Pubblichiamo ampi stralci della "Lezione sulla democrazia" che Gustavo Zagrebelsky ha tenuto sabato alla Festa del Partito Democratico a Torino
"Politica" è una parola bastarda. Ha molti padri e madri. Non è sempre la stessa cosa. Dipende da chi la genera e per che cosa. Per chiarire, mi avvalgo d’una citazione di George Orwell. Nel 1948, scriveva (in Writers and Leviathan): «Questa è un’epoca politica. La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli, le bombe atomiche sono quello a cui pensare». Se non si parlava di campi di sterminio e di genocidio, era per la diffusa ignoranza di ciò che era effettivamente accaduto nel cuore dell’Europa. Auschwitz sarebbe in seguito assurto a simbolo di una certa concezione della politica. Il che è certo molto imbarazzante per la politica stessa.
Questa visione della politica è terrificante. Ha come madre la potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all’interno dei popoli. L’uso di categorie primordiali come, ad esempio, quelle di amore e odio, per dividere il campo dell’agone politico, sono il riflesso di questa concezione della politica basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
La concezione opposta della politica è espressa in una frase di Aristotele. Se là la politica è violenza e prepotenza, qui «compito della politica pare essere soprattutto il creare amicizia» tra cittadini, cioè legame sociale ( Etica Eudemia, 1234 b).
Con le parole di Hannah Arendt ( Was ist Politik? - inediti del 1950, pubblicati nel 1993, trad. it. Che cosa è la politica? Torino, Comunità 2001, pp. 5 ss.), ciò che è proprio di questa concezione della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d’individui, una società. Chi disdegna stare con le persone comuni, credendosi diverso, e il suo cuore batte piuttosto per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi, potrà certo essere un’ottima persona. Ma non è adatto alla politica in questo senso. Ciò è così vero che, proprio gli uomini politici più distanti dalla vita della gente comune, che disprezzano, fanno a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d’essere uguali agli altri, "uno di loro"; in realtà offendendoli e insultandoli, nel momento in cui le trattano non come cittadini ma come plebe.
Forse non abbiamo mai pensato che tra tutti i regimi politici, la democrazia è l’unico che presuppone amicizia tra governanti e governati. I regimi autocratici o oligarchici, comportano separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Solo la democrazia vive e si alimenta di un circuito di reciproca fiducia che può esistere solo a condizione che i governanti non si costituiscano in classe separata, solo a condizione che i cittadini comuni non li vedano come cosa diversa da sé.
Che significa classe separata? Innanzitutto che, una volta entrati in uno dei luoghi della politica, si sia acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. I ceti o le caste delle società premoderne erano stratificazioni sociali alle quali si apparteneva dalla nascita alla morte. Oggi, al ceto politico di regola non si appartiene per diritto di nascita, anche se non manca, anzi si moltiplicano i casi di nepotismo, di familismo e di trasmissione ereditaria delle cariche politiche. In politica oggi, di norma, "si entra", o, come si dice autorevolmente, "si scende" (una volta si sarebbe detto "si sale" o si "ascende"), ma, una volta entrati non se ne vuole più uscire. Se proprio occorre lasciare un posto, ce n’è sempre un altro cui aspirare e che ci attende. Oggi quello che importa è entrare in un giro di potere. A che "giro" appartiene? ci chiediamo, vedendo qualcuno che "gira", per l’appunto, da un posto all’altro. Quando entri in un giro, non ne esci più, a meno che tu abbia tradito le aspettative di chi ti ci ha messo.
Questa è la separazione: tra chi, in un giro del potere, c’è e chi non c’è. E volete che chi non c’è non si senta mille miglia lontano da chi vi è dentro? Che non si consideri appartenere a un altro mondo? E, all’opposto, possiamo credere che chi è dentro non consideri chi è fuori un potenziale pericolo, un’insidia per la propria posizione acquisita, e non faccia di tutto per restarci aggrappato, impedendo accessi non graditi al proprio giro chiuso o, almeno, per gestirli secondo propri criteri, in modo che gli equilibri acquisiti non siano scossi? Ma questa è la sclerosi della politica. Quando si sente dire che occorre promuovere il rinnovamento della classe dirigente e, per questo, bisogna "allevare" nuove leve politiche, il linguaggio – l’allevamento - tradisce perfettamente l’orizzonte culturale in cui si pensa debba avvenire il cosiddetto "ricambio", quel ricambio che tutti a parole dicono necessario ma che, secondo l’idea dell’allevamento, è perpetuazione dello status quo che produce cloni.
Di quest’atteggiamento di separatezza e, in definitiva, di inimicizia, testimonianza eloquente è l’atteggiamento del mondo politico nei confronti della cosiddetta "società civile", un’espressione e un concetto che non ha mai goduto di buona fama, soprattutto a sinistra. Questa è una lunga storia che sarebbe da ricostruire interamente, a partire da quando, dopo la Liberazione, effettivamente la pretesa dei partiti di rappresentare tutto ciò che di "politico" vi era da rappresentare, era giustificata. Ma oggi? Oggi, una società civile è difficile negare che esista. Dobbiamo capirci. Assai spesso – per squalificarne il concetto stesso – la si intende come "i salotti" dove s’incontrano persone disparate che presumono d’essere élite del Paese e si auto-investono di chissà quale compito salvifico, o come lobby più o meno segrete o gruppi d’interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione. Da tutto ciò, che ha niente a che fare con la democrazia, la politica dovrebbe guardarsi. Da questa "società civile", piuttosto "incivile", chi si occupa di politica dovrebbe cercare di stare lontano, il più possibile.
Ora, chi vuole difendere il circolo chiuso della politica e i suoi sistemi di cooptazione demonizza la società civile identificandola con questi ambienti. Ma è un’operazione che sa di diversivo, cioè di tentativo di spostare l’attenzione su un falso obiettivo, effettivamente indifendibile.
La società civile esiste, ma è un’altra cosa: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?
La risposta alla domanda formulata sopra è semplice: la scarsa attenzione, se non l’ostilità, dipende dalla difesa di rendite di posizione politica che sarebbero insidiate dall’apertura. Non c’è da fare tanti giri di parole: è la sempiterna tendenza oligarchica del potere costituito. Viene in mente la frase dell’abate Siéyès con la quale inizia il celebre libello Che cos’è il terzo stato, un testo che contribuì a creare autocoscienza in chi allora – la Francia pre-rivoluzionaria – chiedeva riforme: "Che cos’è il terzo stato? Tutto. Che cos’è stato finora nell’ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Noi potremmo tradurre: "Che cos’è la società civile? Molto. Che cosa è nell’ordine politico? Quasi nulla. Che cosa occorre che diventi? Qualcosa".
Sotto questo punto di vista, c’è oggi in Italia una specifica situazione d’emergenza politica e democratica, rappresentata dalla legge elettorale vigente, con la quale rischiamo di essere chiamati alle urne, nel momento in cui – col favore dei sondaggi- piacerà a chi di dovere.
Questa legge sembra, anzi è, fatta apposta per garantire l’impermeabilità del ceto politico, la sua auto-referenzialità, per munire la sua separatezza. È una legge, nella sua essenza, dello stesso tipo di quelle vigenti nelle dittature di partito. Il fatto che non vi sia "il" partito, ma vi siano "i" partiti, non cambia il giudizio. La sua ratio, come direbbero i giuristi, può esprimersi così: dall’alto discende il potere e dal basso sale, o si fa salire, il consenso. Ma questa non è democrazia. E’, se si vuole," democratura", secondo la felice e, al tempo stesso orrenda, espressione dell’esule bosniaco Predrag Matvejevic. Col sistema elettorale attuale, i vertici dei partiti – tutti quanti – dispongono dell’intero potere di definire chi formerà la rispettiva corte in Parlamento. Non è poca cosa per loro e questo spiega il fatto che, a suo tempo, quando fu approvato, non ci sia stata una reazione adeguata. Il potere si è capovolto e cominciamo ad accorgercene. E ci accorgiamo di quanto ciò finisca per alimentare sentimenti, risentimenti e atteggiamenti anti-politici, da cui tutti, meno i demagoghi, hanno molto da perdere.
La ragione per non andare più a votare con questa legge elettorale non si riduce alla pur rilevantissima stortura ch’essa comporta: il fatto cioè che deputati e senatori siano nominati dall’alto, senza alcuna possibilità d’influenza degli elettori, altro che nel distribuire il numero di "posti" che spettano all’uno e all’altro partito, assegnati poi a questo o quello per beneplacito altrui. La posta è assai più grande: per i partiti è il dilemma tra l’apertura alla società o la chiusura; per i cittadini tra la politica e l’antipolitica, tra la partecipazione e l’esclusione politica, tra la fiducia nella democrazia e il risentimento contro la democrazia.
Quando parliamo di democrazia, però, non pensiamo solo a partiti, elezioni, parlamenti, governi, e cose di questo genere. In una parola, non pensiamo solo a forme e istituzioni politiche, cioè a tecniche di governo. Pensiamo anche a una sostanza della società.
Ora, la domanda da porre è se ci può essere democrazia come forma in una società non democratica. La risposta è sì. Ci può essere. Ma che genere di democrazia? La democrazia come tecnica di governo, innestata su una realtà sociale non democratica, non fa che amplificarne e moltiplicarne i caratteri non democratici o antidemocratici, rappresentandoli, generalizzandoli e, per così dire, rendendoli obbligatori per tutti. Per esempio, noi non diremmo certo che una società a maggioranza razzista e xenofoba è democratica. Questa società può senz’altro governarsi in forme democratiche, cioè la maggioranza può imporre per legge la sua visione del mondo razzista e xenofoba. Questo ci dice che la democrazia, intesa solo come forma di reggimento politico, non è affatto più tranquillizzante di altre. Sotto certi aspetti, anzi, fa più paura, perché ha dalla sua la forza del numero. Questo spiega il fatto che la democrazia può essere, o diventare, odiosa al pari e forse più di altre forme politiche. Ciò accade quando alla forma (democratica) del potere corrisponde una sostanza non democratica della società.
Ma che cosa è una società non democratica? In breve: una società in cui esistono discriminazioni e disuguaglianze, tali che una parte, per così dire, viva bene sopra un’altra che vive male e questa differenza alimenta odio e violenza. Usciamo dal generico: è una società dove qualcuno possa dire: "questa è casa mia" e tu sei un intruso ch’io posso escludere e respingere a mio piacimento; dove, se non ti "integri", cioè non ti rendi irriconoscibile nella tua identità, non hai diritto di cittadinanza; dove la povertà e il disagio sociale sono abbandonati a se stessi, nella solitudine; dove il lavoro non è considerato un diritto, ma solo un fattore dell’impresa subordinato alla sua logica e dove i disoccupati e i precari sono solo un accidente fastidioso di un "sistema" e non un problema per tutti; dove l’istruzione e la cultura sono riservati ai figli di coloro che possono; dove la salute è il privilegio di chi può permettersi d’affrontare le spese che la sua cura comporta. Noi avvertiamo queste discriminazioni in modo sempre più acuto. La povertà, l’insicurezza e la solitudine aumentano, anche se spesso hanno vergogna di mostrarsi, come bene sanno coloro che operano nei servizi sociali, pubblici e privati. Il divario tra chi può curare la propria formazione culturale e chi non può aumenta, e spesso si manifesta in questa forma odiosa e umiliante per il nostro Paese: chi può manda i suoi figli fuori dell’Italia. La disuguaglianza giunge a segnare i corpi, divide quelli bene curati e quelli degradati: addirittura lo stato dei denti è diventato, anzi ri-diventato qual era un tempo, segno di condizione sociale.
E noi vorremmo che tutto ciò non ingeneri inimicizia sociale? Sarebbe ingenuo sperarlo. E vorremmo che chi sta dall’altra parte della società, quella che dal basso guarda a quella che sta in alto, non nutra diffidenza, per non dire di più, verso una democrazia che accetta questa loro condizione? Una condizione che non giustifica certo, ma spiega il carattere violento dei rapporti anche quotidiani tra le persone, di chi si sente più forte sul più debole e del debole come reazione al forte, nelle infinte situazioni in cui quel divario può essere fatto valere, nelle famiglie, nella strada, nelle scuole, nelle fabbriche, nei rapporti tra uomo e donna, tra "normale" e "diverso", eccetera. È all’opera l’incultura della sopraffazione che è l’esatto opposto dell’ethos necessario alla democrazia.
Qui, nella denuncia della mentalità dilagante, nella difesa e promozione di una cultura della convivenza e nell’azione per contrastare l’incultura della violenza, c’è un compito che ci riguarda tutti, in quanto questa società non ci piaccia affatto. Ci riguarda come cittadini cui la democrazia sta a cuore come un bene cui non vogliamo rinunciare. Ma riguarda anche i cittadini che militano in partiti politici che hanno la parola democrazia nelle proprie ragioni fondative o addirittura nel proprio simbolo.
Ecco un’altra buona ragione per abbandonare l’idea che la politica si faccia principalmente nelle stanze dei palazzi del potere o negli uffici delle burocrazie di partito, che il buon politico sia quello esperto di "scenari", alchimie, tattiche e strategie. Tutto questo è importante, ma non basta. Siccome non basta, abbiamo il dovere di chiederci: dove siamo quando nel nostro Paese si avvelenano i rapporti tra le persone, nelle tragedie dell’immigrazione come in quelle delle famiglie di senza-lavoro e nei drammi del lavoro senza sicurezza; nelle proteste per una scuola che affonda come nella tragedia di chi è colpito dalla forza scatenata della natura: nei nostri uffici o tra chi ha bisogno di solidarietà? Ecco perché è necessario stringere i rapporti tra partiti e società, abbandonare l’idea e le pratiche che fanno pensare che gli uni possano fare a meno dell’altra, e viceversa.
Non è cosa semplice vivere da precari, e non solo per via dei soldi che son pochi e del posto di lavoro permanentemente effimero, inaffidabile. Non è semplice muoversi tra persone che parlano di crisi e non la conoscono, parlano di futuro come se fosse una categoria ancora sicura, difendono appartenenze etniche locali nascondendo che dipendiamo dal mondo - e dall’Europa - assai più che da patrie municipali o nazionali. Neppure è molto facile contemplare l’affaccendarsi sfaccendato dei governi, così simile all’ ambularedisordinato descritto da Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi: «Non fanno nulla pur essendo sempre in agitazione» (2 Ts 3,11). Tutti questi agitati ambulanti pensano di poter chiudere la parentesi della scarsa crescita e promettono, senza pudore, che presto la parentesi si chiuderà.
I precari sono soprattutto giovani, ma non solo: anche nelle età medie capita di entrare in orbite dell’esistenza dove niente si solidifica. L’Istat constata: un giovane su quattro è senza lavoro, e una gran parte rinuncia a cercarlo. Tre milioni sono precari, sconsideratamente trattati come retroguardia. In realtà sono un’avanguardia, più consapevole di quanto si pensi. La crisi, la traversano da decenni, ne sono la personificazione, e di essa sanno l’essenziale: che non è un intervallo, bensì un’enorme trasformazione.
In primo luogo s’è trasformato il lavoro: che non è il lavoro, il posto, ma resta pur sempre un lavorare. Anzi uno sgobbare: spesso il precario lavora più di chi ha il posto. Spesso è cosciente che il continuo transumare peggiora la qualità del lavoro (la scrittrice Corinne Maier nota: «La pigrizia sarà l’avvenire del precariato»).
In secondo luogo si trasforma la vita in società: al di là della famiglia s’aprono spazi vuoti, fatti di legami cuciti e strappati alla svelta. Infine cambia il rapporto con i governanti. Quando il politico dice che il precario «costa troppo», quando infastidito dalle proteste l’accusa di farsi strumentalizzare politicamente, lo respinge due volte: come persona che lavora e come soggetto politico. Il ministro Gelmini non ha torto, quando dice che il male precede i governi di destra. I sindacati divenuti lobby dei pensionati, la sinistra che si limita ad accertare l’emergenza: ambedue mancano l’appuntamento con la grande mutazione.
Ma pur non avendo torto il ministro perpetua il buio, quando solidarizza a distanza con i precari e si rifiuta di incontrarli. Questa distanza è insensata, cieca: di fronte a sé, il ministro ha un mondo di mutanti, non di sciagurati. Davanti non le si accampano vittime, ma i principali attori di un cambio di civiltà. Non le si chiede personale compassione ma fredda conoscenza della crisi, della crescita che non sarà più quella di ieri, della solidarietà comunitaria da reinventare e organizzare.
Per questo è non tanto offensivo quanto inane, denunciare il revival della lotta di classe e del rapporto conflittuale fra padroni, capitale, lavoratori. Il precario sa più cose, oggi, di quelle che sanno i fini conoscitori dei due secoli passati. Il più delle volte non ha un padrone: è vertiginosamente libero, confinato però in terre di nessuno, senza diritti né doveri. Non vive e non lotta come classe. Vorrebbe avere un riconoscimento: che il suo lavorare equivale per dignità al lavoro, e abbia le sue tutele come avviene in tanti Paesi europei. Vorrebbe confutare quando vanno dicendo tanti spiriti apparentemente anticonformisti, secondo cui la Costituzione italiana garantirebbe ipocritamente, nell’articolo 1, una democrazia «fondata sul lavoro».
Chi vorrebbe eliminare quest’articolo, o quello in cui si parla della responsabilità sociale dell’impresa (articolo 41) è indietro nei tempi. A differenza del precario, non sa che il lavorare rimane comunque il centro dell’esistenza individuale, e che quella promessa costituzionale dà continuità a ciò che tende a farsi discontinuo, transeunte. Eliminare l’articolo 1 è come levare, dal preambolo della Costituzione americana, la Giustizia, la Tranquillità interna, il Benessere generale. Cosa si mette al posto delle vecchie parole, magari in nome dell’anticonformismo? Competitività? Consumo? Le Costituzioni sono qualcosa di più di una fotografia dell’esistente e delle sue necessità, anche se incorporano l’esistente e il necessario. Sono state scritte quando non c’erano tranquillità, giustizia, benessere, lavoro per tutti. Il tabù dell’incesto nasce perché c’è incesto, non perché non c’è.
Un’altra cosa che il precario sa è la metamorfosi del tempo: il suo sbriciolarsi, divaricarsi. Entrare nella vita lavorativa, per le generazioni precedenti, era fare futuro. Difficile farlo, se ogni due settimane o due mesi tocca cercare nuove attività. Il tempo breve diventa la stoffa della tua vita e tuttavia con questa stoffa bisogna inventarsi, a meno di non disperare, il tempo lungo di un’esistenza: metter su casa, far figli, credere in quel che fai. Bisogna anche pensare la vecchiaia, che precocemente impaura: cosa farò, non avendo accumulato diritti alla pensione? È uno dei crucci dei giovani che padri e nonni non conoscevano: specialmente forte in Italia. Anche questo sdoppiarsi del tempo (da un lato brevissimo, dall’altro lungo per una vita piena) chiede di esser visto, riconosciuto.
La dialettica padrone-servo cambia nelle forme ma non nella sostanza, ed è il motivo per cui la questione sociale fa ritorno. Ignorarla non l’elimina dal paesaggio ma è una precisa scelta: è criminalizzarla invece di affrontarla, è tramutare lo Stato sociale (un tesoro d’Europa) in Stato penale. Quel che torna è il rigetto dei disadatti, e il loro incollerirsi. È il disprezzo e la sfiducia verso chi lavora in altro modo, e la lotta per il riconoscimento di quest’altro modo. Un riconoscimento non emotivo, ma molto materiale: si tratta di decidere come far funzionare lo Stato sociale nella presente mutazione, come aiutare l’individuo pencolante nel vuoto fra un’attività e l’altra, come raggranellare una pensione futura, come ottenere crediti bancari o affittare un appartamento in assenza di ricchi garanti.
Chi dice che l’articolo 1 della Costituzione è sorpassato non sa nulla della crisi. Parla di ipocrisia perché ai suoi occhi il precario ha meno valore: non essendo, il suo, un vero lavorare. Pensa di esser moderno, ma gli occhiali che inforca sono vecchi. Come disse Raymond Aron del presidente Giscard: non sa che la Storia è tragica.
In latino precari è un verbo (vuol dire pregare), e precisamente questo fa il precario nella crisi-trasformazione. Scritto nel 1907, il dizionario etimologico di Pianigiani spiega: precario è quel «che si ottiene per preghiera; si esercita con permissione, per tolleranza altrui; quindi che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente». Su questa base non si può costruire alcun nuovo patto sociale. Se il precario è un pregante si aggiungerà ai rifugiati, ai reietti, alle vite di scarto descritte da Zygmunt Bauman: vite relegate in non-luoghi ignari delle leggi, dove non valgono le sentenze dei tribunali ma il ben volere del «concedente».
Chi prega si genuflette: non ancora accettato, è al momento solo un «impiegabile». Non è un cittadino ma un fedele, un penitente, un sottomesso. Considera il datore di lavoro come il padrone-pastore della propria vita pubblica, giuridica, privata. Il padrone-pastore si rifiuta d’incontrarlo, lo ritiene un miscredente, un volubile, in fin dei conti un folle. Nasce così, secondo Foucault, il trattamento della follia nel ’400. I folli e i disadattati, in Germania e poi nel resto d’Europa, venivano imbarcati su un Narrenschiff - stultifera navis - e banditi da borghi e villaggi. Prima o poi la nave dei folli si vendicherà, perché la storia è fatta di queste tragedie, e delle nemesi che rispondono a queste tragedie.
Perché politici, analisti (ultimo in ordine di tempo Ernesto Galli della Loggia, «Quell'unità da ritrovare», Corriere della sera, 29 agosto) e persino la gente comune, quando parlano di problemi italiani, dell'unità del paese, della sua modernizzazione e del suo sviluppo, chiamano in causa soltanto due dei soggetti possibili, e cioè il Nord e il Sud?
Le Italie non sono due: le Italie sono tre. Fra il Nord e il Sud s'interpone infatti la corposa realtà di quella che i linguisti chiamano per l'appunto l'Italia mediana, e cioè Toscana, Umbria e Marche (con l'esclusione, da questo punto di vista, dell'Emilia-Romagna): alludendo al fatto che le parlate di questa zona del paese hanno strette parentele fra loro, mentre si distinguono nettamente sia da quelle settentrionali sia da quelle meridionali. Se poi affrontiamo la questione dal punto di vista della «memoria storica», e cioè di storia, oltre che linguistica anche culturale. letteraria e artistica, sarebbe fin troppo semplice arrivare alla conclusione che senza l'Italia mediana non ci sarebbe immagine dell'Italia in grado di competere con le immagini che di sé hanno dato nel corso dei secoli, e nonostante tutto continuano a cercare di dare, le altre grandi nazioni europee moderne. II resto lo hanno fatto ovviamente, per quanto ci riguarda, per motivi geopolitici comprensibili, alcune grandi città supernazionali e superstato come Venezia e Roma, e, in misura minore, e temporalmente più circoscritta, Napoli e Palermo. Ma l'apporto identitario complessivo della Italia mediana alla costruzione del livello identitario complessivo dell'Italia-Nazione non è stato mai raggiunto da nessun'altra parte o sezione (e regione) del nostro paese (neanche dal Piemonte, che pure dal punto di vista politico e militare è all'origine della sua riunificazione).
A questo nocciolo duro, di carattere culturale, artistico e linguistico, la cui genesi risale a più di mille anni fa, si è poi sovrapposta una complessa storia politica e istituzionale, che, al di là di talune apparenze, ha contribuito lentamente, e talvolta contraddittoriamente. a rafforzarne i principali caratteri unitari e identitari. Il governo pontificio, salendo da Roma e dal Lazio, s'è spinto fino oltre gli Appennini e ha inglobato quella che gli storici della cultura e della letteratura chiamano correttamente la Padania, e cioè l'Emilia-Romagna, l'unica regione italiana degna di questo nome (perché le altre regioni settentrionali sono un'altra cosa). E ha associato da allora anche la storia di questa regione italiana alla storia dell'Italia mediana. Un altro elemento unificante è stato in questa zona italiana - e qui ne parliamo nella maniera più allargata, comprendendovi tutti gli elementi che la compongono - la prevalenza molto a lungo di un'economia agricola e contadina (nonostante la presenza di grande isole capitalistico-industriali, destinate però a restare caratteristicamente tali). E' a questa preminenza dell'elemento agricolo e contadino che va ricondotto anche il carattere dominante del comunismo di quei luoghi.
Un particolare comunismo (con i suoi addentellati e successivi aggiustamenti) che ha governato queste terre pressoché ininterrottamente (altro elemento forte, anzi decisivo, di unità identitaria) negli ultimi sessant'anni. E' dalla mezzadria, e dalla sua crisi, che trae origine questa singolare prevalenza politico-culturale. Paradossalmente, l'ordine nuovo gramsciano è sopravvissuto più a lungo nelle campagne senesi che alla Fiat Mirafiori: e questo ce ne fa comprendere i molti limiti, ma anche qualche pregio. Il riformismo comunista nasce da queste parti, e per l'intreccio di questi motivi; e il riformismo piddino attuale ne discende (più o meno bene). Non c'è spazio ora per sviluppare fino in fondo questo ragionamento (sarebbe interessante chiedersi, ad esempio, da che parte stia Roma in questo schema: ma lo vedremo un'altra volta). In ogni caso, direi, si può innegabilmente parlare per il gruppo di regioni che formano l'Italia mediana più Emilia- Romagna, di un'innegabile identità storica, culturale, politica e persino antropologica. Un cittadino di Fidenza è molto più simile ad un cittadino di Cecina che ad uno di Busto Arsizio; e un cittadino di Cecina è molto più simile a un cittadino di Fidenza che ad uno di Castelvolturno. Persino da un punto di vista geopolitico-militare (sto un po' scherzando) l'Italia mediana risulterebbe vitale, anzi, indispensabile, all'esistenza dell'ltalia- Nazione: se decidesse un giorno di sfilarsene, il Nord e il Sud diventerebbero immediatamente monconi di stato, senza più rapporti fra loro. Insomma, domandiamoci: questo consistente conglomerato sovraregionale è Sud? No. E' Nord? No. Allora è un'altra cosa. Se le cose stanno così, appare legittima la domanda: perché mai alla «questione Italia mediana» si dà, e si continua a dare, un peso insignificante, anzi quasi nullo, anche quando si affronta la grande e oggi attualissima questione dell'Italia-Nazione»? Io mi do tre risposte, che potrebbero anche essere intese semplicemente come prime osservazioni nel merito:
1) «La questione meridionale» e, più recentemente la «questione settentrionale», sono state agitate da decenni, nel primo caso da più di un secolo, come eventi e fattori drammatici dello sviluppo o, a seconda dei casi, del regresso nazionali. La questione dell'Italia «mediana» si è più lentamente e sotterraneamente sviluppata, nonostante certi passaggi laceranti (si pensi, appunto, alla crisi della mezzadria e della campagne), ricucendo via via gli strappi o per lo meno ponendovi mano più autonomamente, senza ricorrereal forziere nazionale allo scopo di porvi riparo. Questa parte del «sistema Italia» è stata cioè sempre più «normale» delle altre: effetto, tra l'altro, presumibilmente, della lunga durata e stabilità del governo amministrativo e regionale locale, che non ha eguali nel resto del paese. Non si capisce però perché, in nome di questa assenza di traumi, un'entità sovraregionale così significativa e poderosa non possa o addirittura non abbia l'obbligo d'inserirsi con un suo punto di vista e un suo programma nel concerto unitario nazionale, tanto più che è abbastanza certo che, cosi facendo, non lo indebolirebbe ma lo rafforzerebbe.
2) II ceto politico di governo locale, comunista-progressista-democratico ha goduto, come abbiamo già detto, di una lunghissima durata e continuità di governo, il cui lato negativo, in taluni casi e situazioni pesantissimo, sono stati il calo drammatico della capacità innovativa, l'autodifesa a tutti i costi e il contagio di metodi e obiettivi caratteristici della «questione meridionale» (ad esempio la speculazione immobiliare). La Toscana ha attraversato una fase involutiva di questa natura, da cui, mi pare, sta lentamente uscendo. Per diventare «questione nazionale» la «questione dell'Italia mediana» dovrebbe presentarsi chiaramente come alternativa, nelle soluzioni e nei metodi proposti, sia alla «questione settentrionale» sia alla «questione meridionale». Perché questo avvenga, ci vorrebbe un patto interregiona1e, che contrapponga chiaramente al Nord «nordista e al Sud «sudista» un Centro (in senso geografico-politico, s'intende), civile, democratico, progressista e riformatore.
3) Non c'è stata, e tuttora non c'è, un'intelligenza politica di rapporti, controlli e processi osmotici fra ceto politico comunista- progressista-democratico locale dell'ltalia mediana più Emilia Romagna e ceto politico comunista-progressista-democratico centrale, ovvero nazionale. Può sembrare strano che questa osservazione sia formulata nel momento in cui è Segretario del Pd Pierluigi Bersani, puro prodotto del vivaio emiliano (e bisognerebbe, certo, ricordare anche Prodi, non indegno rappresentante del medesimo ceppo, sul versante cattolico). Ma io mi riferisco a un processo più complessivo: e cioè a quello che fa del personale politico amministrativo locale il serbatoio consistente e sistematico di quello nazionale. Anche in questo caso, c'è sempre stato un eccesso di delega a Roma nella formazione del ceto dirigente progressista (eredità, non avrei dubbi, del centralismo democratico comunista). Due personalità come D'Alema e Veltroni si spiegano al novanta per cento con il particolare biografico che tutta la loro formazione si è svolta nel perimetro un po' ristretto che sta fra Via dei Frentani, Piazza Montecitorio e Via delle Botteghe Oscure (con più, per D'Alema, l'avventura pugliese, per lui di certo non inutile). Se si nasce a Roma, si cresce a Roma, si vive e lavora quasi esclusivamente a Roma, la tendenza a guardarsi, invece che a guardare, diventa strutturale, anzi genetica. Se si stabilisse un organico e sistematico processo di valorizzazione e transfert delle competenze fra periferie e centro, e magari viceversa, forse entrerebbe più aria pura nel Palazzo e la politica tornerebbe a parlare più facilmente il linguaggio della gente (tenendo anche conto del fatto che, parlando sempre per paradossi, se si togliesse alle forze progressiste nazionali la dote di voti che viene loro dall'Italia mediana più Emilia-Romagna, la percentuale delle loro consultazioni elettorali scenderebbero ad una cifra).
Insomma, esistono tutti i presupposti storici e culturali perché sia possibile parlare a pieno titolo di una terza Italia, che è quella «mediana»; ed oggi ne esistono anche tutte le condizioni politico-istituzionali, affinché questo sia riconosciuto e soprattutto venga praticato. Perché allora non fado, se storia e opportunità politica ci spingono a farlo?
Per gentile concessione dell´editore anticipiamo parte della premessa dell´ultimo libro di Ulrich Beck "Potere e contropotere nell´età globale" in uscita per Laterza
Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all´assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L´incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull´economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovranità e identità territoriali. Lo si può mostrare in relazione a quasi tutti i temi scottanti del nostro tempo. Chi, di fronte alla disoccupazione di massa e all´occupazione precaria in rapida diffusione promuove l´ideale della piena occupazione, offende l´umanità. Chi, nei Paesi in cui il tasso di natalità è sceso sotto la soglia fatidica di 1,3 figli per ogni donna, afferma che le pensioni sono al sicuro, offende l´umanità. Chi, di fronte alla drastica riduzione dei proventi dalle imposte sui profitti vanta i meriti della globalizzazione, che consente ai grandi gruppi economici transnazionali di mettere gli Stati gli uni contro gli altri, offende l´umanità. Chi, nell´era delle catastrofi ambientali e degli avvelenamenti alimentari in atto o incombenti proclama che la tecnica e l´industria risolveranno i problemi da esse stesse prodotti, offende l´umanità.
Il successo di questo fenomeno, a destra e a sinistra, dipende anche dal risentimento. Noi europei facciamo come se esistessero ancora la Germania, l´Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo, ecc. E invece non ci sono più da un pezzo, poiché quelle riserve di potere che sono gli Stati nazionali chiusi in se stessi e le unità nazionali delimitate l´una rispetto all´altra sono diventate irreali al più tardi con l´introduzione dell´euro. Nella misura in cui c´è l´Europa non esistono più la Germania, la Francia, l´Italia, ecc. (anche se questi Paesi continuano a governare nelle teste delle persone e nei libri illustrati degli scrittori di storia), poiché non ci sono più le frontiere, le competenze e gli spazi di esperienza esclusivi su cui si fondava questo mondo di Stati nazionali. Ma se tutto ciò è passato, se il nostro pensiero, le nostre azioni e le nostre ricerche si muovono all´interno di categorie-zombie, quale mondo si sta formando o si è già formato?
(...) Per comprendere il terremoto politico provocato e sfruttato dal populismo di destra occorre mettere in luce le fonti della sua potenza. Esse risiedono nel fatto che qui i temi e i motivi cari al nuovo controilluminismo da cui è connotata la modernità europea – la lotta contro il declino e la decadenza, la rinascita dei vecchi valori e delle vecchie comunità – vengono applicati ai tabù attuali della modernizzazione radicalizzata. In tutto ciò è irritante questa massima del «sia ... sia», che rimescola i fronti del politico. Il cosiddetto «populismo di destra» non è affatto un populismo solo di destra, ma un populismo sia di destra che di sinistra. Esso può essere particolarmente potente e inquietante perché questo tipo di politica lega, assorbe, combina, sintetizza ciò che sembra escludersi: obiettivi di destra con metodi di sinistra, la rottura emancipatrice dei tabù messa in scena dai mass-media, che sprigiona il potenziale tossico del risentimento antimoderno. Ciò si riflette anche nella reazione pubblica. Si denuncia la demagogia dei populisti come un pericolo per la democrazia stabilita – ma, perlomeno in cuor proprio, la si saluta come una terapia d´urto necessaria a scuotere la democrazia dal suo letargo. Pertanto, la potenza dei populisti è direttamente proporzionale alla mancanza di risposte della politica stabilita alle domande di un mondo radicalmente mutato.
Tutto ciò può essere osservato come sotto una lente d´ingrandimento se si prendono in considerazione (come fa questo libro) le conseguenze della globalizzazione (...).
In questo libro la globalizzazione è intesa e sviluppata – riprendendo questi approcci ma nello stesso tempo facendo un passo al di là di essi – come trasformazione storica. Da questa prospettiva emerge che, nello spazio di potere dai contorni ancora indefiniti di una politica interna mondiale, la distinzione tra il nazionale e l´internazionale su cui si era basata la nostra visione del mondo è cancellata (...).
Se ciò che è nazionale non è più nazionale e ciò che è internazionale non è più internazionale, allora il realismo politico prigioniero dell´ottica nazionale è sbagliato. Al suo posto – è questo l´argomento di questo libro – subentra un realismo politico di cui occorre comprendere la logica di potere e che assegna un posto centrale al ruolo decisivo dell´economia mondiale e dei suoi attori nella collaborazione e nel contrasto tra gli Stati, ma anche alle strategie dei movimenti transnazionali della società civile, ivi compresi i movimenti anticivili, ossia le reti terroristiche, che mobilitano contro gli Stati la violenza privatizzata per perseguire i propri obiettivi politici.
Un realismo, ovvero un machiavellismo, cosmopolitico risponde in particolare a due domande. Primo: come e attraverso quali strategie gli attori dell´economia mondiale impongono agli Stati le leggi della loro azione? Secondo: come possono a loro volta gli Stati riconquistare un meta-potere statuale-politico di fronte agli attori dell´economia mondiale per imporre al capitale mondiale un regime cosmopolitico che includa anche la libertà politica, la giustizia globale, la sicurezza sociale e la conservazione dell´ambiente?
L´importanza e la pertinenza di questa nuova politica economica mondiale derivano per un verso dal fatto che essa in quanto teoria del potere è sviluppata nello spazio strategico dell´economia transnazionale e, per un altro, dal fatto che nello stesso tempo essa risponde alla domanda che allora si pone: come può il mondo della politica organizzata per Stati (nei suoi concetti fondamentali, nel suo spazio di potere strategico, nelle sue condizioni di contorno istituzionali) aprirsi alle sfide dell´economia mondiale ma anche ai problemi derivati dalla modernizzazione?
(...) Lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche. Gli attacchi terroristici dell´11 settembre 2001 insegnano, non ultimo, che la potenza non è sinonimo di sicurezza. In un mondo radicalmente diviso la sicurezza potrà esserci solo quando ognuno sarà disposto a – e capace di – vedere il mondo della modernità scatenata con gli occhi dell´altro, dell´alterità, cioè quando l´evoluzione culturale risveglierà in ciascuno questa apertura e quest´ultima sarà diventata quotidiana .
(...) Se si dischiude intellettualmente e politicamente lo spazio di potere mondiale al di là delle vecchie categorie di «nazionale» e «internazionale», si aprono (accanto alle spiegazioni della reazione populistica) prospettive di un rinnovamento cosmopolitico della politica e dello Stato.
Il famoso saggio sulla «Tragedia dei comuni» scritto dal biologo Garret Harding negli anni Sessanta è stato l'ultimo tentativo di legittimare l'individuo proprietario, figura che ha profonde radici nella cultura giuridica. Il nodo vero da sciogliere è il potere e lo statuto politico del «comune»
Ogni volta che viene avviata una la riflessione sull'attuale statuto giuridico dei beni comuni bisogna sempre fare un'incursione nel passato. Il punto fondamentale da mettere in rilievo è che in Occidente fin dalle sue origini la dimensione giuridica si è conquistata un ruolo fondamentale articolandosi intorno all'«individuo-proprietario», dominus di un dato territorio. In effetti, alle radici del diritto romano si trovano le esigenze contingenti di una società clanica patriarcale nella quale i pater familias insieme al loro gruppo controllavano spazi territoriali definiti su cui esercitare sovranità. I clan (gentes) erano fra loro formalmente uguali, come fossero «micro stati» di un ordine internazionale di stati sovrani.
La legge dei patrizi
Il diritto e le istituzioni romane nascono dunque intorno al 500 avanti cristo per progressive cessioni di sovranità fra clan uguali stanziati su territori limitrofi, rappresentati dai pater familias, proprietari fondiari che col tempo si raccolsero politicamente nel Senato. I conflitti privati fra pater familias sul dominium (proprietà privata) e sui suoi limiti e confini crearono la necessità di istituzioni volte alla loro risoluzione. Tali istituzioni giuridiche si svilupparono ed autonomizzarono gradualmente da quelle politiche specie nel cosiddetto periodo classico fra il primo secolo avanti cristo e il primo dopo cristo. Esse sostanzialmente consistettero in meccanismi di nomina, ad opera del pretore (un politico) di un patrizio (un pari dei patres coinvolti nel conflitto) come iudex al fine di affidargli la soluzione della controversia. Il iudex era scelto in quanto pari dei litiganti e non era dotato perciò di alcunché di paragonabile ad una «cultura giuridica». Oggi diremmo che era un laico.
Man mano che la società divenne più complessa, fu sempre più necessario coinvolgere «professionisti» privati, dotati di conoscenza del diritto, (i giuristi). Costoro nel lavorio dei loro circoli e delle loro scuole avevano sviluppato e conservavano in buon ordine un armamentario tecnico fatto di formulae capaci di ridurre la complessità di ogni singolo conflitto in un'alternativa secca, risolvibile in termini di ragione o di torto. Chi ha diritto e chi torto nel complicato conflitto fra Aulo Agerio (colui che agisce in giudizio) e Numerio Negidio (colui che nega di dovere del denaro)? Il conflitto fra soggetti proprietari andava distillato in un'alternativa semplice e chiara anche per un non giurista da sottopore allo iudex del caso di specie ma anche riproducibile in successivi eventuali casi simili. In questo modo il diritto occidentale nasce come un gioco a somma zero (che scarta i dati fattuali ritenuti irriproducibli e quindi irrilevanti) in cui la ragione di un proprietario si estende soltanto fino a quella dell'altro suo antagonista che ne nega il potere. Infatti, chi supera le proprie ragioni, oltrepassando i confini del suo diritto si mette dalla parte del torto che è l'opposto del diritto (in italiano la «diritta» via si contrappone a quella «storta»).
I feudatari di Guglielmo
In questo originario quadro istituzionale e (successivamente) concettuale si sviluppa il diritto occidentale. Alle sue radici c'è una concezione che si radica nelle necessità dell'individuo (proprietario) collocato in relazione conflittuale (a somma zero) con una controparte processuale. La compilazione del Corpus iuris civilis di Giustiniano (476 dopo Cristo) collocata all'epilogo di una vicenda giuridica durata mille anni, consegna all'Occidente i suoi testi giuridici fondamentali. Oltre ad un libro introduttivo noto come Istituzioni ed una raccolta di leggi e decreti di natura politica ( Codex e novelleae), Giustiniano racoglie ed offre ai posteri un insieme selezionato di opinioni di giuristi (principalmente Paolo, Ulpiano e Modestino) volte a dirimere conflitti reali, formulandoli in termini di ragione o di torto (cinquanta libri di pandettae o digesto). Sulla base della compilazione giustinianea si svilupperà a partire dall'XI secolo tutta la «sapienza civile» formalizzata e tramandata fino a noi dalle facoltà di giurisprudenza continentali .
Un modello molto simile, fondato (sebbene meno pervasivamente) sugli stessi materiali di provenienza romana viene formalizzato e conservato fino ai nostri giorni dalla giurisprudenza delle Corti superiori della tradizione anglo-americana. Le Corti di common law, centralizzate in Inghilterra a partire dal XII secolo, si svilupparono a loro volta per dirimere i conflitti fra i grandi proprietari fondiari (Baroni), beneficiati da Guglielmo il Conquistatore di diritti dominicali di natura feudale. Anche qui i giuristi professionisti svolsero un ruolo molto simile a quello dei loro antenati romani nel preparare l'alternativa secca che ancor oggi viene sottoposta alle giurie popolari laiche (l'equivalente contemporaneo del iudex).
In questo quadro teorico ed istituzionale il posto occupato dai beni comuni è del tutto marginale. Infatti, ciò che non è in proprietà privata può appartenere alla res publica (lo Stato, grande assente dell'esperienza medievale continentale) o può essere res nullius (cosa di nessuno) in quanto tale appropriabile liberamente. In conceto di res communis omnium, né privata né statale pur non assente, risulta largamente sottoteorizzata nella tradizione occidentale molto probabilmente perché da sempre l'occupazione del comune ad opera del più forte è uno dei più diffusi strumenti di accrescimento della proprietà privata. Ne segue che la sottoteorizzazione della differenza fra quanto appartiene direttamente a tutti (senza la mediazione dello Stato) e quanto non appartiene a nessuno è funzionale alle esigenze della classe proprietaria (comunque «padrona del diritto») interessata ad ampliare le proprie possibilià di occupazione confondendo i due concetti.
Questo è vero anche oggi perché l'ideologia dominante è prodotta nell'interesse esclusivo delle classi proprietarie (si pensi al successo arriso al saggio scritto dal biologo Garret Harding nel 1968 e significativamente pubblicato dalla rivista Science con il titolo la «Tragedia dei comuni» che si fonda sull'assunto palesemente ideologico che i commons siano liberamente appropriabili). Infatti nell'esperienza contemporanea i dipartimenti di economia delle università americane svolgono la stessa funzione di «apparati ideologici» al servizio delle classi abbienti tradizionalmente propria dei giuristi. In cambio della costruzione di ideologia giuristi ed economisti traggono potere, prestigio professionale e denaro.
Tuttavia esistono pure ragioni più profonde legate alla struttura stessa del diritto come sopra descritta che spiegano la marginalità del comune rispetto all'accoppiata proprietà privata/Stato nell'immaginario giuridico occidentale. Il comune in quanto potere diffuso (o non potere) risulta strutturalmente incompatibile con il processo. Infatti, dato il descritto assetto istituzionale volto primariamente alla soluzione di conflitti fra privati proprietari, ben difficilmente in pratica il comune sarà in grado di trovare qualcuno che lo rappresenti in giudizio (convenendo quanti cercano di appropriarsene). Da un lato infatti il comune era normalmente fruito da non proprietari, di regola contadini poveri in quanto tali non dotati di mezzi sufficienti per avere accesso alle corti. Basti pensare alla facilità con cui essi furono vittimizzati dalle enclosures volute nell'Inghilterra delle prime manifatture dall'alleanza proprietà privata-Stato.
Arrivano le class action
D'altra parte, la struttura del processo avversariale come gioco a sommazero richiede un interesse ad agire specifico riferibille ad un dato individuo. I beni comuni, caratterizzati da fruibilità diffusa, appartenendo a tutti non consentono di individuare nessuno che sia dotato di un interesse speciale rispetto ad essi tale da legittimarne la rappresentanza in corte. In altri termini, in un processo visto come gioco a somma zero fra un vincitore e uno sconfitto non c'è posto (salvi speciali accorgimenti tecnico-processuali tipo class actions sviluppatisi in via eccezionale solo molto di recente) per un'azione legale i cui benefici siano diffusi in modo potenzialmente illimitato. è il problema noto nel diritto americano come standing to sue (letteralmente: alzarsi in piedi per fare causa): chi fra l'altissimo numero di beneficiari dell'acqua potabile (o dell'aria pulita) può differenziare a sufficienza il suo interesse rispetto a quelllo di tutti gli altri in modo da ergersi a suo paladino esercitando i poteri processuali che derivanoi dalla lite? Si tratta di un problema di grande impatto pratico perché le Corti sono riluttanti ad ammettere tutto ciò che si discosta dall'archetipo del gioco a somma zero e che i vari diritti risolvono (quando risolvono) in modo ecezionale.
Insomma sembra proprio di poter dire che i beni comuni scontano una forma di incompatibilità archeologica e strutturale con gli aspetti più profondi della giuridicità all' occidentale, fondata sull' abbinata universalizzante ed esaustiva proprietà privata/Stato e, più di recente, sulla retorica dei diritti individuali. Tutto ciò evidentemente chiama il giurista ad un compito tanto difficile quanto entusiasmante ed urgente: costruire le basi nuove di una giuridicità che ponga al centro il comune per contribuire alla costruzione di un'autentica sostenibilità di lungo periodo sottratta agli appetiti predatori della proprietà privata e dello Stato.
Si può fare a meno di una politica industriale? La domanda non è retorica, perché in sede europea la politica industriale è, in realtà, proibita. A Bruxelles, da sempre, si identifica la politica industriale con pratiche protezioniste, che contrastano con i principi di concorrenza fondativi dei trattati comunitari.
Naturalmente, il protezionismo riappare sempre sotto nuove forme in diversi settori e diversi paesi dell’Unione. Ad esempio, un paese come l’Inghilterra, che gode di un mercato finanziario molto sviluppato, tende a concentrare su di sé la massima quantità di scambi finanziari, proteggendo la propria specializzazione (acquistando, ad esempio, le borse di altri paesi). Oppure, grandi imprese pubbliche fingono di essere private, come l’Electricité de France, le Landesbank in Germania, l’Eni in Italia, realizzando formidabili protezioni entro i propri confini. La produzione militare è sempre stata protetta, perché anche nella Comunità europea le politiche nazionali di difesa hanno un trattamento particolare. Grandi conglomerate, non perseguite come forme monopolistiche da antitrust europeo o nazionale, concentrano nel paese di origine direzione e proprietà. In fondo, anche la differenziazione del prodotto, così comune tra noi,comeilDOC,è una forma di protezionismo, tanto più forte quanto più il DOC si estende a quantità sempre più grandi (ma se la qualità non si mantiene, la protezione si diluisce).
Quando, da noi, si invoca una politica industriale, si vuole affermare tutt’altra cosa. Qualche esempio può essere utile: la difesa dei posti di lavoro in imprese in crisi è una politica industriale, e non protezionistica,quando si fonda sull’ipotesi che l‘impresa chiuderebbe per difetto di management,di finanziamento o di proprietà; il sostegno alla ricerca e all’innovazione è politica industriale e non protezionistica, quando porta ad un miglioramento estensibile a tutto il mercato; lo stimolo allo sviluppo dell’impresa locale è politica industriale e non protezionistica se valorizza risorse non utilizzate; anche la politica che fa impresa con risorse e gestioni pubbliche non è protezionistica, se porta al successo l’impresa e alla sua cessione al mercato. La “green economy”, così popolare, è forse, oggi, la più grande politica industriale: e ha un significato così poco protezionistico, che la stessa Comunità europea, talvolta ipocriticamente, la raccomanda come strategia di sviluppo. È noto, ad esempio, che basterebbe qualche norma o legge che accelerasse l’obsolescenza di processi e prodotti nocivi all'ambiente, per generare domanda e produzioni sostenibili e non protezionistiche. Forse il criterio di fondo di una politica industriale è quello di suscitare nuove imprese e nuovi processi senza perciò ridurre fatturati e redditi in altre aree o settori dell’Unione europea. Vista in questo modo, la politica industriale non riguarda solo l’industria, ma si applica a qualsiasi settore, da quello agricolo e della pesca, a quello dei servizi e della finanza. Centrale è però, sempre, il ruolo pubblico: dello Stato centrale e delle Regioni.
Il nostro paese non pratica da anni una politica industriale, nel senso appena indicato. Anche nella green economy, salvo incentivi all’automobile, peraltro poco green e molto aziendalisti, e a qualche forma di energia rinnovabile (con prodotti largamente acquistati all’estero), non si è costruita una politica di ampio respiro. Le priorità economiche in Italia sono più legate alla riduzione di deficit e debito pubblici che alla crescita di un Pil sostenibile, ed è bene ricordare che un miglioramento della finanza pubblica non implica affatto un Pil maggiore e maggiore occupazione, mentre preclude la possibilità di finanziare, appunto, la politica industriale. È probabile che non si persegua una politica industriale, specie in tempi di crisi come l’attuale, perché il suo maggior pregio, la riduzione della disoccupazione, non è considerato un beneficio economico: altrimenti il governo non si farebbe scudo degli ammortizzatori sociali, quasi ad esaurire le politiche industriali nelle politiche assistenziali. Queste sono importanti, ma costano di più di politiche industriali che aumentano i posti di lavoro.
Non si ricorda quasi mai lo spreco della disoccupazione: tanta forza lavoro non utilizzata e, perciò, tanta impresa, tanto gettito fiscale, tanto benessere perduti: e quanti diritti indeboliti. Oggi stiamo vivendo una forte regressione sociale con la disoccupazione e l’inoccupazione, che colpisce da un lato le donne, spingendole (200.000 in un anno) a tornare nel tradizionale ruolo domestico, e dall’altro i giovani, chiudendoli nell’utero familiare, annullando anni di progresso civile.
Siamo così lontani da considerare lo spreco di forza lavoro la più grave perdita economica, che le nostre statistiche non registrano il tasso di sottoccupazione – le ore di lavoro perdute - l’unica vera misura dello spreco. Abbiamo bisogno di una politica industriale non per acquistare prestigio in Europa e nel mondo, ma per valorizzare la ricchezza del nostro patrimonio lavorativo.
E’ utile ricordare come fu possibile, appena sette-otto decenni fa, la distruzione degli zingari nei campi tedeschi. Non fu un piano di sterminio accanitamente premeditato, in origine non nacque nella mente di Hitler. Nel libro Mein Kampf si parla di ebrei, non di zingari.
La distruzione (in lingua rom Poràjmos, il «grande divoramento») ha le sue radici nella volontà tenace, insistente, delle campagne e delle periferie urbane tedesche: un fiume di ripugnanza possente, antico, che la democrazia di Weimar non arginò ma assecondò. Chi ha visto il film di Michael Haneke Il nastro bianco sa come prendono forma i furori che accecano la mente, escludono il diverso, infine l’eliminano perché sia fatta igiene nella famiglia, nel villaggio, nella nazione. Anche l’antisemitismo ha radici simili, tutti i genocidi sono favoriti da silenziosi consensi. Ma l’odio dei Rom e dei Sinti (zingari è dal secolo scorso nome spregiativo) riscuote consensi particolarmente vasti.
È un odio che ancor oggi s’esprime liberamente, nessun vero tabù lo vieta: in parte perché è sepolto nelle cantine degli animi, dove vive indisturbato; in parte perché è un’avversione non del tutto razziale; in parte perché il loro genocidio non ha generato l’interdizione sacra tipica del tabù. A differenza di quello che accadde per gli ebrei, nel dopoguerra non si innalzò in Europa una diga fatta di vergogna di sé, di memoria che sta all’erta. Si cominciò a parlare tardi degli zingari, i libri che narrano la loro sorte sono sufficienti ma non molti.
E’ strano come Sarkozy, figlio di un ungherese, non abbia ricordo, quando decide l’espulsione dei rom, di quel che essi patirono in Europa orientale.
È strano che non ricordi quel che patiscono ancor oggi nei Paesi da cui fuggono, perché l’Est europeo è uscito dalle dittature denunciando il totalitarismo comunista ma non i nazionalismi etnici, non l’ideologia che mette il cittadino purosangue al di sopra della persona: in Romania, Bulgaria, Ungheria, i rom sono trattati, nonostante il genocidio, come sotto-persone. Rimpatriarli spesso è condannarli ancor più. È anche un’ipocrisia, perché come cittadini europei i rom possono tornare in Francia o Italia senza visti. Spesso vengono chiamati romeni. Sarebbe bene sapere che i Rom sono detestati dalla maggioranza dei Romeni. Ovunque, la crisi economica li trasforma in capri espiatori. Il più delle volte non è la razza a svegliare esecrazione. È il modo di vivere itinerante. L’Unione, allargandosi nel 2004 e 2007, ha accolto anche questa comunità speciale, per vocazione non sedentaria, originaria dell’India, insediatasi nel nostro continente cinque-sei secoli fa, ripetutamente perseguitata. Una direttiva europea restringe la libera circolazione se l’ordine pubblico è turbato, ma la direttiva vale per i singoli e comunque decadrà nel dicembre 2013.
Non è chiaro chi oggi abbia ricominciato questa storia di esclusioni, di muri che separando i nomadi dal cittadino «normale» impedisce loro di divenire sedentari se vogliono, di trovar lavori, di non cadere nelle mani di mafie. È probabile che Berlusconi e Bossi abbiano svolto un ruolo d’avanguardia: un ruolo di «modello per l’Europa», ha detto monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei (La Stampa, 22 agosto). Molti governi dell’Est si sono sentiti legittimati dall’Italia, Paese fondatore dell’Unione. Ora Sarkozy si fa megafono del fiume d’esecrazione. La parola che ha ripetuto più volte, parlando di immigrati, di rom e di delinquenza a Grenoble, era «guerra». Nello stesso discorso, il Presidente ha annunciato che il cittadino di origine straniera colpevole di delitti perderà la nazionalità francese (la parola décheance, revoca, rimanda a déchet, pattume).
La democrazia non ci protegge da simili deviazioni, proprio perché la volontà del popolo è il suo cardine. Giuliano Amato lo spiega bene, in un articolo sul Sole-24 Ore del 22 agosto: ci sono momenti, e la crisi economica è uno di questi, in cui può crearsi un conflitto mortale fra i due imperativi democratici che sono l’esigenza del consenso e quella di preservare la propria civiltà. Il leader democratico ansioso di raccogliere immediati consensi vince forse alle urne, ma non salva necessariamente la civiltà («Non a caso nell’assetto istituzionale delle democrazie si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui le maggioranze sono meno sensibili»).
Sono rari, nei moderni Stati-nazione, i leader che sappiano tener conto di ambedue gli imperativi, e nei momenti critici anteporre le esigenze della civiltà a quelle del consenso. Quando Obama si dichiara non contrario alla costruzione di una moschea nei pressi di Ground Zero difende la costituzione laica e la storia americana lunga, non la storia tra un sondaggio e l’altro. Il consenso sente di doverselo creare a partire da qui, sapendo che può anche perderlo. In genere, quando i governanti esaltano ogni minuto la sovranità e le emozioni del popolo non è il popolo a governare: sono le oligarchie, i poteri segreti, le mafie.
Anche la nostra Costituzione ha lo sguardo lungo, e non a caso dà la preminenza alla persona, più ancora che al cittadino. Tutti gli articoli che concernono i diritti fondamentali (libertà, divieto della violenza, inviolabilità del domicilio, responsabilità penale, diritto alla salute) parlano non di cittadini ma di persone o individui, e precedono la Costituzione stessa.
Il nomadismo è una forma di vita che tende a scomparire, ma resta una forma della vita umana. Il non aver fissa dimora, il vivere in roulotte, il muoversi in carovane («in orde», era scritto nei decreti d’espulsione ai tempi di Weimar e di Hitler): tutto ciò è parte della cultura dei Rom e Sinti. Lo è anche la scelta di adottare la religione dei Paesi in cui vivono: è l’integrazione che prediligono da secoli. Come tutti i cittadini anch’essi delinquono, specie se vessati. I più sono cittadini plurisecolari dei Paesi in cui girovagano o si sedentarizzano. Da noi, l’80 per cento dei Rom sono italiani.
Non sono mancate le proteste contro la politica francese (700 rimpatri entro settembre): nell’Onu, nell’Unione europea. Hanno protestato anche importanti leader della destra: primo fra tutti Dominique de Villepin, secondo cui oggi esiste sulla bandiera una «macchia di vergogna». Resta tuttavia il fatto che i Rom non hanno un Elie Wiesel, che in loro nome trasformi il divieto di odio in tabù. Possono contare solo sulla Chiesa, memore della parabola del Samaritano e della storia d’Europa.
L’Europa e le costituzioni postbelliche sono state escogitate per evitare simili ricadute, sempre possibili quando il nazionalismo etnico di tipo ottocentesco riprende il sopravvento. Le strutture imperiali erano più propizie alla diversità, e il compito di uscire dalle gabbie etniche e restaurare autorità superiori a quelle degli Stati sovrani spetta al potere superiore che in tanti ambiti giuridici oggi s’incarna nell’Unione. È l’Europa che deve ripensare lo statuto dei Rom: permettendo loro di continuare a viaggiare, di trovar lavoro, di difendersi dalle mafie, di rispettare la legge e l’ordine.
Nel quindicesimo secolo, quando migrarono in Europa, gli zingari avevano una protezione-salvacondotto universale, non nazionale o locale: la protezione del Papa e quella dell’Imperatore. Solo una protezione di natura universale può garantire «le legittime diversità umane» cui ha accennato Benedetto XVI nell’Angelus pronunciato in francese il 22 agosto. Oggi i Rom hanno la protezione del Papa. Quella dell’Imperatore (della politica) è crudelmente latitante.
Anche la storia di un libro, delle sue diverse edizioni, può restituire le trasformazioni culturali di un paese. E può accadere che un grande studioso della memoria – dei suoi luoghi, dei suoi miti, dei suoi simboli – prenda le distanze da un titolo che in origine appariva seducente e innovativo, per scolorire quindici anni dopo nell´indistinto dello stereotipo. È il caso di Mario Isnenghi e del suo I luoghi della memoria, straordinaria enciclopedia dell´Italia unitaria, riproposta ora da Laterza dopo la prima edizione del 1996. «Tanto suggestiva e plastica al suo apparire, la formula è diventata una frase fatta, adibita alle più diverse incombenze di turismo culturale», dice lo storico riprendendo in mano il suo vecchio lavoro, una storia d´Italia scritta a più voci attraverso materiali inusuali come le piazze e le osterie, le canzoni popolari, i grandi riti del calcio e del ciclismo insieme a un variegato repertorio di icone che spaziava dal tricolore all´utilitaria. Un tapis roulant attraverso le diverse memorie - così lo definiva l´autore - che serviva a riaffermare un´identità nazionale già allora fortemente contestata. Ma la proliferazione di liturgie memoriali, germogliate in questi ultimi decenni, rischia di apparirgli ora come «una pianta infestante» che toglie ossigeno alle piante vicine, alla «fisiologia dell´oblio» e soprattutto alla «storia». Un abuso della memoria - per riprendere il lavoro di Todorov - che finisce per scavare irrimediabilmente il solco tra storia e discorso pubblico, oggi dominato «da un anarchicheggiante fai-da-te, in cui ogni asserzione del passato vale l´altra e tutte sono ugualmente indimostrabili e insignificanti».
Il cortocircuito è destinato a esplodere nel centocinquantesimo anniversario dell´unità d´Italia, su cui sono già cominciati i cannoneggiamenti antirisorgimentali da parte leghista ma anche filoborbonica e ultraclericale. Già da un paio d´anni condirettore della rivista Belfagor, Isnenghi vi replica ironicamente anche nella sua nuova edizione di Garibaldi fu ferito, appena uscita da Donzelli. «Figurarsi tutto il Risorgimento come congiura massonica e imposizione dei protestanti inglesi può valere a tardive vendette e ideologici risarcimenti. Ma certo, sporcare con le politiche della memoria la storia così come è stata non porterà a sostituirla con nessuna antistoria. Si può solo riuscire ad essere - tutti - ancora più confusi, disancorati, poveri di autostima».
Oggi rischiamo di buttar via il Risorgimento così come abbiamo tentato di buttar via la Resistenza. Qual è il nesso politico e culturale di questa liquidazione? «È la famosa morte delle ideologie», risponde lo studioso. «L´esaurimento delle grandi narrazioni, la fine della storia, addirittura. Siccome i grandi progetti non ci riesce più di pensarli e realizzarli noi neghiamo e sporchiamo anche quelli che hanno fatto gli altri. Processiamo il Risorgimento, riduciamo la resistenza a truci ammazzamenti». In un´opera recente della Utet, Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai giorni nostri, Isnenghi analizza tutte le ragioni e le motivazioni della disunità, le controspinte per non fare l´Italia. «I pro prevalsero sui contro - questa è storia - ma ce li portiamo dentro e ora esplodono. All´attacco ci vanno i leghisti ossia i frantumatori. Stufo dello sterco buttato addosso, qualche meridionale s´inventa la mossa del cavallo, ossia un meridionalismo reazionario tirando fuori Francesco II, e i briganti. Dei tre fronti i meno loquaci paiono gli eredi del Papa-Re. In effetti hanno sbancato il banco e possono sentirsi i vincitori: nel carnevale delle memorie, chi si ricorda oggi che ci fu un´Italia, un governo italiano che osò andar contro la volontà di un Papa?».
A fronte di un discorso pubblico impazzito, di un proliferare non più governabile di memorie e di soggettività - e i siti Internet sono ancora più «brulicanti di sospetti e orrori» - Isnenghi sottolinea la vitalità di una storiografia che esercita il suo mestiere, in una crescente divaricazione tra senso comune ed esiti della ricerca. «La crisi non è certo negli studi storici, ma nello iato tra queste ricerche e le dinamiche sociali e culturali disgregative nelle quali siamo immersi». Non è in gioco lo stile comunicativo degli storici, ma «un complesso di spinte convergenti, anche filosofiche non solo di bassa cucina politicante» che ha prodotto «lo sbriciolarsi dell´oggetto, la messa in dubbio della realtà fattuale, una discorsività labile e fuggevole».
Può colpire, nella più recente pubblicistica storica, un appassionato «neorisorgimentismo» che accomuna studiosi di culture politiche differenti - ex comunisti, cattolici e liberali - con percorsi talvolta non privi di ripensamenti. Pochi giorni fa nell´articolo "Nostalgia di Cavour" Ernesto Galli della Loggia lamentava a ragione la scarsa popolarità del Risorgimento, relegato anche ai margini della circolazione scolastica, mentre solo tre anni fa con un editoriale che sbigottì il liberale Giuseppe Galasso tendeva a interpretarlo come l´atto originario di una storia nazionale attraversata da violenza e illegalità. Come spiega Isnenghi questa nuova contagiosa (condivisibile) apologia risorgimentale? «È una difesa reattiva all´attacco sferrato a quella tradizione. Forse è successo anche ad altri quel che è accaduto a me o a studiosi come Silvio Lanaro. Novecentisti quali eravamo, abbiamo cominciato a ragionare sulla genesi dello Stato così vilipeso, opponendo alla spinta frammentatrice del discorso pubblico un ragionamento storico illuminista in difesa dello Stato e di una dialettica civile decorosa».
Grazie a Bossi, in sostanza, l´incontro con Garibaldi? «Sono un figlio bastardo della Lega», risponde Isnenghi. «Come veneto ci devo star dentro e pensare sopra, come veneziano ho potuto tenerne il collo fuori. E stato lui, il "Cattaneo" dei nostri giorni, a spingermi ad andare a vedere, facendo di me anche un ottocentista. Presa questa strada non potevo non incontrare Garibaldi. Nell´82, poi, ho anche scoperto di avere un avo garibaldino, e dunque qualche ragione d´ordine famigliare per schierarmi. E per schierarmi, sì, mi sono schierato».
Ma perché rivelare solo oggi la storia di quell´avo orologiaio partito da Trento per andare con i Mille? «Immagino che solo oggi, a questi lumi di luna, un certo orgoglio di immedesimazione abbia prevalso sul riserbo. E poi anche questo di Enrico è un micro-caso di studio per me significativo. Ho potuto constatare che i discendenti diretti di Enrico si radunano una volta l´anno in suo nome, ma è un ricordo spoliticizzato che prescinde dalla sua camicia rossa, starei per dire che a fatica gliela perdona. Lo studioso della memoria si trova in questo caso davanti agli imprevedibili smottamenti della memoria. Così è lo stesso avo garibaldino a suggerirmi di non prendere troppo sul serio né la memoria né gli studi sulla memoria».
È arduo farsi un´idea precisa della portata della trasformazione politica prodotta dai governi Berlusconi. Ma è urgente cominciare a fare un rendiconto per poter agire con prudente speditezza e capire che cosa fare. Partiamo dalle accuse mosse dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, al premier nel momento del suo congedo burrascoso dal Pdl. La prima accusa è di trattare gli affari di stato come affari di partito e gli affari di partito come affari suoi; la seconda accusa è di far passare l´impunitá per garantismo. La logica patrimonialista viene denunciata da anni; ora è confermata dal suo piú autorevole testimone. Queste le componenti inanellate: lo Stato è il partito e il partito è l´azienda del premier; di qui nasce la politica dell´illegalitá, che non è dunque una semplice questione morale. Tutto si lega nella logica privatistica che è, questo è il punto, una logica dell´anti-Stato.
Questo governo non lascerá solo macerie, dunque. Lascerá qualcosa di nuovo, forse il lascito piú tremendo e anche quello che occorrerá subito demolire, senza second thought. Il monito di qualche giorno fa del presidente della Repubblica a mettere in moto gli «anticorpi» interni alla nostra democrazia è un autorevole punto fermo dal quale partire. È urgente smontare il metodo di governo messo in piedi in questi anni, ovvero l´identificazione della decisione con l´emergenza, dell´informazione con la propaganda, della giustizia con la persecuzione, della legge con i lacci alla libertá, della pratica dell´illecito con la favola della «poche mele marce». A questo metodo corrisponde il teorema, sintetizzato dal presidente della Camera, della illegalitá sistemica, composta e ridimensionata ad arte come questione morale. Ma dietro il linguaggio bonario delle «poche mele marce» che il premier e i suoi Tg dispensano per noi popolo dell´ascolto passivo, si nasconde una vasta e organica trama di governo sotterraneo degli affari, delle amicizie, dei privilegi; una trama che ha la natura di una politica dell´anti-Stato, volta a cambiare il carattere del potere pubblico e delle relazioni tra Stato e cittadini.
Chiamandolo anti-Stato riconosciamo che questo partito-governo-azienda ha e ha avuto una filosofia, un progetto preciso, a suo modo sovversivo e radicale. In una lettera a Repubblica del 5 luglio scorso, il Ministro Bondi, spiegando la tempra innovativa del suo leader, affermava che la «solitudine» del premier rispetto, non all´opinione pubblica, ma «al mondo politico, istituzionale e culturale», al mondo delle «alte magistrature istituzionali» era causato proprio dal fatto che il premier è «totalmente avulso» dalla logica dello Stato di diritto, dal «potere di veto derivante da una architettura istituzionale» e «dalla sedimentazione di norme burocratiche». Questa analisi è illuminante e da prendere sul serio. Il presidente del Consiglio è un «uomo nuovo», e per questo ammirato da chi ha sempre sentito le istituzioni come un impaccio alla libertà, invece che come canali di coordinamento delle azioni collettive per rendere la libertà individuale sicura perché non alternativa alla libertà altrui.
Questa è una rottura radicale con lo Stato moderno; e una ferita che peserà sulla nostra democrazia, nonostante i suoi provati anticorpi. Peserà, perché l´ammirazione per il guasconismo del neofita non è per nulla un fatto isolato, ma una componente della nostra tradizione politica nazionale. Che il Premier sia visto come un modello di modernità a paragone dei funzionari pubblici (le «alte magistrature istituzionali») è segno di una filosofia radicalmente sovversiva della modernità: un´esaltazione della rivolta del dominium (potere della forza, economica e privata) contro l´imperium (potere del pubblico). Un nuovo ancien régime nell´età del mercato, una rivincita dell´oikos contro la polis, della «fatticità» della forza degli interessi contro la «nomatività» delle relazioni pubbliche, del fastidio quasi a veder trattare «me» e «te» come uguali nonostante il «mio» potere sia tanto più grande del «tuo», della repulsione verso l´eguaglianza di rispetto. Alcuni «rivoluzionari» di quarant´anni fa sono rimasti irretiti e stregati da questo «uomo nuovo» perché hanno visto in lui la personificazione della loro convinzione che l´idea della legge imparziale sia ideologia da parrucconi, fatta per nascondere il «vero» potere, quello che opera nella società, che agisce senza orpelli e senza ipocrita imparzialità.
Perché onorare le istituzioni se sono solo una formalità e un espediente ideologico? Perché non ammirare il potere nella sua diretta espressione? La lettura della «solitudine» di Berlusconi rispetto al mondo dello Stato rivela questa antica attrazione per il «realismo» contro la norma, il disprezzo per chi crede nel diritto e non sa ammirare il potere «reale», un potere capace di rimescolare il pubblico e il privato gettando alle ortiche la stantia e ipocrita arte liberale della limitazione e della separazione. L´illiberalità, denunciata anche da Fini, è la logica che presiede un´idea di libertà come potenza.
La pratica del rimescolamento di pubblico e privato che il Premier e i suoi amici e ammiratori hanno inaugurato in questi anni è un macigno che pesa e peserà ancora sulla nostra vita pubblica. Smantellare questa politica anti-istituzionale radicale è il compito più urgente, un compito il cui successo dipenderà da almeno due fattori: che l´opinione pubblica e l´informazione facciano il loro lavoro di svelamento e critica, che non accettino più di essere strumenti di nascondimento della verità per tenere i cittadini spettatori passivi e adoranti; che l´illegalità venga chiamata col suo nome e perseguita con sistematica determinazione affinché il governo degli affari sia smantellato e la sua filosofia si mostri per quello che è, una ideologia del potere illimitato.
L'insostenibile degrado del sapere
di Stefano Caffari
È davvero possibile mantenere anche solo la speranza, quando nessuna delle parti chiamate in causa in una lotta sono minimamente dalla parte della ragione e/o della correttezza? Una battuta fatta l'altro giorno tra amici mi ha fatto molto riflettere: «La Gelmini non sa neanche di cosa parla e taglia.. Ma pensa se conoscesse davvero quello che capita dentro l'Università cosa cazzo succederebbe». Apparentemente è un'esagerazione, ma più passano i giorni più mi convinco di quanto questa frase sia profondamente e drammaticamente veritiera. Ho finito ormai da un anno il mio percorso universitario, e nei cinque anni passati dentro questa istituzione ne ho viste di cotte e di crude e di qualsiasi tipo immaginabile. Ho visto una profondissima arretratezza culturale, un immobilismo vergognoso, la parola barone evocata in ogni sua possibile accezione. Insomma, in questi anni mi sono reso davvero conto di quanto questo sistema sia marcio e malato, basato su un gruppo di potere il cui unico e solo interesse è il mantenimento dello status quo, in qualunque senso: non ho mai visto un'innovazione didattica che una in 5 anni, nessuno spirito di ricerca e aggiornamento dei propri programmi e insegnamenti, profondo disprezzo per gli studenti avvertiti come un fastidio e un urticante obbligo di interazione quotidiana. Magari è sempre stato così, del resto lo stereotipo dei «bei tempi andati» è sempre in agguato. Ma il peggioramento è visibile, e chiunque se ne rende conto.
L'altro aspetto speculare a tale marciume sono gli studenti, naturalmente. La società berlusconiana ha intaccato profondamente tutti, e intendo veramente TUTTI. L'Università è per gli studenti non un luogo di istruzione superiore ma un supermarket di crediti e punti da sfangare nel modo più semplice possibile, con l'esame più «fattibile», con il «prof più buono». Sono poche le persone che cercano di far capire come l'Università invece vada vissuta con spirito critico e conoscitivo, ma sono sommerse da una valanga di arroganza e pressappochismo che vede negli studenti un'onda montante sempre più preponderante.
I professori dal canto loro, che si fingono vittime di tale processo storico, hanno responsabilità gravi e pesantissime, perché vivono l'Università esclusivamente come il proprio orticello di potere dove sperimentare quotidianamente guerre fra bande alla ricerca di Potere&Prestigio, meglio ancora se sulle spalle del lavoro di numerosi e servili sottoposti. Sono questi professori, che si stracciano fintamente le vesti in realtà non protestando mai davvero quando la politica taglia fondi su fondi (peccato che molti di loro poi siano la politica, ma questo è un altro discorso, immagino), che da decenni distruggono Facoltà storiche creando corsi di laurea barzelletta con l'unico scopo di attirare più studenti possibili, rendendo l'Università un gigantesco baraccone dove non viene offerta un'istruzione ma venduto un prodotto. Gli studenti, già con la mente e la vita distrutta da una società totalmente nichilista si affacciano in questo scenario e l'unica cosa che possono materialmente fare è adattarvisi, perpetuando il mercato e non essendo assolutamente coscienti di quelli che sarebbero i propri diritti-doveri dentro questa istituzione. Ho conosciuto solo due professori, tra centinaia e centinaia, che in cinque anni si smarcavano da questo sistema. Lorenzo e Simone. Mi dispiace Università, ma ti guardo con le lacrime agli occhi, come uno che per sei anni si è spezzato la schiena e sudato e pianto tanto per migliorarti, e ti vedo senza speranze.
Stefano Caffari
La risposta
di Ugo Mattei
Caro Stefano, ho letto due volte la Tua lettera ed entrambe le volte ho terminato con le lacrime agli occhi. L'editoriale di Marco Bascetta («il manifesto» 24/7) descrive, in un' idea di riformismo fine a se stessa propria dei liberisti di sinistra, le radici di questo disastro. L'Università italiana, prima del trionfo del pensiero unico aziendalista (scimmiottato dagli Stati Uniti e amplificato oscenamente dalla destra e dai suoi consulenti accademici «di sinistra» alla Giavazzi), offriva una buona cultura di base critica.
Quando mi sono laureato io (1983) non esistevano né il dottorato di ricerca né le lauree triennali. Gli studenti italiani primeggiavano nei masters e nei Phd di tutto il mondo. Ci avevano dotati di un buon sapere di base. Poi per «competere» nel mondo globale abbiamo inventato il primo ed il terzo livello. Si è trattato di decisione sciagurata. Ben pochi dottorati in Italia formano davvero giovani leve accademiche garantendo standards qualitativi seri. E il 3+2 ha fatto lo spezzatino delle vecchie lauree quadriennali immolandole all' europeismo filo-atlantista dominante (il famigerato processo di Bologna) senza che fosse a nessuno chiaro perché il sistema non andasse bene. Idem per i concorsi universitari. Il sistema nazionale non funzionava? Invece di aggiustarlo si è scelta la scorciatoia del localismo che ha aperto le porte dell' insegnamento a tutti quei baroncini malvagi e scempi che tu lamenti. Per gli studenti non molto è cambiato. Purtroppo la deriva piccolo borghese della società colpisce maggiormente i suoi anelli più deboli e gli studenti (dopo la macellazione dei licei) lo sono. Nessun movimento dopo il '77 ha avuto un vero impatto politico e la Pantera che per un po' ha fatto sperare è finita in un nulla di fatto.
Poi ci sono quelli come Lorenzo e Simone e quelli come te. Tu scrivi benissimo, qualcuno deve averti insegnato a pensare in modo così lucidamente critico! (forse all'Università? Forse la lettura del «manifesto»?). Io di studenti come te ne conosco tanti, magari il 10-20%... Non tantissimi ma credimi sufficienti dopo la Rivoluzione (per la quale non esiste alcun motivo razionale per smettere di battersi con tutte le proprie forze in questo mondo orribile) per creare la classe dirigente del mondo nuovo! Io di colleghi come Lorenzo e Simone ne conosco parecchi, spesso proprio in quelle università piccole che adesso è di gran moda considerar ragione di ogni male. Poi qualcuno arriva anche a quelle grandi e si porta il proprio anelito innovativo, certo reso difficile dalla situazione economica (non ci sono neppure i fondi per i libri e le riviste) e dall' atteggiamento sospettoso di troppi colleghi (sovente proprio di sinistra!).
Il sapere critico, come l'acqua, è un bene comune che va governato con mentalità «pubblica» anche nell'interesse delle generazioni future. L'Università, come gli acquedotti, è il sistema attraverso il quale il bene comune si diffonde consentendo la soddisfazione dei diritti fondamentali cui è collegato. Se gli acquedotti perdono e le Università fanno acqua, occorre ripararle, con uno sforzo comune inclusivo nell'interesse di quel bene comune che veicolano. Lo smantellamento o la ristrutturazione nell'interesse della concentrazione del profitto e del potere non sono una soluzione accettabile, né è accettabile rassegnarsi. Per l'Università come per l'acqua
Ugo Mattei
Università
Il pensiero unico della spesa,
un male italiano
di Alessandro Dal Lago
L'aspetto più sconsolante del «dibattito» sul Ddl Gelmini sull'università è l'interesse esclusivo per le questioni della spesa, come se le virtù di bilancio fossero in grado, da sole, di ridare vita a un'istituzione che sta visibilmente morendo o, ciò che è la stessa cosa, trasformandosi in qualcosa di abissalmente lontano dai fini che tradizionalmente le vengono attribuiti. E questo è tanto più paradossale, quanto più i dati pubblicati ogni giorno mostrano che la spesa per studente, da noi, è tra le più basse in Europa. Come se, insomma, la cura per chi sta morendo d'inedia fosse il digiuno.
Ben pochi si interrogano su quello che l'università è diventata negli ultimi vent'anni, direi dall'epoca di Ruberti, e soprattutto sulle conseguenze delle varie «riforme», a partire da quella Berlinguer, per ciò che si fa (o si dovrebbe fare) davvero in università, ricerca e didattica. In questo senso, il nostro lettore della lettera a fianco descrive perfettamente la complicità di gran parte dei docenti e degli studenti nello sfruttare i miseri vantaggi di una pseudo-razionalizzazione al ribasso. Quanti professori, ormai, se ne lavano le mani dicendo «mi limito a fare il minimo indispensabile», oppure «mi imbosco fino alla pensione»? E quanti studenti concepiscono i loro obiettivi culturali, in questa atmosfera di depressione, come esclusiva ricerca di voti sempre più facili?
Io credo che tutto il male discenda dall'aver applicato meccanicamente all'università una logica opaca e posticcia («autonomia», «professionalità», ecc.) che non discende da alcuna cultura dell'efficienza (che in Italia non esiste, a partire dal mondo dell'impresa), ma dall'utopismo punitivo dei «riformatori». Si pensi solo alla sciagurata definizione degli studenti come «clienti», presente nei documenti di indirizzo della riforma nota come «3+2». Mentre da una parte si trasformava il sapere in calcolo di «crediti» e «debiti», dall'altra si strizzava l'occhio ai «clienti» facendo capire loro che, alla fine, nessuno li avrebbe bocciati più di tanto, purché non rompessero le scatole, non protestassero, si adeguassero al tran tran.
Oggi i ricercatori protestano giustamente perché le loro carriere sono bloccate, e tutti gli altri borbottano e mugugnano perché gli scatti di stipendio sono saltati, o perché li si vuole mandare in pensione prima (scaricando sull'Inpdap i loro oneri), perché non ci sono fondi, ecc. Ma perché non si sono mai ribellati di fatto alla miserabile aziendalizzazione degli atenei, alla contabilizzazione dei crediti, alla proliferazione insensata dei corsi, ai master mangiasoldi, alla vacuità dei dottorati, allo scollamento assoluto tra ricerca, un optional legato ormai alla buona volontà individuale e una didattica ripetitiva e massificata?
Il favore da cui il Ddl Gelmini è accolto dalla cosiddetta stampa indipendente e da tutto l'arco parlamentare descrive la connivenza generale nello strangolamento dell'università. Ma riflette anche la passività di gran parte del ceto accademico negli ultimi due decenni. E in fondo è l'espressione di quello che il paese è diventato, uno spazio privo di idee e progetti in cui la contabilità spicciola è diventata pensiero unico, a destra come a sinistra.
Lo storico meridionalista: i miliardi calati dall’alto sarebbero facile preda della mafia. Sì a tante attività nel territorio, dall’agricoltura al turismo
Ci vuole un piano del lavoro di nuovo tipo per il Sud, non l’ennesima erogazione di miliardi per le infrastrutture calati dall’alto, facile preda di mafia e clientele». Commenta così Piero Bevilacqua, calabrese, 65 anni, storico contemporaneo a Roma l’ultimo Rapporto Svimez per il Mezzogiorno. Un report la cui drammaticità lo studioso non sottovaluta affatto, a partire dall’allarmante decrescita del Pil, dalla disoccupazione e dal rischio povertà. E però le idee di Bevilacqua meridionalista di sinistra e teorico della green economy sono altre: ambiente, agroalimentare «green», risanamento dei centri interni, forestazione. Con in più una rete di centri universitari di tipo francese mirati su «scienze umane» e territorio. E poi attorno, a venire, le infrastrutture. Ma soprattutto, «niente riedizioni della Cassa per il Mezzogiorno e niente retorica tremontiana sulla Banca per il Sud». Tutte proposte che vedranno la luce in gennaio in un libro per Laterza intitolato La grande distruzione e con un capitolo ad hoc: «Un piano del lavoro per la gioventù».
Sentiamo Bevilacqua. Professore, per Svimez il Sud va sempre più indietro e da 8 anni cresce meno del Nord. Da dove viene la recessione a Mezzogiorno?
«Sono dati che non mi sorprendono, indici di un degrado che si vede già da alcuni anni. Il flusso emigratorio è cresciuto, anche se i giovani vogliono rimanere, magari da disoccupati di lunga durata, in attesa di lavoro. Però vorrei segnalare che la questione è globale. Il Sud vive nell’economia-mondo, e sconta la crisi mondiale».
Colpa del capitalismo globale?
«Ovvio. La tendenza di fondo è il risparmio di lavoro per incrementare la produzione: è crescita senza lavoro. Anche prima della crisi, negli Usa cuore del capitalismo il tema dell’occupazione era decisivo, mascherato dal fatto che lì chi lavora una settimana è considerato occupato! E anche lì la gente di colore non cerca lavoro. Nel Sud italiano la deindustrializzazione ha fatto il suo corso: da Taranto, a Priolo, Siracusa e Bagnoli. E il tutto senza lasciare alcuna disseminazione di piccole imprese, come invece al Nord».
Sì, ma ormai la recessione al Sud genera una catastrofe civile, la caduta di ogni standard...
«Verissimo, ma il punto decisivo è dare ai giovani un reddito, legato a molte cose. A un vero piano del lavoro, connesso al territorio, all’agricoltura, alla green economy, alla forestazione, al recupero dei centri urbani e delle aree interne abbandonate. Si può cominciare con misure tampone, per affrancare i giovani dalle famiglie, far circolare un po’ di denaro, e alimentare così la domanda».
Non la convince l’idea Svimez di un piano infrastrutturale di 38 miliardi di euro?
«Assolutamente no, è il solito vizio illuministico dei piani calati dall’alto in chiave miracolistica. E con le infrastrutture a fare il miracolo».
D’accordo, ma allora quale deve essere il volano per la nuova economia meridionale?
«Il volano, i volani, devono essere diversi e graduali. L’economia non si inventa, viene da lontano, dalla storia, dalle radici e dal saper fare». Che economia immagina al Sud? «Tante economie del territorio: allevamento, prodotti agricoli di qualità, turismo di qualità, palazzi storici da recuperare, anche alla ricerca e allo studio. Il punto resta la qualità, ovunque. Si può creare un’agricoltura altra, e non solo industriale. E poi le piccole opere, le città, i borghi...»
Ci vogliono soldi da distribuire. Come non sprecarli ancora?
«Si possono immaginare tante cose innovative. Ad esempio una consulta di studiosi, manager, scienziati dell’ambiente, storici e meridionalisti, che possa monitorare gli interventi, dentro un progetto coordinato. Penso a un'alleanza tra cultura, politica e legalità sul territorio. Ma innanzitutto va combattuta tutta la cultura liberista di questi anni, che ha finito con il potenziare il cinismo della libera iniziativa illegale e mafiosa, vero modello distruttivo per i giovani».
Esperienze da seguire a riguardo?
«Sì il centro-nord, con la sua cultura del territorio, le sue tradizioni. La sua cultura civica, che è il vero involucro dell’economia. La quale non nasce mai dal nulla. Eccolo il modello da cui far ripartire una rinascita del Mezzogiorno. È alle regioni appenniniche che dobbiamo guardare. E poi, me lo lasci dire, Gramsci ha fatto nascere gran parte della sua riflessione culturale dal Sud e dall’intreccio di Sud, nord ed economia-mondo di allora. Questi, e intendo la sinistra, sembra abbiano dimenticato davvero tutto...».
Domanda tutta politica: che giudizio dà dell’«anomalia Vendola», in Puglia e magari più in grande?
«Buon giudizio. Guardo a Vendola con speranza e simpatia. Gli ho anche mandato il mio libro. Ha bisogno di crescere, di calcio minerale per fortificarsi e forse di visione strategica un po’ più ampia...»
SVIMEZ
Quel Mezzogiorno in caduta libera
di Francesco Piccioni
La crisi colpisce il paese in modo diseguale. Cresce la differenza tra sud e centro-nord quanto a occupati, produzione, servizi, speranze di vita, infrastrutture, produttività. Riprende forza l'emigrazione interna per motivi economici. Lo Svimez vede una sola possibile via d'uscita: fare del meridione la frontiera dei rapporti col Mediterraneo»
Se in Italia piove, al Sud grandina. Il Rapporto Svimez 2010 non lascia margini alla retorica del «paese che sta meglio degli altri»: non c'è un solo settore economico che non presenti stabilmente un segno meno davanti a un numero invariabilmente più alto di quelli registrati nel centro-nord o negli altri paesi europei. Nemmeno il turismo - che pure potrebbe giovarsi di condizioni climatiche tali da poter programmare una «stagione di 12 mesi» - riesce a migliorare la media: su 100 visitatori solo 10 vanno nel Mezzogiorno (sono 40, ad esempio, per la Spagna meridionale).
Dovunque si guardi il problema è lo stesso: carenze infrastrutturali che derivano da un'antica e ora aggravata assenza di progetto politico-economico, appesantite da una presa della criminalità organizzata capace di «bruciare» in partenza qualsiasi ipotesi di modernizzazione.
Su questo mondo la crisi economica globale - che sta per «festeggiare» il terzo anno di vita - si è abbattuto distruggendo quel poco di industrializzazione costruita con molti fondi pubblici e tanta furbizia privata. Il manifatturiero ha perso qui in un solo anno il 16,6% di valore aggiunto, con devastazioni irrecuperabili in settori come l'esportazione di metalli, il chimico-farmaceutico, i mezzi di trasporto. E dal 2012 non ci sarà più nemmeno lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, con il relativo indotto... Anche nell'edilizia o nel terziario la caduta del Sud è andata a velocità doppia rispetto alla contemporanea crisi del centronord. Trascinando in basso una «produttività» già ampiamente deficitaria (il gap con la parte «evoluta» del paese si attesta ormai intorno al 25%).
Del resto il governo in carica ha di fatto azzerato le «politiche di riequilibrio», già prima molto inferiori a quelle di altri paesi (Germania, Francia, Spagna). Il colpo finale è arrivato dallo storno verso altri obiettivi dei Fondi per le aree sottoutilizzate (Fas), per un totale di 26 miliardi in pochi anni. Vero è che il tasso di utilizzazione di questi fondi da parte degli enti locali era in alcuni casi vergognosamente basso; ma non averli più a disposizione mette a rischio il raggiungimento di molti degli obiettivi indicati nel «Quadro strategico nazionale». La forzatura del «federalismo demaniale» si va oltretutto a sommare a «liberalizzazioni e privatizzazioni» che hanno aggravato il divario Nord-Sud (il contrario di quanto promesso); è infatti molto probabile che gli enti territoriali più deboli economicamente siano spinti ad «adottare comportamenti opportunistici»: ovvero «mettere a valore» quei beni più facilmente collocabili sul mercato.
Lo scenario che emerge dall'analisi dello Svimez è quella di un avvitamento senza quasi più speranze. Le spese per investimenti infrastrutturali sono scese in soli tre anni di quasi il 9% in una parte del paese che presenta una rete autostradale e ferroviaria di fatto preistorica (il 51% delle tratte non è nemmeno elettrificato).
Bassa qualità dei servizi pubblici meridionali, restrizioni nel credito a imprese e cittadini, ecc, sono ormai dei luoghi comuni. Per gli analisti dello Svimez l'unica soluzione è rappresentata da «un profondo processo di ristrutturazione dell'apparato produttivo meridionale» nell'ambito di uno sforzo progettuale per fare del Sud «una frontiera del paese verso il Mediterraneo». Uno spostamento del baricentro, insomma, che invece di continuare a vedere il Sud come la parte lontana e arretrata di un paese ormai saldamente «sbilanciato» a settentrione, fa di questo territorio un possibile «ponte» verso Africa e Medio Oriente. Significa un sistema integrato di porti e reti di trasporto efficienti, non la diffusione puntiforme e fatiscente di oggi.
A pagare il prezzo sono le popolazioni, naturalmente, a partire dai giovani - con tassi di disoccupazione record - ormai protagonisti di un costante flusso migratorio senza ritorno, come anche del fenomeno del «pendolarismo su grandi distanze». Un divario che si misura anche nei livelli di povertà (il 14% delle famiglie può contare su meno di 1.000 euro al mese), con forti difficoltà a far fronte al pagamento delle bollette, le spese mediche oppure quelle «impreviste». Del resto, il 47% delle famiglie qui è monoreddito. E anche se uno il lavoro ce l'ha, la «protezione» della cassa integrazione vale solo per il 25% dei lavoratori (il 50%, nel centronord). Un indicatore aiuta a capire le conseguenze. Anche la «speranza di vita», al Sud, è più bassa: un anno in meno, sia per le donne che per gli uomini.
L'ANALISI
Il «teorema Sud» che fa comodo al Nord
di Domenico Cersosimo
Il Sud indietreggia. I dati Svimez sono impietosi, come sempre. Il prodotto interno lordo tracolla del 4,5 per cento nel 2009, ritornando al valore di 10 anni fa. L'industria perde oltre 60 mila lavoratori, che si aggiungono ai 40 mila già persi l'anno prima. Gli occupati tra 15 e 34 anni si sono ridotti di 175 mila. Un meridionale su tre è a rischio povertà e il 14 per cento delle famiglie vive con meno di 1.000 euro al mese. Più di 120 mila i meridionali emigrati. Il Rapporto Svimez snocciola raffiche di dati negativi. Il Sud sembra ormai devitalizzato, sfibrato.
La crisi economica assume ora le sembianze della crisi sociale. Il Sud ha sofferto meno nella fase finanziaria e industriale della crisi. Perché meno esposto alle intemperie bancarie; perché meno dotato di imprese aperte alla concorrenza internazionale. Oggi soffre di più. La stagnazione della domanda interna penalizza soprattutto il Mezzogiorno e ancora peggio sarà nei prossimi mesi per effetto della manovra correttiva in approvazione alla Camera. I tagli drastici e indiscriminati ai pubblici dipendenti, alle regioni e agli enti locali faranno sentire il loro peso soprattutto al Sud. Salari e stipendi bloccati e meno servizi pubblici locali deprimeranno ulteriormente l'economia meridionale e il benessere collettivo.
Dopodomani il Sud ritornerà ad essere una reliquia. Da anni non è più nell'agenda del governo e della politica, anche di opposizione. Balbettii e indignazione a ricorrenze sempre più rarefatte e poi nulla, silenzio. Non c'è interesse per il Mezzogiorno. Semplicemente non c'è un blocco sociale interessato al cambiamento del Sud. Al contrario, prevale da diversi anni un blocco di forze, semmai inerziale e inintenzionale, favorevole allo status quo. Il Sud come disastro nazionale è funzionale alla Lega e al Nord: è colpa dei meridionali se le cose non vanno bene nel nostro paese, anche dei malfunzionamenti nella pianura Padana. Nel frattempo, il Nord continua anno dopo anno ad assorbire migliaia di laureati formatisi nelle università meridionali. Il Sud arretrato va benissimo per perpetuare i privilegi di molte classi dirigenti meridionali che si nutrono di rendita e di pessima amministrazione. Meno trasferimenti al Sud (e più al Nord), l'importante è che siano trasferimenti tradizionali, è la strategia, perseguita dal governo, che accontenta i primi e i secondi. Troppo flebili e disperse le voci di imprenditori, intellettuali, tecnici e ceti dirigenti interessati all'innovazione.
Sud è diventata oggi una parola impronunciabile, totem della quintessenza dei mali italiani: strato cronicizzato di mafie, corruzione, familismo, illegalità, sprechi. Un aggregato geografico ed umano a sé, refrattario al civismo e allo sviluppo; un pezzo d'Italia che dilapida imponenti risorse pubbliche prodotte al Nord. Questo «teorema Mezzogiorno», come lo chiama efficacemente Gianfranco Viesti, seppure ha conquistato buona parte delle élite dirigenti nazionali e degli italiani, anche del Sud, è palesemente falso, basato cioè su affermazioni senza fatti, prive di evidenze empiriche. È un racconto che giustifica il saccheggio sistematico da parte del governo di risorse finanziarie destinate al Sud e la secessione culturale strisciante.
Ovviamente il Sud non è il migliore dei mondi possibili: la sanità, la giustizia civile, i trasporti, la scuola funzionano peggio che al Nord. Il Sud però non è un'area altra, deviata, polarmente contrapposta al Nord. Il Sud non è «il» problema dell'Italia contemporanea. Il problema è l'assenza di politica, di immaginazione, di fiducia in un paese diverso, più unito e coeso.
Oggi il problema del Sud non è più di natura strettamente economica. Incentivi, sussidi, salari polacchi, crediti d'imposta o altre «fiscalità di vantaggio» finiscono fatalmente per attrarre il capitale peggiore, d'impresa e umano. Il Sud è un problema di deficit istituzionale, di debolezza estrema dello Stato nel garantire standard adeguati di servizi essenziali a tutti i cittadini che vivono nel Mezzogiorno. Come ripete Fabrizio Barca, è un problema di deficit di classi dirigenti meridionali adeguati al cambiamento istituzionale e di cittadini che domandano cambiamento.
Se è così non bisognerebbe allarmarsi tanto per la bassa crescita del prodotto interno lordo per abitante. Così come non è un'esclusiva del Sud l'incremento della disoccupazione, l'aumento dei lavoratori in cassa integrazione o i tempi infiniti per la realizzazione di un'opera pubblica. Certo, al Sud è quasi sempre un po' peggio che al Nord, ma è l'Italia tutta ad arrancare da tempo. La qualità della vita dei meridionali oggi non dipende soltanto dal divario economico, molto di più conta il divario civile in termini di sicurezza, di qualità scolastica, di funzionamento dei tribunali, di certezza delle regole, di disponibilità di acqua e di asili nido, di frequenza e comfort dei treni. Un divario civile ben più ampio e insostenibile di quello economico. È la penuria e la bassa qualità di servizi pubblici essenziali la causa prima del sottosviluppo.
Per questo non serve una politica straordinaria. C'è bisogno di molto di più: di una politica nazionale ordinaria rivolta a garantire equità d'accesso ai servizi di base ai meridionali. Le risorse aggiuntive comunitarie sono importanti, sempreché siano addizionali e non sostitutive come avviene nel nostro paese negli ultimi anni, ma non possono sostituirsi a quelle nazionali. Due ore di matematica in più pomeridiane fanno bene soprattutto se nelle ore scolastiche ordinarie si insegna buona matematica.
Il federalismo all'italiana rischia di peggiorare la situazione. L'autonomia senza perequazione comporterebbe un'inevitabile crescita del divario civile: solo le regioni più dotate, del Nord e del Centro, avrebbero la possibilità di finanziare da sé i servizi. Ma il federalismo potrebbe anche ridurre il divario civile. Ad esempio, se le politiche ordinarie e le politiche regionali fossero orientate a conseguire congiuntamente livelli essenziali di prestazioni pubbliche per i cittadini del Sud comparabili con quelli del Nord per costi e qualità. Ma ci vorrebbe un altro blocco sociale, ceti interessati ad un'altra Italia e politici in grado di intercettarli e assecondarli.
Il nostro paese è forse l’unico tra quelli democratici ad avere più di un governo senza saperlo. Almeno tre governi. Da quello che è uscito dalle urne due anni e mezzo fa ne sono nati per gemmazione altri due, quelli che di fatto dominano all’ombra della legittimità elettorale e del controllo dell’opinione. Vediamo di capire la natura di questi due governi i quali, per ragioni diverse, sfuggono al giudizio pubblico e sono in flagrante violazione della legge e delle regole democratiche.
C’è innanzi tutto un governo sotterraneo, quello invisibile degli affari illeciti, una catena di relazioni tra alcuni imprenditori, faccendieri, politici e uomini del crimine organizzato della quale noi cittadini intuiamo l’esistenza e la gravità perché scampoli di racconti ci giungono dalla carta stampata e dalle intercettazioni (due strumenti di ricerca della verità prevedibilmente scomodi). Con una sistematicità di relazioni di corruttela consolidate in questi anni, pezzi del nostro territorio, della nostra ricchezza nazionale, dell’economia, della società, delle istituzioni stanno per essere occupati e dominati da questo governo sotterraneo e privato della P3.
Paradossalmente, questa articolazione di potere sporco e molto radicato pare essere l’unico ‘governo’ nazionale: non conosce né rivendica il federalismo, non fa discriminazione fra Nord e Sud, edifica un ordine parallelo alla legge e al mercato "pulito" dovunque sia possibile, tiene insieme un’alleanza di affamati di privilegio e denaro con la speranza dell’impunità, tutti fattori che compongono una colla molto resistente, quasi più di quella del civismo che dovrebbe reggere le istituzioni, guidare i comportamenti dei pubblici ufficiali e ispirare le forze politiche. Lo Stato italiano sembra essere usato come un involucro per coprire un sistema di relazioni che ha i caratteri dell’anti-Stato. Invece di essere la sede che consente il "governo pubblico in pubblico", lo Stato è usato da queste forze occulte per creare un governo segreto di potentati privati. La tensione tra la magistratura e i giornali e la maggioranza politica è da leggersi come parte di una lotta durissima nel tentativo di soggiogare tutti i poteri istituzionali e di addomesticare l’opinione pubblica.
Un segno di questa competizione tra lo Stato della legge e il governo dell’anti-Stato è rintracciabile proprio nell’argomento garantista usato dai politici corrotti per cercare di restare al loro posto: "Non mi dimetto fino a quando non c’è una sentenza del tribunale" è una dichiarazione che denota tra le altre cose un fatto gravissimo: la decadenza, il disprezzo quasi, della rappresentanza politica, la quale non si sorregge sulla prova provata dei tribunali, ma sulla fiducia che dovrebbe legare con vincolo libero eletti ed elettori. Perché, evidentemente, l’accusa non ancora provata è comunque un macigno che si frappone fra i cittadini e i rappresentanti. E se l’ombra di sospetto da sola non è sufficiente a consigliare le dimissioni, ciò significa che la sfiducia, o il timore di perdere la fiducia dei propri elettori, non funziona più come deterrente; significa anzi che è irrilevante quello che pensano i cittadini di chi li rappresenta, che la loro opinione non determina, non controlla, non influenza più chi opera nelle istituzioni. Significa infine che l’elezione serve non a istituire la rappresentanza ma a creare commessi di affari e clientele. Questo è uno degli effetti più micidiali che il governo sotterraneo ha sulle istituzioni democratiche, le quali sono usate per coprire ciò che né la legge né i cittadini devono vedere, per fare l’opposto di ciò che le istituzioni politiche devono fare. Entra a questo punto in gioco l’altro attore del nascondimento.
L’altro dei due governi che operano nel nostro paese è quello fittizio dei media. Se il governo degli affari privati è invisibile perché segreto, questo governo dell’immaginario mediatico è una costruzione per il pubblico, pensata e messa in scena per un destinatario che deve essere e restare passivo, un’audience priva di argomenti che servano a formulare giudizi valutativi; un pubblico che è anzi fabbricato dal sistema mediatico e da chi dovrebbe essere oggetto di monitoraggio affinché non veda, non si renda conto, non sappia che dietro all’immagine propagandata o non c’è nulla o c’è ciò che non si deve vedere. Il governo creato dai media è astratto, irreale: uno spettacolo che va in onda tutti i giorni, alcune volte al giorno da diversi mesi e mette in scena la favola del fare e dell’ottimismo, la rassicurazione che la corruzione lambisce solo pochi, e poi la storia delle cospirazioni ordite da poteri indiscreti come i giornali o eversivi come i magistrati. Questo governo dell’immaginario mediatico non corrisponde a un governo esistente ma copre quello che il governo esistente fa, cosicché nessuno alla fine sa da chi é governato. Perché di questi due governi, uno segreto e uno immaginario - il primo tragicamente reale ma nascosto, il secondo visibile ma irreale - nessuno si basa sulla fiducia dei cittadini: il primo per l’ovvia ragione che vive nel sottosuolo e nessuno dei suoi atti deve trapelare; il secondo perché è un’invenzione commerciale fatta ad arte da chi governa con l’esito che i cittadini non dispongono di una realtà di riferimento autonoma alla quale rivolgersi per cercare conferme o smentite a quello che si vede e si sente. L’Italia ha due governi molto potenti, gestiti e organizzati in modo da evitare il giudizio, della legge e dell’opinione pubblica. È questa segretezza che li rende a tutti gli effetti una negazione della democrazia, anche se sono il prodotto di una maggioranza che governa con il consenso elettorale.
Quando i liberali classici distinguevano fra la sfera individuale e quella collettiva presumevano che vi fosse condivisione di un codice di comportamento fra tutti i membri della stessa comunità
Delle coppie concettuali analizzate nella serie Le parole della politica, quella di "pubblico e privato" è senza dubbio la più peculiarmente moderna e forse anche la più complessa. Si tratta di una relazione, più che di un dualismo; una relazione che non ha mai cessato di essere oggetto di interpretazione e discussione a partire da quando, con le rivoluzioni costituzionali del Sei-Settecento, le comunità politiche si sono date criteri regolativi per dirimere contenziosi tra i loro membri e risolvere pacificamente le tensioni tra il potere costituito e i cittadini. Le carte dei diritti individuali, proprio nel momento in cui definivano i beni da proteggere – la libertà di religione, di proprietà, di parola, di un giusto processo – ponevano limiti all´intervento dello stato mentre regolavano la libertà dell´individuo (correlando i diritti agli obblighi); stabilivano non soltanto una sfera di vita privata libera dall´interferenza della legge, ma inoltre imponevano allo stato l´onere della prova per ogni decisione che poteva limitare quei diritti.
Il potere pubblico è separato e dovrebbe restare libero dai poteri attivi nella sfera privata in senso lato, come quello socio-economico e quello religioso o culturale (Art. 3 della Costituzione). Lo stato moderno segna la fine del patrimonialismo liberando la funzione pubblica dal possesso; segna l´emancipazione del potere di fare le leggi da tutti i poteri parziali. Pubblico denota allora generalità, legge eguale per tutti; il suo opposto è parzialità, decreto d´arbitrio della volontà di qualcuno o di una parte. Esso è naturalmente identificabile con democratico. Infatti, nella democrazia, l´agire politico è pubblico in due sensi dei quali il secondo è peculiare solo a questa forma di governo: perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e condizionano tutti; e perché deve essere reso pubblico o giustificato e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini, ai quali spettano due poteri, quello di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato. Per ripetere le parole di Norberto Bobbio, quello democratico è un "governo pubblico in pubblico".
Nella coppia/distinzione "pubblico e privato" si riflette dunque la rivoluzione democratica e liberale nella sua interezza: il rovesciamento della piramide del potere; e il principio della giustificazione e della pubblicità del potere. Storicamente, questa rivoluzione ha iniziato il suo cammino nell´Europa dell´età della Riforma, con le guerre di religione e le lotte che accompagnarono il processo di emancipazione del potere temporale da quello spirituale. Da quelle vicende sanguinose emersero due grandi principi di libertà: quello di religione e quello di coscienza. Con il primo, si giunse a delimitare uno spazio esterno nel quale i fedeli potevano esercitare il loro culto (tolleranza di religioni diverse da quella riconosciuta dal sovrano); con il secondo, si affermò il principio di non interferenza da parte di nessuna autorità – religiosa o politica – nella scelta di fede degli individui (libertà di coscienza). Se la prima fu un´azione volta a preservare la pace sociale, la seconda fu invece una dichiarazione di sovranità della coscienza, un fatto che avrebbe avuto effetti straordinari sulla natura e i limiti del potere, non soltanto religioso e non soltanto in relazione alla questione religiosa.
La trasformazione che i diritti civili hanno portato nella politica non può essere appieno compresa se non si tiene contro del fatto che i diritti hanno umanizzato la politica perché l´hanno costretta a fare i conti con la dimensione morale (che è tra l´altro una dimensione di giudizio peculiarmente privata). La politica come nascondimento, come manipolazione o come menzogna è un fatto che non può ricevere giustificazione normativa in un universo che ha il suo centro nei diritti individuali e nell´ingiunzione al potere di rendere pubblici i suoi atti. Una prima importante conseguenza di questa interpretazione è che nella società democratica c´è una comunicazione continua e sempre aperta fra il momento politico e quello morale. Quando i liberali classici avanzarono la distinzione tra le sfere di vita –quella economica e politica, quella privata e pubblica, quella religiosa e civile, quella morale e legale – presumevano che alla base di questa distinzione ci fosse una sostanziale condivisione da parte di tutti i membri della comunità di un codice di comportamento che viveva nel quotidiano e nel senso comune e che contemplava il rispetto e la dignità della persona.
Per tanto, la distinzione tra pubblico e privato non consiste in un dualismo schizofrenico e non contempla individui doppi come il Dr. Jekyll e Mr. Hyde (un fenomeno che si manifesta semmai quando c´è corruzione o doppiezza, due condizioni che confliggono chiaramente con la sincerità e la pubblicità). Presume invece persone che sappiano valutare le conseguenze delle loro azioni; e che coloro che per libera scelta competono per le funzioni pubbliche siano trattati dalla legge come individui pubblici, non privati, affinché i loro atti restino visibili ai cittadini, oltre che soggetti alla legge. L´esercizio del potere quando il potere è pubblico e democratico non genera privilegio, ma semmai comporta più dovere e responsabilità. Chi esercita più potere non ha dunque più libertà privata; ne ha meno – non è un caso che la partecipazione alla vita pubblica nelle democrazia sia volontaria.
I fatti di questo periodo obbligano a concludere che l´attuale fase politica e istituzionale deve essere pure definita come quella dell´"eversione quotidiana". Questo nuovo dato di realtà può essere colto se si riflette su una domanda che molti hanno fatto negli ultimi tempi: vi è una differenza tra il tempo di Mani pulite e la nuova ondata corruttiva che è davanti ai nostri occhi?
Questa differenza esiste, ed è profonda. Non siamo soltanto di fronte al prepotente ritorno di una corruzione alla quale l´azione giudiziaria aveva cercato di porre un argine, e che aveva sostanzialmente le sue radici in un bisogno della politica di "approvvigionarsi" di risorse finanziarie, con ovvie contiguità con il mondo degli affari e arricchimenti privati che accompagnavano il flusso di denaro verso i partiti. Oggi le cose sono diverse, e il caso Brancher, ultimo tra i tanti, lo illustra nel modo più eloquente.
Si è nominato un ministro soltanto per provvederlo di uno "scudo istituzionale", che potesse sottrarlo all´accertamento delle sue eventuali responsabilità penali. Ecco il cambiamento. Mentre i comportamenti del passato rimanevano comunque nell´area dell´illegalità, ora si costruisce una "legalità speciale" che serve a far rientrare in un´area lecita quel che dovrebbe invece rimanerne fuori. Si distorce così il significato del ricorso alla legge, non più garanzia ma scappatoia. E all´ombra di questa legge distorta si pratica l´eversione quotidiana, uno stillicidio di comportamenti che stravolgono il funzionamento delle istituzioni e dell´intera vita pubblica. Certo, si è evitata almeno la conseguenza più scandalosa dell´affare Brancher, il ricorso al legittimo impedimento per sottrarsi al processo, grazie alle proteste dell´opinione pubblica e di una parte del mondo politico, accompagnate in modo decisivo dai potenti anticorpi istituzionali prodotti dall´azione del Presidente della Repubblica. Ma proprio l´intera ricostruzione dei fatti rivela altri aspetti inquietanti, che mettono radicalmente in dubbio la possibilità che Brancher rimanga al suo posto di ministro. Inoltre, questo caso non è isolato, né rappresenta una eccezione, visto che trova la sua origine in una delle più clamorose leggi fatte per la persona di Silvio Berlusconi, appunto quella sul legittimo impedimento.
Ma il fondamento della nuova eversione non è qui soltanto, come testimonia tutto quello che è emerso intorno alla protezione civile, alle grandi opere, alla gestione di vere o presunte emergenze, alla privatizzazione del pubblico perseguita attraverso la creazione di società per azioni. Le vicende scandalose non sono l´effetto esclusivo di "deviazioni" personali. Sono rese possibili proprio dall´esistenza massiccia di una legalità speciale, di leggi congegnate per far crescere l´opacità dei comportamenti pubblici, oltre che di ordinanze sottratte a ogni controllo, che hanno sconvolto il sistema delle fonti del diritto, che hanno creato sacche di oscurità e di arbitrio, denunciate istituzionalmente nelle ultime settimane in particolare dalla Corte dei conti e dall´Autorità di vigilanza sui lavori pubblici.
Dalla lotta alla corruzione si è passati alla manipolazione istituzionale, che ha come fine proprio quello di legittimare formalmente comportamenti che ogni giorno cancellano ogni confine tra pubblico e privato, che fanno apparire superflua la moralità pubblica, che consentono tranquille e stupefacenti ammissioni di uso privato del potere da parte di personalità pubbliche. È questa l´eversione quotidiana, che corrompe istituzioni e costume, e così fa venir meno quella fiducia dei cittadini che è un carburante indispensabile per il buon funzionamento della macchina democratica. Mentre ai tempi di Mani pulite si tentava almeno di bonificare il terreno sul quale era fiorita la corruzione, oggi invece il terreno istituzionale viene pazientemente concimato perché comportamenti nella sostanza illeciti possano essere praticati legittimamente e alla luce del sole. Proprio la trasparenza impudica, che sfida con la sua esibizione legalità e rispetto dei cittadini, attribuisce a queste vicende un carattere eversivo.
È così nato un nuovo "mostruoso connubio" tra politica, amministrazione e affari che fa impallidire quello denunciato nel 1880 da Silvio Spaventa, del quale vale la pena di citare alcune parole. «La protezione giuridica e la protezione civile, chiamando così tutti gli altri beni che i cittadini hanno diritto di chiedere allo Stato, oltre alla tutela del diritto, dev´essere intera, eguale, imparziale, accessibile a tutti, anche sotto un governo di parte. L´amministrazione dev´essere secondo la legge e non secondo l´arbitrio e l´interesse di partito; e la legge deve essere applicata a tutti con giustizia ed equanimità verso tutti». La maggior gravità della situazione di oggi, rispetto ai tempi di Spaventa e di Mani pulite, sta nel fatto che l´eversione quotidiana fa sì che neppure la legge possa essere invocata, non avendo la funzione di perseguire giustizia e eguaglianza, ma quella, opposta, di offrire impunità e privilegio.
È evidente che con l´eversione quotidiana la democrazia non può convivere. E troppi guasti italiani derivano sempre di più dal fatto che questa convivenza è durata troppo a lungo.
PREMESSA
Un'analisi tutta sociologica del fenomeno leghista e incentrata prevalentemente sul carattere solo etnico-territoriale delle sue manifestazioni, non coglie né la profondità delle sue radici, né la fortuna duratura e addirittura ascendente del movimento di Bossi. Mentre sono da più parti sotto osservazione gli effetti del populismo e della xenofobia del "senatur" per le devastazioni culturali che hanno modificato in profondo il sentire popolare nelle società del Nord, sfugge alla comprensione dei più il ruolo assunto dalla politica economica della Lega, che ha contribuito non poco a depotenziare il conflitto nel mondo del lavoro. Questa non è mai stata presa sul serio dalla politica nazionale, anche quando assumeva concretamente il ruolo di ricostruzione nel Nord ricco, ma segnato da una cultura egualitaria e dalla forza del movimento operaio, di una identità liberista e connaturata con la cultura industriale della grande impresa. Forse perchè la Lega non enfatizza nelle posizioni ufficiali la centralità dell’impresa rispetto al lavoro, soprattutto quando dice di dedicarsi alla difesa degli operai del Nord. O forse perché, nonostante iniziative decise e di contrasto esplicito come quelle assunte dall’insieme della CGIL Lombarda in tutti gli anni ’90 e culminata con la manifestazione nazionale antisecessionista a Milano del 20 settembre 1997, si è preferito trattare l’ossessione all’esclusione presente nel DNA della Lega come un risvolto della difesa ad oltranza del proprio territorio, anziché come una scelta di classe, quale emergerà all’approssimarsi dei suoi uomini al governo. Altro che costola della sinistra!
Proprio per rimediare una lettura che giudico insufficiente del fenomeno leghista e del suo successo, insisterò in queste note sull’ispirazione economica liberista della sua strategia e sul carattere classista del federalismo fiscale, accolto come aspirazione popolare nell’ignoranza delle conseguenze sul patto sociale alle radici della nostra Costituzione. In fondo, senza riferimenti al programma economico, non si capirebbe il sodalizio perfino culturale tra Bossi e Tremonti e nemmeno il successo nel campo berlusconiano - con il placet di Confindustria - della calata a Roma dei ministri leghisti provenienti dalla Lombardia. Molte delle "svolte" e delle mutazioni delle camice verdi traggono le loro motivazioni dall'economia e si saldano non a caso con le aspirazioni del partito azienda di Berlusconi e della lobby del privato sociale di Formigoni, che patteggiano volentieri con le rudezze estreme dei padani, ben consapevoli di averli al fianco nell’attacco agli articoli 1, 3 e 41 della Costituzione e nell’abbattimento del welfare e del diritto del lavoro.
LEGA E CULTURA D’IMPRESA
Nascita e sviluppo improvviso del "leghismo" – come osserva Salvatore D’Albergo nella prefazione al libro Leghe e leghismo di A. Ruggeri – “sono databili in stretto collegamento con l’abbandono di una strategia di trasformazione in senso sociale dei rapporti economici e convergenza istituzionale sul territorio, in una prospettiva che poneva le piccole imprese in una visione del lavoro come motivo di un patto, con un movimento operaio deciso a fare della programmazione democratica dell'economia lo strumento di valorizzazione delle forze richiamantesi ai valori di un nuovo tipo di civiltà, fondata sull'emancipazione e non sul profitto”. Si tratta della fase declinante del PCI, dello spostamento del PSI verso il craxismo, con la CGIL ancora impegnata nell’estensione della contrattazione decentrata e per i diritti di informazione e il piano di impresa. E non sarà un caso se la percezione dei pericoli del leghismo saranno avvertiti nel sindacato e prevalentemente rimossi nel mondo politico. E’ in crisi la democrazia di massa, si rompe l’unità sindacale, ma una parte consistente della CGIL coglie l'equivoco del federalismo come rafforzamento dei poteri istituzionali nelle regioni-stato ricche, per assecondare il primato del sistema delle imprese e cancellare l'autonomia del lavoro e l’universalità delle sue conquiste. La Lega non smetterà mai di puntare all’impresa come soggetto di trasformazione, pur manifestandosi per “la piccola”, ma con piena fiducia nella ideologia “della grande” e del sistema economico liberale di mercato, candidandosi così a forza di governo solo apparentemente antisistema. L’affinità Bossi-Berlusconi è nelle cose, oltre l’apparenza e con il passare del tempo la Lega al Nord si radicherà sempre di più nella fabbrica diffusa e Forza Italia nelle città, ma la convergenza, nonostante le mal riposte speranze del centrosinistra, non verrà mai meno. Anzi, attorno all’alleanza di governo di centrodestra si rafforzerà una “cultura generale” proprio come portato della supremazia dell’impresa. Una cultura che va oltre la Lega e da cui la Lega si alimenta, che persegue la caduta dello spirito pubblico mentre esalta in chiave conservatrice la responsabilità verso la famiglia, la laboriosità e il liberalismo assistenziale caritativo, unico “diritto” a cui accedono i deboli. Credo che il cuore varesotto delle camice verdi nasca in particolare dal pragmatismo che ha pervaso e pervade gli ambienti confindustriali locali, prima che le piccole imprese di quella provincia. La logica aziendale che rifiuta qualsiasi programmazione, che non si fa carico di dimensioni oltre il proprio territorio, che non supera il proprio settore merceologico per intraprendere politiche di investimento e scelte produttive dimensionate alla crisi e alla globalizzazione, è certamente assai più tipica di una grande associazione industriale di provincia che non di Assolombarda. E la Varese leghista fin dall’inizio prova a mandare in politica industriali locali e a promuovere rappresentanti economici influenti a livello nazionale che, in mancanza di programmazione, si battono per orientare i fini generali dell’interesse pubblico e delle politiche fiscali e creditizie ai fini privati.
Ritengo che nasca anche dall’esperienza di crisi profondissima della grande industria varesina degli anni ‘80 e ’90 la richiesta, poi abbracciata in tutta la Lombardia e il Veneto, di trattenere a livello locale le risorse, la voglia di pensare allo sviluppo in chiave secessionista, il trascinamento delle piccole imprese e dell’artigianato nell’appiattimento sulle scelte di rivalsa sul costo del lavoro adottate dall’impresa maggiore. Se è l’impresa che unifica l’economia e non c’è iniziativa politica per unificare il sociale, allora è la logica dell’impresa che si impone sul territorio, scompare il lavoro come soggetto antagonista e padroni e operai si ritrovano sulla stessa barca, a remare contro presunti nemici collocati in altri territori nella più pura competizione capitalista tra di loro.
2. L’ECONOMIA POLITICA DELLA LEGA
Spesso trascurata, la teorizzazione economica del secessionismo leghista è tutt’altro che trascurabile. Se oggi la coincidenza di posizioni con Tremonti, fa pensare a una gerarchia e a una dipendenza dalle posizioni del Ministro, nondimeno alcuni tratti della “resistenza” del Tesoro nei confronti di Berlusconi si possono rintracciare nel pensiero leghista di lungo corso.
Pensiero articolato, che esprime da sempre una forte adesione alle direttive del capitale finanziario del FMI e dell’OCSE e infatti, nonostante l’antieuropeismo sbandierato, si affretta ad aderire alle soluzioni antisociali adottate in questi giorni dall’Ecofin e dalla Banca Europea, proprio in quanto puntano alla riduzione della spesa pubblica, al taglio del debito verso salari e pensioni, remunerando invece appieno l’esposizione verso le banche e il capitale finanziario.
Entrando più in dettaglio, sul piano previdenziale l’idea dei fondi regionali rientra in quella dell’estensione del risparmio forzoso collettivo territoriale e aziendale e quella dell’integrazione privata obbligatoria nel sostegno alle polizze assicurative, che la Lombardia già adombra anche per la sanità. L’economia sociale mutualistica e cooperativa no profit viene posta come occasione di interesse per i lavoratori locali e come problema dell’accumulazione governata e “redistribuita” politicamente ai propri elettori. E’ impressionante la crescita al Nord in questi ultimi cinque anni di cooperative targate Lega e perfino la “presa delle banche” annunciata da Bossi non risulta estranea a questo contesto. La rendita finanziaria dei fondi è oggetto di grande attenzione e viene perseguita sia attraverso il depotenziamento delle entità economiche di diritto pubblico che li controllano sia attraverso la nomina diretta di esponenti leghisti nei consigli di amministrazione. “La democrazia del danaro fondata sul ruolo della Borsa valori”, proclamata in una risoluzione congressuale, è sostenuta attivamente con la propensione a portare in borsa tutto quanto proviene dai patrimoni municipali, compreso il ciclo dell’acqua di cui a parole si difende la natura pubblica. L’occupazione e gli investimenti sono affrontati solo in termini corporativi, lasciati alla libera determinazione delle imprese, rispetto cui lo Stato si adegua, semmai favorendo il Nord rispetto al Sud. Basti pensare alla pura agitazione per il declino del settore tessile nella bergamasca e al clamoroso silenzio sulle scelte di Marchionne per gli stabilimenti FIAT o, ancora, alla acquiescenza per la trasformazione alla periferia milanese di due milioni di metri quadrati dell’ex Alfa Romeo in villette e centri commerciali. Il protezionismo economico si traduce in una tensione a produrre dazi e disincentivi all’importazione, inadeguata al livello della concorrenza determinata dalla nuova divisione del lavoro e dall’ordine imposto dal capitale finanziario, riducendo al nulla anche l’assistenzialismo economico promesso localmente ai sistemi delle piccole imprese.
Così il federalismo propugnato a gran voce in un quadro di rottura dell’unità nazionale, si situa come una necessità in una situazione in cui la ricapitalizzazione delle imprese del Nord richiede ingenti risorse, oltre quelle sottratte alle retribuzioni e alla redistribuzione del reddito. In questa fase della crisi globale lo Stato deve servire l’impresa, per garantire un uso privato dell’accumulazione pubblica. Ma per evitare conflitti insanabili, occorre che almeno al Nord lo stato sociale e le retribuzioni per i residenti vengano minimamente tutelate, magari a costo della privatizzazione del primo e della perdita dei diritti per i salariati. Di conseguenza, il federalismo fiscale si offre come panacea, ma solo per una soluzione che implica come sua cifra l’esclusione e la rottura dell’unità nazionale.
L’INTERESSE OPERAIO PER LA LEGA
Accreditata sul piano politico e nel sentire popolare come forza “antisistema”, la Lega può apparire come non immediatamente reazionaria e perfino conciliabile con la tradizione di sinistra da cui ha mutuato l’assiduità della presenza territoriale. La politica economica della Lega e le dichiarazioni roboanti con cui difenderebbe il lavoro dalle incursioni dei non residenti, fa trasparire che una maggiore disponibilità di risorse e ricchezze trattenute sul territorio potrebbe essere devoluta alla solidarietà. Il passaggio dell’autonomia impositiva ai comuni e la riduzione delle tasse e dei contributi assicurerebbero servizi all’altezza e salari adeguati, anche senza esercitare un conflitto nei luoghi della produzione. Quindi, la Lega adombra una sua linea per occupazione e welfare, anche se sotto bandiere lontane dalla giustizia sociale e nel nome del federalismo competitivo. Ne segue che una parte consistente di elettori comincia a credere che un prelievo fiscale e contributivo, tutto riversato a livello locale o con una parte minima di trasferimento per il funzionamento dello stato centrale, sarebbe una buona cosa per il lavoro dipendente. Il superamento del welfare che conosciamo e dell’intervento pubblico viene concepito come il viatico per la creazione di una economia più potente rispetto al sociale, che per tradizione apparteneva alla sinistra. Una economia più potente consentirebbe alle imprese di non soccombere e, quindi, di “elargire” anche nella nuova fase della globalizzazione tutele sufficienti ai dipendenti. Quella che viene auspicata è una società a suo modo cooperativa a livello territoriale, ma sempre più imprenditoriale e aconflittuale e che, tuttavia, offre appigli in un mare in burrasca.
Non sto qui a riprendere quanto le ragioni di un successo di una narrazione così fragile stiano anche nella scomparsa della sinistra e nella solitudine a cui sono stati abbandonati gli operai. Voglio tuttavia dare alcuni dati sulla trasformazione del lavoro in Lombardia, che danno fiato all’intuizione della Lega di attrarre il mondo operaio partendo – se si può dire così – dall’omogeneità del territorio anziché dalla multiformità di condizioni di lavoro difficilmente inquadrabili in base a modelli del passato. Negli ultimi venti anni l’economia produttiva dei servizi subisce una trasformazione epocale (raggiunge il 70% dell’attività complessiva), mentre crolla sotto il 30% l’occupazione nella manifattura. Con la fine della grande impresa esplode la microimpresa: 507.590 unità produttive hanno un solo addetto; il 90% delle unità hanno meno di 19 dipendenti, mentre solo 799 superano i 250 nella regione più industrializzata d’Italia. I lavoratori occupati in fabbriche sopra i 50 dipendenti sono a malapena un quarto dei 728.647 extracomunitari residenti in Lombardia e meno di un quinto delle partite IVA, concentrate per lo più nelle aree urbane. Se si cercano rappresentanze politiche di questa sconvolgente trasformazione economica e sociale, ci si accorge che Lega e Forza Italia hanno almeno provato a intercettare quello che la sinistra ha visto solo a consuntivo. I risultati della recente tornata elettorale, che ho provato ad analizzare in un articolo sull’ultimo numero di Critica Marxista, sono un’ulteriore riprova dello spostamento a destra o nell’area del non voto del lavoro produttivo al Nord.
IL GRIMALDELLO DEL FEDERALISMO FISCALE
Del federalismo fiscale viene sempre celebrata la funzione taumaturgica di responsabilizzazione del meccanismo della spesa. Di conseguenza, la rottura dell'unità nazionale scivola dal versante eversivo della secessione per approdare alla "moderna necessità" di riformare lo Stato. Lasciando intendere che la riunificazione del Paese - non più data dai diritti di cittadinanza per tutti sanciti dalla Costituzione - è opzionale e possibile solo a valle del processo di privatizzazione dei beni comuni fondamentali come sanità, istruzione e mercato del lavoro, con la loro ridislocazione in ambito regionale, a seconda delle “capacità fiscali” dei residenti e sulla base di un modello sociale che abbandona la solidarietà e l’uguaglianza per abbracciare un regionalismo competitivo e a geometria variabile.
A fare da apripista di questo autentico sconvolgimento è stata Regione Lombardia che, con l'appoggio di una parte cospicua delle forze di centrosinistra che avevano dato origine all'Unione, Ds e Margherita in primis, ha presentato nel 2008 una proposta di legge al Parlamento aggressiva, egoistica e priva di respiro nazionale. Il modello lombardo, fondato sul consumo del patrimonio collettivo, annaspa, è a corto di risorse, ha necessità urgente di trattenere molti più soldi sul territorio, anche a discapito dell’universalità dei diritti in ambito nazionale. In base a queste spinte, il federalismo alla lombarda ha già provato, in modo “bipartisan” e con l’opposizione solo della sinistra radicale, a rompere quell'equilibrio tra le regioni che oggi la nostra Carta garantisce e che le lotte sindacali e democratiche di tutto il dopoguerra hanno contribuito a rafforzare. Ma il progetto Calderoli, che oggi sta alla base della realizzazione del federalismo fiscale evita davvero gli eccessi lombardi che l’hanno ispirato e non avrebbe di fatto pesanti ripercussioni direttamente sulla prima parte della Costituzione? Le premesse di un'ulteriore frattura sociale ci sono tutte, perché prevalgono la pretesa di autosufficienza dei territori più ricchi e, soprattutto, viene introdotto il principio di sussidiarietà, che apre al privato lo spazio di erogazione delle prestazioni legate ai livelli essenziali di assistenza. Una chiara vittoria di quella impostazione economica della Lega che ho illustrato nei paragrafi precedenti.
Se abbracciamo al buio il federalismo fiscale di Calderoli, occorre sapere bene quale è il patto sociale in essere che andiamo a stravolgere. Oggi la spesa pubblica totale, pro-capite in euro, è spalmata su tutte le regioni italiane in maniera molto uniforme. E questo significa che i diritti e le condizioni dei singoli cittadini - che abitino a Centocelle o ai Parioli a Roma, o che abitino a San Siro o in Via Montenapoleone a Milano - è abbastanza uniforme, poiché, dal punto di vista dell'intervento dello Stato, c'è al massimo una diversa ripartizione tra spesa locale e spesa statale, con il fondo perequativo, messo in discussione dal federalismo fiscale nella sua entità e natura, in grado di riequilibrare le situazioni. Infatti i più ricchi contribuiscono all’estensione dei diritti ai più poveri in base all’art. 3 della Costituzione, che rimuove gli impedimenti sociali alla realizzazione dell’uguaglianza del cittadino. In questo caso attraverso la progressività dell’imposta fiscale personale, per cui il flusso va dal più ricco al più povero, non, come si blatera, da una regione all’altra. Oggi le tasse non appartengono al territorio: appartengono allo Stato, che ha un compito di giustizia sociale e redistributiva tra tutti i suoi cittadini. Quindi, il gettito non è dei cittadini residenti. I quali hanno sì maggiore “capacità fiscale” al Nord rispetto al Sud, ma sono in credito semplicemente perché sono mediamente più ricchi, non più generosi. Oggi il meccanismo di perequazione funziona tanto tra un cittadino ricco della Lombardia e un povero della Basilicata, quanto tra il lombardo ricco e il lombardo povero.
Questo patto, che ha alla base la progressività fiscale estesa a tutto il territorio nazionale, oggi viene divelto. Le comunità territoriali più ricche, che oggi versano di più allo Stato proprio per consentirgli un carattere non residuale sul welfare e sul lavoro, con il federalismo fiscale indietreggeranno rispetto alle politiche sociali nazionali, mentre apriranno le porte alla concorrenza pubblico privato in materia di servizi. Non stiamo parlando di un castello astratto, ma di un legame stretto tra il contesto fiscale, quello finanziario e quello istituzionale con enormi risvolti sul piano politico e sociale. Messo così, il federalismo fiscale è espressione della politica autoritaria dei forti posta in antitesi sia al governo dal basso sia ad un federalismo municipale che libererebbe più partecipazione e stimolerebbe un controllo diretto. Siamo di fronte al colpo più duro sferrato alla nostra Costituzione di democrazia sociale, che alimenta pericolosissime e possibilmente tragiche tentazioni in tempo di crisi: tanto più con un’Europa sociale allo sbando e con una Merkel che adombra un modello di relazioni a diversa velocità tra territori forti e deboli e tra monete che allontana la prospettiva dell’uguaglianza anche dal modello sociale “renano” che abbiamo cercato di proporre al resto del mondo in competizione.
Rimanere ancorati all'opposizione tra pubblico e privato impedisce lo sviluppo di una gestione cooperativa e condivisa dell'acqua, del sapere, della salute, dell'energia e del patrimonio culturale. Da qui la necessità di elaborare un'alternativa credibile al paradigma basato sull'individualismo metodologico dominante nel diritto, nella filosofia e nelle scienze sociali
Soltanto la rozza applicazione del modello dell 'homo oeconomicus, massimizzatore individualista delle utilità di breve periodo, spiega gli esiti (ed anche il successo accademico) della cosiddetta tragedia dei comuni. In effetti la nota parabola del biologo Garret Harding, presentata al pubblico in un celebre saggio nel 1968, pur oggi autorevolmente confutata perfino dal premio Nobel per l'economia nel 2009 Elinor Olstrom, ha portato il mainstream accademico a vedere il comune come luogo del non diritto. Secondo questa idea, una risorsa in comune in quanto liberamente appropriabile, stimola comportamenti di accumulo opportunistici che ne determinano la consunzione definitiva. Così ragionando si considera realistica l'immagine di una persona, invitata ad un buffet in cui molto cibo è liberamente accessibile, avventarsi sullo stesso cercando di massimizzare l'ammontare di calorie che riesce a immagazzinare a spese di tutti gli altri, consumando perciò la massima quantità possibile di cibo nel minor tempo possibile secondo il criterio dell'efficienza. Il senso del limite, creato dal rispetto nei confronti dell'altro e della natura, viene così escluso a priori da tale modello antropologico irrealistico fondato su una visione scientifica puramente quantitativa.
Tra competizione e concorrenza
La «tragedia dei comuni» evidenzia due visioni del mondo in conflitto. Quella dominante è fondato su un'idea fondamentalmente darwinista, che fa della «competizione» della «lotta» e della «concorrenza» fra individui o comunità gerarchiche (come le corporation) l'essenza del reale. Quella recessiva, sconfitta ormai da molto tempo sul piano della prassi in occidente (e sotto attacco in quei luoghi dove ancora in parte resiste) è invece fondata su un idea ecologica e comunitaria del mondo.
Il modello dominante lo vediamo proposto costantemente nelle retorica della crescita, dello sviluppo (dei modi di uscita dalla crisi) utilizzata dai media capitalistici nonostante la catastrofica situazione ecologica ed economica. Il modello recessivo caratterizzava l'esperienza politico-giuridica medievale in cui la parcellizzazione del potere feudale manteneva al centro della vita in società la comunità corporativa pre statuale. L'abbandono di questo modello comunitario in Occidente è il prodotto progressivo delle esigenze dei mercati di fondarsi su istituzioni politiche di dimensione statuale al fine di farne uso nella corsa al saccheggio coloniale e di rafforzare le concentrazioni di capitale. In periferia il modello recessivo ancor presente nell'organizzazione di villaggio subisce un assalto spietato fatto di aggiustamento strutturale (piani dela Banca Mondiale e del fondo monetario internazionale volti a favorire la mercificazione della terra) e culturale (retorica dei diritti umani, dell'emancipazione femminile all'occidentale e in generale della modernizzazione).
La rivoluzione olistica
Sul piano scientifico e filosofico il secondo modello si è preso vistose rivincite. Infatti si sta sempre più diffondendo una visione che vede il pianeta vivente come una «comunità di comunità ecologiche», legate fra loro in una grande tela, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa. Mentre il paradigma dominante (competitivo o gerarchico che sia) fondato su una antropologia individualizzata per ragioni ideologiche è inadatto a descrivere questi nessi, che sono prima di tutto qualitativi e non quantitativi, il paradigma recessivo ci offre una percezione della realtà ben più realistica.
Il rapporto paradigmatico del modello recessivo non è il dominio assoluto del soggetto sull'oggetto (proprietario-beni; Stato-territorio) ma la cura, la dipendenza ed il nutrimento (simbiosi mutualistica, parassitismo). Ciascun individuo dipende per la sopravvivenza dal suo rapporto con gli altri, con la comunità, con l' ambiente. Cura, nutrimento e dipendenza sono relazioni di tipo qualitativo e non quantitativo perché le necessità ecologiche sostenibili sono sul piano quantitativo costanti. Infatti tutti gli individui hanno grosso modo lo stesso bisogno quantitativo di cibo (misurato in Kilocalorie) ed acqua (misurate in litri) per la sopravvivenza. Le differenze rilevanti sono evidentemente qualitative (tipo di dieta, purezza dell'acqua).
Ed in verità, atteggiamenti maggiormente olistici, fondati sulla mappatura di relazioni qualitative piuttosto che su misurazioni quantitative, nonché sulla critica al riduzionismo positivistico di matrice galileiana, newtoniana e cartesiana si sono imposti pure in fisica teorica. Essi, fin dalle origini della meccanica quantistica e del realitivismo hanno provocato un'autentica rivoluzione epistemologica, che ha tuttavia radici antiche. Tale rivoluzione «olistica» che sul piano filosofico sembra articolarsi nella nozione di fundierung e di «rilevanza» tipica della fenomenologia, non ha tuttavia contaminato le scienze sociali. Qui la tradizione empirista anglo-americana (con radici nello scientismo baconiano) domina ancora il panorama accademico soprattutto in economia, politologia e sociologia e anche nella tradizione filosofica analitica anglo-americana. E una simile impostazione scientistica domina oggi nel diritto.
L'ecologia si fonda fin dalle sue origini sulla tradizione recessiva in cui al centro si colloca la comunità ed in cui l'individuo solitario e competitivo viene denunciato come una mera finzione. Se infatti, l'individuo solitario in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione immaginaria sono certamente funzionali alle esigenze produttive del capitalismo che intende venedergli i suoi prodotti. Proprio allo scopo di inventare bisogni privati sempre nuovi si è sviluppata la disciplina del marketing la quale, creando false immagini e miti materialistici per lo più egocentrici e narcisistici produce comportanenti di consumo dagli effetti ecologici devastanti. L'individuo reso in tal modo solo, narcisistico e desideroso di consumare trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principle (a volte unico) orizzonte relazionale reso «oggettivo» dal sistema dei prezzi da pagarsi per la soddisfazione dei vari sempre più complessi «bisogni».
Le false antinomie
La «finzione» individualistica tipica della tradizione liberale (il mito di Robinson Crosue) infatti scollega il bisogno dalle necessità reali di sopravvivenza (necessità che possono soddisfarsi in modo qualitativamente diverso ma quantitativamente costante) e lo «inventa» in funzione delle esigenze della sua soddisfazione (supply side economics). In tal modo un paradigma quantitativo sottomette quello qualitativo perché più si riescono a far crescere i bisogni indotti, più denaro si potrà incassare dalla loro soddisfazione.
Purtroppo la dimensione ecologica ed il pensare «sistemico» - paradigmi capaci di svelare queste dinamiche di accumulazione individualistica che sono devastanti per la vita in comunità - sono i grandi assenti del pensiero politico contemporaneo, il quale trova nelle «scienze sociali» (in particolare la microeconomia, le scienze aziendalistiche e per fino il marketing) e nel diritto la sua sola interlocuzione «culturale».
Proprietà privata e Stato nelle varie loro declinazioni, sono le due grandi istituzioni giuridico-politiche che declinano la visione dominante. Il discorso dominante, fondato sulla contrapposizione dualistica e riduzionistica fra stato e mercato, le presenta come radicalmente conflittuali. Si assume in modo criptico che il loro sia un rapporto a somma zero: più Stato uguale meno mercato; meno mercato uguale a più Stato. In questo schema riduttivo Stato e proprietà privata divengono la quintessenza rispettivamente del pubblico e del privato ed i poli della contrapposizione fra i due. Naturalmente questa immagine è del tutto falsa tanto sul piano storico quanto su quello del presente perché le due entità, in quanto istituzioni sociali e dunque vive, non possono che essere strutturalmente legate in un rapporto di simbiosi mutualistica. I confini fra le due sono presentati ad arte come netti per una precisa scelta ideologica.
Tuttavia la sua falsità storica è del tutto irrilevante nel riflettere sulla egemonia di un certo discorso politico, sicché la pervasività di Stato e mercato come rappresentanti rispettivamente del pubblico e del privato non lascia posto ad alcun terzo genere. Questa rigità e questo riduzionismo di analisi e prassi, sono in realtà il prodotto di una struttura comune a proprietà (mercato) e sovranità (stato) che consiste nell'elemento della concentrazione del potere. Le strutture privatistiche (proprietà privata, società per azioni ecc.) concentrano il potere di decisione ed eclusione in capo ad un soggetto (il titolare) o nell'ambito di una gerarchia (l' amministratore delegato). Similmente le strutture pubblicistiche (burocrazia) concentrano il potere ai vertici di una gerarchia sovrana simboleggiata dall'esclusione di ogni altro soggetto decisionale nell'ambito di una data sfera di giurisdizione (modello della sovranità territoriale e sue articolazioni politico-amministrative).
L'ecosistema della collaborazione
Il governo del comune sposa il paradigma recessivo e rifiuta radicalmente questa logica riduttivistica articolandosi intorno a diffusione del potere ed inclusione. Esso costituisce un altro genere radicalmente antagonista rispetto alla declinazione esaustiva del rapporto pubblicoprivato o statomercato. Il comune infatti rifiuta la concentrazione del potere a favore della sua diffusione. Il comune ha come modello un «ecosistema», ossia una comunità di individui o di gruppi sociali legati fra loro da una stuttura a rete; esso rifiuta più in generale l'idea gerarchica (e anche quella competitiva prodotto della stessa logica) a favore di un modello collaborativo e partecipativo che non conferisce mai potere ad una parte rispetto ad altri elementi del medesiono tutto, ponendo al centro l'interesse di quest'ultimo.
È quindi essenziale avere chiaro che proporre di considerare un'entità (acqua, università) come «bene comune» al fine del suo governo ha certamente lo spirito di una radicale «inversione di rotta» rispetto al trend apparentemente inarrestabile della privatizzazione, ma non significa che la prospettiva sia limitata ad un ritorno di gestione da parte di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La strada da intraprendere è piuttosto quella dell'istituzionalizzazione di un governo partecipato, in spirito cooperativo, capace di coinvolgere in modo diretto e con strumenti nuovi le comunità di utenti e di lavoratori secondo quanto previsto in Italia dall' articolo 43 della Costituzione.
Fare chiarezza su questo punto è essenziale sul piano politico perché ancora oggi, nonostante la drammatica crisi palestatasi nell' autunno 2008, quando si propone una «inversione di rotta» rispetto alla furia privatizzatrice della «fine della storia» non è raro ricevere accuse di statalismo. Va chiarito che una maggior estensione dell'ambito del comune (sottratto tanto allo Stato quanto al mercato) favorisce una diversa logica rispetto ad entrambi, quella dell'autentica democrazia partecipativa. Un'idea di «meno stato, meno mercato, più comune» costituisce io credo la sola via per far ripartire una narrativa «di sinistra» capace di recuperare consenso.
Nel nostro Paese chi distingue la cattiva democrazia dalla buona incappa solitamente in un interdetto: se critichi la democrazia è perché non sei democratico o non lo sei abbastanza, non accetti il responso delle urne, vuoi «delegittimare» chi ha vinto le elezioni. Vorresti che le cose andassero altrimenti da come le vedi tu; che la maggioranza seguisse le tue, non le sue, idee. Tu dici e pensi questo e quello, ma la maggioranza fa tutt´altro. Non te ne dai pace e, invece d´adeguarti in nome del popolo, ti ostini, in nome di non si sa quale altro principio o diritto, anzi in nome della tua presunzione, a non riconoscere d´avere torto.
osì, sei non lealmente democratico, ma subdolamente aristocratico, perché pensi tu d´avere, solo o con i tuoi (pochi) amici, la verità in tasca. Non capisci d´essere fuori della storia, uno sconfitto che avrebbe solo il dovere di tacere, mettersi da parte e lasciare il passo ai tempi che avanzano, alla storia che si realizza. In breve: cosciente o non cosciente, sei un «azionista», tra tutti i giudizi politici di condanna, il più infamante e «condiviso». Molto più di ladro, corrotto e corruttore, incapace e incompetente, voltagabbana e servo del potente (...).
La democrazia come unica forma di regime legittimo, ha vinto la sua battaglia o, almeno, sembra averla vinta. Pare non avere più rivali (...). Oggi, con la sola eccezione dei regimi dichiaratamente teocratici, dove la secolarizzazione non è penetrata ed è anzi combattuta (come accade in talune repubbliche islamiche), si presenta come l´unica forma di convivenza accettabile, dunque legittima. Ciò non solo nel mondo occidentale, dove maggiormente si è sviluppata, ma nel mondo intero, ed è proposta come valore universale dell´umanità. Talora gli intenti sono eccellenti, ma qualche volta anche criminali (come quando la si usa come pretesto per l´uso delle armi, al fine di «esportarla») (...).
Ci si può chiedere la ragione di tanta fortuna e la ragione, alquanto allarmante, è che democrazia è parola mimetica e promiscua. Con un manto di nobiltà avvolge i governanti, ma questo manto può nascondere le cose più diverse. Con l´ideologia democratica si possono nobilitare le più diverse realtà del potere. Nel tempo del potere secolarizzato, la democrazia è il solo regime che può presentarsi come l´organizzazione di un potere disinteressato. I governanti si concepiscono come mandatari o rappresentanti o benefattori del popolo. Il loro potere è in nome, per conto, nell´interesse altrui. Possono dire di «servire il popolo», cioè di fare ciò che fanno non per il piacer proprio, ma per il bene di tanti o di tutti. Nobile missione! Anche i governanti per diritto divino sostenevano di agire in nome e per conto d´altri, addirittura di Dio. Ma, una volta caduta questa premessa e posto il governo degli uomini sulla terra, solo le democrazie (non certo le autocrazie di qualsiasi genere) conferiscono ai governanti il diritto di proclamare ch´essi non governano nel proprio interesse, ma per il bene di chi è governato. Questa, l´ideologia. E la realtà? (...).
Il nodo da sciogliere, a questo punto, nasce dalla constatazione di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l´odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l´oggetto e, spesso, le vittime. Per secoli, democrazia è stata la parola d´ordine degli esclusi dal potere; ora sembra diventare l´ostentazione degli inclusi. Presso i cittadini comuni, non c´è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C´è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C´è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Non c´è bisogno di consultare la scienza politica per sentir risuonare sempre più frequentemente questa semplice domanda, che è come un segnale d´allarme: «democrazia, perché?». Quando si sente esclamare con fastidio: «tanto sono tutti uguali» (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l´occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una «teatrocrazia», è stato detto. L´esito potrà essere l´astensione o l´adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un´abdicazione.
È questa la più immediata espressione di uno scetticismo a-democratico dal basso che fa da pendant alla retorica democratica dall´alto. Se si pensa che, storicamente, la democrazia è stata la rivendicazione della massa degli esclusi dal potere, contro la chiusura su di sé dei potenti, c´è evidentemente da registrare un capovolgimento paradossale.
Il paradosso si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue forme, si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un´efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. La storia ci dice che la democrazia può dissimulare l´anti-democrazia (...).
Realisticamente, dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza all´oligarchia, anzi con la «ferrea legge delle oligarchie»: una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili (...). Questa «ferrea legge» si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l´uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, ha bisogno di piccoli numeri, di ristrette oligarchie. Non basta. Poiché questa è una patente contraddizione rispetto ai principi, occorre che queste oligarchie siano occulte e che queste, a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così essere il regime dell´illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il «principio maggioritario», che è l´essenza della democrazia, si rovescia infatti nel «principio minoritario», che è l´essenza dell´autocrazia: un´autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un´autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che si appoggiano solo su se stesse (...).
Le oligarchie, nelle odierne società, non si costruiscono su piani paralleli, l´uno sopra l´altro. L´immagine che mi pare più appropriata è quella del «giro» di potere. Intendo con questa espressione - il giro - esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi e dalle carriere improbabili, i quali vengono a occupare posti difficilmente concepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? Una delle grandi divisioni della nostra società è forse proprio questa: tra chi «ha giro», e chi non ce l´ha. Divisione profonda, fatta di carriere, status personali, invidie e risentimenti che avvelenano i rapporti e corrompono i legami sociali, ma che, finché dura, è una vera e propria struttura costituzionale materiale.
Nei «giri» si scambiano protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di «materia». Occorre disporre di risorse da distribuire come favori, per esempio: danaro facile e impieghi (Cimone e Pericle insegnano), carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall´altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all´organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, di corruzione, di criminalità; dalla disponibilità a corrispondere al favore ricevuto con controprestazioni, personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L´asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta (...). Quando poi nello scambio e nell´intreccio di favori, minacce e ricatti entrano anche organizzazioni criminali, non è esclusa nemmeno la violenza. Non pochi delitti politici nel violento nostro Paese non si spiegano forse con l´essere venuti meno a un patto di scambio?
Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell´illegalità. Essi tanto più si diffondono quanto maggiori sono le disuguaglianze sociali e quanto meno le stesse leggi valgono ugualmente per tutti (...). Come si proteggono i «giri»? Prima di tutto con la copertura e la segretezza. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva (...). Questo è il carattere nostrano odierno del sistema oligarchico: catene verticali, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell´economia e della finanza, dell´università, della cultura, dello spettacolo, dell´innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.
Se la cattiva democrazia è quella che si è involuta in oligarchie (...), allora per contrasto possiamo definire «buona» la democrazia dove vigono queste due virtù pubbliche: l´amore per l´uguaglianza sotto la legge comune, unito al disprezzo per arrivisti e faccendieri, e la sete di verità circa le cose comuni (...). Con questo passaggio, l´attenzione si è spostata dalla democrazia come forma o regola della politica alla democrazia come carattere degli esseri umani. In effetti, noi possiamo riferirci alla democrazia come tecnica del potere (che, come tutte le tecniche del potere, contiene comunque in sé qualcosa di minaccioso) e come concezione del vivere comune. Il limite della maggior parte dei discorsi attuali sulla democrazia sta nell´avere separato questi due aspetti e nell´avere oscurato il secondo che, invece, è il più importante, perché preliminare e condizionante. Se viene meno la democrazia come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può perfino suicidare «democraticamente» (...).
Poiché nessuna tecnica d´organizzazione democratica del potere può funzionare se non si appoggia su società che sono esse stesse, e prima di tutto, democratiche, si comprende che è lì la garanzia ultima e nessuna istituzione, da sola, è capace di difendere la democrazia se i più non la vogliono o non ne sono interessati. Le istituzioni, pur tuttavia, sono importanti (...). Il significato profondo delle istituzioni democratiche è tutto in questo: il medesimo obbiettivo - la lotta contro le oligarchie - ma con mezzi ordinari. Quali esse siano queste istituzioni è chiaro: quelle della legalità e della trasparenza; la sovranità della legge e la libertà delle opinioni; le magistrature e l´informazione. Senza di queste, nemmeno il diritto di voto, il diritto primordiale di ogni forma di democrazia, sarebbe dotato di senso democratico, perché non sarebbe permessa l´onesta misurazione del consenso e del dissenso.
La democrazia non è dunque possibile in società non democratiche, ancorché adottino le forme esteriori della democrazia. La società democratica è preliminare alla politica democratica. Si deve, allora, promuovere una pedagogia orientata a promuovere l´ethos della democrazia? Platone risponderebbe senza esitazione di sì: «Lo sai che inevitabilmente fra gli individui vi sono tanti tipi quante sono le forme di governo? Credi forse che esse spuntino da una quercia o da una pietra, anziché dal carattere (ethos) dei cittadini, che le trascinano dalla parte verso cui essi stessi pendono?». In effetti, da molti decenni un´autentica pedagogia democratica è mancata (...).
Nel momento della massima diffusione della democrazia - si potrebbe dire: nel momento della sua vittoria su ogni altro sistema di governo -, cioè nel momento dell´indifferenza per assenza di alternative, sembra essere venuta meno l´esigenza di insegnarne lo spirito. La democrazia si è sempre accompagnata alla diffusione dell´istruzione e della cultura, cioè alla liberazione dall´ignoranza e dall´analfabetismo. Ma una specifica educazione dalla democrazia?
In effetti, una posizione negativa si giustifica in base alla doppia idea che la democrazia, per essere davvero tale, deve essere il «regime dell´uomo così com´è» e che ogni pedagogia o educazione imposta per cambiarlo «eticamente» - fosse anche per adeguarlo alla democrazia stessa, per creare «l´uomo nuovo» - si risolverebbe in una pratica contraria ai principi della democrazia stessa. Ma «l´uomo così com´è» non è affatto quello che è adatto alla democrazia (...). Sotto certi aspetti, la democrazia è un regime politico innaturale, cioè fortemente legato a premesse culturali che devono essere alimentate: chiede sacrifici, rinunce e dedizione personali, in vista di qualcosa di comune, al di là del raggio degli interessi personali. Non è affatto solo una tecnica - certe volte migliore e altre peggiore di altre - per la protezione degli individui e dei loro interessi. È una forma di convivenza che ha a che vedere con l´etica repubblicana, con la res publica, cioè con una dimensione della vita che, per essere di tutti, non deve diventare patrimonio di nessuno. Per questo, essa è sempre a rischio e noi conosciamo bene che cosa siano state e che cosa possano sempre essere la «servitù volontaria» e la spontanea rinuncia alla libertà per il prevalere di interessi particolari.
Allora? Come conciliare gli opposti: l´inaccettabilità e, al tempo stesso, la necessità di un´educazione democratica? In un solo modo: dicendo che questo compito è essenziale, ma non è dell´autorità. Esso è rimesso alla libertà. Non spetta allo Stato di svolgerlo, ma alla società. Rientra cioè nella responsabilità di ciascuno di noi, quando entra in relazione con gli altri, là dove la democrazia è atteggiamento etico che può essere diffusivo di se stesso, nel rispetto dell´autonomia degli altri (...). La democrazia, poiché non può invocare rassicurazioni metafisiche, può basarsi solo su se stessa, cioè sui suoi cittadini. Si regge o cade per virtù o vizi loro. Ma proprio per questo, quanti amano la democrazia sapendo che prima e dopo di essa c´è solo qualche forma di autocrazia, c´è cioè la perdita della libertà, devono raddoppiare gli sforzi per difenderla ed espanderla nella coscienza di quanti più è possibile.
Il testo è tratto dall´intervento che Gustavo Zagrebelsky ha svolto il 17 giugno 2010 sul tema «Si può dire che la democrazia italiana è malata? Può esistere una cattiva democrazia?», a Lucca, nell’ambito del progetto «Un patto per la qualità della convivenza» promosso dalla Provincia e dalla Scuola per la Pace
Il Novecento è stato il secolo delle promesse non mantenute. Secolo tremendo, certo, ma che lascia un'eredità respinta da molti contemporanei: la convinzione, cioè, che fosse possibile abolire il regno della necessità dove vivono la maggioranza degli uomini e delle donne per instaurare quello basato della libertà. Una promessa che non va iscritta solo al socialismo, l'esperienza più congrua all'idea di progresso maturata agli albori della modernità, ma anche alle società capitaliste. Perché se a Est dell'Elba quell'orizzonte così vicino, ma al tempo stesso lontanissimo di libertà ha legittimato regimi politici autoritari, nell'Europa figlia della grande filosofia tedesca e francese il capitalismo ha invitato uomini e donne a marciare compatti verso un avvenire in cui la sicurezza economica era in armonia con i diritti civili, politici e sociali. Il socialismo e il capitalismo potevano inoltre fare leva su uno strumento davvero efficace nel trasformare in realtà la promessa di libertà, e di felicità. Lo stato-nazione, infatti, come un buon giardiniere era legittimato a estirpare tutte le erbacce che potevano infestare la nazione nel processo di costruzione di una società perfetta. Alla fine del Novecento di quella promessa si vedono solo le macerie. Ma sbaglierebbe chi pensasse solo ai detriti lasciti dalla caduta del Muro di Berlino, perché è il progetto moderno che ha subito uno smacco, una sconfitta, perché il giardiniere, cioè lo stato, ha fallito nel suo progetto di edificare la società perfetta. Il disordine, il ritorno di credenze che si pensavano definitivamente archiviate grazie all'uso della ragione occupano ormai la scena stabile sia nelle realtà nazionali postsocialiste che nell'opulento capitalismo.
La retorica postmoderna
A scrivere del fallimento della modernità non è un incallito decostruzionista folgorato dagli scritti di Jacques Derrida o un nichilista sui generis, ma l'appassionato studioso della modernità Zygmunt Bauman in un volume scritto nel 1991 e finalmente tradotto dalla casa editrice Bollati Boringhieri (Modernità e ambivalenza, pp. 347, euro 25). Scritto cioè negli anni segnati dalla caduta del Muro e dall'annuncio di una guerra, quella del Golfo: due eventi, per usare un'espressione che lo studioso polacco giustamente usa con molta parsimonia, che hanno davvero cambiato il panorama mondiale. Bauman, tuttavia, non è né un nostalgico delle democrazie popolari e ha ancora ben forte il ricordo della seconda guerra mondiale per rigettare culturalmente e politicamente il ricorso agli eserciti per dirimere i conflitti tra stati. Scrive il saggio mettendo i due eventi sullo sfondo, perché vuol fare i conti con la retorica, allora imperante, sulla fine delle grandi narrazioni e con quel minimalismo teorico che è stato chiamato postmoderno. Termine quest'ultimo che Bauman usa sempre con circospezione per alcuni anni, per poi abbandonarlo e sostituirlo con «modernità liquida», espressione diventata così di moda che in tempi recenti, come nel libro pubblicato una manciata di settimane prima di quello sull'ambivalenza (L'etica in un mondo di consumatori Laterza, pp. 235, euro 16), preferisce laasciarla cadere nell'oblio, perché corrosa nella sua capacità descrittiva dal rumore di fondo che caratterizza la discussione pubblica.
Nonostante siano separati da vent'anni, i due libri sono tuttavia complementari, perché nel primo sono definiti tutti i nodi teorici che nel secondo saggio trovano una parziale soluzione, laddove Bauman afferma che viviamo ancora in una modernità che continua a inseguire il sogno di una libertà tanto radicale quanto foriera di felicità. Ma lo strumento per trasformare quel sogno in realtà non attiene più allo stato-nazione, ma al consumo, dove il principio del piacere regna sovrano. Peccato, però, che il consumo non consente che una misera libertà, quella appunto di essere plasmati dalla merce che si acquista e si getta via dopo poco tempo, perché si rischia di essere «disconnessi» dalla società. In altri termini, per Bauman, il consumo è la forma attraverso il quale viene esercitato un impalpabile dominio. In questo caso, però, la categoria dell'ambivalenza torna utile. Da una parte il consumo è sì la forma socialmente definita per ratificare l'assoggettamento al regno della necessità, ma per chi vive precariamente sul confine tra inclusione e esclusione sociale è il modo per ottenere il riconoscimento di alcuni diritti civili e sociali.
Ma se nel libro Modernità e ambivalenza lo studioso di origine polacca voleva fare i conti i conti con le contraddizioni del progetto moderno, nel saggio dedicato al consumo preferisce svelare l'inganno che si cela dietro la centralità assegnata al principio del piacere, in base al quale ogni uomo o donna può recidere ogni legame e rapporto di reciproca responsabilità con i suoi simili. Insomma, due momenti di un movimento della prassi teorica di Bauman dove i fratelli gemelli della società contemporanea - il caos e l'ordine - sono ricondotti alla comune matrice racchiusa nel progetto di «buona società».
Il tratto saliente della modernità, afferma Bauman, è la continua battaglia contro l'ambivalenza, che non è, come sostengono alcuni filosofi, un limite del linguaggio nel nominare una realtà sfuggente, bensì il sentimento dominante di qualsiasi forma di vita sociale. Ogni azione, ogni scelta ha una sua ambivalenza, cioè sono azioni e scelte aperte a esiti tra loro sempre confliggenti. Per questo la modernità ha come pilastri l'attitudine a catalogare, classificare, definire, manipolare quei comportamenti tanto individuali che collettivi per impedire all'ambivalenza di manifestare il suo potere, alimentando così il caos. E così, mentre si appresta a realizzare un così ambizioso progetto, la modernità svela anche il suo lato oscuro, coercitivo, autoritario. Un lato oscuro che nel Novecento ha talvolta preso il sopravvento, mettendo in discussione e spesso all'angolo le aspirazioni alla libertà, all'eguaglianza e alla fraternità.
In difesa del flâner
Questa «dialettica dell'illuminismo» ha avuto, ma questo è noto, la sua massima manifestazione nelle baracche e nei forni allestiti a Auschwitz per sterminare gli ebrei. Nei lager, infatti, le arti della catalogazione, della pianificazione per cancellare ogni forma di ambivalenza sono state coltivata con un'attitudine moderna. Da questo punto di vista, l'ambivalenza strutturale delle figure dello straniero e dell'ebreo ha costituito la condizione mimetica di una resistenza al principio ordinatore della modernità. Lo straniero e l'ebreo, figure distinte, ma spesso coincidenti, sono infatti gli «indecidibili», cioè vivono in una società che non li vuol mai sentire parte integrante della nazione. E per quanti sforzi facciamo, gli stranieri e gli ebrei, per essere assimilati, rimangono sempre incarnazione di una estraneità. Meglio di un'ambivalenza considerata ostile per chi definisce le regole dell'ordine sociale.
La resistenza alla funzione ordinatrice della modernità mette così in discussione il suo lato oscuro, oppressivo, assieme al concetto stesso di società. Da questo punto di vista è del tutto condivisibile il richiamo a Georg Simmel, lo studioso tedesco che ha messo al centro della sua analisi sulle forme di vita metropolitane proprio il concetto di ambivalenza in quanto carattere immanente della socialità, cioè di quell'attitudine solo umana al vivere insieme per produrre le condizioni necessarie alla riproduzione della specie. Il flâner e il conseguente atteggiamento blasè studiati da Georg Simmel, e da Walter Benjamin, sono quindi da considerare come il rifiuto dell'imposizione di una verità che la modernità vuole universale. Ma la verità, come l'universalismo dei valori, hanno una funzione sociale, sono cioè i termini in cui si manifesta il rapporto asimmetrico di potere tra dominanti e dominati. E questo il secondo smacco che la modernità conosce, perché la critica al concetto di verità e dell'universalismo dei valori nasce proprio nel cuore della modernità, in quella Europa e in quegli Stati Uniti che si sono investiti del ruolo civilizzatore del mondo.
La forza dissacrante del postmoderno risiede dunque nell'aver usato tutti gli strumenti della modernità per criticarla. E proprio quando celebra la fine della modernità, il postmoderno ne riafferma una delle caratteristiche principali, l'esercizio della critica e la potenza della ragione rispetto alle credenze particolari. Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole. Non fine della modernità, ma l'eclissi di quella fiducia nel progresso che avrebbe avuto al capolinea della storia .la società perfetta tanto agognata. Più prosaicamente, annota amaramente Bauman, è ormai il consumo la linfa vitale delle società contemporanee. Attraverso il consumo uomini e donne inventano la loro identità, che si può cambiare allorquando arriva sul mercato un'altra linea di abbigliamento o telefono cellulare. Ed è attraverso il consumo che si combattono, infine, le battaglie per il riconoscimento, dopo che le appartenenze sociali hanno perso il potere ordinativo.
Identità prêt-à-porter
È in questa situazione che lo stato-nazione ha dismesso i panni del giardiniere e si è riconvertito al mestiere di guardiano affinché la santa trinità delle società tardomoderne - securitè, paritè, reseau, cioè sicurezza, parità e rete - sia al riparo dalla potere potenzialmente distruttivo dell'ambivalenza. L'ambivalenza va quindi addomesticata, facendola diventare la leva per alimentare la spinta a nuovi consumi che «l'essere malinconico» della tardomodernità viva la sua condizione di infelicità e di oppressione come tollerabile.
Lo stato garantisce quindi la sicurezza, aggiornando continuamente la tassonomia degli stranieri e degli indesiderabili in nome della sicurezza nazionale. Al mercato il compito di garantire la parità non delle condizioni sociali, ma di essere sulla stessa linea di partenza nella corsa all'acquisto, attraverso una merce griffata, di uno stile di vita e di una identità. Ai singoli spetta il compito di costruire la propria appartenenza, attraverso una effimera rete di legami che non vincola niente e nessuno.
Celebrato come uno dei massimi sociologi della contemporaneità, Bauman è uno studioso che ha sempre privilegiato l'ottimismo della ragione rispetto al pessimismo della volontà. Se critica va fatta ai suoi testi riguarda il rifiuto di considerare l'ambivalenza un fattore potenzialmente sovversivo della realtà. L'ambivalenza non come ambiguità, ma come condizione aperta alla possibilità di trasformare la realtà. Accanto alle figure dello straniero e dell'ebreo andrebbe infatti aggiunta anche quella del «precario». Il precario e la precarie sono infatti l'incarnazione dell'ambivalenza. Oscillanti tra lavoro e non lavoro, sono costretti nella camicia di forza di un lavoro salariato spogliato però di quei diritti sociali che lo avevano reso condizione sopportabile. Non vincolato a nessuna stabile e duratura gerarchia, ma tuttavia costretti a inventaris il suo reseau sociale. Ma questa condizione ambivalente è aperta alle possibilità della trasformazione sociale. Di questo programma di lavoro teorico e politico Bauman sorriderebbe. Ha attraversato il Novecento e ha sperimentato nella Polonia il vecchio adagio che le strade dell'inferno sono lastricate sempre da buone intenzione. In questo caso non ci sono però buone intenzione, né la ricerca della strada per il paradiso. Semmai c'è l'urgenza teorica e dunque politica di riprendere il cammino verso il regno della libertà.
30 maggio 2010
L’altra metà del lavoro
di Rossana Rossanda
Il «Manifesto per il lavoro» della Libreria delle donne di Milano considera la flessibilità un’occasione per conciliare maternità e lavoro. Ma rimuove i bassi salari delle migranti nel lavoro domestico, la cancellazione dello stato sociale e la differenza salariale tra uomini e donne
“Immagina che il lavoro” (Sottosopra, ottobre 2009; ne ha già scritto sul manifesto Laura Pennacchi) è la proposta d'un gruppo della Libreria delle Donne di Milano, sulla quale è impegnata Lia Cigarini. Conosco Lia da una vita, vivevamo vicine, fra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, lei più giovane, in una Milano dove le donne entravano in massa nel lavoro. In verità, entrare nel lavoro voleva dire diventare salariate, perché lavorare, avevano lavorato sempre. Nella cascina, che non era né casa né fabbrica, o nel podere in Veneto, a pieno tempo su terra altrui, mezzadre in Toscana e in Emilia, o braccianti stagionali, o nell'acqua delle risiere fino alle ginocchia come le favoleggiate mondine. Sempre, oltre che in casa, in qualche lembo delle produzione agricola o dei servizi. Quando entrarono in fabbrica diventarono operaie, si incontravano nei tram molto mattutini o serali, assonnate, vestite di furia, la permanente ferrea, o appoggiate al sole fuori dell'Alfa nell'intervallo della mensa. Uscivano di casa prestissimo, rifatti i letti e avviata la minestra, correvano al lavoro, risalivano le scale la sera dopo frettolosi acquisti a preparare la cena. Dopo cena lavavano e stiravano, la domenica mattina lustravano. In busta paga avevano di regola meno degli uomini, oltre che inquadrate ai livelli inferiori.
Maternità? Ogni tanto una era contenta. Ogni tanto un'altra correva di nascosto a un certo indirizzo e ne usciva verde in faccia e col ventre sanguinante. Altre sprofondavano in maternità faticose, tirando la vita con i denti e facendo qualche servizio. Tutte leggevano avidamente le dolci idiozie dei romanzi a fumetti.
Donne al lavoro
La composizione della forza di lavoro cambiò in quegli anni. In fabbrica e negli uffici le donne erano molte di più - anche se meno che in Francia e in Germania. Un terzo della manodopera teneva otto ore un piede in azienda, almeno due in tram, altre sei in famiglia fra spesa, pulizie, cibo e figli, scordando ogni riposo, per non dire la politica e il sindacato. Meno di venti anni dopo le stesse sarebbero scese per strada a manifestare per il divorzio e l'aborto, oblique libertà. Ma non esitarono. Un diritto avrebbe da esser bello e l'aborto non lo era. Era un desiderio? Malinconico ma desiderio? Malinconica ma libertà? Era delitto per un medico su due, per un uomo e mezzo su due, nessun delitto ma tuo rischio per la mammana, zona di rabbiosi silenzi per le famiglie.
Donne era difficile. Sono certa soltanto di questo.
Sono passati quaranta o cinquanta anni e sempre più donne sono al lavoro, in azienda, nel pubblico e in certe professioni, insegnanti, medici, avvocate. Operaie, impiegate, consulenti, imprenditrici. Sono ancora in numero minore (almeno in chiaro) che in Francia e in Germania. Ancora un poco più istruite dei maschi, ma pagate il venti per cento di meno per le stesse mansioni. Ancora ritardate nella carriera in caso di maternità. Quelle che possono si fanno aiutare in casa con i bambini da altre donne; specie migranti che possono pagare poco e stentano a mettere in regola, per cui la concorrenza ai minimi è sfrenata.
Il migrante è nell'edilizia, la migrante è nel lavoro domestico. Tutti e due, i migranti, ricattati nell'eterno precariato dei servizi e delle false cooperative di pulizie. Ma se questi sono a livello zero, a tutti i livelli - dal call center all'università, dal tour operator alla consulenza economica - tende diventare precario tutto l'impiego delle donne. Non sanno se in capo qualche settimana o mese il contratto sarà rinnovato. E non metteranno mai insieme i quaranta anni di contributi per la pensione.
Madri flessibili
Scrivono ora Lia e le donne di via Dogana: ma è una disgrazia? Non saremmo più felici se ci facessimo guidare dal desiderio invece che dalle passate ideologie, che ci hanno stretto al lavoro fisso e a tempo pieno, strozzando il nostro bisogno di stare con i figli? D'altra parte il desiderio ci suggerisce di essere madri, ma anche di accedere a quella ricchezza di rapporti che il lavoro domestico riduce. Lavoro è fatica ma anche socialità, a volte perfino una soddisfazione. Non solo sfruttamento. Diciamo dunque due volte sì, alla maternità e al lavoro.
Però, per essere vivibile il «doppio sì» non può comportare sedici ore di lavoro al giorno, otto pagate in azienda, due nei trasporti e sei in famiglia non pagate: si crepa di fatica. Guardiamo con occhio benevolo al tempo parziale, al contratto flessibile e atipico che l'impresa ci offre più facilmente. Riduciamo il tempo del lavoro esterno, facciamo quattro più due più quattro, o flessibilizziamolo, calcolandolo non a tempo (che troveremo nei pertugi) ma a risultato. Insomma mamma e impresa si possono incontrare, l'impresa gradisce avere una lavoratrice, come si diceva una volta dell'auto, just in time, e la mamma ha bisogno di essere più libera. Così il lavoro si femminilizza, aggiunge qualche amico entusiasta: le donne sono sempre di più, per meno tempo, più flessibili, non hanno la fissa della lotta di classe, della rigidità delle norme e dei diritti, d'un impiego pieno per la vita e con pensione successiva. Nel loro tempo, breve e articolato, portano le loro assai tradizionali qualità, precisione, cura, fluidità, scarsa conflittualità.
Bel quadro ma non convincente. Sono i tempi e i conti che non tornano. Per realizzaare felicemente il doppio sì occorrerebbero due condizioni; che il servizio pubblico garantisse una struttura professionale semigratuita per accudire la casa e i bambini mentre lei lavora, e che l'impresa pagasse la lavoratrice almeno come un uomo, dovendo provvedere a una piccola creatura. Se non ci sono queste due condizioni, come è stato in alcuni paesi scandinavi, il mezzo tempo non basta per vivere e tanto meno per pagare l'altra donna cui affidare la casa e i figli.
Il miraggio del welfare state
Le due condizioni in Italia non ci sono. Salvo in alcune città, il servizio pubblico non esiste o è ai minimi, e la Ue non fa che chiedere di ridurre la spesa pubblica almeno fino al 2013. I salari (per non parlare della mancanza di impieghi in tempo di crisi) tendono a degradarsi al precariato, che obbligandoti a pensare al mese in cui sarai sospesa, non ti invita certo a programmare una maternità. Paradossalmente, la proposta della Libreria implicherebbe quella società comunista a redistribuzione totale e mirata, che è stata buttata alle ortiche anche come miraggio da trent'anni in qua. E non abbiamo anche noi sussurratao, se non sbaglio, meno stato più mercato?
Nel mercato, e perdipiù deregolato, la cura della casa e di un figlio va pagata, a meno di non metterlo gratis sulle ginocchia di qualche nonna o zia, eternizzando la gratuità del lavoro femminile di cura, che solo chi non lo ha mai fatto può ritenere tutto gioia e piacevolezza. Nel mercato, con i pochi soldi che abbiamo, cercheremo di pagare la badante (come la chiama Bossi) il meno possibile; e non c'è limite alla corsa in basso delle remunerazioni in tempo di penuria, così anche noi mettiamo un ginocchio sul collo delle migranti. Stiamo male tutte e due perché le statistiche europee confermano che le donne sono retribuite (se va bene come in Francia) il 20 per cento meno degli uomini. In un'occupazione regolare. Perché nei contratti atipici i dati precipitano. E peggio va con la selva dei lavori autonomi, tanto sperati e glorificati, dove alla dipendente è chiesto perlopiù un sorta di cottimo, essendo pagata a risultato previo gradimento del datore di lavoro. È lavoro autonomo diventare venditrice di creme o di biancheria alle amiche, senza un minimo salariale né un contributo previdenziale? E già nello scomparire in occidente della grande fabbrica industriale, si profila la grande fabbrica dei servizi del 2000, dai call center ai grandi tour operator, all'assistenza dopo vendita delle grosse marche alle reti di comunicazione alle migliaia di impieghi il cui lavoro consiste nel cercar lavoro, grandi edifici di vetri e cristallo dove siedono in fila fianco a fianco migliaia di ragazze, ciascuna isolata in un gabbiotto con un certo numero di chiamate da fare o di pratiche da sbrigare in tempi rapidi prefissati.
Quando un compagno ci assicura che il lavoro si sta femminilizzando, intende che sarebbe più fluido e soave. Quale esempio di occhio maschile! Femminile, pensa, perché più elastico e, ha ragione, più a buon prezzo. E poi le donne sono dolci e concilianti, si dimentica che aprivano la vertenza alla Borletti prendendo a zoccolate i vetri della direzione. O erano consigliate dalle cattive maestre del movimento operaio? Andiamo. La verità è che nelle condizioni attuali il «doppio sì» può essere realizzato da donne relativamente abbienti: professioniste o impreditrici. Una normale operaia o impiegata non ce la fa.
La Libreria delle Donne ha ragione in un punto: nell'indicare un motivo della durezza della nostra condizione nell'introiezione di una condizione fatalmente subalterna. Ha ragione nell'invitate a dare ascolto a quel che sentiamo e vogliamo. A farne una leva contro lo spessore opaco dei rapporti patriarcali. Nel mondo del lavoro essi si impongono contro regolamenti, contratti e leggi. Ma desiderio non è sogno, è lucido confronto fra noi e quel che abbiamo davanti, noi e i rapporti che ci sono costruiti attorno, si nutre della volontà di non accettarli, di cambiare. Se non diventa questo non è desiderio, ma immaginario, e all'immaginario concediamo già troppo.
La mappa dei desideri
Farei una mappa assai concreta del mercato del lavoro, care amiche di Milano. E anche una mappa dei desideri. È proprio vero che è iscritto nel nostro Dna il bisogno di maternità? Molte di noi, non un'esile minoranza, non sono madri. O non hanno voluto o non hanno potuto e in ogni caso non si sono dannate per diventarlo. Rispettano ma non apprezzano il bisogno di un rampollo fatto assolutamente dei cromosomi propri e di quelli del consorte, che obbliga a un percorso accidentato fra medici, cliniche, lettini, analisi, ormoni, vetrini, provette - come se maternità e paternità fossero una facenda di ovuli e spermatozoi, invece che del sorriso della madre e delle braccia paterne. Questo «bisogno» vien giù diritto dal peggio del patriarcato.
È invece un fatto, e pesante, che la maternita delle giovanissime è perlopiù un incidente, sopravvenuto in quella sorta di coazine alla sessualità, oggi obbligatoria come era un tempo l'interdizione. È un fatto che le donne di tutti i paesi e religioni, se appena possono mettere il dito sul grilletto genetico, riducono drasticamente il numero dei figli: negli scricchiolii del patriarcato questo il più vistoso. È un fatto che le politiche demografiche per la natalità non portano da nessuna parte. È un fatto che in grandi parti del mondo una figlia femmina è soppressa. È un fatto che un senso della riproduzione va ricostruito fra noi e con gli uomini scombussolati dalla caduta del classico ruolo paterno. È un fatto che il maschilismo si difende nel risorgere delle religioni. È un fatto che grande è il disordine delle soggettività sessuate sotto il cielo. Neanche il desiderio è così semplice. Vogliamo discuterne?
10 giugno 2010
In risposta a Rossana Rossanda
L'altra metà del lavoro
di Lia Cigarini Giordana Masotto Lorenza Zanuso
La flessibilità imposta dall'economia neoliberista non rappresenta un'opportunità per le donne. Ma il tempo pieno, sempre uguale per tutta la vita, non può più essere considerato un modello a cui adeguare lotte e obiettivi. In questo quadro, chiudersi nell'alternativa fra «più stato» o «più mercato» impedisce di sperimentare nuovi modi di accogliere il conflitto, che di per sé costituisce un passaggio essenziale per cambiare l'organizzazione del lavoro
L'articolo di Rossana Rossanda (il manifesto, 30 maggio), a commento del nostro Sottosopra - Immagina che il lavoro (testo scaricabile in www.libreriadelledonne.it/Stanze/Lavoro/stanzalavoro.htm), merita alcune precisazioni e ci spinge a riflessioni più generali che ci piacerebbe aprissero sul manifesto un confronto, secondo noi necessario e urgente. Rossanda ci invita: «vogliamo discuterne?». È un invito che abbiamo molto apprezzato e che facciamo nostro. Lei dice che noi vediamo nella flessibilità una opportunità di conciliazione maternità/lavoro. Questa obiezione gioca sull'ambiguità del termine flessibilità (delle persone per il lavoro o del lavoro per le persone?). Certamente noi non abbiamo mai sostenuto che la flessibilità imposta dal mercato del lavoro neoliberista sia un'opportunità per le donne.
Noi affermiamo - e con noi lo affermano da tempo centinaia di economiste e studiose in tutto il mondo - che il modello di lavoro full-time full-life ha una storia specifica, fondata su una specifica divisione del lavoro tra i sessi: gli uomini al lavoro retribuito e le donne a casa. Diciamo che, con la partecipazione femminile di massa al lavoro per il mercato (unitamente al controllo della procreazione e alla più generale consapevolezza nata con il movimento delle donne), questo modello non è più sostenibile; e che va rimesso in discussione per tutti, uomini e donne. In altre parole: il tempo pieno, sempre uguale, per tutta la vita, non può più essere considerato il modello cui uniformare lotte e obiettivi. Non solo non è perseguibile, ma neppure desiderabile. Così come non è né perseguibile né desiderabile uno sviluppo basato sull'aumento infinito dei consumi.
Processi di adattamento sociale
Siamo ben consapevoli che il mercato del lavoro non è più quello degli anni Sessanta-Settanta. Vediamo e ascoltiamo le condizioni di precarietà e ricatto cui sono costretti in particolare i giovani nelle attuali condizioni del mercato del lavoro: donne e uomini, perché questo cambiamento non riguarda specificamente le donne. Eppure, riteniamo imprescindibile mantenere fermo quel punto di analisi, cioè la radicale trasformazione dell'idea stessa di lavoro determinata dalla presenza in massa delle donne anche nel lavoro retribuito. Perché vediamo che quel punto di vista non solo fa chiarezza sulle trappole paritarie (come perfettamente spiega Ida Dominijanni a proposito dell'età pensionabile, sul manifesto del 5 giugno), ma apre a una diversa consapevolezza, diversa anche dalla solita analisi sul lavoro postfordista. E crediamo che, se non ci sono impuntature ideologiche e steccati identitari, questa consapevolezza dia forza alla soggettività politica delle donne, e possa mettere in comunicazione anche donne e uomini che usano chiavi di lettura diverse. A questo primo e fondamentale punto di analisi, noi aggiungiamo un corollario: la completa socializzazione del lavoro di riproduzione attraverso merci o servizi privati e pubblici, che viene proposta come «soluzione» sia nelle impostazioni marxiste classiche sia dai teorici del pieno impiego del capitale umano uomo-donna, non è né credibile né desiderabile. E quindi va rimesso sul piatto della politica e dell'economia l'insieme del lavoro necessario per vivere, il suo senso per i singoli e la collettività, e la sua distribuzione per tutti. E ipotizziamo che in questa discussione le donne possano portare conoscenza e esperienza, un sapere storico che non va buttato via.
Rossanda dice anche che non teniamo in sufficiente considerazione la cancellazione dello stato sociale, i bassi salari delle migranti, e i differenziali salariali uomo-donna. Concordiamo che siano temi di fondamentale importanza, ma riteniamo imprescindibile discuterne a partire da una seria considerazione dell'insieme del lavoro necessario per vivere. Senza poter entrare qui nel dettaglio, osserviamo solo che nessuna di queste tre cose è direttamente correlata alla maggiore o minore flessibilità dei tempi di lavoro. L'assetto attuale del mercato del lavoro italiano, con i suoi squilibri generazionali e territoriali, etnici e sessuali, si è realizzato all'ombra di un silenzioso intreccio di interdipendenze tra lavoro di produzione e riproduzione, il cosiddetto familismo all'italiana.
C'è chi vede questi processi solo o prevalentemente come colpevole sfruttamento di alcune donne su altre donne, o anche come pura e semplice mercificazione del lavoro di cura. A noi questo pare miope. Si tratta piuttosto di un gigantesco processo di adattamento sociale che non è possibile capire né smontare se non si riparte proprio dal guardare agli andamenti e alla qualità del lavoro retribuito di donne e uomini, migranti comprese, dal punto di vista del lavoro di riproduzione dell'esistenza, e non viceversa. Quanto ai differenziali salariali uomo-donna, oltre a essere di controversa misurazione, sono in Italia i più bassi d'Europa (4,9%, vedi Mark Smith su www.ingenere.it) e più in generale derivano sostanzialmente dal fatto che in tutto il mondo occidentale uomini e donne che lavorano hanno caratteristiche personali diverse, e fanno lavori e occupano posizioni differenti nel mercato del lavoro: un fenomeno per il quale si richiede una spiegazione ben più complessa che non la «denuncia» della flessibilità.
Infine, nell'alternativa secca o «più stato» o «più mercato», richiamata da Rossanda, di certo non è venuta da parte femminista la richiesta di più mercato. Restare chiuse in quell'alternativa, che è troppo rigida e troppo semplice, impedisce, ad esempio, di ragionare su «un welfare a misura di relazioni» come abbiamo fatto con Laura Pennacchi, oppure di cogliere dinamiche inedite tra locale e globale e di sperimentare forse anche nuovi modi di agire il conflitto.
Quando poi parliamo di maternità è chiaro che non intendiamo solo maternità biologica, né tanto meno destino identitario.
Condividiamo le osservazioni di Rossanda. Figurarsi se non sappiamo che esiste anche un lato oscuro della maternità. Perfino nel nostro gruppo ci confrontiamo continuamente con tutto ciò: delle otto autrici del Sottosopra, quattro sono convinte madri biologiche e quattro convinte non-madri biologiche. Dice Rossanda: «È un fatto che un senso della riproduzione va ricostruito fra noi e con gli uomini scombussolati dalla caduta del classico ruolo paterno». Ma è proprio per ricostruire quel senso che dobbiamo rimettere al centro dell'analisi politica tutto il lavoro necessario per vivere.
Su questo tema, la nostra esperienza di confronto con molte donne ci fa dire che l'affermazione del «doppio sì» - cioè di due desideri per molte irrinunciabili, lavorare e stare con i figli - lungi dall'essere percepita come elitaria, o dall'inchiodare ognuna al proprio vissuto, fa tirare sospiri di sollievo, apre spazi importanti di libertà personale e abbatte steccati. La fortuna che l'espressione «doppio sì» - non è un obiettivo politico in senso classico - ha avuto, superiore alle nostre aspettative e negli ambiti più diversi, ci dice che quelle parole danno forza simbolica a ogni singola donna, madre o no, perché valorizzano la sua differenza e le dicono che è possibile ripartire anche da lì. Per fare cosa? Per narrarsi pubblicamente, per contrattare, per agire politicamente.
Agire il conflitto
In conclusione: l'analisi di Rossanda, come altre che leggiamo, ci appare ancorata a una specie di realismo depresso. Al contrario noi saremmo caratterizzate dall'ottimismo elitario. Siamo invitate a scendere sulla terra e a confrontarci con i duri fatti della realtà. A non prendere il desiderio per sogno, a misurarci con la necessità del cambiamento e del conflitto. Eppure nel nostro testo affermiamo con forza la necessità di agire la contrattazione a tutti i livelli, tra sé e sé, con l'altra/o, in casa e nel lavoro. Di riscoprire dal nostro punto di vista la conflittualità. Togliendo a questa parola l'interdetto sociale che ormai si è imposto, che la associa a negatività, debolezza e fallimento, schivando contemporaneamente la modalità bellicosa che ha come misura il controllo del potere. Agire il conflitto, al contrario, vuol dire riconoscere sé e l'altro nella loro differenza. Agire il conflitto per evitare la guerra, che invece vuol dire definire l'altro «nemico» per poterlo annientare. Contrattare per dare spazio pubblico alla differenza.
Per tutti questi motivi, ci viene il dubbio che una difficoltà a confrontarsi tra chi ha a cuore donne-lavoro-politica, stia forse anche nel fatto per cui alcune scommettono sulla forza della libera soggettività femminile di cambiare il senso e l'organizzazione del lavoro, mentre altre non possono sottrarsi alla sofferenza femminile, doppiamente segnata dalla globalizzazione e dal patriarcato, un morto vivente che sa ancora colpire.
Luoghi di parlanti
Per essere più chiare: il nostro testo non dice nulla di sostantivo su quello che le donne sono o dovrebbero essere. Né propone un compiuto disegno di riforma del mercato del lavoro e del welfare, del part-time o dei congedi parentali in un'ottica conciliativa. Contro ogni neutro universale (maschile e femminile), afferma piuttosto la singolarità di ognuna, e scommette sulla possibilità di ognuna di parlare di sé, del mondo (e del lavoro), sia tra sé e sé che insieme ad altre/i. È una possibilità eternamente contesa, e difficile da praticare, ma è il sale della vita. È una realtà che già affiora in quel mondo ricco e difficile da catalogare che è la rete. Quando diciamo che ci vogliono, e ci sono, «luoghi di parlanti» parliamo di questa possibilità, non di altro: creare luoghi in cui le donne possano conoscersi e riconoscersi, scambiare valutazioni, dare parole alle difficoltà, mettere sul piatto i propri bisogni, lasciar affiorare i desideri, attirare anche gli uomini al confronto.
Per incominciare a delineare la mappa dei desideri di cui parla Rossanda, perché è vero che «neanche il desiderio è così semplice». Creare realtà di donne e uomini che si parlano, che trovano se stesse/i insieme ad altre e altri. Che per questa via diventano singolarmente soggetti politici. O ci crediamo che le donne hanno questa forza, o non ci crediamo. Vogliamo ripartire da qui?
NOTA REDAZIONALE
all’articolo del 10 giugno
L'intervento che presentiamo in questa pagina prende avvio dalle riflessioni di Rossana Rossanda (uscite sul «manifesto» del 30 maggio) a proposito del testo «Sottosopra. Immagina che il lavoro», scritto e pubblicato nell'ottobre 2009 da Pinuccia Barbieri, Maria Benvenuti, Lia Cigarini, Giordana Masotto, Silvia Motta, Anna Maria Ponzellini, Lorella Zanardo, Lorenza Zanuso, del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano. Nel suo articolo Rossanda sostiene che «per realizzare felicemente il doppio sì» della donna alla maternità e al lavoro, «occorrerebbero due condizioni: che il servizio pubblico garantisse una struttura professionale semigratuita per accudire la casa e i bambini mentre lei lavora, e che l'impresa pagasse la lavoratrice almeno come un uomo, dovendo provvedere a una piccola creatura». Condizioni che, scrive Rossanda, «in Italia non ci sono»: tranne poche eccezioni, «il servizio pubblico non esiste o è ai minimi» e «i salari (per non parlare della mancanza di impieghi in tempo di crisi) tendono a degradarsi al precariato». Non soltanto «nel mercato, e perdipiù deregolato, la cura della casa e di un figlio va pagata, a meno di non metterlo gratis sulle ginocchia di qualche nonna o zia, eternizzando la gratuità del lavoro femminile di cura», ma «con i pochi soldi che abbiamo, cercheremo di pagare la badante (come la chiama Bossi) il meno possibile; e non c'è limite alla corsa in basso delle remunerazioni in tempo di penuria, così anche noi mettiamo un ginocchio sul collo delle migranti». Su un punto però Rossanda è d'accordo con il documento del Gruppo lavoro della Libreria delle donne, quando indica «un motivo della durezza della nostra condizione nell'introiezione di una condizione fatalmente subalterna». Sarebbe quindi necessario, secondo Rossanda, partire da «una mappa assai concreta del mercato del lavoro», da elaborare in parallelo a «una mappa dei desideri». Una mappa, questa, necessaria per capire quanto sia «iscritto nel nostro Dna il bisogno di maternità» e al tempo stesso utile come punto di avvio per ricostruire, tra le donne e insieme agli uomini il «senso della riproduzione».
Il 150° anniversario dell'unità d'Italia cade in una situazione di inedita gravità della vita nazionale.
In nessuna delle ricorrenze del passato, né nel 1911 né tanto meno nel 1961, la compagine unitaria era stata messa in discussione così come accade oggi. Certamente, per gli spiriti più pensosi, la ricorrenza ha costituito occasione per una riflessione severa sulle condizioni della vita nazionale, che sfuggisse alle retoriche di circostanza. E ovviamente il bilancio critico veniva soprattutto dalle regioni del Mezzogiorno. Non solo perché appariva sempre più evidente lo squilibrio tra il Nord e il Sud del Paese, ma perché in questo squilibrio si manifestava anche il modo in cui era stata realizzata l'unità. Tre anni di guerra civile, tra il 1861 e il 1863, mascherata come una guerra al brigantaggio, con migliaia di morti e feriti, avevano fondato un Stato destinato ad apparire nemico, per lungo tempo, ad una parte vasta del popolo italiano. Né i decenni successivi, con la lunga coscrizione obbligatoria che sottraeva i giovani al lavoro, e con le aspre politiche fiscali della Destra, crearono un legame di fiducia tra il nuovo Stato e le popolazioni del Sud. La prima guerra mondiale completò l'opera, mostrando come lo Stato pretendesse dai contadini perfino il sacrificio della vita, senza aver mai dato ad essi il benché minimo beneficio o vantaggio. La fragilità del consenso dello Stato unitario, dunque, trovava comprensibilmente nelle terre del Sud le sue ragioni.
Oggi la situazione appare rovesciata. La minaccia all'unità del Paese viene dal Nord, dalle zone ricche d'Italia. Ma occorre fare attenzione ad usare le parole. La minaccia, non è agitata dalle regioni: dalla Lombardia, dal Piemonte, dal Veneto, dal Friuli, dalle genti di quelle terre. Essa ha un agente molto più esiguo e molto sopravvalutato. La minaccia viene in realtà da un ristretto ceto politico, la Lega. Ricordiamo che, nonostante i recenti successi in tante realtà locali, questa formazione si aggira intorno al 10% dell'elettorato nazionale. Essa è nata - secondo la vasta analisi che ne fece Ilvo Diamanti nel 1993 – da un deficit di rappresentanza politica delle regioni più industrializzate del Paese nel Parlamento e nel Governo. Colmato rapidamente tale deficit, ed accolto da pressocché tutti i partiti il progetto di un mutamento in senso federale dello Stato, la Lega non aveva più ragioni di esistere. E difatti è stata messa all'angolo per non poco tempo, perché essa era figlio di un risentimento, e non aveva alcun progetto politico generale. Ma l'interesse a mantenere il potere e i redditi che provengono dall'essere un partito, ha spinto i capi più abili di questa formazione a spingere sempre più oltre gli obiettivi e le rivendicazioni, a inventare mitologie oltre a tanti fasulli simboli identitari.
Tante sono le parole mobilitanti che questo ceto politico spregiudicato e senza nessuna fede ha sbandierato in questi anni. Ma di recente ha trovato un capro espiatorio nei lavoratori immigrati e un nuovo mito millenaristico, il federalismo fiscale. L'agitazione dei fantasmi che creano insicurezza e domandano protezione, e il sogno di un ritaglio territoriale delle ricchezze che faccia ancora più ricchi i già ricchi. Si tratta di una miscela che ha successo politico, ma può avere un effetto devastante sulla nostra vita, sull'avvenire della comunità nazionale.
Questo nodo dovrà essere analizzato e discusso con la necessaria serietà. Non c'è dubbio che una delle ragioni di forza della proposta del federalismo fiscale stia nella cattiva condotta e nella irresponsabilità di tante amministrazioni pubbliche del Sud. Su questo il nostro giudizio di critica è fermo e intransigente. La cattiva amministrazione non è mai stata rivoluzionaria ed essa è frutto di politiche clientelari che danneggiano i ceti poveri, mortificano la democrazia e la dignità delle persone, sovraccaricano la spesa pubblica. Ma. chiarito questo aspetto, noi affermiamo che, tanto sotto il profilo storico quanto alla luce del presente, le pretese della Lega sono senza alcun fondamento. E la ricorrenza del 150° costituisce un'occasione per discuterne.
L'economia nazionale e la ricchezza dell' Italia non è certamente riducibile al PIL delle regioni e al suo gettito fiscale attuale. Le strutture economiche di un grande Paese sono il risultato del lavoro, dell'ingegno, della capacità di progetto di più generazioni di uomini e di donne. Chi ha costruito le strade, le ferrovie, i porti, le dighe, i canali? I cittadini di oggi che votano lega? Essi sono il risultato di un processo secolare, che talvolta travalica la stessa vicenda unitaria. E come si fa a dividere ciò che hanno realizzato i meridionali da ciò che hanno realizzato le popolazioni del Nord? I meridionali che ai primi del '900 emigravano in massa negli USA inviarono per un quindicennio un fiume di dollari in rimesse nei loro paesi. E quel denaro, finito nella Cassa Depositi e Prestiti servì in gran parte per finanziare le opere pubbliche nelle provincie del centro-nord. Grazie a tanta moneta pregiata affluita in Italia, la lira riusciva a fare agio sull'oro, consentendo agli imprenditori di acquistare macchinari industriali con una moneta che mai era stata tanto forte in tutta la sua storia.
E quanto i lavoratori meridionali hanno contribuito al miracolo economico del dopoguerra ? Sempre con l'emigrazione, ad esempio, ammazzandosi di lavoro nelle miniere di carbone del Belgio, e contribuendo a far affluire carbone in un paese privo di fonti di energia come il nostro. E quanti franchi svizzeri e marchi hanno inviato, per decenni, dalla Svizzera e dalla Germania ? Abbiamo già dimenticato gli ex contadini e braccianti, le migliaia di giovani meridionali che hanno permesso alla Fiat, a tante altre fabbriche del Nord, di realizzare merci competitive grazie ai loro bassi salari e alla loro capacità di fatica? Non fa parte questo lavoro di una eredità di ricchezza che continua a vivere in altre forme nelle città e nei territori di quelle regioni?
Ma noi non accettiamo neanche questo modo angusto di valutare la ricchezza di un Paese, quasi che essa possa essere identificata solo con le merci e con le infrastrutture. Come si fa a separare il reddito dalla cultura, la produzione dalla scienza, il benessere di un popolo dalla qualità dei suoi artisti e dei suoi intellettuali. ? E allora faremo la conta, regione per regione, di dove sono nati Benedetto Croce e Gentile, Gramsci e Sturzo, Verga e Pirandello, Enrico Caruso e Vincenzo Bellini? Noi non la faremo questa meschina conta, per la semplice ragione che l'Italia come Paese, a differenza della Nazione, è da ben più tempo e assai più profondamente unita e al tempo stesso diversa e multiforme al suo interno. A scorno delle ridicole mitologie etniche inventate dalla Lega, si può affermare con assoluta certezza storica che non esiste in Europa un Paese che abbia subito tante contaminazioni genetiche e culturali quanto l'Italia. Dai Greci ai Longobardi, dai Bizantini agli Arabi, dai Normanni agli Aragonesi quanti popoli e razze si sono mescolati con noi! Centocinquanta anni di storia unitaria hanno prodotto nel nostro paese un profondo interscambio di culture, di storie,di esperienze di vita. Le popolazioni del sud, del centro e del nord si sono fuse attraverso milioni di matrimoni misti, e la lingua italiana è oggi largamente praticata dalla stragrande maggioranza della popolazione. Le popolazioni del sud hanno dato e continuano a dare un grande e prezioso contributo alla ricchezza economica e culturale di questo paese. Noi non abbiamo , dunque, enclaves etniche al nostro interno, come il Belgio, la Spagna o addirittura Stati come il Galles, la Scozia e l' Irlanda in Gran Bretagna. Il nostro è un popolo di antica identità per lingua, cultura, religione. E allora la pretesa della Lega di creare un enclave di territori autosufficienti con il pretesto del federalismo fiscale non ha alcun fondamento e non deve passare. Oggi il rischio di una secessione più meno “dolce“, più o meno arrogante e razzista, è rafforzato dalla crisi economica in corso. Il pericolo che questo paese si spacchi in tanti statarelli in competizione tra loro è reale.Già oggi con il cosiddetto federalismo demaniale si profila il rischio di una spoliazione privata del nostro patrimonio comune. Quanti beni artistici e naturali possono finire in mani private? E che cosa rimarrà, di questo passo, della memoria collettiva impressa nei luoghi e nel loro uso pubblico? Tutte le recenti esperienze di secessione, anche pacifica, hanno fatto registrare un regresso per i lavoratori e portato a moltiplicare i nazionalismi e ad esaltare le xenofobie. Se si imboccasse questa strada,la qualità della vita civile dell'Italia intera, al Nord come al Sud scadrebbe gravemente, precipitando in forme di odi e rancori tra italiani dagli esiti imprevedibili.
Ma proporsi di tornare indietro oggi non sarebbe solo un’operazione che farebbe regredire la qualità dello stare insieme. Sarebbe una scelta suicida anche per le regioni del Nord.
In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato è necessario, per salvarsi, far conto su maggiori, non minori solidarietà, condivisioni, equità. Per questo riteniamo che, pur denunciando tutte le sue contraddizioni presenti e passate, l’Unità d’Italia rappresenti un valore in sé.
Non dobbiamo confondere le vicende storiche e i comportamenti concreti via via assunti dallo Stato italiano con le aspirazioni profonde e gli stessi interessi delle popolazioni italiane.
Noi riconosciamo che l'Italia affonda la sua originale vitalità storica nella multiforme attività delle sue città, dei suoi comuni, dei suoi territori. Questa è stata per secoli la sua forza, il carattere fondativo che l'ha fatta primeggiare in Europa per intraprendenza economica e finanziaria, per creatività artistica e culturale. Ma con la nascita dei moderni Stati-Nazione le mille autonomie di cui si componeva l'Italia sono apparsi a un certo punto come un limite, e il nostro Paese è stato messo ai margini della grande scena europea. Solo con la fondazione di una comunità più larga, di uno Stato che guidasse le molteplici esperienze locali, l'Italia è ritornata ad essere protagonista. Oggi noi, sul piano istituzionale, possediamo tutte le articolazioni necessarie per mettere insieme autonomie e vitalità dei territori con le configurazioni via via più vaste. Siamo dotati di comuni,provincie, regioni, Stato e operiamo all'interno dell'UE. Gli spazi istituzionali esistono già – forse sono anche troppi - e potrebbero consentire una efficace dialettica tra le realtà locali e la dimensione nazionale e sovranazionale. Il vero problema, in realtà è la qualità del sistema politico italiano nel suo complesso. Un grande nodo storico e politico che si vuol surrogare con marchingegni istituzionali.
Negli ultimi decenni, con la scomparsa dei partiti di massa, con l'emarginazione del sindacato, i ceti popolari hanno perduto rappresentanza e voce. Da ciò proviene – insieme agli effetti di un trentennio di politiche neoliberali - la scadente qualità della cultura politica, il decadimento della democrazia e della vita civile italiana. Qui sta l'origine dell'abbandono di ogni seria riflessione sul nostro Mezzogiorno e sulle sue potenzialità. In tanto immiserimento dello spirito pubblico si trovano anche le ragioni del dilagare del razzismo e dell'odio. Una miscela che porta le nazioni alla rovina.
Dunque a questo noi dobbiamo prestare attenzione. Se i partiti si sono svuotati di sostanza culturale, esiste tuttavia , al Nord al Sud e al Centro un'altra Italia, dotata di cultura, progetti, moralità civile,che non appare rappresentata, che non è registrata dal radar dei media, ma che è vasta e diffusa ed è portatrice di un cultura solidale per ridare forza e prosperità al nostro Paese. Questa Italia non è rassegnata e ha voglia di combattere.
L'articolo è in corso di pubblicazione sulla rivista Carta, che ci ha cortesemente consentito di anticiparla su queste pagine
Qui l'appello perl'incontro di Teano
Ho letto con grande attenzione l'intervento di Giorgio Ruffolo pubblicato dal manifesto (mercoledì 26 maggio) sotto il titolo «Federalismo, un patto tra Nord e Sud» e desidero, per quel poco che possano valere le mie parole, spenderne un po' a favore dell'ipotesi avanzata dall'illustre economista e uomo politico a giudizio del quale il futuro dell'Italia potrebb'essere anche, o meglio forse, quello di suddividersi in alcune (poche) macro-regioni federate tra loro ma dotate di grande autonomia.
Ruffolo avanza la sua proposta senza alcuna iattanza o sicumera, non pretende affatto di avere in tasca la ricetta utile a salvare l'Italia dalle tempeste che la vanno squassando ormai da tempo immemorabile (fino a rendere fumosa ogni speranza di riassetto virtuoso soprattutto sotto il profilo economico, in un tempo ragionevolmente breve). No, egli si limita a richiamare l'attenzione generale su una possibilità che merita quanto meno di essere discussa, non fosse altro che per guardare meglio dentro noi stessi e per comprendere quanto gravi siano le ferite presenti sul corpo del paese e come sia impensabile che la disunità italiana possa continuare a produrre mostri, senza che vengano adottati rimedi radicali. Rimedi capaci di rivoluzionare lo stesso modo di pensare e di essere dei cittadini e soprattutto delle classi dirigenti sia al Nord che al Sud.
Imprevedibilmente, la sortita di Ruffolo (vedi il suo bel libro Un paese troppo lungo, pubblicato da Einaudi) ha ricevuto però un'accoglienza improntata a una certa sufficienza, nella convinzione che ogni discorso federalistico sarebbe nient'altro che un modo per consegnarsi nelle mani di Bossi .
Come Ruffolo, anch'io ritengo che le cose non stiano così, e non soltanto perché un pensiero federalista è presente in tutta la storia del Risorgimento, sostenuto con spirito patriottico da illustri intellettuali che non possono certamente essere annoverati tra i padri ispiratori dell'attuale leader leghista, tipico figlio di nessuno dal punto di vista politico e culturale. Ma perché non riesco a intravedere alternative diverse dal divorzio a un matrimonio così manifestamente andato in frantumi. Inutile bendarsi gli occhi: dal punto di vista statuale l'Italia non esiste; non è mai nata. Il divario Nord/Sud, così come lo abbiamo costruito pazientemente, un po' alla volta, in maniera deliberata e consapevole lungo centocinquant'anni di storia, non ha uguali in tutto il mondo, fa dell'Italia un caso unico nella sua anomalia socio-economica con riflessi perfino di natura neurologica (come negare che ormai la "faglia" attraversa la nostra stessa psicologia?). Semmai c'è da apprezzare lo sforzo di Ruffolo nel formulare una proposta che, pur smontando l'idea di Stato, salva e rafforza quella di Nazione, secondo una distinzione che fu particolarmente coltivata a metà dell'Ottocento da Bertrando Spaventa, esponente di punta di quel neo-hegelismo napoletano (Bertrando e Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Vittorio Imbriani...) che incarnò nel secolo XIX l'ideale unitario come organizzazione organica e rigidamente integrata di un popolo. Nello Stato, ebbe a dire Bertrando Spaventa, «la coscienza nazionale sale e si perfeziona a coscienza politica».
Non ricordo a caso la figura di questo pensatore ingiustamente depennato dai libri di scuola. Se lo faccio è soprattutto per ricordare da quale accademia e da quale milizia provengono tanti di noi in quanto meridionali convinti del valore salvifico dell'ideale unitario, di uno Stato italiano forte, coeso e soprattutto affrancato dalla tutela di santa romana Chiesa. Come predicava Bertrando Spaventa.
Per la verità il buon filosofo diceva di più. Sosteneva che la figura del cittadino responsabile era stata inventata dall'Italia, dalla cultura dell'Umanesimo e del Rinascimento, ma che essa era stata subito messa in ceppi dal Sant'Uffizio che non aveva tardato a trasformare il suddetto cittadino responsabile in suddito, perfetto figlio della Controriforma.
Tutto questo vuole dire che oggi, accettando di discutere di federalismo e di macro-regioni, stiamo smentendo noi stessi e i nostri maestri, stiamo facendo commercio dei nostri ideali? Non credo. Stiamo soltanto prendendo atto di un fallimento epocale, ci stiamo semplicemente interrogando se non sia possibile pervenire agli stessi risultati progettati un tempo attraverso una strada sicuramente più tortuosa e insidiosa, ma non per questo senza sbocchi e tassativamente perdente come l'ha dichiarata Eugenio Scalfari in un suo articolo (la Repubblica del 16 maggio scorso).
In ogni caso, coloro che si dichiarano indisponibili a ogni discorso sul federalismo e le macro-regioni dovrebbero quanto meno spiegarci quale possa essere oggi un rimedio credibile alla situazione di malessere, di sfascio e di spaccatura in cui versa l'Italia; soprattutto, dovrebbero spiegarci se siamo ancora in tempo a fare quello che non è stato fatto in passato, e cioè realizzare una unificazione del paese, oltre che di natura amministrativa, anche di tipo economico e sociale. Il marcio infatti è tutto qui. Personalmente ho il torto di pensare che ormai sia troppo tardi per correre ai ripari. Obbiettivamente e anche soggettivamente, nel senso che ritengo difficile orientare consolidati modi di pensare e di agire in direzioni opposte a quelle del passato.
L'Italia che si unisce lo fa infatti precostituendo il proprio fallimento di cui tutti oggi patiamo l'insopportabile peso. Tradizionalismo e arretratezza tarpano le ali a tutti: al Sud, dove prospera il latifondo e dove arcaici rapporti di proprietà e di produzione condannano le popolazioni agricole a una povertà senza scampo (a fronte dell'illimitata ricchezza dei proprietari terrieri assenteisti); al Nord, dove una miope borghesia produttiva non sa guardare oltre il proprio ombelico, senza riuscire a capire che l'unificazione l'ha investita di un grande ruolo: farsi promotrice dello sviluppo generale di tutta la nazione.
Sia concessa anche a me una illuminante citazione di Gramsci. «La egemonia del Nord sarebbe stata 'normale' e storicamente benefica se avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe stata allora questa egemonia l'espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l'arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica nazionale (...) e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così...».
La citazione è curiosa. Innanzi tutto per lo spirito che la ispira, squisitamente liberistico. Per Gramsci la borghesia produttiva del Nord va messa sotto accusa per la sua incapacità di guadagnare al capitalismo moderno nuove aree, si potrebbe dire per scarsa fiducia in se stessa e nel proprio verbo. La diresti l'opinione di un protestante.
Ma, detto questo, come negare che il passo è di rara lucidità e fa comprendere quanto l'unificazione italiana, così priva di progetti e ambizioni, appaia sin da principio destinata a produrre nient'altro che mostri? Che infatti non tardano ad arrivare, attraverso il congelamento della già debolissima economia meridionale , colpita negli anni Ottanta dell'800 da una grave crisi agricola internazionale che la mette completamente alla mercè del Nord.
A partire da quel momento, come spiega lo storico Francesco Barbagallo in un suo corposo studio intitolato Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno , il divario tra Nord e Sud «non cesserà più di accrescersi: allo sviluppo industriale del Nord si accompagnerà il sottosviluppo economico e sociale del Sud in un rapporto di stretta dipendenza destinato a perpetuarsi».
E' tempo di concludere. Lo farò con una semplice domanda. E' davvero impensabile che il Mezzogiorno non possa trovare dentro di sé quelle risorse di dignità, di energia e anche d'immaginazione in grado di salvarlo, sia pure in un tempo non breve e tra mille sacrifici, dal baratro nel quale è precipitato? In ogni caso, chi ha meglio da proporre si faccia avanti.
Al momento della sua morte, avvenuta nel luglio del 1790 a Edimburgo, Adam Smith era più celebre e apprezzato in Francia che in Inghilterra. I rivoluzionari d´Oltremanica, per esempio il Marchese di Condorcet, si richiamavano con frequenza alle idee di Smith, e quella del filosofo ed economista scozzese era una presenza molto solida nei circoli intellettuali francesi. Naturalmente le opere di Smith erano molto lette anche in Inghilterra, e la prima di esse in ordine di tempo, la Teoria dei sentimenti morali (1759), non faceva eccezione, se all´indomani della sua pubblicazione Hume scriveva a Smith da Londra: «Il pubblico pare ansioso di tributare [al Vostro libro] enorme plauso». Tuttavia se sulle posizioni di Smith gli ammiratori francesi delle sue idee radicali avevano già maturato quella che potremmo definire una visione equilibrata (lo consideravano, appunto, un pensatore radicale), in Inghilterra l´immagine, oggi familiare, di uno Smith profondamente conservatore, intemerato araldo delle virtù del mercato (nel suo secondo libro, La ricchezza delle nazioni), era ancora in via di formazione. Tale immagine avrebbe preso quota, fino a diventare l´icona di Smith, solo nei decenni successivi alla scomparsa del filosofo.
Ancora nel 1787, tre soli anni prima della morte di Adam Smith, Jeremy Bentham stigmatizzava l´incapacità smithiana di mettere a fuoco tutte le virtù della libera economia e scriveva al filosofo scozzese una lunga lettera per rimproverargli l´irragionevole avversione al mercato. Invece di rinfacciare al mercato (proponendo di interferirvi) l´incapacità di tenere sotto controllo quelli che definiva "sperperatori e speculatori", Smith avrebbe dovuto lasciarlo operare in autonomia, abbandonando l´idea di una regolamentazione delle transazioni finanziarie da parte dello stato. Benché così argomentando Bentham mostri di non essere probabilmente riuscito a cogliere la forza del pensiero di Smith in materia (io sono convinto che non la colse), la sua valutazione dello scetticismo di Smith riguardo al mercato non è del tutto peregrina.
Comunque sia, di lì a poco Smith si sarebbe guadagnato l´immagine, che ancora oggi ne costituisce lo stereotipo, del banditore politico di elementari formulette, per lo più in lode del libero mercato; nulla a che vedere con quello che è uno dei più raffinati creatori di teorie sociali ed economiche mai esistiti, un sofisticato pensatore che guarda ai mercati con circostanziato scetticismo e al tempo stesso insiste perché, oltre ai problemi da superare, vengano riconosciuti anche i buoni esiti cui i mercati – e solo i mercati – consentono di approdare.
Ciò che Bentham non era riuscito a compiere per via argomentativa – trasformare senz´altro Adam Smith in un campione del puro capitalismo di mercato – fu realizzato nel XIX secolo attraverso un´errata analisi dell´opera smithiana e un corpus di citazioni estremamente parziale, insensibile a molti altri passi degli scritti di Smith. Questa immagine distorta di Adam Smith, fonte di tanti usi indebiti delle idee smithiane, si sarebbe consolidata nel secolo successivo alla morte del filosofo, per diventare poi canonica nel Novecento. Essa rimane tuttora il modo consueto di inquadrare Smith sia nelle opere dei principali economisti che nelle pagine dei giornali (malgrado le proteste di alcuni importanti specialisti).
Le tre lezioni che i propugnatori del capitalismo di mercato e del profitto traggono dalla lettura di Smith sono: 1) l´autosufficienza e la natura autoregolativa dell´economia di mercato; 2) l´idea che il profitto sia un movente adeguato per una condotta razionale; 3) l´idea che l´amor di sé sia sufficiente a determinare un comportamento socialmente produttivo. Tali tesi non solo non appartengono a Smith, ma sono marcatamente in contrasto con il suo pensiero.
In primo luogo, se è vero che Smith considera i mercati istituzioni di grande utilità, è anche vero che egli insiste con forza sulla necessità di integrarli con altre istituzioni, in particolare con istituzioni statali: il punto di disaccordo con Jeremy Bentham era senza dubbio questo. In secondo luogo, Smith sostiene la necessità di porre alla base di un comportamento razionale motivi che vadano al di là del profitto e del tornaconto personale. Con grande finezza Smith identifica varie ragioni per cui gli individui possono provare interesse per la vita degli altri, distinguendo tra simpatia, generosità, senso civico e altre motivazioni.
In terzo luogo, lungi dall´attribuire al perseguimento dell´amor di sé la capacità di dare vita a una buona società, Smith sottolinea la necessità di guardare ad altri moventi, e non solo per la realizzazione di una società decorosa, ma anche per quella di un´economia di mercato florida. Si spinge persino ad affermare che se «la prudenza» è «tra tutte le virtù quella maggiormente utile all´individuo», «l´umanità, la giustizia, la generosità e il senso civico sono le qualità più utili agli altri».
L´interpretazione standard del pensiero smithiano promossa dalla maggior parte degli economisti, e in tal modo filtrata nella cosiddetta «politica della scelta razionale» e nella corrente dominante dell´«analisi economica del diritto», è completamente fuori strada.
«Sull´uomo», sull´essere umano. Non so immaginare come altri, intervenendo in questi "dialoghi sull´uomo", interpreteranno l´espressione e intenderanno il loro compito. Da parte mia, non andrò di certo alla ricerca di qualcosa di essenziale, di ideale, di radicale circa l´essere-uomo. Nelle cose politiche e morali, è bene diffidare delle astrazioni e delle dottrine circa l´umanità autentica, vera, non corrotta, corrispondente all´ideale, un ideale che debba essere realizzato con ogni mezzo e a ogni costo. È prudente pensare che non esista "l´uomo" o che, se esiste, non l´abbiamo mai incontrato. Ci sono "gli uomini" e non uno è per natura uguale all´altro. Per nostra fortuna è così. Altrimenti saremmo pronti ad accettare l´uomo-massa, l´uomo-gregge, l´uomo in serie. La verità della nostra umanità non sta in una filosofia, in un´antropologia; sta dentro ciascuno di noi, in interiore homine, e tutti possiamo cercare di conoscerla seguendone le tracce profonde, senza mentire a noi stessi. Conosci te stesso! E non pensare che quello che hai trovato valga necessariamente nemmeno per chi ti sta più vicino.
La storia ci mostra però che questa realtà, tanto molteplice da non poter trovare un esemplare di per sé uguale a un altro, è tuttavia massimamente plastica, cioè capace di adattarsi, adeguarsi, combaciare alle condizioni nelle quali si trova a vivere. Nessun altro essere vivente ne è altrettanto capace. Per questo, gli esseri umani sopravvivono nelle condizioni ambientali, climatiche, sociali, politiche più diverse. Non solo gli individui, ma anche le loro società sono varie e sono capaci di cambiare, come nessun´altra società di esseri viventi. I viventi non umani ci appaiono programmati per vivere nella e solo nella struttura sociale che è loro propria.
Dalle società tribali arcaiche, studiate dagli etologi, alle odierne società della comunicazione, di cui si occupano gli informatici, quante varianti, quanti tipi umani diversi: cacciatori, agricoltori, nobili e plebei, liberi e servi, cittadini e contadini, corteggiani, cavalieri e borghesi, umanisti e tecnici, imprenditori ed esecutori, proprietari e proletari, uomini di religione e uomini di scienza, eccetera. Differenze, queste, che riguardano il lato esteriore degli esseri umani, quello che riguarda i rapporti sociali tra di loro. Ma che diremmo del lato interiore, quello che riguarda cose come le loro qualità morali, la loro sensibilità artistica, l´autocoscienza, la felicità e l´infelicità? Qui davvero ogni pretesa di generalizzare sarebbe ancora più arbitraria.
Forse però, potremmo già subito smentirci da noi stessi e dire che, allora, una natura dell´essere umano c´è, ed è la sua plasticità e irriducibilità ad unitatem. Ma è una smentita apparente, perché non ci permette di andare oltre, mentre è propriamente questo "oltre", o questo "altro" ciò che ci importerebbe di definire.
Orbene, è precisamente l´indefinibiltà di un´idea essenziale a priori che consente di dire qualcosa in modo indiretto, a partire dalle condizioni esterne che operano sugli esseri umani, conformandoli a determinati standard sociali e a determinate aspettative sociali. Ferma restando, peraltro, la sempre presente, residua e ribelle, loro irriducibilità integrale a tali standard.
Guardando alle condizioni odierne delle nostre società, troviamo impressionanti conferme di due profezie che risalgono, l´una, a Tocqueville e, l´altra, a Dostoevskij.
Tocqueville, osservando le condizioni della società americana orientata alla democrazia ugualitaria, previde «una folla innumerevole di uomini simili e uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il proprio animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri: i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia patria. Al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all´età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell´infanzia» (La democrazia in America, 1840, libro II, parte IV, capitolo VI).
Dall´altra parte del mondo, qualche decennio dopo (1879-1880), Dostoevskij avrebbe scritto, presumibilmente senza conoscere il suo predecessore, quella che è stata definita la storia dei due secoli successivi, La leggenda del Grande inquisitore, capitolo centrale, somma del suo pensiero politico e vetta della sua arte, ne I fratelli Karamazov. Anche qui, l´umanità è vista divisa in due. I "tutori" di Tocqueville diventano gli "inquisitori" in Dostoevskij. La visione generale è la stessa: la massa addomesticata e i pochi che, al di sopra, l´addomesticano. Non tiranni feroci, ma benefattori che prendono sulle loro spalle il fardello di una libertà di cui, per lo più, gli esseri umani non sanno che farsi, anzi anelano di sbarazzarsi. La società dei grandi numeri, industrializzata, standardizzata, meccanizzata produrrebbe così una doppia, opposta umanità. La divisione ha a che fare con la distribuzione ineguale di tre risorse vitali, i beni materiali, le conoscenze, il potere: detto altrimenti, l´avere, il sapere, il potere, i tre pilastri d´ogni struttura sociale.
La democrazia in America è un testo che potremmo definire di sociologia politica; La Leggenda, di antropologia morale. Per questo, in un discorso sull´essere umano come è quello cui i "Dialoghi sull´uomo" ci invitano, è a Dostoevskij, innanzitutto, che ci rivolgiamo. Non con l´illusione di trovarvi tutto, ma almeno con la certezza di scorgervi qualcosa di ciò che cerchiamo, anzi forse non poco.