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Non è solo il corpo a esser sequestrato, dalla legge che il Senato ha approvato sul testamento biologico. Molte cose giuste sono state scritte sullo Stato espropriatore, ma la presa di possesso oltrepassa l’organico. È la vita a essere sequestrata, nel suo scabroso intreccio tra materia e spirito, corpo e anima. Più precisamente, è l’idea che da millenni ci facciamo del vivere bene, che non è mero vegetare ma vivere pensando, ragionando, capendo chi soffre. In questo viver bene, il pensiero della morte è, oltre che centrale, il più vitale dei pensieri. Non è il finale segmento della strada terrena, ma quel che le dà profondità, sapore. Per la filosofia antica, a cominciare da Platone, l’esistere saggio consiste proprio in questo: nel prepararsi alla morte, l’anima impara a esser "tutta raccolta in sé"; s’abitua a vivere "senza impacci", più liberamente sceglie la virtù.

Socrate parla nel Fedone di questo prepararsi e lo chiama esercizio di morte, melete thanatou: allenamento, meditazione. Un po’ più tardi, Seneca e Marco Aurelio diranno che ci si allena vivendo ogni giorno come fosse l’ultimo: non per fatalismo ma per aguzzare l’intelligenza, la perfezione.

Posso vivere bene o male il mio giorno: ma se è l’ultimo il bene peserà di più e anche il male, non potendolo più riparare. Il testamento biologico doveva essere proprio questo: una preparazione del fine vita e un ripensare la vita stessa, un rammemorarla, un predisporre autonomamente la sua conclusione in caso di non-coscienza, senza ledere il prossimo e senza dipendere da tutori non scelti. Doveva essere un esercizio di morte: un atto del vivere bene.

La legge approvata in Senato, se non sarà cambiata dalla Camera, non lo permette. La Dichiarazione anticipata non è vincolante (articolo 7 della legge), e contro la nostra volontà dovremo esser nutriti e idratati artificialmente. La legge e lo Stato non si limitano a gestire al nostro posto i corpi, ma meditano, si esercitano, vivono insomma, al nostro posto. Chi si esercita a morire è sentinella - il verbo greco ha la stessa radice. Vivere bene è vigilare su di sé, darsi da soli una legge (questo è: auto-nomia). È lo Stato a divenire ora sentinella, non solo ai confini d’un territorio geografico ma alle frontiere stesse dell’essere. Diventa bio-potere, bio-politica: due parole che Michel Foucault coniò nei primi Anni 70, quando studiò la clinica e la metamorfosi della medicina. Il sovrano che decide della vita e della morte non lascia solo vivere ma "fa vivere": complice della tecnica, della scienza, di una Chiesa sbandata, determina i cicli vitali. Beppino Englaro non ha torto quando dichiara: "Adesso lo Stato si crede Dio". Fini, parlando della legge ieri al Congresso Pdl, ha ammonito contro lo Stato etico e l’abbandono dello Stato laico.

Molto più del corpo è dunque in gioco. Sono in gioco l’essere dell’uomo e l’antichissima arte medica, già in mutazione secondo Foucault dalla fine del ’700. È quel che fa capire Umberto Veronesi, quando il 18 marzo dice in Senato: "La medicina tecnologica moderna è in grado di spostare il termine della vita al di là della morte naturale, introducendo una vita artificiale che permette agli organi del corpo umano di rimanere vitali, anche senza attività cerebrale, senza coscienza, senza pensiero, senza vista, udito, parola". Nutrimento e idratazione forzati dei comatosi non sono trattamenti terapeutici ma "forme di sostegno vitale", dice la legge, e anche questo è opinabile. Il trattamento forse non è terapeutico ma di sicuro è sanitario (Veronesi ha descritto crudamente l’inserimento di tubi nei corpi), e fa violenza anch’esso alla natura e a Dio. Foucault parla, a proposito della nascita della clinica, della fine della medicina aspettante e dell’avvento della medicina interventista, tecnologica.

Il medico aspettante non rompe il rapporto con la natura. Spera di dominarla meglio, ma conosce il limite, non punta ad annullare la morte, la sua necessità. I rivoluzionari del ’700 crearono le cliniche non solo istituendo un nuovo clero - i medici pagati con i beni confiscati alla Chiesa - ma presumendo addirittura di abolire la malattia.

Quando lo Stato s’impadronisce dell’esercizio di morte non nega all’uomo solo la libertà. Gli toglie la responsabilità: quella di riconoscere la finitezza dell’essere. Per questo non è appropriato parlare esclusivamente di diritti calpestati. Calpestato è il senso del dovere che impregna il viver bene, se è vero che il pensiero della morte, per chi voglia redigere il più importante dei testamenti (quello che riguarda non gli averi, ma l’essere) è meditazione sul proprio presente e memoria di una vita fatta di emancipazioni.

Il contrario dell’esercizio di morte è l’indifferenza e dunque più fondamentalmente: la perdita di controllo su di sé, l’anticipato coma dell’anima. Per lo Stato che monopolizzando ogni cosa si sostituisce alla natura, il cittadino comatoso è l'ideale. Non contano l'uomo e i suoi modi scritti o verbali di allenarsi alla morte. Conta il corpo nudo, "gettato lontano" nelle cliniche, come scrive Rilke nel Malte Laurids Brigge. Contano il sovrano, e le macchine con cui esso piega la volontà delle persone. Quella che viene strappata all’uomo, in realtà, è la condizione di maggiorità (la sua Mündigkeit, direbbe Kant). Non a caso il sottosegretario Eugenia Roccella paragona il comatoso irreversibile, trafitto anche senza volerlo da sonde nutritive, a un neonato nutrito col biberon.

Chi immaginava un vero testamento biologico dovrà ricordarlo. Come quel neonato dovrà vedersi da ora in poi allo specchio, se la legge passerà: infantilizzato, dotato di diritti dell’infanzia ma gettato nella prigione del coma senza aver potuto sventare in tempo lo stato di minorità. Dovrà vedersi non come bamboccione ma addirittura come lattante, titolare di diritti ma privo di responsabilità.

La maggiore età è per Kant la facoltà che ciascuno possiede di determinare se stesso, di parlare e pensare per proprio conto in indipendenza e libertà, di sfuggire la minorità.

È così comodo esser minorenni, e lusinghiero per chi ci vorrebbe poppanti: "A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano a esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole" (Kant, Risposta alla domanda: cos'è l'Illuminismo?).

Chi aspira alla maggiorità si guarderà dall’esaltare valori supremi, che sempre hanno qualcosa di guerresco: abbassando ogni altro valore, il Valore Supremo diventa Unico. Il bello delle costituzioni è di ammettere le contraddizioni (c’è il valore della vita, ma anche il rispetto dell’autodeterminazione personale). Trovare un equilibrio tra valori significa non vederne più di supremi. È una delle forme del viver bene, e della laicità.

Vivere bene vuol dire anche, per chi auspica veri testamenti biologici, ascoltare punti di vista diversi (come fa la Costituzione). È vero che togliere cibo e acqua è rischioso eticamente: se mi affido a un medico, devo non temere - lo diceva il filosofo Jonas - che si trasformi in boia, servendo magari interessi estranei (i trapianti, il desiderio di sbarazzarsi dei vecchi in società senescenti). È vero che urge perfezionare le terapie del dolore, perché spesso più che morire temiamo il soffrire. Sono obiezioni sostanziali; vanno ascoltate: purché il malato non sia ridotto a lattante.

I lettori dello «Stylus» chiedono particolari sulla demenza rutula. Eccoli, cominciando dai 617 giorni nei quali la cosiddetta sinistra commette uno sbalorditivo suicidio. Mancano solo i berretti a sonagli che gli xilografi del Narrenschiff (Nave dei folli), Basilea 1493, mettono in testa ai matti naviganti: l’ondivago ministro della povera giustizia (che scherzo affidargliela) dissente quand même; estremisti verbosi litigano, gonfi come pavoni; nomenclature del partito futuribile coltivano freddo cannibalismo; il rifondatore comunista, presidente della Camera, discute le scelte governative, cerca Dio, disserta in erre moscia nel lugubre salotto televisivo; tiene la ribalta un minuscolo capopartito sentendosi in pugno le sorti del ministero appese a due voti, quanti sono i parlamentari che gli stanno dietro. In tali acque Leviathan nuota padrone e il governo cade nel tripudio sguaiato della destra.

In sella finge d’essere un altro, senza i denti, la pelle e la coda del Caimano, raccogliendo applausi anche ex adverso, imperdonabili, ma la prima mossa è uno scacco a Dike: il voto servile delle Camere lo consacra immune; finché duri in carica, non è perseguibile, qualunque sia l’accusa; lo scudo copre passato e futuro, lungo futuro perché dopo i cinque anni della legislatura, ne calcola almeno sette, rinnovabili, presidente d’una repubblica da farsa nera. I Rutuli sono eguali davanti alla legge: lodo invalido, dunque; la questione sarà risolta da una Corte ed è prevedibile il pandemonio nell’ipotesi virtuosa, che la dea senza benda sgomini denaro, paura, esche; sarebbe la seconda volta. Pro domo sua batte bandiera garantista, rectius criminofila, col disegno d’una giustizia manovrabile dall’esecutivo: le intercettazioni, ad esempio, vanno proibite dove risultano più utili, affinché i colletti bianchi delinquano tranquilli; e cosa non succederà appena abbia rimosso l’ultimo ostacolo. Il suo Giovanni Battista, patrono, attuale sponsor, è tal Licio Gelli, Venerabile d’una famosa loggia criminalmassonica. La politica diventa stato d’eccezione permanente: vuol comandare con dei decreti che il parlamento converta in legge sull’attenti; l’ultimo istituisce ronde volontarie (seppellendo Stato e diritto, deprecava un monsignore: voce seria; i superiori lo smentiscono, fulminei). La Carta impone dei limiti? Non gli fanno caldo né freddo: basta riscriverla; è vecchia, affetta da vizi congeniti. Monco dell’organo morale ed estetico, ignorante, sopraffattore, offre spettacoli del genere narrato da Ammiano Marcellino nella Roma IV secolo: balla, strepita, ride, plagia, azzanna, froda; gli serve una Rutulia istupidita, gaglioffa, questuante, sbracata, ridanciana, e da trent’anni se la lavora mediante ipnosi televisiva seminando un’asfissiante volgarità. L’ha nell’ugola e viene fuori, incoercibile come i versi d’Ovidio. Nella conferenza stampa col capo d’uno Stato straniero biascica dei fonemi. Praticanti d’alfabeto labiale leggono: «moi je t’ai donné ta femme»; no, informano gli addetti all’augusta parola, ricordava d’avere «étudié à la Sorbonne». Allora parliamo latino, «risum teneatis».

«Stylus» è rivista colta. I lettori domandano se abbia precedenti nella storia rutula. Sì, molti. Non erano meglio i signorotti la cui fine miserabile, per mano del duca Valentino, Niccolò Machiavelli racconta ai Dieci, die prima ianuarii 1502, testimone diretto in Senigallia, ma Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Francesco e Paolo Orsini (gli ultimi due strangolati 18 giorni dopo, quando Sua Santità Alessandro VI s’era impadronito del cardinale Giambattista), nonché l’antagonista Cesare Borgia, usavano armi povere, in piazze esigue dagli equilibri instabili, mentre i media posseduti da costui lavorano midolla, neuroni, ghiandole. Frollati al punto giusto, i sudditi non percepiscono più quel che avviene, né avvertono le contraddizioni: dimenticano l’appena accaduto; intrattengono falsi ricordi; odiano a comando; parole, frasi discorsi, gesti, sono materia regolata dal Cervello collettivo. L’icona del regime è uno spegnitoio: quel cono nero sulla punta della pertica con cui i sacrestani estinguevano le candele; «abajo la inteligencia», gridava un capobanda franchista

Siamo nel laboratorio d’Alcina, vecchia fattucchiera: in pubblico compare sotto varia cosmesi, artefatto dai capelli ai tacchi, mentre lo schermo dei meeting presenta un enchanteur, giovane, magro, sorridente; fotografie d’alto valore clinico lo fissano nella posa della soubrette, braccia levate, palme in fuori, un piede avanti, l’altro sulla punta, e spalanca le fauci a salvadanaio. Lo spirito scende nelle parti molli del ventre. La Rutulia però è l’unico paese evoluto dove lo Stato paga i preti perché insegnino dogmi nelle sue scuole, e la religione farà media con lingue, storia, filosofia, matematica, scienze naturali. Particolare curioso: in articulo mortis quel Vitellozzo Vitelli invoca l’assoluzione plenaria dal papa, complice del figlio nell’agguato mortale; ancora adesso qualcuno crede che i papi abbiano le chiavi del cielo. Pochi giorni fa un tribunale condanna a quattro anni e sei mesi l’avvocato londinese falso testimone D.M.; era reo spontaneamente confesso; una sua lettera al consulente fiscale spiegava la fonte dei 600 mila dollari: regalo d’un cliente affinché nascondesse pericolosi affari fiscali. Risarcirà i danni alla presidenza del consiglio, costituita parte civile. Qui saltano fuori i berretti a sonagli: presidente del consiglio e corruttore unus et idem sunt, Leviathan, allora (1998) ex capo del governo, rivincitore predestinato, ora intoccabile.

La xilografia da cui è tratta l'icona, e che è riportata nell'articolo, "illustrava il poema morale e satirico di Sebastian Brant La nave dei folli (1494). Due stolti accolgono sulla propria barca Adamo ed Eva, accompagnati dai simboli della loro vicenda nel Paradiso Terrestre (l'albero delle mele proibite e il serpente tentatore)" (da encarta).

Ricordate George Orwell e la «neolingua» che compare nel suo "1984"? Parole manipolate per soddisfare le «necessità ideologiche» del regime, per «rendere impossibili altre forme di pensiero». È esattamente quello che è accaduto ieri al Senato della Repubblica, che ha battezzato come «dichiarazioni anticipate di trattamento» il loro esatto contrario, cancellando ogni valore vincolante del documento con il quale una persona indica le sue volontà per il tempo in cui, essendo incapace, dovesse trovarsi in stato vegetativo permanente. Sarà inutile seguire un tortuoso iter burocratico, da ripetere ogni tre anni, perché con esso si approderà semplicemente al nulla. E la maggioranza dei senatori ha fatto la stessa operazione battezzando come sostegno vitale l’alimentazione e l’idratazione forzata contro l’opinione larghissima del mondo medico internazionale che le considera trattamenti. È lo stesso consenso informato, uno dei grandi risultati civili del tempo recente, perde il suo valore fondativo del diritto di costruire liberamente la propria personalità. Il sequestro di persona, di cui ha parlato ieri Adriano Sofri, ha trovato il suo compimento. Missione compiuta, potrà dire il presidente del Consiglio al cardinale Bagnasco a tre giorni appena dall’ingiunzione dei vescovi a chiudere senza indugi e senza aperture la discussione sul testamento biologico.

È con grande amarezza che scrivo queste parole. Non si sta parlando di una vicenda marginale, ma del modo in cui si stanno delineando i rapporti tra le persone ed uno Stato che, abituato da sempre a legiferare sul corpo della donna come «luogo pubblico», rende ora «pubblici» i corpi di tutti, li fa tornare sotto il dominio del potere politico e si serve abusivamente della mediazione dei medici, di cui viene restaurato un potere sul corpo del paziente che era stato cancellato proprio dalla «rivoluzione» del consenso informato. Ora non sarà più la persona a decidere per sé. Altri lo stanno facendo, e lo faranno, al suo posto. Dov’era un «soggetto morale», quello nato appunto dall’attribuzione a ciascuno del potere di accettare o rifiutare le cure, troviamo di nuovo un «oggetto».

Non è solo una questione di costituzionalità, allora, quella che si è ufficialmente aperta. È una questione di democrazia, perché stiamo parlando del modo in cui si esercita il potere. Sono in discussione il diritto all’autodeterminazione e i limiti all’uso della legge.

Torniamo così alla costituzionalità del testo appena approvato, di cui la maggioranza appare sicura probabilmente perché alla Costituzione e alla sue logiche si mostra sostanzialmente estranea, come provano molte vicende degli ultimi tempi, e dei tempi meno recenti. Ma la Costituzione e i suoi guardiani sono ancora lì. Alla maggioranza conviene far sapere che, mentre si arrabattava in tutta una serie di espedienti legali per impedire che avesse attuazione la sentenza della Corte di Cassazione sull’interruzione dei trattamenti a Eluana Englaro, la Corte Costituzionale (sentenza numero 438 del 23 dicembre 2008) scriveva le seguenti parole: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».

Da qui bisogna partire già in questi giorni, mentre il disegno di legge passa dal Senato alla Camera. Non è retorica dire che il punto forte è costituito dal sentire delle persone, testimoniato da tutti i sondaggi, da quelli appunto sulle decisioni relative al morire a quelli sull’uso del preservativo, che mostrano non solo una distanza netta dalle posizioni delle gerarchie vaticane, ma soprattutto una consapevolezza profonda della libertà e della responsabilità che devono accompagnare le scelte di vita. Ai deputati bisogna far sentire la voce di questo paese, che la maggioranza politica non ascolta, chiusa com’è nelle sue convenienze e nei suoi ideologismi, e che il Partito democratico rischia di non sentire, lasciando così senza avere rappresentanza parlamentare proprio un mondo che potrebbe essergli vicino.

E’ davvero singolare che chi s’indigna per la messa a nudo dei politici attraverso le intercettazioni, e addirittura parla di complicità dei giornali in turpi linciaggi, non trovi le parole per protestare contro l’uso che viene fatto dei volti di due romeni, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, arrestati il 17 febbraio per lo stupro di una minorenne nel parco della Caffarella. Quei volti ci si accampano davanti a ogni telegiornale, e hanno qualcosa di cocciuto, invasivo, conturbante: da ormai un mese ci fissano incessanti, nonostante il Tribunale del Riesame abbia invalidato l’accusa dal 10 marzo, e le analisi del Dna abbiano scagionato i loro proprietari già il 5 marzo. Se ne son viste tante, di gogne: questa è gogna di due scagionati.

Parliamo di proprietari di due volti perché la faccia ci appartiene, è parte del nostro corpo inalienabile. Così come esiste dal Medioevo un habeas corpus, che è il divieto di sequestrare il corpo in assenza di imputazioni chiare, esiste in molti codici quello che potremmo chiamare l’habeas vultus, l’habeas facies: il diritto alla tua immagine anche se sei indagato (articolo 10, codice civile). L’abuso in genere non avviene per gli italiani sospetti di violenza sessuale. Per i romeni è diventata norma, anche se non ce ne accorgiamo più.

Il loro viso è sequestrato, strappato con violenza inaudita, e consegnato senza pudore ai circhi che amano le messe a morte del reietto.

Habeas facies è un diritto che non ha statuto ma è in fondo anteriore all’habeas corpus. In alcune religioni (ebraismo, islam) il volto è sacro al punto da non dover essere ritratto. Vale per esso, ancor più, quello che Giorgio Agamben scrisse anni fa sulle impronte digitali: «Ciò che qui è in questione è la nuova relazione biopolitica “normale” fra i cittadini e lo Stato. Questa non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica, ma l’iscrizione e la schedatura dell’elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica dei corpi. Ai dispositivi mediatici che controllano e manipolano la parola pubblica, corrispondono i dispositivi tecnologici che iscrivono e identificano la nuda vita: tra questi due estremi - una parola senza corpo e un corpo senza parola - lo spazio di quella che un tempo si chiamava politica è sempre più esiguo e ristretto» (Repubblica, 8 gennaio 2004). Agamben aggiunge: «L’esperienza insegna che pratiche riservate inizialmente agli stranieri vengono poi estese a tutti».

Il pericolo dunque riguarda tutti. Quando si comincia a denudare lo straniero, ricorrendo al verbo o all’occhio del video, è il cruento rito del linciaggio che s’installa, si banalizza, e l’abitudine inevitabilmente colpirà ciascuno di noi. Lo ha scritto Riccardo Barenghi il 3 marzo su questo giornale («Alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione?») quasi parafrasando le parole del pastore antinazista Martin Niemöller: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari - e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici . Poi un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Il linciaggio ha inizio con una svolta linguistica, cui ci si abbandona non senza voluttà perché il linciaggio presuppone la muta ardente e la muta non parla ma scaraventa slogan, non dà nomi all’uomo ma lo copre con sopra-nomi, epiteti che per sempre inchiodano l’individuo a quel che esso ha presumibilmente compiuto di mirabile o criminoso. Racz diventa «faccia da pugile». Isztoika riceve un diminutivo - «biondino» - che s’accosta, feroce, al diminutivo che assillante evoca le vittime (i «Fidanzatini»). Sono predati non solo i volti e i nomi ma quel che i sospetti, ignorando telecamere, dicono in commissariato. Bruno Vespa sostiene che le intercettazioni «sono una schifezza» e rovinano la persona, ma non esita a esibire una, due, tre volte il video dell’interrogatorio in cui il romeno confessa quel che ritratterà, trasformando la stanza del commissariato in sacrificale teatro circense come per inoculare nello spettatore la domanda: possibile mai che Isztoika sia innocente? Lo stesso fa l’Ansa, che più di altri dovrebbe dominarsi e tuttavia magnifica gli investigatori perché hanno condotto «un’indagine all’antica: decine di interrogatori di persone che corrispondevano alle caratteristiche fisiche delle belve» (il corsivo è mio).

Avvenuta la svolta linguistica il danno è fatto, quale che sia il risultato delle indagini, e i sospettati girano con quel bagaglio di nomignoli, slogan. Rita Bernardini, deputato radicale del Pd, evoca il bieco caso di Gino Girolimoni, il fotografo che negli Anni 20 fu accusato di omicidi di bambine e poi scagionato («Il fascismo dell’epoca trovò il capro espiatorio per rasserenare la cittadinanza di allora e dimostrare che lo Stato era più che efficiente e presente»). Ancor oggi, c’è chi associa Girolimoni all’epiteto di mostro. Damiano Damiani nel ’72 ne fece un film, Girolimoni - Il mostro di Roma, con Nino Manfredi nella parte della belva. Non riuscendo più trovare un posto, Girolimoni perse il patrimonio che aveva e cercò di sopravvivere aggiustando scarpe e biciclette a San Lorenzo e al Testaccio. Morì nel ’61, poverissimo. Ai funerali, nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura, vennero rari amici. Tra questi il commissario Giuseppe Dosi, che aveva smontato le prove contro l’accusato: azione avversata da tutti i colleghi, e che Dosi pagò con la reclusione a Regina Coeli e l’internamento per 17 mesi in manicomio criminale. Fu reintegrato nella polizia solo dopo la caduta del fascismo.

Anche se scagionata, infatti, la belva resta tale: più che mai impura, impaura. La sua vita è spezzata. Così come spezzati sono tanti romeni immigrati che l’evento contamina. Guido Ruotolo, su questo quotidiano, fa parlare la giornalista Alina Harhya, che lavora per Realitatea Tv: «Ma da voi non vale la presunzione d’innocenza? Le forze di polizia non dovrebbero garantire il diritto? E invece viene organizzata una conferenza stampa in questura e si distribuiscono le foto, i dati personali, dei presunti colpevoli. Non ce l’ho con la stampa italiana, sia chiaro. Però questo è un fatto. Qui da voi si fa la rivoluzione se un politico viene ripreso in manette e invece nessuno protesta quando si sbatte il mostro romeno in prima pagina» (La Stampa, 3 marzo). Ancora non sappiamo di cosa siano responsabili Isztoika e Racz, ma i motivi per cui restano in carcere appaiono oggi insussistenti e, se i romeni saranno scagionati del tutto, le loro sciagure s’estenderanno ulteriormente: proprio come accadde a Girolimoni, mai risarcito dallo Stato che l’aveva devastato.

La polizia di Stato può sbagliare: è umano. Ma se sbagliando demolisce una vita e un volto, non bastano le parole. Se la comunità intera s’assiepa affamata attorno al capro espiatorio, occorre risarcire molto concretamente. Iniziative cittadine dovrebbero reclamare che i falsi colpevoli non siano scaricati come spazzatura per strada. Nessun privato darà loro un lavoro: solo l’amministrazione pubblica può. Occorre che sia lei a riparare il danno che gli organi dello Stato hanno arrecato.

Se non si fa qualcosa per riparare avrà ragione Niemöller: non avendo difeso romeni e zingari, verrà il nostro turno. Tutti ci tramuteremo in ronde - politici, giornalisti, cittadini comuni - per infine soccombere noi stessi. Le trasmissioni di Vespa sono già una prova di ronda. Le parole di Alessandra Mussolini (deputato Pdl) già nobilitano e banalizzano slogan razzisti («Certo, non è che possono andare in galera se non sono stati loro, ma non cambia niente: i veri colpevoli sono sempre romeni»). Saremo stati falsamente vigili sulla sicurezza: perché vigilare è il contrario dell’indifferenza, del sospetto, e dei pogrom.

La grande finanza, con la sua ingordigia, ha corroso l'economia reale e la vita delle persone. Ma la crisi di oggi non è partita nel 2007: risale almeno agli anni Novanta, allo scoppio delle prime «bolle». Rendendo evidente l'esigenza di un controllo, che deve essere politico e sovranazionale

«Ha presente gli animal spirits imprenditoriali di cui ci parla John Maynard Keynes nella sua Teoria Generale? L'economista di Cambridge si riferiva allo spirito libero che avrebbe dovuto ispirare l'azione dell'attività imprenditoriale. Oggi quell'immagine suggestiva di Keynes fa venire i brividi se si pensa alla sua metamorfosi. A cosa mi riferisco? Non vorrei essere troppo crudele ma oggi se devo pensare agli animal spirits della nostra epoca mi vengono in mente i banchieri. Purtroppo questi moderni animal spirits, senza alcun controllo, hanno spinto l'economia mondiale sull'orlo del più grande disastro degli ultimi decenni. Le fornisco soltanto un dato piuttosto impressionante di questo disastro: a causa dell'azione combinata dei nostri animal spirits, dal giugno 2007 alla fine del 2008 la perdita degli asset dei fondi pensione negli Usa è di 1,3 trilioni di dollari. Un dato devastante che dimostra quanto la finanza abbia corroso l'economia reale e la vita delle persone».

Il professor Guido Rossi, come al solito, non bada a spese quando si tratta di essere severi, affila le parole come fossero sciabole, e lancia fendenti dolorosissimi. Prima di proseguire nella sua requisitoria sulle ragioni della crisi che sta mutando l'economia del pianeta, si fa spazio tra le decine di libri che occupano il tavolino del salotto di casa e estrae il suo ultimo lavoro pubblicato dall'Adelphi. Il titolo di copertina è duplice: sopra c'è John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, e sotto c'è il suo saggio. Il titolo è identico ma è accompagnato da un angoscioso punto di domanda: «Possibilità economiche per i nostri nipoti?». L'occhio cade sull'ultima pagina del libro: «La Fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto e dai suoi derivati, come il supercapitalismo evocato da Reich».

Sono parole che non hanno bisogno di tanti commenti: mi pare che lei pensi a una crisi di sistema, o sbaglio?

Non c'è dubbio. Siamo di fronte a una crisi epocale e di sistema. Una crisi che ha dei punti di non ritorno. Le difficoltà economiche di oggi non possono essere risolte come in passato ma richiedono nuovi assetti istituzionali, nuovi equilibri, un diverso rapporto tra Stato ed economia. Dobbiamo renderci conto che è arrivato il momento di mettere a nudo i limiti dell'economia di mercato globalizzata. D'altronde lo stesso Adam Smith aveva capito che il mercato andava inserito in un sistema di controlli. I liberisti? Nel 2000 e ancor prima credevano di aver conquistato il mondo. «E' finita l'deologia è iniziata la libertà», gridavano ai quattro venti. In realtà la vera ideologia era la loro ed è quella ideologia che ha registrato un clamoroso fallimento.

C'è chi ha fatto dei paragoni con la grande crisi del '29. Lei che ne pensa?

Attenzione, la crisi del 1929 fu molto diversa. Fu una crisi strisciante che durò anni. La caduta iniziale delle Borse non fu così drammatica ma i ribassi dei valori dei titoli continuarono fino al 1933 quando ci si rese conto che il valore di Borsa si era ridotto di tre quarti rispetto al 1929. Il New Deal di Roosevelt nacque proprio per gestire la grande depressione e ancora nella seconda metà degli anni 30 negli Stati Uniti si assisteva al crollo del Pil e a una caduta dei profitti. Io credo che la la crisi del '29 fu purtroppo risolta dalla seconda guerra mondiale. Solo allora si uscì dalla grande depressione.

E la crisi attuale?

La crisi attuale non è partita nel 2007. Le basi di quello che sta accadendo ora vengono poste alla fine del millennio passato con la bolla della new economy. Si scopre che il sistema economico e finanziario mondiale è un insieme di grandi bolle speculative che prima o poi esplodono con effetti drammatici. Nel 2000 poi scoppia l'altro fenomeno che caratterizza la nostra epoca: il debito pubblico. E proprio all'inizio di questo millennio che torna l'nstabilità dei mercati di keynesiana memoria. E con l'instabilità si fa sempre più gigantesco il deficit degli Stati Uniti. Un deficit, si badi bene, che viene finanziato in gran parte dai paesi asiatici e in particolare dalla Cina. Ecco l'intreccio tra est e ovest che molti osservatori hanno sottovalutato. Ma all'inizio del 2000 si verifica il fenomeno più grave della storia economica recente: inizia una totale, forsennata e irresponsabile deregolamentazione. Anche in questo caso gli effetti sono gravidi di conseguenze: gli animal spirits dei banchieri prendono il sopravvento e sul mercato vengono messi prodotti ad alto rischio. Come ha detto Warren Buffett le banche e i banchieri hanno inventato prodotti e strumenti finanziari che si sono rivelati armi di distruzione di massa. C'è una grave responsabilità in tutto ciò e non sappiamo se mai qualcuno pagherà per i guasti che sono stati fatti al sistema.

Mi pare che il guaio vero sia che gli animali della finanza abbiano infettato anche l'economia reale. Non è così?

Certo che è così. L'esempio dei fondi pensione è drammatico da questo punto di vista. Lì non si tratta semplicemente di un crollo di titoli azionari, in quel caso dietro la caduta di corsi di Borsa ci sono le liquidazioni di milioni di persone messe a rischio dalle belve selvagge. Chi sono le belve selvagge? E' una definizione efficace con la quale Martin Wolf definisce la finanza moderna: una giungla abitata da belve selvagge. Ora io credo che per il futuro non sarà più possibile immaginare un sistema economico interamente dominato dalla finanza. Lei mi chiede come mai malgrado le iniezioni di liquidità immesse nel sistema dai governi la crisi persiste e si aggrava. Io le rispondo che oggi il problema non è più quello della liquidità ma quello dell'insolvenza delle grandi imprese industriali e bancarie. Il virus è ormai insediato nell'economia reale. Oggi paghiamo i costi dell'illusione liberista. L'illusione che nel mercato del lavoro, ad esempio, si potesse risolvere la crisi con un equilibrio spontaneo del mercato. Keynes l'aveva già capito: la disoccupazione è uno dei sintomi dell'instabilità permanente del capitalismo.

Come si esce dal questa crisi?

Intanto dobbiamo sapere che il centro di gravità del mondo è cambiato, si è spostato dagli Stati Uniti alla Cina. Gli Stati Uniti hanno dominato per anni ma ora hanno soltanto il primato del deficit puublico, mentre la Cina è il paese che possiede assieme ai paesi asiatici la maggior parte dei titoli del debito pubblico americano. Io credo che un'utopia possibile sia una sorta di Commonwealth composto da Cina Europa e Stati Uniti in grado di ricucire il sistema finanziario mondiale. Io penso ad esempio a un authority internazionale sui mercati finanziari. Per far ciò è assolutamente necessario che ci sia un ritorno del ruolo degli Stati e dunque del primato della politica sull'economia, altrimenti sarà un disastro. Non possiamo permetterci la memoria corta. La crisi del '29 ebbe come sbocco drammatico gli Stati totalitari in Italia e Germania e poi la seconda guerra mondiale. Se vogliamo evitare catastrofi di quelle dimensioni dobbiamo immaginare un nuovo multilateralismo in grado di controllare e gestire la crisi.

C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.

Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.

Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.

Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.

I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II - con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista - sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».

I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione - o trasvalutazione - dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi - pur discordando - deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti. Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.

La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il "puro rendiconto".(...) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».

Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti

Vedi anche Valori e principi secondo Gustavo Zagrebelsky

Dall’ambiente al fisco. Dal lavoro alla criminalità Come un paese, fra violazioni e inadempienze, scende molti gradini nella scala della civiltà. Da vent’anni è noto che il 17 per cento del Pil è prodotto dall’economia sommersa Il triplo di ciò che accade nelle società sviluppate. Le strade che escono da Roma o da altre grandi città sono affiancate per chilometri da case costruite senza licenza

Si possono utilizzare diverse immagini allo scopo di definire il nocciolo del caso Italia. Tra le tante ho scelto l’immagine d’una società che con i suoi comportamenti collettivi si pone molto al di sotto della lex, la Legge con la maiuscola, quel sistema di rapporti tra individui e collettività che è considerato un elemento essenziale della condizione civile nell’età moderna ed ha il suo sommo nella Costituzione. Nella lunga scala che porta a una condizione civile la società italiana ha salito molti gradini, ma altri ne ha discesi. Al presente si colloca forse a uno dei livelli più bassi della sua storia, non foss’altro perché i rapporti che la legge dovrebbe regolare onde far procedere la società verso una ideale condizione civile diventano sempre più complessi.

Vi sono vari modi per restare al di sotto della lex, la legge in generale. Il primo consiste nella violazione in massa delle particolari leggi in vigore. Un secondo va visto nell’evitare di elaborare leggi che da generazioni sono pubblicamente riconosciute come indispensabili. Un terzo si materializza nella elaborazione di leggi incivili, nel senso che ostacolano, piuttosto che favorire, la salita della scala che porta una società a una condizione civile. Un ultimo modo consiste nel non attuare le leggi che ove lo fossero porterebbero espressamente in tale direzione, a partire da vari articoli della Costituzione concernenti il lavoro. Tratterò in breve dei primi tre, per soffermarmi poi più ampiamente sull’ultimo.

La violazione di leggi vigenti compiuta in massa dai cittadini abbraccia diversi capitoli. Tra i principali vanno collocati il controllo del territorio esercitato dalla criminalità organizzata; la devastazione del territorio stesso ad opera di comuni cittadini mediante costruzioni abusive; l’evasione fiscale, e la corruzione. Il monopolio dell’uso della forza spetta soltanto allo Stato, ricorda dottamente qualche ministro dopo ogni fatto di sangue. Tuttavia chiunque svolga una qualsiasi attività economica nel territorio a sud del 41° parallelo, si tratti d’un piccolo negozio o d’una grande impresa, d’un cantiere minimo per riparare un muro o di lavori autostradali, sa benissimo che si tratta come minimo di un duopolio, e che il secondo polo è assai più pervasivo, minaccioso e rapido nell’agire punitivamente che non il primo. Ora, la presenza d’un potere territoriale che si contrappone collocandosi, in termini di forza, quasi sullo stesso piano allo Stato era nota, discussa in Parlamento e oggetto di leggi, un buon secolo addietro. Domanda: la società, lo Stato, la politica non sanno, oppure bisogna concludere che non vogliono, riappropriarsi di un terzo del territorio nazionale?

Quanto all’evasione fiscale come pratica collettiva: da vent’anni è noto che circa il 17 per cento del Pil italiano è prodotto dall’economia sommersa. Che esiste anche in altri paesi, ma la quota ad essa imputabile da noi è almeno tripla tra le società sviluppate. Nell’economia sommersa lavorano circa due milioni di persone fisiche in posizione totalmente irregolare, più un milione di "unità di lavoro" statistiche formate da tre milioni di persone che svolgono un secondo lavoro non dichiarato. Il 17 per cento del Pil vale oggi 270-280 miliardi. L’evasione fiscale e contributiva è stimabile in circa 90 miliardi sottratti ogni anno a scuola, sanità, previdenza, infrastrutture. In realtà l’ammontare dell’evasione è assai superiore, perché ad essa andrebbe aggiunta la quota dovuta al 50 per cento delle società di capitali che ogni anno dichiara di non avere avuto utili; alle banche e alle imprese che hanno centinaia di sussidiarie in paradisi fiscali create per sfuggire al fisco; alla manipolazione da parte delle medesime dei cosiddetti prezzi di trasferimento tra società facenti capo alla stessa holding; alle legioni di professionisti, commercianti e artigiani che dichiarano per intero il fatturato della loro microimpresa, e però redditi personali trascurabili. In qualunque altro paese dell’eurozona, per non parlare degli Stati Uniti, forse la metà dei contribuenti italiani sarebbe sotto processo per frode fiscale. (...)

La devastazione economica e civile operata sul territorio dalla criminalità organizzata è visibile - stragi a parte - soltanto a chi deve a piegarsi ad essa. È invece visibile a tutti la devastazione fisica e paesaggistica del territorio operata dall’abusivismo edilizio, cui collaborano efficacemente milioni di cittadini e migliaia di imprese. Non v’è quasi regione, tratto di costa, o valle alpina che siano stati risparmiati. Le strade che escono da Roma come da altre grandi città sono affiancate per decine di chilometri, in ogni direzione, da case abusive. Sul totale Italia, si presume siano centinaia di migliaia le costruzioni fuori legge che sono state condonate; altre sono in paziente attesa. Tutto ciò ad onta del fatto che i pubblici poteri non abbiano mancato di far sentire la loro forza: negli ultimi anni, infatti, circa l’1 per cento delle costruzioni abusive è stato demolito.

La devastazione compiuta dagli abusi del costruire è stata accentuata ed estesa dall’assenza di leggi ad hoc: ossia leggi sulla pianificazione territoriale e sulla la gestione idrogeologica del territorio. Chiunque percorra la penisola non può che giungere ad una conclusione: gli italiani hanno collettivamente fatto del loro paese il più brutto d’Europa. Lo hanno anche reso il più pericoloso per quanto riguarda inondazioni, allagamenti, incendi, frane e ogni genere di crolli. (...)

Tra i dispositivi di legge che, ove fossero attuati, farebbero invece salire la società italiana verso una condizione più civile vi sono gli articoli della Costituzione compresi nel Titolo III. Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni li ha ignorati, se non anzi formalmente violati. La sola proliferazione dei contratti atipici, ormai una quarantina, appare in contrasto con ciascun articolo del predetto titolo. Si prenda l’art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». La riduzione del reddito conseguente all’alternanza di periodi di occupazione e disoccupazione nel corso dell’anno, propria dei lavori atipici, e fatta drammaticamente risaltare dalla crisi in corso, contrasta con il primo comma di detto articolo, così come la direttiva della Commissione Europea, recepita dai governi italiani, la quale non stabilisce, ma lascia intendere che la giornata lavorativa possa essere allungata sino a 13 ore. Oppure si veda l’art. 41: «L’iniziativa economica privata� non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; il sistematico venir meno delle sicurezze dell’occupazione, del reddito, della previdenza e delle altre, connaturato alla diffusione delle occupazioni precarie, è in palese conflitto con tale articolo. O si legga ancora l’art. 46: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Tale forma di collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è in realtà oggi resa impossibile, in forme pur minime, dalla frammentazione dei processi produttivi, e dalla concomitante moltiplicazione delle tipologie di contratto e di categoria d’appartenenza che si oggi ritrova in ogni azienda. Resta da chiedersi quando mai l’attuazione delle indicazioni programmatiche del titolo III della Costituzione troverà posto nell’agenda della politica italiana.

Quella che si sta consumando sotto i nostri occhi è la crisi della democrazia parlamentare. La crisi di quella originale e unica forma di democrazia che i moderni hanno con fatica e anche tragiche interruzioni costruito mettendo insieme istituzioni e meccanismi politici che non sono di per sé democratici: le elezioni, la rappresentanza, la costituzione, le carte dei diritti, la divisione dei poteri. A questi strumenti istituzionali si sono aggiunti i partiti politici, istituzioni ibride che vivono e crescono fuori dello Stato pur consentendo alle istituzioni dello Stato di funzionare e, soprattutto, di essere rappresentative. I partiti sono forse l’aspetto più moderno e anche più controverso del governo dei moderni.

Identificati fin dal Settecento con le fazioni, come a sottolineare la loro tendenza a subordinare il bene comune a interessi di parte, i partiti hanno tradizionalmente destato diffidenza e ostilità. Non è un caso se i padri fondatori del parlamentarismo liberale ottocentesco, del quale ci parlava Carlo Galli su queste pagine, idealizzassero un parlamento composto di personalità rappresentative perché ottime e capaci, ma non di rappresentanti politici. E’ nota la durissima critica di J. S. Mill al partito politico (benché egli poi preconizzasse l´articolazione della politica nazionale in un campo conservatore e un campo progressista, anticipando suo malgrado la divisione ideologica tra destra e sinistra); la sua convinzione che occorresse un sistema elettorale capace di selezionare i migliori, proprio perché tali, non perché espressioni di interessi di parte. Rielaborando da Edmund Burke, Mill pensava che i migliori sapessero che cosa fosse il bene generale senza bisogno di piegarsi alle pressioni dei cittadini. Non stupisca questa diffidenza verso i partiti: i parlamenti liberali ottocenteschi erano eletti da una piccolissima minoranza di elettori simili e anzi identici negli interessi, al punto di potersi permettere il lusso di pensare di usare il parlamento come un simposio platonico, dove solo le buone ragioni, il libero scambio delle idee e l’indipendenza di giudizio avrebbero dovuto operare. Il mito del parlamento come luogo di discussione disinteressata e oggettiva tra individui eccellenti è figlio di un sistema politico non democratico.

Il parlamento liberale ottocentesco non ha pressoché nulla a che fare con il parlamento democratico. E la ragione principale sta nel fatto che contrariamente a questo, esso poteva sopravvivere senza i partiti (proprio perché espressione di un corpo elettorale socialmente e culturalmente omogeneo). Ma quando il suffragio cessò di essere un privilegio di pochi e diventò un diritto egualmente distribuito tra tutti, le differenze sociali e di opinione si resero immediatamente visibili e spesso non superabili con la libera discussione razionale. Il parlamento cominciò a popolarsi di "avvocati" di interessi spesso contrapposti, a volte nobili (per il suffragio femminile o per la conquista dei diritti sociali) a volte meno nobili (a favore di interessi corporativi) a volte terribili (a favore di ideologie totalitarie). La fine del parlamentarismo liberale si è consumata al principio del Novecento, allorché appunto i partiti dimostrarono di essere loro, non gli individui rappresentativi idealizzati da Mill, i dominatori dell’agone politico, dentro e fuori il parlamento. La democrazia parlamentare fu l’esito del difficile ma necessario accomodamento dei partiti alla politica costituzionale e dei diritti.

Pensatori politici autorevoli si scagliarono contro i partiti nel nome dell’unità plebiscitaria del corpo politico (come fu il caso di Carl Schmitt), oppure li accettarono pragmaticamente ma con la prospettiva di vederli liberi da ideologie o identità ideali forti e quindi disposti a fare compromessi e mutare di posizione (come fu il caso di Hans Kelsen e, per una parte della sua militanza intellettuale, di Norberto Bobbio). Dunque, anche quando se ne comprese l’importanza o ci si arrese alla loro utilità pratica, i partiti non vennero per questo emancipati dalla pessima reputazione che li aveva per secoli dannati e rimasero, ha scritto di recente Nancy Rosenblum, "orfani di teoria", sopportati ma mai ritenuti una forma nobile di politica.

Pochi compresero appieno la loro centralità nella democrazia parlamentate. Tra questi Lelio Basso (uno dei nostri rari pensatori democratici) il quale si impegnò con tenacia a mostrare come, quando il sovrano democratico perde lo scettro (perché non vota più le leggi direttamente) deve poter contare su forme di partecipazione che, benché informali e non esenti da rischi oligarchici, sappiano incidere sulle istituzioni: proponendo leggi, organizzando l’opposizione, esercitando il controllo sui parlamentari, tendendo viva la presenza simbolica dei cittadini. Per contro, la crisi della democrazia parlamentare è un riflesso di quella dei partiti.

E’ questa la crisi nella quale versa oggi la nostra democrazia. Senza partiti: o perché quelli che governano sono proprietà o emanazione di un potentato economico; o perché quelli che sono all’opposizione si stanno sbriciolando nei mille rivoli dei notabilati, lacerati da lotte intestine di carrieristi e oligarchie. In nessuno dei due casi possono svolgere quella funzione di sorveglianza e rappresentanza preconizzata da Basso. Nel primo caso perché il partito è qui un fatto essenzialmente proprietario, quindi un’anomalia vera e propria che spiega, tra le altre cose, la ragione per la quale l’esecutivo ha acquistato tanto prevaricante potere in Italia (e perché il capo del governo può togliere voce al parlamento e rendere la sua maggioranza un megafono senza autonoma personalità).

Nel secondo caso (che riguarda il partito di opposizione) perché il partito soffre di una debolezza di identità ideale e di autorevolezza politica con la conseguenza di svilire la partecipazione e la stessa vita parlamentare, di alimentare anziché arginare i diffusi sentimenti anti-politici.

Senza i partiti, il parlamento democratico cessa di essere rappresentativo della società e i parlamentari diventano rappresentanti di se stessi e di gruppi di amici e clienti, mentre viene meno ogni forma di controllo sugli eletti (la deprecata disciplina di partito è stata una forma tutt’altro che perversa di realizzare il mandato politico contenendo il potere degli eletti, la sua scomparsa spiega il caso Villari o i casi regionali che ben conosciamo). I nemici dei partiti sono tanto coloro che invocano il partito del capo (plebiscitarismo) tanto coloro che idealizzano parlamenti senza partiti. In entrambi i casi è il parlamento democratico (la democrazia rappresentativa) a perdere di autorità e di valore, a languire per l’aria mefitica provocata da partiti che non sono più tali.

Francesco Raparelli e Augusto Illuminati sono stati prodighi di elogi per il numero speciale di MicroMega «Un'onda vi seppellirà», ma hanno trovato del tutto sbagliato, e perfino contraddittorio con il resto del volume, il mio editoriale di apertura «Rivolta o ideologia» (il manifesto del 31 Dicembre 2008). Spero che il loro apprezzamento per il numero (della cui realizzazione il merito va in primo luogo a Emilio Carnevali e Cinzia Sciuto), così caldo e motivato, ne aiuti la circolazione tra gli studenti e sia il nostro piccolo contributo alle tenuta, al rilancio, alla crescita del movimento.

Quanto al merito dei nostri dissensi, che non vanno diplomaticamente ridimensionati ma certamente chiariti: la questione principale è l'analisi della figura sociale dello studente nell'ambito di una più generale analisi delle nuove figure produttive - e sfruttate - (il «general intellect»), del capitalismo postfordista.

Ora: l'università è anche il luogo di formazione di tutte le forme di lavoro precario che caratterizzano il capitalismo attuale, e lo studente è dunque anche il precario delle nuove forme di sfruttamento e dominio (per usare il linguaggio standard).Anche, ma non solo. Perché l'università è anche il luogo di riproduzione di tutte le figure sociali dominanti e collaterali e domestiche dello sfruttamento. È insomma anche (e magari soprattutto) il luogo di riproduzione dell'establishment. Dei «padroni» e manager e di tutti gli apparati di repressione, controllo, mediazione, consenso, che mantengono in vita il sistema. Non riconoscere come essenziale questa funzione dell'università significa rovesciare ogni materialismo e immergersi nel più puro idealismo sociologico (una contraddizione in termini). Significa immaginare uno sfruttamento senza sfruttatori, un dominio senza dominanti, o far discendere l'establishment dal cielo.

Se dunque l'università è il luogo in cui si riproducono tutte le figure sociali, contraddittorie e antagoniste, e non solo quelle multiformi del precariato «general intellect», la figura sociale dello studente risulterà strutturalmente ambivalente. E in più sensi.

Tra precariato e establishment

Socialmente ci saranno studenti che (per semplificare) diventeranno establishment e studenti che diventeranno «general intellect», secondo linee che in larga misura replicheranno i ruoli delle famiglie di origine, ma in misura significativa segneranno invece mobilità da una classe all'altra (sempre per usare un linguaggio standard: e quasi sempre dalla sfruttata all'establishment), mentre la cultura che verrà trasmessa, sia per i contenuti che per i metodi, sarà un intreccio di addestramento a questi ruoli e di sapere critico capace di metterli in discussione, e si potrebbe continuare. Tutte queste ambiguità e ambivalenze passano anche, potenzialmente, all'interno di ogni singolo studente, diviso tra prospettive di integrazione/carriera nell'establishment, forme diverse di sfruttamento, ecc.

Ecco perché una analisi meramente «produttivistica» della figura sociale dello studente mi sembra quanto di più idealistico vi sia, e mi sembra ripeta, quasi alla lettera, mutatis mutandis, lo stesso errore che veniva fatto dalle componenti «operaiste» del movimento studentesco del '68. Dell'altro ideologismo, di matrice più classicamente marxista-leninista, che Raparelli stesso critica, non mi sono occupato perché non mi sembra abbia possibilità di effettiva influenza, dato il carattere francamente arcaico delle analisi.

Se dunque lo studente è una figura sociale ambivalente, perché transitoria, la scelta etico-politica di ciascuno, e del movimento nel suo complesso, diventa elemento cruciale per la sua tenuta e il suo futuro (l'elemento di «soggettivismo», sempre per usare il linguaggio standard: rivoluzionario o riformatore che tale «soggettivismo» sia,). Del resto, non si capirebbe altrimenti perché settori consistenti del mondo studentesco non partecipino alle lotte, e anzi le combattano, e si schierino politicamente a destra. Per dirla brutalmente, «sfruttato» e «sfruttatore» nello studente potenzialmente convivono, poiché convivono possibili futuri (benché le chance per ciascuno singolarmente preso siano tutt'altro che eguali, come è ovvio).

Le asimettrie di potere

Se si guarda perciò materialisticamente allo studente e alla sua ambivalenza, e all'ambivalenza del sapere che nelle università viene trasmesso, ne scaturiscono conseguenze (problematiche) sia per i rapporti con altre opposizioni repubblicane nella società sia per la questione della «autoriforma» dell'università dal basso.

Della «autoriforma» parte essenziale dovrebbe già essere la «autoformazione», che Augusto Illuminati considera diversa in linea di principio dai controcorsi del '68 (imputando a Carnevali e Sciuto di aver invece evidenziato la continuità tra i due fenomeni).Ora, «autoformazione» non può essere una sorta di parola magica, un abracadabra che al momento di realizzarsi tecnicamente o fallisce o si riempie di modalità e procedure che ne vanificano gli intenti. Ma la formazione contiene sempre un elemento irriducibile e ineludibile di trasmissione del sapere. Potrà avvenire in forme pedagogiche e di «potere» ex-cathedra radicalmente diverse dalle attuali (esistono elaborazioni sull'argomento affascinanti, soprattutto di matrice anarchica, dagli asili di infanzia all'università), ma l'elemento di trasmissione, e relativa asimmetria tra docente e discente, sussisterà, quali che siano le forme nuovissime inventate. Ma sono proprio queste forme che mi sembra non vengano analizzate affatto, per la difficoltà di affrontare la pietra di inciampo dell'asimmetria del sapere. E del significato diverso che nei vari rami tale asimmetria può avere (in fisica delle particelle e in etruscologia è diversa che in «Storia del reality», che prima o poi diventerà un corso).

La formazione, insomma, potrà essere più o meno critica, più o meno partecipata e seminariale, più o meno «cattedratica», ma non potrà mai essere «auto», pienamente democratica, come una grande repubblicana, Hannah Arendt, ha spiegato infinite volte. Chiarire in che modo ciò si differenzi davvero dai controcorsi, in che modo implichi pedagogie nuove della trasmissione del sapere, in che modo debba cambiare il ruolo del docente, che strutturalmente non sarà mai eguale allo studente se non in una retorica che si accontenta di parole, è quanto il movimento ancora non ha fatto (semmai lo ha cominciato, ma soprattutto tra i ricercatori e i dottorandi di alcune facoltà scientifiche).Vedo insomma il rischio, micidiale per il movimento, che «riconquistare democraticamente le grandi istituzione del welfare» rimanga una formula suggestiva, un appagamento emotivo, non uno strumento materialistico di lotta.

I fronti di lotta

Del resto, realizzare una riforma non è neppure il compito essenziale di un movimento di studenti. Se non si trasformano assetti cruciali della società, e in essi della ricerca, dell'informazione, del diritto, ecc., il destino dello studente sarà sempre di diventare in larga misura un precario, in altra misura (anch'essa assai larga) un membro dell'establishment nei suoi vari settori e livelli gerarchici, e solo in casi privilegiati, e socialmente poco rilevanti (epperciò tollerati dal sistema), un lavoratore che nella sua stessa attività lavorativa non si troverà scisso dai suoi «diritti del cittadino» e dall'esercizio della sua porzione di «sovranità popolare», solennemente ricamati nella Costituzione ma calpestati e vilipesi nella sfera della vita reale (e sempre più anche in quella «astratta» della politica).

Ecco perché io ritengo essenziale, per il futuro del movimento, che sappia collegarsi-a, ri-animare, suscitare, iniziative di lotta in altri settori e ambiti tematici (altromondisti, girotondi, piazzenavone, ecc., senza dimenticare la laicità, che il nuovo invito del rettore al Papa rende di stringente attualità).Sono solo accenni, che si prestano ad essere equivocati, e per approfondire i quali «MicroMega» ha avanzato al movimento la proposta, proprio tramite uno degli autori degli articoli, Francesco Raparelli, di una discussione pubblica all'Università. Che mi auguro avvenga nel vivo di una lotta di nuovo in corso.

La questione morale è il segno di un modo di concepire e praticare la vita pubblica che con il pubblico non ha nulla a che fare. Dietro il cinismo o la disonestà degli amministratori pubblici si annida profonda la crisi della politica, sia come funzione pubblica che deriva e dipende dal mandato elettorale, sia come etica del servizio pubblico. Le due dimensioni sono strettamente legate tra loro. È questo il legame che si è infranto in questi lunghi anni di mai compiuta transizione verso una democrazia dell’alternanza. A prescindere da quella che sarà la provata responsabilità legale di alcuni amministratori pubblici, il giudizio politico non può che essere negativo, anche per quel preoccupante uso del linguaggio che è emerso dalle intercettazioni: amministratori pubblici che parlavano di "cose loro" invece che di "cosa pubblica".

Non si tratta di una novità. Dalla fine dei partiti tradizionali e dall’inizio dell’era Berlusconi, la politica è venuta con sempre più frequenza ad associarsi alla dimensione del privato: alla proprietà prima di tutto, ma anche alle opinioni personali e ai legami amicali o di parentela anch’essi privatissimi. Pochi esempi recenti: il Presidente del Consiglio afferma di voler cambiare, lui, la Costituzione, come se la Costituzione fosse cosa sua propria; in nome delle sue proprie opinioni personali in merito alla vicenda di Eluana, il ministro Sacconi si rivolta contro la decisione del giudice violando platealmente il principio e la pratica della divisione dei poteri. La funzione pubblica è sempre più identificata con la persona che la svolge.

Oggetto di denuncia quando il patrimonialismo fece la sua apparizione, più di dieci anni fa, questa anomalia è diventata un tema di lamento inutile ma sempre tollerato, mai effettivamente contrastato e infine metabolizzato dall’opinione politica e da quella pubblica per diventare un fatto di (mal) costume ordinario. Eppure, nonostante l’abitudine al malcostume che i media alimentano, nonostante non faccia scandalo che il Presidente del Consiglio dica di voler cambiare la Costituzione o che il ministro Sacconi resista alla decisione del giudice, fa sussultare il dubbio di disonestà che si è abbattuto sul Pd, segno di una crisi di legittimità morale di un partito che pare nato vecchio - non abbastanza partito, eppure già uso all’abitudine partitica più antica. Fa sussultare perché l’ombra della questione morale che si è allungata su questo fragilissimo corpo politico è un segno preoccupante di quanto sia cambiata la coscienza collettiva del nostro paese, un mutamento che finora pensavamo interessare in maniera estesa solo la maggioranza, o molta parte di essa.

Questa debolezza etica dovrebbe preoccupare quale che sia l’esito di questa o quella indagine. Il dubbio di cinismo e disonestà è da solo un problema. Sul Pd, sui suoi dirigenti nazionali e regionali, pesa una responsabilità grande: quella di riuscire a bloccare ora, subito, la trasformazione oligarchica e affaristica che si estende su di esso. Chi scrive ha sempre ostinatamente pensato che il problema del Pd non sia tanto quello di non lasciare spazio ai giovani, ma quello di non essere stato capace di educare alla politica (che è un agire etico) una nuova generazione di servitori del bene pubblico. Dalla fine dei partiti tradizionali, i quali erano comunque grandi scuole di cittadinanza partecipata e responsabile, il susseguirsi di sigle e l’abbattimento sistematico delle tradizionali forme aggregative politiche hanno creato analfabetismo etico e l’erosione del linguaggio pubblico. Le aziende, luoghi privati di lavoro e di carriera, sono diventate il punto di riferimento valoriale e di fatto l’unica scuola di funzione pubblica, ovviamente la meno adatta perché la più distante dall’idea di bene generale e dalle sue procedure di controllo. La narrativa delle intercettazioni telefoniche è rivelatrice di questa trasformazione di linguaggio e di valori; ma anche della fragilità del Pd, una fragilità che è stata fin qui celata dietro le varie tornate di mobilitazione per le primarie. Ma un partito che ha come solo momento partecipativo la competizione elettorale non è ancora un partito. È al più uno strumento per consentire a individui, gruppi o fazioni di competere per vincere e fare "carriera" politica. Le competizioni elettorali per le primarie, mentre consentono di scegliere i candidati, creano necessariamente divisioni di amici e nemici. Un partito che vive solo di primarie non è per questo un partito ma un campo di battaglia; un corpo lacerato, senza ideali unificanti, ma con molta adrenalina per mobilitare concorrenti rivali.

Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della "normale" violazione della legalità (la "corruzione inconsapevole" di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia più antica.

La "diversità" comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. È illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974, in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull´onda di quello scandalo.

L´iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice autonomia: da un lato dall´Urss, dall´altro dalle pressioni illecite - e non sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e altri non piccoli segnali, l´insistenza dell´ultimo Berlinguer sulla diversità comunista ci appare oggi non tanto l´orgogliosa sottolineatura di una solidissima realtà quanto l´appassionato e quasi angosciato appello ad un dover essere, l´aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C´era un paese che si reggeva sull´illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell´intera classe dirigente». Ed è dell´anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer nell´intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi anni prima.

A rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c´è da chiedersi semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986, ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di fiducia fra i partiti e l´opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi: come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la "cultura della corruzione": nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell´Espresso degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. È un titolo del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L´assenza di regole domina ovunque, anche nella "capitale morale". E siamo qui nell´angoscia, nell´umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile».

Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L´Italia nuova, Einaudi 1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo ormai raggiunto dal "reddito da tangenti" (di poco inferiore, si valutava, a quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine); dall´altro l´immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi, negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull´identità italiana si intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino) tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel 1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino), che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi annotano: «Nessun discorso sull´Italia repubblicana può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni d´epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva posto fine all´Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti».

In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della "prima Repubblica"] è l´espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l´Italia, nella sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla "solitudine interna" di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione dall´alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato».

Alla lunga distanza c´è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell´opinione pubblica siano state poi sepolte dall´illusione in una salvifica "seconda Repubblica". Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata: attorno a sé scorgeva infatti i segni di "un regime in sfacelo più che di una democrazia in divenire". Così ci appare oggi anche l´Italia dei primi anni Novanta e c´è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che hanno attraversato l´intero paese.

La premessa ovvia è che il cattolicesimo democratico costituisce una componente fondamentale della cultura politica italiana. Essa ha svolto un ruolo importante sia nelle grandi lotte sociali del dopoguerra che nella costruzione dell’Italia repubblicana e nei processi di allargamento della democrazia nel corso degli anni ’60 e ’70. Dunque il dialogo e talora l’alleanza della sinistra comunista e socialista con le varie anime di questa componente è stata prova fruttuosa di intelligenza e di lungimiranza politica. Una scelta politica che vale anche oggi, benché i protagonisti di un tempo appaiono così radicalmente mutati. Ma quanto è saggio e lungimirante oggi trasformare dialogo e alleanze su singoli temi e lotte in un rapporto di unità organica di partito ?

Vediamo in quale insormontabile difficoltà si è posta la dirigenza dei DS nel puntare a realizzare un nuovo partito, il PD, con i cattolici della ex Margherita. Un partito, rammentiamo, nato anche per realizzare un organismo unitario, capace di decisione, in grado di superare le divisioni paralizzanti che segnano l’azione della sinistra radicale e popolare. Su questo punto l’insuccesso è evidente. E qui tralascio i fatti di cronaca recente per annotare alcuni dati di valore generale.

I dirigenti ex comunisti non hanno compreso la portata storica della nuova politica della Chiesa di Roma, che condiziona profondamente la scelta politica dei cattolici oggi. La linea di Benedetto XVI non rappresenta soltanto l’involuzione di un papa manifestamente conservatore.E quindi un fenomeno isolato e potenzialmente transitorio. E’ qualcosa di più. Essa testimonia una cultura e una strategia profondamente pensata da quasi tutto il Vaticano. Per dirla in breve, in questa fase storica la Chiesa, di fronte agli esiti estremi di una modernizzazione che si esprime in termini di accresciuto dominio tecnico sulla natura e sulle persone, di mercificazione compulsiva di ogni angolo della vita, reagisce con un riflesso autoritario. Se la libertà dell’individuo, conquista del pensiero illuminista, diventa l’individualismo anomico, che sgretola la rete dei rapporti sociali, la Chiesa non si schiera contro i poteri che orchestrano questo modello di società.Non cerca soluzioni progressive, che ricompongano le relazioni umane con un incremento di potere democratico.. Essa stessa, del resto, è un potere: gerarchico, autoritario, antidemocratico ab ovo. Non può affondare l’analisi in una critica che si rivolgerebbe anche contro se stessa. Perciò cerca di rispondere alle sfide difendendo il vecchio ordine. Posta in grande difficoltà nei suoi cardini dottrinali, reagisce con decisioni di ordine restaurativo, che sono spesso apertamente configgenti con il semplice senso comune dei diritti della persona oggi.

Del resto, la distruzione di senso che accompagna ormai apertamente l’avanzare dello sviluppo, nella sua veste di « occidentalizzazione del mondo», provoca un riflesso analogo anche in altre religioni, soprattutto nell’Islam. La violenta reazione delle fedi rivelate, che oggi si muovono a difendere identità culturali mortalmente minacciate, recuperano a questo fine, come sappiamo, anche le forme più arcaiche e repressive delle loro tradizioni. Ed è rivelatore il fatto che, tale generale reazione, venga dalla stessa Chiesa di Roma interpretata come una rinascita del fervore religioso nel mondo.

Ora, non dubito del fatto che i cattolici del PD siano in buona parte autonomi dalla Chiesa. Ma fino a che punto possono esserlo ? Qui occorre rammentarsi di ciò che è accaduto ai partiti negli ultimi 20 anni. Essi – per dirla con il politologo Otto Kirchheimer - sono diventati «partiti pigliatutto», si sono trasformati in agenzie di marketing elettorale. La Chiesa di Roma – entrata peraltro ormai direttamente nell’agone politico - non rappresenta più soltanto il più alto magistero spirituale del mondo cattolico.Oggi si presenta come una delle pedine in gioco della geografia e del mercato elettorale italiano. E’ oggetto della competizione di gran parte delle forze politiche che guardano ad essa, con un machiavellismo ormai triviale, come a un bacino potenziale di voti, un centro di influenza e di potere. Per quale superiorità culturale e morale i cattolici del PD dovrebbero rinunciare a questa sponda strumentale?

E’ evidente, dunque, la difficoltà sistemica in cui si sono messi gli ex DS, costretti a logorarsi in una interminabile mediazione interna su questioni che sono fondative della loro laicità. Parte della paralisi operativa di questo partito nasce anche da qui. Ma non è tutto. L’unità organica con i cattolici costringe gli ex DS, anche per le ragioni dette, a uno spostamento al «centro», cioé verso posizioni moderate dell’asse programmatico del PD. Uno spostamento strategico, in atto per la verità da tempo, che ora viene perseguito in maniera organica e istituzionale Allora la domanda è – al di la di ogni valutazione di merito strettamente politico – è, questa, una scelta vincente, possibile, realistica ? Tutto, ma proprio tutto, lascia pensare che non sia così. Il cosiddetto centro è il luogo più affollato della vita politica italiana. Non soltanto perché c’è già un medio partito come l’UDC. Questa è una osservazione banale. Ma perché, in realtà, tutti i partiti italiani sono ormai di centro. La maggioranza che oggi sostiene il governo non è di destra, ma di centro-destra. Essa cioè copre e rappresenta uno spettro straordinariamente ampio di ceti sociali. Non solo dentro AN c’è una “destra sociale”, ma tutti i partiti hanno il loro insediamento e il loro marketing popolare. Sono «partiti pigliatutto», per l’appunto. Il caso della Lega è esemplare. Da quando esiste ha messo in campo tutti gli strumenti più abietti della retorica populistica, quelli destinati a creare il nemico: dal Sud infetto a Roma ladrona, per passare ai rom, ai rumeni, agli zingari, a clandestini. Eppure è noto che tale formazione ha oggi in tante regioni un insediamento da vecchia DC.

Dunque, che cosa ci sta a fare al centro il PD ? C’è bisogno addirittura di un nuovo partito per realizzare un programma di governo un po’ meno moderato di quello dell’esecutivo attuale? Perfino l’Economist si è accorto di questa imbarazzante omologazione, quando ha preso visione del programma dei due poli nell’ultima campagna elettorale. Ma l’errore strategico acquista un’evidenza drammatica di fronte al fatto che un vasto universo sociale, un intero continente di culture, soggettività, movimenti, associazioni, rimane oggi sempre più privo di rappresentanza politica. Nessuno lo dice, perché i commentatori accreditati sono impegnati a spiegare la crisi con ragioni di ingegneria finanziaria. Ma essa dipende anche dal fatto che i ceti popolari e soprattutto la classe operaia hanno progressivamente perduto le loro rappresentanze storiche, da decenni impegnate a «spostarsi al centro ». Sempre più al riparo da conflitti oppositivi, il capitalismo è così potuto diventare «unleashed», scatenato - come ha ricordato l’economista inglese Andrew Glyn – privo di controlli, di contrappesi, di regole,

Oggi, che la crisi economica, il crollo di aziende, la disoccupazione di massa avanza a grandi passi chi rappresenterà politicamente la marea montante dei poveri? Chi darà voce e progetto a conflitti che saranno necessariamente radicali? Il centro? Rammentiamo sommessamente che la Grande Crisi degli anni Trenta ha avuto due esiti divergenti: il New Deal e il nazismo. Non è indifferente per gli esiti della crisi attuale chi, con quali idee, si porrà alla testa dei movimenti popolari.

Oggi, di fronte a tanta manifesta inadeguatezza, appare perfino trascurabile il fatto che i dirigenti del PD non siano neppure d’accordo sulla collocazione da dare al loro partito nel Parlamento europeo.

Questo articolo è stato inviato anche al manifesto

Due recenti libri collettivi su Karl Marx. Il primo affronta alcuni concetti chiave del filosofo tedesco. Il secondo è invece una critica alle tesi di Jacques Derrida sulla necessità di recuperare Marx, abbandonando però l'idea che esiste una classe destinata a costruire una società non capitalista

All'indomani della decisione del governo statunitense di intervenire nel salvataggio di alcune imprese finanziarie e banche, un gruppo di autorevoli editorialisti e economisti scrisse che la crisi del libero mercato stava facendo tornare di attualità l'opera di Karl Marx, in particolar modo la sua tesi sulla inevitabilità che il capitalismo incappasse ciclicamente in una crisi che metteva in discussione la sua stessa esistenza. Il fatto più sorprendente è che le parole lusinghiere dedicate al filosofo di Treviri venivano da riviste e giornali da sempre paladini di quello stesso libero mercato che stava portando sull'orlo dell'abisso il capitalismo. Se Time, Business week, Economist e Wall Street Journal cercavano tra le pieghe del Capitale o del Manifesto del partito comunista spiegazioni sul perché il migliore dei mondi possibili, cioè il capitalismo, si stava trasformando in un inferno per miliardi di persone voleva dire che la crisi e la recessione mondiale avviata dal «giocattolo» impazzito dei subprime era cosa davvero seria. È stato poi compito dell'attualità inanellare il drammatico rosario di licenziamenti di massa, fallimenti di imprese. Il volto di Marx è stato poi rapidamente tolto dalle copertine di quelle riviste, ma le affermazioni contenuti negli articoli pubblicati sulla rinnovata attualità dell'opera marxiana sono difficili da dimenticare così in fretta.

L'invenzione di una tradizione

Certo è però il fatto che l'eredità teorica di Marx era diventata una faccenda per pochi intimi, per di più litigiosi tra loro. Neppure i movimenti sociali di questi ultimi due decenni hanno guardato con attenzione all'autore del Capitale. Unica eccezione, l'America Latina, dove ci sono importanti e radicali movimenti sociali che continuano a parlare di socialismo. In Europa e negli Stati Uniti Marx è stato infatti consegnato alle soffitte ben prima che crollasse il muro di Berlino, simbolo di una fallimentare esperienza di costruzione del socialismo. Il Sessantotto aveva solo rinviato la rimozione dell'opera marxiana. E quando in Europa, nel pieno della controrivoluzione liberista, si sono manifestati movimenti sociali - dall'ecologismo agli occupanti di case, ai no-global- le tradizioni teoriche e politiche a cui hanno fatto riferimento non contemplavano né Marx, né tantomeno l'esperienza comunista.

L'unico tentativo serio di fare i conti non con Marx, ma con il marxismo risale infatti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione di una «Storia del marxismo» curata da Eric Hobsbawm. Ed è proprio in quella storia che lo storico inglese invitava a pensare ai marxismi, perché molte sono state le scuole di pensiero, i percorsi politici che hanno contraddistinto la ricezione dell'opera marxiana. Ed è quindi una felice sorpresa la pubblicazione di un libro - Lessico marxiano, manifestolibri, pp. 198, euro 19 - che ripercorre alcune parole chiave dell'opera di Marx, dichiarando sin dall'introduzione una scelta di campo: tutti gli autori si rifanno all'operaismo, cioè quell'innovazione del marxismo avviata da Raniero Panzieri e poi proseguita da studiosi come Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e tanti altri. Ma la sorpresa è che è un libro nato all'interno di uno spazio occupato, l'Esc di Roma, che ha sempre manifestato una forte critica nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio. Eppure, come dichiarano i curatori di questo volume, l'appuntamento con Marx era nell'ordine delle cose. Per verificare se potesse servire alla comprensione del capitalismo, ma anche se potesse fornire strumenti per il loro agire politico.

Nel flusso della storia

Il Marx che esce da questo volume non è tuttavia lo scienziato del capitalismo, né un economista che fornisce ricette per far funzionare un modo di produzione alternativo al capitalismo. Marx è qui considerato un critico dell'economia politica, mentre la sua produzione teorica è ritenuta un'opera aperta alla critica e al superamento laddove se ne presentasse la possibilità. Le parole chiave scelte per rileggere l'autore dei Grundrisse lasciano infatti trasparire sopratutto un'urgenza politica. Il «fulmine da prendere con le mani» a cui alludono gli attivisti di Esc nell'introduzione non è infatti l'eredità marxiana, bensì la realtà capitalistica contemporaneo, la sua continuità con il passato, ma anche e sopratutto le discontinuità che manifesta. Per questo l'attenzione è data, ad esempio, ai concetti di «astrazione», «forza lavoro», «cooperazione», «lavoro produttivo e improduttivo», «classe», «accumulazione originaria», «diritto». Cioè a temi che costituiscono proprio i nodi da sciogliere per una critica al capitalismo che spesso in questo libro è qualificato come cognitivo.

L'accumulazione originaria è infatti sviluppata per parlare di come la globalizzazione mette in evidenza che quel passaggio violento all'origine del capitalismo si rinnova continuamente quando si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti sociali tanto nelle realtà nazionali che a livello mondiale. Questo solo introdurre il fatto che le classi sono continuamente scomposte e ricomposte. Ma che solo da un'ottica di classe, e dai conflitti che agisce, si può risucire a comprendere la realtà e pensare la politica per trasformarla.

Non è quindi un caso che vengono ripercorsi i testi di Marx per capire cosa significa forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione in un capitalismo dove diventano centrali le capacità generiche della natura umana (il linguaggio, la capacità di fare astrazione, la capacità di sviluppare cooperazione). E di come il diritto, da sempre dispositivo per legittimare la proprietà privata e i rapporti sociali dominanti, arrivi ad occuparsi di diritto d'autore, di brevetti, di marchi affinché proprio quel linguaggio, quella conoscenza, quel sapere e la vita stessa diventino non solo merci, ma che la loro «produzione» sia regolata secondo il principio della scarsità.

L'impossibile filologia

Un libro che non è mosso da nessun intento filologico rispetto l'opera marxiana. I testi di Marx sono infatti letti e commentati per afferrare la realtà. E che per questo mette in conto di andare «oltre Marx». Un'operazione provocatoria rispetto a chi, invece, aderendo filologicamente ai testi di Marx cerca risposte politiche. O verso chi cerca di salvaguardare la tradizione politica del movimento operaio. Ma provocatoria anche verso chi cerca di innovare l'analisi marxista, colmando i limiti dell'opera marxiana. Il «lessico marxiano» che emerge dall'insieme dei saggi che compongono il volume è da intendere come una cassetta degli attrezzi da usare per la costruzione di un agire politico che si vuol misurare con questo capitalismo. Un volume che propone infine come prioritaria necessità politica la possibilità di aprire un'altra storia, prendendo definitivamente congedo dall'esperienza socialista del Novecento.

«La democrazia non è solamente il voto nell’urna. Nella complessità del mondo contemporaneo, la vita democratica si decentra, dando vita a una varietà di azioni e istituzioni al di là del solo suffragio universale». È questa la conclusione cui è giunto Pierre Rosanvallon, lo studioso francese che insegna al Collège de France ed oggi considerato uno dei più influenti intellettuali d’Oltralpe. Lo spiega in un volume appena pubblicato in Francia, La légimité démocratique (Seuil, pagg. 380, 21 euro), che fa seguito a un altro corposo saggio intitolato La politica nell’era della sfiducia, in procinto di essere pubblicato in Italia da Città Aperta, aggiungendosi così ai precedenti Il popolo introvabile (Il Mulino) e Il Politico, storia di un concetto (Rubettino). «Il disincanto democratico è oggi un’evidenza. I cittadini votano meno che in passato e soprattutto in modo diverso», spiega Rosanvallon, che ha anche creato la République des idées, un importante spazio di riflessione, dotato di un sito web e di una collana di libri.

«Oggi il voto non è più un momento d’identificazione con un gruppo sociale, un territorio o un partito politico. Il voto ha cambiato natura. In passato era la manifestazione di un’identità sociale, oggi esprime un’opinione individuale. Questa trasformazione è accompagnata da una crescente disaffezione nei confronti dei partiti politici e dalla crisi dello stato inteso come amministrazione dell’interesse comune».

Il disincanto democratico favorisce il disinteresse per la cosa pubblica?

«Non credo, dato che i cittadini manifestano la loro implicazione nella vita collettiva in altro modo. Tra un’elezione e l’altra, la vitalità democratica prende altre forme, che nel volume La politica nell’era della sfiducia ho designato con il termine "controdemocrazia", un termine forte e volutamente ambiguo».

Di che si tratta?

«La "controdemocrazia" è costituita dall’insieme delle attività che non mirano ad associare il cittadino all’esercizio del potere, ma a organizzare il suo controllo su chi governa. E’ impossibile che tutti partecipino direttamente alle decisioni politiche, ma tutti possono esprimere opinioni critiche e partecipare alla vigilanza civica nei confronti del potere. Naturalmente queste attività possono essere molteplici, a cominciare da quelle di sorveglianza, notazione e convalida delle procedure democratiche. Si tratta di modalità più o meno formalmente costituite, i cui attori possono essere le associazioni, la stampa o anche i singoli cittadini su internet».

Lei parla anche di sovranità negativa...

«È quella che i cittadini manifestano rifiutando alcune scelte governative. I primi teorici della democrazia pensavano che la democrazia si fondasse essenzialmente sul consenso silenzioso dei cittadini, oggi invece ci rendiamo conto che nell’attività democratica, accanto al consenso, svolge un ruolo essenziale il dissenso. Già Montesquieu sottolineava la dissimmetria tra facoltà d’impedire e facoltà d’agire, in democrazia. E’ infatti molto più facile misurare i risultati ottenuti sul versante del disaccordo che su quello della proposta costruttiva. Se si riesce a bloccare una decisione del potere, i risultati si vedono subito, mentre per promuovere una legge spesso occorrono anni prima di vedere i risultati».

Quali sono le altre forme della controdemocrazia?

«Un’altra componente importante è l’esercizio che mira a mettere sotto accusa il potere. Il modello del processo, fuoriuscendo dall’ambito giudiziario, si è diffuso in tutta la società. L’atteggiamento accusatorio una volta era al centro del ruolo dell’opposizione parlamentare, col tempo però si è disseminato in tutta società, diventando un patrimonio collettivo».

Opponendosi al palazzo, la società civile sceglie a volte forme che alimentano l’antipolitica. Non è un rischio?

«Effettivamente è un rischio oggi assai diffuso. Le attività che chiamo controdemocratiche hanno sempre un carattere ambiguo. Se da un lato, infatti, queste possono essere utili a rafforzare la democrazia, stimolandola positivamente; dall’altro, possono anche indebolirla, alimentando l’antipolitica. La controdemocrazia positiva sottomette il potere a prove che lo costringano a realizzare meglio la sua missione al servizio della società. La vigilanza e la critica creano infatti vincoli virtuosi. La controdemocrazia negativa invece scava un solco sempre più profondo tra il potere e la società, allargando la distanza tra i cittadini e i politici. Il paradosso dell’antipolitica è che rende il potere sempre più distante e quindi intoccabile. La sua critica radicale non produce un’appropriazione sociale, ma una situazione in cui i cittadini sono sempre più espropriati dei procedimenti democratici. Nasce da qui quel populismo "dal basso", le cui forme sono diverse dal populismo tradizionale del XIX secolo».

Questa ambivalenza della controdemocrazia è una novità dei nostri giorni?

«No, la sua ambiguità era già evidente durante la rivoluzione francese. A quei tempi, il grande teorico della sorveglianza del potere è Condorcet, per il quale chi governa deve essere giudicato di continuo. Per lui, non esiste un potere buono in sé solo perché è stato eletto democraticamente. La democrazia esiste solo nell’interazione continua tra le istituzioni che governano e le procedure che ne regolano e ne controllano le attività. Accanto a Condorcet, però, agisce Marat, l’amico del popolo, il quale denigra di continuo la politica, trasformando coloro che governano in un’incarnazione del male da cui la società non potrà mai aspettarsi nulla di buono».

In Italia, il populismo tradizionale e quello nato dalla controdemocrazia sembrano oggi coesistere...

«Quando queste due forme di populismo si sovrappongono, si rischia d’innescare un pericoloso meccanismo di disgregazione del tessuto democratico. La democrazia dovrebbe essere un movimento di appropriazione sociale delle decisioni collettive, il populismo però espropria sempre il popolo di tali decisioni. Spesso chi critica i partiti ritiene che la società civile possa essere autosufficiente, ma è un’illusione pensare che la democrazia possa ridursi alla sola società civile. La democrazia è sempre un faccia a faccia tra governo e società, tra decisioni e consenso».

Nel suo nuovo libro, La légitimité démocratique, lei sostiene che il suffragio universale non basta più a legittimare la democrazia. Quali sono le altre forme di legittimazione democratica?

«In passato - in un contesto sociale, economico e ideologico più stabile - era più facile immaginare la continuità tra il voto e le politiche che avrebbero fatto seguito. Oggi le elezioni sono diventate un semplice processo di nomina che anticipa sempre meno le scelte a venire. Una volta si votava per un progetto, oggi per un uomo. Di conseguenza, il suffragio universale procura una legittimità solo strumentale, che è certo molto importante - perché alla fine la verità aritmetica è quella che decide - ma non più autosufficiente. E’ una legittimità che deve quindi continuamente essere messa alla prova e trovare l’appoggio di altre forme di legittimità».

In che modo?

«Un processo di legittimazione del potere è quello prodotto dall’imparzialità garantita dalle autorità indipendenti che vigilano per evitare che alcuni si approprino delle istituzioni in maniera partigiana. C’è poi la legittimazione derivata dalle corti costituzionali che garantiscono l’uguaglianza dei diritti e proteggono la democrazia dal capriccio dell’istante. Infine, c’è una forma di legittimazione che nasce dalla vicinanza di chi governa ai cittadini, i quali chiedono al governo di rispettare la società e di ascoltarne le sofferenze. Se in passato le democrazie hanno posto l’accento soprattutto sulle istituzioni, oggi si torna a valorizzare i comportamenti. Abbiamo bisogno di una democrazia dei comportamenti. E questo è un segno della trasformazione e dell’allargamento della concezione della democrazia».

Le diverse figure e istituzioni della realtà democratica sono date una volta per sempre?

«No, la democrazia non è mai data una volta per sempre. Essa deve essere di continuo sottoposta a un processo di appropriazione, grazie alle attività della società civile, alle istituzioni e all’interazione permanente tra potere e società. Bisogna appropriarsi di continuo della democrazia. Tocqueville pensava che la democrazia semplificasse sempre di più la vita politica, in realtà avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. Ma questa è la condizione per impedire che un qualche interesse particolare la confischi a suo vantaggio».

«Un anniversario alquanto ipocrita, senza un bilancio serio dello stato in cui i diritti versano e senza un'analisi vera del perché siamo a questo punto». Così Salvatore Senese, giurista, presidente del Tribunale permanente dei popoli, intellettuale da anni impegnato sulla frontiera della realizzazione del programma della Dichiarazione universale dei diritti umani stilata nel '48. Un bilancio serio e un'analisi vera, del resto, comporterebbero una rivisitazione della lunga storia, tutt'altro che lineare e progressiva, dei diritti nel mondo, fra proclamazioni formali, resistenze e contraddizioni reali. Una storia intrecciata a doppio filo con quella dei rapporti fra l'Occidente e il resto del mondo, e, per gli ultimi decenni, con le dinamiche della globalizzazione e le loro conseguenze sulle relazioni e il diritto internazionali. Dunque cominciamo proprio da qui.

Qualche giorno fa, in un'intervista che ha suscitato non poche polemiche, il ministro degli esteri francese Bernard Kouchner ha celebrato il sessantesimo della Dichiarazione dei diritti umani sostenendo che fra il dover essere della difesa dei diritti e il realismo della politica estera c'è una "contraddizione permanente". A più d'uno è parsa una rinuncia a risolvere una tensione che effettivamente attraversa tutta la storia dei diritti umani ma che andrebbe sciolta, non data per strutturale. Qualcuno, ad esempio Marco Pannella ha visto nella posizione di Kouchner una regressione da una visione transnazionale dei diritti al punto di vista dello stato nazionale, francese in questo caso. Tu che ne pensi?

Questa contraddizione ha costituito il contrassegno della dottrina sui diritti dalla Rivoluzione francese alla Carta dell'Onu. Tocqueville, grande sostenitore dei diritti all'interno del suolo francese, arrivò a teorizzarla apertamente durante la guerra per la conquista dell'Algeria, contestando «coloro che trovano disdicevole che si brucino i granai e si uccidano i bambini», atti che lui considerava «durissime necessità» per debellare gli arabi e realizzare la missione civilizzatrice della Francia all'estero. Era appunto la teorizzazione che politica interna e politica estera sono rette da due principi diversi. Ma è giusto questo il punto che entra in crisi con la seconda guerra mondiale e che viene smontata dai lavori per la Carta dell'Onu, che nel 1945 afferma l'universalità dei diritti facendo riferimento a ciascun essere umano nella sua singolarità e universalità. Dunque sì, la posizione di Kouchner ha un suono pesantemente regressivo.

Però negli ultimi due decenni questa contraddizione raddoppia. Da un lato si continuano a fare guerre, o politica estera non guerreggiata, calpestando i diritti o non sanzionando gli stati che li calpestano. Dall'altra parte, sulla base del diritto di ingerenza, spuntano le guerre fatte in nome dei diritti. E' la storia che comincia con la guerra del Golfo del '91, prosegue con la guerra in Kosovo e continua con le guerre in Afghanistan e in Iraq, che vengono legittimate non solo come guerre contro il terrorismo ma anche come guerre per i diritti delle donne contro il patriarcato islamico e per il ripristino dei diritti violati da Saddam Hussein.

La svolta, o meglio il rovesciamento, degli anni '90 va inquadrata nel terremoto indotto dalla globalizzazione. Nei quattro decenni precedenti, dalla promulgazione della Carta dell'Onu e della Dichiarazione dei diritti fino alla caduta del Muro di Berlino, non è che il cammino dei diritti fosse stato lineare: contro la forza del principio normativo c'erano resistenze soggettive, difficoltà, contraddizioni. Ma il consenso al principio e la spinta per l'effettività dei diritti effettivi crescevano via via che il colonialismo finiva e a tutela dei diritti venivano create nuove istituzioni, fino al Tribunale penale internazionale nel '98). E se il principio veniva tradito, lo si faceva con la cattiva coscienza di essere dalla parte del torto. Negli anni '90 invece accadono due cose. In primo luogo cade il tabu della guerra, che stava a fondamento di tutta la filosofia delle due Carte del '45 e del '48: quel «mai più guerra, mai più Aushwitz» era la condizione di partenza per la costruzione di un mondo di libertà, uguaglianza e solidarietà. Ed è con la caduta di quel tabu che il principio di ingerenza diventa autorizzazione all'intervento armato, come accade appunto per la guerra del Golfo, di cui si disse che non era una guerra dell'Onu ma appunto autorizzata dall'Onu. Da allora in poi, cresce il paradosso delle guerre per i diritti ma contro il diritto, vale a dire contro il diritto internazionale e il suo fondamento pacifista. In secondo luogo, con il trionfo del modello occidentale neoliberista si verifica un cambiamento culturale che mina alla radice l'edificio della Carta e della Dichiarazione: il principio di libertà viene a coincidere con la libertà dell' homo oeconomicus e viene sganciato dai principi di uguaglianza e solidarietà. E diventa la base di legittimazione delle guerre «umanitarie», fatte per esportare con la forza quel modello democratico-liberista, guerre che mietono più vittime di quelle causate dalle violazioni a cui dovrebbero porre rimedio.

Dicevi prima che fra gli anni '50 e gli '80 il principio normativo dei diritti si afferma e il consenso cresce. Però non erano rose e fiori neanche allora. Oltre alla storia tormentata della decolonizzazione, prendiamo i rapporti fra i due blocchi: durante la Guerra fredda c'è stata anche una piegatura molto americana, ideologica e strumentale, della parola d'ordine dei diritti contro il totalitarismo sovietico. Nel bene e nel male, voglio dire: basta andare a visitare il museo del Check Point Charlie a Berlino per vedere questa ambivalenza.

E' vero, ma il quadro complessivo era migliore di oggi. Contro questa piegatura c'era il contraltare dei diritti collettivi e del diritto all'autodeterminazione dei popoli. E con l'eccezione delle guerre di liberazione il tabu della guerra vigeva e reggeva. Nessuno, nell'un campo e nell'altro, osava proclamare che per affermare o difendere i propri valori, per universali che si volessero, fosse lecito fare la guerra.

Eppure la globalizzazione avrebbe potuto, e dovuto, lavorare a favore dell'universalismo dei diritti. Perché invece ha lavorato contro? Un problema riguarda certamente la forma della sovranità: la storia dei diritti e della loro esigibilità è legata a doppio filo alla storia dello stato-nazione, ma con la globalizzazione la sovranità nazionale va in crisi, senza che emergano istituzioni sovranazionali all'altezza del nuovo mondo...E non è un caso che molte violazioni dei diritti umani, penso ai migranti, avvengano oggi ai confini degli stati-nazione, dove la forma della sovranità è più incerta e porosa.

Direi di più: lo stato nazionale va in crisi ed emerge un potere trasversale svincolato dal diritto, che obbedisce solo alla logica liberista di cui sopra, e rifiuta di sottostare a quelle istituzioni che pure a tutela dei diritti esistono. Vale per tutti l'esempio del rifiuto degli Stati uniti e della Cina di sottostare al Tribunale penale internazionale - mi auguro che Obama dia rapidamente un segnale di cambiamento. Quanto ai migranti, in molte Costituzioni, compresa quella italiana, e nel diritto internazionale esistono le norme sul diritto d'asilo, che regolano quantomeno l'accoglienza di chiunque si sposti perché nel suo paese rischia che is uoi diritti vengano violati. Il problema è che gli strumenti d'attuazione di questa norma sono assai carenti e difettosi.

Il secondo problema riguarda i conflitti culturali che la globalizzazione ha portato in primo piano. Fa parte di questi conflitti il fatto che non tutto il mondo condivide la logica dei diritti, che nasce su una base culturale occidentale e ne resta marcata. Per cui le battaglie per i diritti assumono spesso una valenza impositiva invece che emancipativa, o forzatamente emancipativa, come si vede bene da molti casi che riguardano le donne e una visione marcatamente occidentale della libertà femminile. Esempio classico, la legge sul velo in Francia - per non tornare alle guerre giustificate dai colpi di coda del patriarcato occidentale in base alla liberazione delle donne dal patriarcato islamico.

L'universalismo nasce con una marcatura occidentale, ma questa marcatura cambia nel corso del tempo. L'universalismo che ispirava la Dichiarazione del '48 era un universalismo che si voleva aperto a tutti, come dimostrò il dibattito in seno all'Unesco, e presupponeva un dialogo interculturale aperto e in progress fra le diverse culture del pianeta; e naturalmente richiedeva un'autocritica anche di certe rigidità della cultura occidentale, compreso il tratto giacobino della cultura francese che c'è dietro la legge sul velo. Oggi invece questa conversazione interculturale è sostituita dallo «scontro di civiltà». E poi insisto, un conto erano le difficoltà storiche di affermazione dell'universalismo quando almeno c'era accordo sul principio normativo, un altro conto è oggi che quell'accordo non c'è, al di là di un ossequio di facciata.

Tu sai però - ma su questo i giuristi ci sentono poco - che ci sono anche critiche di segno opposto alla grammatica dei diritti, penso a una parte del pensiero femminista ma anche degli studi postcoloniali, che sostengono in buona sostanza che la loro stessa struttura logica, imperniata sull'identità seriale e neutra dell'individuo moderno occidentale, non si presta a confrontarsi con la logica della differenza, ad esempio con la differenza sessuale e con la differenza culturale.

Non la vedo così. E' ovvio che la realizzazione dell'universalismo è un'impresa gigantesca di cui noi non vedremo il compimento, ma io continuo a ritenere che sia un'impresa inclusiva, dalla quale troppi, oggi, restano invece esclusi. E mi pare che questa delle masse dei nuovi esclusi sia oggi la cosa che ci deve allarmare di più. Il fatto è questo: mentre le condizioni materiali di esistenza sul pianeta sono migliorate, restano enormi sacche di esseri umani che vivono al di sotto della dignità umana. Non si tratta solo delle violazioni dei diritti di libertà, ma anche di quelle dei diritti alla sanità, all'istruzione, al lavoro. E' la questione a cui accennavo prima della indivisibilità dei diritti: diritti di libertà e diritti sociali o vanno assieme o assieme cadono. Lo spettro del genocidio viene periodicamente evocato per giustificare certe guerre, ma quanti genocidi si commettono semplicemente impedendo a intere popolazioni di comprarsi i medicinali?

Alcune violazioni dei diritti di libertà però sono proprio figlie della «svolta» su guerra e terrorismo degli ultimi decenni, no?

Sì: il ritorno della tortura, le renditions, e più in generale molte violazioni che si commettono in nome della sicurezza. Deve finire l'equivoco per cui certe pretese esigenze di sicurezza vanno garantite al prezzo della dignità e della libertà umana.

Che bilancio dai delle Corti internazionali istituite a difesa dei diritti?

Non esaltante, ma nemmeno liquidatorio. Il vulnus più grave resta quello che dicevo del Tribunale penale internazionale: finché gli Usa non sottoscrivono il Trattato, i loro agenti responsabili di violazioni non possono essere perseguiti. Il bilancio della Corte di Strasburgo mi pare più positivo. Ma anche in Europa, se non c'è un rilancio della cultura della solidarietà sociale l'impianto e la tutela dei diritti verranno rischiano di indebolirsi.

E in Italia?

Vale a maggior ragione lo stesso discorso. Con una notazione in più. In Italia non si riesce a istituire il reato di tortura, che dovrebbe sottrarre l'attuale «divieto di tortura» risalente al codice Rocco al regime lassista delle prescrizioni introdotto da Berlusconi. E finché non si introduce il reato di tortura, macroscopiche violazioni dei diritti umani come quelle della caserma di Bolzaneto resteranno di fatto impunite.

E' passato oltre un secolo e mezzo dalla redazione degli appunti, scritti in tedesco a Parigi dal ventiseienne Carlo Marx, su tre "quaderni", pubblicati a Berlino nel 1932 col titolo: "Manoscritti economico-filosofici del1844". I "Manoscritti" furono conosciuti in Italia subito dopo la Liberazione ed attrassero grande attenzione, anzi ebbero presto una certa celebrità. Due traduzioni parziali in italiano erano apparse nel 1947, una a Bologna a cura di Galvano Della Volpe e l'altra a Pisa a cura di Delio Cantimori; una traduzione completa a cura di Norberto Bobbio fu pubblicata da Einaudi nel 1949, seguita da un'altra traduzione di Della Volpe pubblicata nel 1950 dalle Edizioni Rinascita, con varie ristampe a cura degli Editori Riuniti ("Opere filosofiche giovanili" di Marx). Nel 1968 Bobbio pubblicò un'altra traduzione, tenendo conto delle edizioni critiche apparse nel frattempo. Delle edizioni pubblicate da Einaudi e dagli Editori Riuniti sono fortunatamente ancora disponibili varie ristampe.

I "Manoscritti" del 1844 furono uno dei libri di culto di varie generazioni di marxisti, anche perché possono essere letti sotto vari punti di vista, dal filosofo, dallo studioso dell'evoluzione del pensiero di Marx e infine dai militanti della contestazione ecologica. E' da quest'ultimo punto di vista che voglio qui parlarne, anche nel quadro di un dibattito, mai placato, sulla compatibilità fra l'"ecologia" e il pensiero comunista e marxiano.

Nella breve primavera che va dal 1968 al 1973, ci fu un vivace scontro fra i comunisti e la contestazione ecologica, accusata di origine e posizioni "borghesi". E' vero che la denuncia del degrado ambientale, della speculazione, dell'inquinamento, è arrivata in Italia sull'onda della contestazione e della protesta giovanile nata in America, e che ha trovato ascolto presso insegnanti, intellettuali, studenti - borghesi, se vogliamo così chiamarli - attenti alla salvaguardia dei beni e dei valori collettivi, critici nei confronti di un mondo imprenditoriale e affaristico che aveva costruito un miracolo economico sull'assalto alle città, sulla distruzione del verde, sull'avvelenamento dei fiumi e dell'aria.

Da una parte i "padroni" furono abili nel denunciare le proposte di cambiamento - una maniera diversa di produrre e consumare - avanzate dalla contestazione ecologica, come ubbie di una classe media ormai sazia nei suoi bisogni più importanti, che andava propagandando nuovi valori come i diritti degli animali, il diritto a respirare aria pulita, la salvaguardia del verde e dei monumenti, chiedendo interventi che avrebbero rallentato o frenato "il progresso", creato disoccupazione e che ben mostravano perciò il loro carattere anti-operaio.

Dall'altra parte anche la sinistra se la prese con la contestazione ecologica borghese: l'"ecologia delle contesse". Solo una grande rivoluzione proletaria, non le assemblee di Italia Nostra o del WWF, avrebbero potuto rovesciare i rapporti di produzione, avrebbero potuto portare al soddisfacimento dei bisogni di tutti senza inquinamenti.

Fu un periodo di grandi contraddizioni, la cui storia è ancora tutta da scrivere (1): un periodo in cui una parte del mondo operaio e della sinistra anticipò lotte, soprattutto per la salute in fabbrica, che erano "ecologiche" anche se non venivano chiamate così; in cui il partito comunista fu stretto fra posizioni lungimiranti e un mito della produzione industriale - sprezzantemente chiamato, dagli avversari, "industrialismo" - nel quale la difesa dell'ambiente era un bene secondario rispetto all'occupazione; in cui alcuni, a sinistra, riconoscevano che l'"ecologia è rossa" in quanto una lotta per l'ecologia avrebbe potuto accelerare la lotta contro l'arroganza del potere economico e politico dominante; in cui molti rappresentanti dell'ecologia borghese credevano di riconoscere la causa della scarsa attenzione ambientalista dei comunisti e degli operai nel fatto che Marx ed Engels, a cui essi si riferivano, non avevano capito niente dell'ecologia e dei nuovi diritti di cui l'ecologia si faceva portatrice.

Quest'ultima obiezione derivava dall'ignoranza del pensiero marxiano, come apparve quando, nel novembre 1971, il Partito Comunista Italiano organizzò a Frattocchie, vicino Roma, sul tema "Uomo natura società", un celebre seminario nel corso del quale fu fatto uno sforzo per "rileggere" le opere di Marx ed Engels alla luce della nuova ondata di contestazione. Gli atti del seminario furono pubblicati dagli Editori Riuniti e sono, sfortunatamente, ormai, una rarità bibliografica.

Erano i tempi in cui c'era, fra l'altro, una grande attenzione proprio per gli scritti del "giovane Marx" e per i "Manoscritti"; una rilettura delle opere di Marx ed Engels mostrò che esse anticipavano profeticamente molti dei temi della contestazione ecologica. E del resto non c'era niente da meravigliarsi. Marx (1818-1883) ed Engels (1820-1895) vissero in un'epoca straordinaria, attraversata da grandi rivoluzioni politiche e culturali, e la vissero nel cuore stesso di tali rivoluzioni, fra Germania, Francia e Inghilterra.

Marx ed Engels furono contemporanei di Liebig (1803-1873), di Darwin (1809-1882), dello stesso Haeckel (1834-1919), l'"inventore" della parola "ecologia"; furono contemporanei di Dickens (1812-1870) e di Owen (1771-1858); videro e denunciarono le condizioni di lavoro degli operai, le frodi alimentari, il degrado urbano e tutte le distorsioni violente nei rapporti fra gli esseri umani e la natura e l'ambiente circostante, e fra gli esseri umani, provocati dal modo capitalistico di produzione.

Nel 1845, l'anno successivo alla redazione dei "Manoscritti" di Marx, Engels aveva scritto il libro sulla "Situazione della classe operaia in Inghilterra", la drammatica descrizione della città industriale e delle sue condizioni di vita, della Coketown illustrata da Dickens nell'"Oliver Twist" del 1837-38, in "Tempi difficili" del 1854. Come è ben noto, il tema dell'alienazione degli esseri umani, dei lavoratori, dal loro lavoro e dalla natura, pervade tutti e tre i "Manoscritti".

Il primo tratta il salario, il profitto del capitale, la rendita fondiaria, il lavoro estraniato, con quel lungo brano che spiega come, nella società capitalistica, il lavoratore sia espropriato della sua attività. Come conseguenza dell'estraniazione dal lavoro, l'uomo viene privato anche del suo rapporto con la natura, che è il suo corpo inorganico, anzi il suo corpo stesso, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Eppure il lavoro consentirebbe all'uomo di produrre in modo universale, ad un livello superiore a quello del lavoro degli altri animali.

"L'animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l'uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza."

Questo passo è uno dei pochi in cui Marx si lascia andare a considerare la bellezza come valore e frutto del lavoro umano, e che anticipa quello, ben più noto, dell'"ape e l'architetto" che si trova nel quinto capitolo del primo libro del "Capitale".

Il rapporto fra il lavoratore e il prodotto del suo lavoro è annullato nella società capitalistica che rende l'uomo estraneo non solo alla sua attività ma anche alla base stessa naturale della vita e del lavoro, che estranea ogni uomo dagli altri uomini, distruggendo la collaborazione e la solidarietà di classe, elevando a legge la lotta dell'esistenza e la sopravvivenza del più forte, un tema su cui Spencer (1820-1903) avrebbe scritto di lì a poco, proprio negli stessi anni in cui sarebbe uscito il "Capitale".

L'origine, la fonte, e, nello stesso tempo, il prodotto, il risultato e la conseguenza necessaria del lavoro alienato è la proprietà privata, il cui carattere e ruolo sono ripresi nel secondo, il più breve, dei "Manoscritti". Come la proprietà privata condizioni non solo il lavoro, ma anche i bisogni umani è descritto in modo suggestivo nel terzo dei "Manoscritti", di cui riproduco alcuni passi nella traduzione di Norberto Bobbio (i corsivi sono nel testo).

"Abbiamo visto quale significato abbia, facendo l'ipotesi del socialismo, la ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione quanto anche un nuovo oggetto di produzione... Nell'ambito della proprietà privata il significato opposto. Ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell'altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico.

Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l'uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell'essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall'economia politica, il solo bisogno che essa produce....

Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l'estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava - schiava ingegnosa e sempre calcolatrice –

- di appetiti disumani, raffinati, innaturali, e immaginari.... Il produttore, al fine di carpire qualche po' di denaro e di cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo cristianamente amato, si adatta ai più abietti capricci dei propri simili, fa la parte di mezzano tra i propri simili e i loro bisogni, eccita in loro appetiti morbosi, spia ogni loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi buoni uffici..."

Lo stile e i termini sono quelli di uno scrittore di un secolo e mezzo fa, ma l'immagine che viene data della società corrisponde perfettamente a quella che abbiamo sotto gli occhi anche oggi: vengono inventate merci non per soddisfare bisogni, ma per asservire ogni persona a nuovi acquisti; vengono creati con le più raffinate tecniche, nuovi bisogni per mettere in concorrenza gli esseri umani fra loro, fin dalla più tenera età, colpendo in questo maggiormente le classi meno abbienti che sono costrette a cercare più guadagni, leciti e illeciti, per ridursi a sempre nuove dipendenze.

Nel terzo "Manoscritto" seguono poi alcuni passi sulla città e sulle abitazioni, che spiegano bene come la conquista della casa non solo debba essere pagata, ma pagata a caro prezzo alla speculazione che assicura case in zone affollate, con l'aria e le acque contaminate; il tema del degrado urbano si ritroverà tante volte nelle opere di Marx e di Engels, fino all'"AntiDühring" di Engels del 1878.

"Lo stesso bisogno dell'aria aperta - continua il terzo dei "Manoscritti del 1844" - cessa di essere un bisogno nell'operaio; l'uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l'operaio. La luce, l'aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l'uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell'uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l'operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il complesso e innaturale abbandono, la natura putrefatta."

Dopo aver esaminato come l'economia politica governa ed orienta i bisogni umani al servizio del guadagno e del profitto dei capitalisti, Marx parla dell'organizzazione della produzione.

"Il senso che la produzione ha relativamente ai ricchi, si mostra manifestamente nel senso che essa ha per i poveri: verso l'alto la sua manifestazione è sempre raffinata, dissimulata, ambigua, pura e semplice apparenza; verso il basso è grossolana, scoperta, leale, vera e propria realtà. Il bisogno rozzo dell'operaio è una fonte di guadagno assai maggiore che il bisogno raffinato del ricco. Le abitazioni nel sottosuolo di Londra rendono ai loro padroni più che i palazzi, cioè rappresentano per loro una ricchezza maggiore, e quindi per usare il linguaggio dell'economia politica, una maggiore ricchezza sociale. E così, come l'industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza; sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell'autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno. Le bettole inglesi sono perciò una rappresentazione simbolica della proprietà privata. Il loro lusso mostra il vero rapporto del lusso e della ricchezza dell'industria con l'uomo. E sono quindi anche a ragione i soli divertimenti domenicali del popolo trattati per lo meno con mitezza dalla polizia inglese."

Sono tutti temi che Marx riprenderà molte volte nelle sue opere, ma che qui mi sembra vengano formulate con un'ironia e un vigore che non sempre si trovano nelle opere più mature. C'è una soluzione? Il giovane Marx l'individua nel "comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell'uomo, e quindi come reale appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo; perciò come ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come essere sociale, cioè umano. Questo comunismo ... è la vera risoluzione dell'antagonismo fra la natura e l'uomo, fra l'uomo e l'uomo, ... tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie... L'essenza umana della natura esiste soltanto per l'uomo sociale; infatti soltanto qui la natura esiste per l'uomo come vincolo con l'uomo, come esistenza di lui per l'altro e dell'altro per lui, soltanto qui essa esiste come fondamento della sua propria esistenza umana... Dunque la società è l'unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell'uomo con la natura, la vera risurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell'uomo e l'umanismo compiuto della natura."

Le analisi degli ultimi decenni hanno mostrato bene che la radice della crisi ecologica sta proprio nello sfruttamento privato della natura, bene collettivo per eccellenza, per ricavarne quantità sempre maggiori di merci, progettate e propagandate non per soddisfare bisogni umani, ma per costringere sempre più vaste fasce della popolazione umana a vendere il proprio lavoro per ottenere il denaro necessario per acquistare l'"essere estraneo" di cui parla Marx.

Proprio alla nostra epoca è toccata la sorte di vedere attuata l'anticipazione di Marx, grazie all'asservimento di uno straordinario mezzo di comunicazione come la televisione - un mezzo che avrebbe potuto essere liberatorio, strumento di diffusione di conoscenze e di solidarietà - alla pubblicità e alla vendita delle merci, alla moltiplicazione dei bisogni, alla creazione di bisogni inutili sempre meno duraturi.

E non destano meraviglia le lotte per la conquista di una maggiore fetta del potere televisivo, il più efficace strumento che oggi consente di incantare sempre nuovi acquirenti di merci, capace di creare nuovi miti e modelli da scimmiottare moltiplicando le merci inutili a scapito della conoscenza, della attitudine critica, dei rapporti sociali, tarpando le ali a qualsiasi lotta per l'emancipazione.

Si pensi alla "perfezione" delle tecniche per produrre rumore che sovrasta le parole, alle chat lines in cui vengono scambiate banalità per indurre ad evitare di parlare (chat lines immaginate già nel 1951 da Ray Bradbury in "Fahrenheit 451", come strumento inventato dal "Governo" per impedire la lettura, per impedire di pensare "ai fiori dei campi, ai gigli sereni").

E poiché la crisi ecologica è proprio il risultato dell'espansione dei bisogni artificiali e dei consumi, non c'è da meravigliarsi che i governi di destra rimuovano i controlli e i divieti sui rifiuti, sull'inquinamento, sulla speculazione sui suoli, su qualsiasi cosa che possa rallentare i consumi e gli sprechi.

La rilettura dei "Manoscritti" marxiani di un secolo e mezzo fa potrebbe fornire anche qualche nuova idea sulle linee di lotta di un efficace movimento ambientalista. Certo: è possibile sporcare un po' meno il mare costruendo depuratori, o smaltire un po' di rifiuti con qualche inceneritore, o salvare qualche milione di uccelli disturbando i cacciatori, e ciascuna di queste azioni è in se lodevole, anche se alcune si limitano a spostare la violenza alla natura da una zona all'altra, dall'aria al suolo, dai paesi ricchi a quelli poveri.

Un diverso rapporto con la natura si può cercare soltanto in una critica profonda dei rapporti di proprietà, di produzione, di lavoro, di uso della scienza e della tecnica. Una rivoluzione culturale tutta da inventare e di cui non abbiamo finora modelli a cui riferirci. Le poche società che si spacciavano come socialiste e comuniste sono state spesso segnate da catastrofi ecologiche e da violenze umane perché, in realtà, esse operavano secondo le stesse regole ---dell'espansione della produzione e del potere --- "copiate" dalle società capitalistiche, e praticavano qualsiasi cosa fuorché quel comunismo di cui parla Marx.

La grande svolta a destra dei paesi vetero-capitalistici e di quelli neo-capitalistici, sorti dalle ceneri del falso comunismo e dall'avvio all'emancipazione del Sud del mondo, sta rapidamente aggravando la crisi delle risorse naturali, la pressione demografica, la carica di egoismo, violenza e competizione che mette popoli contro popoli, persone contro persone.

Forse un giorno, forse presto, la situazione ambientale dei terrestri sarà così grave da indurli a ripensare al proprio futuro in termini completamente nuovi e diversi dagli attuali: forse la rilettura di Marx, un giorno, ci aiuterà a ricordare e capire le radici della crisi e ci suggerirà qualche soluzione. E speriamo che non sia necessario aspettare altri 150 anni !

(1) Per alcune considerazioni sui problemi storici ancora aperti e da affrontare si può vedere, per esempio: G. Nebbia, Breve storia della contestazione ecologica, Quaderni di Storia Ecologica (Milano), n. 4, 19-70 (giugno 1994)

(2) Fra i molti scritti di autori italiani che hanno analizzato il pensiero "ecologico" di Marx ed Engels vorrei ricordare i seguenti: (a) G. Prestipino, Natura e società, Roma, Editori Riuniti, 1973; (b) G. Mazzetti, Politica ed ecologia [1973], Ecologia Acqua Aria Suolo, n, 4, 268-287 (maggio 1975); n. 5, 333-347 (giugno 1975); (c) T. Bagarolo, Marxismo ed ecologia, Milano, Nuove edizioni internazionali, 1989; (d) F. Dubla, Ecologia sociale, capitalismo reale, comunismo possibile, Quaderni del Centro Gramsci, Leporano (Taranto), 1993; (e) M. Nobile, Merce-natura ed ecosocialismo", Roma, Coop erre-emme, 1993.

La rivista CNS Ecologia politica è ora on line, qui

La ragione populista del filosofo marxista Ernesto Laclau e Populismo globale del giornalista italiano Guido Caldiron. Due saggi per aiutare a comprendere una forma politica che ha acquisto forza nella crisi della democrazia e nei punti «alti» dello sviluppo capitalista

Il populismo, ovvero il nodo scorsoio della democrazia contemporanea. A scioglierlo ci provano in molti, da chi lo ritiene un residuo del passato che sarà rimosso dopo avere adeguatamente riformato le istituzioni politiche in termini di semplificazione e di centralità del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario. Oppure, come manifestazione politica di quei paesi poco avvezzi alla democrazia. Letture tuttavia non convincenti.

In primo luogo, perché il populismo mostra tutta la sua radicalità politica non nei paesi dove lo sviluppo economico è più lento, come avveniva in passato in America Latina o in alcune realtà asiatiche, dove partiti e leader esplicitamente populisti facevano le loro fortune. La fine del Novecento ha infatti visto forze populiste conquistare sempre più consensi, arrivando a condizionare la vita politica se non a governare nazioni come la Francia, l'Italia, l'Olanda, l'Austria, gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin.

Dunque, un fenomeno politico che non è certo un'ingombrante eredità gettata con volgarità sul presente. Piuttosto va considerato come la forma politica che si misura con i problemi posti dalla crisi del neoliberismo e della globalizzazione. Insomma, una risposta innovativa ai conflitti sociali nei cosiddetti «punti alti» dello sviluppo capitalismo: è questa, infatti, la tesi di studiosi e leader politici affascinati dal discorso populisti. Per sgomberare il campo da equivoci va subito detto che il termine «innovativo» non esprime qui un giudizio, ma solo la constatazione che i partiti e i leader populisti riescono a elaborare analisi e proposte politiche più efficaci di altre, sfruttando al meglio i media e le forme di mobilitazione - dalla vecchia radio all'anziana televisione, alla caotica Internet, dagli sms al fascinoso volantinaggio - preposte alla formazione dell'opinione pubblica.

Le fragili identità

A confrontarsi con questo rovello sono due recenti libri che, sebbene siano nati in ambiti disciplinari e con prospettive diverse, sono tra loro complementari. Si tratta di Populismo globale (Manifestolibri, pp. 191, euro 18) e La ragione populista (Laterza, pp. 300, euro 20). Il primo è di Guido Caldiron, un giornalista e studioso da sempre attento alle evoluzioni della destra radicale europea. Il secondo è del filosofo argentino Ernesto Laclau, che ha dedicato molte opere alla comprensione di come funziona la democrazia sin da quando è salito in cattedra a Oxford su segnalazione dello storico Eric Hobsbawm dopo aver precipitosamente abbandonato il suo paese perché minacciato di morte dai gruppi paramilitari di estrema destra.

La complementarietà dei due saggi è data dal fatto che là dove finisce Caldoron inizia l'analisi di Laclau. Populismo globale è, infatti, è una documentata analisi sull'ascesa dei partiti e leader populisti, mentre La ragione populista definisce le coordinate filosofiche entro le quali si muove la cultura politica populista. Caldiron ne cerca le radici, Laclau evidenzia come l'albero è nel frattempo cresciuto. Entrambi, però, iscrivono il populismo nella sfera politica, cancellandone le basi materiali. Infatti, né Caldiron, né Laclau mettono mai in relazione il fatto che il populismo cresce laddove è presente una composizione sociale della forza-lavoro estremamente articolata e dove la precarietà è la condizione necessaria alla messa al lavoro del sapere, il linguaggio, la conoscenza, la capacità di sviluppare una «autonoma» cooperazione sociale. In altri termini, il populismo ha fortuna nei punti alti dello sviluppo capitalistico.

Guido Caldiron parte dall'elezione a presidente di Nicolas Sarkozy e dalla vittoria elettorale del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi. Entrambi sono leader populisti, che hanno saputo intercettare gli umori profondi dei rispettivi popoli, articolandoli in un programma politico con al centro la figura dell'individuo proprietario. Inoltre, tanto Sarkozy che Berlusconi hanno saputo creare un clima mediatico che ha posto con forza nell'agenda politica temi e argomenti che componevano il loro programma politico: l'insicurezza sociale, intesa come paura di una messa in discussione del proprio stile di vita; la presenza di nemici interni alla nazione - in Francia la cultura del Sessantotto e la racaille delle periferia, in Italia uno stato-vampiro e i migranti -. Per Caldiron è tuttavia importante comprendere come i temi dell'agenda populista siano stati quelli dei gruppi di estrema destra per i venti anni che hanno preceduto la fine del Novecento.

In nome del futuro

Ciò che colpisce nella ricostruzione di Caldiron dell'ascesa di Nicolas Sarkozy è la traduzione dei temi propri della «destra radicale» in una politica «per bene» fatta dal presidente francese e di come siano stati sapientemente usati all'interno della crisi dei partiti moderati e della destra francese alimentata dalla globalizzazione neoliberista per un ricambio generazionale e culturale di quegli stessi partiti. Con una novità, che rende il populismo contemporaneo radicalmente diverso da quello Novecentesco: le richieste di ordine e disciplina non vengono motivate in nome di un'armonica comunità originaria minacciata dalla modernità, bensì in nome del futuro.

Il popolo evocato da Sarkozy e da Berlusconi ha fatto esperienza della globalizzazione. È il popolo dove i singoli sono rappresentati come tanti imprenditori di se stessi proprietari di un capitale intellettuale e sociale che deve poter essere sfruttato al meglio senza i limiti posti dallo stato sociale. Della triade della rivoluzione francese preferisce infatti la libertà all'eguaglianza e alla fraternità: una libertà, si badi bene, che ha nel il mercato la sua unità di misura. Per questo motivo chi lo vuole rappresentare parla del futuro invece che del passato. A sostegno di questa lettura Caldiron cita il caso di Pim Fortuyn, il leader della destra populista olandese ucciso alcuni anni fa che non ha mai nascosto la sua omosessualità e che ha invocato la tutela dei diritti umani contro gli «indigeni» musulmani presenti o nati in Olanda. In questa particolare accezione, i diritti umani sono il perimetro di una civiltà che non tollera nessuna diversità. Così, l'accesso alla cittadinanza è quindi necessariamente selettivo.

Assistiamo così a un populismo che impugna l'arma dei diritti umani per tenere fuori i nemici dell'Occidente: per i nemici interni, invece, la «tolleranza zero» non è solo una politica dell'ordine pubblico, ma un marchio di fabbrica che non può essere contraffatto. Tesi presenti, ad esempio, nelle prese di posizione di intellettuali come Alain Finkielkraut, Christopher Hitchens, André Glucksmann che, seppur con un passato di sinistra, sono diventati i più strenui difensori della superiorità occidentale. Un ordine del discorso dilagante dopo l'attacco alle Twin Towers, dove la presidenza di George W. Bush ha fatto esplicitamente riferimento allo scontro di civiltà di Samuel Phillips Huntington per legittimare un politica interna decisamente populista.

Se si rimane però all'atlante della galassia populista proposto da Guido Caldiron si rimane colpiti più dalle differenze che dalle ripetizioni che si incontrano mettendo a confronto l'Europa, gli Stati Uniti, la Russia di Putin o l'Iran del presidente Mahmud Ahmadinejad. E rischia di smarrirsi in esso. Ma è proprio questa grande capacità di adattamento a realtà diverse che contraddistingue il populismo contemporaneo da quello del passato.

Il problema è dunque svelare la visione populista del Politico. Per dirla con le parole del filosofo Ernesto Laclau occorre stabilire la sua ontologia, perché il populismo «costruisce» il popolo, attraverso l'evocazione della sua assenza.

Mutanti e flessibili

Il populismo dunque come paradigma del «Politico», ma anche come un modo di organizzare uno Stato che ha preso congedo sia dalla democrazia rappresentativa che dalle alternative ad essa. È infatti uno stato, quello invocato dai populisti contemporanei, che eleva sì un leader al di sopra degli interessi parziali che confliggono nella società, ma stabilisce l'equivalenza, quindi la commensurabilità di un interesse economico, di uno stile di vita con un altro. Non è un caso che Ernesto Laclau utilizzi in maniera innovativa il concetto gramsciano di egemonia per spiegare la costruzione di un significante che abbia la capacità di rappresentare, superandoli, gli antagonismi e le differenze della realtà sociale.

Il popolo è un significante vuoto che va riempito, stabilendo appunto i criteri che stabiliscono la coesistenza e la commensurabilità tra le tante parzialità che compongono la realtà sociale. I populisti sono i traduttori dei diversi idiomi sociali in un linguaggio comune, quello del popolo.

È noto che nelle pratiche politiche populiste c'è il popolo è rappresentato come una «comunità organica di simili» e che occorre cancellare le divisioni introdotte dagli elementi estranei a quella stessa comunità. I populisti, insomma, sono sempre a caccia di nemici interni. Il discorso populista contemporaneo invece non cancella la eterogeneità e le differenze anche di classe, ma le riconduce appunto alla loro parzialità, che possono esistere solo se espresse in un significante universale messo a punto in una data contingenza. In questo testo di Laclau sono forti gli echi degli studi di filosofi come Jacques Ranciere e Alain Badiou quando si sono confrontati con l'impossibilità di pensare la politica al di fuori di una contingenza. Quella che vede la presa di parola di chi è dotato di una facoltà di linguaggio negata dai dominanti, come sostiene Ranciere; o laddove, secondo Badiou quando scrive sulla Comune di Parigi, si interrompe il corso lineare della storia a causa dell'irruzione del conflitto di classe nella scena pubblica. Laclau, invece, ritiene che c'è contingenza quando l'assenza del popolo viene evocata e presentata dal discorso populista. Il populismo è quindi la forma politica che risponde alla crisi della democrazia.

Occorre quindi guardare la «bestia» in volto senza averne paura. Una bestia che non si ritirerà dalla scena pubblica con la crisi del neoliberismo. Il limite dei due libri sta, però, nella rimozione, se non nell'irrilevanza del nesso tra i laboratori della produzione e la dimensione politica. È infatti in quei laboratori che il populismo, in nome dell'individuo proprietario, altro significante universale che attiene alla ragione populista, ha compiuto la prima operazione, traducendo in termini capitalistici le istanze di libertà e di autodeterminazione espresse dalla forza-lavoro. Una traduzione che gli ha dato forza, fino a condizionare l'agenda politica non solo di una nazione, ma di tutto il capitalismo contemporaneo indipendentemente da chi esercita il potere dell'esecutivo.

Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un’associazione di idee. Se il "regime", inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è "il" o "un" fascismo; oppure, più in generale, se c’è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc. Così, una questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che non si presta all’analisi, della demonizzazione politica, funzionale all’isteria e allo scontro.

Ma "regime" è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente modo di reggere le società umane. Parliamo di "Ancien Régime", di regimi repubblicani e democratici, monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e, tra gli altri, per l’appunto, di regime fascista. Senza qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere posizione, perché l’essenziale sta nell’aggettivo.

Così, assumendo la parola nel suo significato proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di senso: da "esiste attualmente un regime" in "il regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al precedente"? Che l’Italia viva un’esperienza costituzionale, forse ancora in divenire e dall’esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l’ha preceduta: almeno di questo non c’è da dubitare. Lo pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con definizioni ora passatiste ora futuriste.

Non lo si dice ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è, o sembra, ancora quello dell’incubazione. La covata è a mezzo. L’esito non è scritto. La Costituzione del ‘48 non è abolita e, perciò, accredita l’impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l’esito. Forze potenti sono all’opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa. La Costituzione è in bilico.

Che cosa significa "costituzione in bilico"? Innanzitutto, che non si vive in una legittimità costituzionale generalmente accettata, cioè in una sola concezione della giusta costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla etica, il ressort di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo nell’Esprit des lois. Quando questo principio essenziale è in consonanza con l’esprit général di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere detronizzata. Se invece lo spirito pubblico è diviso, e dunque non esiste un esprit che possa dirsi général, questo è il momento dell’incertezza costituzionale, il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento. I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono. Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.

Non voler vedere, significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.

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Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario. Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi. Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale. Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione. Senza uguaglianza, il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione. Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest’ultima (il voto, i partiti, l’informazione, la discussione, ecc.) possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura, da fuori, nemmeno si è consapevoli.

Questi rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole invariate (libertà, società, diritti, ecc.). Possiamo constatare allora la verità di questa legge generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare dalla parola "politica": forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come suggerisce l’etimo di politéia. Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La ricomposizione dei significati e quindi l’integrità della comunicazione politica sono possibili solo nella comune tensione all’uguaglianza.

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Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell’uguaglianza.

In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell’uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge "ferrea". E’ la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l’uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell’azione politica. La costituzione - questa costituzione che assume l’uguaglianza come suo principio essenziale - è in bilico proprio su questo punto.

Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo "clandestini", quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c’è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d’interesse, per i quali, anche, non c’è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d’ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino. Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall’intervento privato, dove chi più ha, più può. Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato.

Analogamente, anche l’organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L’oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza. Così come è una conseguenza l’allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall’alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso.

E’ una conseguenza, infine, non la causa, la concentrazione di potere non solo politico ma anche economico-finanziario e cultural-mediatico. L’indipendenza relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società, è minacciata. Ma il tema delle incompatibilità, cioè del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è stato accantonato.

La causa è sempre e solo una: l’appannamento, per non dire di più, dell’uguaglianza e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita decisiva del "regime". Tutto il resto è conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici.

Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i "dispotismi asiatici", dove tutto sembrava dipendere dall’arbitrio di uno solo, kahn, califfo, satrapo, sultano, o imperatore cinese. Sempre si tratta di potere organizzato in sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più "orientale" dei signori dell’Occidente, perse il suo impero perché (dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari come con animali o piante», cioè meri oggetti di dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli, destinati a produrre guerre e sedizioni». Sarà pur vero che comportamenti di quest’ultimo genere non mancano, ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso solo al folklore.

Una famiglia modello, forte perfino di ascendenze nobiliari legate alla storia risorgimentale. Un amore modello, nato nei banchi del liceo e cresciuto nella collaborazione professionale, stesso studio in pieno centro dietro piazza delle Erbe, commercialista lui avvocata lei finché lei non decide di fare solo la mamma. Un indizio da psyco-noir, lui era rimasto orfano a sei anni di tutti e due i genitori morti in un incidente stradale, e sei anni aveva il secondo dei suoi tre figli freddati con un colpo di pistola. Due colpi ci sono voluti invece per lei, che forse ha provato a schivare il primo. Uno solo per se stesso. Dicono gli esperti, snocciolando i precedenti di analoghe stragi, che si chiama «suicidio allargato» e che può essere causato da un attacco di depressione o di paranoia persecutoria: ci si uccide portandosi appresso i propri cari, in modo che la famiglia modello resti tale anche nell'aldilà.

Altri esperti, dell'Eures, però fanno notare altre circostanze. In Italia, nei cassetti o nelle cantine delle case delle famiglie modello, ci sono dieci milioni di armi da fuoco: corte o lunghe, da caccia, da tiro a segno, da difesa, tutte legali, alcune ereditate o inservibili, molte perfettamente efficienti. E dopo l'approvazione, nel 2006, della sciagurata legge che ha ampliato il perimetro della legittima difesa, le richieste per il porto d'armi dilagano, specialmente nelle grandi città. Anche per questo gli esperti hanno una diagnosi: è la risposta alla «insicurezza percepita». La depressione e la paranoia qui non c'entrano: il mandante è lo stato, il parlamento che promulga queste leggi, i partiti che rubano voti alimentando e sfruttando la paura degli immigrati, le televisioni che ci campano e ci marciano.

Che sia la depressione, la paranoia o l'insicurezza percepita, le famiglie modello continuano a vincere l'oscar annuale in omicidio. Un omicidio su tre, una vittima ogni due giorni, 1.300 in sei anni, un aumento percentuale del dodici per cento nel 2006 rispetto al 2005: ne uccide più la famiglia che la mafia e la tanto «percepita» microcriminalità. Ne uccide più al Nord, Sodoma, che al Sud, Gomorra. Uccide preferibilmente le donne, 134 su 195 vittime nel 2006, e preferibilmente le casalinghe fra i 25 e i 54 anni, quelle stesse madri, mogli, figlie, sul cui lavoro di cura si reggono in Italia il mercato del lavoro disintegrato e il welfare smantellato. Le uccide generalmente in casa, nove volte su dieci per mano di un uomo, usando le suddette armi da fuoco ma anche più caserecci coltelli. Le donne che oggi manifestano in tutta Italia contro la violenza sulle donne conoscono e denunciano questi dati da anni, senza altra risposta che le geremiadi e le promesse di rito della giornata mondiale contro la violenza sulle donne.

Forse la strage di Verona, come quelle identiche che l'hanno preceduta e che seguiranno, non c'entra nulla con tutto questo. Forse è stata solo un attacco di depressione o di paranoia di un povero uomo. Forse invece questi attacchi di depressione e paranoia convocano una responsabilità ben più larga. È sempre la nave dei folli che traccia la rotta di una società.

Più di ogni altro prodotto dell’industria, l’automobile ha rivoluzionato oltre la nostra vita l’organizzazione del lavoro e il modo di produrre. La prima è stata trasformata dallo studio metodico dei movimenti che un lavoratore deve compiere per raggiungere la massima produttività, e dei tempi in cui deve compierli. In effetti esso ebbe inizio in un altro settore, l’industria siderurgica americana. A partire degli anni ‘80 del XIX secolo vi contribuirono un tecnico della Midvale Steel Company, Frederick W. Taylor, poi una coppia di ingegneri, Frank B. e Lilian M. Gilbreth, che lo avrebbero perfezionato utilizzando fin dall’inizio del nuovo secolo anche la nascente tecnica cinematografica. Ma fu nell’industria automobilistica che la "organizzazione scientifica del lavoro", sigla universale Osl, trovò poco dopo la sua massima diffusione. Da capofila operò la Ford.

Un’automobile è formata da migliaia di pezzi. Bisogna fabbricarli uno ad uno, quindi assemblarli in modo che alla fine il veicolo funzioni senza problemi, e si possa venderlo a un prezzo accessibile. Molto tempo dopo Gianni Agnelli avrebbe definito il costruire auto "un mestiere da giganti". Lo era già nei primi lustri del Novecento. Con un problema in più: gli operai adatti per svolgere quell’inedito tipo di lavoro non esistevano. C’erano contadini espulsi dai campi a causa dell’agricoltura meccanizzata, manovali disoccupati che avevano lavorato alle ferrovie, immigrati dai mille mestieri e dozzine di lingue diverse. La Osl era brutale, alienante perché vietava di pensare, istupidente per l’obbligo di ripetere centinaia di volte al giorno gli stessi movimenti. Però consentiva di avviare al lavoro in pochi giorni masse di persone che avrebbero avuto bisogno di mesi o anni per apprendere una professione. Consentiva anche di erogare buoni salari: negli anni ‘10 Ford cominciò a pagare gli operai 5 dollari al giorno, il doppio delle altre industrie. Non solo per amor di giustizia sociale: i dipendenti ben retribuiti potevano comprare le auto che producevano.

Anche in Europa la Osl arrivò presto nelle fabbriche automobilistiche, tramite ingegneri addestrati presso la United Steel. Con essa arrivarono anche i primi scioperi degli operai che la contestavano per la povera qualità del lavoro che imponeva, e anche perché a confronto degli Usa erano pagati poco. Risonante fu, nel 1912, lo sciopero svoltosi negli stabilimenti Renault di Billancourt, allora pulsante periferia di Parigi, oggi smemorato parco urbano, al pari del parco Citroën. In Italia una variante della Osl chiamata "sistema Bedaux" sarebbe stata introdotta alle officine Fiat del Lingotto nel 1928. Il paese e l’epoca, tuttavia, non erano propizi per le proteste operaie.

In Usa, sul finire del 1913 Henry Ford faceva compiere all’organizzazione del lavoro e al modo di produrre un altro salto storico. Aveva saputo che nell’officina di Dearborn l’impiego d’un nastro trasportatore semovente aveva ridotto i tempi di produzione d’un magnete per auto da 18 minuti a 5. Decise allora di impiegare lo stesso dispositivo a motori e carrozzerie. Nel maggio 1914 in uno stabilimento di Detroit era così avviata la prima "linea di asssemblaggio": l’operaio stava fermo sulle gambe, ma doveva compiere un determinato insieme di operazioni per montare alcuni componenti entro i minuti o i secondi che il nastro in moto gli concedeva.

Con tale innovazione i tempi di produzione del famoso Modello T venivano tagliati di parecchie ore, sì da poterlo mettere in vendita a soli 500 dollari. Tutti gli altri costruttori, inclusa la General Motors nata nel 1908 dalla fusione di altri marchi, e quelli europei sorti nel frattempo, adottarono la stessa tecnica produttiva. Masse di auto avrebbero presto invaso le strade d’America e d’Europa. Nel 1938 gli autoveicoli in circolazione sarebbero stati 25 milioni in Usa, 2 milioni in Francia e Gran Bretagna, 1,3 milioni in Germania. Mentre in Italia erano appena 370.000, di cui soltanto 280.000 autovetture. Cifra che dà un’idea sia della nostra arretratezza industriale di allora, sia del rapidissimo sviluppo degli anni ‘60 e successivi, quando anche la Fiat avrebbe contato a milioni le vetture prodotte.

Se l’industria americana dell’auto ha inventato la Osl e la linea di montaggio, che con varie modifiche e una certo alleggerimento della fatica fisica reso possibile dall’automazione esistono tal quali ancora oggi, l’industria europea e quella giapponese hanno introdotto anch’esse sostanziali innovazioni nel modo di produrre. La prima è consistita nel far costruire l’auto per la maggior parte da qualcun altro. La Ford degli anni ‘20 e ‘30 era un mostro di integrazione verticale. Possedeva in diversi paesi numerosi impianti che producevano tutto ciò che serviva per fabbricare un’auto, dal carbone all’acciaio, dalla gomma al vetro. Sebbene si fossero mossi in modo simile - la Fiat, ad esempio, fino agli anni ‘70 aveva a Torino le sue Ferriere - i costruttori europei imboccarono presto una strada diversa. Cominciarono a chiedere a piccole e medie imprese (Pmi) la fornitura di ammortizzatori e fari, sedili e carburatori, valvole e spinterogeni, ruote e sospensioni. Ai giorni nostri oltre due terzi dei componenti di un’auto, in valore, che esce da uno stabilimento Ue sono stati costruiti da Pmi, e si va verso il 75%. Ciò significa che ogni 1000 addetti alle linee finali d’un costruttore di automobili, da qualche parte ve ne sono altri 2000 la cui occupazione è legata ai primi. Con singolari eccezioni: il 90% di una Porsche, sportiva di lusso, è costruito in Germania da Pmi.

La seconda innovazione è stata la produzione "giusto in tempo", applicata su larga scala dalla Toyota fin dagli anni ‘70, benchè l’idea fosse nata negli Stati Uniti vent’anni prima. Le foto e i cinegiornali d’epoca ci fanno vedere, quando riguardano case automobilistiche, sterminati piazzali dove son parcheggiate, pochi centimetri tra un parafango e l’altro, decine di migliaia d’auto in attesa di essere trasportare dai concessionari. Quei piazzali non esistono più, o sono stati ridotti ai minimi termini. Al presente, grazie alle tecnologie infotelematiche, ogni singola auto viene prodotta soltanto se un cliente ne ha già firmato l’ordine d’acquisto; dopodichè ogni suo componente deve arrivare sulla linea di montaggio soltanto nel momento in cui serve. Prodotti in un raggio di centinaia, talora migliaia di chilometri, quei componenti effettuano lunghi viaggi su strada per arrivare giusto in tempo. Questo modello produttivo ha trasformato tangenziali e autostrade in reparti delle fabbriche d’auto; milioni di autoveicoli concorrono a fabbricare altri veicoli.

L’età dell’automobile quale mezzo privato di trasporto pubblico, nonché mezzo di produzione, è forse prossima alla fine. Almeno nei nostri paesi. Nella fabbricazione come nell’uso consuma troppo di tutto: energia, materie prime, acqua, spazi naturali e spazi urbani, terreni agricoli, tempo. Nondimeno è giunta a occupare tali e tanti luoghi nelle nostre società che la transizione verso differenti forme di mobilità, e perché no forme di minor mobilità, sarà complicata e lunga.

Nell'immagine: Giacomo Balla, velocità d'automobile, 1913

IL TONO prevalente dei commenti alla sentenza di Genova sui fatti della scuola Diaz commessi in occasione del G8 del 2001 è stato di indignazione e rabbia, o al contrario di sostanziale soddisfazione, per le mancate condanne dei "vertici". Questo secondo il consueto schema che vede contrapporsi coloro che accusano le forze dell´ordine e coloro, soprattutto nella maggioranza di governo, che le difendono "a prescindere".

Vale però forse la pena di fare una riflessione più a freddo. Intanto la sentenza segue e si aggiunge a quella del 14 luglio scorso, sui fatti accaduti nella caserma di Bolzaneto, e che ha visto la condanna di tredici operatori della Polizia di Stato (fra cui un vice questore e un commissario capo) e della Polizia penitenziaria (fra cui un ispettore responsabile della sicurezza del sito), nonché del coordinatore e di un altro medico del servizio sanitario, per i trattamenti cui erano stati sottoposti gli arrestati. La sentenza sui fatti della Diaz ha condannato a sua volta dieci operatori di polizia (il comandante e diversi componenti di un nucleo) per l´uso arbitrario della violenza nei confronti dei giovani che si trovavano nella scuola, lo stesso comandante del nucleo per falso e calunnia, nonché due operatori (un vice questore e un assistente) per calunnia in relazione all´episodio delle due molotov introdotte nell´edificio.

Sul terreno degli accertamenti giudiziari bisognerà naturalmente attendere ancora le motivazioni delle due sentenze, vedere se ci saranno appelli, capire quali saranno gli effetti della non lontana scadenza dei termini di prescrizione: aspettare dunque la conclusione di un iter (sin troppo) lungo e complesso. Ma intanto sembra già possibile, dopo i due dibattimenti e le due pronunce dei giudici, fare alcune considerazioni.

Sono stati accertati dai giudici numerosi fatti, non isolati, di uso arbitrario della violenza fisica e morale da parte di esponenti delle forze dell´ordine nei confronti di persone inermi o poste in stato di arresto. La cosa è in sé di enorme rilievo. La Costituzione afferma solennemente che "è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà", e più in generale garantisce i diritti inviolabili della persone. La convenzione europea dei diritti, sulla scia e in attuazione della Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo, stabilisce che "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". è un principio di civiltà che sta alla base dello Stato democratico di diritto, e sul cui rispetto devono vegliare tutte le autorità, e veglia altresì la Corte dei diritti umani di Strasburgo, che è chiamata ad accertarne la violazione da parte delle autorità dei paesi che hanno sottoscritto la convenzione. Lo Stato può giustamente pretendere il "monopolio" nell´uso della forza, vietandolo agli individui anche per farsi ragione da sé, in quanto garantisce che l´uso "pubblico" della forza sia legittimo e sia contenuto nei limiti dei modi e dei casi previsti, cioè quando sia necessario ad evitare la compromissione di interessi essenziali dei singoli e della collettività. Se i rappresentanti dello Stato fanno della forza, di cui dispongono, un uso illegittimo e dunque "privato", viene minato alla base il "patto" sociale. La forza dell´autorità diventa violenza privata, il diritto di cui lo Stato è espressione diventa arbitrio. La credibilità delle istituzioni preposte a mantenere l´ordine e la legalità è compromessa.

Quando questo accade, ci si deve domandare come mai sia accaduto, che cosa non abbia funzionato a dovere, e quali siano le misure da prendere perché non accada in altre occasioni. Non basta cioè dire: bene, sono stati accertati i fatti e puniti coloro che li hanno commessi. Non si tratta di una rissa in un bar, i cui protagonisti siano stati identificati e portati in giudizio, dopo di che tutto finisce lì. I fatti accertati coinvolgono, e gravemente, le istituzioni. Se rappresentanti delle forze dell´ordine hanno infierito su persone inermi, accusandole ingiustamente di fatti di cui li sapevano innocenti; se altri rappresentanti di queste stesse forze hanno usato o consentito di usare violenza, hanno umiliato e insultato persone arrestate, è in gioco oggettivamente l´onore e la stessa identità, per così dire, dei corpi di polizia. Non si può cavarsela con la teoria delle "mele marce". Quando fatti di questa natura e di questa portata avvengono per responsabilità non di un isolato agente cui siano saltati i nervi, ma di gruppi qualificati di funzionari e agenti dei corpi di polizia, ci si dovrà domandare come vengono formati costoro, quali direttive e quali codici di condotta vengono loro indirizzati, quali controlli effettivi vengono svolti, qual è la "cultura", insomma, a cui sono informate le strutture preposte all´ordine pubblico. E ci si dovrà attendere che i responsabili dei reati vengano allontanati dal corpo o quanto meno dalle funzioni che hanno dimostrato di non sapere svolgere.

Molti hanno lamentato che (nel caso della Diaz) le condanne non siano arrivate più in alto (ai vertici operativi locali, anch´essi imputati, ma prosciolti): viene sempre il sospetto che in questi casi, come si dice, volino gli stracci. E tuttavia, mentre da un lato non si può non restare fermi a ciò che è (o sarà) giudiziariamente provato, dall´altro lato chi sta più in alto non può allontanare da sé la responsabilità "oggettiva" per deviazioni così gravi dalle elementari regole di condotta che debbono caratterizzare l´attività delle forze dell´ordine in un paese democratico, per violazioni così aperte degli elementari doveri che gravano su tutti coloro che operano in nome dello Stato, il dovere cioè di adempiere le funzioni pubbliche "con disciplina ed onore", come dice la Costituzione, e di rispettare, in primo luogo, i diritti fondamentali della persona. Se ai giudici si chiede di accertare scrupolosamente fatti e responsabilità individuali, ai "vertici" si chiede e si deve chiedere di dare conto di "macchie" di questa portata che colpiscono l´intera struttura.

Da un Governo democratico, poi, cioè dai responsabili politici da cui le forze dell´ordine dipendono, ci si dovrebbe attendere, anzitutto, che chiedano ufficialmente scusa ai cittadini, cioè a coloro che credono nella Costituzione e su di essa fanno affidamento (il chiedere scusa da parte di chi ha una posizione pubblica non è purtroppo usanza diffusa nel nostro paese, diversamente che in America); e poi che provvedano ad adottare tutte le misure necessarie per impedire altre deviazioni, modificando, ove occorra, anche le norme esistenti. Fra queste, urge una legge che esplicitamente preveda e punisca il delitto di tortura, anche in attuazione degli obblighi assunti con la ratifica della Convenzione di New York del 1984, cui l´Italia ha dato esecuzione con una legge del 1988. La Convenzione vincola gli Stati ad adottare misure efficaci per impedire che siano commessi atti di tortura, e a proibire anche altri atti che costituiscono trattamenti crudeli, inumani o degradanti, allorché siano commessi da agenti della funzione pubblica; e obbliga altresì gli Stati a vigilare affinché l´insegnamento e l´informazione relativi all´interdizione di tali atti siano "parte integrante della formazione del personale civile o militare incaricato dell´applicazione delle leggi"; a inserire il divieto nei regolamenti o nelle istruzioni promulgate in merito agli obblighi e alle competenze di tali persone; a esercitare una "sistematica sorveglianza" su regolamenti, istruzioni, disposizioni relative alla custodia e al trattamento delle persone arrestate o detenute; a vigilare affinché le autorità competenti procedano immediatamente ad inchieste imparziali quando vi siano motivi ragionevoli di ritenere che atti di tale natura siano stati commessi; a garantire il diritto di denuncia e a proteggere i denuncianti e i testimoni contro intimidazioni (artt. 2, 10, 11, 12, 13, 16 della Convenzione). Obblighi costituzionali e obblighi internazionali, anche in questo caso, confluiscono, si integrano e si rafforzano reciprocamente.

(L´autore è presidente emerito della Corte Costituzionale)

Per spiegare l’instaurazione del regime berlusconiano in Italia si possono addurre svariate cause. Ma per definire la sua natura, cioè per afferrare il suo elemento essenziale e caratterizzante, bisogna trovare quale sia la causa prima, cioè fondamentale e determinante. Per arrivarci, la strada c’è, abbastanza evidente. Basta partire dalla sproporzione tra la domanda di giustizia e di dignità nella vita pubblica, che si è manifestata nel corso del primo decennio di questo secolo in questo paese, e l’offerta di guida politica che tale domanda ha incontrato. Mancando il secondo elemento, il primo ha sempre difficoltà a restare attivo senza alterarsi in qualche modo nella necessaria ricerca di qualche equilibrio. La democrazia delegata non è infatti un’imposizione di alcuno, ma la semplice conseguenza del fatto che la politica non si presta ad essere l’attività principale delle persone (o, viceversa, la maggior parte delle persone non ha effettivamente modo di fare della politica la principale attività); ed è, d’altra parte (o anche perciò), un’attività molto delicata e molto esigente.

Torniamo per un momento a vedere la questione dal lato della domanda. Questa si è manifestata, in diversi modi e in diverse occasioni, come veramente forte e significativa. Tra i suoi segni, basta ricordare i milioni di persone che marciarono contro la guerra e le sue menzogne, anche in Italia, il 17 marzo 2003; quindi, le bandiere arcobaleno che per mesi e talvolta per anni quasi cambiarono il paesaggio anche delle nostre città prima di annerirsi e appassire in umiliante inefficacia. Tutto ciò è sembrato quasi annullato, quasi inghiottito da una voragine, quando si è trattato di costruire un equilibrio politico conforme, o non alieno, mediante meccanismi elettorali certamente molto artefatti, ma non per questo impraticabili: si tratta, naturalmente, del disastro del 2008, ma anche delle elezioni del 2006 (che l’ “Unione” non fu in grado di propriamente vincere, mentre non fu poi neanche in grado d’interpretare con rigore e chiarezza il loro comunque evidente e oggettivo mandato).

Bisogna allora spiegare la voragine, perché è qualcosa di simile che il regime è venuto a riempire (secondo quella che, per semplicità, potremmo anche chiamare una “legge di natura”). Bisogna capire quale assenza l’abbia provocata. Altrimenti è inutile affannarsi a cercare di rimuovere con strumenti inadeguati la massa di effettiva sostanza che ha occupato il suo spazio in modo solido e razionalmente legittimo nelle condizioni date (che sono, inutile dirlo, a loro volta irrazionali e inaccettabili).

Qual è stata l’assenza che ha lasciato senza risposte la domanda di giustizia e di dignità dell’Italia delle bandiere arcobaleno spontaneamente diffuse pochi anni fa? È una domanda da formulare con ancora più forte determinazione proprio adesso che quella stessa Italia ritorna a esprimere se stessa attraverso la generosa e generale rivolta per la difesa e la salvezza della scuola: proprio adesso, per evitare che tutto ciò si perda ancora.

Bisogna ringraziare Alberto Asor Rosa per essere stato forse il primo a dare la risposta in modo diretto e semplice sul manifesto il 1° ottobre 2008. Non c’è stato cioè un partito – un partito grande, rappresentativo e autorevole – che portasse quel complesso di domande e di sentimenti a operare con efficacia al livello del potere.

L’Italia, naturalmente, non è isolata entro il sistema di civiltà di cui costituisce parte del nucleo centrale e più evoluto. Non si può trattare né il berlusconismo né la crisi e l’eclissi della politica democratica, di cui il berlusconismo è la rivelazione, come se si trattasse di un’aberrante anomalia senza corrispondenze né radici nel sistema transnazionale del capitalismo odierno. Su ciò torneremo naturalmente ancora, in altre occasioni. Ma il caso italiano richiede di essere compreso per ciò che ha di proprio, e non soltanto perché queste parole vengono scritte qui.

La causa immediata e determinante della dissoluzione della politica democratica, in Italia, sembra da riferire alla caduta del potere temporale del comunismo. Naturalmente, non in modo diretto, dal momento quell’evento era necessario, giusto e maturo; piuttosto, si è trattato del modo in cui la caduta del potere temporale del comunismo è stata interpretata e tradotta in iniziativa.

Comunista era infatti (impropriamente come sempre e in linea di principio, ma in modo storicamente spiegabile e sensato) il nome del partito più grande e più autorevole tra quanti potessero esprimere quella moltitudine di convinzioni e di motivi, di sentimenti e di ragioni, di cui il fiorire delle bandiere arcobaleno era stata ancora una manifestazione (nuova e mutata, responsabile e laica, e tuttavia vitale e in qualche modo riconoscibile). Non casualmente – caso unico nel contesto dei paesi capitalistici più sviluppati dell’Occidente – era un partito di tale nome che rappresentava in Italia la larga maggioranza delle situazioni sociali e delle culture che vanno a loro volta sotto il nome di movimento operaio. Pur avendo quel nome preciso e determinato, il partito comunista italiano aveva la sua specifica ragion d’essere, e le radici della sua forza, in una costante tensione a coltivare e rendere operante ciò che univa le diverse storie e le diverse esperienze del rivoluzionario processo di emersione del lavoro umano dall’umiliazione servile alla sua inerente dignità. Gli altri partiti della cosiddetta “Prima repubblica” (per usare questo termine improprio, che le sue sempre più aperte implicazioni eversive rendono infausto) ne avevano riconosciuto in qualche modo il valore e l’esempio nei periodi migliori: prima, cioè, della loro trasformazione in torbidi comitati d’affari. Tale loro trasformazione, come è noto, ebbe luogo durante e soprattutto dopo gli equivoci, i tragici irrigidimenti e le oscure imposizioni che avevano avvelenato, reso sterile, e infine ovviamente chiuso, l’esperienza della “solidarietà nazionale”. A questa, pertanto, era stato impedito di svolgere la sua storica e necessaria funzione, cioè quella di completare la transizione della giovane e insidiata democrazia italiana a piena maturità.

Il crollo dell’Unione Sovietica privò improvvisamente di ogni copertura internazionale (e, di riflesso, interna) le vantaggiose illegalità di cui la DC, il PSI, e altri minori partiti, avevano potuto fare i loro normali strumenti di potere e di governo finché la loro funzione locale era richiesta nel quadro della ristrutturazione mondiale globale dell’economia e del potere che ebbe luogo durante l’ultimo quarto del Novecento. Quel processo globale determinò il modo in cui la guerra fredda finì (che fu un modo sostanzialmente disastroso per il genere umano, malgrado le apparenze, e malgrado anche il sostanziale e immediato sollievo di molte situazioni intollerabili).

Per quanto riguardava la guerra fredda, il partito comunista italiano aveva fatto dell’auspicio della sua fine una vera ragion d’essere. Il suo gruppo dirigente di allora trattò quindi quella fine come un suo successo e come l’esaurimento del suo compito. Questo atteggiamento, logicamente ineccepibile, era però del tutto inadeguato all’effettività dei processi in atto.

Il PCI avrebbe fatto meglio a cambiare nome molto prima, conservando tuttavia (e rinnovando adeguatamente) un ruolo come fattore di attiva e profonda trasformazione della struttura della società e del potere. Ma le intuizioni di Berlinguer che indicavano questa direzione di marcia furono lungamente isolate e neutralizzate ai suoi vertici fino alla sua morte e soprattutto dopo. Di conseguenza, al momento della “svolta della Bolognina”, ciò che accadeva nel PCI era ormai, sistematicamente, l’esatto contrario di questo.

Malgrado molte apprezzabili intenzioni, quindi, l’effetto reale di quella svolta fu la rimozione degli ultimi residui di una tradizione che aveva comunque un merito e una funzione da sviluppare. Cioè, niente più finì per ricordare (almeno) la necessità di una politica che sia sempre in grado di sfidare con piena indipendenza il dinamismo spontaneo del potere, cioè la forza intrinseca del denaro e della proprietà privata, e di tendere sempre in modo consapevole e libero (non meno che responsabile) a interpretare efficacemente ciò che il denaro e la proprietà privata da sé non sanno riconoscere: l’interesse generale, o il “bene comune”.

Da ciò si può meglio comprendere il senso della trasformazione di una parte consistente di ciò che era stato il PCI in “partito democratico della sinistra”, quindi (previa cooptazione di alcuni circoli elitari di personale politico) in “democratici di sinistra”, e infine in “Partito democratico” (previa analoga operazione su scala più larga e significativa, arricchita in parte dal coinvolgimento di radicate e illustri tradizioni di cultura politica diffusa). Tutte queste metamorfosi sono state profondamente contrassegnate da un fondamentale atteggiamento di passività nei confronti delle tendenze più forti anarchicamente manifestate dalla società civile (intendendo qui come “anarchica” non certo la chimerica immagine di una società senza potere, ma la presa d’atto del modo in cui il potere spontaneamente si distribuisce e, soprattutto, non si distribuisce e piuttosto si concentra).

La pseudocultura della globalizzazione, diventata frequentemente quasi un altro nome del fato o della legge divina, è quindi profondamente penetrata nel linguaggio e nella mentalità di questa formazione politica, attraverso le sue successive metamorfosi. La “vocazione maggioritaria” che la sua ultima reincarnazione, cioè il Partito democratico, ha più volte rivendicato a sé come tratto distintivo, consisteva essenzialmente in questa scelta di ineluttabile adattamento; e inoltre nella presunzione, assolutamente indimostrata, che la grande maggioranza delle persone fosse a sua volta adattata, e desiderosa di adattarsi, precisamente a quel genere di processi e di trasformazioni. In realtà, tutto ciò ha significato lasciare moltissime persone assolutamente sole nell’interpretare il proprio disagio quotidiano, e verosimilmente, abbastanza spesso, uno stato di totale disillusione. Soltanto a partire dalla disillusione e dalla conseguente rinuncia a inseguire un senso si può infatti spiegare la delega plebiscitaria a trovare comunque soluzioni affidata a un capo che non cessa di stupire il mondo per la sua capacità di essere preso comunque sul serio; e soltanto così si può spiegare la contemporanea e strettamente connessa formazione, intorno al suo potere personale e come suo filtro, di un coacervo eterogeneo di sottoculture particolari e spesso incompatibili tra loro, non raramente cresciute in aree del paese tradizionalmente “rosse”.

Ma questo solo insieme di fattori – cioè l’involuzione e l’auto-neutralizzazione, in quella forma, di gran parte di ciò che era stato il PCI – non basta per rendere ragione della catastrofe in cui siamo precipitati. Dal 1992 a oggi, quelle parti dell’ex PCI, o in qualche modo adiacenti, che si dissociarono da tale processo, portano responsabilità analoghe e speculari. Già la stessa scelta della scissione che portò alla nascita di “Rifondazione comunista” si prestava ad essere compresa, e fu effettivamente sviluppata, come rinuncia a continuare entro la nuova formazione politica (e in modo finalmente chiaro) lo stesso genere di lotta d’idee e di orientamenti che aveva lungamente tenuto in qualche modo a freno, all’interno del PCI, i fautori di un processo di assimilazione ad altro e di dissoluzione della sua feconda e “anomala” specificità. Soltanto dopo la Bolognina e la successiva scissione, appunto, i fautori di quel processo di assimilazione ebbero pieno e definitivo successo spazzando via un “centro” diventato improvvisamente, e minoritariamente, “sinistra”. Ma assimilazione, appunto, a che cosa precisamente? Precisamente, a qualcosa che era ideologicamente e inconsistentemente definito mediante termini come “modello occidentale” e altre simili astrazioni, ed era in realtà il particolare e molto discutibile insieme di situazioni determinate che orientavano la distribuzione del potere e delle risorse, e le sue regole fondamentali ed effettive, in quella fase specifica della storia multiforme della civiltà capitalistica.

I destini paralleli di quelle che da allora, con un po’ di esagerazione in diversi sensi, furono definite spesso le “due sinistre” (né serve adesso soffermarsi sui bizzarri e casuali aggettivi di volta in volta utilizzati per distinguere queste due cose, a loro volta così denominate), erano in fondo già scritti in questa origine. Appare possibile cioè riassumerli in uno sterile gioco di contrapposizione, a somma negativa, tra una lapalissiana e velleitaria “vocazione maggioritaria” e una raramente confessata ma chiarissima vocazione minoritaria.

Come chiarire questi confusi e inconsistenti concetti? Bisogna forse cominciare a osservare questo innanzitutto: ciò che Enrico Berlinguer aveva lasciato agli eredi come il più grande partito italiano (giacché, come raramente si ricorda, gli italiani lo avevano reso tale con il loro voto immediatamente dopo la sua morte) era sì veramente un partito cui un termine come “vocazione maggioritaria” poteva in qualche modo riferirsi. Naturalmente, il termine sarebbe stato appropriato nel suo caso soltanto se inteso nel solo senso (meglio espresso dalla parola “egemonia”) che abbia rilevanza per un partito politico piuttosto che (ad esempio) per un’emittente televisiva commerciale (anche se perfino questa, come purtroppo si è visto, può agire anche diversamente). Si trattava cioè, e si tratta per principio, della costante tensione a unire il massimo possibile di giuste attese e di giuste domande, e di farlo in modo attivo e creativo (cioè non come potrebbe fare un puro agente intermediario, quale un notaio): soprattutto, non soltanto le attese e le domande (o pressioni) già in grado di organizzarsi e di pesare, ma anche e in primo luogo quelle disperse, deboli, o perfino non del tutto consapevoli.

L’Italia aspetta da vent’anni un partito con queste caratteristiche, di cui è priva. Ne attende uno con un grado di urgenza che non può essere sottovalutato mentre pure si deve riconoscere l’estrema improbabilità che vi si risponda entro gli esistenti equilibri e le esistenti inerzie della situazione in cui, dovunque, ci troviamo.

La sola ragione che può indurre a non disperare è forse la disperazione stessa, che tutte le persone dotate di spirito e di coscienza (tra cui sono da includere anche forse non pochi di coloro che abbiano una tessera di partito, un incarico elettivo non sempre gratificante in qualche ente locale, o perfino un più o meno piccolo beneficio garantito dalla lealtà a un apparato, che consenta di vivere) molto verosimilmente provano più o meno spesso in Italia oggi. Tutte queste persone in carne e ossa possono unirsi, cioè aiutarsi reciprocamente a rendere operante l’essenziale di ciò che si esprime in ogni urgente rifiuto, in ogni spontaneo impulso ad adoperarsi a favore della decenza, dell’accoglienza, dello spirito di cittadinanza e del comune riconoscimento dell’umanità, anche già in una via o in un quartiere. Dovrebbero unirsi su questo e per questo, che è in gioco adesso, e può essere perduto e non più lungamente ritrovato, operando là, dove attualmente si trovano. Gli effetti, allora, verranno.

Anzi, qualcosa di simile già accade. L’autunno italiano del 2008, che ha sorpreso tutti i fatalisti, non sarebbe stato possibile in alcuna delle sue manifestazioni, in alcuna delle sue piazze gremite e consapevoli, se più di una volta le stesse persone, comunque avessero votato o non votato in maggio, e qualunque cosa pensassero dei promotori, non le avessero popolate.

Ogni discussione preventiva su ciò che partiti e sistemi elettorali, identità e aree di insediamento, dovrebbero essere in un futuro indeterminato (che forse non ci sarà), si presenta oggi, rispetto a tutto ciò, come una perdita di tempo non permessa dalla vita: simile, per chiarire, alle frettolose e imbarazzanti operazioni organizzative e pubblicitarie che diedero breve esistenza alla lista arcobaleno e al conseguente inevitabile disastro (dopo anni di discettazioni tristemente comparabili alle dispute tra teologi in Costantinopoli assediata).

Naturalmente, il regime berlusconiano non è un episodio. La sua forza e il suo radicamento opporrebbero comunque una formidabile resistenza, anche soltanto inerziale, alla migliore combinazione di scelte giuste che fossero fatte da oggi stesso. Tuttavia, la crisi ormai epocale di questa particolare forma di capitalismo, che scuote certezze e luoghi comuni consolidati, e mette in discussione corrispondenti equilibri, presenta non soltanto pericoli di ulteriore involuzione autoritaria (sotto l’insegna principale dell’identitarismo e del razzismo), ma anche occasioni per l’esercizio della giusta egemonia.

Questi non sono tempi ordinari. C’è una strana sproporzione tra l’eccezionalità dei tempi e l’inerzia dei costumi e dei riti della politica, che riguarda tutti, compresa la sinistra dichiaratamente radicale e perfino comunista. La persone in carne ed ossa sanno e sentono che i tempi non sono ordinari. Le persone in carne ed ossa che hanno reso possibile l’autunno italiano esprimono una domanda politica forte e maggioritaria, radicale nelle cose e non necessariamente nei linguaggi (o nelle bandiere). Radicale non per partito preso. Ma un partito che efficacemente e saggiamente la esprima e la rappresenti, che la serva e la orienti al tempo stesso, quello sì, certamente, ci vuole. Ci vuole adesso, e non c’è. Questa è la sfida.

Se ciascuno, stando al suo posto, cominciasse a fare come se un tale partito ci fosse? Non è una bizzarria. È proprio quello che la gente ha cominciato a fare nelle piazze dell’autunno italiano. Se uno sciopero generale indetto dai comitati di base richiama nelle strade di Roma centinaia di migliaia di persone, ciò non significa che i suoi organizzatori, per quanto generosi, le rappresentino tutte. E se Veltroni trova intorno a sé due milioni e mezzo di persone al Circo Massimo, ciò non dipende certo esclusivamente dalla capacità di persuasione dei dirigenti del PD e dalla loro attuale capacità o volontà di rappresentare un’alternativa. Le piazze dell’autunno italiano, nel loro insieme, nel loro reciproco alimentarsi e confondersi, non hanno risposto all’appello di questo o quel gruppo dirigente. Hanno rivolto un appello.

Un’ulteriore mancanza di risposte sarebbe grave, imperdonabile, e nefasta.

Qui il sito Katciu martel

Non è stato inutile il processo al massacro nella scuola Diaz, avvenuto il 21 luglio 2001 a Genova durante il vertice G8, così come non è stato inutile il processo alle violenze nella caserma di Bolzaneto. All’epoca si sostenne che non era accaduto nulla, che la polizia aveva agito normalmente contro i giovani inermi. Ora non lo si può dire più e alcuni colpevoli son stati condannati, anche se a pene lievi e forse destinate a esser cancellate da condoni e prescrizioni. Lo scandalo c’è stato, l’infamia fu consumata. Nel diritto italiano mancano le parole per dirlo, ma nel mondo questi comportamenti hanno un nome non controverso: si chiamano tortura, trattamenti inumani e degradanti. Il fatto che l’Italia non abbia ancora accolto il reato di tortura nel proprio ordinamento, 20 anni dopo aver ratificato la Convenzione Onu dell’84, non cambia la sostanza del delitto.

Nessuno nega ormai che a Bolzaneto e alla Diaz giovani donne e uomini furono spogliati, minacciati di stupro, pestati. Che a Bolzaneto un poliziotto spezzò la mano d’un ragazzo, divaricandogli le dita, e il ricucimento dell’arto avvenne in infermeria senza anestesia. Che gli studenti furono costretti a stare ore nella posizione del cigno, gambe allargate, braccia in alto, faccia al muro. Che donne con mestruazioni dovettero mostrare le perdite di sangue davanti agli sghignazzi delle forze dell’ordine. Che dovettero defecare davanti a poliziotti eccitati.

Queste cose son successe nel 2001 in Italia esattamente come - poco dopo - a Abu Ghraib. Quando succedono c’è un salto di qualità, si entra in una zona crepuscolare, altra. Si smette di dire «il crimine può accadere», è già accaduto.

Clausewitz, che studiò le guerre napoleoniche, scrisse nel 1832: «Una volta abbattute le barriere del possibile, che prima esistevano per così dire solo nell’inconscio, è estremamente difficile rialzarle». Si rivelò vero per il genocidio ebraico. È vero per le torture a Genova, a Abu Ghraib, a Guantanamo.

I massimi responsabili non hanno pagato, perché, dice la sentenza, mancavano le prove. Non c’era inoltre un «grande disegno», anche se il pubblico ministero Enrico Zucca sostiene di non aver mai menzionato disegni. Tuttavia i capi sono sempre responsabili quando un poliziotto loro subalterno commette delitti, senza necessariamente esser colpevoli. Questa responsabilità è occultata, anche se si dovrà leggere la sentenza per esserne sicuri. La guida della polizia era affidata allora a Gianni De Gennaro: sostituito nel 2007, poi capo gabinetto di Amato al Viminale, poi - con Berlusconi - promosso a supercommissario ai rifiuti di Napoli e a direttore del Cesis riformato (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza). Il suo silenzio sul G8 pesa. Così come pesa lo stupido giubilo della destra. Non c’è niente da giubilare, quando le barriere del possibile precipitano. L’effetto del precipizio è squassante per lo Stato, la polizia, i cittadini. Tanto più oggi, che i giovani ricominciano l’impegno politico come i giovani lo ricominciarono dopo anni di apatia al vertice del G8 di Genova.

Il questore Vincenzo Canterini ha scritto una lettera ai suoi uomini, venerdì, in cui non pare consapevole di questa frana di prestigio e credibilità. Ex comandante del VII Nucleo mobile nei giorni del G8, condannato a 4 anni di reclusione dal Tribunale di Genova, parla con risentimento, annunciando che lui continuerà a portare il casco, non si sa bene per quale missione. È d’accordo con il proprio vice, Michelangelo Fournier, anch’egli condannato a due anni: alla Diaz avvenne una «macelleria messicana», dice a la Repubblica. Ma i suoi poliziotti non sono colpevoli; sono «martiri civili». La lettera è minacciosa: «Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni, diamogli l’illusione di avere vinto, e facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere». Rimettiamoci il casco, incita.

Visto che di lettere si parla, vale la pena citare una lettera che fece storia, nel ’68 francese, quando le violenze furono più gravi e lunghe che a Genova. È il messaggio inviato da Maurice Grimaud, prefetto di Parigi, ai propri subordinati. Grimaud ebbe un comportamento decisivo: oggi gli storici concordano sul fatto che senza di lui, il ’68 sarebbe finito in bagno di sangue, generando terroristi di tipo tedesco o italiano. Invece, nulla. Grimaud cercò di capire le dimensioni profonde e mondiali del movimento, invitando i poliziotti, il reticente ministro dell’Interno Fouchet e lo stesso De Gaulle a tenerne conto (intervista di Grimaud a Liaison, giornale della prefettura, 4-08). Capì che insidiati erano l’onore e dunque l’affidabilità delle forze dell’ordine, dei funzionari pubblici, infine dello Stato. Sentendo che nei commissariati serpeggiava odio (c’era stata la guerra d’Algeria) prese la penna, il 29 maggio ’68, e scrisse un messaggio personale a circa 20 mila poliziotti.

È una lettera che andrebbe letta alle forze dell’ordine e nelle università, non solo in Francia. In apertura Grimaud invita a discutere il tema, cruciale ma schivato, dell’eccesso nell’impiego della violenza: «Se non ci spieghiamo molto chiaramente e molto francamente su questo punto, vinceremo forse la battaglia della strada ma perderemo qualcosa di assai più prezioso, cui voi tenete come me: la nostra reputazione». Grimaud non nega che la polizia è ingiustamente umiliata dagli studenti, ma il suo linguaggio e il suo ordine sono inequivocabili: «Colpire un manifestante caduto a terra è colpire se stessi, e apparire in una luce che intacca l’intera funzione poliziesca. Ancor più grave è colpire i manifestanti dopo l’arresto e quando sono condotti nei locali di polizia per essere interrogati. (...) Sia chiaro a tutti e ripetetelo attorno a voi: ogni volta che viene commessa una violenza illegittima contro un manifestante, decine di manifestanti desidereranno vendicarsi. L’escalation è senza limiti». Comunque il prefetto si dichiara corresponsabile, qualsiasi cosa avvenga: «Nell’esercizio delle responsabilità, non mi separerò dalla polizia». L’autocontrollo è un dovere del servitore dello Stato: «Quando date la prova del vostro sangue freddo e del vostro coraggio, coloro che vi stanno davanti saranno obbligati ad ammirarvi anche quando non lo diranno».

Esiste dunque la possibilità di servire lo Stato senza infangarsi. Per la coscienza dei francesi l’esempio Grimaud conta e spiega forse, senza giustificarle, certe reticenze a estradare nostri ex terroristi. Anche in Italia esistono esempi simili, di servizio dello Stato e non della contingenza politica. Il prefetto di Roma Carlo Mosca era uno di questi. Ragionando come Grimaud, egli difese i Rom («Io non prendo le impronte a bambini») e poco dopo il diritto studentesco a manifestare. Nonostante buoni risultati (censimento degli insediamenti Rom; calo dei reati a Roma dal gennaio 2008; violenza degli stadi circoscritta) Berlusconi lo ha silurato, lo stesso giorno del verdetto di Genova.

Quando cade la barriera del possibile il crimine si ripete. I vigili di Parma che hanno sfregiato il giovane originario del Ghana, Emmanuel Bonsu Foster, lo testimoniano (che sia un immigrato regolare è irrilevante, è turpitudine anche con gli irregolari). Lo testimonia la prostituta nigeriana scaraventata in manette sul pavimento d’un commissariato, a Parma in agosto. A Genova hanno condannato i manovali (le «mele marce» di Bush) e due capi, Canterini e Fournier. Non basta: né per rialzare le barriere, né per correggere e riabilitare la polizia. Lo storico Marco Revelli, l’ex Presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, il giornalisti Giuseppe D’Avanzo e Riccardo Barenghi hanno detto l’essenziale, su come la democrazia esca sfigurata da simili prove. Solo i cinici e i rassegnati immaginano che sia troppo tardi per cominciare a far bene le cose.

Se si considera quanto fossero diffuse, nei vent'anni appena trascorsi, la subalternità e la timidezza nei confronti del dogma dell'autoregolazione del mercato alla base del neoliberismo, è difficile negare gli elementi di verità contenuti nel ritratto compiuto da Rossanda di una sinistra che «di fronte alla più grossa crisi del capitalismo dal 1929 non sa cosa proporre». Né riduce l'amarezza il ricordare che la sterilità da una parte, il conformismo dall'altra sono stati sollecitati da prodighi maestri, gli uni attivi nel predicare un classismo vecchia maniera e un primitivismo rivendicativo tanto più aggressivo quanto più impotente, gli altri attivi nel predicare un riformismo talmente moderato da equivalere a una resa pura e semplice allo status quo. Un esempio del primo tipo di sindrome, a mio parere, è stata l'incapacità della sinistra radicale di cogliere le potenzialità positive dell'accordo sul welfare promosso dal governo Prodi (i contrasti sul quale sono stati, anzi, una delle ragioni della sua caduta). Come esempi del secondo tipo di sindrome (riformismo moderato equivalente alla resa allo status quo) si possono citare il libro di solo un anno fa di Giavazzi e Alesina, «Il liberismo è di sinistra», o il recente invito di Salvati a considerare impraticabile la ricerca di un modello alternativo a quello del «supercapitalismo» dominante, perché oggi non ne esisterebbero le condizioni quanto ai profondi «ri-orientamenti ideologici, culturali, teorici» che sarebbero necessari, come se tali condizioni non fossero state intenzionalmente desertificate nel nostro recente passato e il riprodurle non dipendesse oggi dalla buona volontà di chiunque si senta a ciò sfidato.

Per influire sulla crisi economico-finanziaria in corso, il punto ora è di non attardarsi a recriminare, ma di tentare di spingere in avanti la riflessione a partire dal nuovo equilibrio stato-mercato da costruire. Ci si pongono tre questioni. La prima è perché anche gli studiosi critici con il main stream dominante abbiano avuto così poca audience in tutto il centrosinistra, compresa la sinistra radicale. Se il mio recente libro La moralità del welfare: contro il neoliberismo populista, data l'attualità delle problematiche trattate, può sperare in una migliore fortuna, ricordo ancora l'ostracismo che fu dato a un mio libro uscito nel 2004, L'eguaglianza e le tasse, in cui mostravo la fallacia e la pericolosità - in termini di delegittimazione di un istituto fondamentale della democrazia come la tassazione - del trittico «meno tasse, meno Stato, meno regole» su cui, del resto, il duo Berlusconi-Tremonti ha basato anche la campagna elettorale del 2008.

La seconda questione decisiva è distinguere - anche al fine di non ripiombare nel vecchio statalismo assistenzialistico-clientelare - tra «decisionismo autoritario» e intervento pubblico finalizzato ad affermare il bene comune. Il primo traduce in pratica l'ispirazione neo-colbertiana del nostro ministro dell'economia. Un'ispirazione che colloca la continuità - che non ci deve assolutamente sfuggire - tra il Tremonti statalista di oggi e il Tremonti che nel 1999 scriveva Lo stato criminogeno - e dal 2001 al 2006, mentre nutriva propositi di privatizzazione del sistema previdenziale pubblico e più in generale del welfare, varava tutte le sue finanziarie all'insegna del motto «far arretrare il perimetro pubblico» - nella esaltazione dello spirito pro business, nell'affermazione di una visione «sultanesca» della politica, nell'inerzia verso l'interesse pubblico correttamente inteso e nel vorace interventismo in senso restauratore sulle vicende particolaristiche a tornaconto delle «persone» al governo, nella demolizione dell'idea stessa di responsabilità collettiva. Il decisionismo autoritario si salda così profondamente con l'oscurantismo, testimoniato dalla rozzezza del giudizio sul '68 o dal fervore con cui si declama «Dio, patria, famiglia». Se la crisi odierna è paragonabile a quella del '29, è bene ricordare che da essa il mondo uscì non con una indistinta riaffermazione del ruolo dello Stato in economia, ma con almeno due modelli ben distinti di presenza pubblica. L'uno si collocò sotto l'egida dei totalitarismi e tradusse la pianificazione centralizzata in decisionismo autoritario, chiusura delle frontiere, autarchia, alla fine sfociando nel disastro della guerra. L'altro si collocò sotto l'egida del keynesismo e della larga visione solidaristica socialdemocratica e si tradusse in regolazione, apertura, welfare, investimenti pubblici nei beni collettivi, sfociando nel New Deal di Roosvelt e nei cosiddetti «trenta gloriosi» dell'Europa.

E qui c'è la terza questione. Dalla drammatica lezione che la storia ci sta impartendo non dobbiamo ricadere nello statalismo deteriore e autoritario, ma non dobbiamo nemmeno ricavarne una visualizzazione del nuovo intervento pubblico limitato alle «regole» (di cui pure ci vuole un'estensione e una riqualificazione). Regole sì, ma anche programmi e politiche. La crisi, infatti, non è solo regolatoria. La crisi è di un intero modello di sviluppo che oggi giunge a esaurimento, un modello nato negli Usa, trasformato dall'amministrazione repubblicana di Bush in un mix di deregolazione selvaggia (e cattiva regolazione), spirito probusiness, signoraggio del dollaro, leva dei tassi di interesse, innovazione finanziaria esasperata, economia e cultura del debito, bassi salari e poco welfare pubblico, spesa militare. Per questo è necessario un drastico rovesciamento del complesso di indirizzi macroeconomici e microeconomici fin qui seguiti, un rovesciamento per cui sono vitali l'impegno per una nuova Bretton Woods per ridefinire un nuovo ordine economico-finanziario globale e il protagonismo di un'Europa rilanciata nelle sue finalità e nelle sue strutture unitarie.

C'è bisogno di politiche neokeynesiane a scala europea, in grado di contrastare la finanziarizzazione dell'economia e di poggiare sulla forza della «domanda interna» espressa dai 500 milioni di cittadini che vivono nell'Europa a 27 paesi. Una prospettiva neo-keynesiana che agisca tanto dal lato della domanda quanto dal lato dell'offerta, spingendo consumi e investimenti all'elevamento della qualità della vita e a fare delle potenzialità inespresse la leva per la trasformazione del modello di sviluppo: risorse ambientali, beni culturali, servizi. Un nuovo New Deal europeo per una rinnovata stagione di neoumanesimo, sulla cui esplorazione - analitica, teorica, perfino etica e civile - il centrosinistra italiano dovrebbe puntare per farne la chiave della ricostruzione di quel profilo ideativo di cui c'è un disperato bisogno.

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