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Invece di un progresso che vede crescere insieme sicurezza e libertà, abbiamo un movimento a pendolo che sacrifica uno dei due valori e previlegia l´altro

Che lo si voglia ammettere o no, e che la cosa piaccia o incuta timore, gli esseri umani sparsi tra le oltre duecento "unità sovrane", note come "Stati", sono in grado di vivere, da qualche tempo, senza un centro; anche se l´assenza di un centro globale ben definito, onnipotente, incontestato e di indiscutibile autorità costituisce, per i potenti e gli arroganti, una costante tentazione a riempire, o almeno a tentare di riempire, quel vuoto.

La "centralità" del "centro" si è disgregata e il legame tra sfere di autorità prima strettamente connesse e coordinate è stato (forse irreparabilmente) spezzato. I condensati locali di poteri e influenze a livello economico, militare, intellettuale o artistico non coincidono più (se mai hanno coinciso). Le mappe del mondo in cui le entità politiche sono contrassegnate da colori che indicano la loro importanza e quota relativa in termini – rispettivamente – di industria globale, commercio, investimenti, potenza militare, conquiste scientifiche o creazione artistica, non sono più sovrapponibili. E perché tali mappe siano utilizzabili per un qualsiasi arco temporale, i colori dovranno essere facilmente cancellabili, e applicati con parsimonia, visto che l´attuale gerarchia dei territori, ordinati per capacità di influenza e impatto, non offre alcuna garanzia di durata. E così, nel nostro disperato tentativo di cogliere la dinamica degli affari planetari, la vecchia abitudine, dura a morire, di mettere a punto un´immagine mentale dell´equilibrio di potere globale ricorrendo a strumenti concettuali come centro e periferia, gerarchia, superiorità e inferiorità, appare sempre più un handicap anziché, come in passato, una risorsa; i fari di un tempo sono diventati paraocchi. (...)

La "formazione delle identità", o più correttamente la loro "riformazione", diviene un compito che dura per tutta la vita, senza arrivare mai a conclusione; in nessun momento dell´esistenza l´identità può dirsi "finale". C´è sempre da svolgere un lavoro di riaggiustamento, poiché le condizioni di vita, il ventaglio delle opportunità e la natura delle minacce cambiano in continuazione. Questa "non finitezza" innata, l´irrimediabile inconclusività del compito di autoidentificazione, è causa di forte tensione e ansia. Un´ansia contro cui non esiste un rimedio istantaneo.

In ogni caso, non vi sono cure radicali, poiché gli sforzi di "formazione dell´identità" oscillano precariamente, com´è naturale, tra due valori umani parimenti centrali: la libertà e la sicurezza. Tali valori, altrettanto indispensabili per una vita umana decente, risultano difficili da conciliare, e l´equilibrio perfetto tra essi resta ancora da trovare. La libertà, dopo tutto, tende ad accompagnarsi all´insicurezza, mentre la sicurezza tende ad accompagnarsi alle limitazioni alla libertà. E se siamo insofferenti sia verso l´insicurezza sia verso la non-libertà, difficilmente saremo soddisfatti da qualsivoglia combinazione di libertà e sicurezza. Così, invece di un "progresso lineare" verso una maggiore libertà e una maggiore sicurezza, finora si è potuto osservare un movimento a pendolo, che molto probabilmente continuerà negli anni a venire: prima uno spostamento massiccio e deciso verso uno dei due valori, poi l´allontanamento in direzione dell´altro. Oggi, a quanto pare, in molti (forse la maggior parte) dei paesi del mondo, l´insofferenza rispetto all´insicurezza prevale sulla paura della mancanza di libertà (anche se nessuno può dire quanto a lungo durerà tale tendenza). (...) Lo smembramento e la disabilitazione dei centri tradizionali, sopraindividuali, saldamente strutturati e fortemente strutturanti, sembra correre in parallelo con la centralità emergente dell´Io reso orfano.

Nel vuoto lasciato da autorità politiche in ritirata o sempre più evanescenti, oggi è l´Io che si sforza o è costretto ad assumere la funzione di centro della Lebenswelt (l´interpretazione privatizzata/ individualizzata/ soggettivizzata dell´universo). È l´"Io" che riconfigura il resto del mondo come propria periferia, assegnando, definendo e attribuendo una rilevanza differenziata alle sue parti a seconda dei propri bisogni, desideri, ambizioni e apprensioni. Il compito di tenere insieme la società (qualunque cosa la nozione di "società" possa significare in condizioni di modernità liquida) viene "sussidiarizzato", "subappaltato" o ricade semplicemente nell´ambito della life politics individuale. Ed è lasciato sempre più all´iniziativa degli Io che "si mettono" in rete e "vengono messi" in rete e alle loro azioni e operazioni di connessione/ disconnessione.

La Repubblica

La riscoperta dell’indignazione

di Benedetta Tobagi

Trentadue pagine in cui articola l´imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all´emergenza ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal 2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi, hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l´immagine di broker, amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava ammirazione e invidia.

l piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere cinematografiche, letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein, il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni, denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l´economia occidentale reggeva - hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell´acquiescenza di larga parte dell´opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è morta l´illusione della crescita indefinita e dagli Usa all´Europa la cittadinanza comincia a fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente - l´Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato dall´affaire Ruby.

L´affiorare di sussulti d´indignazione popolare che rompono l´indifferenza compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L´indignazione viene invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un´etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell´indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?

L´indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall´ingiustizia, come l´odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l´indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.

Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino ( Il giusto, 1995): "il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È ingiusto!´?".

Nell´ indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto Saviano - che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga di Harry Potter. L´invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall´impatto distruttivo delle forze impersonali dell´economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell´indifferenza prima che sia troppo tardi. Dall´oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda "Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della giustizia nuoce all´intero corpo sociale, nel lungo periodo. L´indignazione marca il punto di rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile impulso verso l´agire politico.

Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell´indignazione" non basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso d´ingiustizia è il contrassegno universale dell´umanità: l´indignazione, spesso, è selettiva. Nel ´68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso determinante.

Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle esistenti. L´uomo indignato odia l´ingiustizia e l´argine che lo trattiene dal volgere quell´odio contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come l´unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon, 1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall´uso della violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria.

Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale, in cui può annidarsi un´"utopia dell´invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che l´indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un´"etica-anestetica". Lo sdegno monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all´ipocrisia: tutti si indignano davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia alla ricevuta fiscale.

Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L´indignazione, se non prosegue in un programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a lungo. C´è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall´etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l´economia dell´empatia, la radicale americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa.

La Repubblica

Vergognatevi, così nasce l´etica

Quelle riflessioni da Leopardi a Marx

di Nadia Urbinati

L´indignazione è un moto dell´animo nutrito dal senso di vergogna, un´emozione fondamentale nella fenomenologia dell´etica sociale. Come altre emozioni, la vergogna è "generativa di comportamento" in quanto mette in moto sentimenti, come l´indignazione e la colpa, che agiscono direttamente sulla volontà: per alleviarli si è portati a giustificare la proprie azioni e infine a reagire. Se l´emozione della vergogna è in se stessa non razionale, la serie di sentimenti e azioni che alimenta sono dunque di tipo strategico: le forme con le quali l´individuo che si vergogna agisce sono propositi razionali volti a rimediare il misfatto che ha generato vergogna. Per esempio Papa Benedetto XVI ha commentato i numerosi casi di pedofilia nel clero cattolico con queste parole: "Proviamo profonda vergogna e faremo tutto il possibile perché ciò non accada più in futuro".

Per questa sua capacità generativa di comportamento, l´emozione della vergogna è stata messa da Giambattista Vico alle origini della società: se "la natura di tutte le cose sta nel loro cominciamento", allora la natura della storia umana sta nella vergogna primaria, quella di Adamo ed Eva di fronte alla nudità che scoprirono di avere non appena violarono il patto di obbedienza con il loro creatore. Nella Genesi come nel Pentateuco, la vergogna e la colpa figurano alle origini della responsabilità morale. Il rossore che sale sulle guance di chi prova vergogna è il segno della socialità di questa emozione, del bisogno di riconoscimento da parte degli altri e nello stesso tempo del controllo che quel riconoscimento opera sulle nostre azioni: chi prova vergogna non riesce a sostenere lo sguardo altrui e abbassa gli occhi a terra. Questa dimostrazione di vergogna è correlata e complementare alla reazione di indignazione che la conoscenza di un comportamento vergognoso induce. Pertanto, la vergogna ha una fenomenologia doppia: la persona colpevole può provare il desiderio di nascondersi (così nasce il senso di umiliazione); chi assiste può reagire con sdegno. È per questa doppia valenza che poeti e filosofi hanno attribuito alla vergogna un ruolo liberatorio, non solo per l´individuo ma anche per la collettività.

Non provare vergogna, e per converso non provare indignazione, sono da questo punto di vista il segno di una realtà impermeabile all´ethos perché indifferente, e di un atteggiamento di apatico realismo. Una persona che non si vergogna non sente di dover reagire o cambiare comportamento. Per questo scrittori e filosofi si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l´emozione della vergogna. E quest´opera della cultura dimostra come la vergogna sia segno della civiltà. La forza di questa emozione è naturale ma la forma che prende dipende dall´ethos di una società. Per esempio, ciò che il comportamento sessuale prescrive o censura non è identico in tutte le società, gli "oggetti" della vergogna e quindi dell´indignazione sono contestuali e socialmente situati; ma il meccanismo che li governa è universale nella sua fenomenologia. Universale nel senso che, per riprendere la Bibbia e Vico, le radici della responsabilità morale (e quindi della punibilità) stanno nella capacità che gli individui hanno di sentire la vergogna e la colpa. Su questa base si sviluppa l´azione educativa e culturale.

Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: "Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi". Convinto della funzione attiva ovvero pratica del "vergognarsi", Leopardi aveva immortalato la deprimente condizione dell´Italia nel Canto Sopra il monumento diDante, come a voler muovere i lettori: "Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/quella schiera infinita d´immortali/E piangi e di te stessa ti disdegna/Che senza sdegno omai la doglia è stolta/Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti/E ti punga una volta/Pensier degli avi nostri e de´ nepoti (...)".

Provare vergogna sembra quindi essere di sprone, sembra indurre a reagire, come ha scritto Silvana Patriarca. Quante volte si sente ripetere (e si dice) "mi vergogno di essere italiano/a"? Innumerevoli volte, soprattutto negli ultimi anni. Dirlo, ripeterlo instancabilmente segnala la speranza che dalla capacità di sentire vergogna nasca l´indignazione, e di qui la decisione di reagire, di cambiare. Su questa catena di fenomeni lo stesso Marx - notoriamente contrario all´uso di emozioni e sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali - vergò parole straordinarie a proposito delle politiche illiberali del governo prussiano, commentando che, senza cadere in un vuoto patriottismo, sarebbe stato auspicabile che i tedeschi avessero provato vergogna, e aggiungeva: "Non è la vergogna che fa le rivoluzioni", tuttavia "la vergogna è già una rivoluzione in qualche modo... se un´intera nazione esperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto a balzare".

Il manifesto

E ora su la testa

di Rossana Rossanda

Non è piacevole essere oggi un'italiana all'estero. Tanto meno se si è stata una sia pur minuscola tessera di ceto politico, due volte consigliere comunale e una volta deputata, una cui l'antipolitica fa venire il nervoso. E perdipiù comunista libertaria, specie rarissima, orgogliosa di sé e di un paese che, fino agli anni Sessanta e con diverse code nei Settanta, pareva il laboratorio politico più interessante d'Europa.

Oggi gli amici che incontro non dicono più: ma che disgrazia quel vostro Berlusconi! Mi chiedono: Com'è che l'avete votato tre volte? Che è successo all'Italia? Una come me si trova a balbettare. Perché hanno ragione, non si può più fare del premier il caso personale di uno che ha fatto troppi soldi, che ha tre televisioni, che prende il paese per un'azienda di sua proprietà, che sa che molti sono acquistabili e li acquista, e adesso, gallo attempato, si vanta dei suoi exploits su un numero illimitato di pollastrine: «Vorreste tutti essere come me, eh??».

E' vero che l'Italia lo ha votato e rivotato. E' vero che non c'è traccia di una destra formalmente civile che di lui ne ha abbastanza, né di un sedicente centro deciso a liberarsene. E neanche di una sinistra capace di rischiare un «buttiamolo fuori con le elezioni». La destra tutta perché gli è ancora complice, il centro perché lo è stato, la sinistra perché il sistema elettorale bipolare le faceva comodo contro le sue ali meno docili. Metà dell'Italia è berlusconiana, l'altra metà è azzittita, e non c'è imputazione - ignoranza, prevaricazione, corruzione, soldi, attentato ai minori - mossa al personaggio che sia in grado di scuoterla. Anzi. C'è qualche verità nelle vanterie di costui, se più se ne sente più tutti si accucciano per calcoli loro. Perfino i media, che sarebbero di opposizione, sono diventati un buco della serratura per voyeurs intenti a sfogliare pagine su pagine o ad ascoltare minuti su minuti di dialoghi sul prezzo per un appalto o per togliersi le mutande.

Che ci è successo? Da quando? Perché? Sarebbe una discussione interessante. Si potrebbe sprofondare in una storia secolare di servaggi, Francia o Spagna pur che se magna. O di una unità nazionale sotto una monarchia codina, tardiva e ben epurata di ogni fermento rivoluzionario - i giacobini napoletani decapitati o appesi nel giubilo dei lazzari e sanfedisti, la repubblica romana repressa, e soltanto le tracce dell'ammodernamento giuridico di Napoleone al nord. Non sarà del tutto casuale che siamo stati noi a inventare il primo fascismo europeo. Ci deve essere qualcosa di guasto nella coscienza della penisola. Alcuni di noi pensano che soltanto la presenza di un partito comunista che non mollava sui diritti sociali ha costretto il paese alla democrazia, come un tessuto fragile ma fortemente intelaiato, che non si è lacerato finché i comunisti non si sono uccisi da soli.

Tutto da vedere, se se ne avesse voglia. Ma chi ne ha? Lo slogan nazionale è: fatti gli affari tuoi. Vota chi si fa i suoi. Non è una storia soltanto italiana, tutta l'Europa va a destra. Ma da noi si esagera. In Francia un vecchio ed elegante signore, Stephan Hessel, che non alza la voce ma non ha mai taciuto, ha scritto un opuscolo: Indignatevi! Ne sono sparite subito quasi un milione di copie. Una settimana fa voleva parlare della Palestina, glielo hanno impedito. E lui e i suoi lettori si sono trovati fuori, in migliaia, di notte, con un freddo polare, nella piazza del Pantheon, a gridare: Basta! Perché noi no? Si sta meglio con la testa alta, invece che fra le spalle e gli occhi a terra. Non so se lo farà Vendola. Non credo che lo farà Bersani. Ma chiudiamo con il cinismo del chi se ne frega. Indigniamoci!

In città si stanno moltiplicando i negozi con la vistosa insegna gialla «Compro oro». Erano pressoché sconosciuti fino a un paio di anni fa, ora crescono come funghi: appena un paio in centro, gli altri - decine - nelle ex barriere operaie, Borgo San Paolo, Barriera di Milano, Mirafiori sud... Acquistano tutto, anche le protesi dentarie. D'altra parte Torino ha fatto segnare nel 2010 il non invidiabile primato nella crescita dei pignoramenti di alloggi, con un +54,8% nei primi dieci mesi dell'anno rispetto al già duro 2009. E si calcola - sono dati impressionanti - che un 35-40% dei lavoratori metalmeccanici torinesi abbia fatto ricorso, nell'ultimo biennio, alla cessione del quinto dello stipendio, per pagare le rate in sospeso, o semplicemente per arrivare alla fine del mese.

È su questa Torino, su questo tessuto sociale allo stremo, che ha calato la scure del suo Diktat Sergio Marchionne, dall'alto del suo ponte di comando globale e dei suoi quattro milioni e mezzo di euro di stipendio annuo, quattrocentotrentacinque piani più sopra rispetto al reddito annuo di ognuno di quegli uomini e quelle donne che a Mirafiori - nel luogo in cui sono inchiodati per la vita o per la morte - dovranno domani votare se «arrendersi o perire». Più di novemila volte più in alto - una distanza stellare - se si considera anche il valore delle stock options accumulate, valutabili con un calcolo minimale intorno ai 100 milioni... Come faccia uno come Eugenio Scalfari a scrivere che non si tratta di ricatto ma di semplice «alternativa» è difficile da capire. Ma ancor più difficile da capire - loro non vivono come lui in un mondo rarefatto di letture e poteri - è come facciano a negarlo i sindacalisti che quell'accordo hanno siglato. E che non possono ignorare l'asimmetria abissale, il divario incolmabile che separa e distanzia le due parti contraenti segnando, appunto, la differenza tra un ricatto (a cui il destinatario non può sottrarsi senza rinunciare a una parte essenziale di sé), e un'alternativa, in cui in qualche modo la scelta è libera.

Ora è proprio in questo divario, in questa asimmetria assoluta che nella chiacchiera superficiale, politica e giornalistica, viene solitamente invocata per sostenere la necessità di accettare l'Accordo, la natura scandalosa dell'evento. Il fattore che rende quell'accettazione inaccettabile. E che sottrae la vicenda Fiat alla dimensione specifica di una «normale» vertenza sindacale per farne una questione etica e politica di rilevanza generale: un evento di natura «costituente». Perché quando in una società si crea un dislivello simile, quando le distanze tra parti sociali essenziali crescono a tal punto da costringerne una al silenzio e all'umiliazione, vengono meno le condizioni stesse di una normale vita democratica. Quando il principio di Uguaglianza viene a tal punto trasgredito, anche termini come Libertà e Giustizia perdono di significato, per assumere il volto tetro dell'arbitrio del più forte e dell'uso vessatorio delle regole.

Basta, d'altra parte, leggere le 78 cartelle in A4 della bozza di Accordo, diligentemente siglate pagina per pagina dalle parti contraenti, per rendersi conto della sproporzione tra le forze. Ognuna di esse trasuda, letteralmente, «asimmetria». A cominciare dalla «Clausola di responsabilità» che fa da preambolo, senza neppure uno straccio di accenno agli impegni assunti dall'Azienda per la realizzazione del «piano per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant», e invece minuziosamente precisa (direi minacciosa) nel sottolineare gli obblighi degli altri, con quelle due righe sul «carattere integrato dell'Accordo» per cui la trasgressione (collettiva o anche individuale) di uno solo degli impegni assunti costituirebbe un'infrazione grave, tale da fare decadere tutti i diritti acquisiti dalle organizzazioni sindacali contraenti... Per non parlare della procedura scelta dalla Fiat Group Automobiles per sfilarsi dall'accordo del '93 e dai vincoli del contratto nazionale dei metalmeccanici - per «far fuori» la Fiom! - con l'espediente della newco, in clamorosa violazione del dettato del nostro codice civile (art. 2112) in materia di «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda» ... Come se, appunto, l'onnipotenza aziendale potesse prevalere su ogni normativa pubblica, nella stessa misura in cui le regole stipulate a livello d'impresa devono servire a null'altro che a sancire la volontà di potenza del vincitore.

Oppure si consideri il primo punto della «Regolamentazione per la Joint Venture», sull'Orario di lavoro. Dice che la proprietà potrà scegliere tra un ampio ventaglio di opzioni - «schemi» li chiamano - con una sorta di menu à la carte nel quale vengono ricombinate le vite dei lavoratori: 15 turni (8 ore su tre turni, mattino, pomeriggio e notte, per cinque giorni la settimana); oppure 18 turni (8 ore su tre turni per sei giorni la settimana, quindi compreso il sabato); oppure, ancora, in via sperimentale, 12 turni (ognuno di 10 ore giornaliere, due turni al giorno per sei giorni la settimana). Nei casi in cui l'orario settimanale superi le 40 ore, è previsto un recupero giornaliero la settimana successiva, ma esso è puramente teorico dal momento che l'Accordo prevede anche 120 ore di straordinario obbligatorio (aumentabili fino a 200), a disposizione dell'azienda che le potrà utilizzare per saturare in periodi di picco nella produzione anche i periodi di riposo infrasettimanale. Le pause, a loro volta, saranno ridotte da 40 a 30 minuti, tre per turno, in ognuna delle quali il lavoratore dovrà scegliere se andare in bagno, sedersi un attimo per prendere fiato o tentare di addentare uno sneck (dal momento che la pausa mensa potrà essere spostata a fine turno e lavorare otto ore in piedi senza soste e senza mettere nulla in corpo non è sopportabile). In compenso la riduzione delle pause sarà compensata con un controvalore di 32 euro al mese, circa un euro al giorno (più o meno quanto si dà a un lavavetri al semaforo).

Dentro questa griglia ci sono le vite di alcune migliaia di uomini e di donne. Ci sono centinaia e centinaia di famiglie, con la loro organizzazione spaziale e temporale, con la loro rete di relazioni, con le loro concrete esistenze. Ci sono, appunto, delle «persone»: c'è il loro «tempo di vita», divenuto una sostanza spalmabile a piacere dall'impresa sulle proprie catene di montaggio, tra i pori del proprio «tempo di saturazione» (quello che divide l'ora in 100.000 unità di tempo micronizzato, secondo i dettami della nuova «metrica del lavoro»), a seconda di ciò che comanderà, momento per momento, il mercato. E dobbiamo chiederci, a questo punto, quale concezione del mondo stia dietro a questa visione. Quale idea di uomo (di «persona umana») e di società ispiri un tale progetto. E se l'argomento «definitivo» - quello con cui si taglia ogni discorso, si mette a tacere ogni obiezione - della «globalizzazione» e dei suoi impersonali dogmi sia sufficiente a giustificare una tale macelleria sociale ed esistenziale.

Ecco perché la «sfida» lanciata da Marchionne non è una «questione privata». Non può cioè essere limitata al rapporto tra la Fiat e il «suoi» operai (e non dovrebbe essere affidata solo al voto «con la pistola puntata alla tempia», di quegli operai che non devono essere abbandonati a se stessi), ma riguarda tutti noi, in quanto cittadini. Riguarda l'orizzonte in cui ci troveremo a vivere nei prossimi anni. Non è uno strappo contingente alle regole. È uno tzunami, che scardina le basi stesse del sistema di relazioni industriali e, più in generale, del nostro ordine sociale e produttivo. L'hanno sottolineato i più autorevoli osservatori non vincolati da obblighi di carattere servile, da Carlo Galli (in un lucidissimo articolo su Repubblica) a Ulrich Beck, uno che di «società globale» se ne intende. Farebbero bene ad accorgersene anche i nostri «re tentenna» del partito democratico (quanto filisteismo c'è nel Fassino che dice «se fossi un operaio voterei sì»), e quanti pretendono di esercitare funzioni di rappresentanza.

Se dovessimo accreditare l'idea della globalizzazione che da quel «fatto compiuto» si manifesta - se dovessimo davvero attribuire a quel sistema impersonale di vincoli carattere d'inderogabilità e alle sue ricadute sui territori natura di nuova «costituzione materiale» - allora dovremmo rivedere tutti i nostri concetti portanti: di cittadinanza, di democrazia, di legittimazione e di diritto. Così come se dovessimo ritenere inaggirabile quell'ukase - se ai lavoratori non dovesse più rimanere altra alternativa che quella tra la perdita del posto o l'accettazione di una condizione esplicitamente servile del proprio lavoro, se il lavoro conservato dovesse rivelarsi irrimediabilmente incompatibile con diritti e dignità -, allora non ci resterebbe davvero che organizzare un esodo di massa, fuori dalle mura dentate delle fabbriche, lontano dallo stato di «salariato». Oltre, davvero oltre, la modernità che abbiamo conosciuto e che non era fatta di asservimento e subalternità (come vorrebbero i nostri «modernizzatori» tardivi), ma di conflitto e di diritti faticosamente contesi.

Il dibattito odierno sul Risorgimento è surreale e strumentale. Si nega il valore storico dell’unità italiana, mirando alla frantumazione territoriale e corporativa. Oppure c’è indifferenza, nell’assenza di una religione civile all’altezza di un paese moderno ». Parla dell’oggi Giovanni De Luna, 67 anni, salernitano, storico contemporaneo a Torino, e studioso di Lega, antifascismo e Novecento di massa (Il corpo del nemico ucciso, Feltrinelli). La sua tesi suona: l’Ottocento è lontano. E l’ identità italiana va costruita su nuovi paradigmi di cittadinanza. Non più su quello classico dello «stato-popolo-nazione». Vediamo in che senso.

Professor De Luna, tra apatia istituzionale, boicottaggio della Lega e disinteresse, l’anniversario dell’Unità d’Italia non pare coinvolgere gli italiani. Come mai?

«Intanto c’è grande differenza con i precedenti anniversari. Nel 1911 ci si specchiava nello sviluppo industriale dell’era giolittiana, e nell’orgoglio dinastico dell’Italia sabauda assurta a potenza. Nel 1961 c’era il boom economico di un paese ricostruito dopo la guerra, e la fierezza di Torino divenuta metropoli.Due celebrazioni che alimentavano ottimismo e anche dibattiti storiografici molto accesi, sui limiti del Risorgimento dall’alto, etc. Stavolta, 150 anni dopo, c’è una crisi gravissima che travolge ogni possibile orgoglio. E poi c’è al governo la Lega che contesta l’Unità d’Italia in sé, una cosa senza precedenti ». Nonesiste piùunostraccio diborghesia nazionale con ambizioni europee e che tenga al «valore Italia»? «C’è stata una deriva mercantile totale del sentimento nazionale, visto al più come mero passaporto per il benessere, così come fu per i tedeschi dell’est dopo il crollo del Muro. Come se l’essere italiani fosse un logo, una tessera “spesa amica”, per accedere ai consumi. Il mercato ha strutturato e saturato ogni emozione, e se l’Italia non è una cosa che si mangia...».

Non è che nel Risorgimento non vi fosse il mercatismo, accusato anzi di travolgere il meridione...

«Certo, ma il dibattito sul Risorgimento riguarda solo uno spicchio della nostra storia. Ci sono stati il fascismo, le guerre, la prima repubblica e poi la cosiddetta seconda. Nessuno si interroga sullo straripante Novecento e ci si accapiglia sull’Unità d’Italia solo per demonizzarla, come fomite di tutti i mali successivi. Hanno inciso sul paese molto più il fascismo, peculiarità italiana, e la violenza di massa di due guerre mondiali».

Davvero il Risorgimento, censitario e classista, non anticipò nessuno dei mali a seguire?

«Sì, ma è come confrontare capre e cavoli. L’Ottocento non dice più nulla all’oggi. Salvo, ovviamente, prendere atto delle tante anime risorgimentali: neoguelfa, mazziniana, sabauda, repubblicana, monarchica. Come per la Resistenza: radicale, azionista, moderata, comunista. Discussione sacrosanta, che non revoca in dubbio il valore positivo dell’Unità d’Italia, che tutte quelle anime perseguivano e che tale resta ».

Cosa ci abbiamo guadagnato e ci guadagniamo con quel valore?

«Senza il Risorgimento saremmo restati un’espressione geografica, una congerie di staterelli tagliata fuori dalla competizione internazionale: politica, militare ed economica. Ci voleva uno stato per l’accumulazione industriale. Oggi il problema è un altro. È la religione civile che manca. E per colpa di una classe dirigente che negli ultimi venti anni non ha costruito nessuna etica civile».

Ha vinto la religione incivile del populismo privatistico?

«Appunto: tutti figli del benessere, la ricchezza come unico riferimento. Nutrito di rancore e aggressività. Competizione e maledizioni. Eccolo il fallimento. Con una eccezione: il Quirinale. Unico luogo coesivo di religione civile, con limiti e affanni. E senza partecipazione vera. In più, conun sistema politico privo di interesse al riguardo. Dall’aziendalismo di Berlusconi, all’etnicismo leghista, alla fragilità di una sinistra che ha smesso di avere un’idea di nazione, dopo aver buttato a mare il suo passato ingombrante».

Più che un vuoto, c’è stata una catastrofe identitaria?

«Crollato il patto della memoria, stabilito tramite l’antifascismo nel dopoguerra, nonè rimasto nulla. La politica non è stata capace di recintare alcuno spazio pubblico della memoria. Con l’eccezione della Presidenza della Repubblica, da Ciampi a Napolitano. Troppo poco».

Non c’è confronto con altri paesi. Ad esempio con gli Usa, che celebrano convinti il loro stato nazione...

«Negli Usa il valore della religione civile americana è persino sacrale, basta ascoltare il linguaggio di Obama».

Restando all’identità, lo storico Alberto Maria Banti ha contestato come criptorazzista la retorica risorgimentale. Basta dunque col popolo-nazione?

«Ripeto, l’Ottocento è lontanissimo e una certa eredità nazionale identitaria non è più spendibile. Lo stato- nazione è imploso, incapace di fare religione civile, e non solo in Italia. Anche Francia e Spagna non riescono più a governare unitariamente la memoria, tra querelle sul colonialismo e patti di pacificazione sul Franchismo che saltano. Occorre trovare altri valori per ricostruire un Pantheon repubblicano».

Da dove ricominciare, visto che Ciampi e Napolitano non bastano?

«Non credo alla memoria condivisa, maa una tavola di valori repubblicani universali. Purtroppo l’unico valore proposto al momento è la memoria delle vittime: della mafia, della Shoah, foibe, terrorismo, catastrofi naturali. Ma le vittime non pacificano. Gridano rancore, vendetta, sovrastandosi con la voce a vicenda. Qui il fallimento della nostra classe dirigente: l’incapacità di costruire un’alternativa».

Allora, se le cose stanno così, hanno ragione quelli che vogliono rottamare un’identità nazionale ormai inutile

e invisibile? «Inutile nella sua dimensione ottocentesca, non in quella post-novecentesca. Che deve confrontarsi con l’integrazione dei cittadini non italiani. Problema ignoto allo stato-nazione risorgimentale. Goffredo Mameli può rappresentare un valore per i cittadini extracomunitari? Semmai vanno recuperate le virtù positive di Mameli. L’eroe dolce e tollerante descritto da Garibaldi, non il guerriero nazionale».

Anche gli Usa includono nel nocciolo ideologico «wasp» il pluralismo etnico, non le pare?

«Loro hanno il giorno del Ringraziamento e la festa di San Patrizio per gli irlandesi...».

La Lega nella Provincia di Padova cancella 25 aprile e PrimoMaggio, e include la Festa di San Marco.

«Cancellano le date più inclusive e fanno capire bene chi vogliono includere: la loro gente».

In conclusione, si può vivere senza un’idea d’Italia pur nell’eclisse dello stato-nazione?

«No, ma ci vuole una nuova costellazione valoriale. Lontana dalla retorica nazionale ottocentesca e dalla temperie vittimaria delle catastrofi di massa novecentesche, che hanno inciso sulla nostra identità ben più degli anni risorgimentali. E in tal senso, penso alla virtù civile della “mitezza”, come la evocava l’ultimo Bobbio. Significa essere contro prepotenza e arroganza e per l’inclusione fraterna. Esempi? Tanti: Colorni, Willy Jervis, Pietro Chiodi, laici o valdesi, gente perseguitata ma non vittimista. Patrioti repubblicani e italiani davvero diversi».

Risorgimento e lotta fra storici:

quello che oggi c’è da leggere

La bibliografia sul Risorgimento è ovviamente sterminata. Ma molto schematicamente due sono state le interpretazioni chiave che si sono contese il campo. Quella liberale e quella marxista. La prima è incentrata sulla necessità e sulla virtù intrinseca del Risorgimento moderato e «dall’alto», inseparabile dal genio di Cavour e dalla volontà sabauda di procedere all’unificazione: usando la spinta democratica. La seconda, gramsciana soprattutto, è tesa a denunciare il «Risorgimento senza popolo» e senza riforma agraria, e il suo carattere «passivo» e indotto. Quanto alla prima segnaliamo il Cavour di Rosario Romeo (Laterza) e sempre diRomeoRisorgimento e Capitalismo (Laterza, 1961). Di Gramsci e su Gramsci, che svolge la sua riflessione nei Quaderni del carcere, si veda in chiave antologica L’essenziale di Antonio Gramsci. Il Risorgimento e l’unità di Italia (intr. di C. Donzelli, Donzelli, pp . 203, 2010, Euro 9,50). Tra i volumi più originali, di taglio «neorevisionista» ma non certo «negazionista », Lucy Riall (storica irlandese), Il Risorgimento. Storia e interpretazioni (Donzelli, pp. 137, 1997). Che dà rilievo alla non ineluttabilità del processo unitario, al brigantaggio e agli squilibri territoriali dei vecchi stati peninsulari. In una luce antiretorica e decostruttiva, due libri recenti, a cura e di Alberto Maria Banti: Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini. Laterza, pp. 424, 2010, Euro 24) e Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al Fascismo (Laterza, pp. 208, Euro 18, 2010). Sulla storia antecedente il Risorgimento, antica o più a ridosso, due libri importanti: Storia degli antichi stati italiani (Laterza, pp. 278, 1996), a cura di G. Greco e M. Rosa; Francesco Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea (Il Mulino, pp.550, Euro 35, 2010), fondamentale per la genesi e la trasmissione nei secoli dell’autopercezione nazionale. Dai primi abitanti della penisola alla fine dell’Antico regime. Su traumi e fratture dell’identità nazionale si veda infine Emilio Gentile,Né stato né nazione. Italiani senza meta (Laterza,pp. 112, Euro 9, 2010).

Difensore della laicità, della democrazia e del buon senso, Stefano Rodotà è uomo di squisita gentilezza. Maestro del diritto, schierato senza ambiguità ed erede dell’operosità di Pasolini, è forse il penultimo umanista europeo ed uno dei pochi intellettuali di razza che rimangono in questa Italia «triste e sfilacciata che si guarda l’ombelico e sembra sempre di più un’appendice del Vaticano mentre si avvicinano i 150 anni dell’unità del Paese.»

Professore emerito di diritto civile alla Sapienza di Roma, Rodotà nato a Cosenza 73 anni fa, scrive libri ed articoli, partecipa a congressi, dirige il Festival del Diritto a Piacenza, promuove manifesti e combatte battaglie per innumerevoli cause,dalla libertà di stampa all’etica pubblica, all’eutanasia.

Eletto deputato del PCI nel ’79, visse come parlamentare la convulsa decade finale della prima Repubblica e fu poi il primo presidente del PDS, fondato nel ’91 da Achille Occhetto dalle ceneri del PCI. Appena un anno dopo, forse prevedendo ciò che sarebbe successo, abbandonò la politica.

Oggi insegna in molte università del mondo e come specialista in filosofia del diritto e coautore della Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea, è un riferimento obbligato in tema di libertà individuali, nuovi diritti, qualità democratica e abusi di potere. Sono ormai dei classici i suoi lavori sulla relazione tra diritto e privacy, tecnologia, lavoro, informazione e religione.

È stato appena tradotto (in spagnolo, NdT) il suo libro La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, un saggio del 2006 ampliato nel 2009, nel quale Rodotà riesamina i limiti del diritto e ne rivendica una natura «più sobria e rispettosa delle molteplici e nuove forme che ha assunto la vita umana».

Il professore denuncia la tirannia che i nuovi chierici del diritto vogliono imporre ai cittadini: una «casta di notabili» costituita da giuristi e avvocati, dai grandi studi internazionali che «elaborano le regole del diritto globale su incarico delle multinazionali», gli «invisibili legislatori che sequestrano lo strumento giuridico, trasformando una mediazione tecnica in una procedura sacralizzata».

Il libro traccia una critica post-marxista della giungla dei vincoli legali che comprimono le libertà introdotte dalle innovazioni tecniche e scientifiche. Citando Montaigne («la vita è un movimento variabile, irregolare e multiforme») Rodotà spiega come il “vangelo del mercato”, il potere politico e la religione abbiano prodotto insieme «una mercantilizzazione del diritto che apre la strada alla mercificazione persino dei diritti fondamentali», come si rileva da questioni tanto diverse quali l’immigrazione, le tecniche di fecondazione artificiale, o le nuove frontiere della biologia.

A parere di Rodotà questa logica mercantilista e invasiva è «in totale contraddizione con la centralità della libertà e dignità» e la privatizzazione della legalità in un mondo globale crea enormi diseguaglianze, paradisi ed inferni, «luoghi dove si creano nuovi diritti e libertà e altri dove il legislatore pretende di impadronirsi della vita delle persone».

«Il paradosso è che questa disparità, che in teoria dovrebbe favorire la coscienza dell’eguaglianza nel mondo, rischia invece di consacrare una nuova cittadinanza basata sul censo», spiega. «Se si legifera sui geni, il corpo, il dolore, la vita, i privilegi o il lavoro applicando la repressione, l’arroganza e la tecnica d’impresa della delocalizzazione, le libertà diventano merci e solo chi può permettersi di pagare ne potrà fruire».

Rodotà cita come esempio il matrimonio omosessuale o la fecondazione assistita, «che in Italia producono un flusso di turisti del diritto verso paesi come la Spagna e altri meno sicuri come la Slovenia o l’Albania». E per converso, «i paradisi fiscali e i paesi meno rispettosi dei diritti di chi lavora o con una blanda legislazione ambientale che attraggono imprese e capitali».

La grande sfida, afferma Rodotà, è «uscire dal diritto e tornare alla vita». O come afferma nel prologo del libro il prof. Josè Luis Piñar Mañas «unire vita e diritto, diritto e persona, persona, libertà e dignità; mettere il diritto al servizio dell’uomo e non del potere».

D. Non è paradossale che un giurista metta in guardia dagli eccessi del diritto?

R. Il vero paradosso è che il diritto, che dev’essere solo una mediazione sobria e sensata, si trasformi in un’arma prepotente e pretenda di appropriarsi della vita umana; il che è collegato alle innovazioni scientifico-tecnologiche. Prima nascevamo in un solo modo, da quando Robert Edwards, premio Nobel, ha inventato il bebè in provetta, sono cambiate le regole del gioco e la legge naturale non è governata solo dalla procreazione naturale. Ci sono altre possibilità e nasce quindi il problema: deve intervenire il diritto? E fino a dove? Talvolta la sua pretesa è di mettere in gabbia la scienza, contrapporre il diritto ai diritti, usare il diritto per negare le libertà. Questo è lecito? Talora può sembrare che lo sia, ad esempio nella clonazione.

D. E in altri contesti?

R. A mio parere il diritto deve intervenire senza arroganza, senza abusare, lasciando le persone libere di decidere in coscienza. Il caso di Eluana Englaro è un esempio lampante dell’uso prepotente della legge e anche del ritardo culturale e politico che vive l’Italia. Il potere e la Chiesa hanno deciso, violando il dettato costituzionale sull’inalienabile diritto della persona alla dignità e alla salute, che era necessario intervenire per limitare la dignità di quella donna ormai senza vita cerebrale e il diritto di suo padre a decidere per lei. Il problema non è solo lo strappo autoritario del potere politico, ma l’insensata sfida alla norma suprema, la Costituzione, e l’attiva partecipazione della Chiesa a quell’attacco.

D. La proibizione della fecondazione assistita è stata confermata in Italia da un referendum popolare.

R. Alcune scoperte scientifiche pongono in dubbio l’antropologia profonda dell’essere umano come l’uso e il non utilizzo di diversi embrioni nelle tecniche di fecondazione assistita. Il diritto deve prevedere queste innovazioni, non bloccarle. Gli scienziati chiedono regole per sapere se le loro scoperte sono eticamente e socialmente accettabili. Un uso prepotente della legge limita le loro ricerche, nega il progresso umano e così si appropria delle nostre vite perché ci nega ogni diritto o peggio, lo nega solo ad alcuni. Gli italiani ricchi possono andare in Spagna a sottoporsi alle tecniche di fecondazione, ai poveri ciò è precluso. Si crea una cittadinanza fondata sul censo e si distrugge lo Stato sociale. La vita viene prima della politica e del diritto.

D. L’Italia attuale è sottomessa al fondamentalismo cattolico?

R. L’Italia è un laboratorio del totalitarismo moderno. Il potere, abusando del diritto, privatizzandolo e considerandolo una merce, crea le premesse per un fondamentalismo politico e religioso e questo mina la democrazia. I vescovi italiani si oppongono al testamento biologico; quelli tedeschi ne hanno proposto una regolamentazione che è più avanzata di quella elaborata dalla sinistra italiana. Ad un anno dalla morte di Eluana, Berlusconi ha scritto una lettera alle suore che l’assistettero comunicando loro il suo dolore per non averle potuto salvare la vita. Ha ammesso pubblicamente che il potere ha tentato di appropriarsi della vita di Eluana; adesso sta proponendo alla Chiesa un “piano per la vita”, come moneta di scambio perché lo appoggi e gli permetta così di continuare a governare. Cioè ha svenduto lo Stato di diritto al Vaticano per quattro soldi.

D. Gli omosessuali continuano a non avere diritti e i laici contano sempre meno.

R. La Corte costituzionale si è pronunciata nel senso che il Parlamento deve legiferare riconoscendo il matrimonio omosessuale; questo diritto è già garantito dalla Carta dei diritti dell’Unione europea. Abbiamo bisogno di un diritto sobrio, non negatore dei diritti; la religione non può condizionare la libertà. La Costituzione del 1948 all’art.32 afferma che la legge non può mai violare i limiti imposti dal rispetto della vita umana; detto articolo fu elaborato ricordando gli esperimenti nazisti e con la memoria rivolta ai processi contro i medici (nazisti NdT) a Norimberga. Fu un articolo voluto da Aldo Moro, un politico cattolico!

D. Ha mai pensato che avrebbe un giorno rimpianto la Democrazia Cristiana?

R. Quei politici avevano ben altro spessore culturale. La dialettica parlamentare tra la DC e il PCI era di un livello che oggi appare impensabile. Mentre la DC era al potere, si approvarono le leggi sul divorzio e sull’aborto; i democristiani sapevano che la società e il femminismo le volevano e capirono che opporsi li avrebbe danneggiati politicamente. Molti di loro erano dei veri laici,avevano il senso della misura e maggior rispetto verso gli avversari. Oggi siamo ridotti al turismo per poter nascere e morire, la gente si prenota negli ospedali svizzeri per poter morire con dignità. È mai possibile che uno Stato democratico obblighi i suoi cittadini a chiedere asilo politico per morire? Il diritto deve regolare questi conflitti, non acuirli.

D. Rosa Luxemburg diceva che dietro ogni dogma c’era un affare da difendere.

R. Certo, immagino che gli interessi della sanità privata influenzino le posizioni del Vaticano. Rispetto alle conclusioni del Concilio, le cose sono andate progressivamente peggiorando e oggi l’Italia è governata da movimenti come Comunione e Liberazione, che fanno affari favolosi con l’aiuto e il consenso del Governo. La cattiva politica è figlia della cattiva cultura; i problemi attuali nascono dal degrado culturale. Spero che il regime politico di Berlusconi finisca al più presto, ma ci vorranno decenni per superare gli effetti di questo deserto culturale. L’uso della televisione non solo come strumento di propaganda, ma come mezzo di abbruttimento; la degenerazione del linguaggio… tutto è peggiorato. Il degrado ha invaso un’area molto più ampia di quella del centro-destra e c’imbattiamo dovunque in comportamenti speculari a quelli di Berlusconi.

D. Vengono posti in discussione persino i diritti del lavoro.

R. Il pensiero giuridico si è molto impoverito. Negli anni settanta approvammo una riforma radicale del diritto di famiglia perché la cultura giuridica e la sua ispirazione democratica lo permisero. Si chiusero i manicomi, si approvò lo Statuto dei lavoratori… riforme che oggi sarebbero impensabili.

D. La sinistra non reagisce adeguatamente, perché?

R. Il recupero della cultura è la premessa per ridar fiato all’iniziativa della sinistra. Tutti dicono che si deve guardare al centro, io credo che si debba prima rianimare la sinistra. Craxi distrusse la socialdemocrazia, il PCI si è suicidato, un cataclisma di cui perdurano ancora gli effetti. Abbiamo perso il primato della libertà e oggi comanda l’uso privato e autoritario delle istituzioni. La società si è decomposta, il Paese rischia il disfacimento. La politica mostra i muscoli e il diritto si sbriciola.

D. L’Europa ci salverà?

R. L’Europa non vive un momento splendido. Aumentano xenofobia e razzismo; la debolezza culturale italiana si allarga a tutto il continente. Trono e altare sono di nuovo alleati, anche se in un’altra maniera rispetto al passato. Oggi assistiamo alla fusione di mercato, fede e politica che pretendono di organizzare le nostre vite manipolando il diritto. Il problema italiano non è l’insufficiente contrasto della corruzione, bensì che la si promuove ai sensi di legge, come emerge dallo scandalo della Protezione civile: si è derogato dalla trasparenza e dai controlli ordinari per poter rubare più facilmente. Negli anni settanta le tangenti erano ridicole e comunque c’era maggiore compostezza e rispetto della collettività. Craxi ebbe un ruolo devastante, rappresentò un cambio d’epoca. Adesso si è imposta la regola “Se lo fa Berlusconi, perché non lo posso fare io?”.

Il testo originale di El Paìs è qui

Fine del sistema parlamentare

di Luciano Canfora

A giudizio di molti, il punto più basso è stato raggiunto martedì 14 dicembre con il mercato dei parlamentari compravenduti. Peraltro già mesi addietro, profeticamente, un fantasioso esponente PdL teorizzò, in vivaci dibattiti televisivi, la liceità del vendere il proprio corpo (maschile o femminile) al fine di «fare carriera». Sovviene la franchezza e freschezza lessicale dell'Alighieri a riguardo del lavoro diTaide: lavoro che si può esplicare anche vendendo il proprio voto di parlamentare in cambio di un mutuo o di un kepos (che ovviamente non va confuso col CEPU).

Ma, a ben riflettere, non era quello il punto più basso. In fondo anche il saggio Solone, anziché reprimerlo questo genere di lavoro, preferì disciplinarlo. Il punto più basso è stato raggiunto, invece, quando si son visti dotti maestri del giure disquisire a giustificazione dei deputati in vendita (non ancora in vetrina). Un ex presidente della Corte, con saggezza alla Polonio, ha pensosamente invitato, chi nel fenomeno del deputato in vendita ravvisa un reato, a «valutare con grande attenzione la compatibilità dell'articolo 68 della Costituzione» con la denuncia all'autorità giudiziaria dei compravenduti. Un altro sofo, esperto forse della vita che si conduce nell'entourage del premier, ha dichiarato al "Corriere della Sera" di sabato 11: «Bisogna essere cauti», e ha invitato a distinguere tra i casi in cui «il deputato che passa dall'altra parte ottiene mutui, soldi ed escort (sic)» e i casi in cui «la contropartita è la ricandidatura o un posto da presidente di commissione o di sottosegretario».

Ascoltando queste parole sembra di affogare nel fango. È la campana a morto per il sistema rappresentativo-parlamentare. Quel sistema appare ormai agonizzante, e la consapevolezza della fine di esso diviene senso comune.

Quella decadenza viene da lontano. Da quando il fatuo pseudo-concetto di «bipolarismo» ed il suo corollario («voto inutile») hanno preso piede nella società politico-giornalistica, il principio stesso della rappresentanza è stato ferito, e il cardine «un uomo/un voto» è stato liquidato. Da allora in avanti il distacco tra parlamento e paese si è venuto aggravando. E la lotta politica appare ormai piuttosto come un tavolo da gioco intorno al quale si punta al «jolly» del «premio di maggioranza».

Dal tavolo da gioco alla compravendita del voto il passo è stato breve. E dalla compravendita del voto a quella degli eletti il passo è stato ancora più breve. Servì per affossare Prodi; è servito daccapo martedì scorso.

Che il sistema rappresentativo-parlamentare fosse un prodotto storico, cioè un fenomeno che nasce, si sviluppa e muore, e non un valore «eterno», lo avrebbe capito a priori anche un principiante. Ora ne abbiamo la prova in corpore vili.

Come sempre quando le classi in lotta «marciscono» (per dirla con Gramsci) il problema è se ci attenda un Cesare. Magari da baraccone, galleggiante su di un ceto parlamentare in cui, come si esprime l'avv. Pecorella, si scambiano «soldi, mutui o escort».

Prosit.

Nell'Italia di Berlusconi,

una democrazia parlamentare a rispettabilità limitata

di Colin Crouch

Per lo straniero che osserva l'Italia dall'esterno, il crollo finale delle pretese di rispettabilità della democrazia parlamentare italiana, cui abbiamo assistito nel corso del voto sulla fiducia/sfiducia al governo, suscita due tipi di riflessioni: considerazioni particolari, specifiche del caso italiano; e considerazioni più generali, che valgono per tutti.

Il caso italiano

Particolare – o almeno così sembra – è il modo in cui la classe politica e anche gli elettori italiani hanno accettato i ripetuti oltraggi inferti alle norme costituzionali durante il lungo periodo berlusconiano: le immunità privilegiate – anzi il fatto stesso che un presidente del consiglio debba ricorrere a così tante immunità; la concentrazione dei poteri politici, mediatici ed economici in un singolo uomo. In situazioni del genere, la democrazia e il costituzionalismo hanno bisogno di una sospensione delle lealtà di partito e di ideologia per proteggere l'integrità del sistema e la reputazione stessa del paese. Non mancano, certo, esempi importanti di un simile comportamento – per citarne uno quello del presidente della Camera Fini – di parlamentari che hanno accettato di assumersi una responsabilità di questa portata. Ma i loro numeri non bastano; e il fatto che queste persone abbiano dimostrato che un tale comportamento è possibile, rende ancora più vergognoso quello degli altri.

Quanto agli elettori, chissà cosa pensano realmente. In tanti, sono tuttora convinti che Berlusconi sia il solo in grado di proteggere gli italiani dal bolscevismo di The Economist e delle "toghe rosse"; altri, forse, ritengono che è giusto che un Parlamento di furbi sia governato dal più furbo; altri ancora alzano le spalle, sostenendo che l'Italia vera non ha bisogno di una classe politica nazionale autoreferenziale e delle sue istituzioni, ma può tirare avanti con il civismo forte della vita locale di tante parti del paese; altri ancora alzano le spalle e basta.

Dietro tutti gli sviluppi bizzarri e imprevisti degli anni berlusconiani – destinati a continuare – rimane l'incongruità iniziale del 1994, da cui discende tutto il resto. Dalle rovine della cosiddetta "prima Repubblica" emerse un uomo, Berlusconi, che stava al centro di quella Repubblica con i suoi misteriosi legami finanziari, e che "scese in campo" proponendosi come colui che avrebbe dato vita a una nuova, pulita, vita politica italiana. E gran parte degli italiani gli credette. In realtà, ciò che era crollato erano esclusivamente le organizzazioni politiche della prima Repubblica, non le sue pratiche di Tangentopoli. Berlusconi era sicuramente in grado di creare nuove organizzazioni, con al centro il suo partito-azienda. Ma un partito-azienda non poteva cambiare le dubbie pratiche della prima Repubblica. Queste continuarono, continuano, e continueranno. C'è qui un paradosso profondo: in un certo senso, gli aspri contrasti tra i partiti della prima Repubblica erano una delle cause dei suoi vizi; ma in un altro senso rappresentavano una protezione contro di essi. Il conflitto tra la Chiesa e il comunismo, e le relative identità, era infatti talmente profondo, che gli elettori non guardavano criticamente il comportamento dei loro rappresentanti. Ma la robustezza delle organizzazioni di partito – con la lealtà alla Chiesa, a un'ideologia, agli eroi del passato, ma anche con il bisogno di dare soddisfazione ai militanti dei partiti, motivati principalmente dalla condivisione di ideali – riusciva pure a imporre delle restrizioni al comportamento degli individui e a proteggere la democrazia italiana dagli aspetti più devastanti delle cattive pratiche.

Con la crisi di Tangentopoli e dei partiti, anche questi controlli si dissolsero, almeno per i partiti principali del vecchio centro, Dc e Psi. Allo stesso tempo il Pci entrò a sua volta in difficoltà a seguito del crollo dell'Unione Sovietica, sebbene i comunisti italiani avessero già preso largamente le distanze dal comunismo sovietico. Gli altri outsiders, come Alleanza Nazionale, non poterono resistere all'abbraccio berlusconiano.

In assenza di una disciplina di partito come collante tra i politici e la società, fiorirono senza alcun tipo di restrizione tutti i vizi della prima Repubblica: una classe politica "a sé stante", con deboli legami col popolo, che cerca di accaparrarsi posti, posizioni, vantaggi e occasioni di ogni tipo. Col suo partito-azienda, Silvio Berlusconi fu – ed è – il 'leader' perfetto per un simile sistema.

Lezione per gli altri?

Una stravaganza italiana, dunque, diranno gli stranieri, che magari ci fa ridere, ma che non deve preoccuparci. Ma non è così. Viste le particolari condizioni del crollo dei partiti italiani negli anni 90, il paese è andato incontro in tempi rapidissimi a un'esperienza più generale, che riguarda anche altri paesi. Le ideologie, di ispirazione sia religiosa sia di classe, che formarono le identità e le organizzazioni politiche del secolo scorso, stanno perdendo dappertutto la loro forza, la loro realtà. Dovunque i partiti si presentano come contenitori vuoti, che usano simboli e retorica del passato nell'illusione che producano legami anche più artificiali con il popolo, ma che assumono come loro compito principale la distribuzione di posti, di favoritismi, e di ogni altro privilegio a personaggi politici staccati dal legame con la società.

Ma se le classi politiche stando perdendo il contatto con il popolo, non lo perdono con le grandi aziende, le quali non hanno smarrito la propria capacità organizzativa, hanno bisogno dei governi e possono usarli. Per queste ragioni la crisi generale dei rapporti tra il mondo politico e l'elettorato è una crisi che tocca soprattutto il centro-sinistra. Una politica dominata dalle grandi imprese dà più fastidio alla sinistra che alla destra.

Alcune particolarità del caso italiano rimangono: la velocità del crollo degli anni 90 ha svelato la nudità, il vuoto dei partiti in modo particolarmente brutto; nel resto del mondo democratico i partiti conoscono invece un declino graduale e dignitoso. Certo, anche altrove alle spalle dei primi ministri c'è la grande impresa; ma in Italia la grande impresa si annida nel corpo stesso del primo ministro. Le idiosincrasie del 'leader' italiano sono qualcosa di personale, e non è detto debbano verificarsi in altri paesi. Epperò molti elementi del caso italiano mostrano ad altri paesi democratici il proprio futuro.

Documenti tratti dal sito web dell' Editore Laterza

In una bene ordinata repubblica si dovrebbe riflettere in primo luogo su una crisi che sta distruggendo l’intero tessuto istituzionale, senza farsi ogni giorno depistare da questa o quella microfibrillazione. In uno Stato non immemore di quelli che ancora sono suoi compiti, si dovrebbe riflettere sulla crescente rifeudalizzazione dei poteri, che quotidianamente lo svuota e ne cambia la natura. In un sistema politico non perduto nell’autoreferenzialità si dovrebbe riflettere su quanto sopravviva della rappresentanza e reagire coralmente alla sostituzione dell’intera politica con una macchina del fango sempre in funzione che contribuisce alla decomposizione sociale. Mai, nella storia della Repubblica, gli scontri istituzionali erano stati così violenti, ripetuti, quotidiani, emblematicamente riassunti dagli attacchi continui del Presidente del consiglio a tutte le istituzioni di garanzia. Mai s’era avuta una legge elettorale che, come quella attuale, consegna la selezione dei parlamentari ad oligarchie ristrettissime e manipola la rappresentanza. Mai s’era vissuto un periodo di sostanziale instabilità come quello cominciato nel 2006, che sembra aver fissato in due anni la durata possibile d’una legislatura. Mai la vita pubblica era stata attraversata da tanti "mostruosi connubi", dalla riduzione d’ogni cosa all’interesse privato, con irrisione palese di moralità e legalità.

Si potrebbe continuare. Ma quel che più deve far meditare è l’apparire congiunto di tutti questi fattori. La novità della situazione, il reale mutamento qualitativo, derivano dal loro irrompere tutti insieme sulla scena pubblica, da una saldatura che ha cambiato faccia alle istituzioni e alla società, diventando così il vero connotato della cosiddetta Seconda Repubblica, il cui fallimento è certificato dal fatto che già se ne invoca una Terza.

Com’è potuto accadere tutto questo? La riflessione politica s’arresta. E le spiegazioni centrate sull’antiberlusconismo si rivelano inadeguate. E non perché non siano grandissime le responsabilità di chi ha dato nome a questa fase. Ma perché lo stesso fenomeno Berlusconi ha potuto espandersi in un contesto rivelatosi propizio. Di questo si dovrebbe parlare, e non lo si fa. Con danno grandissimo per la stessa progettazione politica. L’ostacolo a una riflessione adeguata, il tabù da rimuovere, si chiama bipolarismo. Il dommatismo fa sempre male, soprattutto in politica, dove una delle regole da osservare è proprio la valutazione di ogni iniziativa secondo le conseguenze che produce. Ed è indubitabile che la via scelta per il bipolarismo all’italiana si sia rivelata disastrosa, anche perché, in un impeto fideistico, non si volle tener delle cautele a suo tempo suggerite. V’erano molti modi di arrivare al bipolarismo nel contesto storico e istituzionale italiano, e invece si è scelto quello che apriva la strada al populismo e alla concentrazione dei poteri.

La riflessione politica deve partite dalla diagnosi critica della drammatica situazione attuale. Solo un’analisi impietosa può ricreare le condizioni per una politica di rinnovamento, che significa in primo luogo liberarsi del populismo e ripristinare le condizioni minime della stessa democrazia formale. E segnalo altre tre questioni che mi sembrano ineludibili.

La vicenda Fiat Mirafiori si presenta come un caso esemplare di quello che viene chiamato "neomedievalismo istituzionale". Proprio perché viviamo in un mondo senza centro, si dice, il governo dei processi, e la creazione delle regole che li accompagnano, sono ormai appannaggio degli specifici soggetti che agiscono in presa diretta nelle situazioni considerate. Questo legittimerebbe la Fiat, come ogni altro soggetto transnazionale, ad essere insieme imprenditore e legislatore, giudice non solo delle convenienze ma pure dei diritti, a Chicago come a Torino. La domanda è: l’indubbia crisi della sovranità nazionale, determinata dalla globalizzazione, può legittimare il ritorno ad una logica feudale, ad una società delle appartenenze e degli status, dove la pienezza della cittadinanza in fabbrica, ad esempio, è subordinata all’appartenenza a un sindacato? Non è un ritorno agli anni ‘50 quello che si vuol realizzare, è un tuffo profondo in età lontane, prima della rivoluzione dei diritti dell’uomo. A molti tutto questo appare come innovazione, così come lo stesso Berlusconi viene presentato come l’incarnazione di un tempo di novità. Ma davvero non hanno nulla da dire le modernizzazioni autoritarie del secolo passato, e le diverse strade che seppero trovare le democrazie?

La Seconda Repubblica ci consegna gli attacchi allo stesso Presidente della Repubblica; alla Corte costituzionale, descritta come un manipolo di reduci della sinistra che viola le prerogative del popolo sovrano; ad una magistratura all’interno della quale si troverebbe una vera "associazione per delinquere"; al Parlamento in sé, volta a volta considerato come un intralcio o come luogo di spregiudicati reclutamenti. Ora siamo all’assalto finale. Questo hanno colto gli studenti, e il Presidente della Repubblica che, ascoltandoli, ha visto l’elemento che differenzia il movimento di oggi da quelli del passato, la volontà di essere protagonisti e, insieme, interlocutori delle istituzioni, nelle quali si riconoscono attraverso la Costituzione. Questo ha colto Daniel Baremboin quando ha aperto la stagione della Scala leggendo l’articolo 9 della Costituzione. Questo dovrebbero cogliere le forze politiche: la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo, com’era avvenuto nel 2006, quando 16 milioni di persone dissero no alla riforma costituzionale berlusconiana. Le forze di opposizione non hanno saputo, o voluto, amministrare quel patrimonio. Anche da una riflessione su questo punto può partire un rinnovamento della politica.

C´è chi dirà che l´iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone.

Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l´accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un´alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l´articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l´insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.

Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.

A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l´etica pubblica, esasperando lo sporco spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l´ha usato ricorrendo a compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l´hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.

Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell´opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s´insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c´è, dietro l´apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel ´94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell´uso di gas nella guerra d´Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel ´38.

Un´uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all´opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall´anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.

Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: «La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali».

Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.

È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l´Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l´ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l´interiorizzazione non c´è stata. Anche tra il ´43 e il ´44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel ´46 all´elezione dell´assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.

Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d´altro genere – il rischio di uno Stato in bancarotta–e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L´impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d´insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano («Il Quirinale vuole un governo solido») come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.

L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d´opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l´equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell´interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall´inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d´opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell´informazione, autonomia della magistratura, lotta all´evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d´interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt´altro che ridicolo o provinciale.

I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L´unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna «o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono». Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell´ozio: «Sono pronti a dire ai veggenti: ‘Non abbiate visioni´ e ai profeti: ‘Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni´».

Il profeta d´illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.

La profezia di Totò

Ha ragione Mario Adinolfi a ricordare che è cosa insultante oltre che menzognera, parlare di giovani senza futuro o d’una sola generazione depredata. Un trentasettenne precario non è più giovane, e il fatto che gli tocchi pregare per essere riconosciuto (questa l’etimologia di precario) è lo scandalo che vien mascherato chiamandolo giovane. Una catena di generazioni fatica a preparare prima l’età matura, poi l’anziana. I nati dopo il ‘70 sono la metà degli italiani: 28 milioni 150.000, non più solo figli ma padri che della vita attiva non conoscono che contratti brevi o niente contratti. Che s’imbarcano in lavori low cost o addirittura gratuiti, come denunciato da Michele Boldrin, professore di economia alla Washington University di St Louis ( Il Fatto, 11 novembre).

Lavorare gratis è una pratica in espansione, per chi non ha forze e soldi per fuggire all’estero. È una regressione, nei rapporti sociali e nel riconoscimento reciproco fra l’Italia che ha un posto e l’Italia che ha semplici attività, menzionata di rado. I giovani fanno questa scelta volontariamente, consapevoli d’essere immersi nella Necessità: dare il proprio tempo senza salario li rende visibili, consente di «accumulare punti». Alla fine del tunnel, chissà, il riconoscimento verrà e avrà gli occhi di un lavoro decentemente pagato. Lo sfruttamento s’è fatto banale: è un’usanza dettata dal principe (un bando dell’autorità). È la morale del tempo presente.

Se questa è la realtà, si può capire come la riforma Gelmini sia solo una miccia – così Ilvo Diamanti, lunedì su Repubblica – che ha acceso risentimenti acuti, non limitati all’istruzione che pure è «crocevia nella vita» d’ognuno. Analoghe micce anti-riforme si moltiplicano, a occidente, ma cruciali non sono le riforme, così come per Heidegger l’essenza della tecnica non è la tecnica ma quel che essa disvela, provoca. Nella rivolta dei giovani francesi la pensione è un pretesto: essi sanno che il paese invecchia, che i soldi dello Stato sociale non bastano. Se protestano con tanto accanimento è perché qualcos’altro è in gioco: il disagio, più radicale, riguarda l’esistere stesso; il perché e il come si vive l’oggi e si pensa, tremando e temendo, il futuro.

In tutti i paesi industrializzati il futuro è programmato penosamente. Adinolfi lo spiega bene nella rivista Week, iniziata il 25 novembre. Basandosi su ricerche dell’Istat e del Center for Research on Pensionsand Welfare Policies (Torino), Adinolfi fornisce cifre cupe sulla metà d’Italia che vive il precariato. Al momento, chi va in pensione o sta andandoci è sicuro di ottenere circa il 95 per cento della media dei compensi degli ultimi anni. Non così il precario nato dopo il ‘70: la percentuale crolla dal 95 al 36. Fra 20 anni, quando andrà in pensione, riceverà – se avrà lavorato 32 anni su 40 – 340 euro al mese. Duro in tali condizioni fabbricare futuro, generare figli che non potremo sostenere e non ci sosterranno, impoveriti anch’essi. I rivoltosi vedono questo, guardandosi allo specchio: uno scenario che mette spavento. Che ti porta a dire, visto che a nulla è servito il titolo di studio: non resta che farmi menare dalla polizia. Esibisco la mia bile nera, come gli eroi di Moby Dick che è uno dei miei libri-vessillo. Non mi resta, come in Gioventù Bruciata di Nicholas Ray, che il chicken run. Il chicken run è la gara mortale che James Dean ingaggia coi compagni: vince chi guida l’auto sino all’orlo del burrone, tentando di saltar fuori in extremis. Chi fugge la prova è un pollo, un vile. È significativo che a costoro si neghi oggi perfino il diritto a morire, quando sei attaccato a un tubo senz’averlo deciso.

Il chicken run che impregna il tumulto è argomento tabù. Se ne ragiona molto sul Web – l’agora di queste generazioni – ma poco sui giornali. C’è una complicità tacita, che impedisce alla verità d’esser disvelata. Non ne parlano gli imprenditori, che del lavoro precario o gratuito profittano; e neanche i sindacati, tutori dei pensionati. Nella Cgil, il 53 per cento degli iscritti aderisce al Sindacato dei pensionati italiani (Spi). Se la crisi dice qualcosa – sulla crescita che nei paesi sviluppati s’abbasserà stabilmente, sul clima da proteggere, sullo Stato impoverito – questo qualcosa dovrà implicare nuove distribuzioni fiscali, e anche una mutazione di linguaggio. Riformismo, accordi bipartisan: sono vocaboli inani, se usati solo per dissimulare tagli. Tutti hanno rovinato l’istruzione, il patto bipartisan già esiste (da Luigi Berlinguer a Mussi, Moratti, Gelmini). L’accordo non va cercato tra partiti ma tra l’Italia che è nello Stato sociale e quella che ne cascherà fuori. Non di patti bipartisan c’è bisogno, ma di dirigenti (politici, imprenditori, sindacati, accademici) che queste cose le guardino in faccia.

Anche il popolo del disagio ha sue responsabilità. È un punto su cui Boldrin insiste crudamente: «Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la questione che dovete avere il coraggio d’affrontare». Il risentimento è comprensibile, ma il tema del merito sollevato dalla riforma resta. E che significa rottamare un ceto politico, se non invocare palingenetiche facce giovani? Perché difendere lo status quo universitario, finito in marasma? È come desiderare la crescita squilibrata che nel 2007 causò la crisi economica nel mondo.

Si disserta spesso in Italia della sindrome Peter Pan, che ti reclude nei focolari paterni o materni: secondo l’Istat, il 68 per cento vive coi genitori sino a 35 anni. Lo stesso succede in paesi cattolici dove la famiglia sostituisce il Welfare: Spagna, Irlanda. Ma la vista psicologica è corta, occulta le cause strutturali. Scrive Vincent Venus, direttore del Giovani Federalisti Europei a Berlino, che questa è una generazione diversa: ricorda gli anni ‘40. Non una conflagrazione militare le ha aperto gli occhi; ma la crisi del lavoro, del pianeta, dell’economia, è un’esperienza interiore di guerra: «È una sfida, quella odierna, che i nostri genitori hanno ignorato. Il compito è talmente vasto che somiglia a quello della generazione postbellica. Unica differenza: non si tratta solo di ricostruire la società, in Europa, ma di mantenere in vita il Welfare». Pur rispettando i conti, oggi esistono cose da preservare: la solidarietà sociale, il lavoro, il pianeta. La distruzione non è più creativa.

Fu così anche nel 1942, quando il Welfare prese la forma di un piano comune di lotta al bisogno: il piano di William Beveridge. «È proprio adesso, con la guerra che tende a eliminare ogni genere di limitazioni e differenze, che si presenta l’occasione. (...) Un periodo rivoluzionario nella storia del mondo è il momento più opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi» (Beveridge, La libertà solidale, Donzelli 2010).

Molti si domandano come mai il malcontento non sia esploso prima di Berlusconi, visti gli errori della sinistra. Domanda sensata, ma vista parziale. Lo spirito dei tempi modellato da Berlusconi e dalle sue Tv ha dilatato al contempo i risentimenti dei dannati e lo sprezzo dei salvati, sostituendo lo Stato sociale con la compassione o l’ignoranza. Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, ha detto in Tv: «Se un uomo a 37 anni non può pagarsi il mutuo è colpa sua: vuol dire che è un fallito». Nemmeno gli avversari del ‘68 usavano aggettivi simili. Negli italiani è stata svegliata nell’ultimo decennio, e nutrita, ingigantita, la parte peggiore. È come quando, nel febbraio 1932, il socialdemocratico Kurt Schumacher denunciò l’attacco di Goebbels ai socialdemocratici-partito dei disertori: «Tutta la propaganda nazionalsocialista è un costante appello alla brutta canaglia interiore ( Schweinehund) che abita ciascun uomo».

Dopo la sfiducia (annunciata) dei finiani e della diplomazia internazionale, su Silvio Berlusconi si abbatte ora anche quella del Censis. L'icona dell'individualismo, del consumismo, dell'uomo solo al comando si è rotta, annuncia Giuseppe De Rita; un lungo ciclo - economico, politico, sociale e psicologico - si è concluso, lasciando sul campo fragilità e depressione, nelle vite singolari e nella vita collettiva. Un'altra bufala, commenterà l'Immarcescibile. E invece, come al solito la diagnosi del Censis centra il punto, va presa sul serio e soppesata.

Dopo averci avvertito, negli ultimi anni, che eravamo diventati una cosa a metà fra una mucillagine malinconica e una compagnia di replicanti in apnea, De Rita mette da parte gli attrezzi della sociologia e prova con quelli della psicoanalisi. Quello che ci paralizza, dice, è qualcosa di più profondo della contabilità economica o di un trend che va storto: è un grumo inconscio, che annoda il rapporto fra desiderio e legge producendo una società priva dell'uno e dell'altra, del desiderio e della legge, i quali o vivono in una tensione reciproca o muoiono entrambi. Fonte evidente ma non dichiarata la letteratura post-lacaniana sull'eclissi dell'Edipo - in particolare il lavoro di Massimo Recalcati, ben noto a lettori e lettrici del manifesto -, De Rita riconduce a questo grumo la «sregolazione pulsionale», così la chiama, di una società priva di bussola, in cui al desiderio si sostituisce il godimento immediato e all'autorità della legge simbolica si sostituisce la frammentazione inefficace dei poteri e delle norme. Consumismo - degli oggetti e dell'altro ridotto a oggetto, delle merci e del sesso ridotto a merce: ricorda qualcuno? -, edonismo, narcisismo, egoismo, e insieme illegalità diffusa, criminalità, investimento immaginario su una leadership tanto personalizzata quanto impotente: il catalogo è questo, la fotografia del berlusconismo è calzante, e anche il grumo inconscio individuato è quello giusto.

Tuttavia il discorso è scivoloso. Lo sa lo stesso De Rita, quando passa dalla diagnosi alla terapia e scongiura la scorciatoia di una risposta che consista solo in un rafforzamento della legge (o nella litania «più legge, più merito»): la caduta della legge simbolica non si arresta con la stretta delle leggi repressive; non è di autoritarismo che ci sarebbe bisogno ma di autorità, e «non esistono in Italia quelle sedi di auctoritas che potrebbero o dovrebbero ridare forza alla legge». Per De Rita infatti è piuttosto sul secondo tasto che bisognerebbe battere, cioè sul rilancio del desiderio: «tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Senonché anche il desiderio non si lascia rilanciare da un'esortazione, e tantomeno da un dovere civile. E in una situazione politica come la nostra, in cui allo stato di illegalità permanente instaurato da Berlusconi si tende a contrapporre solo la parola d'ordine di una legalità-feticcio, è più che probabile che l'analisi del Censis porti a battere non sul secondo tasto ma sul primo.

Si scivola facilmente anche su un altro punto del discorso, quando De Rita riconduce il «soggettivismo» di Berlusconi alla scoperta della soggettività operata dal 68 e dal femminismo: non che siano la stessa cosa, ma «la libertà di essere se stessi» allora conquistata «ha trovato in Berlusconi colui che l'ha cavalcata». Cavalcata, o rovesciata nel suo contrario, traducendo la libertà politica in libero mercato e la soggettività in individualismo? La domanda cruciale è questa, e anche qui non sono ammissibili scorciatoie del discorso, salvo avallare reazioni come quella di Sacconi, il quale infatti coglie la palla al balzo per sentenziare che sì, emerge «un certo nichilismo» dal rapporto del Censis, ma «nasce dai cattivi maestri, figli degli anni Settanta, e va contrastato con i valori tradizionali».

Sono i rischi di un'applicazione troppo meccanica del discorso psicoanalitico al discorso sociale e politico. Meglio incassare intanto le molte fini decretate dal Censis: fine della leadership troppo personalizzata, fine del mito della governabilità e del decisionismo, fine della fede nei miracoli dell'unto dal Signore, fine della credenza nelle magnifiche sorti di un capitalismo che satura sfornando oggetti di consumo. E accogliere l'auspicio di una nuova forma di leadership politica, che sappia puntare sulla responsabilità diffusa. E che più che della dinamica desiderio-legge, che non è nelle sue mani, si occupi di arrestare il piano inclinato su cui il Censis, di anno in anno e ogni anno di più, fotografa impietosamente il paese.

Anticipiamo parte di un testo di che compare integralmente nel nuovo numero di "Reset"



Il principale nemico del multiculturalismo oggi non è più la monarchia assoluta che si identifica con una religione, con una nazione o con una lingua. È piuttosto la società di massa globalizzata che trasforma nazioni e culture in meri mercati, votandole al consumismo, alle comunicazioni di massa e ai mass media. La società di massa è prima di tutto una società senza attori, senza principi morali e senza basi istituzionali. La diversità culturale oggi non può sussistere se non coniuga la difesa di specifiche minoranze locali e culturali con azioni positive che si oppongano allo schema dominante del contesto sociale e culturale. La varietà della culture rischia altrimenti di trasformarsi in un insieme di gruppi comunitari chiusi, intolleranti e ossessionati dalla propria purezza e omogeneità.

Il solo modo per scongiurare questo genere di evoluzione negativa consiste non nell’isolare e proteggere ogni peculiarità linguistica o cultura religiosa, ma nell’attaccare la società di massa che annulla la soggettività, le tradizioni, le norme e le rappresentazioni. Tutte le culture dovrebbero condividere gli stessi interessi: dovrebbero puntare a non farsi distruggere dal mercato culturale globale o dallo Stato autoritario e teocratico. Ogni cultura ha l’obbligo di difendere il diritto che ciascuno ha di creare, utilizzare e trasmettere una cultura che si definisca in primo luogo per la difesa di contenuti universali, della ragione e dei diritti umani. Solo presupposti così universalistici possono difendere in maniera efficace la varietà culturale. Non è una questione di fascino della diversità, anche se quest’argomentazione, apparentemente strana, è più seria di quanto sembri.

La controffensiva però non può basarsi esclusivamente sull’aspetto positivo del pluralismo culturale. Per essere abbastanza forti da resistere alla società e alla cultura di massa e al sistema dell’economia globalizzata, dobbiamo dare priorità alle culture che si autodefiniscono in termini universalistici. È il caso delle religioni principali, dell’ecologia politica, di tutte le forme di femminismo e di tutte le azioni volte alla difesa delle minoranze, che siano nazionali, sessuali, linguistiche o religiose.

Alcuni, tra cui i postmodernisti, potrebbero obiettare di difendere il multiculturalismo per motivi molto più semplici e non così radicali. A detta loro le società moderne non sono più caratterizzate da un principio generale di unità. Non esiste nessun agente centrale che controlli l’istruzione, il tempo libero, la conoscenza della letteratura nazionale e delle opere d’arte. Il multiculturalismo - affermano - non è né buono né cattivo, ma piuttosto naturale, perché la capacità dello Stato di reprimere le minoranze si indebolisce sempre più. I gruppi dominanti si preoccupano dei processi economici che diventano ogni giorno più globali e inquietanti, ma non si sentono spaventati dal declino di una lingua nazionale o dal fatto che le attività di ricerca scientifica di punta siano concentrate in pochi laboratori localizzati per la maggior parte in America e per il resto in altre cinque o sei nazioni, anche se tale situazione potrebbe cambiare rapidamente.

A tale punto di vista non vanno attribuiti giudizi di valore. Non è né buono né cattivo, la sola argomentazione utile a suo sfavore è che è oggettivamente falso. La consapevolezza di un’identità naturale è forte negli Stati Uniti come in diversi nuovi Stati emergenti, specialmente in quelli di maggiori dimensioni. Pochi cinesi credono che entro la fine di questo secolo si trasformeranno in asio-americani. Dal canto suo l’India, più di ogni altra nazione, ha sempre avuto interesse a coniugare tradizione e innovazione. E la stessa tendenza, anche se a un livello inferiore di intensità, può essere osservata nella maggior parte dei paesi del mondo. La sola eccezione importante è rappresentata dall’Europa occidentale, in cui una stragrande maggioranza dell’opinione pubblica è convinta che l’identità nazionale e il ruolo universalistico della propria nazione appartenga al passato. In poche regioni del pianeta i cittadini sono meno interessati che in Europa occidentale al futuro del proprio paese e del proprio Stato.

Solo gli europei stanno rinunciando al gusto per le differenze e le specificità perché le generazioni più giovani già ignorano la propria storia nazionale originaria. L’orientamento culturale che si sta diffondendo più rapidamente in Europa occidentale è la xenofobia, il rifiuto degli stranieri e in particolare degli immigrati. La xenofobia è altrettanto forte in Nord Europa che nell’Europa meridionale, malgrado di primo acchito possa apparire più forte al nord.

L’idea di un multiculturalismo lievemente tollerante, libero dalle forme di controllo del vecchio Stato centralizzato, che era ossessionato dall’identità culturale della propria nazione, non è altro che un sogno. Il multiculturalismo viene più spesso percepito in termini negativi che non positivi. Per conferirgli un’accezione positiva bisogna prima di tutto sottolineare la capacità dei gruppi umani dotati di valori culturali e norme sociali di resistere alla globalizzazione della cultura di massa e all’attrattiva culturale e materiale delle maggiori superpotenze economiche.

La difesa del pluralismo culturale non può limitarsi alla tutela di una storia culturale che in realtà è già assente nella memoria dei giovani. Essa può essere supportata in maniera efficace solo attraverso un attacco diretto all’economia globalizzata e alla cultura di massa che annulla la cultura come reinterpretazione del passato, elemento chiave per la costruzione di un futuro originale. La forte difesa della cultura nazionale o regionale è una delle condizioni principali per la definizione di un atteggiamento positivo nei confronti del pluralismo culturale, almeno quando le culture, al di là della propria identità e specificità, si definiscono come espressioni della generale capacità umana di creare sistemi simbolici ed elaborare giudizi di valore.

(Traduzione di Chiara Rizzo)

"Ero amico del padre del leader laburista E sono contento che il figlio si preoccupi dei più deboli" - Un colloquio con il sociologo sul futuro della politica. Partendo dal suo rapporto con Ed Miliband - "Sono per un ‘reddito’ minimo garantito ai più poveri: è una delle poche idee che permette la nostra resurrezione morale" - "Conta ritrovare il senso della comunità: perché se un individuo viene escluso non ha più protezione e può essere facilmente manipolato"



Benché abbia lasciato il suo incarico di docente di sociologia alla Leeds University nel 1990 per andare ufficialmente in pensione, l´ottantaquattrenne Bauman continua ad essere un autore prolifico, sfornando un libro l´anno dalla sua dimora nel verde dello Yorkshire. L´ultimo saggio, intitolato 44 Letters from the Liquid Modern World, raccoglie una serie di articoli scritti su vari fenomeni, da Twitter all´influenza suina alle élite culturale.

Bauman ha il pubblico di una vera star: quando è stato inaugurato l´istituto di sociologia che l´università di Leeds ha intitolato a suo nome, a settembre, più di 200 delegati stranieri sono venuti a sentirlo. Nonostante il plauso che riscuote, pare proprio che Bauman sia profeta ovunque meno che in Inghilterra. Forse dipende dal fatto che finora non si è prodigato a fornire ai politici teorie superiori per giustificare il loro operato e le loro motivazioni – a differenza di Lord (Anthony) Giddens, il sociologo autore della teoria politica della "terza via", sposata dal New Labour di Tony Blair.

Ma tutto è cambiato da quando alla guida del Labour c´è Ed Miliband che ha mutuato da Bauman la tesi secondo cui il partito aveva perso di umanità convertendosi al mercato. Così per il sociologo il nuovo leader offre una possibilità di "risurrezione" alla sinistra a livello morale.

«Mi sembra molto interessante la visione della collettività di Ed. La sua sensibilità ai problemi dei poveri, la consapevolezza che la qualità della società e la coesione della comunità non si misurano in termini statistici ma in base al benessere delle fasce più deboli», racconta Bauman.

Il rapporto tra Bauman e i Miliband è di lunga data. Il padre di Ed, Ralph, e Bauman strinsero una profonda amicizia negli anni ´50 alla London School of Economics. Entrambi erano sociologi di sinistra e ebrei polacchi d´origine. Entrambi fuggiti da regimi tirannici: Ralph Miliband scappò dal Belgio ai tempi dell´avanzata tedesca nel 1940 e Bauman fu espulso dalla Polonia quando i comunisti locali attuarono una purga antisemita nel 1968. Decisiva fu la scelta di Ralph Miliband di entrare a far parte, nel 1972, del dipartimento di scienze politiche dell´università di Leeds, dove Bauman insegnava sociologia. La casa di Bauman a Leeds divenne una tappa fissa per i figli di Milliband. Ed e David crebbero guardando i due accademici discutere del futuro della sinistra.

Bauman afferma che i fratelli Miliband già da piccoli erano «validi interlocutori… affascinanti e di straordinaria intelligenza per la loro giovane età». (...)

Neal Lawson, direttore del think tank della sinistra laburista Compass, afferma che l´appello di Ed Miliband a mobilitarsi «per chi crede che nella vita non contano solo i guadagni» e la sua energica difesa della «collettività, dell´appartenenza e della solidarietà» era in puro stile Bauman. Anche perché a differenza di quanto accade per altri sociologi l´opera di Bauman è accessibile, intellettuale e spesso polemica. La sua biografia – dalla fede comunista allo status di minoranza perseguitata all´analisi scientifica della quotidianità – rende difficile inquadrarlo. La sua teoria si fonda sul concetto che sono i sistemi a fare gli individui, non viceversa. Bauman sostiene che non è questione di comunismo o di consumismo, comunque gli stati vogliono controllare l´opinione pubblica e riprodurre le loro élite (...). La sua opera si incentra sulla transizione ad una nazione di consumatori inconsapevolmente disciplinati a lavorare ad oltranza. Chi non si conforma, dice Bauman, viene etichettato come "rifiuto umano" e depennato come membro imperfetto della società. Questa trasformazione «dall´etica del lavoro all´etica del consumo» preoccupa Bauman. Egli ammonisce che la società è passata dagli «ideali di una comunità di cittadini responsabili a quelli di un´accolita di consumatori soddisfatti e quindi portatori di interessi personali». Non c´è da stupirsi che i critici dipingano Bauman come un "pessimista".

Ma davanti ad una tazza di tè e a un assortimento infinito di pasticcini il canuto professore è il fascino in persona – per quanto pessimista sia. A suo giudizio è emerso tutto un vocabolario politico come "paravento" per intenti occulti. Così il termine mobilità sociale, ad esempio, è «menzognero, perché gli individui non sono in grado di scegliere la propria collocazione nella società». L´equità non è che una copertura per «lo spettro dell´assistenza concessa solo negli ospizi». (...)

Talvolta le scelte di Bauman risultano inquietanti. Dichiara di aver mutuato l´idea fondamentale del suo importantissimo saggio sull´Olocausto da Carl Schmitt, un politologo considerato vicinissimo a Hitler. Bauman sostiene che l´"esclusione sociale" di cui oggi si discute non è che un´estensione del postulato di Schmitt secondo cui l´azione più importante di un governo è "identificare un nemico".

Questo portò Bauman nel 1969 a sostenere che l´omicidio di milioni di ebrei non era il risultato del nazismo né l´azione di un gruppo di persone malvagie, ma frutto di una moderna burocrazia che premiava soprattutto la sottomissione e in cui complessi meccanismi nascondevano l´esito delle azioni della gente. L´Olocausto, afferma, non è che un esempio criminale del tentativo dello stato moderno di perseguire l´ordine sfruttando il timore degli "stranieri e degli emarginati". «Una volta escluse dai governi le persone non sono più protette. Le società iniziano a manipolare il timore nei confronti di determinati gruppi. Nelle fasi di crisi del welfare state dobbiamo preoccuparci di questa caratteristica della società».

Oggi Bauman è comunque ottimista sulla capacità della sua disciplina di trovare soluzioni per questi problemi. Con il calo degli iscritti al corso di laurea e la mentalità insulare la sociologia britannica si dibatte tra statistica e filosofia, ma, ammonisce Bauman: «Il compito della sociologia è venire in aiuto dell´individuo. Dobbiamo porci a servizio della libertà. È qualcosa che abbiamo perso di vista», dice.

Nonostante abbia la reputazione di criticare senza offrire soluzioni, Bauman è stato una voce importante nei dibattiti sulla povertà. La sua proposta di garantire un "reddito del cittadino", fondamentalmente il denaro sufficiente a condurre una vita libera, è stata una delle poche voci non conformiste nel dibattito sulle politiche di reimpiego (welfare-to-work). L´erogazione di denaro ai poveri, scriveva Bauman nel 1999, eliminerebbe «la mosca morta dell´insicurezza dall´unguento odoroso della libertà». Dieci anni dopo il reddito minimo garantito è entrato nel comune dibattito politico ed è una causa sostenuta da Ed Miliband.

Bauman si è sempre interessato di politica: il suo primo scontro con l´autorità pubblica ebbe luogo quando criticò il partito comunista polacco negli anni ´50 per la sua burocrazia fossilizzante e la spietata repressione degli oppositori. «La mia tesi era che il comunismo era animato solo dalla necessità di restare al potere».

Un decennio di simili eresie gli guadagnò l´espulsione dal suo paese a danno della Polonia e a beneficio dello Yorkshire. Oggi Bauman non mostra amarezza. È arrivato al punto di ignorare l´articolo di una rivista polacca di destra che nel 2007 lo accusò di essere stato per un periodo al soldo dei servizi segreti polacchi e di aver avuto parte nella purga degli oppositori politici del regime.

«L´accusa si basa su un ragionamento deduttivo. Poiché da adolescente ero membro di un´unità interna dell´esercito polacco devo necessariamente essere colpevole di qualcosa. Non c´è traccia di prove. Semplicemente non è vero», dice Bauman.

Nonostante l´esperienza maturata in decenni di attività intellettuale Bauman non si pone volentieri nel ruolo di vate, dice di non aver intenzione di "calcare i corridoi del potere" dispensando gemme di saggezza. Augura successo al Labour e resta profondamente pessimista circa il tentativo del governo di coalizione di dare un volto umano ai tagli alla spesa pubblica. «Ci siamo già passati con Reagan e la Thatcher», ammonisce.

© Guardian News & Media Ltd 2010 . (Traduzione di Emilia Benghi)

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l’ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell’Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s’è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi – futuro Premier – aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent’anni, almeno fino al ‘92. Dell’Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell’incontro a Milano della primavera ‘74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest’ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d’un «uomo di garanzia».

La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell’87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s’aggiunga il «regalo» a Riina (5 milioni) per «aggiustare la situazione delle antenne televisive» in Sicilia. Fu Dell’Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l’allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe «finito sotto i ponti o in galera per mafia» ( la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell’Utri, in un’intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera».

C’è dell’osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna - nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi - presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell’Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: «Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale».

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l’influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito.

Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L’1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell’economia: «Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni».

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell’illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale - fa capire - potrebbe degenerare in collasso greco. È l’atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: «Se non vi adeguate ve li scateno contro». Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l’ordigno infine non funzionerà: l’atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagna - che hanno denunciato il «ciarpame senza pudore» del Cavaliere, e le «guerre per bande» orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all’astio che suscita per il solo fatto che impersona un’Italia che ama molto le persone oneste, l’antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell’osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l’apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C’è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre ‘92 - condividendo le opinioni del ministro dell’Interno Mancino e del capo della polizia Parisi - di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all’ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L’universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch’essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell’osceno. Osceno è l’accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per «concorso esterno in associazione mafiosa». Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi.

Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s’intesero con la Mafia per liberare l’Italia. L’accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l’effetto di rendere «antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d’influenza». Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa «di sinistra», ma di ben più essenziale: l’era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.

Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con «vocazione maggioritaria», ma l’essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l’anima, ma l’Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il ‘45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre ‘44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: «È un mostro col capo d’idra. Non crediate d’averlo ucciso».

Del potere non si può fare a meno; per questo, occorre limitarlo. Scriveva Hannah Arendt che il potere non ha bisogno di giustificazioni «in quanto è inerente a ogni comunitá politica». Ciò di cui ha bisogno è la legittimità. L´esercizio regolato e in pubblico del potere politico consente la limitazione che meglio si accorda con la legittimità e la libertà individuale, ovvero con i principi e la pratica della democrazia costituzionale. Arendt scriveva nel 1971, a commento di quanto l´opinione pubblica americana stava scoprendo, grazie alla stampa: uno schema di abuso sistematico di potere messo in atto dalla Casa Bianca per coprire il ruolo dei servizi segreti e del Dipartimento di Stato in Indocina e in Vietnam a partire dalla Seconda guerra mondiale.

Arendt metteva a nudo la manipolazione delle informazioni, la menzogna scientemente orchestrata, la violazione della costituzione e dei diritti civili. Coprendosi dietro il pretesto di fare gli interessi nazionali, i leader americani si curavano invece di salvaguardare la loro immagine. Coprivano le loro reali intenzioni e azioni per essere creduti limpidi dal pubblico. Presumevano, dunque, che il potere politico fosse pubblico proprio mentre lo usavano come un fatto privato – per questo la loro azione doveva restare nascosta, perché impropria secondo le leggi, ovvero perché un abuso.

L´abuso di potere è un fatto gravissimo perché distrugge una comunità politica trasformando i cittadini in sudditi, facendone oggetto di raggiro, mettendoli nella condizione di non sapere e quindi di non poter giudicare con competenza, lasciando chi governa nella straordinaria libertà di fare ciò che vuole. L´abuso mina alla radice la fiducia senza la quale non si danno relazioni politiche in una società fondata sul diritto. Il liberalismo ha colto al meglio questo problema, poiché ha da un lato assunto che il potere è necessario, e dall´altro che il suo esercizio stimola negli uomini la propensione a non averne mai abbastanza e quindi ad abusarne. Il potere alimenta la passione per il potere con un´escalation fatale verso il monopolio. Le costituzioni moderne partono tutte dalla premessa che ci si debba sempre attendere la violazione e l´abuso da parte di chi esercita il potere e per questo istituzionalizzano le funzioni pubbliche e stringono il potere politico dentro norme rigide e chiare. Da questa concezione liberale ha preso forma l´idea che l´unica legittimità che il potere politico può acquisire è quella che viene dal rispetto delle garanzie di libertà individuale e, quindi, dalla limitazione e dal controllo del potere (limitazione nella durata e nell´intensità grazie alle elezioni, ai controlli di costituzionalità e alla divisione dei poteri) attraverso vincoli che chi governa non può manomettere. Violare i limiti che la difesa di questa libertà impone equivale a mettersi fuori della legge (un fatto di sedizione che indusse John Locke a giustificare la disobbedienza e la ribellione, aggiungendo con toni sconsolati che purtroppo i popoli hanno più capacità a subire gli abusi che a ribellarsi ad essi). Il potere che opera d´arbitrio non è più potere politico, quindi, ma é dominio assoluto e dunque nuda forza che fa di chi lo subisce un servo a tutti gli effetti. La differenza fra dominio e governo sta tutta qui.

Le riflessioni di Hannah Arendt si adattano come un guanto a ciò che sta avvenendo nel nostro paese. Il fatto che invece di una guerra ingiusta ci siano in ballo relazioni erotiche con minorenni e giovani donne non cambia la natura dell´arbitrio. Semmai la rende più sordida e avvilente. Ma anche nel caso italiano la manipolazione, la confezione ad arte dei fatti, e il nascondimento sono le armi usate da un governo, che, ci ha spiegato Giuseppe D´Avanzo, ha istituito un "tavolo di crisi" per riscrivere "la verità del premier sulla telefonata in questura". Al nascondimento del vero si è aggiunto lo stravolgimento studiato dei fatti (con risvolti che mettono l´Italia in pessima luce nelle relazioni internazionali) perché nella telefonata fatta per convincere a rilasciare la minorenne si è detto che la ragazza era la nipote del presidente egiziano Mubarak. Il presidente del Consiglio italiano usa la sua autorità di garante dell´interesse nazionale per coprire una sua azione illecita. Abuso a tutto tondo, e inoltre presa in giro del proprio Stato e coinvolgimento mendace di uno Stato straniero.

In una democrazia costituzionale il Presidente del Consiglio e i ministri (il potere esecutivo) ricevono legittimità dal patto fondativo che detta le regole della loro designazione e della loro durata e, se necessario, della loro destituzione per la possibilità di essere sottoposti alla giustizia ordinaria "per i reati commessi nell´esercizio delle loro funzioni" in seguito all´autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati (Art. 96, il quale nella formulazione originaria del 1947, poi sopposta a revisione nel 1989, era molto più severo e prevedeva la possibilitá della messa in "stato d´accusa", una formula simile all´impeachment americano). Queste regole e questi limiti definiscono quello politico come agire pubblico, stabilendo che esso appartiene alla comunità politica e non a chi lo esercita, il quale non può sostituire il suo personale giudizio su come relazionarsi alle istituzioni a quello definito dalla legge, dalla quale egli dipende. L´abuso blocca proprio la dimensione pubblica del potere rendendone l´esercizio un fatto tutto privato; è a questo punto che il potere si fa nuda forza, discrezione nella mani di chi lo maneggia, come strumento di privilegio. Il governante che viola le norme che regolano il suo operato si impossessa del potere e lo piega ai suoi interessi.

L´intervista/Bill Emmott, ex direttore dell´Economist

Se dimettersi è un obbligo

Per dieci anni direttore dell´Economist, Bill Emmott dedicò varie copertine a Berlusconi, inclusa una diventata famosa che lo definiva, a causa del conflitto d´interesse e dei suoi processi, "indegno di governare". Conosce bene il nostro paese, ci ha appena scritto un libro intitolato Forza, Italia, sottinteso: forza, Italia, liberati di Berlusconi e riprendi a volare. Ma anche lui è stupito degli ultimi sviluppi: «Un simile abuso di potere sarebbe inconcepibile nel mondo anglosassone e in qualsiasi paese democratico».

Che cosa la colpisce di più?

«Tutti i politici chiedono e ottengono favori. Tutti cercano di abusare del proprio potere. Ma se c´è un confine invalicabile è il lavoro della polizia. Cercare di influenzare una decisione delle forze dell´ordine è un abuso che in Gran Bretagna, in America, ma pure in Giappone o in Germania, condurrebbe dritto alle dimissioni di chi ne è responsabile».

Nel Regno Unito, veramente, ci sono stati ministri che si sono dimessi per molto meno.

«Certamente. Peter Mandelson fu costretto a dimettersi perché accusato di avere aiutato un uomo d´affari a ottenere la cittadinanza britannica. Un´accusa peraltro mai provata in un tribunale e di cui lui continua a professarsi innocente. Ma Blair, allora premier, ritenne che il comportamento di Mandelson, sebbene legale, desse un´impressione di improprietà e questa era diventata un danno per il partito laburista e dunque per il governo. Quindi ne chiese le dimissioni».

Il ministro degli Interni David Blunkett si è dovuto dimettere per una nanny…

«Sì, per avere apparentemente chiesto l´accelerazione della pratica che doveva assegnare o respingere il permesso di soggiorno della baby-sitter straniera di una sua amica, o meglio della sua amante. Quella nanny ha poi ottenuto il permesso, perché ne aveva tutto il diritto. Ma l´intervento del ministro è bastato a farlo dimettere».

Cos´è che tiene così severamente a bada gli abusi del potere, in Gran Bretagna e altrove?

«Da un lato il senso etico. La fairness, l´imparzialità, l´equità, è un dovere di chi governa la cosa pubblica e la gente si aspetta che venga rispettato. Poi ci sono i regolamenti: norme che dicono cosa i membri del governo possono fare e non fare, amministrate dal civil service, funzionari dello stato non schierati politicamente. Nell´Italia berlusconiana forse è difficile immaginare che una simile imparzialità sia possibile, ma in questo paese e in America succede».

E che ruolo hanno i media?

«Fondamentale. Stampa e tivù vanno all´attacco di qualsiasi sospetto di comportamento improprio. Senza distinzioni di parte. Il Telegraph, quotidiano conservatore, ha screditato decine di deputati dei Tories nello scandalo sui rimborsi spese. La Bbc, diretta da laburisti, ha dato del bugiardo a Blair per i dossier sulle armi in Iraq».

Quindi, tradizione etica, norme severe e un´informazione libera. Eppure gli abusi di potere ci sono anche all´estero.

«La corruzione del Giappone è leggendaria. E negli Usa basta dire Watergate, il padre di tutti gli abusi politici. Ma raramente chi abusa del proprio potere la fa franca, come dimostrano sia la fine di Nixon nel Watergate, sia gli innumerevoli leader giapponesi travolti da scandali di corruzione».

Cosa c´è dunque di insolito nel caso italiano?

«Due aspetti. È l´abuso di un´istituzione statale nei confronti di un´altra: il governo che dice alla polizia cosa deve fare. E poi il fatto che il responsabile, Berlusconi, non si dimette. Almeno per ora».

Una prima autoillusione – la si potrebbe chiamare l’autoillusione del mondo globalizzato – viene espressa dall’affermazione secondo cui «nessuno può fare politica contro i mercati». Questa sentenza dell’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer illustra perfettamente l’autocomprensione della classe politica degli scorsi due decenni. I politici si consideravano come pedine di un gioco di potere dominato dal capitale che agisce a livello globale. Qui si tratta – in un doppio senso – di una favola dell’innocenza impolitica.

Da un lato si assume che la classe politica con il suo stesso agire abbia causato la sua presunta incapacità di agire: essa, cioè, avrebbe imposto a livello nazionale, come «politica riformista», le regole dei mercati globalizzati. In questo modo essa avrebbe prodotto il «destino della globalizzazione» che, apparentemente, non può più essere influenzato. Si noti: il capitale globale conseguirebbe il suo potere «inattaccabile» solo allorché la politica persegua attivamente la propria autoeliminazione.

Dall’altro, l’impotenza che la politica deve addebitare a sé stessa serve da pretesto per respingere la pressione ad agire che aumenta con i rischi globali ai quali è sempre più esposta la vita quotidiana delle persone e per non utilizzare le opportunità dischiuse dalla politica interna mondiale. L’argomento è imbastito in questo modo: dal momento che non ci sono e non ci possono essere risposte politiche globali alle conseguenze della globalizzazione, non c’è niente da fare!

C’è però anche l’opzione strategica consistente nel volgere in senso contrario l’argomento appena abbozzato: in questo caso, i politici suscitano aspettative la cui irrealizzabilità è palese. Ad esempio, prima di un vertice del G20 si chiede a gran voce un qualche tipo di tassa globale sui mercati finanziari, ben sapendo che essa non ha alcuna possibilità di essere applicata. Il motto: «Tutto funziona a livello globale - perciò non funziona nulla!» consente dunque di pervenire a un’intenzionale separazione tra il parlare e l’agire. Quanto più irraggiungibile è il traguardo annunciato, tanto più a cuor leggero si possono avanzare richieste, presentandosi come i paladini di ciò che è buono, bello e necessario a livello globale - senza timore di doversi sporcare le mani. Perciò non è affatto insensato che il governo federale tedesco innalzi il vessillo della rivendicazione di una tassa sulle transazioni finanziarie, una sorta di imposta sulle entrate applicata agli affari finanziari, senza credere neppure lontanamente alla sua introduzione.

Tuttavia, il preteso «non poter fare» viene smentito dalla «grande politica» (Nietzsche) della salvezza delle banche «rilevanti per il sistema» e della creazione di fondi di soccorso per gli Stati minacciati dalla bancarotta. La crescita costante di cifre sempre più fantastiche, la scomparsa nel nulla di somme gigantesche che in precedenza non erano mai disponibili, portano a una svalutazione della politica per eccesso di rialzo delle sue quotazioni. Anche se i «pacchetti di soccorso» non sono stati il risultato della coordinazione politica, ma la conseguenza di accordi informali e degli egoismi dei singoli Stati, qui si è manifestato perlomeno per un istante mondiale il plusvalore politico, che può accelerare a razzo l’agire politico nelle arene nazional-statali altrimenti così refrattarie, resistenti, scosse dalla crisi.

Il problema non è l’obiettivo - l’autoinvestitura della politica in forza dell’esperienza della collaborazione al di là delle frontiere nazionali; il problema è la via che porta ad esso: il superamento dell’ontologia nazionale.

L’autoillusione nazionale



L’autoillusione nazionale si basa sull’assunto secondo cui nella realtà concreta della politica interna mondiale potrebbe avvenire un ritorno all’idillio dello Stato nazionale. Così risuona ovunque la lamentazione che l’Europa è una burocrazia senza volto, l’Europa distrugge la democrazia, l’Europa seppellisce la pluralità delle nazioni. Anche se in questa critica può esserci molto di giusto, essa è sbagliata se muove dalla premessa: «Senza nazione, niente democrazia». In base a questa logica nazional-statale un’Europa post-nazionale non può che essere un’Europa post-democratica. E questo a sua volta significa che quanto più c’è l’Unione europea, tanto meno c’è democrazia.

Questa argomentazione è sbagliata per tutta una serie di motivi. In primo luogo ai suoi sostenitori sfugge il fatto che la via per un’Europa democratica non può essere identica alla via percorsa dalle democrazie nazionali. Anche il concetto di democrazia, come criterio dell’Ue, deve essere diverso. L’Ue è composta da Stati democratici, ma non è uno Stato nel senso tradizionale del termine. Perciò si pone il problema se i modelli di democrazia sviluppati per lo Stato moderno possano essere trasposti all’Ue oppure se per la legittimazione democratica della politica europea non debbano essere concepiti altri approcci, di tipo post-nazionale.

Entrambe le cose hanno la loro motivazione nell’autoillusione nostalgica, che assolutizza la dimensione nazionale. Di ciò fa parte anche il fervore con il quale viene esaltato il modello dell’«economia sociale di mercato» come risposta alle sfide della globalizzazione: una concezione politica in tutto e per tutto legata alla politica nazionale del Welfare di keynesiana memoria. La situazione della politica interna mondiale necessita di un «Keynes II» che superi «Keynes I». Questo nuovo caposcuola dovrebbe sviluppare una teoria dell’economia mista sensibile all’ecologia e altamente innovativa, capace di porre al centro della sua riflessione l’orizzonte del mercato globale.

L’autoillusione neoliberista



Strettamente collegata all’autoillusione nazionale è quella neoliberista. Dopo la Guerra fredda la globalizzazione neoliberista è diventata la forza normativa e politica decisiva della politica interna mondiale. Alla fine il neoliberalismo aspira ad essere il migliore socialismo, poiché con l’aiuto del regime del mercato mondiale mira ad eliminare non solo a livello nazionale, ma sul piano globale, la povertà e a creare un mondo più giusto.

Tuttavia, i rischi globali mandano a monte l’ordine prodotto dalla coalizione neoliberista tra il capitale e lo Stato: i rischi globali potenziano gli Stati e i movimenti della società civile, poiché mettono in luce nuove fonti di legittimazione e nuove opzioni d’azione; d’altra parte, essi indeboliscono il capitale globalizzato, dal momento che ora le decisioni di investimento creano enormi rischi globali.

Come e quanto l’utopia neoliberista della trasformazione del mondo si sia dimostrata un’autoillusione diventa chiaro, non ultimo, in base all’«effetto-convertiti»: anche i partiti politici e i capi di governo che prima della crisi finanziaria caldeggiavano come «obiettivi delle riforme» le norme della «buona gestione del bilancio» si fanno ora banditori di ciò che aveva fruttato critiche graffianti a Oskar Lafontaine, l’ex ministro socialdemocratico delle Finanze del governo Schröder, ossia la necessità di imporre al capitale finanziario che agisce su scala globale il corsetto di un sistema di regole.

L’autoillusione neomarxista



Paradossalmente, l’autoillusione neomarxista è la gemella nera come la pece dell’autoillusione neoliberista. Proprio i critici più duri del capitalismo globale diventano gli apologeti dello Stato neoliberista del mercato mondiale. Anche loro vedono un’autotrasformazione dello Stato (assistenziale), ma esclusivamente nel senso dell’autoadeguamento della politica statale al predominio del mercato mondiale, ciò che in ultima analisi conduce all’autoliquidazione della politica. Tuttavia i neomarxisti e i neoliberisti valutano in termini opposti la situazione mondiale che viene così a configurarsi.

L’economia mondiale fa saltare i detentori del potere nelle economie nazionali, impone l’apertura delle frontiere e conquista lo spazio di potere della politica interna mondiale. Ma al campo visivo neomarxista sfugge che questo shock dischiude anche nuovi ambiti, risorse, opportunità d’azione per tutti gli attori, al di qua e al di là della dimensione nazionale.

In questo modo vengono perdute di vista anche le tensioni e le fratture manifestatesi nel capitalismo globale. Non mi riferisco tanto al capitalismo riformatore verde, quanto, piuttosto, alla ascesa di un nuovo capitalismo con varianti e coloriture asiatico-pacifiche, latino-americane. Esso è diventato sempre più l’alternativa sistemica alla tirannia occidentale, ormai infranta. Se considerata dalla prospettiva dei Paesi in via di sviluppo, la situazione mondiale è caratterizzata da:

- uno spostamento del potere a favore dei Paesi in via di sviluppo (che si riflette, ad esempio, anche nella loro partecipazione al nuovo vertice del G20);

- uno spostamento del baricentro della geografia del potere economico mondiale dall’Atlantico al Pacifico;

- la strisciante de-monopolizzazione del dollaro americano come valuta-guida globale, a favore di un’alleanza tra diverse valute e di accordi valutari bilaterali;

- la crescente importanza della cooperazione Sud-Sud ed Est-Sud per la soluzione dei problemi economici; e, non ultimo,

- la perdita di autorità ed esemplarità morale del vecchio centro euro-americano.

L’autoillusione tecnocratica



Mentre le posizioni fin qui esposte muovono da una minimizzazione delle opzioni politiche, la posizione tecnocratica cerca la massimizzazione dello spazio d’azione politico sotto la pressione dei pericoli per l’umanità. Non c’è dubbio che gli studiosi del clima siano dei grandi realisti, ma spesso sono anche degli idealisti e di conseguenza non riescono a capire perché i loro apocalittici modelli matematici non provochino contromisure urgenti.

Veniamo così all’autoillusione tecnocratica. Infatti, nel mondo dell’homo oecologicus il primato della democrazia passa in secondo piano e le disuguaglianze prodotte dal mutamento climatico e dalla politica ambientale retrocedono a fatto marginale. Qui incombe il cortocircuito tra le immagini belle e terribili delle calotte di ghiaccio che si sciolgono e la necessità di una sorta di espertocrazia dello stato di emergenza, che nell’interesse della sopravvivenza imponga il bene comune mondiale contro gli egoismi nazionali e le riserve democratiche.

Le tre componenti - anticipazione della catastrofe, il corsetto temporale e la tangibile incapacità delle democrazie di agire con decisione - fanno sì che quasi tacitamente la visione di Wolfgang Harich di uno «Stato forte e interventista, fautore di ascetiche redistribuzioni e ripartizioni», cioè il modello ecodittatoriale, si aggiri per le menti proprio dei più impegnati. Si pone perciò la questione-chiave: Com’è possibile la democrazia nei tempi del mutamento climatico? O, per formulare la domanda in termini ancora più incisivi: Perché lo sviluppo ulteriore della democrazia è la conditio sine qua non di una cosmo-politica del mutamento climatico?

L’autoillusione tecnocratica presuppone lo Stato nazionale che interviene in modo ecodittatoriale. Ma come può uno Stato nazionale imporre agli altri Stati nazionali il consenso ecologico? Con la guerra? Con un’ecodittatura mondiale? Diventa chiaro che l’autoillusione tecnocratica non solo nega i valori della democrazia e della libertà, ma alla fine è inefficace, anzi, controproducente.

La conseguenza di tutto ciò è che la politica dell’impolitico non funziona più in modo impolitico. E non c’è più via di scampo dalla convinzione che la politica nazionale nell’era globale riuscirà a svolgere la sua funzione plasmatrice e (forse) a recuperare credibilità solo nelle forme della cooperazione transnazionale (Ue!).

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Si impara nelle scuole italiane e perfino in certe facoltà universitarie: non si scrive mai la storia con i «se». A prima vista può sembrare un consiglio sensato e pragmatico. Ma escludere l'esplorazione delle vie alternative, dei sentieri che la storia avrebbe potuto prendere (senza poi farlo) si rivela quasi subito un condizionamento ingiustificabile, quasi ideologico. Il grande albero della storia ha il suo tronco, maestoso e imponente, di fattualità, cioè di quello che è accaduto. Ma ha anche i suoi rami di contro-fattualità, cioè di quello che avrebbe potuto accadere. Nella costruzione di una storia nazionale, i rami hanno un'importanza quasi uguale al tronco. Sono le spie di un'altra storia, non quella predominante ma quella possibile, che offre spesso gli spunti più suggestivi per le future generazioni.

È con questa chiave che vorrei esaminare due temi di grande importanza nella storia d'Italia. Il primo è l'autogoverno come processo di educazione e presa di coscienza. Carlo Cattaneo, impropriamente adottato ora dalla Lega come suo ideologo, scrisse nel 1864 un saggio intitolato «Sulla legge comunale e provinciale». In essa pregò il nuovo governo italiano di rispettare le leggi locali esistenti in Lombardia e altrove, molto più avanzate e democratiche di quelle piemontesi, allora da poco imposte a livello nazionale. Per Cattaneo i piccoli comuni democratici e ben funzionanti erano «la nazione nel più intimo asilo della sua libertà».

L'arte di governo italiana era tutta qui, nel comune e nella città: «Pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi». Naturalmente, la nuova classe dirigente italiana disse di no alle proposte ben sostanziate di Cattaneo, ma le sue parole hanno continuato a volare attraverso i decenni, e costituiscono un esempio significativo di quello che avrebbe potuto essere ma non fu. Nel suo bell'articolo (il manifesto 2ottobre) Pierluigi Sullo insiste sulla necessità di incoraggiare e immaginare comunità «neo-democratiche», capaci di guardare al territorio come un bene comune, e aperte al mondo. Sullo suggerisce che Pisacane si troverebbe a suo agio al Presidio No Dal Molin. Aggiungiamo pure Cattaneo, anche con il rischio di uno scontro immediato tra i due - l'uno lombardo, e poi ticinese, l'altro napoletano, l'uno professore universitario, l'altro ex-ufficiale dell'esercito, un liberale di ferro contrapposto a un sognatore socialista.

Se l'autogoverno è un primo tema sconfitto dalla storia italiana, un ramo più che un tronco, un secondo ramo di grande interesse e attualità è quello dell'uguaglianza. Oggi l'Italia è uno dei paesi più disuguali del mondo, vicino nelle tabelle internazionali ai quattro peggiori - Portogallo, Gran Bretagna, gli Usa e Singapore. In Italia il 20% più ricco della popolazione è distanziato dal 20% più povero da un reddito circa sette volte superiore. Ma questa cifra complessiva rischia di mascherare la drammaticità di due altre componenti della disuguaglianza italiana - una geografica - il divario tra Nord e Sud, e l'altra tra individui. Marco Revelli ha riportato, all'affollato convegno fiorentino sul berlusconismo della scorsa settimana, le cifre impressionanti sulle disparità della ricchezza individuale nell'Italia neo-liberista.

Torniamo al Risorgimento. Poche ma significative sono le voci che si sollevano contro le grandi disuguaglianze del tempo, quelle soprattutto tra bracciante affamato e proprietario terriero spesso assenteista.

Una di queste è di nuovo Pisacane che nel suo Testamento politico (1857) dichiara la società moderna governata da «una legge economica e fatale», che avrebbe accumulato tutte le ricchezze «in ristrettissime mani». Dopo 150 anni nulla si rivela di più sensato. Specialmente alla luce degli studi più recenti, come quello di Richard Wilkinson e Kate Pickett (The Spirit Level), che dimostrano come le società più disuguali siano le più infelici. In moltissimi ambiti - basso livello di fiducia, alto livello di sorveglianza, scarsa parità di genere, obesità, percentuale di carcerati ... - le società diseguali nel complesso hanno risultati assai peggiori di quelle più paritarie.

Forse le figure più autorevoli del Risorgimento avrebbero dovuto dare un po' più di ascolto a quell'isolato ex-ufficiale dell'esercito napoletano che, pallidissimo, sul molo di Genova, dettava il suo testamento politico a Jessie White Mario, prima di andare a morire nel Cilento. Se l'avessero fatto, forse l'Italia sarebbe oggi una nazione più felice. Ma la storia, come si sa, non si scrive con i se.

Se apocalisse significa letteralmente ritiro del velo che copre le cose, quella che viviamo in Italia è l’apocalisse del giornalismo: è giornalismo denudato, svelato. È giornalismo che si trova davanti a un incrocio: se si fa forte, rinasce e ritrova lettori; se si compiace del proprio ruolo di golem della politica, perde i lettori per il semplice motivo che non ha mai pensato a loro. Diciamo subito che il male oltrepassa la piccola storia del Giornale di Sallusti e Feltri, nonostante la piccola storia sia tutt’altro che irrilevante: se la redazione è stata perquisita come fosse un covo di banditi, è perché da tempo il quotidiano si conduce in modo tale da suscitare sospetti, apprensione.

I suoi vertici orchestrano campagne di distruzione che colpiscono uno dopo l’altro chiunque osi criticare i proprietari della testata (la famiglia Berlusconi, il cui capo è premier): prima vennero le calunnie contro Veronica Lario, poi contro Dino Boffo direttore dell’ Avvenire, poi per mesi contro Fini, adesso contro il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Il male oltrepassa questa catena di operazioni belliche perché tutti i giornali scritti sono oggi al bivio.

La crisi è mondiale, i lettori si disaffezionano e invecchiano, i giovani cercano notizie su altre fonti: blog, giornali online. Philip Meyer, professore di giornalismo all’Università della Carolina del Nord, sostiene che l’ultimo quotidiano cartaceo uscirà nel 2040.

Viviamo dunque gli ultimi giorni della stampa scritta e vale la pena meditarli in un Paese, l’Italia, che li vive così male. Per questo le aggressioni a Fini e alla Marcegaglia sono decisive, vanno studiate come casi esemplari. Si dirà che è storia antica, che da sempre il giornalismo sfiora il sensazionalismo. Alla fine dell’800, chi scriveva senza verificare le fonti veniva chiamato yellow journalist, e i primi giornalisti-liquidatori innamorati del proprio potere politico furono Joseph Pulitzer e William Hearst ( Citizen Kane nel film di Orson Welles). Perché giornalismo giallo? Perché un vignettista di Pulitzer aveva dato questo nome - yellow kid - al protagonista dei propri fumetti. Ma quelli erano gli inizi del grande giornalismo, fatto anche di preziose inchieste. Perfino il compassato Economist apprezzava la cosiddetta furia mediatica. Negli Anni 50, il direttore Geoffrey Crowther prescrisse ai redattori il motto seguente: «Semplifica, e poi esagera» ( simplify, then exaggerate).

Ora tuttavia non siamo agli inizi ma alla fine di una grande avventura. Per ogni giornale stampato è apocalisse, e a ogni giornalista tocca esaminarsi allo specchio e interrogarsi sulla professione che ha scelto, sul perché intende continuare, su quel che vuol difendere e in primis: su chi sono gli interlocutori che cerca, cui sarà fedele. Nel declino gli animi tendono a agitarsi ancora più scompostamente, e questo spiega lo squasso morale di tante testate (e tante teste) legate al magnate dei media che è Berlusconi. Se quest’ultimo volesse davvero governare normalmente, come pretende, dovrebbe interiorizzare le norme che intelaiano la democrazia e non solo rinunciare agli scudi che lo immunizzano dai processi ma ai tanti, troppi mezzi di comunicazione che possiede. Lo dovrebbe per rispetto della carica che ricopre. Aiuterebbe l’informazione a rinascere, a uscire meglio dalla crisi che comunque traversa.

Chi scrive queste righe, si è sforzato di avere come sola bussola i lettori: non sempre con successo, ma sempre tentando una risposta alle loro domande. Ritengo che il lettore influenzi il giornalista più di quanto il giornalista influenzi il pubblico: in ogni conversazione, l’ascoltatore ha una funzione non meno maieutica di chi parla. Per un professionista che ami investigare sulla verità dei fatti, questo legame con chi lo legge prevale su ogni altro legame, con politici o colleghi. Una tavola rotonda fra giornalisti, senza lettori, ha qualcosa di osceno. Tanto più sono colpita dalla condotta di esponenti del nostro mestiere che sembrano appartenere alle bande mafiose dei romanzi di Chandler. Nella loro distruttività usano la parola, i dossier o le foto alla stregua di pistole. Minacciano, prima ancora di mettersi davanti al computer.

Soprattutto, gridano alla libertà di stampa assediata, quando il velo cade e li svela. Hanno ragione quando difendono il diritto alle inchieste più trasgressive, e sempre può capitare l’errore: chi non sbaglia mai non è un reporter. Quel che non si può fare, è telefonare alla persona su cui s’indaga e intimidirla, promettendo di non agire in cambio di qualcosa. In tal caso non è inchiesta ma ricatto, seguito semmai da vendetta. È qui che entriamo nel romanzo criminale, nella logica non dell’articolo ma del pizzino. Il giornalista Lonnie Morgan dice a Marlowe, nel Lungo Addio: «Per come la penso io, bloccare le indagini su un omicidio con una telefonata e bloccarle stendendo il testimone è solo questione di metodo. La civiltà storce il naso in entrambi i casi».

Conviene ascoltare e riascoltare le parole pronunciate dai vertici del Giornale, perché inaudita è la violenza che emanano. Sentiamo quel che il vicedirettore Porro dice al telefono, pochi minuti dopo aver spedito un minatorio sms, a Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia: «Ora ci divertiamo, per venti giorni romperemo il c... alla Marcegaglia come pochi al mondo. Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova». Perché? «Perché non sembra berlusconiana,... e non ci ha mai filati». Porro s’è presentato tempo fa in tv come «volto umano» del quotidiano (la «belva umana» è secondo lui Sallusti). Il presidente della Confindustria, come Boffo o Fini, ha criticato il premier: questo peccato mortale, non altri ritenuti veniali, indigna i giornalisti-vendicatori.

Il turpiloquio non è perseguibile: alla cornetta si dicono tante cose. Quel che è scandaloso viene dopo la telefonata. Spaventata dai malavitosi avvertimenti, la Marcegaglia telefona a Confalonieri, presidente di Mediaset e consigliere d’amministrazione del Giornale. Confalonieri telefona a Feltri, direttore editoriale. Si ottiene un accordo. Si parlerà della Marcegaglia, ma con cura: pubblicando magari articoli, fin qui ignorati, di altri giornali. È così che il giornalista si tramuta in smistatore di pizzini, e demolitore della propria professione.

Quello del giornalista è un bel mestiere con brutte abitudini, e tale doppiezza gli sta accanto sempre. È qui che l’occhio del lettore aiuta a star diritti, a non farsi usare: è il lettore il suo sovrano, anche se la maggior parte dei giornali dipende purtroppo, in Italia, da industriali e non da editori. Berlusconi ha reso più che mai evidente un vizio ben antico. Così come lui carezza la sovranità del popolo senza rispettarlo, così rischiamo di fare noi con i lettori. Rispettarli è l’unica via per lottare contro la nostra fine, e le opportunità non mancano: è il resoconto veritiero, è smascherare le falsità. È servire la persona che ancora acquista giornali. Ci vuole qualcuno che trattenga l’apocalisse, cioè l’avvento dell’anomia, dell’illegalità generalizzata: un katéchon, come nella seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi (2,6-7).

Il giornalista che aspira a «trattenere» lo squasso è in costante stato di Lungo Addio, come il private eye di Chandler. Il suo è un addio alle manipolazioni, alle congetture infondate, alla politica da cui è usato, ai tempi del Palazzo, a tutto ciò che lo allontana da tanti lettori che perdono interesse nei giornali scritti, troppo costosi per esser liberi. Chi vive nella coscienza d’un commiato sempre incombente sa che c’è un solo modo di congedarsi dalle male educazioni del mestiere: solo se il Lungo Addio, come per Philip Marlowe, ignora le bombe a orologeria ed è «triste, solitario e finale».

È una buona cosa che, sullo sfondo della persecuzione razzista dei rom in Francia, si sia aperta una riflessione teorica sul razzismo. È tutt'altro che scontato che se ne sappia abbastanza (su ciò che lo produce e lo alimenta e, prima ancora, su ciò che il razzismo è) per reagire all'altezza dei suoi devastanti effetti attuali e potenziali. Gli interventi di Etienne Balibar e Jacques Rancière sul manifesto hanno fatto luce su aspetti rilevanti. Il primo si è incentrato sul nesso tra cittadinanza ed esclusione, mettendo in risalto come esso operi anche nel quadro dell'Europa comunitaria; il secondo ha insistito sulla natura artificiale (non spontanea) di un razzismo frutto dell'iniziativa di «imprenditori politici». Entrambi condividono una prospettiva politico-centrica e meriterebbero un approfondimento: in particolare Rancière sembra sbarazzarsi troppo precipitosamente della scaturigine sociale della paura (e del risentimento) che l'intervento politico alimenta e incanala contro gruppi umani rappresentati come pericolosi. Ma lo spazio è tiranno e, piuttosto che dedicarlo a un confronto interno, conviene utilizzarlo per ampliare lo spettro della discussione, prospettando un'ipotesi differente e complementare, incentrata sulle dinamiche sociali responsabili della produzione di stereotipi inferiorizzanti: un'ipotesi per dir così socio-centrica.

Quando parliamo di razzismo siamo soliti pensare ai margini della società o a popolazioni straniere. Il razzismo appare al senso comune una faccenda riguardante gli «altri», i «diversi» (o i «devianti»), insomma non-persone abitanti la periferia (fisica o morale) delle nostre metropoli. Naturalmente questo modo di pensare ha le sue buone ragioni. Oggi le «razze» (poco importa se rinominate con termini meno impresentabili come «etnie» o «culture») sono in primo luogo i migranti, variamente considerati invasori, nemici, delinquenti naturali, terroristi potenziali, barbari e così via connotando. Oppure sono i rom (e i sinti), cioè gli «zingari». O ancora gli ebrei (checché se ne dica, resiste il pregiudizio che li configura come una «razza»). In una parola, minoranze a vario titolo percepite come estranee al corpo (sano) della collettività. Come eccezioni (patologiche) rispetto alla norma e alla normalità. Tuttavia, se non vogliamo rimanere prigionieri del razzismo, non possiamo limitarci a sfogliare il catalogo dei gruppi umani trasformati in «razze», dobbiamo anche chiederci a che scopo il razzismo li «razzizza».

Con ogni probabilità, l'obiettivo è legittimare trattamenti discriminatori e persecutori che possono arrivare sino allo sterminio. La violenza che difficilmente la società accetterebbe di subire, appare tollerabile (motivata e giusta) se colpisce un gruppo raffigurato come portatore «per natura» di uno stigma morale. Quella violenza è percepita come legittima difesa poiché è messa in relazione alle caratteristiche perverse attribuite a quel gruppo. In una parola, il razzismo è la fabbrica delle identità negative, un operoso cantiere antropologico che, producendo stereotipi (cioè letteralmente creando le «razze»), sforna ininterrottamente argomenti utili a giustificare la violenza che una parte della società scarica su altre componenti più deboli e a vario titolo subordinate.

Se le cose stanno così, lo sguardo dovrebbe disinteressarsi del dito (gli argomenti specifici - tutti, indistintamente, pretestuosi - addotti dal razzista di turno) e rivolgersi alla luna che esso indica, cioè alla radice profonda di questa violenza. Dovrebbe cercare la fonte «strutturale» dell'insaziabile fame di discriminazione che ossessiona la nostra società, poiché soltanto così è possibile capire perché da due o tre secoli a questa parte l'occidente capitalistico non può fare a meno di inventare «razze» inferiori, parti infette dei corpi sociali che meritano di essere cauterizzate o addirittura amputate. E soltanto adottando questa prospettiva si può capire perché il razzismo torna sistematicamente in auge nelle fasi acute di crisi economica e sociale, quando le dinamiche riproduttive esasperano la propria connotazione gerarchica, mobilitando un surplus di violenza e di brutalità.

Il punto è che la «razza inferiore» (quella di chi - stando alle mitologie razziste - ruba o stupra per incoercibili propensioni «naturali» o è «per natura» refrattario alla civilizzazione) incarna e mette in scena non soltanto le ragioni della propria discriminazione, ma anche, soprattutto, la legittimità del discriminare come meccanismo generale della relazione sociale. Certo, la violenza che si scatena contro i rom cacciati via da una palude infestata dai topi all'altra, evitati come appestati sugli autobus e sui treni e finalmente deportati oltre confine nel nome della sicurezza e sanità del corpo sociale, è diversa da quella che gli italiani (o i francesi) doc - quanti tra loro lavorano sotto padrone o nemmeno riescono a trovare un lavoro - sono costretti a subire. Questi ultimi sono (ancora) protetti da qualche diritto. Ma un denominatore comune c'è, e consiste nel dipendere dall'arbitrio altrui. Per questo è importante che assistano alla cacciata dei rom, spettacolo estremamente istruttivo che rammenta (e rappresenta come una condizione inemendabile) la loro radicale subalternità.

Che cosa imparano, a guardar bene, da questo spettacolo che colpisce ai margini della società ma si rivolge al grosso della popolazione, alle «genti meccaniche» cui non è toccata la buona sorte di illustri natali? Apprendono la terribile lezione della modernità: la loro condizione di homines œconomici, di individui soli, costretti a combattere, a proprio rischio e pericolo, la guerra quotidiana degli egoismi individuali. Ciò che il razzismo si incarica di portare a termine mettendo in scena il destino degli ultimi è, in altre parole, l'atomismo sociale e lo sradicamento della solidarietà, fattore antimoderno per antonomasia, incompatibile con lo scatenamento degli «spiriti animali» del capitalismo.

In questo senso - per quanto paradossale ciò possa apparire - se vogliamo capire quale ruolo il razzismo giochi sulla scena europea (e perché esso svolga ancora una funzione così importante), è indispensabile leggere correttamente vicende come quelle di Pomigliano e di Melfi, nelle quali il padrone dichiara in modo esplicito di voler negare qualsiasi diritto a chi per sopravvivere è costretto a vendere il proprio tempo di vita. Gli operai debbono tornare ad essere cose, levarsi dalla testa di essere persone e, soprattutto, membri di un soggetto collettivo. E affinché intendano la musica, niente è più utile del mostrare loro che fine fanno quelli con i quali la buona società si arrabbia per davvero.

Ma se la sorte riservata ai margini serve a educare il centro, allora il problema è la reazione del centro. Non si tratta di stabilire se il razzismo sia o meno spontaneo, certo che non lo è. Il punto è che il razzismo sarà senso comune, benché inculcato dall'alto, finché i corpi sociali assimileranno docilmente la lezione che esso impartisce: la fondatezza delle gerarchie sociali, la legittimità della violenza che esse decretano, la moralità della riduzione a cose dei subordinati. Oggi, esattamente come nel secolo scorso, il problema chiama dunque in causa proprio gli «uomini comuni», spesso complici, più o meno inconsapevoli, della violenza razzista.

La direttiva del governo francese riguardo alle espulsioni era concepita in modo inammissibile: mettendo l´accento sull´identità dei rom risultava un´operazione discriminatoria e, al limite, razzista. Certo, la vicepresidente della commissione europea Viviane Reding, comparando la misura ai provvedimenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ha evidentemente esagerato.

Ora, al di là delle reciproche scuse, è chiaro che in Europa esiste un problema e una questione dei rom. È mia convinzione che questo problema debba essere regolato attraverso una politica specifica concordata in sede europea. Occorre varare un regolamento al cui rispetto siano tenuti tutti i paesi dell´Unione, al di là del fatto che il numero dei rom sia diverso in ciascun paese e che i governi europei oggi siano divisi tra quelli che hanno un atteggiamento piuttosto accogliente e quelli invece (come l´italiano) che sembrano porsi in maniera tendenzialmente ostile.

Penso che la cosa più importante da fare oggi sia aprire un confronto tra i rappresentanti di tre diverse parti: le diverse comunità rom, i governi nazionali e l´Unione europea. Un tavolo di dialogo dovrebbe individuare, prima di tutto, dei luoghi deputati all´insediamento delle diverse comunità rom. Luoghi che i governi devono far rispettare ma che devono rispettare anche le stesse comunità rom. C´è comunque nella storia una tendenza dei rom a installarsi e rimanere in luoghi specifici.

Il problema è reso più acuto dal fatto che i paesi europei dove i rom sono più numerosi - in particolare la Romania - sono anche quelli in cui la disoccupazione è più alta. Per questo credo che nei colloqui si dovrebbe affrontare anche il tema dell´occupazione.

Oggi l´attrito tra rom e gruppi di cittadini europei nasce da diverse questioni ancora insolute: una di queste è la resistenza di alcuni rom a far frequentare le scuole pubbliche nazionali ai propri figli. Io sono favorevole alla maggiore integrazione possibile dei rom nelle culture dei diversi paesi in cui risiedono, ma credo anche che potremo lasciare loro il compito di organizzare essi stessi l´educazione dei loro figli, a condizione che funzionari pubblici di diversi paesi possano sovrintendere al rispetto di alcune regole fissate di comune accordo. Dunque lascerei ai rom libertà nella scelta dei docenti degli orari e dei metodi dell´insegnamento ma con l´impegno che questo stesso insegnamento sia oggetto di una verifica da parte degli stati nazionali. Anche nel settore della sanità e della salute occorre cercare un compromesso tra la libertà dei rom di dove e come farsi curare e la verifica che queste cure siano effettivamente svolte.

Come storico credo che una progressiva realizzazione di una sempre più forte unione europea sia la strada giusta per risolvere il problema. Per riprendere un espressione di Jacques Delors il nostro spazio politico ha scelto di costruirsi come «Europa delle nazioni». E i rom si possono considerare a tutti gli effetti una nazione. Ecco perché credo che almeno una parte importante delle regole che si applicano alle nazioni europee potrebbero essere applicate ai rom. Tenendo conto che l´Europa è un insieme di diversità, anche se con forti somiglianze tra diversi paesi che la compongono.

Insomma, mi pare che l´essenziale sia la voglia di pervenire ad un accordo che non può che essere un compromesso, frutto di un dialogo. Naturalmente c´è un problema linguistico: i rom parlano sia lingue specifiche sia la lingua del paese in cui risiedono, dunque la loro nazione non si distingue per un´unica lingua. Ma questo è un problema che esiste anche altrove in Europa e anch´esso può trovare una ragionevole soluzione.

Come storico credo che ciò che ha contraddistinto l´esperienza millenaria dell´Europa siano stati il meticciato, la mescolanza delle culture e la loro progressiva integrazione.

L´Europa è nata dalla fusione tra i popoli cosiddetti romani o gallo romani o ispano romani (cioè quelli che diedero luogo a una prima integrazione) e i cosiddetti «barbari», una parola oggi bandita dagli storici. Oggi fortunatamente non disprezziamo più chi non pratichi una cultura cosiddetta superiore: gli storici e tutti coloro che hanno influenza sulla società dovrebbero mostrare come la caratteristica tipica dell´Europa sia proprio la sua capacità di integrazione nel rispetto delle diversità: una strada difficile ma possibile.

Certo, le difficoltà di accogliere gli stranieri che si manifestano oggi in Europa nascono anche dal fatto che negli ultimi anni il numero di immigrati è cresciuto. Ma non dovremmo dimenticarci che nel periodo dell´antichità tardiva o del Medioevo le cifre relative ai cosiddetti barbari, celti, germani o slavi che si spostarono sul territorio europeo erano assai più grandi. A quell´epoca l´integrazione più importante fu quella provocata dalla cristianizzazione. Oggi la religione di per sé non può essere lo strumento principale di integrazione. Serve un progetto culturale comune nello spazio europeo: un progetto scientifico ma anche educativo. E poi è necessario lavorare anche sul regime politico: la forza dell´Europa è anche quella di essere composta da stati che con tutti i loro limiti sono tutti democrazie. La sinistra in particolare deve saper rispondere con maggior forza alla destra su questo tema. Il suo limite oggi è che purtroppo non riesce a combinare la giusta ostilità alle cattive politiche di discriminazione con un´alternativa efficace, capace di offrire soluzioni di ricambio concrete percorribili. Forse la nozione più falsa e pericolosa veicolata dal nazismo è proprio quella della purezza etnica. C´è bisogno oggi di un grande progetto capace di rifarsi proprio all´originalità dell´esperienza storica europea, capace cioè di ritrovare l´ingrediente storico della sua forza: il suo multiculturalismo, la sua abitudine al meticciato. Il presidente della repubblica francese - per fare solo un esempio - dovrebbe ricordarsi di essere ungherese.

Intervento raccolto da Giuseppe Laterza e pubblicato su www. laterza. it, il sito web della casa editrice da oggi rinnovato nei contenuti

Quando, alla fine del Settecento, sulle due sponde del Lago Atlantico le dichiarazioni dei diritti pronunciano le parole «tutti gli uomini nascono liberi e eguali», si manifesta pubblicamente la fondazione di un’altra società e d’un altro diritto, e "la rivoluzione dell’eguaglianza" diviene un tratto caratteristico della modernità. Per l’eguaglianza comincia una nuova storia, nella quale si riconoscono riflessioni millenarie e diffidenze mai sopite, con una ritornante contrapposizione della libertà all’eguaglianza. È una vicenda che attraversa due secoli, non è conclusa, nel Novecento ha conosciuto tragedie, ma ha pure generato una promessa che ancora ci sfida e attende d’essere adempiuta.

Con questi dilemmi si misurano, nel momento fondativo della Repubblica, i costituenti italiani. Riconciliare libertà e eguaglianza è tra i loro obiettivi. E nasce un capolavoro istituzionale, l’art. 3 della Costituzione, frutto di un incontro tra consapevolezza politica e maturità culturale oggi impensabile. Muovendo da qui, si possono indicare sinteticamente alcuni itinerari da seguire perché davvero si possa essere liberi e eguali.

1) Un esercizio di memoria, anzitutto. La triade rivoluzionaria «libertà, eguaglianza, fraternità» vede precocemente dissolto il legame tra libertà e eguaglianza dal ruolo attribuito alla proprietà (Napoleone, nel proclama del 18 Brumaio, parlerà di «libertà, eguaglianza, proprietà»). La proprietà si presenta come presidio della libertà: solo il proprietario è davvero libero, e così torna il germe della diseguaglianza che sarà all’origine delle tensioni dei decenni successivi.

2) Proprio il tema delle diseguaglianze economiche, e più in generale "di fatto", caratterizza l’art. 3 della Costituzione, dove si prevede che compito della Repubblica sia quello di rimuoverle. In questo riconoscimento dell’eguaglianza sostanziale, che segue quello dell’eguaglianza formale, si sono visti «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», «l’uno per rifiutarlo, l’altro per instaurarlo». Ma non possiamo più dire che si tratta di una norma a due facce, l’una volta verso la conservazione dell’eredità, l’eguaglianza formale; l’altra rivolta alla costruzione del futuro, l’eguaglianza sostanziale. Già l’inizio dell’art. 3, che parla di dignità sociale, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell’eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell’articolo non ne depotenzia la forza "eversiva", ma dice che la stessa ricostruzione dell’eguaglianza formale non può essere condotta nell’indifferenza per la materialità della vita delle persone. E la concretezza dell’eguaglianza ha trovato riconoscimento nella versione finale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove il riferimento astratto "tutti" è stato sostituito da "ogni persona".

3) Il riferimento alla dignità dà ulteriori indicazioni. Descrivendo il tragitto che ha portato all’emersione dell’eguaglianza come principio costituzionale, si è parlato di un passaggio dall’ homohierarchicus a quello aequalis. Ora quel tragitto si è allungato, ci ha portato all’homo dignus e la rilevanza assunta dalla dignità induce a proporne una lettura che la vede come sintesi di libertà e eguaglianza, rafforzate nel loro essere fondamento della democrazia. L’antica contrapposizione tra libertà e eguaglianza è respinta sullo sfondo dalla loro esplicita associazione nell’art. 3. A questo si deve aggiungere l’«esistenza libera e dignitosa» di cui parla l’art. 36. Dobbiamo concludere che l’ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell’eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un’ombra sulle discussioni di oggi?

4) L’eguaglianza oggi è alla prova delle diversità, e più radicalmente della differenza di genere. La Carta dei diritti fondamentali «rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica» e stila l’elenco fino a oggi più completo dei divieti di discriminazione. Il rispetto delle diversità diventa così fondamento dell’eguaglianza, in palese connessione con il libero sviluppo della personalità, dunque con una rinnovata affermazione del nesso tra eguaglianza e libertà. E l’eguaglianza si dirama in due direzioni. Da una parte, si presenta come rimozione delle cause che producono diseguaglianza; dall’altra, come accettazione/legittimazione delle differenze, rendendo esplicita la sua vocazione dinamica, "inclusiva".

5) Si distingue tra eguaglianza delle opportunità o dei punti di partenza e eguaglianza dei punti di arrivo. Negli ultimi tempi, ponendo l’accento sulla difficoltà delle politiche redistributive, si è quasi cancellato il momento dei risultati con un riduzionismo improponibile. Un solo esempio: per la tutela della salute si può prescindere dall’effettiva disponibilità dei farmaci? Altrimenti si rischia di consegnare al cittadino "eguale" una chiave che apre solo una stanza vuota.

6) L’eguaglianza riguarda l’accesso ai beni della vita. Alla conoscenza, superando ogni "divario", e non solo quello digitale. Alla salute e al cibo, che non possono essere affidati alle disponibilità finanziarie. Al lavoro, che non può subire le esigenze della globalizzazione fino a cancellare la dignità della persona. Altrimenti, il peso delle diseguaglianze, associato alla pura logica di mercato, fa rinascere la cittadinanza censitaria. E la disponibilità crescente di opportunità tecnologiche, l’avvento del post-umano, impongono una attenzione forte per eguaglianza e dignità, insieme a una libertà declinata come autodeterminazione.

7) L’associazione di eguaglianza, libertà e dignità può metterci al riparo dal rischio dell’eguaglianza assoluta o estrema, che dissolve la società e attenta ai diritti delle persone. Ma le difficoltà antiche e nuove delle politiche egualitarie, la pressione delle identità possono indurre ad un pericoloso realismo che accantoni l’eguaglianza come inservibile. Errore politico e culturale clamoroso. La costruzione infinita della persona eguale rimane tema ineludibile. L’eguaglianza non significa solo divieto di leggi ad personam, ma garanzia del legame sociale. Proprio quando è negata, è lì ad ammonirci, a inquietare le coscienze. Rimane un potente strumento di azione culturale e lotta politica, "eversivo" rispetto a ogni tentativo di restaurare gerarchie sociali e di distorcere la democrazia.

«Sorpreso.. preoccupato... allibito...», dice Alfredo Reichlin commentando le ultime vicende del Partito democratico. Il tono non è quello di chi sta cercando di individuare il participio più appropriato: è quello di chi è sorpreso (preoccupato, allibito) per essere stato interrotto in modo inopportuno nel mezzo di un ragionamento complesso. Il ragionamento che Reichlin sta sviluppando da tempo sui cinque lustri di questa interminabile «fase politica» e sulla difficoltà del Pd «a entrare in partita»: «Continuiamo a litigare sugli schieramenti e sulle alleanze e ancora non sappiamo nemmeno con quale legge elettorale si voterà, né quando. La verità è che non siamo stati in grado di elaborare e di proporre una nostra idea di società».

Questa frase così appropriata e attuale, così “sulla cronaca” è stata pronunciata all’inizio della settimana scorsa. E dunque il suo autore oggi avrebbe qualche motivo per accogliere la polemica attorno alle dichiarazioni di Veltroni con la soddisfazione di chi vede confermata una tesi. Solo che Alfredo Reichlin con i suoi 85 anni e la sua lunghissima storia di politico e di intellettuale evidentemente condivide, anche se per riguardo non lo esplicita, lo stato d’animo della base democratica. Quello che, ormai a ogni “bufera tra leader”, ne produce automaticamente un'altra fatta di «Uff». Insomma, non gli va di parlarne. «Su che cosa ci dividiamo? Sulle ambizioni personali? Queste esistono, ma non credo che spieghino tutto».

No, non gli va di parlarne. Quest’altra frase risale addirittura a più di un mese fa. L’abbiamo tratta dalle venti pagine di una riflessione sul Paese e sul partito che Reichlin ha scritto in agosto. Sono lo sviluppo di ragionamenti in parte svolti nei mesi scorsi su l’Unità e articolati in chiave autobiografica in un bel libro, Il midollo del leone, pubblicato da Laterza nel marzo scorso. Ciò che colpisce in queste note (che possono essere lette integralmente nel nostro sito) è il tono di urgenza che le attraversa: un «non possiamo più perdere tempo» che vibra in tutte le righe. Fin dall’incipit: «Siamo entrati in una fase politica nuova e molto delicata che può riaprire la strada a una svolta democratica, ma può spingere le forze più reazionarie all’avventura. È in gioco la speranza che l’Italia resti una repubblica unita e una democrazia parlamentare mentre, dal fondo limaccioso del Paese, tornano a emergere tentazioni di tipo peronista. Io non so come andrà a finire. So, però, che è troppo grande lo scarto tra i rischi di disgregazione della compagine italiana e la debolezza della politica... Pesa non poco la vanità e l’inconcludenza di tanta parte delle polemiche che lacerano la sinistra».

Alla base della riflessione (e dell’urgenza), c’è la constatazione di un colossale abbaglio: l’idea che la fine della Guerra fredda avesse segnato l’inizio di un irreversibile progresso e che, in definitiva, il mondo fosse ormai diventato il migliore dei mondi possibili. I progressisti, la sinistra, in questo mondo non avevano più alcuna ragione per sviluppare una diversa idea della società, ma era sufficiente che si limitassero a garantire le “pari opportunità” e a “difendere i più deboli”. Come se la fine dell’utopia comunista dovesse necessariamente segnare la fine dell’utopia nella sua funzione di idea-forza. Tutto questo mentre l’economia mondiale veniva sovvertita dal crescente predominio del capitale finanziario a scapito di quello prodotto dal lavoro. E mentre l’Italia, inebetita dalla lente deformante del berlusconismo, guardava senza capire. Comunque capendo meno degli altri paesi dell'Occidente.

Reichlin che ha vissuto per intero, dall’infanzia alla maturità, quello che è stato imprudentemente definito “il secolo breve” ha sempre pensato che “breve” non fosse affatto. Al contrario: mentre si coltivava quell’illusione paralizzante, avveniva un cambiamento epocale. «Qualcosa che è paragonabile alla rivoluzione industriale di fine Ottocento». E così come dalla «folla cenciosa di contadini inurbati, di fanciulli e di donne che massacravano la loro vita davanti alle prime macchine (si parlava anche allora, come oggi alla Fiat, di leggi ineluttabili del mercato)» si arrivò ai sindacati moderni, allo stesso modo il Partito democratico deve cercare le condizioni per «creare una nuova soggettività politica in grado di opporre un’idea di società a questo supercapitalismo mondializzato».

C’è una citazione di Gaetano Salvemini che è particolarmente cara a Reichlin. La troviamo, infatti, nel suo libro e la ritroviamo in queste note: «Datemi una leva, datemi una soggettività sociale, e solleverò il mondo». Salvemini allora aveva 23 anni, era il 1896, e individuò la “leva” nei contadini pugliesi. Qual è la “leva contemporanea”, chi sono i nuovi soggetti del cambiamento? Il Pd, pena un degrado inarrestabile, ha l’obbligo di individuarli. Traendone tutte le conseguenze: «Perché un’idea di società è anche un’idea di partito».

E qui Reichlin sospende la sua riflessione. Un po’ per il modo che ha di intendere il suo ruolo: stimolare, suggerire, ma non dividere. Un po’ perché una «idea della società» non può, per la sua stessa natura, essere ridotta a una ricetta. Al massimo è possibile fornire la lista degli ingredienti, cioè dei luoghi dell’intervento, dei territori rimasti nell’ombra. A percorrerli si resta sorpresi nel constatare che lo sguardo di un dirigente politico nato nel 1925 è più lungo e lucido di quello di tanti suoi pronipoti. «Penso a un diritto umano di base incentrato sul lavoro creativo», scrive, per esempio, a conclusione di una riflessione attorno al problema di «come dare una rappresentanza politica nuova al lavoro moderno».

Non c’è la ricetta. Eppure, a leggere queste note nel combinato-disposto col libro autobiografico, senti in lontananza il profumo della pietanza. E, all’improvviso, provi un sentimento sorprendente e imbarazzante che proprio non t’aspettavi: l’invidia. Le pagine più belle del libro («Sì conferma l’autore me lo dicono tutti che quelle sono le pagine più belle...») sono quelle dedicate alla fase più tragica del nostro Novecento: l’armistizio, l’occupazione nazista e la Liberazione. Col Paese ferito e dilaniato che riprende faticosamente vita. A pagina 54 c’è una frase che ti orienta nella ricerca delle cause dell’imbarazzante sentimento di cui si è appena detto. È la descrizione dello stato d’animo, dopo l’8 settembre, degli allora giovani degli anni Venti: «Tutto diventava possibile. Si erano riaperte, sia pure coperte di macerie, le strade dell’avvenire».

Ecco allora l’origine dell'invidia (ed ecco la ragione per cui quelle pagine sono unanimemente considerate «le più belle»). Siamo a questo punto: abbiamo una tale fame di strade, e abbiamo un tale timore di macerie, che chi conserva la memoria delle strade ed è stato capace di liberarle dalla macerie ci appare il rappresentante di una generazione fortunata. Più fortunata della nostra e, dunque, molto più fortunata di quella dei nostri figli. Una generazione che aveva una visione dell’Italia futura e un bisogno insopprimibile, un’urgenza, di raccontare e migliorare quella presente. Forse «avere un’idea di società» è semplicemente questo.

La Dichiarazione d’indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 inizia con un’enfatica dichiarazione. Esistono verità "per se stesse evidenti": che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dal Creatore dotati di alcuni inalienabili diritti. Tra questi, oltre alla vita e alla libertà, c’è la ricerca della felicità (pursuit of happiness).

La (ricerca della) felicità è uno dei grandi temi che ha caratterizzato, nel suo insieme, il secolo XVIII, dal punto di vista morale e politico. La Dichiarazione d’indipendenza è figlia di quel tempo e, come vedremo, di quella terra. Il secolo successivo è stato molto più prudente. Anzi: la felicità come meta della vita individuale e collettiva è stata piuttosto associata all’infelicità, in una sorta di coincidentia oppositorum. Per gli individui, è fonte d’inquietudine e di aspirazioni mai stabilmente soddisfatte. Per le società, è fonte di forze distruttive, operanti su larga scala. Possiamo farci aiutare da un testo classico, che non cessa di stupire per la sua fecondità, Il Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Si dice, di solito, che il dialogo dell’Inquisitore col Cristo silente tratta di libertà degli uomini e di dominio sugli uomini. In realtà, ancor prima è un discorso sulla felicità e sull’infelicità: l’infelicità che è generata dalla libertà e, viceversa, la felicità che può derivare dalla liberazione dalla libertà. Leggiamo. Non c’è nulla di più ammaliante per l’uomo che la libertà del proprio giudizio, ma non c’è nulla di più tormentoso. Onde verrà presto il momento in cui, tutti insieme, deporranno la loro libertà ai piedi di qualcuno che ne li libererà e questi saranno gli Inquisitori: ecco i veri liberatori dell’umanità, coloro che la libereranno dall’oppressione della libertà cioè da quella tensione tra il desiderio e la realizzazione, da quella irrequietezza e da quello spirito di rivolta che è il germe dell’infelicità umana. Un paradosso letterario, o una diagnosi antropologica e politica?

Che la libertà sia un peso è quasi un luogo comune. Che questo peso, almeno nella letteratura reazionaria basata sull’idea della corruzione della natura umana, possa essere sopportato solo da uomini superiori e non dalla massa, anche. La massa è fatta da schiavi con la costituzione del ribelle, dice l’Inquisitore: in quanto ribelli, vogliono la felicità, ma in quanto schiavi non ne sono capaci e hanno bisogno del padrone. L’Inquisitore avrebbe certamente detto che il diritto "americano" di cercare la felicità era in realtà la condanna all’infelicità. Dovrà regnare la felicità, sì, ma la dovrete ricevere da noi, gli Inquisitori, che ve la amministreremo nella misura che vi è consona .

Ma quale felicità? La felicità consiste nell’aver tolto dal cuore il tormento che deriva da quel dono che è la libertà. Non s’intende qui la libertà come possibilità di scelta di convenienza; della libertà, per così dire economica, legata semplicemente a preferenze, la libertà del consumatore, per intenderci. Stiamo parlando di ben altra cosa, della libertà di realizzare se stessi, di scegliere che cosa si vuole che sia la nostra esistenza. È questa, non l’altra, la libertà che deve essere tolta all’essere umano per renderlo felice.

Non è forse questo il segreto di un certo tipo di dominio su vasta scala, su esseri umani standardizzati nei piccoli loro desideri, alimentati continuamente dalla "comunicazione", questa nuova scienza del governo che sempre di nuovo propone stili vita, modelli di massa che promuovono desideri mediocri, volgari e conformisti? Oggi, così si vive in società, attraverso il governo dei desideri, cioè degli animi: una forma di potere che sembra avere sostituito, con effetti anche più radicali, il controllo dei corpi. Che sia meglio una cosa o l’altra, è discutibile, poiché il controllo dei corpi almeno lascia la libertà interiore di desiderare, pur se impedisce di perseguire l’oggetto del desiderio.

Questo è un modo per contrastare gli effetti distruttivi della (ricerca della) felicità, tramite il controllo omologante dei desideri, un controllo che può giungere fino a spegnerli, con ciò riducendo gli esseri umani a bestie. "Il faut les embêter". L’altro modo è quello di ricondurli non di disumanizzarli, ma di "istituzionalizzarli", trasformando l’instabile "materiale psichico" soggettivo che alimenta la ricerca della felicità in qualcosa di obbiettivo, funzionale alla vita sociale.

Sigmund Freud, nel celebre scritto del 1920 su Il disagio della civiltà parla di felicità, infelicità e istituzioni con riguardo alla psiche umana e dice: «Non vogliamo ammetterla [l’infelicità delle società odierne], non riusciamo a comprendere perché le istituzioni che noi stessi abbiamo creato non debbano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti. […]. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Con queste parole, si tocca il punto centrale: il rapporto tra felicità e sicurezza. La massima (ricerca individuale della) felicità comporta la massima insicurezza sociale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti sarebbero impossibili perché tutti li violerebbero quando ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la fiducia, che di ogni vita sociale è condicio sine qua non. Simmetricamente, la massima sicurezza coinciderebbe con l’assoluto divieto della (ricerca individuale) della felicità.

Che dire allora? Che per vivere in società dobbiamo rinunciare alla ricerca della felicità, riducendoci a gregge sotto un pastore che provvede per noi o istituzionalizzandoci integralmente, "funzionalizzandoci" alla società? Non sia mai. Ogni società è un equilibrio tra sicurezza dei rapporti e desiderio di alterarli per accrescere la propria felicità. Come permettere la ricerca della felicità senza compromettere un livello minimo di sicurezza e fiducia tra gli esseri umani? La formula della Dichiarazione d’indipendenza americana, dalla quale abbiamo preso spunto per queste considerazioni, è l’espressione genuina del più ingenuo ottimismo del secolo dei "lumi". Poteva forse corrispondere a una possibilità effettiva in società come quella delle tredici colonie che non conoscevano confini. O meglio: società dove lo spazio non costituiva limite e condizione. Il viaggio a occidente per cercare fortuna era la prospettiva per una ricerca della felicità che poteva svolgersi senza conflitti (le popolazioni autoctone non facevano problema). Questo era il mito americano, così intimamente legato al miraggio della felicità.

Ma negli "spazi pieni"? Lo spazio pieno è quello in cui ogni spostamento di uno comporta lo spostamento di altri. È, da secoli, la condizione europea. Ma gli spazi sono ormai saturi anche in America dove, oggi, le frontiere, non più allargabili, sono presidiate dalla forza pubblica.

Che cosa si deve concludere, allora? Che la ricerca della felicità, qui e oggi, è impossibile? Che la società, con i suoi vincoli, ci soffoca inesorabilmente? Che la profezia del Grande Inquisitore o il "disagio della civiltà" ci condannano alla passività e all’immobilità?

Sopra tutto, notiamo uno spostamento, anzi un rovesciamento di senso. La ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli [nel testo a stampa manca la parola – ndr] cioè degli oppressi. Basta leggere il preambolo della Dichiarazione d’indipendenza. Oggi, il senso s’è rovesciato. Sono i potenti, i "Prominenten", che la rivendicano come diritto, la praticano e l’esibiscono, spesso oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato, una madre che vede il suo bambino morire nei primi mesi di vita, rivendicare il suo diritto alla "felicità". Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere, invece che felicità, giustizia. La loro "felicità" sta nel chiedere un poco di giustizia. Negli spazi pieni, la felicità nel senso della Dichiarazione citata all’inizio è diventata la pretesa dei forti, che fa torto ai deboli; la giustizia, non la felicità, è la richiesta dei deboli che contestano i privilegi dei forti. Così, oggi, felicità è diventata parola dal senso rovesciato rispetto a quello originario, cioè è diventata parola d’oppressione, parola di classe, e come tale dovremmo trattarla. Con quest’ulteriore precisazione, che viene quasi da sé: la felicità è un’aspirazione che riguarda i singoli individui, la giustizia, è un’aspirazione che riguarda la società tutta intera. Come tale, è funzione non delle pulsioni individuali ma delle politiche collettive. Una conclusione certo inquietante. Sullo sfondo c’è lo stato-provvidenza, uno stato che ha tendenze totalitarie in vista di una qualche concezione della giustizia che deve valere per tutti. Così è che, nella ricerca dell’equilibrio tra libertà della ricerca individuale della felicità e giustizia sociale, in Europa entra quel vincolo esterno alla coscienza che è l’obbligo legale.

Anche nella Dichiarazione dei diritti francese del 1789 si parla di felicità. Ma non è la felicità individuale; è "le bonheur de tous". Tra questi "tutti", la legge ha il compito di stabilire i limiti e i confini, onde la felicità dell’uno non diventi infelicità degli altri. Una dimensione oggettiva della felicità fa qui apparizione, come insieme dei diritti di libertà previsti, regolati e limitati dalla legge. In tutti gli "spazi pieni" nel senso anzidetto è così. La rivendicazione di un anacronistico diritto all’illimitata ricerca individuale della felicità, per quanto seducente agli occhi degli ingenui o dei troppo furbi, è fautrice di ingiustizie, tensioni e disfacimento sociale.

Questo testo è una parte della Lezione magistrale dal titolo "Felicità. La possibilità del bene" che terrà domenica a Modena nell’ambito del Festivalfilosofia

La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l´incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell´epoca spiegavano l´improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia con i capricci e i ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall´ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l´attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell´incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l´ambivalenza, l´indeterminazione e l´imprevedibilità. (...)

Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche.

In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d´incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d´incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...)

Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l´incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l´incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell´esistenza umana tendevano a venire negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell´errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...)

Durante gli ultimi cinquant´anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l´impatto grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell´universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell´evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali – cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti – sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione.

La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull´assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l´esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant´anni, però, si è arrivati a mettere in questione e sempre più a dubitare dell´esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causa-effetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (…)

Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant´anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un´incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (…)

Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni. In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione. La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all´esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l´incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti.

Traduzione di Daniele Francesconi

Cogliamo quasi ogni giorno i frutti avvelenati di una ormai troppo lunga stagione di rapporti malsani tra politica e istituzioni. È una storia che non può essere identificata solo con il tempo del berlusconismo, e che ha molti attori. Picconatori, cultori delle spallate referendarie, riformatori inconsapevoli degli effetti "di sistema" delle loro iniziative, idolatri di un bipolarismo contemplato senza tener conto della crescente personalizzazione della politica e del ruolo determinante giocato dal sistema dell´informazione… È una storia destinata ad accompagnarci ancora se si continuerà a parlare molto di riforme istituzionali da fare e si rifletterà poco sugli effetti di quelle fatte. E l´accelerarsi della crisi rende più urgente la riflessione su questi problemi, che sarà più libera se si scioglierà il nodo della riforma elettorale.

Qualche sprazzo di consapevolezza si è appena manifestato, tra mille prudenze e imputando ogni male alla "porcata" elettorale, ma cominciando comunque a registrare l´impossibilità di continuare a vivere nell´attuale forma del bipolarismo aggressivo. Se non è l´ammissione di un fallimento, è qualcosa che gli assomiglia molto. E tuttavia si tratta di analisi ancora inadeguate e che rischiano di riprodurre i vizi del passato, visto che sono condotte in chiave assai politologica e poco storico-politica. Non si tratta di contrapporre modello a modello, ma di andare a fondo nei processi reali che hanno portato a quella che, con formula assai ambigua, viene chiamata "Seconda Repubblica".

Non è una storia lineare. Anzi, in un momento decisivo, conosce uno spettacolare rovesciamento. Nella lunga transizione italiana, già prima della caduta del Muro, si era pensato che alla crescente debolezza della politica si potesse supplire trasformando integralmente la questione politica in questione istituzionale. In questo modo la politica cercava di allontanare le responsabilità sue proprie. Non nella politica, ma nelle istituzioni era il problema: sì che, modificate queste, ogni questione sarebbe stata risolta. In uno slancio fideistico, si affidava alla riforma istituzionale una palingenesi politica – la stabilità dei governi, l´efficacia della decisione, la fine della frammentazione partitica, la scomparsa della corruzione.

Al riparo di questa rimozione, la politica si consegnava all´"ingegneria costituzionale", abbandonando così una visione d´insieme che avrebbe avuto bisogno d´un vero rinnovamento culturale. Da qui le difficoltà nell´approdare a qualche soluzione condivisa e il nascere della tentazione delle "spallate". Fu, questa, la stagione dei referendum elettorali, aperta dall´eliminazione delle preferenze e approdata all´abbandono del sistema proporzionale. Ma nulla si fece poi sulla via degli indispensabili aggiustamenti di un sistema costituzionale che aveva nella sua filigrana proprio una legge elettorale proporzionale, e che su questa premessa aveva costruito suoi essenziali equilibri. E si chiusero gli occhi sui rapporti tra queste novità e la nuova funzione politica del sistema dei media, evidente già prima che s´incarnasse nel proprietario della Fininvest.

Saltati gli equilibri costituzionali, con la crisi politica che precipitava nella scomparsa di partiti storici al tempo di Tangentopoli, la transizione italiana cambiava volto, e con essa si capovolgeva il rapporto tra politica e istituzioni. Si esauriva la delega all´ingegneria costituzionale. Nel deserto istituzionale, nato dal riduzionismo elettorale, si creavano le condizioni per il ritorno di una politica affrancata non tanto dai "riti" della Prima Repubblica, ma da contrappesi e controlli necessari per l´esercizio democratico del potere. Sì che il bipolarismo all´italiana non seguiva i ritmi e le regole proprie di un sistema dove l´alternarsi di partiti e coalizioni si realizza sul terreno della diversità dei programmi, Si esauriva, invece, nel modo d´intendere l´esercizio del potere. Il berlusconismo trovava la sua forma nell´esasperare l´ostilità a controlli, pesi e contrappesi, nel portare a conseguenze estreme decisionismo e personalizzazione del potere. Nasce proprio da qui, dall´irriducibilità a un denominatore comune delle diverse forze in campo, l´asprezza distruttiva del bipolarismo. Con due ulteriori conseguenze, una spiccatamente istituzionale, l´altra più immediatamente politica.

Alterato nel suo complesso il sistema delle garanzie e dei controlli, questa ineliminabile funzione democratica si è concentrata, da una parte, nella Presidenza della Repubblica e nella Corte costituzionale; e, dall´altra, nella magistratura e nell´informazione. Sono queste, oggi, le frontiere della democrazia: e, come sempre accade alle istituzioni di frontiera, sempre soggette a tensioni, a tentativi di sfondamento da parte di chi vuole istituire un potere autocratico, utilizzando anche la categoria della "costituzione materiale", di cui non dovrebbe essere dimenticato l´originario obiettivo, appunto la legittimazione di ambigui poteri di fatto. Tutto questo produce anche paradossi, come quello riguardante il nostro bicameralismo perfetto, del quale giustamente si reclama l´abbandono, ma che in questa stagione difficile ha avuto la benefica funzione di bloccare pericolosi colpi di mano grazie alla navette tra le due camere. Peraltro – ed è la seconda conseguenza – nessuna delle promesse del bicameralismo è stata realizzata: il sistema politico si decompone, la corruzione è regola, la formale stabilità governativa non ha prodotto efficienza. E la regressione culturale cancella la condizione di base d´ogni buona politica.

Da qui bisogna ripartire, perché le stesse questioni oggi più discusse, riforma elettorale in testa, esigono la costruzione di un diverso ambiente nel quale le persone possano riconoscersi e ritrovare il senso politico delle grandi questioni. Non un sogno da vendere, ma una cultura da costruire, capace di dare anche alle vecchie parole il senso adeguato ai tempi mutati. La forza delle cose ci indica quali siano le questioni da affrontare. Lavoro e istruzione non solo come diritti, ma come condizione della libertà. Laicità come autonomia. Cittadinanza come pienezza dei diritti d´ogni persona. Legalità costituzionale come effettivo equilibrio tra i poteri e funzionalità dei controlli formali e informali. Europa come dimensione quotidiana. Istituzioni dell´economia non risolte nella pura delega al mercato. Essenzialità dei legami sociali e riconoscimento dell´altro. Consapevolezza di una nuova antropologia delle persone, immerse nel flusso della tecnoscienza e proprio per questo bisognose di un più forte diritto all´autodeterminazione. Sguardo su un futuro che è già presente, che si chiama mondo globale, beni comuni, informazione liberata, Internet, accesso alla conoscenza, e così ci trasmette una nuova idea di eguaglianza.

Qui si costruisce l´agenda politica, non solo dell´opposizione, anche se proprio affrontando chiaramente questi temi l´opposizione può promuovere un rinnovamento culturale, trovare una identità percepibile e, con essa, un consenso finalmente convinto.

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