proposta di legge urbanistica nazionale, la realizzazione e persino la gestione dei servizi pubblici (degli asili, delle scuole, del verde pubblico, degli impianti sportivi...) saranno indissolubilmente legati ad operazioni di trasformazione urbana. Al “motore della crescita urbana”, per usare l’espressione del Sustainability institute americano, non si vuole far mancare il carburante.
Il panorama sulle leggi regionali fornito da Luigi Scano dimostra la superficialità con cui la pubblica amministrazione si occupa del controllo della crescita urbana: qualche dichiarazione di principio relativa alla sostenibilità, poca o nessuna attenzione al territorio rurale, letto al più come supporto per la produzione agricola. Non è dunque un caso che anche nelle regioni con la migliore tradizione urbanistica, Toscana ed Emilia, la crescita e dispersione degli insediamenti abbiano interessato significative porzioni di territorio.
I rimedi possibili: quali sfide per la pianificazione
La panoramica fornita durante la scuola, sopra brevemente riassunta, mostra con sufficiente chiarezza la complessità del problema del consumo di suolo, il cui contenimento non può certo basarsi esclusivamente sul modo in cui vengono redatti gli strumenti urbanistici. Del resto il legame tra urbanistica e politica, così come tra politica e cultura è – o dovrebbe essere – assai stretto. Registriamo, dunque, la necessità che si ristabilisca innanzitutto questo legame, che gli urbanisti ritrovino parole capaci di descrivere la realtà, che smettano di interrogarsi esclusivamente sulla nomenclatura dei piani e riprendano ad occuparsi del rapporto tra società e territorio e di quanto l’organizzazione delle città è importante per la vita quotidiana delle persone. Se il territorio non è nell’agenda politica è anche perché gli urbanisti hanno perso le parole.
In secondo luogo, ben prima della definizione di complesse politiche o di raffinati strumenti di piano, sarebbe bene recuperare un po’ della chiarezza e della semplicità dei piani del passato, frettolosamente archiviati come strumenti inadeguati a governare il cambiamento. Al contrario: quanta forza visionaria era contenuta nei piani coordinati dei comuni della Val di Cornia, così come emerso dal racconto di uno dei loro autori, Carlo Melograni. In una tavola di piano caratterizzata da pochi e semplici colori viene tratteggiato un futuro diverso per lo sviluppo di Piombino e del suo entroterra, basato su una rete di parchi e non sullo sfruttamento immobiliare della costa. E che dire del piano regolatore di Napoli, pressoché l’unica grande città italiana ad avere approvato di recente un nuovo piano regolatore? Che reazione avreste, se vi descrivessero Napoli come una città circondata da un grande parco sulle colline, dove la piana industriale di Bagnoli è stata restituita alla città realizzando una spiaggia e un grande giardino pubblico, dove i turisti visitano il centro restaurato muovendosi con la metropolitana o il treno, dove il traffico soffocante e le macchine a Piazza Plebiscito sono un ricordo sbiadito... Eppure non si tratta della fantasia di uno scrittore, ma del contenuto concreto di un piano urbanistico che, quand’anche tradizionale nella forma, si rivela assai innovativo nei suoi contenuti.
Se appare auspicabile recuperare un po’ di chiarezza nel descrivere e interpretare la realtà, così come nel fornire proposte per il domani, la terza e probabilmente la più importante sfida per la pianificazione consiste nell’attivare gli strumenti che consentono il passaggio dall’idea di piano alla sua concreta realizzazione. E’ Massimo Zucconi, con il suo intervento, a ricordare quanta tenacia occorra per muoversi controcorrente. Eppure la storia di successo della Società dei Parchi Val di Cornia dimostra che è stato possibile tradurre in una realtà concreta l’intuizione tecnico-politica contenuta nei piani redatti all’inizio degli anni settanta. E’ stato possibile e necessario al contempo: se in Val di Cornia i parchi non fossero oggi un modello di gestione, un soggetto economico e un protagonista attivo sulla scena locale è del tutto probabile che le proposte di piano verrebbero facilmente sopraffatte, con esiti analoghi a quanto è accaduto in molte altre aree costiere. Allo stesso modo, la sorte del Prg di Napoli è indissolubimente legata al funzionamento della rete dei trasporti, alla vitalità del parco delle colline, alla progressiva realizzazione dei servizi nelle periferie e della riconversione di Bagnoli. Ad un’idea semplice, ma chiara, dello sviluppo delle città e del territorio deve perciò corrispondere un ventaglio di iniziative che solo nel loro insieme possono rappresentare un antidoto all’anarchia dello sviluppo urbano: politiche fiscali, rafforzamento del coordinamento intercomunale, incentivi al riutilizzo delle aree già urbanizzate, introduzione di regole più severe o di forme più stringenti di valutazione per l’ammissibilità delle espansioni urbane, introduzione di un legame obbligatorio tra localizzazione delle nuove aree urbane ed esistenza di un servizio di trasporto pubblico su ferro, introduzione di densità minime di occupazione del suolo, sostegno all’agricoltura come presidio ambientale e paesaggistico e così enumerando, come testimoniano i numerosi esempi forniti dai docenti della scuola. Nuovamente, si tratta di proposte che necessariamente esulano dallo specifico dei piani, e riguardano innanzitutto il funzionamento della pubblica amministrazione, e inoltre la sfera legislativa, quella economica, l’insieme delle politiche sul territorio, in un percorso circolare che necessariamente riconduce alla politica e alla cultura.
In conclusione
Ben vasto programma, dunque. E molto ricco di sfaccettature, così come era logico che scaturisse da una scuola estiva di pianificazione promossa da Eddyburg.
Per concludere, in questi giorni circola in televisione una pubblicità che mostra un uomo con sua figlia che giocano felicemente insieme. Per tutto il resto, recita lo slogan, c’è la carta di credito. Rovesciando il punto di vista, il mercato con le sue distorsioni sembra occupare ogni giorno sempre più spazio, nell’agenda politica così come nel piccolo mondo dell’urbanistica. Ebbene, per tutto il resto c’è Eddyburg. Questo credo che basti a spiegare l’affetto e l’impegno con cui hanno contribuito, docenti e partecipanti, al successo di questa settimana.
[1] Edoardo Salzano. Consumo e città. Dispense della scuola estiva di pianificazione 2005. Anche nel sito, qui.
[2] Va ricordato che la grande trasformazione descritta da Bevilacqua ha significato l’affrancamento dalla miseria, l’evoluzione del costume e la diffusione del benessere alla più gran parte della popolazione. Non è dunque uno sguardo nostalgico, ma piuttosto desideroso di comprendere il percorso compiuto per giungere sin qui. Nei giorni successivi alla conclusione della scuola, Vezio de Lucia mi ha segnalato il libro Terra di rapina di Giuliana Saladino, una testimonianza esemplare per ricordare quali drammatici eventi abbiano segnato i profondi cambiamenti dell’Italia del ‘900.
[3] Il significativo titolo della comunicazione di Caudo è “Case di carta”.
[4] E’ di questi giorni la demenziale proposta di costruire nuovi impianti da sci sulla sommità dell’Etna, a 2000 metri di quota, esempio paradossale di quanto il falso mito dello sviluppo turistico venga addotto come giustificazione per operazioni dall’elevatissimo impatto ambientale. Ma, all’opposto, anche la silenziosa e progressiva trasformazione della campagna toscana in chiave turistica meriterebbe qualche considerazione più approfondita, come sottolineato anche dai partecipanti al corso.
L’insediamento extraurbano a nastro lungo il tracciato della Padana Inferiore: un percorso critico
Il “percorso critico” del titolo si riferisce contemporaneamente a due aspetti e approcci complementari: lo stato attuale di criticità insediativa del percorso stradale e del suo contesto ambientale immediato; l’esame critico degli strumenti di pianificazione provinciale che ne dovrebbero restituire un’idea strategica di sviluppo spaziale.
Questi due approcci complementari sono stati proposti all’interno del corso (anche a causa dei ristretti tempi disponibili) attraverso una rassegna sistematica di fotografie scattate recentemente lungo i circa 400 chilometri del tracciato, e un testo che a partire dall’idea di insediamento megalopolitano unitario e articolato per grandi zone “specializzate”, tentava di verificare attenzione e continuità dei nove piani provinciali interessati al tema dell’insediamento (soprattutto commercial-produttivo) extraurbano a nastro.
Il percorso fisico documentato dalle fotografie mostrava un “cuore verde della padania” ancora in parte caratterizzato come tale, ma con gravi tendenze alla saldatura delle varie fasce extraurbane secondo sistemi sempre più continui e prolungati, spesso indipendentemente dalla consistenza o dalla stessa esistenza di nuclei abitati o comunque consolidati.
Il percorso critico attraverso le pianificazioni provinciali evidenziava una notevole disparità: sia nelle qualità e consapevolezza degli approcci al problema (del tutto ignorato, o sottovalutato, o affrontato in modo contraddittorio); sia nell’idea di spazio che emergeva dai documenti (che restituiva un’immagine della fascia centrale megalopolitana frammentata e “localistica”). In particolare, sul versante delle ipotesi di sviluppo e governo si oscillava fra un’idea generale di contenimento dei consumi di suolo e di polarizzazione (pur con qualche lacuna), e programmi del tutto opposti di crescita insediativa all’insegna di elementi ad alto impatto (logistica, infrastrutture autostradali parallele al tracciato ecc.).
La provvisoria conclusione di entrambi i complementari percorsi è da un lato la grande disparità che emerge fra un approccio infrastrutturale (autostrade, alta velocità ferroviaria ecc.) che opera a tutto campo a dimensione megalopolitana, e una pianificazione territoriale esplicitamente inadeguata a rapportarsi su un piano di parità. Dall’altro la tendenza visibile alla crescita di interventi che pur concepiti alla scala locale manifestano i propri effetti a dimensione molto maggiore.
Ne emerge quantomeno l’urgenza di ripensare culture e ruoli della pianificazione sovracomunale.
Qualche particolare descrittivo in più nell'articolo Quore di Tenebra (f.b.)
Case di carta: la nuova questione abitativa
I dati sull’emergenza abitativa ci colpiscono per la loro rilevanza: canoni di affitto in aumento, tra il 1998 e il 2004, mediamente del 49%, ma a Venezia del 139% e a Roma del 91%. I valori degli immobili in crescita cresciuti, tra il 2001 e il 2004, di quasi il 40%, media nazionale nelle città capoluogo. In molte città, quindi, sono letteralmente raddoppiati. Gli sfratti per morosità rappresentano, nel 2002, il 68% del totale, nel 1983 erano appena il 13%. E’ anche vero che le famiglie che abitano in case di proprietà sono aumentate. Erano poco meno del 51% nel 1971 e sono diventate, nel 2001, il 71%. Incremento addirittura più consistente si è registrato nelle città metropolitane dove le famiglie in proprietà sono più che raddoppiate: dal 30,6% al 62,5%. E’ frequente la contrapposizione tra i dati sull’emergenza abitativa e quelli sulla proprietà così da poter relegare la prima a problema marginale in fase di risoluzione anche grazie ai bassi tassi dei mutui che agevolano l’accesso alla proprietà.
L’articolazione dell’emergenza abitativa dipende da più fattori ma soprattutto, e in misura sempre maggiore, dalle condizioni di vulnerabilità delle famiglie esposte ai canoni di affitto in regime di libero mercato. Oggi queste sono 3.288.990 (dati Istat 2001), pari al 76% delle famiglie in affitto. E’ questo il bacino della vulnerabilità sociale. Le stime del Cresme mostrano che nel 2007, a seguito dell’incremento dei canoni, le famiglie con un rapporto canone reddito superiore al 30% aumenteranno di circa 400 mila (da 1.355.300 a 1.758.260). E’ la linea della povertà che avanza verso l’alto. Franco Ferrarotti l’ha descritta come «la povertà dignitosa, quella che cerca disperatamente di “salvare le apparenze”». Nei grandi comuni il canone medio per un alloggio di 75 mq è di 1.089€, lo stipendio netto per un impiegato pubblico (ministero, sanità, scuola, enti locali) si aggira intorno ai 1.200€. Così avanza l’emergenza abitativa, aumenta l’insicurezza ed è emergenza sociale.
Quali le ragioni o le possibili spiegazioni della crescita del mercato immobiliare? L’osservatorio immobiliare individua l’inizio del ciclo positivo a partire dal 1997. In quell’anno, infatti, il numero delle transazioni (compravendite) è cresciuto dell’8,7%. Da quel momento la crescita è stata progressiva con un solo dato negativo, nel 2001, quando le compravendite registrano una correzione dell’1,3%. Un ciclo cominciato ben prima che si sgonfiasse la bolla speculativa della new economy e ben prima del crollo delle torri gemelle. Nel 1997 e non nel 2000 o nel 2001. Le cause quindi vanno trovate altrove.
Anche i dati sui finanziamenti oltre il breve termine dell’osservatorio statistico della Banca d’Italia indicano che tra il dicembre del 1997 e il marzo del 1998 si è registrata una inversione di tendenza nei prestiti alle famiglie per l’acquisto della casa che, nel 2004, rappresentano quasi il 30% del totale (a fronte di un 15,8% di finanziamenti per le costruzioni, e di un 10,8% per i macchinari e le attrezzature).
Cosa è successo quindi in quegli anni, tra il 1997 e il 1998, tanto da avviare in modo così deciso e repentino un ciclo economico che ha prodotto una crescita dei valori immobiliari senza precedenti? Certo è che l’allentamento da parte delle banche dei cordoni della borsa a favore delle famiglie ha avuto un effetto anticiclico e ha prodotto un aumento della domanda di acquisto di alloggi contribuendo a rivitalizzare il mercato immobiliare.
Anche il governo di allora, con la legge 431 del dicembre 1998, liberalizzando i canoni di affitto e cancellando la legge dell’equo canone consentì la crescita dei canoni e attraverso questi contribuì ad aumentare la redditività degli alloggi.
Sempre in quegli stessi anni si registrano però altri eventi significativi. Nell’ambito del più ampio processo di ristrutturazione delle imprese di produzione di beni e servizi, tra il 1997 e il 1998, si modifica radicalmente il legame tra impresa e proprietà immobiliare. Questo cambiamento radicale si traduce nell’esternalizzazione del patrimonio immobiliare che viene affidato ad una società (di nuova costituzione o già presente nella ramificazione aziendale).
Il meccanismo finanziario che si realizza è noto nella letteratura come ABS – Asset backed securitization, o semplicemente securitization. Questo meccanismo si basa sulla comparsa nel mercato di un soggetto con sole finalità immobiliari finanziato da una banca e chiamato ad incrementare la redditività degli immobili per assicurare il suo mantenimento. Redditività che è assicurata dai canoni di affitto e dai valori immobiliari che perciò devono, entrambi, crescere o comunque mantenersi su valori alti. Un meccanismo che ha necessariamente bisogno di vedere aumentare i valori del mercato immobiliare (+ domanda) e i canoni di locazione (+mercato). La coincidenza temporale (1997-1998) per cui il sistema bancario concede più facilmente mutui alle famiglie e il governo, dicembre 1998, liberalizza i canoni abolendo non solo l’equo canone ma anche i patti in deroga introdotti nel 1992, non costituisce necessariamente una spiegazione.
Conclusioni. Le case sono diventate di carta, sono state immesse sul mercato finanziario per produrre redditività e sostenere il sistema economico delle banche, la ristrutturazione delle imprese e, soprattutto, per alimentare la rendita finanziaria. I costi di questo processo di ristrutturazione gravano sulle famiglie in affitto ma anche su quelle che comprano casa indebitandosi con i mutui. Le società immobiliari fanno profitti mai visti e incrementano il fatturato da un anno all’altro. La questione abitativa ha dunque caratteri del tutto diversi da quella conosciuta in passato e anche le soluzioni che si richiedono devono essere diverse. Non è questa la sede per approfondire o delineare i caratteri di una possibile politica abitativa. Mi limiterò quindi a segnalare che se è necessario pensare ad un “progetto per le città d’Italia”, questo dovrà contenere tra le priorità l’individuazione di linee di intervento sulla nuova questione abitativa che (a) incidano sui meccanismi di finanziarizzazione, che (b) aprano il mercato a nuovi soggetti, che (c) valorizzino (invece di dismettere) il patrimonio immobiliare pubblico.
Caro Prof Eddy, più ci penso e più sono contenta di aver partecipato alla tua iniziativa. per quanto mi riguarda è andato tutto ottimamente,dagli aspetti logistici , a quelli culturali e perchè no agli aspetti ricreativi. Mentre sugli aspetti culturali devo un po’ lasciar decantare la marea di informazioni che ci avete fornito, mi preme dire che il passaggio da virtuale a reale non mi hanno deluso anzi ,e fra le persone che hanno partecipato ho trovato degli amici. E' vero non c'è stata una sistematicapresentazione dei partecipanti, ciò è comprensibile in relazione alla novità dellesperimento, ma la particolarità del luogo, che sebbene inizialmente ci ha lasciati tutti un pò perplessi, ha favorito la comunicazione e l’aggregazione fra le persone. Infatti alla fine delle lezioni ci siamo scoperti gruppo e personalmente mi dispiaciuto che molti per ragioni varie siano dovuti andare via il venerdì anche perchè in effetti il corso è continuato sul territorio; le parole dei quattro giorni precedenti hanno potuto legarsi a una realtà ben precisa e molto significativa.
Infatti siamo scesi nelle viscere della terra dove generazioni hanno cercato preziosi metalli , abbiamo assaporato la luna rossa di una notte umida nella quale per magia sono tornati a danzare e suonare per noi presenze etrusche, ci siamo immersi nell'impianto appena affiorato di una città sacra e ci siamo sentiti parte della storia, ma soprattutto ci siamo sentiti insieme. Quel territorio è davvero molto propizio alle nostre tematiche, infondo anche noi siamo un po’ minatori che ricerchiamo nuovi filoni di materia preziosa per fabbricare nuovi strumenti per le costruire le città di domani. vi ringrazio tutti, a uno a uno, un grazie particolare a Georg e a Mauro che ci hanno accompagnato anche nelle ultime gite. un abbraccio speciale a te.
Grazie Carla, a te e alle altre e gli altri (anche quelli che non sono potuti vebire) appuntamento fra un anno in Val di Cornia, e magari anche prima per una giornata di discussione.
Note di vita quotidiana alla scuola estiva di Eddyburg
Sembra ieri ed è già domani alla scuola estiva organizzata da Eddyburg nel Parco Archeominerario di San Silvestro in Val di Cornia.
L’arrivo
L’ultima email di Monica inviata a tutti i partecipanti ci aveva istruito su come arrivare a Villa Lanzi dove il martedì mattina sarebbero cominciati gli interventi dei relatori, come da programma.
Il tema della scuola, consumo di suolo, si sarebbe conteso la platea con il dibattito sulla legge Lupi appena approvata dalla Camera dei Deputati. Fin qui tutto come da copione.
Nella tarda serata di lunedì, dopo essermi lasciata alle spalle la strada comunale per Campiglia Marittima, seguendo le indicazioni di Monica mi sono inerpicata con la mia auto lungo una strada ghiaiosa che sembrava perdersi nel silenzio della macchia mediterranea : in mezzo al paesaggio di antiche miniere, oggi circondato dai gradoni delle cave ancora in attività, è apparsa quasi all’improvviso casa Gowett, costruzione dei primi anni del secolo scorso, semplice ed al tempo stesso austera nella sua testimonianza di presidio dei minatori che per decenni hanno lavorato in questa zona.
Il luogo è unico, tra le colline che lasciano intravedere il mare immerso nella luce della sera, e oltre, le sagome delle isole dell’arcipelago toscano. Sono affascinata.
Salgo le ripide scale che portano alla reception, qualcuno dei partecipanti è già arrivato, saluto Carla e Maria Paola; subito si parla, ci si conosce, curiose di poter frequentare questa scuola insieme.
Il prof. Salzano è arrivato presto insieme a Mauro Baioni, Angela era già arrivata, gli altri arrivano alla spicciolata: Elena, Valerio, e poi ancora Elena, Oscar, Rossana, Vanni, Francesca; Paolo e Michele ci raggiungeranno domani; e poi alcuni relatori, Vezio De Lucia, Giovanni Caudo, Georg Frisch, Paolo Berdini: alcuni di loro hanno lavorato attivamente con il prof. Salzano alla costruzione della scuola estiva e il loro sorriso rivela la soddisfazione di essere arrivati al traguardo: la Scuola Estiva di Eddyburg sta per cominciare.
Il primo “raduno generale “ verso le venti e trenta è intorno alla tavola della cena: non serve rompere il ghiaccio, basta il nostro nome e poi tutti ci sentiamo accomunati dai quattro intensi giorni che dedicheremo a parlare di ciò che ci sta veramente a cuore: come direbbe Leopardi, delle magnifiche sorti e progressive del nostro territorio, la casa comune del nostro vivere.
Primo giorno
Dopo una notte un po’ burrascosa di forte pioggia la mattina di martedì ci accoglie con un tiepido sole; cominciano gli interventi dei relatori, mi avvio frettolosamente lungo il sentiero che porta a Villa Lanzi: - “Puntuali!” - ha detto perentorio il prof. Salzano ieri sera!
Dopo il saluto di benvenuto del fondatore di Eddyburg, che invita attraverso le parole di Calvino a ricorrere con ampiezza “all’ottimismo della volontà per saper riconoscere, in questi tempi di lupi, chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, è compito di Maria Cristiana Gibelli introdurre il tema così attuale del consumo di suolo, con una trattazione quanto mai organica ed interessante impostata sulla valutazione dei costi economici della città dispersa: la sua conclusione va oltre l’affermazione della eventuale necessità di introdurre costi aggiuntivi per chi produce insediamenti diffusi, indicando esperienze europee di buone pratiche di governo del territorio per un più saggio controllo del consumo delle risorse territoriali.
Piero Bevilacqua, soffermandosi sulla evoluzione storica delle trasformazioni che l’uomo ha operato da sempre nell’ambiente in cui vive, ci riporta alla imprescindibile necessità di non perdere la coscienza di un uso naturale delle risorse del territorio negando con fermezza quella da lui definita la “pestilenza ideologica del nostro tempo” che ci porta a credere nella necessità del costruire continuo per favorire e mantenere livelli costanti di sviluppo.
Il pranzo è ormai alle porte a Villa Lanzi: ci si concede una pausa tra un piatto di zuppa toscana e carpaccio di ottimo pesce.
Si torna a parlare nel pomeriggio; e certamente la relazione di Giovanni Caudo è quella che più ci lascia stupiti, quasi interdetti, nel comprendere la semplice quanto perversa logica con la quale in pochi anni siamo stati fagocitati dall’ascesa inarrestabile della rendita immobiliare e fondiaria, con tutte le conseguenze che questa ha prodotto, e sta producendo, sul nostro territorio.
Paolo Berdini ci introduce un caso esemplare di nuovo piano regolatore nella redazione del quale ci si è distaccati dal modello di pianificazione pubblica previsto dalla legge urbanistica nazionale, per fortuna ancora vigente, del 1942: il nuovo PRG di Roma che con operazioni di “compensazione urbanistica” esemplifica, secondo il relatore, la prima vera applicazione delle regole di contrattazione pubblico-privata previste dalla legge Lupi.
La prima giornata finisce con un ritorno alla realtà, che troppo spesso vorremmo credere irreale, documentata da una carrellata di foto di insediamenti produttivi e commerciali a nastro scattate lungo una statale padana che da Torino ci porta a Monselice dall’ ironico quanto mai pungente Fabrizio Bottini, presente anche in qualità di fotografo ufficiale della Scuola Estiva.
Si esce da Villa Lanzi che è quasi sera, alcuni pensierosi su ciò che hanno ascoltato, altri continuando la discussione mentre si avviano verso Casa Gowett; altri ancora vagano in cerca del segnale del proprio telefonino che in questa parte di mondo, dominato per quattro giorni solo dalle nostre discussioni talebane sull’urbanistica interrotte unicamente dal passaggio degli automezzi che provengano dalle aree di cava, ha giustamente ritenuto di dover rimanere muto.
Secondo giorno
Il secondo giorno della Scuola di Eddyburg si focalizza sull’intervento di Vezio De Lucia sulla Legge Lupi: non mi sento di aggiungere alcuna parole alle sue, tanto la relazione è precisa nella ricostruzione delle fasi che hanno portato al disegno di legge quanto accurata nell’ indicare il legame profondo tra l’incremento delle rendite e le regole dettate dai nuovi articoli che cantano il Requiem della pianificazione pubblica.
Non c’è urbanistica se non c’è tutela: su quest’ultima frase di Vezio De Lucia si inserisce l’intervento di Maria Pia Guermandi che ci riporta ad una analisi delle testimonianze culturali del nostro territorio, spesso fagocitate, se non cancellate, dall’avanzare dell’urbanizzazione selvaggia; beni culturali che devono essere sì catalogati ma prioritariamente tutelati e valorizzati come identità della nostra storia.
Dario Franchini, parlando della valutazione strategica, ci riporta alla dimensione progettuale dell’urbanistica ed all’attualità dell’uso ed abuso del termine “sostenibilità”, ponendo l’accento su pregi e difetti del modello toscano, padre in Italia del concetto di sviluppo sostenibile, alla luce della nuova Legge Regionale di Governo del Territorio.
Dopo un pranzo veloce la visita alla Rocca di San Silvestro, insediamento fortificato a poche centinaia di metri da Villa Lanzi, ci apre scenari medievali di incontrastata bellezza oggi riscaldati da un’aria quasi estiva.
Nel pomeriggio ancora tre relazioni, tutte che riportano l’attenzione su casi esemplari di pianificazione pubblica: Piero Cavalcoli ci racconta l’esperienza del PTCP di Bologna sottolineando la necessità, oggi innegabilmente attenuata dalle leggi in materia, della pianificazione di livello sovracomunale.
Georg Frisch e Antonio Di Gennaro, il primo attraverso esperienze europee, il secondo con il racconto della nascita e morte dell’ultimo PTCP di Napoli, non fanno che confermare che la pianificazione genericamente definita “di area vasta” è il livello nodale su cui strutturare modelli corretti di trasformazione del territorio.
Anche oggi i relatori hanno contribuito con grande professionalità ad aggiungere un piccolo ma prezioso tassello al selciato che tutti noi vogliamo porti alla costruzione della strada su cui far progredire il nostro modello di urbanistica: un’urbanistica che per sopravvivere nei suoi valori deve, come dice Eddy, andare necessariamente controcorrente.
La Scuola si prende un piccolo momento di libertà e la sera ci allontaniamo dal nostro ritiro per andare a visitare il borgo di Massa Marittima.
Terzo giorno
Così, ormai abituati al ritrovo mattutino davanti ad una tazza di caffè a discutere delle notizie sulle prime pagine dei giornali che Fabrizio Bottini ci porta puntuale di ritorno dall’edicola più vicina, ci ritroviamo nuovamente a Villa Lanzi per la terza giornata della Scuola Estiva di Eddyburg.
E’ ancora Antonio Di Gennaro che ci parla di come sono cambiati non solo i modelli insediativi sul territorio aperto ma anche come questo sia dominato da nuovi soggetti: ed allora la domanda è come dialogare con questi nuovi destinatari della pianificazione e come possa il territorio rurale “difendersi” dalla crescita urbana.
Ad Alfredo Drufuca spetta invece l’interessantissimo compito di farci capire come possa la realizzazione di un nuovo asse stradale modificare i modelli di crescita urbana sul territorio; e in questo caso la domanda sorge spontanea: quanto le infrastrutture stradali, e non, hanno contribuito alla dispersione urbana? Sono decenni ormai che ci sentiamo ripetere che le strade sono necessarie “allo sviluppo del paese”, l’attuale governo ne ha fatto il suo cavallo di battaglia, noi alla scuola abbiamo cercato di riflettere anche su questo.
E un’ottima conclusione al dibattito è stata la relazione di Carla Ravaioli che argomentando sul concetto di turismo di massa ha riportato l’attenzione al pericolo che tale fenomeno può avere sulla nostra identità culturale legata alla identità dei luoghi in cui viviamo messa fortemente in discussione dalle trasformazioni edilizie volute dagli operatori del settore turistico ed avvallate dalla rendita fondiaria.
Nel pomeriggio abbiamo conosciuto dalle parole del suo presidente Massimo Zucconi e dall’intervento di Carlo Melograni la realtà della pianificazione della Val di Cornia e la vitalità con cui oggi crescono le attività dei Parchi di questa terra di Toscana.
Quarto giorno
Ed è arrivato anche venerdì, ultimo giorno di relazioni e discussioni della Scuola: è Gigi Scano che affronta in prima mattina il tema del rapporto tra legislazione regionale e consumo di suolo: il suo intervento apre un ampio dibattito tra noi; ormai ci sentiamo parte di questa comunità, portiamo i nostri contributi, le nostre idee con semplice entusiasmo.
Mauro Baioni, a cui spetta il grande merito di aver fatto sì che tutto filasse liscio in questi giorni di convivenza, chiude gli interventi dei relatori.
Il pranzo quest’oggi è breve, cominciano a girare gli elenchi con i nomi dei partecipanti e i loro indirizzi email per i futuri scambi di missive.
Eddy ci vuole tutti intorno a lui per un bilancio di questo primo corso: è il momento più intenso dei cinque giorni, ormai ci chiamiamo per nome, trasmettiamo l’un l’altro i colori della cultura dei luoghi da cui proveniamo, ci sentiamo uniti da questo nostro sentire comune, da idee urbanistiche oggi controcorrente che vogliamo non solo difendere ma soprattutto affermare anche all’esterno, anche nei confronti di che la pensa in modo diverso da noi.
La Scuola di Eddyburg tornerà il prossimo anno sempre in Val di Cornia; il ritiro in questo luogo ameno e silenzioso, ed anche un po’ spartano, aiuta la concentrazione ed i rapporti; sul tema c’è ancora discussione: Eddy propone la pianificazione provinciale, Vezio De Lucia il modello toscano.
Tutti noi siamo invitati a dire la nostra perché il nostro mestiere, il mestiere dell’urbanista, continui a farsi portavoce di un modello culturale che rappresenta la capacità di sopravvivenza della nostra civiltà.
Al prossimo anno
Ci salutiamo davanti a Casa Gowett in mezzo ad un andirivieni di valige e borse su e giù per le scale; il piazzale si svuota, torna il silenzio immerso nel verde della macchia mediterranea di questa selvaggia terra toscana scandito dal correre degli automezzi lungo le strade polverose che attraversano le cave.
Un saluto a tutti coloro che hanno partecipato alla Scuola ed un arrivederci al prossimo anno!
Postilla
Monica Porciani è l’impareggiabile organizzatrice che la Parchi della Val di Cornia s.p.a. ha messo a disposizione della scuola. Casa Gowett la foresteria dove erano ospitati i frequentanti della scuola (studenti e docenti), Villa Lanza la sede del Centro di documentazione dove si sono svolte le lezioni e le altre attività connesse
Scuola estiva di pianificazione - 19-24 SETTEMBRE 2005
PROGRAMMA DEL CORSO
Martedi’ 20 settembre
Mattina
• Edoardo Salzano, Introduzione
• Maria Cristina Gibelli, Forma della città e costi collettivi: come governare l'insostenibile dispersione urbana
• Piero Bevilacqua I caratteri del territorio italiano e la sua evoluzione storica
Pomeriggio
• Giovanni Caudo, Le condizioni abitative
• Paolo Berdini, La dimensione metropolitana dell’urbanistica romana
• Fabrizio Bottini, Nel cuore verde della megalopoli padana: insediamenti a nastro produttivi e commerciali
Mercoledì 21 settembre
Mattina
• Vezio De Lucia, Il disegno di legge Lupi. Riforma e controriforma nell’urbanistica dell’Italia repubblicana
• Maria Pia Guermandi, Il territorio dei beni culturali
• Dario Franchini, La valutazione ambientale di piani e programmi: indirizzi per una pianificazione sostenibile
Pomeriggio
• Piero Cavalcoli, Bologna, le origini e il governo dell'attuale modello insediativo
• Georg Frisch, L’Europa
• Antonio di Gennaro, Napoli
Giovedì 22 settembre
Mattina
• Antonio di Gennaro, Il territorio rurale: istruzioni per l’uso
• Alfredo Drufuca, Strumenti per interpretare e governare la città diffusa: accessibilità e mobilità
• Carla Ravaioli, Il turismo: produzione di ricchezza senza controindicazioni?
Pomeriggio
• Massimo Zucconi, Carlo Melograni
La pianificazione territoriale coordinata e la realizzazione del sistema dei parchi della Val di Cornia.
Venerdì 23 settembre
Mattina
• Luigi Scano, Disposizioni per il contenimento dell'uso del suolo nella legislazione regionale.
• Francesco Erbani, La stampa e l’urbanistica
• Mauro Baioni, Consumo di suolo e pianificazione: seminario conclusivo con gli studenti
Pomeriggio
• Approfondimenti concordati con i corsisti
• Bilancio del corso a cura di Salzano e Zucconi
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