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L’inverno del 1969, con il grande sciopero nazionale (19 novembre) e l’attentato di Piazza Fontana a Milano (12 dicembre), è uno dei momenti cruciali della storia del secondo dopoguerra del nostro paese. Nella grande manifestazione viene ribadito con forza il diritto alla casa e si chiede una riforma urbanistica che sottragga le scelte urbanistiche alla speculazione. Il movimento studentesco e quello operaio sembrano, per un attimo, in grado di unire le forze per rivendicare un paese differente, più democratico e giusto. Di lì a qualche tempo sarà approvata la legge sulla casa, ma il profondo rinnovamento richiesto da studenti, intellettuali e mondo operaio verrà impedito con tutti i mezzi, compresi quelli sanguinari.

Le ragioni dello sciopero e il contesto, nazionale e internazionale, sono tratteggiati nello scritto di Oscar Mancini, dirigente sindacale Cgil, che riportiamo di seguito.

Il “biennio rosso” 1968-69

e lo sciopero nazionale per la casa



Lo sciopero generale del 19 novembre ’69 giunge al culmine dell’autunno caldo. Anzi, di una stagione politica, quella del “biennio rosso” 69/69, nella quale irrompono sulla scena le classi subalterne e le nuove generazioni e, qualche anno dopo, una straordinaria rivoluzione femminista.

Un periodo di eccezionale fermento sociale, la più grande stagione di azione collettiva nella vita della Repubblica durante la quale cambiano i rapporti di forza tra le classi sociali e le “opinioni” cambiano i “costumi” degli italiani.

Insomma, l’Italia diventò più libera rispetto al passato. La campagna di deprezzamento, svalutazione quando non di vera e propria denigrazione del 68/69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni ed è funzionale alla liquidazione di conquiste storiche: dal welfare alla privatizzazione dei beni comuni, dal contratto nazionale di lavoro al diritto di sciopero secondo la nuova/vecchia dottrina liberista di Marchionne/Sacconi.

Il movimento del ”biennio rosso” trae origine da cause che possiamo definire”interne” nel senso che rappresentano una peculiarità del nostro paese ma anche da una “matrice esterna”, nel senso che il “68” italiano partecipava ed interagiva con un più generale movimento su scala internazionale che vedeva mobilitarsi la gioventù studentesca di numerosi altri paesi all’est come all’ovest.

Cause “interne”



Il secondo dopoguerra fu un periodo di grandi cambiamenti. L’Italia compì il passaggio da Paese agricolo a Paese industriale e milioni di contadini poveri emigrarono al Nord e all’estero.

Nel ventennio 1951/71 la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963. Gli anni del cosiddetto “boom economico”. La tendenza migratoria si bloccò brevemente a metà degli anni 60, ma riprese fortemente negli anni 1967/71. In tutto, tra il 1955 e il 1971, 9.140.000 italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali. Le città del triangolo industriale furono naturalmente quelle che esercitarono una maggiore attrazione per questi migranti determinando un massiccio esodo dal mezzogiorno.

Questo flusso improvviso trasformò le grandi città italiane che crebbero a dismisura senza un corrispettivo sviluppo dei servizi. Scuole, ospedali, case, trasporti, tutti beni di prima necessità, restarono parecchio indietro rispetto alla rapida crescita dei consumi privati.

Infine, il “miracolo” accrebbe in modo drammatico il già serio squilibrio tra Nord e Sud.

Per rendere emblematicamente l’idea di quanto drammatico fosse il problema della casa Paul Ginsborg racconta la storia di Antonio, secondo di cinque figli di una famiglia di Bronte, un paese della Sicilia.

Trasferitosi dapprima in Toscana dove lavora in miniera approda a Milano dove trova ospitalità da un cugino con il quale condivide l’unico letto in una piccola stanza così descritta: “con una sola finestra, i vetri rotti, sostituiti da cartone. Accesa la luce, la lampadina era così piccola che la stanza rimaneva in penombra”.

Appena si sentiva pronto, e dopo aver risparmiato un po’ di denaro, l’immigrato chiamava la famiglia a raggiungerlo. Spesso lasciava a casa, in campagna, i propri genitori e li andava a trovare d’estate.

Per la famiglia arrivata al Nord iniziava subito il dramma di trovare una casa dove sistemarsi.

Le città settentrionali erano assolutamente impreparate per u n afflusso così massiccio e le famiglie erano pertanto costrette a vivere, proprio negli anni del “miracolo”, in condizioni estremamente precarie. A Torino, i nuovi abitanti della città, trovarono alloggio negli scantinati e nei solai del centro, negli edifici destinati alla demolizione, in cascine abbandonate dell’estrema periferia.

Ovunque si verificarono atteggiamenti razzisti, e spesso gli appartamenti non venivano dati in affitto ai meridionali, costretti così a vivere quattro/cinque persone per stanza, in un’unica camera divisa da tende e vecchie coperte. Gabinetti e lavandini si trovavano nei corridoi ed erano in comune per una decina di famiglie, almeno 40/50 persone.

Benché quello della casa fosse il problema più drammatico non era l’unico. L’assistenza sanitaria era inadeguata, e nelle scuole i bambini erano costretti ai doppi e tripli turni. Queste condizioni favorirono l’emergere di un diffuso razzismo verso non solo i “terroni”ma anche verso i veneti “polentoni”.

In una prima fase anche il lavoro era elemento di divisione. Molti immigrati trovavano lavoro attraverso pseudo-cooperative che rifornivano le fabbriche di manodopera a basso costo. Si trattava di uno dei classici sistemi per dividere i lavoratori, dal momento che gli operai settentrionali vedevano minacciato il loro potere contrattuale da questi “terroni” che facevano lo stesso lavoro per solo un terzo del loro salario. Quando queste sedicenti cooperative, in seguito ad una lotta sindacale, furono messe fuorilegge e nel tempo si unificò il mercato del lavoro la fabbrica divenne uno straordinario luogo di socializzazione e di costruzione di quella forte solidarietà di classe che diede origine alle lotte dell’autunno caldo.

Anche perché, all’interno delle fabbriche, nel frattempo, molte cose erano mutate. La grande ristrutturazione, seguita alla crisi del 64/65 aveva portato ad una maggiore meccanizzazione, all’uso diffuso della catena di montaggio e all’applicazione tayloristica del lavoro: quindi mansioni parcellizzate e aumento dei ritmi di lavoro.

“L’operaio massa divenne così” divenne così il soggetto sociale centrale del biennio rosso che prese avvio il 19 aprile 1968 a Valdagno con l’abbattimento della statua del Conte Marzotto.

Le basi materiali dell’esplosione della protesta nelle Università devono essere invece rintracciate nelle riforme degli anni sessanta.

Con l’introduzione della scuola media dell’obbligo, per la prima volta si era creato un sistema di istruzione a livello di massa che apriva nuovi orizzonti a migliaia di ragazzi dei ceti medi e della classe operaia. L’accesso alle facoltà scientifiche era stato aperto anche agli studenti provenienti dagli istituti tecnici.

In poco tempo la popolazione universitaria quasi raddoppiò entrando in un sistema che era già in avanzato stato di disfunzione.



La “matrice esterna”



Il movimento che nel sessantotto si sviluppò su scala internazionale puntava a sovvertire valori ormai in crisi, propri dell’equilibrio del secondo dopoguerra, che aveva sorretto le motivazioni della guerra fredda e del rapporto tra il Nord e il Sud del pianeta.

Pensiamo al processo di decolonizzazione e alla guerra di liberazione condotta dai Vietcong, i quali, proprio il 31 Gennaio del ’68, primo giorno del Tet, il capodanno buddista, iniziarono un’offensiva che li porterà fino ad assediare l’ambasciata statunitense a Saigon.

Per darvi un’idea del clima di quegli anni, consentitemi un ricordo personale. Il 27 Febbraio del ’69 la visita in Italia del presidente Statunitense Richard Nixon, responsabile dei bombardamenti al napalm contro la popolazione vietnamita, provoca grandi manifestazioni a Roma al grido “ Nixon boia go home “ e “ la Nato sarà il nostro Vietnam “.

Ho ancora negli occhi i caroselli delle camionette della polizia lanciate contro di noi in piazza Esedra, l’emozione per la morte dello studente Stefano Congedo che precipita da una finestra di Magistero nel tentativo di sfuggire ai fascisti e l’arresto, che anch'io subii a notte fonda, insieme ad altri 200, su un tetto di fronte a Palazzo Chigi dove ci eravamo rifugiati per sfuggire alle manganellate dei poliziotti.

Alcuni storici sostengono che “l’autunno caldo” è figlio del “Maggio” Francese e che esiste una “ liaison” tra il “Maggio ‘68” e la “Primavera di Praga”. Ma tutti sappiamo che queste due storiche pietre miliari durarono appena “l’espace d’un matin”.Entrambe crollarono sotto gli attacchi della polizia e l’invasione dei carri armati Sovietici, condannata non solo dalla C.G.I.L. ma anche dal PCI.

Cosicché il generale De Gaulle poté dichiarare. “La chienlit est finie” ( la baraonda è finita) e il Rude Pravo poté scrivere: ” L’ordine regna a Praga”. In sostanza quegli eventi furono bloccati e finirono non soltanto troppo presto ma troppo male.

Questo non fu il caso dell’autunno caldo Italiano che non chiuse ma piuttosto aprì un periodo di profondi cambiamenti nel sistema sociale italiano, una nuova era per un’intera generazione di giovani, di lavoratori, d’intellettuali.

Perché in Italia il processo sociale e l’ondata politica che partirono con il ‘68/’69 furono così lunghi? Essi, infatti, scavarono in profondità lasciando un’eredità importante che si proietterà nel corso di tutti gli anni ’70. La sconfitta sindacale alla Fiat nel 1980 ( anche allora la Fiat) fu un segno che tutta un’era veniva finendo e apriva la strada al rampantismo craxista.

Una ragione non secondaria che spiega la durata è, come scrive Asor Rosa che “solo in Italia – solo in Italia in tutto il mondo – movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente, tendendosi la mano”.

Vi contribuì certamente l’apertura che il PCI, a differenza del PCF, manifestò nei confronti del movimento studentesco. A differenza di Giorgio Amendola che auspicava una “battaglia su due fronti”, contro il potere capitalista e contro l’estremismo studentesco, Luigi Longo – il segretario – riconosceva che il movimento studentesco “aveva scosso la situazione politica ed era stato largamente positivo nell’indebolire il sistema sociale italiano”.

Ma vi contribuì ancor più la CGIL e massimamente i sindacati dei metalmeccanici della FIOM CGIL e della FIM CISL. Un tipico slogan della CGIL durante il 69 era stato: “portare la rivendicazione operaia nel cuore della società”. Sfortunatamente il maggior partito dei lavoratori non portò se stesso nel cuore dello Stato. A impedirlo intervennero le ovvie resistenze in campo moderato ma anche il terrorismo e l’uccisione di Aldo moro per opera delle BR. Un classico esempio di eterogenesi dei fini.

La rivoluzione sociale



Tuttavia pur in un quadro così complesso e contrastato furono anni di autentica rivoluzione sociale. Una grande massa di operai, giovani e in gran parte ex braccianti e contadini poveri pervenivano per la prima volta ad una visione del mondo ed acquisivano una coscienza di classe. Non chiedevano solo più salario, ma esprimevano una domanda nuova di dignità, di libertà della persona, di cultura ( meno ore di lavoro e più formazione).

Grandi furono le conquiste. Il 1969 si apre con due successi storici per il mondo del lavoro: la chiusura della vertenza sulle pensioni e sulle “gabbie salariale”; termina il 21 dicembre con la conquista del contratto dei metalmeccanici dopo un’aspra vertenza durata oltre quattro mesi.

Si sancirono per la prima volta le 40 ore di lavoro, aumenti salariali uguali per tutti, vincoli al lavoro straordinario, diritto di assemblea, riconoscimento dei Consigli di Fabbrica come agenti contrattuali, riduzione delle differenze tra operai e impiegati a partire dal trattamento di malattia etc.

Questo esito era stato preparato da una varietà di lotte in tanti luoghi di lavoro dai contenuti e dalle forme del tutto originali che aveva preso avvio ancora il 19 Aprile del 68 con l’abbattimento della statua del conte Marzotto a Valdagno:

per la difesa della salute contro la monetizzazione dei rischi;

per il riconoscimento di forme di democrazia diretta a livello di unità produttiva: l’assemblea e il Consiglio di Fabbrica eletto su scheda bianca a livello di reparto, di linea, di squadra;

per il controllo degli organici e la riduzione dei ritmi di lavoro;

per aumenti salariali indipendenti dal rendimento e contro il cottimo;

per la settimana di 40 ore;

per la parità di trattamento tra operai e impiegati.

Queste rivendicazioni si accompagnarono comunque a lotte più generali. Dopo i successi conseguiti sulle pensioni e il superamento delle gabbie salariali un’altra grande conquista si realizzò l’anno successivo con l’approvazione da parte del Parlamento dello “Statuto dei lavoratori” (legge 300/70). Per la prima volta, come si disse allora, la Costituzione entrava in fabbrica. La legge tutelava la libertà e la dignità del lavoratore riconoscendogli la libertà d’opinione, la tutela della salute, il diritto al reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa e venivano riconosciuti i principali diritti sindacali.

Dovremo invece attendere il dicembre del ’78 per vedere entrare in vigore la legge che istituiva il servizio sanitario nazionale che garantiva per la prima volta in Italia, l’assistenza gratuita e diretta a tutti i cittadini.

La vertenza casa



E’ in questo contesto che il 19 Novembre del ’69 il sindacato – al singolare come si diceva allora per sottolinearne il carattere unitario – cioè CGIL CISL UIL, proclamarono uno sciopero generale con manifestazioni in tutte le province che riscosse un grande successo di partecipazione.

Si avviarono subito complicate trattative con il governo che durarono per tutto il 1970/71.

Le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbanistica erano ben più forti che all’epoca di Sullo e del primo centro-sinistra ma le resistenze alla riforma erano sempre forti.

Che cosa rivendicavano le tre Confederazioni? La piattaforma inviata al governo nel settembre del 69 richiede una “politica organica della casa” fondata su un “consistente e sistematico intervento pubblico” per assicurare “a tutti i cittadini condizioni abitative adeguate ad un livello civile di vita collettiva”. In che cosa consiste un’organica politica della casa? Innanzitutto nella “realizzazione di progetti di urbanizzazione entro cui dovrebbe operare l’ente pubblico per la casa” comprensivi “non solo delle abitazioni, ma dei servizi civili e delle infrastrutture di comunicazione necessarie”. In sostanza i sindacati dei lavoratori con questa piattaforma non intendono che siano soddisfatti soltanto i “meri bisogni abitativi” ma anche quelli più generali che riguardano le condizioni civili, “i grandi servizi pubblici relativi alla scuola, alla salute, all’utilizzazione del tempo libero e alla ricostruzione di un tessuto associativo di vita dei quartieri e delle città”. Non sfugge alle Confederazioni che tale progetto “richiede e pretende l’emanazione di una nuova legislazione urbanistica che deve regolare il regime delle aree urbane attraverso il diritto di superficie e l’esproprio generalizzato”. Vi è dunque la consapevolezza che il diritto alla casa per affermarsi deve “tagliare le unghie alla rendita” attraverso un diverso regime dei suoli e che l’intervento pubblico è indispensabile anche attraverso “una politica sociale della casa che fa gravare una quota del costo delle abitazioni sulla collettività e ne rapporta il prezzo alle disponibilità di reddito dei lavoratori”. Ne consegue che “le abitazioni restano di proprietà dell’ente pubblico che le cede in locazione alle famiglie secondo criteri di politica sociale”. Gli otto punti della dettagliata piattaforma individuano anche obiettivi immediati come “il blocco degli affitti e dei contratti di locazione per un periodo di tre anni” e individua gli strumenti e i criteri per “il reperimento dei mezzi finanziari” attraverso una “riforma tributaria” fondata su un sistema fiscale “realmente progressivo, che colpisca più duramente chi più ha, che non lasci le porte aperte ai grandi evasori, che realizzi cioè il disegno delineato dalla nostra Costituzione”.

E’ dunque una piattaforma, quella al centro dello sciopero generale del 19 Novembre del ’69, fondata su una strategia che ricerca, come si scrisse allora, “soluzioni generali e non particolari condizioni di privilegio corporativo”. In sostanza quello sciopero rivendicava “un diverso sviluppo economico, sociale e politico dell’intera società nazionale”. Per questo ebbe tanto successo.

A conclusione della V sessione della Scuola di eddyburg (2009), l'11 settembre sono stati premiati Carla Maria Carlini, Oscar Mancini e Maria Paola Morittu.

Il premio è stato assegnato per la continuità, la diligenza e la disponibilità con cui hanno frequentato tutte le edizioni della Scuola estiva di pianificazione, hanno contribuito ad arricchire il patrimonio informativo e a stimolare il pensiero critico dei partecipanti, e hanno promosso la diffusione delle posizioni di eddyburg nelle aree geografiche e culturali frequentate da ciascuno di loro.

Il premio è stato consegnato da Mauro Baioni ed Edoardo Salzano. Qui sotto alcune immagini.


Mauro, Eddy, Oscar


Eddy, Carla, Oscar, Maria Paola



In allegato la presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

In allegato la presentazione della lezione.

In allegato la presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

In allegato la presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

In allegato la presentazione, curata da Vezio De Lucia e Maria Naccarato, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

Un mondo di cose in comune

di Giovanni Caudo

Per affrontare il tema di quest’anno vorrei partire dal racconto di un lavoro fatto insieme agli studenti lo scorso anno: la lettura di cosa tiene insieme le persone in alcune parti della città di Roma. Proverò prima a restituire i luoghi e gli esiti di questa lettura poi proverò a individuare alcuni fili di ragionamento trasversale mettendo in evidenza come cambia il significato di spazio pubblico.

Cominciare dal racconto delle cose:

1. Porta di Roma, centro commerciale: lì si trova ciò che il quartiere non offre. La sicurezza: addentrandosi nel centro commerciale aumenta la sensazione di sicurezza ma si accetta la diminuzione della libertà di agire.

Spazio limitato, confinato. Spazio condizionato. Spazio recintato. Qui c'è la strutturazione e la definizione funzionale degli spazi. Città come infrastruttura: pronta all'uso

2. Vigne Nuove. Grandi strade incorniciate da anonimi edifici, piazze vuote e grigie, poca gente per le strade. della terra come occasione di appropriazione e caratterizzazione dello spazio. , all’apparenza vaghe ed incolte ma in realtà proprio in quanto tali vissute dagli abitanti, per arrivare infine al margine della città in cui gli abitanti ritagliano il proprio spazio di verde fuori dalla corte stessa, appropriandosi di pezzi di campagna. La vaghezza e l'appropriazione. Costruzione sociale della città

3. Muri parlanti. Lo spazio pubblico come espressione della memoria e del riscatto sociale: quel che le persone hanno in comune, li abbiamo invece trovati sui muri dove elaborati graffiti descrivono sentimenti popolari, come quello che festeggia lo scudetto della Roma del 2001, dolore come quello commemorativo per la morte di un amico o di un genitore, o conflitti e lotte sociali, come le facciate dell’oratorio e del centro sociale Astra. Questi dipinti parlano di solidarietà, memoria, condivisione di una condizione di emarginazione e, allo stesso tempo, voglia di riscatto.

4. Parco delle Valli. Questi venti ettari di conche verdeggianti, sentieri di ghiaia, piante ed alberi rigogliosi sono fatti, a ben guardare, di parole. Parole di persone che hanno desiderato condividere i valori fondamentali che costituivano la loro idea di città per lasciarli impressi sulla città reale. Il racconto che dà vita a questo parco non è politico o ideologico, non è una storia autobiografica, ma un mito di fondazione scritto da una comunità che scopre di essere tale attraverso una battaglia. Quello che tiene in comune le persone qui è una narrazione.

5. Infra tempo. Quel tempo senza utilità, il tempo dell’attesa, quello in cui ci si ferma per forza ad aspettare, il tempo che sta tra le cose fatte e quelle ancora da fare, quello spazio di tempo che si spera duri il meno possibile perché è solo un ritaglio tra un qualcosa e un qualcos’altro. Un tempo sospeso, fuori dalla routine che scandisce le nostre giornate, trascorso in luoghi in cui incontriamo altri che aspettano come noi, anche loro sospesi tra un andare o un tornare. E l’interazione si crea grazie alla prossimità fisica, al dover trascorrere quel tempo insieme ad altri, con i quali abbiamo in comune solamente l’attesa.

6. Termini. In uno sviluppo della città in cui la dimensione pubblica tende a ridursi, chi si ferma si pone in contrasto con la “normalità”. Ciò svela una sorta di meccanicizzazione ben rodata e una ritualità imposta. L’assenza di gerarchie e la molteplicità di funzioni indeterminate portano il fruitore alla confusione. Nello smarrimento ci si orienta grazie a riferimenti riconoscibili e condivisi: i segni. Questi producono una lettura dello spazio che determina relazioni simbolico-visive immediate tra persone e oggetti, azzerando le potenziali relazioni interpersonali.

7. Colosseo. Eventi che raccontano micro-realtà vissute attraverso percorsi e attraversamenti. Micro-realtà collettive e private fatte di azioni di svago, di incontro e di solitudine. Ognuna di queste azioni sembra inscritta nella traccia visiva del Colosseo, in modo da creare un filo narrativo continuo, un testo composto dagli usi prodotti e dalle loro tracce temporanee. Ogni luogo connesso al Colosseo vive di una linfa di significato assunta dalla sua imprescindibile presenza. La diramazione di strade che lo vedono come fulcro diventa la diramazione di tanti eventi di vita quotidiana.

8. Piazzale Ostiense. La comunità polacca, che da lungo tempo si ritrova al quartiere Ostiense, improvvisa ogni domenica un pic-nic in quella che, per la città, sembrerebbe solo un’aiuola che fa da rotatoria per le auto e il tram; al capolinea degli autobus della stazione Ostiense, si ritrovano, invece, alcuni nordafricani, che utilizzano la griglia di aerazione dei garage sottostanti come fosse un enorme sofà dove incontrarsi, fermarsi a chiacchiere, a volte mangiare insieme. In entrambi i casi ciò che per la cittadinanza è un mero spazio di passaggio, si trasforma, per queste comunità in uno spazio di incontro e ritrovo, grazie allo spostamento negli spazi pubblici di attività tipiche di luoghi domestici.

9. Garbatella. Garbatella, le corti interne e i giardini, i parchetti pubblici, molti rigorosamente recintati, alcuni attrezzati, finemente arredati. Sono gli spazi “sicuri”, a volte controllati, lontani dal pericolo della strada. Spazi in cui la comunità si riunisce al sicuro e lascia un segno. La continua ricerca della domesticità sta negli oggetti posti in quello spazio. Gli oggetti come simbolo della libertà dell’individuo, dell’utente, che ricerca in questi luoghi il suo spazio. Intorno all’oggetto posto, con il tentativo di a-propriazione, attraverso l’oggetto posto, accadono eventi naturali: la comunità di anziani si riunisce, quella dei bambini gioca.

10. Giardino dell'EUR. dall’altro quella che, esplorando il deserto dell'anonimato della società contemporanea, ne scopre gli aspetti più positivi. Arrivando all'estremo, quest'ultima strada rappresenta addirittura lo stare insieme in senso assoluto, il bene disinteressato, non solo verso il singolo, ma verso tutta la comunità. Nella città è difficile scovare questo tipo di stare insieme, poiché normalmente l'anonimato si mostra con la sua faccia più negativa. A modificare il nostro punto di vista entrano in gioco gli spazi marginali, e le pratiche sociali al limite (il cruising). In queste condizioni estreme traspare la possibilità di un modo nuovo di stare assieme nella metropoli o nel suburbio.

11. Spinaceto.

Lo spazio architettonico della metropoli romana nelle sue recenti espansioni è stato spesso disegnato e concepito come un macrocosmo, organizzatore a grande scala dei territori coinvolti. Spinaceto costituisce uno dei primi rami dell’espansione della città dentro l’agro romano. All’interno di questo macrocosmo, gli abitanti, unità elementari della città, hanno costruito nel tempo dei microcosmi urbani, spazi misurati e vivibili, luoghi propri della relazione, dell’incontro nell’esperienza quotidiana, unificando le esperienze individuali in percorsi collettivi. Le differenti destinazioni d’uso standardizzate: RESIDENZA-VERDE-SERVIZI sono state concepite, concentrate e separate in ambiti specifici, costruendo così una lineare omogeneità distributiva del sistema residenze-attrezzature. Nel corso del tempo gli abitanti hanno costruito vari percorsi comunitari, fondati su necessità e obiettivi differenti: POLITICA-AMBIENTE-CULTURA-QUOTIDIANO ridefinendo l’uso degli spazi.

Temi trasversali: domesticità, appropriazione, tempo, infra, memoria, anonimato, socialità

Spazi pubblici: costruzione sociale (vaghezza)

Spazi pubblici: infrastruttura pronta per l’uso (ridondanza)

In allegato la presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

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In allegato i file della presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

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In allegato la presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione) e il testo della lezione.

In allegato la presentazione, in formato ridotto (immagini a bassa risoluzione).

La scuola

La quinta edizione della Scuola estiva di pianificazione “Scuola di eddyburg” (Asolo, 9-12 settembre). è dedicata quest’anno al tema: Gli spazi pubblici: declino, difesa, riconquista

Nel corso delle prime tre giornate si ragionerà sui cambiamenti che nella società e nella città hanno determinato il declino dello spazio pubblico, e che possono aiutare a definire e sostanziare il “diritto alla città”; ci si soffermerà poi nel racconto di tre momenti della storia urbanistica del nostro paese in cui si è cercato di fare incontrare urbs, civitas e polis a partire dalle questioni della “città pubblica”; si affronterà infine una riflessione a tutto tondo sugli “standard urbanistici” e sul modo in cui si possono arricchire le indicazioni del decreto del 1968, tuttora il principale strumento di garanzia della città pubblica.

Il quarto giorno (12 settembre 2009) sarà interamente dedicato a un convegno nel quale la Scuola si aprirà all’esterno e coinvolgerà nel dibattito le associazioni, i comitati, le reti che lavorano sul territorio per la difesa e la rivendicazione degli spazi pubblici.

Le intenzioni del convegno

Negli anni del welfare urbano gli spazi pubblici hanno costituito l’obiettivo di significative lotte sociali, spesso coronate da successo. Oggi essi sono l’oggetto di fenomeni preoccupanti di degradazione, esclusione, commercializzazione, privatizzazione. Ma sono anche sempre più spesso l’obiettivo di azioni sociali per la loro difesa. In Italia e in Europa cresce il numero dei comitati, dei gruppi, delle associazioni, spesso tendenti ad aggregarsi in reti più ampie, per la loro difesa e promozione. Tra essi è presente, da alcuni anni, una Rete delle camere del lavoro – Cgil che è diventata protagonista, a livello nazionale e internazionale, della riflessione sull’attuale condizione urbana e, in molte città italiane, di azioni di stimolo e collaborazione per una migliore vivibilità ed equità per tutti gli abitanti.

Questa azione collettiva può costituire oggi il motore necessario per un rinnovamento del governo del territorio: questa è la speranza nella quale anche noi scommettiamo. È allora utile consolidare il ponte tra persone, gruppi e interessi diversi, stimolare la conoscenza e il dialogo, la condivisione di competenze ed esperienze, esigenze e bisogni diversi. A questo fine abbiamo organizzato un convegno pubblico, con la Camera del lavoro territoriale – Cgil di Padova e con Legambiente Padova, nel quale, oltre a rendere pubbliche le conclusioni delle tre giornate della scuola, ci proponiamo di discutere a partire da esse con i portatori di esperienze che vanno nella stessa direzione.

Il programma del convegno

Il Convegno inizierà alle 10,30 del 12 settembre e sarà aperto dal saluto di Emilio Viafora, segretario del Comitato regionale Cgil del Veneto e dall’intervento di Andrea Castagna, segretario della CdlT-Cgil di Padova; seguiranno una comunicazione sullo svolgimento e la conclusione della Scuola di eddyburg (Mauro Baioni, Edoardo Salzano, Ilaria Boniburini), e una relazione sul modello di società e di territorio che emerge dalle vertenze aperte nella società (Oscar Mancini, responsabile Ambiente e territorio del regionale veneto della Cgil).

Dopo una breve pausa per il pranzo Sergio Lironi (presidente onorario di Legambiente Padova) aprirà gli interventi dei rappresentanti delle reti, associazioni, comitati, movimenti presenti. Sono previsti, tra gli altri, interventi di Cesare Melloni (Rete delle Camere del lavoro – Cgil), Paolo Baldeschi (Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio), Mario Agostinelli (Rete lombarda dei comitati per la difesa del territorio), Domenico Finiguerra (Stop al consumo di suolo), Marco Boschini (associazione Comuni virtuosi), Franco Arboretti (Associazione Il cittadino governante – Giulianova), Paolo Cacciari (Cantieri sociali-Carta)

Le conclusioni saranno tratte da una tavola rotonda cui parteciperanno Mario Agostinelli, Chiara Sebastiani, Oscar Mancini, Edoardo Salzano.

Moderatore del convegno sarà il giornalista Francesco Erbani

Inseriamo di seguito i sommari dei contributi sui lemmi Città e potere, Spazio/Sfera pubblico e privato; Diritto alla città, che saranno sinteticamente illustrati nella lezione. In calce è scaricabile il testo integrale del primo e del secondo contributo, in formato .pdf

CITTÀ E POTERE

VERSO IMMAGINARI E PRATICHE (CONTRO) EGEMONICHE

1. Potere, (contro)-egemonia, biopotere

Potere politico; Egemonia e contro-egemonia; Resistenza e contestazione; Il potere dell’ideologia e della parola; Biopotere; Dal potere alla potenza

2. Città e sistema capitalistico

Processi sociali e città; Capitalismo e città industriale; Capitalismo e città postfordista; La città nel progetto neoliberista; Contraddizioni del capitalismo e dello spazio; La città come strategia di classe; Lo spazio come “strumento” della società disciplinare; Di fatto, frammentazione; Potere, sapere e urbanistica; Ideologia (discorsi) e norma.

3. Pratiche e immaginari contro-egemonici

Immaginari e pratiche socio-spaziali; Dialettica tra egemonia e contro-egemonia; Immaginari e pratiche socio-spaziali contro-egemoniche; La costruzione di spazi pubblici contro-egemonici.

SPAZIO/SFERA PUBBLICO E PRIVATO

1. Cenni etimologici e alcune definizioni iniziali.

Pubblico; Privato; Collettivo/comune.

2. Evoluzione del rapporto pubblico/pruvato

Polis; Res publica; Medioevo;Sociale vs Politico; La sfera pubblica moderna; Privato vs Sociale; Mercato e Democrazia; Regressione del pubblico e mix pubblico/privato.

3. Sfera pubblica

Definizioni; Nascita e declino della sfera pubblica; Caratteristiche, articolazioni e relazioni con lo spazio pubblico.

4. Spazio pubblico

Spazio della vita collettiva; Spazio dove si produce sfera pubblica; Spazio intenzionale, regolato vs Spazio non intenzionale, non mediato, anarchico; Spazio di rappresentazione; Spazio del conflitto e delle differenze; Cenni al ruolo degli spazi pubblici nella storia; Tre criteri per analizzare lo spazio pubblico; Trasformazioni dello spazio pubblico nel neoliberalismo.

5. Sfera pubblica, Spazio pubblico e Democrazia

6. Proprietà pubblica, Privata, Collettiva

Proprietà pubblica; Proprietà privata; Proprietà collettiva

CENNI AL DIRITTO ALLA CITTA’

1. Diritti dell’uomo

Origini; Diritti di seconda generazione; Diritti di terza generazione; Diritti di quarta generazione

2. Il diritto alla città

Origini della rivendicazione del diritto alla città; Il diritto di partecipare e di appropriazione di Henry Lefebvre; L’utopismo dialettico di David Harvey; Diritto alla città e spazi pubblici in Don Mitchell; I movimenti urbani e le carte internazionali; Slogan o immaginario?.

LETTURE CONSIGLIATE



In particola modo per gli studenti non presenti lo scorso anno consiglio di leggere il mio contributo, qui allegato “Linguaggio, Discorso e Potere”, scaricabile in calce (anche pubblicato in Alla ricerca della città vivibile, Alinea, in corso di stampa).

Inoltre consiglio di rileggere la Costituzione della Repubblica italiana

COMUNITÀ

1. Il significato del concetto di “comunità”

2. Gli studi di comunità

3. La comunità e la nozione di “rete”

4. Tracce di comunità nella città contemporanea

5. La comunità negata

6. Osservazioni conclusive: tre idee di comunità oggi

Dall’affermazione di un diritto alla deriva operativa.

I cosiddetti “standard urbanistici”, fissati con il decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, costituiscono il principale strumento attraverso il quale la pianificazione urbanistica assicura l’esistenza, all’interno delle città, di spazi pubblici e d’uso pubblico in misura sufficiente. La loro introduzione nella legislazione urbanistica si inquadra all’interno di un’ampia concezione dell’urbanistica pubblica che, a partire dagli anni ’80, ha conosciuto un progressivo declino.

La necessità di realizzare opere e servizi riducendo i costi per le pubbliche amministrazioni, indotta dalle politiche nazionali di bilancio, si è tradotta nella progressiva rinuncia al governo pubblico della costruzione della città. Delegando all’iniziativa privata le decisioni sulla localizzazione delle opere, sulle funzioni da insediare, sul disegno e sull’assetto degli spazi, si sono traditi lo spirito e le finalità del decreto ministeriale del 1968, anche rispettandone formalmente i contenuti. Analoghe ragioni giuridiche e contabili spingono per una sostanziale equivalenza tra attrezzature private di uso collettivo (strutture sportive, ricreative e assistenziali e simili) e attrezzature pubbliche, contribuendo ulteriormente alla progressiva privatizzazione degli spazi.

Riportare lo spazio pubblico al centro della pianificazione

La pianificazione ha tra le sue finalità principali quella di rendere effettivo il diritto agli spazi pubblici (componente fondamentale del diritto alla città di cui ha parlato Ilaria Boniburini nella prima giornata della scuola). Per svolgere questo compito è necessario innanzitutto recuperare – in chiave necessariamente aggiornata – il concetto di standard urbanistico, battendosi contro la deriva a cui assistiamo quotidianamente. Tuttavia, il modo in cui la pianificazione urbanistica si occupa degli spazi pubblici non si esaurisce nell’applicazione delle disposizioni ministeriali. Le radicali modificazioni nell’assetto e nel funzionamento delle città e i nuovi fabbisogni determinati dai cambiamenti sociali ed economici, rendono necessario un ripensamento complessivo. Vogliamo focalizzare l’attenzione su tre temi, a nostro avviso cruciali, che la pianificazione urbanistica potrebbe trattare con molta più incisività di quanto non faccia ora.

Oltre gli standard: tre questioni cruciali

Beni comuni e fruizione collettiva. Gli spazi pubblici attrezzati costituiscono un tassello di un più ampio sistema – esistente in nuce in tutti gli insediamenti – costituito da risorse ambientali, paesaggistiche, sociali e infrastrutturali che possono essere fruite dai cittadini. Tanto più la società e le abitudini mutano rapidamente, quanto più è importante mantenere un legame con il patrimonio che ci deriva dal lavoro congiunto di natura e storia. Nel nostro paese, in particolare, la fruizione dei beni culturali e ambientali può essere ritenuta un elemento peculiare della dimensione pubblica, attraverso il quale rafforzare l’idea stessa di cittadinanza.

Lo spazio pubblico nella città esistente. Poiché riteniamo essenziale arrestare la dilatazione degli insediamenti, dobbiamo affinare e rafforzare il modo di intervenire all’interno della città esistente, riqualificando e recuperando alla fruizione collettiva i luoghi degradati, sottoutilizzati, congestionati, recintati, privatizzati. Un compito che richiede una migliore comprensione del modo di fruire la città da parte dei cittadini, con particolare riferimento alle nuove generazioni e ai nuovi abitanti; per tali ragioni, i piani urbanistici devono costituire la premessa e l’inquadramento di politiche urbane intese come sequenze organizzate di iniziative (materiali e immateriali, sui luoghi e sulle attività sociali), da accompagnare con grande attenzione nel loro sviluppo temporale.

Lo spazio pubblico nella città dello sprawl. La dilatazione e dispersione degli insediamenti connotano negativamente la “provincia” italiana. Rispetto ad altri contesti internazionali, tuttavia, possiamo parlare di un’urbanità deformata, ma non cancellata nei territori dello sprawl: beni comuni e un tessuto molto diffuso di attrezzature e servizi di prossimità sono ancora riconoscibili, seppure soffocati nel magma di costruzioni che ha invaso le pianure, le coste e i fondovalle. In queste aree a bassa densità di popolazione, provincie e associazioni di comuni possono promuovere forme di pianificazione coordinata e di gestione condivisa degli spazi pubblici e dei beni comuni, orientando la loro azione lungo una direzione lungamente evocata a parole (il concetto di rete è tra i più usati e abusati nella pianificazione) ma ancora largamente inesplorata nelle pratiche.

Si consiglia la lettura di alcuni brani del libro di E. Salzano, Urbanistica e società opulenta, Laterza, Roma.Bari 1969, da tempo esaurito ma disponibili in eddyburg, e precisamente:

Capitolo VII, Ambiguità della città opulenta, i paragrafi 2, 8, 9

Capitolo VIII. La cultura urbanistica di fronte alla città opulenta, i paragrafi 5, 6, 7

La posizione e il lavoro fatto dall' dall’UDI (Unione Donne Italiane) emergono dalla presentazione di Baldina Di Vittorio Berti del convegno “Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto utbanistico”, organizzato dall'UDI a Roma, il 21-22 marzo 1964, e dalla relazione di Elena Caporaso, nel file in formato .pdf scaricabile in calce (mancano due pagine della relazione Caporaso).

Si consiglia la lettura della relazione di Giovanni Astengo al medesimo convegno.

Per l'intervento delle organizzazioni del movimento operaio nella vertenza per la casa, i servizi, la città, il territorio e lo scioero generale del 19 novembre 1969 scaricarre il file in calce.

Sono scaricabili qui sotto, in formato .pdf, i seguenti testi di cui è consigliata la lettura:

1) Zygmunt Bauman, Homo Consumens, Erickson, Gardolo (TN) 2007. Alcune pagine

2) Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2004. Capitolo 1, "La solitudine del cittadino globale"

3) Emanuele Sgroi, La città del XX secolo: il successo infelice. Dal volume: Enciclopedia italiana. Eredità del Novecento, Enciclopèedia Italiana Treccani , 2001, pp. 1050-1068

Schema della lezione

1. Un lessico di guerra - assedio, tradimento, cattura, saccheggio, distruzione - si addice allo spazio pubblico, bersaglio e bottino di grandi campagne di conquista da parte di potenti alleanze (partnerships), alla quali si è opposta una scarsa e poco armata resistenza.

L’impiego di termini bellici, e lo spostamento del punto di vista che deriva dal mettere a fuoco lo spazio pubblico come obiettivo di guerra, suggerisce l’urgenza di una ricognizione dei danni e delle vittime e della realistica valutazione delle possibilità di porvi rimedio (riconquista, ricostruzione).

Induce a riflettere sul fatto che la riconquista dello spazio pubblico, e in genere dei beni comuni, è un’operazione difficile e che può essere intrapresa solo se si verificano alcune precondizioni, cioè se tale spazio esiste ancora, se la comunità alla quale è stato sottratto è consapevole di essere stata saccheggiata e intende ingaggiare una lotta per reimpadronirsene, se tale comunità dispone delle forze e delle armi necessarie all’impresa.

In molti casi la risposta a questi tre quesiti è negativa. Innanzitutto, lo spazio pubblico ha subito trasformazioni fisiche e giuridiche difficilmente reversibili. Se era inedificato è stato riempito di manufatti, ed in ogni caso vi si sono indirizzati investimenti che ne hanno mutato il valore di mercato. Ma ancor più negative, a mio parere, sono le prospettive di riconquista, se si esamina l’atteggiamento delle comunità che, attraverso i loro rappresentanti eletti, non solo non si sono opposte, ma hanno incoraggiato e apprezzato la cessione dello spazio pubblico.

2. Chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra, sostengono gli analisti militari, ed in effetti le ben orchestrate campagne per convincerci che “privato è bello” sono una prova dell’efficacia dell’infowar.

Il marketing immobiliare ed i piani strategici comunali condividono linguaggio e obiettivi, col risultato che chi vuole impadronirsi dello spazio pubblico non deve nemmeno lottare per prenderselo. Diffondendo l’immagine dello spazio pubblico come sinonimo di degrado, spreco, insicurezza, l’aggressore conquista “gli animi e i cuori” di coloro che si appresta a depredare inducendoli a rallegrarsi per l’opportunità di liberarsi di un onere improduttivo.

Esercizi per le vacanze

Se smascherare il tradimento è la prima ineludibile operazione per la riconquista dello spazio pubblico, piuttosto che letture di testi accademici, suggerirei agli studenti di esaminare i programmi dell’amministrazione della loro città, evidenziando la perdita di spazi pubblici che ne è derivata e confrontando le reazioni della stampa e dei cittadini.

Ecco un elenco di letture introduttive al tema dello spazio che mi paiono anche ‘compatibili’ con il peso massimo consentito per la valigia delle vacanze…

Marc Augè, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri, 2009;

Gilles Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Ed. Quodlibet, 2005;

Giancarlo Consonni, La difficile arte . Fare città nell’era della metropoli, Maggioli Editore, 2008;

Massimo Ilardi e Enzo Scandurra (a cura di) , Ricominciamo dalle periferie, Manifestolibri, 2009.

Per chi ama la letteratura, suggerisco : Walter Siti, Il contagio, Mondatori, 2008, un approfondimento di spessore antropologico ed emotivo notevole, stimolato dal testo di Ilardi e Scandurra che riporta una intervista all’autore.

Suggerita la lettura di:

Vezio De Lucia, In morte del "Progetto Fori", da: Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, a cura di Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, Bononia University Press, Bologna 2007.

Il testo in formato .pdf è scaricabile in calce

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