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La festa come «sospensione dell'ordinarietà» è il simbolo della nostra identità. Per questo vogliono toglierle. Ma è anche il consumo ad aver «mangiato» la festa, come dimostrano i riots inglesi

«Nelle società tradizionali - scriveva Alfonso Di Nola - le feste corrispondono a "un periodo di intensificazione della vita collettiva" durante il quale "il gruppo rinunzia alla sua attività normale, produttiva e utile" per ricostituire la propria "sicurezza di essere"» - il senso cioè del proprio esistere come gruppo. Sembra una definizione fatta su misura per la recente festa dei 150 anni dell'unità d'Italia, pensata come un momento di sospensione dell'attività ordinaria per riflettere sul significato del nostro stare insieme - e invece è successo tutto il contrario, e si è aperto un conflitto sia sull'oggetto (l'unità nazionale), sia sull'idea stessa di festa (pensare e ricordare invece di lavorare e produrre). La festa è un momento di consenso, ma in quel giorno quel tanto di intensificazione della vita collettiva che si è verificato è stato dovuto in gran parte proprio a una divisione, all'esistenza di componente sociale (antiunitaria e produttivistica) che non vi si riconosceva.

E' questa componente che, sul piano simbolico e forse non solo, cerca la rivincita proponendo, attraverso spostamenti e accorpamenti, se non la scomparsa certo l'attenuazione di una serie di momenti rituali intesi a ribadire la nostra «sicurezza di essere» come repubblica (il 2 giugno) democratica (il 25 aprile) fondata sul lavoro (il 1 maggio). Infatti questa proposta è parte organica di un progetto che mira a trasformare e svuotare la costituzione democratica e antifascista e i diritti dei lavoratori, e ne condensa il significato: cavalcare la crisi per cambiare la natura e la forma del nostro esistere come gruppo.

Il modello ideale di festa a cui si riferiva Di Nola era riferito a società relativamente coese e omogenee, come si rappresentano le società tribali, contadine e pastorali. Nella modernità urbana e capitalistica, la coesione non ha più la forma dell'omogeneità, bensì quella della gestione regolata dei conflitti fra i sottogruppi molteplici e contrapposti che la compongono. Anche la festa allora diventa un momento di conflitto e dal conflitto acquista senso: basta pensare a come l'avvento del primo governo anti-antifascista di Berlusconi-Fini ha ravvivato il 25 aprile, a come proprio l'assenza ostentata del capo del governo abbia rinforzato il significato della nostra presenza. Ma anche a come il senso del 1 maggio si sia attenuato con la sua trasformazione da un momento di orgoglio operaio a una della tante festività musicali giovanili in cui non è lecito dire nulla di controverso; o come il 2 giugno - nonostante le parate militari - abbia ripreso senso quando ci siamo accorti che la Costituzione era sotto attacco.

Si capisce allora anche come mai la preoccupazione produttivistica che milita contro le feste civili si arresti davanti all'inamovibilità delle feste religiose. Queste infatti ci dicono una verità e una finzione sul nostro «stare insieme», entrambe gradite ai gruppi oggi dominanti. La verità è che in questo paese si può toccare tutto ma non quello che riguarda il Vaticano, dalla festa del patrono all'esenzione dell'Ici; e la finzione è che quello che tiene unita l'Italia non è la sua coscienza e storia democratica, ma la sua identità cattolica. Identità presunta, come sappiamo tutti, Chiesa compresa: per esempio, il 15 agosto che abbiamo appena celebrato sarebbe una festività religiosa, l'Assunzione di Maria: ma quanti sono gli italiani che la vivono in questo nome, anziché in nome di un'altra divinità che riempie più autostrade che chiese (salvo, guarda caso, proprio in quei luoghi lontani dalle autostrade dove resiste ancora un poco di civiltà contadina e non si dimentica del tutto il significato spirituale del rito religioso, magari intrecciato con pratiche ludiche non solitamente consentite). Ma se guardate «Ferragosto» su Wikipedia leggete che si tratta di «una festività laica...dedicata alle gite fuori porta e spesso caratterizzata da lauti pranzi al sacco» (fuori porta? pranzi al sacco? ma in che secolo vivono quelli di Wikipedia?). Altro che Maria Assunta.

La sovrapposizione di festa religiosa e festa profana però ci aiuta a cogliere il senso di un'altra forma di protesta contro l'accorpamento delle feste: quella dell'industria turistica e alberghiera, preoccupata che la scomparsa dei ponti vada a danneggiare l'industria del tempo libero. Questa preoccupazione ci ricorda che anche il capitale stesso non è interamente omogeneo, ma che gli interessi di un settore possono essere diversi da quelli di un altro, e quello che è sospensione dei profitti per un settore può essere occasione per un altro. Ma soprattutto, mette in scena la transizione fra un'economia della produzione a un'economia del consumo - pranzi al sacco e gite fuori porta compresi. Ma se il dovere del cittadino subalterno dell'era consumista è consumare più che produrre, allora viene meno un'altra funzione della festa intesa come un tempo eccezionale in cui si sovvertono i valori e comportamenti del tempo ordinario. Se nel tempo ordinario si lavora, in quello festivo si gioca e si spreca; ma se nel tempo ordinario si consuma e in quello festivo si consuma di più, allora la festa diventa non una sospensione ma un'accentuazione dei comportamenti normativi quotidiani.

Ma allora smettiamola, se non di scandalizzarci, almeno di sorprenderci per le razzie nei negozi londinesi durante il drammatico ferragosto britannico di quest'anno. I giovani d'oggi, sentenziano i soloni scuotendo il capo, non hanno più valori. Ma che valori hanno le banche? Quali valori, se non il consumo «by any means necessary», con ogni mezzo, gli propone e gli impone la cultura dei vincitori, che li seduce e li respinge in ogni momento del tempo ordinario? La rivolta urbana sospende un sistema di valori - la proprietà, il lavoro - dal quale i ragazzi dei ghetti sono comunque esclusi, per affermarne un altro - il consumo - che sta a portata di mano dietro ogni fragile vetrina.

Parlo dei riots nel contesto delle feste, perché di questo si tratta: una subitanea interruzione del tempo, in cui irrompono comportamenti altri e si affermano presenze ordinariamente marginalizzate. Sono feste le fabbriche occupate e le facoltà occupate, i cortei operai e studenteschi, le parate del Gay Pride, il «se non ora quando» dello scorso 16 febbraio, i concerti rock, gli slut walk inventati quest'anno, persino i rave - non tutto bello, non tutto ludico, non tutto condivisibile. Ma sempre affermazione di una presenza sgradita al potere o al massimo tollerata - anche quando, come spesso oggi, è tutto confuso e contaminato dal culto pervasivo del consumo.

Ma non è una novità: politici e media cascano dalle nuvole ogni volta, ma è storia di più di mezzo secolo. Comincia a Harlem nel 1943: «fu un'esplosione che andò a colpire la proprietà e i negozi al dettaglio, compreso il saccheggio», scriveva Morris Janowitz, l'inizio di quelle che definì come «commodity riots», rivolte di consumo, rivolte per le merci. Invece di scontrarsi coi bianchi, i neri distrussero i loro stessi quartieri, proprio come adesso a Londra e a Birmingham, sapendo benissimo che poi avrebbero dovuto continuare a viverci ma esprimendo in quel momento tutto l'odio accumulato per quegli spazi di esclusione e oppressione. «Mio figlio è stato ammazzato dai topi in questa baracca di palazzo», dice durante la rivolta un personaggio di Uomo invisibile di Ralph Ellison, «ma da oggi in avanti non ci dovrà nascere più nessuno». E gli dà fuoco.

Mentre le feste tradizionali erano periodiche e a tempi fissi, queste sono esplosioni improvvise, rotture violente del tempo - anche se per lo più avvengono nel tempo relativamente sospeso dell'estate (il blackout di New York nell'estate del 1977, la luce si spegne e il ghetto si scatena: «per la maggioranza era una festa. La notte di Natale e di capodanno a luglio», scrisse un giornalista). Ma sotto le differenze scorrono le continuità: «Sfondando vetrine e saccheggiando a man bassa - commentava il sociologo John Siegal - sognano una festosa redistribuzione di ricchezza, un nuovo equilibrio fra chi ha e chi non ha». Una festosa redistribuzione di ricchezza è, secondo Alfonso Di Nola, il significato simbolico delle questue contadine abruzzesi, di fine e inizio anno, in cui i poveri del paese esigono cibo e denaro dai meno poveri. Ricordo durante la rivolta di Los Angeles del 1992 immagini di gente che usciva dai negozi carica di carta igienica: il saccheggio è anche un'azione che non cerca solo valori d'uso ma anche valori simbolici. Le merci vengono appropriate e distrutte, desiderate e sprecate nello stesso momento. Nelle «feste lunghe» di Sardegna, scrive Clara Gallini in un libro significativamente intitolato Il consumo del sacro, il consumo è «la risposta a tutta un'annata di astinenza, condizionata dalla scarsità di cibo e di denaro» - la stessa scarsità, la stessa divisione ineguale della ricchezza, che è anche all'origine delle rivolte.

Se la festa moderna è un mezzo di gestione dei conflitti, abolirla non significa che i conflitti spariscono, ma che diventano ingestibili. Perciò, non si tratta certo di prendere le sommosse britanniche a modello, ma di ascoltarne la lezione proprio per trovare altri modi meno autodistruttivi di segnare gli stessi significati e le stesse presenze. La relazione complicata fra feste civili, feste tradizionali, feste religiose, rivolte urbane almeno una cosa la suggerisce: la necessità di restituire significato alla festa rivendicandone il valore contestativo, rovesciando la retorica del consenso e leggendola come il momento in cui presenze marginali e valori dimenticati o affermati solo a parole riprendono il centro della scena contrapponendosi al dominio del tempo ordinario e dei suoi padroni. Un tempo, al calendario delle feste religiose si contrapponeva quello delle feste civili (per gli operai e i socialisti era festa il 20 settembre, anniversario di Pota Pia); nel momento più alto dei movimenti abbiamo praticato un ciclo festivo civile alternativo, che comprendeva l'11 settembre cileno, il 12 dicembre di Piazza Fontana, l'8 marzo (di cui le donne ancora rivendicano la dimensione contestativa, una festa non di tutti), il 25 aprile, il 1 maggio... E' stato il nostro modo di celebrare la differenza di adesso e la speranza di domani, di riprenderci il tempo fin quando questo tempo «concesso» diventerà in un tempo ordinario - e, per esempio, l'8 marzo durerà tutto l'anno e i lavoratori non saranno protagonisti (se ancora lo sono!) solo il 1 maggio. Nel tempo sospeso della festa esprimiamo il significato del nostro tempo ordinario della lotta. Per questo adesso vogliono, prima ancora che portarcele via, cancellarne il senso.

Liberare le donne dal burqa e intanto legittimare la discriminazione di chi non rientra nella "normalità" eterosessuale: questo è il confuso messaggio che ci viene dai nostri leader politici, incapaci a quanto pare di coniugare libertà e eguaglianza dei diritti. È passato purtroppo inosservata la recente lezione del leader della Lega Nord sui limiti dei diritti individuali e del rispetto della persona, un esempio di quanto difficile sia per la cultura del conservatorismo comunitario accettare il pluralismo. In un recente comizio a Salsomaggiore Terme, concluso con la promessa che la cittadina emiliana ospiterà il concorso di Miss Padania, il Senatore Umberto Bossi ha colto l´occasione per picchettare il confine tra "persone normali" e "gli altri". Con la stessa autorità con la quale ha dato la benedizione alla sfilata delle giovani padane, ha discettato su che cosa è giusto che gli italiani pensino dell'omosessualità, rivendicando come una vittoria di civiltà lo stop all´aggravante di omofobia nei casi di violenza imposto dal Parlamento una decina di giorni fa. Le parole con le quali ha messo il sigillo sul problema delle violenze sempre più frequenti contro chi non è "persona normale" sono incredibili per il messaggio morale avvilente che propongono e meritano un´analisi critica attenta perché contengono il seme di una filosofia dell´intolleranza i cui effetti vanno al di là di questa proposta di legge abortita e della piaga dell´omofobia. Ecco le parole di Bossi: «Non era giusto aumentare le pene per quelli che si sentono anche un pò disturbati da certe manifestazioni, persone normali che a volte si lasciano scappare qualche parola, in senso anche bonario. Meno male che ci siamo opposti a questa legge perché non era giusta». Si tratta di una giustificazione che rovescia la verità dei fatti e, soprattutto, propone una visione distorta dell´eguaglianza e calpesta il valore della dignità umana.

Rovescia la verità dei fatti perché presenta la proposta di legge per la quale il Parlamento ha approvato i pregiudiziali di incostituzionalità come punitiva delle parole e delle idee, mentre essa proponeva di considerare la possibilità di un´aggravante per i reati sulla persona quando commessi per odio nei confronti di gay, lesbiche e transessuali (un fenomeno che, come i fatti di cronaca ci dicono, è purtroppo sempre più frequente). La proposta di legge interveniva sui reati e le motivazioni di reato. Ma la giustificazione di Bossi calpesta soprattutto il valore della dignità della persona perché reitera e santifica un comportamento discriminatorio: quello delle "persone normali" verso "gli altri", aggiungendo un codicillo precettistico che è terrificante: le "persone normali" hanno il sacrosanto diritto di offendere "gli altri". Qui entra in gioco una visione distorta di eguaglianza che avvalla ogni pratica discriminatoria e rovescia il significato dei diritti, facendone non un baluardo contro il potere ma un´arma di chi ha potere. L´eguaglianza di condizione di fronte alla legge diventa il via libera agli eguali ("le persone normali") di "farsi scappare qualche parola bonaria" contro coloro "gli altri".

I diritti individuali sono stati escogitati per impedire che per le ragioni le più disparate una persona venga fatta oggetto di "bonaria" discriminazione da parte della maggioranza. Dal Settecento in poi, questo è l´abc dello Stato di diritto e della civiltà. È avvilente che un esponente autorevolissimo del Governo ci inviti a girare le spalle a questa cultura e a considerare l´eguaglianza di fronte alla legge come una licenza a farsi scappare parole "bonarie" contro chi dell´eguaglianza di fronte alla legge ha più bisogno di altri, proprio perché diverso dalla maggioranza in qualche cosa che è significativo, come la preferenza sessuale.

L'argomento dell´aggravante di pena per i reati di omofobia è un´applicazione non uno strappo dell´eguaglianza – la stessa legge italiana, non è un caso, già prevede sanzioni per i crimini dell´odio basati su motivi di razza, etnia, nazionalità e religione. Perché mai in questi casi i motivi discriminati sono aggravanti mentre nel caso dell´omofobia e della transfobia no? Perché solo ad alcune minoranze è dato di poter contare sulla legge per non subire discriminazione in ragione della propria scelta di vita o identità? Queste domande mettono in luce la natura discriminatoria delle motivazioni con le quali questa proposta di legge è stata giudicata incostituzionale. Ci ha assicurato l'On. Fabrizio Cicchitto che la maggioranza è stata più rispettosa dell´eguaglianza di chi ha proposto quella mozione perché rifiutando l'aggravante per omofobia ha affermato di "considerare i gay come dei cittadini uguali agli altri". L´argomento della neutralità della legge è tuttavia sofistico perché nasconde il significato del reato e in questo modo rende la legge impotente a proteggere la vittima. Nei casi nei quali il reato è armato dal pregiudizio una legge che non vuole vedere la motivazione è una legge che non riesce a raggiungere il suo scopo. Che si malmeni o si ammazzi una persona per la sua preferenza sessuale non deve essere registrato dalla legge, per la quale ci sono solo crimini neutri commessi da individui neutri! Eppure... questa neutralità non sembra sufficiente garanzia se in questione c'è la religione, la razza, la nazionalità e l´etnia. Si può quindi obiettare che se davvero la maggioranza vuole essere coerente con la dottrina dell'eguaglianza neutra, dovrebbe cancellare dal codice penale tutti i motivi discriminanti. Questa sarebbe la risposta coerente di chi è contrario a "ogni trattamento giuridico specifico e differenziato". Evidentemente, ci sono gruppi meglio allocati di altri, ovvero più capaci di far valere le loro ragioni di diritto e di rispetto.

Siccome la cultura etica della maggioranza è così selettiva nei confronti dei diritti e dell´eguaglianza c´è da giurare che la sola condizione grazie alla quale i cittadini che cercano riparo alla discriminazione potranno far valere le loro giuste ragioni solo se riusciranno ad avere una lobby potente in Parlamento. Insomma, se e quando il diritto sarà riconosciuto ai non eterosessuali sarà per una ragione di forza, non di diritto. Questa è la logica che ha animato questo governo dal primo giorno del suo insediamento: durezza coercitiva contro i diversi e arrendevolezza parziale contro gli uguali e i loro amici; a rimetterci è la nostra eguaglianza, usata come una "cosa" grazie alla quale la maggioranza si dà la licenza di usare parole offensive contro chi eguale a lei non è. Il leader della Lega chiama questo ragionare "giusto". Chi conosce la natura e il linguaggio dei diritti civili può chiamare questa "giustizia" con il suo nome proprio: "bonaria" discriminazione, un ossimoro a tutti gli effetti perché tollerare l´offesa è il via libera che gli eguali si danno a calpestare la dignità di chi è non eguale in tutto a loro. L´eguaglianza degli eguali è il fondamento della discriminazione, la giustificazione del razzismo.

Chi governa un Paese non dovrebbe sottomettere le proprie scelte a nessun´altra autorità che non sia la legge: qui sta il seme della libertà e anche la condizione del benessere, individuale e collettivo. Su questa massima si sono trovati d´accordo conservatori e democratici, i seguaci di Edmund Burke e di Jean-Jacques Rousseau. Nonostante la sua generale condivisione, però, questa massima di prudenza e di buon senso ha trovato forti resistenze. Chi scriverà la storia del nostro Paese e la potrà raccontare senza incontrare diffidenze ideologiche si troverà probabilmente a dover dar conto degli effetti sociali che questa resistenza ha prodotto nel corso degli ultimi decenni, per esempio della correlazione tra impoverimento generale e deperimento del senso della legge, e poi, immancabilmente, tra essa e il declino del senso di giustizia sociale. L´escalation delle manovre economiche è in qualche modo un riflesso e un´indicazione di questa storia.

L´incontro nefasto di questi fattori ha accompagnato il graduale declino economico e sociale, un declino il cui inizio è databile agli anni ´80 e ai governi ispirati o guidati da Bettino Craxi. La sua politica economica a partire dal principio di quel decennio ha implicato l´espansione del debito pubblico con una proporzione rispetto al Pil che, scrivono gli economisti, passò dal 70% al 90% nel giro di pochi anni. Sul debito dello Stato sono cresciuti i guadagni privati ma anche la gestione fallimentare del bilancio pubblico generando quell´asimmetria che grava oggi su di noi e che non è solo economica: asimmetria tra ciò che è nell´interesse del singolo e ciò che è nell´interesse pubblico o della società larga. Innescare la contraddizione tra interesse generale e interesse individuale è stato determinante nel favorire un´altra vicenda collaterale, non meno infelice, quella dell´incremento dell´evasione fiscale, poiché agli squilibri accumulati dai conti pubblici ha corrisposto l´impennata di questo fenomeno per il quale l´Italia è tristemente ai primi posti nel mondo. L´evasione è un documento esplicito del contrasto tra individuo e società, un contrasto che in alcuni casi, anche di recente, è stato alimentato dalle stesse forze politiche per acquistare consensi o abbattere governi (ricordiamo per esempio gli attacchi dell´allora Forza Italia contro la campagna anti-evasione fiscale promossa dal ministro Visco).

Infine, a completare la storia del dissesto dell´interesse pubblico c´è da mettere in conto la pratica trasversale e ormai strutturale della corruzione. Corruzione che deve essere intesa in senso proprio, ovvero come una pratica che genera politiche intenzionalmente volte a favorire alcuni a discapito di altri e della legge – un esempio per tutti, quel "decreto Berlusconi" (un decreto si badi bene che porta il nome della persona che ne beneficia), varato nei primi anni ´80 dopo la decisione dei pretori di Torino, Roma e Pescara di oscurare i canali televisivi della Fininvest di proprietà dell´attuale presidente del Consiglio, allora un imprenditore legato da forte amicizia con Craxi. Al di là del significato di favore e in questo senso di corruzione di quel decreto, è importante osservare che con esso venne suggellato anche il contrasto tra le istituzioni dello Stato poiché con quel decreto la politica stabiliva una contrapposizione diretta con la magistratura e il dettato costituzionale. Se si vuole riassumere in una frase il senso, lo spirito, della storia politica di quegli anni si potrebbe dire che si ebbe un divorzio tra governo della legge e governo delle convenienze, dove per governo delle convenienze non deve intendersi ciò che è prudente o necessario per il bene del Paese, ma ciò che è utile al fine di consolidare o proteggere un determinato legame di potere tra individui o gruppi sociali.

Politica dell´arricchimento privato a spese della stabilità economica e sociale del Paese e politica dell´erosione della legalità sono andate insieme. E non è un caso che proprio negli anni ´80 sia stata praticata in grande stile la pratica fallimentare dei condoni edilizi e fiscali: una catena di sant´Antonio che ha riconosciuto e accettato la violazione della legge, fino a incentivarla. In questa politica del dissesto pubblico e della corruttela si situa la pratica delle "manovre" economiche, una ricorrente pratica che, istituita con i crismi dell´eccezionalità, è diventata quasi ordinaria, figlia anch´essa deli anni ´80 e che ha progressivamente impoverito la nostra società, la sua capacità di crescere e di rischiare per il futuro.

Impoverimento nei servizi prima di tutto con periodiche picconate alla loro efficienza, equa distribuzione e qualità; impoverimento per l´erosione dei risparmi e delle potenzialità delle famiglie e delle persone, soprattutto dei più giovani. La dissociazione tra interesse privato e interesse pubblico che è stata alimentata da quelle politiche di spreco e anche di illegalità ha avuto come conseguenza nemmeno troppo indiretta l´impoverimento generale della nostra società. La corruzione impoverisce, come ben sanno quei Paesi europei (il nostro tra questi) che sono più fragili anche perché più esposti agli effetti di bilanci dissestati e nei quali il bene pubblico è stato oggetto di saccheggio con irresponsabile sistematicità. L´idea balzana che ha dominato in questi decenni è stata quella per cui ciascuno si fa prima di tutto l´interesse proprio, senza comprendere che l´interesse proprio per essere sicuro deve in qualche modo incontrarsi con quello altrui – ma questa filosofia dell´utile richiede una prudenza che soltanto un senso ragionato di giustizia può illuminare. Per questo, i Paesi con i conti pubblici meno in regola sono anche quelli dalla più incerta etica pubblica. L´Italia è tra questi; ed è un Paese a rischio soprattutto per la mancanza di una classe politica di governo che si convinca ad accettare le proprie responsabilità e riconoscere i propri limiti e fallimenti; che insomma non anteponga il proprio interesse a quello generale. Per questo, nonostante tutto, quella italiana è in primo luogo una crisi politica la cui soluzione può venire solo da una svolta nella classe di governo.

Il percorso necessario alla definizione delle forme istituzionali affinché la conoscenza e il sapere siano sottratti alla gestione burocratica o alla logica mercantile. Una riflessione a partire dalle proposte maturate dentro l'occupazione del Teatro Valle

I beni comuni non sono una categoria merceologica, un oggetto inanimato del mondo esterno. Per questo motivo ogni habitus positivistico (ossia una metodologia analitica che separa nettamente il mondo dell'essere da quello del dover essere) è inadatto a coglierne la natura. Un bene comune lega inestricabilmente una soggettività collettiva (fatta di bisogni, sogni, desideri) con un luogo fisico (il bene comune appunto) in una relazione qualitativa paragonabile a quella che lega un organismo vivente al suo ecosistema. Infine, il bene comune emerge innanzitutto da pratiche di lotta per il suo riconoscimento e la sua difesa. Queste pratiche sono volte a interpretarlo in modo collettivo, al fine di universalizzarne l'accesso sottraendolo dalle ganasce della grande tenaglia fra Stato e proprietà privata che, fin dagli albori della modernità, lo stritola. Una volta salvato (attraverso la lotta) dal suo triste destino di sfruttamento e distruzione, ogni bene comune deve essere interpretato dal punto di vista sociale ed istituzionale in modo coerente con la sua natura.

Nessuna sfida è più affascinante oggi per il giurista rispetto a quella di trovare un vestito giuridico adatto ai diversi beni comuni. Vestito giuridico che, lungi dall'essere universalistico, deve essere a sua volta necessariamene contestuale perché soltanto i contesti (luoghi dove si declinano i conflitti e le relazioni sociali) danno senso a quella grande astrazione che è il diritto. Da questi contesti, intorno a quanto rivendicato come bene comune, sgorga un diritto nuovo, una legalità costituente che sfida il riduzionismo meccanicistico e formalistico di quella costituita. Ciò non toglie che questa «legalità nuova», fondata su un sentimento profondo di giustizia e di obbligazione anche intergenerazionale, non possa (e forse debba) trovare, nella cassetta degli attrezzi del giurista, forme idonee ad una sua rappresentazione compatibile con l'ordine giuridico attuale. Il «comune» può così realizzare il proprio potenziale trasformativo con le armi del diritto e non solamente con quelle della politica.

In cerca di egemonia

In che senso il Teatro Valle occupato di Roma è un bene comune e quali sono le implicazione del suo essere bene comune sulle forme giuridiche della sua futura gestione? Innanzitutto va detto che il Teatro Valle è oggi, proprio come il territorio della Valle di Susa e l'acqua bene comune, uno straordinario laboratorio costituente di una nuova legalità, alternativa tanto alla logica costituita del profitto (privato) quanto a quella del potere (pubblico). Il Teatro Valle acquista senso come bene comune in quanto funzionalizzato oggi, nell’ambito di un fondamentale atto di lotta e di coscienza collettiva, al grande disegno, destinato ad avere ricadute intergenerazionali evidenti, di dotare anche l'Italia di un centro dedicato alla elaborazione di una propria drammaturgia (ne ha scritto su questo giornale, Gianfranco Capitta il 6 luglio).

La narrazione che facciamo del presente trasmetterà il testimone della nostra cultura a chi verrà domani, proprio come oggi noi abbiamo maturato la nostra identità collettiva sulle spalle dei nostri antenati. Questa prospettiva di lungo periodo dà senso all'idea che la cultura è un bene comune, qualcosa che va ben oltre l'asfittica idea del «qui e adesso» che caratterizza la logica aziendalistica che si è impadronita della narrazione dominante negli ultimi vent'anni. La «buona azione civile» degli ocupanti del Teatro Valle, come quella dei manifestanti No Tav, degli attivisti referendari, e di tanti altri cittadini attivi nelle vertenze aperte nel paese (dal movimento dei precari dell'Università, alla lotta contro gli inceneritori, a quella contro le basi Nato, per il recupero democratico dell'Aquila o contro lo sfruttamento sui luoghi di lavoro) mostra che in Italia oggi si sta diffondendo una nuova egemonia dei beni comuni. Questa nuova egemonia, deve potersi rappresentare in forme drammaturgiche nuove, anche per riscattarci a livello internazionale dei nostro modo particolarmente vergognoso di interpretare il ventennio della «fine della storia» (che di per sé costituisce una fase assai vergognosa del cammino dell'uomo occidentale).

Il contributo del Teatro Valle occupato a questo recupero di immagine internazionale del paese è già adesso importante (eccezionale il numero e la qualità degli attestati di solidarietà internazionale già incassati dagli occupanti); lo sarà molto di più se la battaglia sarà vinta e il «Centro di Drammaturgia Italiana» sarà realizzato. Soprattutto sarà un contributo inestimabile se questo esempio virtuoso saprà contaminarne altri, (occorrono pratiche serie di occupazione dei beni comuni: penso al centro sociale Tijuana di Pisa) fino a costruire una rete capace di riconquistare la cultura come bene comune (con tutte le ricadute politiche, culturali ed economiche di una tale impresa). Il Teatro Valle si candida a divenire, in questa fare storica italiana in cui, grazie alla nuova consapevolezza dei beni comuni una nuova egemonia si sta configurando, una delle più interessanti pratiche di governo democratico dei beni comuni. Una pratica che, godendo di una relativa calma rispetto alla brutalità poliziesca con cui altre declinazioni dei beni comuni vengono affrontate (l'esempio del territorio della «Libera Repubblica della Maddalena» insegna), si sta affinando ed ambisce a proporsi come modello di riferimento per per ogni progetto alternativo di gestione della cultura.

Deliri neoliberisti di onnipotenza

Il Valle è il più antico teatro di Roma, e si colloca propro nel centro della città alle spalle del Senato. L'occupazione fin dall'inizio ha visto coinvolte personalità importanti del mondo della cultura e dell'arte ed è stata destinataria di una buona copertura mediatica. L'occupazione è iniziata subito dopo la vittoria referendaria del 13 giugno, che ha mostrato in modo non equivoco che la maggioranza del paese si rende conto che la retorica sulla «fine della storia» ha perso la sua forza performativa e che ocorre adesso «invertire la rotta» rispetto ai delirii di onnipotenza del neoliberismo.

Gli occupanti del Teatro Valle inoltre hanno da subito dimostrato un talento incredibile nell'interpretarlo come «bene comune», offrendo gratuitamente alla cittadinanza una programmazione di buon livello ed un luogo sempre aperto di dibattito politico e culturale. È impossibile, per chiunque ci passi anche solo una sera, non voler bene alle ragazze e ai ragazzi che con grande sacrificio personale si battono per scongiurare la privatizzazione ed il conseguente scempio di questo magico «luogo comune» faro della cultura italiana fin dala metà del XVIII secolo. Inoltre, non è in vista qui, almeno nell'immediato, un'opportunità (irresistibile per tanti spiriti miserabili che ci governano) di arraffare, a qualunque costo sociale, una grande quantità di denaro pubblico come nel caso del tunnel della Tav, sicché l'urgenza di sgomberare con la violenza sembra meno pressante che altrove. Un attacco militare al Teatro Valle lo trasformerebbe inevitabilmente in una piazza Tahir di casa nostra, sicché il nostro regime agonizzante farà bene a guardarsi dal correre questo rischio.

In questo contesto ci sono le condizioni di relativa stabilità che consentono di apprezzare pienamente e trasformare in un progetto giuridico le caratteristiche del Valle come bene comune. L'itinerario discusso nel corso dell'occupazione potrebbe articolarsi in una serie di «fasi giuridico-formali» all'interno delle quali tuttavia la sostanza del bene comune, declinato per così dire dal sotto in su, caratterizza l'intiero procedimento, mantenendo un sistema flessibile ed adattabile alle esigenze della lotta. Il senso del percorso sarebbe quello di riempire di significato «dal basso» i forti appigli costituzionali che non solo promuovono la cultura, l'identità e la libera espressione a «bisogni fondamentale della persona» ma che (il riferimento è all'articolo 43 della Costituzione) legittimano percorsi di autogestione ad opera di utenti e lavoratori, rendendo il nostro processo «costituente» dei beni comuni l'attuazione (in ritardo) di un disegno e di una visione costituzionale di lungo periodo fino ad oggi tradita in modo bipartisan. Fra gli strumenti di autonomia attraverso i quali si forgia il diritto delle persone, (il diritto dei privati si diceva un tempo) ve ne sono alcuni nettamente interpretabili in quello spirito del «noi», collettivistico, solidaristico, plurale ed ecologico (ma sempre attento a non tarpare le ali agli spiriti liberi) che rende già oggi il Valle un bene comune.

La sostanza costituzionale

In questo spirito del «noi», attento ai diritti e agli obblighi costituzionali nei confronti degli altri e della comunità ecologica di riferimento, i beni comuni sono funzionalizzati alla soddisfazione di bisogni fondamentali della persona, collocati fuori commercio, e governati anche nell'interesse delle generazioni future, come previsto dal disegno di legge delega presentato dalla Commissione Rodotà sui beni pubblici. Questo programma di governo ecologico dei beni comuni è indifferente rispetto alla forma giuridica pubblicistica o privatistica, perché entrambe sono forme in quanto tali compatibili o incompatibili con la sostanza costituzionale dei beni comuni. In effetti, l'azienda pubblica può essere verticistica, partitocratica e burocratica e l'ingerenza bruta del ceto politico su scelte che dovrebbero fondarsi sul sapere e non sul potere è stata più volta stigmatizzata dagli occupanti del Teatro Valle.

D'altra parte, la gestione privatistica for profit, in un contesto quale quello della drammaturgia di qualità che certamente non può produrre profitti diretti, altro non farebbe che causare l'ennesimo trasferimento di risorse pubbliche ad interessi privati ed è questa la ragione per cui al Valle occupato si avversa la «messa a gara» della gestione. Chi scrive sta lavorando assieme agli occupanti su un processo di istituzionalizzazione del «Valle bene comune» studiando le nuove forme di governo partecipato dei beni comuni che rompano con la logica della distinzione fra titolo di proprietà e gestione inserendo garanzie effettive di un governo del teatro che sia incentrato allo spirito dell'apertura, della trasparenza (codice etico) e della corresponsabilità politico-culturale solidale. Il primo passo sarà probabilmente la costituzione di un «Comitato per il Valle Bene Comune» che metta da subito in pratica, embrionalmente almeno, le garanzie e le forme di governo che potrebbero portare ad una «Fondazione Pubblica Valle Bene Comune», dotata di un proprio fondo, di un proprio organico non precarizzato, e di proprie modalità di funzionalmento aperto. Tale struttura, capace di collegare intimamente il bene culturale comune alla comunità di utenti e lavoratori che gli danno vita, potrà lottare, nelle forme del diritto e non più sontanto in quelle della politica, per conquistare un diritto soggettivo di natura costituzionale (e quindi sottratto alle variabili contingenze della politica rappresentativa) ad un equo e trasparente finanziamento pubblico di lungo periodo, possibilimente sotto l'Alto Patronato della Presidenza della Repubblica.

La partita è ancora lunga ed affascinante e l'occupazione ne è parte irrinunciabile. Ne vale la pena.

Ecco le tesi che il filosofo Bodei presenta domani al ciclo "Le Parole della Politica" sul tema del rapporto tra noi e gli altri - La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo di quelle comunità che sono determinate ad essere se stesse - Più il mondo si allarga più si tende a reagire con la paura e l´egoismo con la paradossale rinascita di piccole patrie

Da termine filosofico e matematico per designare l´eguaglianza di qualcosa con se stessa il termine identità è passato a indicare una forma di appartenenza collettiva ancorata a fattori naturali (il sangue, la razza, il territorio) o simbolici (la nazione, il popolo, la classe sociale). Ci si può meravigliare che esistano persone, per altri versi ragionevoli e sensate, che credano a favole come l´"eredità di sangue" o l´autoctonia di un popolo, che si inventino la discendenza incontaminata da un determinato ceppo etnico o la sacralità dell´acqua di un fiume. Eppure, si tratta di fenomeni da non sottovalutare e da non considerare semplicemente folkloristici e ridicoli.
Si potrebbe obiettare - come hanno notoriamente mostrato eminenti storici - che la maggior parte delle memorie ufficiali e delle tradizioni è non solo inventata, ma molto più recente di quanto voglia far credere. Tuttavia, le invenzioni e i miti, per quanto bizzarri, quando mettono radici, diventano parte integrante delle forme di vita, delle idee e dei sentimenti delle persone. (...) Bisogna capire a quali esigenze obbedisce il bisogno di identità, perché esso sia inaggirabile in tutti i gruppi umani e negli stessi individui, perché abbia tale durata e perché si declini in molteplici forme, più o meno accettabili.

Da epoche immemorabili tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli "altri". La formazione del "noi" esige rigorosi meccanismi di esclusione più o meno conclamati e, generalmente, di attribuzione a se stessi di qualche primato o diritto. La xenofobia rappresenta il risvolto più rozzo ed elementare della compattezza di gruppi e comunità che si sentono o si vogliono diversi dagli altri e che intendono manifestare per suo tramite la propria determinazione ad essere se stesse. Essa è l´espressione di un forte bisogno di identità, spesso non negoziabile.


Sebbene si manifesti attraverso un´ampia gamma di sfumature, nella sua dinamica di inclusione/esclusione, l´identità è sempre intrinsecamente conflittuale. Realmente o simbolicamente, circoscrive chi è dentro una determinata area e respinge gli altri. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ciascuna società deve lasciare aperte alcune porte, prevedere dei meccanismi opposti e complementari di inclusione dell´alterità. Lo straniero è così, insieme, ponte verso l´alterità e corruttore della compattezza dei costumi di una determinata comunità.
Per orientarsi e capire, occorre distinguere tre tipi di identità.

La prima si esprime in una specie di formula matematica "A=A": l´italiano è italiano e basta, il rumeno è rumeno è basta. Tale definizione naturalistica, auto-referenziale e immutabile, è la più viscerale ed ottusa, incapace di accettare confronti tra la propria e le altre comunità, di cui non vede letteralmente i pregi, ma che anzi sminuisce e disprezza. Essa fa costantemente appello alle radici, quasi che gli uomini siano piante, legati al suolo in cui nascono o, come credevano gli ateniesi antichi, quasi siano sbucati dal suolo come funghi.
In generale, più una società diventa insicura di se stessa, più vengono meno i supporti laici della politica. In tal modo, più si produce una specie di malattia del ricambio sociale, che si materializza nel rifiuto di assorbire l´alterità, e più si proiettano sullo straniero, che magari proviene da popoli di antica civiltà, le immagini del selvaggio, del nemico pericoloso. Certo i vincoli di appartenenza sono necessari a ogni gruppo umano e a ogni individuo, ma non sono naturali (come potremmo sopravvivere se non sapessimo chi siamo?): sono stati costruiti e sono continuamente da costruire, perché l´identità è un cantiere aperto. Per questo la nostra identità non può più essere quella che auspicava Alessandro Manzoni, nel Marzo 1821, per l´Italia ancora da unire: "Una d´arme, di lingua, d´altare,/ Di memorie, di sangue e di cor". Oggi alcuni di questi fattori non sono più richiesti, tranne la "lingua", anche per motivi pratici, e, possibilmente, il "cor", l´Intimo sentimento di appartenenza. La religione, soprattutto, non rappresenta più un fattore discriminante per ottenere la piena cittadinanza e non caratterizza (o non dovrebbe più caratterizzare) l´intera persona come soltanto "mussulmano" o "cristiano". 


Il secondo modello si basa sulla santificazione dell´esistente per cui, quello che si è divenuti attraverso tutta la storia ha valore positivo e merita di essere esaltato. Si pensi al Proletkult sovietico degli anni Venti: il proletario è buono, bravo, bello. Si dimenticano così le ferite, le umiliazioni, le forme di oppressione, le deformazioni che la storia ha prodotto sulle persone. Lo stesso è accaduto nel proto-femminismo: la donna è da santificare così come è divenuta. Anche qui si trascura quanto dicevano, in maniera opposta, Nietzsche e Adorno. Secondo Nietzsche, quando si va da una donna, non bisogna dimenticare la frusta. Al che Adorno, giustamente, osservava che la donna è già il risultato della frusta. 


Il terzo tipo di identità, quello che preferisco e propongo, è rappresentato da un´identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l´identità individuale e collettiva si esalta. Bisogna avere accortezza e pazienza politica nell´inserire nel tessuto sociale individui e gruppi finora esclusi, perché al di fuori dell´integrazione non esistono realisticamente altre strade praticabili. Integrazione non vuol dire assimilazione, rendere gli altri simili a noi, ma non vuol dire nemmeno lasciarli in ghetti, in zone prive di ogni nessun contatto con la popolazione locale. Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l´idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l´esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall´egoismo, con la rinascita di piccole patrie.

La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. La possibilità di intervenire nel processo decisionale, di avere voce nelle decisioni che contano, si può realizzare sia con la partecipazione diretta, sia attraverso forme di rappresentanza.

In tema di decisioni che toccano l'esistenza del maggior numero di membri d'una collettività, di tutti noi, viene naturale includere diversi aspetti attinenti all'economia, o ad essi strettamente correlati. Tra le decisioni che incidono sulla nostra esistenza ritroviamo: il tipo di manufatti e di servizi che vengono prodotti; i luoghi della produzione degli uni e degli altri; le condizioni di lavoro in cui vengono prodotti nel nostro paese o all'estero; la possibilità per ciascuno di noi e per i suoi figli di trovare quanto prima un lavoro stabile, adatto al proprio talento e grado di istruzione.

E ancora, la produzione degli alimenti di cui ci nutriamo, la loro provenienza, il modo in cui vengono distribuiti, dal negozio all'angolo all'outlet grande come un campo di calcio; il costo di ciascuno di questi beni e servizi; il tipo di mezzi di trasporto di cui dobbiamo servirci, insieme con la loro comodità e costo; la qualità dell'aria che respiriamo e dell'acqua che beviamo; gli abiti che indossiamo; il tipo di abitazione in cui viviamo, la sua collocazione e i mobili con cui è stata arredata; l'intensità fonovisiva nello spazio e nel tempo della pubblicità, cui sono esposti i nostri figli sin dai primissimi anni; il modo in cui il sistema finanziario si collega all'economia reale; il modo in cui sono gestiti i nostri risparmi a scopi previdenziali; e, per finire, la struttura sociale della comunità di cui facciamo parte.

Nelle condizioni che prevalgono da decenni nell'economia e nella società un'osservazione si impone: la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono nei campi ricordati sopra. Il soggetto che direttamente le prende o che indirettamente determina il corso delle decisioni stesse, è la grande impresa, industriale e finanziaria, non importa se italiana e straniera. Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia.

A questo proposito un uomo politico di primo piano ebbe a dire tempo addietro: «La libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile. Oggi tra noi sta crescendo una concentrazione di potere privato senza uguali nella storia. Tale concentrazione sta seriamente compromettendo l'efficacia dell'impresa privata come mezzo per fornire occupazione ai lavoratori e impiego al capitale, e come mezzo per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni tra il popolo della nazione tutta».

L'uomo politico di cui ho appena citato un discorso era il presidente americano Franklin D. Roosevelt. Correva l'anno 1938. Roosevelt era preoccupato perché l'impresa privata creava sempre meno occupazione, e contribuiva a concentrare il reddito in poche mani anziché distribuirlo. Era ancor più preoccupato per le sorti della democrazia a fronte della crescita di un potere privato arrivata al punto di diventare più forte dello stesso Stato democratico. Dopo un interludio durato pochi decenni, la preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata, in tutti i sensi. Sia in campo industriale che in campo finanziario poche decine di corporation dalle dimensioni smisurate sono giunte a formare il vero governo del paese. Se non in tutti, in molti campi della vita civile la democrazia in Usa è stata svuotata di senso.

Le leggi escono dal Congresso, ma le indicazioni per scriverle provengono notoriamente dalle corporation industriali e finanziarie. Le quali hanno speso tra l'altro 500 milioni di dollari per sostenere nel 2008 la campagna elettorale di ambedue i candidati alle presidenziali; 300 milioni per rendere il meno incisiva possibile la riforma di Wall Street del 2010; e altrettanti per tentare di bloccare la modesta riforma sanitaria voluta dal presidente Obama. Con la previsione che, essendo mutata nel novemnre 2010 la composizione del Congresso, quasi sicuramente vi riusciranno nel prossimo futuro.

Chi ha avuto la peggio sono stati i lavoratori americani. Lavorano almeno duecento ore l'anno più degli europei, e i loro salari, in termini reali, sono pressocché al livello del 1973 - quasi quarant'anni fa. Una delle cause è stato il trasferimento di interi settori manifatturieri dai paesi sviluppati a quelli emergenti, con la perdita di decine di milioni di posti di lavoro. Grazie alle delocalizzazioni gli Stati Uniti hanno praticamente smantellato buona parte della loro industria manifatturiera. Al presente negli Usa risulta quasi scomparsa la produzione di settori che pochi decenni fa dominavano con le loro esportazioni, oltre al mercato interno, gran parte dei mercati occidentali. Tra di essi figurano comparti di dimensioni gigantesche quali gli elettrodomestici; i televisori e l'alta fedeltà; i computer e i microprocessori; i telefoni cellulari; l'abbigliamento; i giocattoli.

In merito a tutto ciò, non risulta che quei lavoratori abbiano avuto la minima possibilità di fare sentire la loro voce, e meno che mai - salvo sporadici casi locali - di intervenire con qualche efficacia in decisioni che sconvolgevano la loro esistenza, le loro famiglie, la loro comunità. Pertanto è davvero arduo capire come il caso americano ci possa venire solennemente presentato da manager e politici italiani come una forma di modernizzazione delle relazioni industriali. È ancora più arduo capire - o forse sbaglio: è fin troppo facile - come, in Italia, tra le file dell'opposizione non si sia levata finora una sola voce per rilevare che il potere eserecitato dalle corporation sulle nostre vite configura un tale deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca.

Nell'Ue possiamo coltivare ancora per qualche tempo la nostra distrazione dinanzi allo svuotamento che il sistema economico e finanziario ha effettuato della democrazia reale, grazie al fatto che tra la fine della guerra e i secondi anni Settanta robuste iniezioni di democrazia nel sistema economico sono state effettuate per via di diversi fattori concomitanti. Tra di essi ricorderei le lotte dei lavoratori e il peso che avevano allora i sindacati anche come numero di iscritti; la presenza nei parlamenti europei di robusti partiti di sinistra; il peso nelle formazioni di centro dei cattolici progessisti; un certo numero di imprenditori e di manager pubblici che preferivano affrontare con i sindacati vertenze lunghe e aspre piuttosto che buttare sul tavolo documenti della serie «prendere o lasciare».

Senza dimenticare che l'ombra dell'Orso sovietico a oriente tendeva a rendere più malleabili le confindustrie di tutti i paesi dell'Europa occidentale. I risultati si sono visti. Il sistema sanitario nazionale; lo sviluppo del sistema pensionistico pubblico; le riduzioni d'orario, a cominciare dal sabato interamente festivo; il miglioramento delle condizioni di lavoro; lo Statuto dei lavoratori, rappresentarono tutti pezzi di democrazia reale che furono estorti alla grande impresa, o che essa - se si preferisce - fu indotta a concedere.

Ora la grande impresa si sta battendo per riconquistare il terreno perduto tra il 1950 e il 1980. Di fronte le si aprono praterie senza confini. La preoccupante ombra dell'Orso è scomparsa. I partiti di sinistra sono peggio che scomparsi: anche quando si sforzano di dire qualcosa di sinistra si intravvede subito, in Italia come in Francia, nel Regno Unito come in Germania (in questo caso, bisogna dire, con l'eccezione della Linke), che sono diventati i migliori interpreti degli interessi della grande impresa ai tempi della globalizzazione. In tutti i paesi i sindacati sono indeboliti dal calo degli iscritti - in media oltre la metà, nell'industria manifatturiera - e dalla divisione tra chi propende alla collaborazione prima ancora di cominciare una vertenza, e chi preferisce invece ragionare in termini di composizione caso per caso di un conflitto che è storicamente strutturale, e strutturalmente irrisolvibile - salvo si preveda un'uscita dal capitalismo.

Quel che si configura nel nostro paese come in tutta l'Ue a 15 è un arretramento non solo delle relazioni industriali ma dell'intero processo democratico. Un arretramento di tale portata da essersi verificato, nella storia, soltanto quando un sistema politico democratico è stato sostituito da una dittatura. A guardarlo con occhio distratto, come un po' tutti siamo inclini a fare, il percorso pare innocuo. La globalizzazione, si afferma, esige che si riducano i diritti, i salari, lo Stato sociale per fare fronte al potere economico dei paesi emergenti. La grande impresa contribuisce al percorso attribuendo ad esso un carattere di ineluttabilità: non esistono alternative; sono in gioco grandi investimenti e molti posti di lavoro; non possiamo far altro che adattarci alla logica dell'economia. In realtà, non di logica economica si tratta, bensì di potere politico. Il fatto di sottrarre progressivamente ai lavoratori ogni residua possibilità di partecipazione alla determinazione di orari, salari, condizioni di lavoro e altro preannuncia la sottrazione a tutti della possibilità di partecipare a qualsiasi decisione di qualsiasi rilevanza in qualsiasi ambito. Preannuncia, in altre parole, la sottomissione a un potere totale.

La privatizzazione di ogni cosa, dalla previdenza alla scuola e all'acqua, che sono uno degli ultimi campi da cui la grande impresa può puntare ad estrarre un valore elevato perché da noi sono campi ancora poco lavorati, è un altro passo intermedio significativo. Ed è stupefacente notare anche qui come il centro-sinistra lo consideri un tema economico, laddove si tratta di un vitale snodo politico. Privatizzare beni comuni, infatti, significa sottrarre ai cittadini un ampio terreno di partecipazione politica, di esercizio della disciplina democratica, per trasferirlo pari pari alla discrezione della grande impresa. Potrebbe quindi essere giunto il momento di discutere dei modi in cui il potere oggi debordante della grande impresa dovrebbe essere sottoposto a regole, al pari di qualsivoglia altro centro di potere. Avendo in vista un sommesso proposito: ridare vitalità, senso, contenuti quotidiani, motivi di attrazione culturale e morale all'idea di democrazia.

(Il testo è un'anticipazione del numero di Micromega in edicola da oggi. All'interno del giornale, una tavola rotonda sul post-elezioni con il direttore Paolo Flores D'Arcais, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il leader di Sel Nichi Vendola. Ancora, gli economisti Pietro Ichino e Stefano Fassina, e il giuslavorista Piergiovanni Alleva, si interrogano sulle vie d'uscita dalla precarietà. Infine, a dieci anni dal G8 di Genova Pierfranco Pellizzetti intervista Salvo Montalbano, il personaggio di Andrea Camilleri)

Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è – parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne – questa complicità degli oppressi con l´oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome – apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d´essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s´impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l´opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.

a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L´uomo-massa è l´espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L´ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato". Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l´autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l´affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell´Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell´immagine, è certo più pericolosa di allora. L´individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d´essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?

b) L´opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d´essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d´essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t´accorgi d´essere prigioniero d´una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo. Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?

c) L´uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l´ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell´ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti. La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d´esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell´immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria. Su questa massa solitaria s´innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E´ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell´età infantile?

d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l´uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po´ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l´essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell´esistenza. Il "pane terreno" che l´uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E´ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?

Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l´insidiano "liberamente", dall´interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all´apparenza; l´opportunista, alla carriera; il gretto, all´egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d´omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà. La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l´amore per la diversità; l´opportunismo, con la legalità e l´uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.

Che cosa è davvero il passaggio tra le generazioni? E come si può raccogliere il testimone senza essere schiacciati dal passato? Ecco una riflessione sul tema Il testamento non è un trasmettere "cose" ma un’alleanza con chi se ne va, firmatario di un patto tutto da provare Nel lascito avviene questo: si fa posto a quelli che verranno con lentezza, profondità, mitezza, come in una corsa a staffetta

Che eredità lasciamo a chi viene dopo? E cosa significa precisamente: lasciare, e eredità? Cominciamo con l’atto del lasciare: è la parola chiave nel passaggio da una generazione all’altra, dalla vita alla morte. Rimanda al latino laxus, e indica quel che s’allenta, si fa spazioso. Laxus è il contrario di teso, è la distensione che fa seguito alla tensione. Implica capacità di abbandonare, allontanarsi. Si lascia ad altri quel che non si porta con sé, dunque lasciare è anche un dischiudere, permettere. È una messa in libertà. Un capovolgere valori costituiti. Ricordo la bellissima triade di Alexander Langer: al precetto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), che secondo lui rappresentava «la quintessenza dello spirito della nostra civiltà», egli contrappose un comandamento alternativo: lentius, profundius, suavius. Nel lascito avviene questo: si fa posto alle generazioni successive. Con lentezza, profondità, mitezza.

Viene in mente l’esperienza della corsa a staffetta. Ciascun concorrente (detto frazionista) deve percorrere una frazione, e trasmettere un bastone al subentrante. Il bastone si chiama, guarda caso, testimone. La regola vieta di lanciare al compagno il testimone nelle zone di passaggio, e fissa regole precise sulla sua caduta (se cade può raccoglierlo solo chi l’ha perduto: l’incapace di tramandare). Anche nel passaggio tra generazioni è così: la consegna del testimone avviene in seguito a tocco, con la mano, del corpo del concorrente in partenza da parte del concorrente in arrivo.

Il testimone è l’eredità: è quello che lasciamo all’altro, perché inizi la sua corsa. L’eredità non è lanciata per aria, ma bisogna toccare con mano, pensare, l’umanità dopo di noi. La trasmissione avviene in speciali zone di scambio, creando quel particolare alternarsi di distensione e tensione che caratterizza la gara di staffetta. Comunemente, ereditare rinvia alle cose di cui ci si impossessa, per amore o avidità. Altro è tuttavia il significato di eredità. La parola rinvia a chèros, che in greco significa vuoto, privo, deserto. Di conseguenza ereditare non è impossessarsi, ma un esperire il vuoto, la separazione, la vedovanza. Un ereditare spirituale, come quello del profeta Eliseo che chiede a Elia, prima che questi sia rapito in cielo: «Due terzi del tuo spirito siano in me». Ed Elia risponde che anche questi due terzi sono «cosa difficile», ottenibili a una condizione: che Eliseo colga l’Occasione, quando si presenterà, e guardi Elia strappato verso il cielo. Che si faccia veggente di cose che vengono tenute nascoste, che dica quello che altri non dicono.

Perché si possa «ereditare», occorre aver sentito il vuoto come terribile cesura, senza nascondere il trapasso, e aver «visto», in anticipo, l’inizio di una nuova corsa. Occorre che nel passaggio l’erede sia stato toccato, designato, perché questi non si senta un diseredato. Si parla con timore e tremore, sempre, del conflitto fra generazioni. Ma tale conflitto è evento naturale e necessario. Non ci sarebbe passaggio del testimone se non esistesse una differenza radicale, fra chi termina la corsa distendendosi e chi nell’irrequietezza la comincia.

Difficile la condizione dell’erede, del frazionista. Perché nulla si eredita, se non sostiamo pieni di discrezione ma anche inquietudine davanti al vuoto lasciato dalla persona amata, che vive in noi quando muore ma non entra mai completamente in noi, dandoci la serenità che tanto viene incensata. Non di serenità c’è bisogno ma di malinconia, ricorda Jacques Derrida, perché solo la malinconia resiste all’impossessamento-oblio del morto. Questi permane in tutta la sua diversità, chiedendo che ferita e vuoto rimangano aperti, anziché chiusi in fretta come facciamo quando il lutto è vissuto come appropriazione, non come chiamata e preparazione. Infatti c’è una preparazione alla morte e anche una preparazione al sopravvivere (in psicologia si chiama lutto anticipatorio). Il trapassato chiede di vivere in noi, non in fusione con noi. Preservare il vuoto che deposita ai nostri piedi, dargli un posto e una dignità, significa riconoscere che l’alterità della persona dura oltre la vita. Non a caso il testamento non è un trasmettere cose ma un’alleanza con chi se ne va: presenza, voce, firmatario di un patto tutto da provare.

Il patto non si limita a preservare la memoria: suscita l’erede, lo mette di fronte a prove che lo schiacciano o lo arricchiscono. L’erede può riempire questo vuoto con il potere (sopravvivere è sempre una presa di potere sul morto: una colpa, secondo Lévinas). Può incorporarlo fino a soffocarne l’alterità: vivere il lutto è spesso trasformare la sua morte in mia esperienza. Dal vuoto bisogna dunque partire, ma non fermarsi lì, perché altrimenti identifichiamo il morto con il nulla e uccidiamo lui e quello che tramanda. Non ci resta solo il vuoto, ma anche la scoperta dell’Occasione, e l’invito a farsi veggenti, a dire l’indicibile. Resta l’obbligo di trasformare la colpa del sopravvivente in debito, in responsabilità. Per questo l’immortalità è una felice invenzione, che ci si creda o no. Felice è il pensiero che la sottende: esiste un aldilà dell’Io. Il bello, nell’idea di immortalità, è che essa è un freno contro la cannibalizzazione del morto e la passività dell’erede.

La parola defunto è insidiosa: chi è defunto smette letteralmente le proprie funzioni, le consegna a altri. Invece lasciar vivere l’alterità del morto è dare una permanenza alle sue funzioni: che si esercitano in altro modo, che hanno bisogno di aiuto per non sparire, e non sono però mai del tutto catturabili, trasferibili. Spesso diciamo: il trapassato che ci era caro «direbbe oggi...». È esaltante parlare in sua vece. Ma dobbiamo saper discernere il limite rappresentato da un’alterità non uccisa dalla fine della vita, e non utilizzabile.

Mi soffermo sulla morte perché è un’esperienza forte di amicizia, fra persone e generazioni: l’eredità crea un intreccio di obblighi, una reciproca malinconica messa in libertà. Si trasmette col testamento una tensione, la propria: e la trasmissione è un lasciare la presa, un passaggio dal «più veloce, più alto, più forte» al «più lento, profondo, mite». Se affronti la morte dell’altro con questo motto, senza prevaricazioni o identificazioni, puoi salvare quel che sì, puoi interiorizzare: non la sua persona ma la relazione tra io e l’altro. Se non ci si riesce, sarà difficile sfuggire al destino che Rilke descrive nella settima Elegia Duinese: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo. Non confonda noi questo; ci rafforzi nel conservar la figura, che ci fu dato di riconoscere ancora».

Credo che dell’Utopia si sia ragionato anche troppo: anzi, più che ragionato, ideato utopie che, per l’appunto, sono risultate utopiche. Che poi il concetto e il nome di utopia siano stati coniati con il famoso volume di Sir Thomas Moore (Tommaso Moro) nel 1516, qualsiasi enciclopedia o Internet ce lo spiegano ampiamente. Eppure alcuni dati, più che altro glottologici, ancora rimangono e forse possono chiarire meglio un argomento così dibattuto. Ecco, già al tempo della sua identificazione, non c’è dubbio che il bravo Sir Thomas, da buon inglese, avrà pronunciato il termine, col miglior King’s English «jutópia» creando immediatamente l’equivoco di identificarla con l’ «eutopia» ossia con una buona utopia.

Mentre purtroppo è proprio l’opposto che si verifica: la maggior parte delle brillanti ipotesi utopiche sono fallimentari; dalla «Città del sole» di Tommaso Campanella al New World di Huxley, dalla Nuova Atlantide di Bacon, alla città sospesa di Yona Friedman. Anche se, per fortuna, Brasilia è stata realizzata, per non parlare del viaggio sulla Luna (anche se degli Ufo non c’è stata traccia). Che l’argomento dell’ «utopia» e dell’ «eutopia» (e io parlerei anche di «distopia» a proposito di tutte le «cattive utopie» ) sia ancora sempre attuale lo ha dimostrato un recente ciclo di seminari dedicati appunto ai vari settori dell’argomento (da quello sociologico all’artistico, dal letterario all’economico ecc.) promosso dall’Università di Urbino e da quel Dipartimento di Scienze della Comunicazione diretto dalla sapiente e vivace iniziativa della direttrice professoressa Lella Mazzoli, che ha chiamato a raccolta molti dei più impegnati «utopologi» italiani.

Del resto bisogna convenire che la stessa città di Urbino è un esempio vivente di pensiero utopico (in questo caso eutopico) quando si rifletta come una cittadina di 10 mila abitanti si sia trasformata in uno dei maggiori e più rinomati centri universitari di ben 20 mila studenti, in buona parte in seguito alla illuminante veggenza utopica di Carlo Bo. Come è noto la parola attorno alla quale stiamo ragionando è derivata dal greco ou topos (ossia «non luogo» ) a indicare una località, evento, situazione che è «fuori luogo» . Qualcosa di molto diverso, come si vede, dai «non luoghi» di Marc Augé i quali, per contro, sono semmai degli «iperluoghi» : sono dunque delle utopie del tutto — e anche troppo— realizzate.

Mi sembra infatti che uno degli equivoci nel voler considerare gli aspetti positivi e negativi delle ipotesi futuribili tanto spesso decantate e osannate (da Orwell a Huxley, dalle sette mormoniche alle pseudoreligioni e alle visioni apocalittiche) sia quello di non avere, per contro, tenuto conto di quante delle situazioni — soprattutto socio-religiose — che ci circondano siano, in effetti, soltanto delle grosse ipotesi utopiche e non debbano ottenere la considerazione e il rispetto che le circonda. Certo non è facile distinguere e precisare quali delle grandi ipotesi sociologico-politiche siano — o siano state — positive; mai come in questo caso: ai posteri l’ampia sentenza.

Eppure, per non fare che un solo esempio che può valere per decine di altri, perché non avere il coraggio di dire che lo stesso nazismo hitleriano è stato, dopo tutto, soprattutto una possente utopia? Con quali risultati tutti sanno (o dovrebbero sapere); ma indubbiamente il meccanismo malefico è iniziato con tutte le stigmate che accompagnano alcune delle più tipiche utopie. Sicché potremmo concludere notando come siamo sempre vissuti, e continueremo a vivere, basandoci su degli elementi e delle situazioni «fuori luogo» , che ci permettono più che altro di accontentare la nostra smania del mistero e le nostre speranze nell’irrealizzabile.

Gli stereotipi sulla deriva narcisistica di quella esperienza sono vecchi di trent'anni. E scambiano un movimento enorme con la parabola di pochi Nessuna esperienza storica è stata più pronta a recepire la cultura del limite elaborata dai teorici ambientalisti. Contro lo sviluppo a ogni costo

I trent'anni che la pubblicistica ha definito «gloriosi» erano stati caratterizzati in Occidente dall'egemonia del fordismo: la concentrazione dei lavoratori in grandi stabilimenti integrati, l'omogeneizzazione delle loro condizioni, la parcellizzazione e il degrado del loro lavoro, l'impiego a tempo indeterminato, la localizzazione degli stabilimenti nei paesi "sviluppati". Parallelamente all'organizzazione del lavoro fordista, la scolarizzazione di massa era stata proposta e vissuta come un "ascensore sociale" in grado di trasformare, nell'avvicendarsi delle generazioni, i contadini in lavoratori dell'industria, gli operai in impiegati e gli impiegati in quadri, manager o in o liberi i professionisti: per alcuni decenni era stata questa la risposta del sistema alle aspettative di emancipazione sociale delle classi sfruttate. Fabbrica, scuola e welfare avevano costruito nei paesi dell'Occidente un contesto di relativa stabilità e sicurezza per tutti. Ma i costi del welfare, la crescita dei salari e, soprattutto, la modificazione, "concertata" o conflittuale, dei rapporti di forza nelle fabbriche avevano finito per erodere i profitti delle imprese, mentre la saturazione dei posti qualificati offerti dall'organizzazione del lavoro aveva messo in crisi il mito della scuola come ascensore sociale, aprendo le porte a una conflittualità studentesca che dalla Cina agli Stati Uniti, dall'Europa all'America latina, aveva contrassegnato tutta la seconda metà degli anni Sessanta.

I trenta e più anni successivi hanno visto il sistematico frazionamento delle grandi unità produttive, la progressiva differenziazione dei rapporti di lavoro, la delocalizzazione di attività sia manifatturiere che terziarie, la precarizzazione non solo dell'impiego, ma di tutti gli aspetti dell'esistenza nel quadro di una crescente finanziarizzazione del capitale. Il meccanismo della concorrenza si è così progressivamente esteso dalle imprese, soggetto ormai unico della scena e dell'attenzione sociale, ai lavoratori, sia autonomi che dipendenti, in una lotta darwiniana di tutti contro tutti che ha trasformato i problemi creati dalla società in vicende biografiche da risolvere individualmente. Questa trasformazione è stata accompagnata da un processo di sostanziale descolarizzazione, pur salvaguardando in alcuni paesi - non nel nostro - i contenuti tecnici e professionali della formazione; ma sempre nel quadro di una svalutazione dei contenuti culturali, sociali e civili dell'educazione. Così l'organizzazione della produzione ha smantellato una delle conquiste più importanti del periodo precedente, la sicurezza del lavoro, del reddito e dell'esistenza, instaurando nel mondo un clima di paura di tutti per tutti e di tutto.

Un approccio materialistico a quella inversione di rotta non può evitare di vedervi una reazione del capitale e dei governi alle conquiste delle lotte operaie, studentesche, e di molte altre categorie sociali, che avevano sconvolto tutta la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Ma anche, e soprattutto, l'avvento di una nuova tecnologia, quella della "Rete", che ha avuto e ha sulla storia del mondo un'influenza non inferiore a quella della macchina a vapore nel promuovere la rivoluzione industriale. Oggi la rete ha un ruolo decisivo nel promuovere collegamenti, organizzazione e rivolta in molti dei processi sociali che attraversano l'alba del nuovo secolo. Ma ha avuto - e da tempo - un'influenza assai più profonda nel disegnare i caratteri della globalizzazione degli ultimi decenni del secolo scorso e del primo decennio di questo; che non è concepibile senza la Rete, come mera estensione a gran parte del mondo di rapporti di produzione fondati sul lavoro salariato. Internet ha da tempo immesso ogni unità produttiva del pianeta all'interno di linee di fornitura (supply chain) che ne plasmano e riplasmano in continuazione dimensioni, posizione gerarchica, localizzazione e struttura organizzativa. Se Detroit, Mirafiori o Volksburg sono state l'emblema del fordismo, Walmart, Auchan e - perché no? - le Coop, con la loro rete di fornitori, lo sono dell'odierna organizzazione della produzione.

Per questa incapacità di guardare ai processi materiali, e per quanto prevedibile, lascia sconcertati l'ultimo intervento di Luigi Cavallaro su questo giornale (13.5.2011) che riprende stereotipi vecchi di almeno trent'anni (le tesi di Christopher Lash sulla deriva narcisistica della cultura del Sessantotto), peraltro largamente saccheggiate nel corso del tempo da chi, dalle posizioni più diverse e anche contrapposte, imputa a quegli anni il degrado - anche questo inteso in modi diametralmente opposti - del tempo presente. Il meccanismo di questa operazione è sempre lo stesso. Assume le vicende biografiche di alcuni personaggi vistosamente presenti sulla scena mediatica a emblema del percorso esistenziale di decine o centinaia di migliaia di persone, che nei conflitti di quegli anni si erano impegnate e formate; dimenticando migliaia e migliaia di insegnanti che in tutti questi anni hanno tenuto insieme la scuola; di impiegati pubblici che hanno cercato di far funzionare i servizi; di cooperanti impegnati nel welfare a diretto contatto con gli utenti; di operatori che, soprattutto in provincia, hanno costruito e tenuto in piedi i pochi spazi di confronto culturale esistenti; di operai migrati in po' dappertutto, perché cacciati dalle fabbriche dove avevano sovvertito i rapporti di forza aziendali. Tutti quelli che hanno scelto o sono stati costretti a operare nell'ombra, e che Cavallaro, come molti come lui, non riescono a scorgere. Per completare l'opera, tutte queste vicende esistenziali, differenziate e complesse, Cavallaro le proietta sull'intera generazione dei baby boomer, per attribuire alla cultura del Sessantotto fatti e misfatti di politici e manager privati e di stato, di giornalisti e opinionisti che dalle vicende del Sessantotto si erano tenuti ben lontani; e che proprio per questo hanno potuto percorrere con facilità carriere rese sgombre, soprattutto in Italia, dalla loro criminalizzazione: una resa dei conti che, come si è visto, si protrae e ripropone fino a giorni nostri.

Quello che non riescono capire tanti nemici del Sessantotto come, da opposti versanti, sia Luigi Cavallaro che Mariastella Gelmini (un buon esempio di mediocrità quanto a studi, esami, rapporti personali e cariche politiche in cui acquiescenza e servilismo hanno sostituito il merito) è la differenza tra la ricerca di una autonomia personale, e anche di una propria individualità che ne esalti le differenze, perseguita all'interno di un processo condiviso, nel rapporto con un collettivo e un movimento aperto a ogni nuovo apporto - che è stato in tutto il mondo il tratto comune dei movimenti antiautoritari e antidisciplinari di quegli anni, nelle fabbriche come all'università e un po' in tutte le istituzioni - da un lato; e, dall'altro, invece, l'inseguimento di un'affermazione personale a scapito del prossimo, perseguita nel contesto di una competizione di tutti contro tutti; che è la strada maestra del servilismo: dell'asservirsi per fare carriera o anche solo per non essere retrocesso.

Se un elemento di connessione tra la cultura del Sessantotto, qualunque cosa si intenda con questo termine, e il presente c'è (e in varie sedi mi sono sforzato di individuarla) non è l'individualismo narcisistico o l'assenza di una cultura del limite, come sostiene Cavallaro: nessun movimento storico è stato forse meno individualista del Sessantotto; e nessuna esperienza storica è stata più pronta a recepire la cultura del limite, elaborata dai teorici dell'ambientalismo in aperta contrapposizione con la logica dello «sviluppo delle forze produttive» a ogni costo, che accomuna invece Cavallaro ai più tetragoni economisti borghesi. A spianare la strada al passaggio dalla ricerca di una realizzazione personale all'interno di una prassi collettiva alla scelta - o all'obbligo - di cercare un'affermazione in una competizione darwiniana ha contribuito sicuramente l'insufficienza dei presidi culturali messi in campo dai movimenti del Sessantotto: cioè l'incapacità di sviluppare saperi pratici in grado di individuare dei punti di applicazione a quel desiderio di cambiare il mondo che ne costituiva l'afflato comune.

Oggi quei saperi in parte ci sono: per alcuni versi sono il frutto di un impegno pionieristico e a volte solitario di studiosi e organizzatori di buone pratiche che hanno perseguito con pertinacia una strada controcorrente; in parte sono il frutto di un'elaborazione collettiva di movimenti ed esperienze che nel corso degli anni più recenti hanno animato la scena sociale; senza peraltro alcun riscontro a livello di establishment, sia politico che culturale e mediatico e, meno che mai, economico. Per questo la prospettiva di un'alternativa può ritrovare le gambe su cui marciare e il desiderio di un mondo diverso - che il servilismo non ha soffocato, soprattutto in persone che il limite lo vivono ogni ora della loro vita nella condizione della precarietà - può tornare a orientare un agire condiviso.

Nel suo mezzo secolo di vita l´Europa ha cercato di diventare un modello di nuova cittadinanza. Teorici e giuristi hanno parlato addirittura di un nuovo paradigma di libertà politica capace di dissociare la cittadinanza dall´appartenza nazionale, una rivoluzione non meno radicale di quella del 1789. Ma messo alla prova del flusso di migranti, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, le diplomazie bilaterali prendono il sopravvento, le frontiere tornano a chiudersi, le scaramucce di certificati e rimpatri si susseguono. Di fronte agli sbarchi dei profughi del mondo, l´Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza. E forse, la recentissima decisione della Corte di Giustizia della Ue di bocciare la norma italiana che prevede il reato di clandestinità va letta come un invito dell´Europa dei diritti all´Europa della politica di rivedere la sua strategia sull´immigrazione.

Ma a dispetto di ciò che l´Europa vuole o non vuole, in un modo o nell´altro i migranti sono ormai parte della sua identità, di quello che è e sarà. Sono il banco di prova del mito europeo e della civiltà democratica. Soprattutto i migranti senza-Stato (stateless), un fenomeno globale relativo a persone senza una nazionalità comprovata. Per ragioni diverse: o perché lo Stato dal quale provengono ha cessato di esistere a causa di guerre civili, o perché chi scappa ha dovuto tenere segreta l´identità per non subire repressione a causa della propria fede religiosa. Nel ventesimo secolo, la pulizia etnica venne realizzata riducendo ebrei e membri di alcune minoranze nazionali europee allo stato di non-cittadini nei paesi dove erano nati, con l´esito ben noto di poterli così deportare ed eliminare in massa. Senza Stato ovvero alla mercé del potente di turno.

Nel 1954 le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione sugli stateless tesa a prevenire che persone fossero o restasse senza uno Stato. Nel 1961 molti paesi, tra i quali il nostro, hanno sottoscritto la convenzione impegnandosi a garantire la nazionalità a persone apolidi nate nel loro territorio. La guerra in Iraq e in Afghanistan, le guerre civili nell´Africa sub-sahariana, le rivoluzioni anti-autoritarie nei paesi arabi hanno comportato un aumento prevedibile dei migranti, rifugiati che scappano la fame e la violenza, che chiedono asilo. Migliaia di uomini, donne e bambini, per piccoli scaglioni o uno ad uno, a piedi o con mezzi di fortuna pagati a prezzi di strozzinaggio, sono da anni in movimento, scappando spesso dalle guerre che i paesi verso i quali vanno sono impegnati a combattere. Un fatto di grande interesse è che tra questa umanitá di senza-Stato sembra configurarsi una nuova identità politica, nata negli interstizi della legge: di quella oppressiva degli stati di provenienza e di quella che incontrano negli stati d´approdo, dove sono dichiarati subito illegali. Senza-Stato e senza legge: è in questa identità paranomica che sta prendendo forma una nuova espressione di identità politica, di cittadinanza senza-Stato, ovvero non come appartenenza istituzionalizzata ma come azione di auto-determinazione alla libertà; cittadinanza come forma di democrazia nascente in quanto denuncia radicale di una condizione di assoluto assoggettamento, di rivendicazione non di diritti umani semplicemente, ma di diritti civili e politici.

I migranti hanno per convenzioni internazionali i diritti umani fondamentali: diritto al soccorso umanitario e medico. Vita minima: questo significa avere diritti umani. Come ha scritto Hannah Arendt in pagine esemplari, ai migranti non è riconosciuto uno spazio legale-politico, ma solo uno spazio naturale; non è riconosciuto il diritto di organizzarsi ma solo di sopravvivere. Chi fa parte della categoria umana semplicemente è caduto nella natura, se così si può dire, fuori della famiglia delle nazioni e dello stato. Persone senza protezione da parte di un governo, nate nella «razza sbagliata», perseguitate non perché hanno fatto qualcosa ma perché sono ciò che sono. La non esistenza legale –poiché senza documenti – costringe i migranti a farsi politicamente attivi fuori della legge.

Ancora da Arendt: il paradosso per gli umani protetti dai diritti umani è che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione. Violando le leggi si guadagnano l´ingresso nel sistema della legge e acquistano diritti civili – quello alla difesa nei processi o a un trattamento che esclude violenza e tortura – che da ‘liberi´ non avrebbero, perché non-cittadini. La novità di questi ultimi anni, a partire dalla rivolta in Grecia nel dicembre 2008, è che i migranti hanno mostrato di voler usare anche una lingua politica, di volere esercitare una qualche forma di cittadinanza, mettendo in pratica quello che il mito europeo ha predicato soltanto. È successo a Rosarno all´inizio del 2010, quando i lavoratori africani stagionali si sono organizzati per reagire alla loro semi-schiavitù. è successo recentemente in Australia, dove in un campo di detenzione più di trecento migranti hanno deciso di fare lo sciopero della fame per parlare con persone autorizzate del governo Australiano e ottenere di non essere rimpatriati in Afghanistan, da dove erano scappati; hanno chiesto interlocutori con autorità di trattativa, proprio come facciamo noi cittadini quando vogliamo fare sentire la nostra voce. Ma a noi quella voce è concessa dalla costituzione. A loro è negata, nonostante i diritti umani. In questi casi recenti, pur nella differenza delle circostanze, i migranti hanno manifestato una chiara auto-proclamazione di soggettività politica, un passo importante perché un´ammissione esplicita che i diritti umani non danno il potere di contrastare ciò che dallo stato di rifugiati è lecito aspettarsi, ovvero il rimpatrio. Non essere rimpatriati è una richiesta che proviene dall´avere non i diritti umani semplicemente, ma una voce politica.

Ma quale cittadinanza è possibile fuori dallo spazio statale? L´ordine giuridico, anche quello europeo che pure ha l´ambizione di essere sovranazionale, non contempla un´identità politica al di fuori dello Stato. Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini, e così facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita). È questa l´importante novità che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell´Europa poiché indubbiamente le esigenze ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto che riconosca una dignità di cittadinanza ai migranti, come capacità riconsciuta di proporre e contestare, di trattare e avere una rappresentanza, al di là e indipendentemente dall´appartenenza ad un corpo politico. Partire da una lettura non pregiudiziale di queste esperienze è la condizione minima per cercare di trovare soluzioni giuridiche e politiche che diano dignità ai migranti e nello stesso tempo facciano avanzare l´idea di una comunità politica europea che non sia solo un mito.

In nessun paese la piaga del servilismo è prospera come da noi. Grazie anche ai comportamenti di questo governo e alla cultura che passa attraverso dei media sempre più asserviti È il trionfo della sistematica rinuncia alla propria dignità. Ma la voglia di affermarla torna a farsi strada nelle lotte che animano la scena sociale

La piaga che affligge il paese è il servilismo. Non è una piaga esclusivamente nostrana; è diffusa in tutto il mondo, e per ragioni strutturali che poco hanno a che fare con i "valori" propugnati da chi lo pratica. Ma in nessun paese è così pervasiva, consolidata e ostentata come da noi. Non è un fenomeno esclusivo del nostro tempo; è vecchio come il mondo. Gli antichi Greci disprezzavano gli schiavi - prigionieri catturati in guerra o comprati e venduti - perché avevano preferito servire invece di morire. Il feudalesimo - un regime da non rimpiangere, per molti versi riproposto da alcuni tratti della nostra epoca - era fondato su un patto personale che implicava l'asservimento a tutti i livelli gerarchici. Ma quella fedeltà era regolata da un codice che impegnava tanto il signore che il vassallo. Oggi invece il servilismo è "nomade": si offre di volta in volta a seconda delle convenienze: la compravendita di deputati con cui l'Italia si governa e fa mostra di sé al resto del mondo ne è una delle manifestazioni più esplicite.

Ciò che caratterizza il servilismo del nostro tempo e del nostro paese è l'essere il meccanismo operativo della competitività: cioè di quella guerra di tutti contro tutti, per affermarsi a spese degli altri, che è la riproposizione - nei rapporti interpersonali, nei meccanismi di promozione sociale, negli avanzamenti in carriera, nella selezione delle classi dirigenti - della concorrenza tra imprese. Un meccanismo che costituisce il fondamento (indiscusso quanto sistematicamente disatteso) di quel "pensiero unico" che ha improntato di sé la nostra epoca fin nei più reconditi e inesplorati recessi del nostro pensiero; anche quando siamo convinti di esserne immuni.

Il servilismo è la ricerca di un'affermazione personale - anche minima, anche irrisoria; solo a volte ben remunerata - a spese della propria autonomia. Cioè, non in base a quello che siamo, o ci sforziamo di essere, o abbiamo acquisito col tempo e a fatica; bensì rinunciando a tutte queste cose; mettendoci "a disposizione" del padrone di turno. Pronti non a sviluppare un nuovo modo di pensare - benvenga!- ma solo a passare a un diverso padrone, che ci dirà lui che cosa possiamo e dobbiamo "pensare". Il servilismo è la rinuncia sistematica e volontaria alla propria dignità.

Al servilismo è strettamente legato il razzismo, anch'esso dispiegato, feroce e ostentato in tutte le sue sfaccettature oggi più mai. Il razzismo è la rivendicazione di un rango, anche infimo, legato alla nascita, al proprio territorio, alla propria lingua, alle proprie abitudini, alla propria appartenenza a un "corpo sociale": un simulacro di una "dignità" affidata a una dimensione fantastica proprio da chi si sente schiacciato e perdente in un contesto dominato dalla competizione; costretto a "farsi servo" per cercare di conservare il proprio status. Il razzismo alligna sempre, in qualche forma sopita, dentro ciascuno di noi, ma si sviluppa - ce lo ha mostrato Zigmund Bauman fin dai tempi di Modernità e Olocausto - solo quando è fomentato e coltivato dall'alto, come compensazione delle frustrazioni di un'esistenza precaria.

Ma che cosa ha reso il servilismo così prospero e diffuso nel nostro paese? Che cosa ci ha portato a cadere così in basso? Certamente, qui più che altrove, c'è stata una carenza di difese immunitarie; un deficit di presidi culturali (in senso antropologico e non elitario) che ha travolto tutta la società come una valanga che si ingrossa rotolando. Si tratta di un processo sicuramente promosso dall'alto: dai comportamenti di questo governo, dalla cultura che esprime attraverso mass media sempre più asserviti; da meccanismi di selezione di ministri, deputati, governatori, consiglieri, dirigenti politici, manager, banchieri, giornalisti e direttori di media e istituzioni, ai quali non sono stati e non sono certo estranei partiti, forze e culture della vera o presunta opposizione.

Ma quei presidi sono affondati, o - auspicabilmente - hanno imboccato un percorso carsico, anche per un processo che nasce "dal basso"; per responsabilità di molti di noi. Perché la rivendicazione della propria dignità, che quarant'anni fa aveva caratterizzato un intero decennio di lotte, di maturazione, di orgoglio di sentirsi protagonisti, di "presa di parola" da parte di persone che non l'avevano mai avuta, è stata per anni associata agli esiti fallimentari di quella stagione di cui molti di noi portano la responsabilità: un fardello che nessuno, o quasi, dei protagonisti di allora si è sentito di caricare sulle proprie spalle; o lo ha fatto in sordina, lasciando a pochi, e non certo ai più attrezzati, l'onere di rivendicare il carattere "formidabile" di quegli anni.

La dignità, la ricerca e la conquista di una propria autonomia personale all'interno di un processo condiviso, azzerando le disparità e le gerarchie che ne ostacolano la realizzazione, è il grande contenuto che aveva accomunato le rivolte studentesche del '68 contro l'autoritarismo nelle scuole, nell'università, nelle istituzioni e nella società, con l'insubordinazione e la presa di parola degli operai nelle fabbriche, contro le discriminazioni, le gerarchie e i meccanismi di imposizione del servilismo propri dell'organizzazione - allora "fordista" - del lavoro. Un contenuto che si era andato via via diffondendo in tutti i gangli della società: carceri, magistratura, esercito, polizia, quartieri, redazioni; per spianare poi la strada al femminismo degli anni '70, che in qualche modo aveva coronato, e anche concluso, quel processo.

Ed à proprio quel contenuto di fondo - premessa di ogni altra rivendicazione sostanziale, o di ogni progetto condiviso di trasformazione dei rapporti personali e sociali - quello che, a quarant'anni di distanza, i vari detrattori del "sessantotto" (ultimo in ordine di tempo, dopo Tremonti, Brunetta, Gelmini, Giovanardi & Co, si è ora aggiunto il ministro Sacconi) non riescono ancora e non riusciranno mai a capire; perché è del tutto estraneo al loro modo di vivere e pensare; e, per dirla tutta, al modo in cui hanno fatto carriera. Ma è anche un contenuto che molti di noi, se sufficientemente anziani, hanno dimenticato, o fatto o lasciato dimenticare; e, se più giovani, non hanno mai o quasi mai avuto l'occasione di sperimentare all'interno di un processo condiviso.

Oggi la voglia di affermare la propria dignità, la legittimità dei propri desideri, delle proprie aspirazioni, dei propri sforzi, ritorna con forza a farsi strada all'interno di molti dei processi di lotta o di resistenza che animano la scena sociale: e non solo da noi, ma anche, e molto di più, in paesi vicini da cui da troppo tempo avevamo colpevolmente distolto lo sguardo. In tutti i casi - i movimenti nostrani come le rivolte di altri popoli - si tratta di un fenomeno che va salutato con rispetto e accolto con gioia.

Si discute molto in questi mesi, soprattutto a proposito delle nuove generazioni, di una "scomparsa del desiderio" legata alla dissoluzione della figura del padre e del senso del limite che essa impone. Chi ha avuto occasione per motivi professionali di osservare da vicino questo fenomeno è certo attrezzato a parlarne con cognizione di causa. Ma visto dall'esterno, e con diversità lessicali in cui si rispecchiano approcci tra loro distanti, l'impressione che si ricava da questo dibattito è quella di una distorsione ottica. Più che prodotto dalla ricerca di un godimento illimitato indotta dal consumismo, la "scomparsa del desiderio" sembra manifestarsi, per lo più, come uno stato di depressione provocato da un mondo senza sbocchi diversi dal servilismo. È difficile, infatti, desiderare di farsi servi; anche se molti lo fanno: soprattutto per mettersi in grado di poter a loro volta asservire altri. Ma nella rivendicazione della dignità che torna a fare capolino come evento dirompente nei movimenti di questo periodo c'è la potenzialità di una reazione e di una "cura" della depressione. propria di un mondo senza sbocchi.

«Il manifesto? Ci scrivevo perché mi era simpatico Pintor. Oggi rappresenta una forma di resistenza nel tracollo generale della sinistra. Volete un consiglio? Diventate un settimanale quotidiano» Parla lo scrittore che nel 1971 si firmava Dedalus. «Berlusconi è un abile, geniale piazzista, ha capito gli umori del mercato e la natura profonda degli italiani, che non si sono mai identificati con lo Stato»

Raccontami come è cominciata, già il 28 aprile del 1971, la tua collaborazione al manifesto.

La mia prima risposta è molto banale: è venuto Pintor a casa mia e me l'ha chiesto e poiché era tanto simpatico gli ho detto di sì. Ma c'era un'altra ragione. C'era una situazione tipica di una certa sinistra di allora, anche di quella di antiche origini cattoliche come la mia, che non riusciva a identificarsi col Partito comunista italiano. Specie noi della cosiddetta neoavanguardia del Gruppo 63, se eravamo certamente orientati a sinistra, stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci, ancora guttusiana, pratoliniana, con la sua idea di intellettuale organico che non era compatibile, tanto per fare un esempio, con gli eretici come Vittorini, diffidente verso tante nuove tendenze culturali emergenti, quasi sempre bollate come trucchi insidiosi del neocapitalismo. Una volta il buon Mario Spinella mi chiese di scrivere un lungo articolo su Rinascita per indicare quali erano i problemi che una cultura di sinistra doveva affrontare. Io scrissi di sociologia delle comunicazioni di massa e dello strutturalismo: fui coperto di feci dall'intellighentia del Pci. Mi viene da citare l'attacco dell'allora marxista Massimo Pini, poi finito in An, e un personaggio francese che scrisse «ma cosa diavolo racconta questo Umberto Eco: da un punto di vista marxista lo strutturalismo è inaccettabile». Questo signore si chiamava Althusser e due anni dopo avrebbe tentato il suo celebre connubio tra marxismo e strutturalismo. C'era un clima molto difficile per chi volesse essere di sinistra, senza stare con il Pci. All'epoca l'unica alternativa possibile era con il giro di Lelio Basso e con il manifesto: l'unico modo di essere di sinistra senza venire irreggimentati nel Pci, anche se non era più quello togliattiano che accusava di decadentismo Visconti perché aveva girato Senso ma che tuttavia erano ancora accolte con diffidenza. Tanto per fare un esempio, nel 1962 Vittorini pubblicava il Menabò numero 5, quello dedicato a industria e letteratura, ma proponendo un nuovo modo di intendere l'espressione «letteratura e industria», focalizzando l'attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti più che lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio Sul modo di formare come impegno sulla realtà apparivano prove narrative molto 'sperimentali' di Edoardo Sanguineti, Nanni Filippini e Furio Colombo. Perciò accettai la proposta di Pintor; ma poiché avevo un contratto per la terza pagina del Corriere della sera non potevo mettere la stessa firma su due quotidiani e scelsi di firmare Dedalus.

Dedalus, una firma di grande prestigio, nel segno di Joyce.

Mi sono divertito come un pazzo a scrivere i pezzi di Dedalus. Ricordo che un po' di anni dopo Fanfani mi incontrò, agitando la mano e facendo, garbatamente, finta di volermi picchiare. La ragione? Qualche tempo prima sul manifesto avevo scritto: «L'onorevole Fanfani, passeggiando nervosamente sotto il letto...». Altra polemica con Montanelli quando, attaccando la Cederna, aveva scritto che «annusa l'afrore degli anarchici sotto le ascelle». Scrissi: «una volta i polemisti portavano la penna all'altezza del cuore; tu, Indro, sei sceso molto più in basso». Poi Montanelli mi mandò un suo libro con la dedica: «In memoria di un colpo basso». Era un uomo di spirito.

Ma in questi quarant'anni ci sono stati grossi cambiamenti. Quali?

Sono stati totali. Il crollo del muro di Berlino, la fine delle ideologie e, di seguito, la fine dei partiti e anche la crisi del manifesto che non ha più nessuno con cui confrontarsi alla sua sinistra.

Vuoi dire che quando facevamo polemica con il Pci avevamo un ascolto e adesso che il Pci non c'è più chi ci sente?

Il cambiamento è stato enorme. Alla fine della seconda guerra mondiale i partiti governavano. In Italia la Dc, il Pci e gli altri ancora. Con la crisi delle ideologie i partiti si sono dissolti in Italia come in Francia, ma paesi come la Francia, appunto, si sono salvati perché lì c'è uno stato, mentre in Italia lo stato è debolissimo. E quindi in Italia siamo senza governo, nelle mani di una anarchia o di minoranze paracriminali, non perché uccidono gente per strada, ma perché sono fuori da ogni legalità. Ma, tornando indietro, ricordo che un'altra ragione della mia collaborazione al manifesto stava nella polemica contro i gruppuscoli, che erano per l'astensionismo. Per quante simpatie si potessero avere con il cosiddetto movimento, la rinuncia al voto era inaccettabile. Ricordo che mi chiesero di dirigere Lotta continua: cercavano qualcuno che avesse in tasca la tessera dell'ordine dei giornalisti, disposto ad andare in galera. Risposi di no, perché collaboravo con il manifesto, e non potevo tenere il piede in due staffe. Il manifesto era ovviamente legato al clima del movimento, ma apparteneva pur sempre a una sinistra parlamentare. Certo il manifesto sembra aver perduto la sua funzione storica, come il Pci e tutti i gruppi di sinistra. Direi che non siete più un partito ma resistete ancora in questo generale tracollo come una coscienza culturale.

Io lo vorrei ancora.

Bisogna pensarci, nell'attuale carenza di proposte positive, nell'assenza della sinistra: tutto è possibile e tutto è più difficile. Discutevo ieri della bizzarra proposta del colpo di stato di Asor Rosa. Il problema non è cacciare Berlusconi con un colpo di stato, contro il 75 per cento degli italiani, al quale in fondo le cose vanno bene così.

Il 75%, esageri proprio.

Non dico quelli che votano direttamente Pdl, ma quella maggioranza naturalmente berlusconiana che non vuole pagare le tasse, ha voglia di andare a 150 chilometri all'ora sulle autostrade, vuole evitare carabinieri e giudici, trova giustissimo che uno se può se la spassi con Ruby, trova naturale che un deputato vada dove meglio gli conviene. Questa è la moralità dominante. Berlusconi è un abile e geniale piazzista, che ha capito la sostanza e gli umori dell'attuale mercato politico.

Mi torna in mente il famoso errore di Benedetto Croce, secondo il quale Mussolini era caduto dal cielo e non partorito da noi italiani.

Berlusconi è stato partorito dall'Italia di oggi e ha capito la natura profonda del nostro popolo che non si è mai identificato con lo Stato, che si è sempre massacrato nello scontro tra città e città. Non a caso abbiamo tra i nostri pensatori un Guicciardini. Quindi anche se domani facessi un colpo di stato (che in ogni caso è sempre una cosa cattiva - non ho mai visto colpi di stato «buoni») non cambieresti gli umori del paese. Per cambiarli ci vorrebbe un'azione più profonda, di persuasione ed educazione, e di vere proposte alternative. Ed ecco che tornerebbe buona, se ci fosse, la politica. Però mi pare che la presa di posizione polemica di Asor Rosa nasca dal sentimento (e dalla frustrazione) che il colpo di stato strisciante è già in atto (ma dalla parte opposta) con l'umiliazione del parlamento, la sua riduzione a un manipolo di yes-men, la delegittimazione della magistratura e quindi la distruzione dell'equilibrio dei poteri, l'occupazione progressiva di tutti i centri della comunicazione. Scrivevo negli anni Sessanta che ormai per fare un colpo di stato non era necessario muovere i carri armati: bastava occupare le televisioni. Lo si sapeva già negli anni Sessanta.

E la differenza tra apocalittici e integrati? Ti ricordi?

È una distinzione molto vecchia, del 1964, superata. Allora c'era una netta divisione tra i critici del sistema delle comunicazioni di massa (pensa a Adorno) e quelli che si identificavano con il nuovo sistema della comunicazione. Questa divisione si è enormemente modificata, pensa alla Pop art, un'arte d'avanguardia che si abbevera alla comunicazione di massa.

La Pop art? Spiegati meglio.

La Pop art ha usato i fumetti, e non per criticarli (come sarebbe accaduto agli apocalittici del decennio precedente). Quindi, ha fatto provocazione d'élite basandosi su materiali una volta considerati bassi. Oppure pensa ai Beatles che - come ha poi intuito Cathy Berberian - potevano essere ricantati come se fossero la musica di Purcell che in qualche modo li aveva ispirati. Musica di intrattenimento, ma coltissima. Pensa a Benigni: fa parte della cultura di massa o della cultura d'élite? Non hai risposta: riesce a fare passare Dante davanti a ventimila persone e cammina come un clown. Ai tempi di apocalittici e integrati non sarebbe potuto accadere. Pensa anche al romanzo poliziesco che ancora negli anni Cinquanta era roba da vendere nelle edicole, leggere e buttare, e oggi Camilleri fa romanzi accessibili alle grandi masse, ma mediante una forte sperimentazione linguistica.

Visto che ci siamo: confini tra cultura altra e cultura bassa?

Le differenze sono infinite e difficili da identificare. È quasi come in politica: potrebbe essere un gioco di società trovare personaggi di destra all'interno del Pd e di sinistra (ma è impossibile trovarne) all'interno del Pdl.

Quelli di sinistra è proprio difficile trovarli.

Sì, perché anche la nozione di sinistra si è disfatta. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che la sinistra ufficiale sta facendo l'unica politica conservatrice possibile: difesa della Costituzione, difesa della magistratura, e così via. Difesa anche dei carabinieri, pensa tu se ce lo avessero detto al tempo del Piano Solo.

Ma dall'altra parte c'è di peggio.

Certo: c'è l'attacco alle istituzioni e dunque è naturale che a sinistra si diventi conservatori. I tempi cambiano, vuoi mica che ancora oggi esista la differenza tra cavouriani e mazziniani? La polizia di Scelba manganellava i lavoratori e quella di oggi cerca di salvare i neri dai naufragi.

Gli apocalittici cosa sono diventati?

Gli apocalittici, pian piano, son diventati meno rigidi nel loro rifiuto. Pensa solo a come è andata con il fumetto, che era una delle cose più popolari, diretto a persone di cultura bassa. Poi, proprio noi intellettuali lo abbiamo riscoperto e ne abbiamo fatto un mito. Erano le letture della nostra infanzia, ma anche l'unico modo nel quale abbiamo potuto capire qualcosa dell'America. Ormai il fumetto è diventato una forma di cultura alta, perfino difficile da leggere. Certo i bambini leggono ancora Topolino che resta, più o meno, come una volta. Ma tutte le nuove forme... il fumetto cartonato che si vende nelle librerie, certe volte faccio fatica a leggerlo tanto è raffinato. Quindi quelli che una volta erano i mezzi di massa, contro cui si scagliavano gli apocalittici, oggi possono essere interpretati solo da gente che ha letto Joyce.

Carta stampata e Internet. Un duello aperto.

Sono stufo di sentirmi rivolgere questa domanda. Due anni fa ho pubblicato un libro con Jean-Claude Carrière, Non sperate di sbarazzarvi dei libri. Ovviamente sono un utente di Internet, ho ben otto computer nelle varie case dove capito, ma difendo i diritti e il futuro del libro per una ragione semplicissima: abbiamo la prova scientifica che un libro può durare 550 anni. Prendi un incunabolo, lo apri, sembra stampato ieri e ti permette persino la previsione che forse, se lo lasci in un ambiente poco umido, può durare altri 500-1000 anni. Non abbiamo nessuna prova scientifica che un dischetto, una chiavetta possano durare più di dieci anni, non tanto perché si possono smagnetizzare, ma perché nel frattempo sarà cambiato il tipo di computer. I computer di oggi non leggono più i dischetti di quindici anni fa. Certo, per me è una grande comodità viaggiare con una chiavetta che contiene tutta la mia biblioteca, però l'unica garanzia del fatto che l'informazione si conservi sta ancora nel libro cartaceo. Detto questo, Internet è una cosa utilissima, pensa a cosa sta cambiando nell'Africa del nord: senza Internet non sarebbe successo niente.

Il manifesto attraversa una nuova crisi. Tu, dicevi, perché ha perduto la sponda del Pci. Ma non è più solo per questo.

Innanzitutto c'è una generale crisi politica. Poi sono in crisi tutti i quotidiani. I giovani non comprano più i quotidiani, preferiscono leggere il giornale gratuito che si prende alla stazione. È un fenomeno generale: se è in crisi anche il Corriere della Sera, che può pagare centinaia di inviati speciali in tutto il mondo, come può non essere in crisi il manifesto? Se è vero che i giovani sono più attenti ai contenuti culturali, l'unica possibilità del manifesto è quella di settimanalizzarsi, non nel senso di diventare settimanale ma in quello di fare continuamente azione di approfondimento. Ha poco senso che il manifesto esca oggi dicendo quel che è accaduto ieri, perché lo ha già detto la televisione. Insomma, ripeto: un quotidiano di approfondimento. A modo suo Il foglio lo è. Quindi il manifesto dovrebbe essere sempre più un quotidiano di commento, di proposte. È l'unica possibilità di sopravvivenza. Ripeto una mia vecchia polemica: il quotidiano di 64 pagine non mi dà più nessuna notizia perché non faccio in tempo a leggerlo. Nel 1990 mi trovavo nelle isole Fiji dove usciva - lo davano gratis negli hotel - il Fiji Journal, che aveva otto pagine di cui sei di pubblicità, due di notizie locali e una pagina di brevissime notizie. Con quella pagina il Fiji Journal mi ha tenuto perfettamente informato su quanto accadeva in Italia e nel mondo. Allora, o tu diventi il Fiji, quattro pagine al giorno a 20 centesimi, oppure fai 10-12 pagine di approfondimenti, discussioni critiche, polemiche. Non ce la fai a emulare il Corriere della Sera o Repubblica dando più notizie di loro, piuttosto fai una critica dei loro articoli.

Torneresti a collaborare al manifesto?

Non riesco più a tener testa a tutte le cose che devo fare e da quando sono andato in pensione lavoro tre volte tanto. Comunque, lasciami passare l'estate.

La mancanza di una coscienza critica danneggia anche l’attività economica - L’invettiva, tanto cara ai media, non consente di formarsi un’opinione - Solamente una formazione filosofica e storica può creare buoni cittadini - La pensatrice americana interviene in favore dell’educazione umanistica

Dove va oggi l’istruzione? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l’istruzione è ciò che crea quell’atteggiamento mentale. Malgrado ciò, assistiamo a cambiamenti radicali nella pedagogia e nei programmi scolastici, sia nelle scuole che nelle università, cambiamenti sui quali non si è riflettuto a sufficienza.

La maggior parte dei Paesi moderni, ansiosi di crescere economicamente, hanno cominciato a pensare all’istruzione in termini grettamente strumentali, come ad una serie di utili competenze capaci di produrre un vantaggio a breve termine per l’industria. Ciò che nel fermento competitivo è stato perso di vista è il futuro dell’autogoverno democratico.

Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è «un cavallo nobile ma indolente». Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l’autorità, di continuare ad analizzare se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento.

Oggi la ricerca psicologica conferma la diagnosi di Socrate: la gente ha la preoccupante tendenza a sottomettersi all’autorità e alle pressioni sociali. La democrazia non può sopravvivere se non poniamo un limite a questi pericolosi atteggiamenti, coltivando l’attitudine a pensare in modo curioso e critico. Fin dal tempo in cui Socrate esortava gli ateniesi a non «vivere una vita senza indagine», sono soprattutto gli studi umanistici, e in particolare la filosofia, a permettere di coltivare tali capacità.

Coltivare l’argomentazione di Socrate favorisce inoltre un sano rapporto tra i cittadini nel momento in cui essi discutono di importanti questioni all’ordine del giorno. I mezzi di comunicazione moderni amano le frasi lapidarie e la sostituzione di un’autentica discussione con l’invettiva. Ciò crea una cultura politica degradata.

In un corso di filosofia, invece, gli studenti imparano a sviscerare l’argomentazione dell’avversario e a chiedere quali sono gli assunti sui quali essa si basa. Nel fare ciò, spesso gli studenti scoprono che le due parti, in realtà, hanno molto in comune e sorge in loro la curiosità di vedere in cosa realmente essi divergono, anziché considerare la discussione politica semplicemente un mezzo per segnare punti a favore della propria squadra e di umiliare l’avversario. La filosofia contribuisce così a creare uno spazio realmente deliberativo e questo è ciò di cui abbiamo bisogno, se vogliamo risolvere gli enormi problemi che affliggono tutte le democrazie moderne.

Ai cittadini occorre anche la conoscenza della storia, i fondamentali delle principali religioni e del modo in cui funziona l’economia globale. Ancora una volta, gli studi umanistici sono essenziali a questo sforzo di comprensione globale: lo studio della storia del mondo e delle principali religioni, lo studio comparato della cultura e la comprensione di almeno una lingua straniera, sono tutti elementi essenziali nel favorire una sana discussione circa i pressanti problemi del mondo. Inoltre, questo insegnamento storico deve includere un elemento socratico: gli studenti devono imparare a valutare l’evidenza, a pensare da soli sui diversi modo in cui essa può essere collocata e messa in atto nella realtà attuale. Perciò, per realizzare un’idea soddisfacente di cittadinanza globale, abbiamo bisogno anche della filosofia. Infine, i cittadini devono essere in grado di immaginare come appare il mondo agli occhi di coloro che si trovano in una situazione diversa dalla loro. Gli elettori che prendono in esame una proposta che interessa gruppi diversi (razziali, religiosi, ecc.) all’interno della loro società, devono essere in grado di immaginare le conseguenze che tali proposte hanno sulla vita delle persone reali e ciò richiede un’immaginazione coltivata. In che modo si coltiva l’immaginazione? Tutti noi veniamo al mondo muniti di una rudimentale capacità di positional thinking, di pensare dal punto di vista degli altri, ma tale capacità, solitamente, opera in un ambito limitato, nella sfera familiare, e richiede un ampliamento e un perfezionamento intenzionali. Questo significa che abbiamo bisogno della letteratura e dell’arte, attraverso le quali raffiniamo quello che il grande romanziere afro-americano Ralph Ellison definiva il nostro "occhio interiore", imparare a vedere coloro che sono diversi da noi non soltanto come un minaccioso "altro" ma come esseri umani totalmente eguali, con aspirazioni e obiettivi propri.

Ciononostante, in tutto il mondo, gli studi umanistici, l’arte e persino la storia vengono eliminati per lasciare spazio a competenze che producono profitti, che mirano a vantaggi a breve termine. Quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato. Di recente, la Cina e Singapore, Paesi che certamente non hanno a cuore lo stato di salute della democrazia, vedendone l’importanza ai fini dell’innovazione e della creazione di un ambiente di lavoro non corrotto, hanno attuato vaste riforme dell’istruzione, tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici e all’arte, sia nei programmi scolastici che in quelli universitari. Dunque, nel lungo termine, la contrazione dell’istruzione in realtà nuoce al benessere economico.

Anche laddove ciò non accade, gli studi umanistici e l’arte sono essenziali per il genere di governo democratico che le nazioni hanno scelto e per il tipo di società che esse desiderano essere. Dobbiamo opporci con forza ai tagli agli studi umanistici, sia nell’istruzione scolastica che in quella superiore, affermando con fermezza che tali discipline apportano elementi senza i quali le democrazie moderne, come quella ateniese prima di Socrate, sarebbero ancora una volta dominate da una mentalità gregaria e dalla deferenza verso i capi carismatici. Questo sarebbe uno scenario terribile per il nostro futuro.

(Traduzione di Antonella Cesarini)

Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno Anticipazione dell’intervento che Zagrebelsky terrà giovedì 14 alla Biennale Democrazia

Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l’economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.

Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un’attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l’unica che dia un senso, un significato d’insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.

La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all’altro, all’altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell’"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d’una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l’economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d’altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l’economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.

Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un’epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d’interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L’influenza sul pubblico è poi assicurata dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.

La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all’omologazione vi sono, riguardano il folklore o l’arte d’avanguardia; l’uno a benefizio dei molto semplici, l’altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.

Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d’appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.

Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.

Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l’orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d’identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.

Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l’etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l’elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall’identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L’arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l’onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.

Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell’esaltazione del potere personificato, che è l’esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d’unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d’ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.

Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano sempre più i contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato, ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto 25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl

A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3) non possono essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le assicurazioni private negano la loro protezione - come nel caso dell’energia nucleare e della tecnologia genetica - viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo "razionale" si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale.

Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana, ma dal terremoto e dallo tsunami.

La categoria di "catastrofe naturale" segnala che essa non è stata causata dagli uomini e quindi la sua responsabilità non può essere attribuita agli uomini. Ma questo è il punto di vista di un secolo passato. Questo concetto è sbagliato già per il fatto che la natura non conosce catastrofi ma, semmai, drammatici processi di trasformazione. Questi cambiamenti, come uno tsunami o un terremoto, diventano catastrofi solo nell’orizzonte di riferimento della civiltà umana. La decisione di costruire centrali nucleari in zone a rischio sismico non è affatto un evento naturale, ma una scelta politica, che deve anche essere giustificata a livello politico di fronte alle pretese di sicurezza dei cittadini e deve essere attuata contro le opposizioni.

La risposta ai rischi moderni è l’idea dell’assicurazione come "tecnologia morale" (François Ewald). Non è più accettabile che ci si affidi alla divina provvidenza e si subiscano passivamente i colpi del destino. Il nostro rapporto con la natura, con il mondo e con Dio cambia in modo tale che diventiamo responsabili della nostra sventura, ma in linea di principio disponiamo dei mezzi per compensare le conseguenze da noi stessi innescate. Si tratta comunque del mito della "vita assicurata", che a partire dal 18° secolo ha trionfato in ogni ambito.

In effetti siamo riusciti a ottenere il consenso sui precedenti rischi dell’era industriale legandoli a una sorta di "prevenzione a posteriori" (vigili del fuoco, assicurazioni, assistenza psicologica e medica, ecc.). Lo shock che ha colpito la gente di fronte alle spaventose immagini provenienti dal Giappone consiste anche nel ridestarsi della consapevolezza che non c’è istituzione, né reale, né immaginabile, preparata al super-Gau, il "massimo incidente ipotizzabile in una centrale nucleare", e capace di garantire l’ordine sociale e le condizioni culturali e politiche anche nel caso di questo disastro dei disastri. Invece, ci sono molti attori specializzati nell’unica opzione che appare possibile: la negazione dei pericoli. Infatti, al posto della sicurezza offerta dalla prevenzione a posteriori subentra il tabù della impossibilità di errore. Ogni Paese - in particolare, naturalmente, la Francia, e l’esperto atomico Sarkozy lo sa bene - ha le centrali nucleari più sicure del mondo! Custodi del tabù diventano la scienza e l’economia dell’energia nucleare, colte in flagrante proprio dagli eventi catastrofici che hanno attirato sui loro errori i riflettori dell’opinione pubblica mondiale. Nel 1986 Franz-Joseph Strauß dichiarò che solo i reattori nucleari "comunisti" possono esplodere. Egli tentava così di circoscrivere eventi come Chernobyl, in base all’assunto che l’Occidente capitalistico superevoluto dispone di centrali nucleari sicure. Ora però siamo alle prese con l’avaria in Giappone, che viene considerato il Paese meglio attrezzato del mondo, quello dotato della tecnologia più sofisticata per garantire la sicurezza. La finzione per la quale in Occidente si può dormire tranquilli è svanita.

Che in Giappone le rimanenti speranze poggino proprio sull’intervento delle "forze di autodifesa" chiamate a sostituire con elicotteri antincendio gli impianti di raffreddamento in avaria, è qualcosa di più di un’ironia. Hiroshima fu terribile, l’orrore puro e semplice. Ma in quel caso fu il nemico a colpire. Cosa accade se un fatto così spaventoso avviene all’interno del sistema produttivo della società - non in un ambito militare? In questo caso, coloro che minacciano la nazione sono proprio i garanti del diritto, dell’ordine e della razionalità, della democrazia stessa. Quale politica industriale sarebbe più possibile se fosse negata anche la residua speranza del "vento" e Tokyo fosse contaminata? Quale crisi della tecnologia, della democrazia, della ragione, della società?

Molti deplorano che le impressionanti immagini provenienti dal Giappone incutano paure sbagliate e diano impulso ad una "pseudo-scienza" della compassione. In questo modo, però, essi disconoscono e sottovalutano ingenuamente la dinamica politica insita nel potenziale di autodistruzione del trionfante capitalismo industriale. Infatti, molti pericoli - un esempio da manuale: le radiazioni atomiche - sono invisibili, sfuggono alla percezione ordinaria. Ciò significa che la distruzione e la protesta son mediate simbolicamente. Solo constatando l’impercepibilità di molti pericoli grazie alle immagini televisive il cittadino culturalmente accecato può tornare a "vedere".

La questione di un soggetto rivoluzionario capace di rovesciare i rapporti di definizione della politica del rischio cade nel vuoto. Non sono - o non sono soltanto - i movimenti antinucleari, l’opinione pubblica critica, ecc. a poter dar luogo a un’inversione nella politica atomica. In ultima analisi, il contropotere rispetto all’energia nucleare non sono i manifestanti che bloccano il trasporto del materiale radioattivo. L’avversario più irriducibile dell’energia nucleare è… l’energia nucleare stessa!

Nelle immagini delle catastrofi categoricamente escluse dai manager si dissolve il mito della sicurezza. Quando ci si rende conto e si ha la prova che i custodi della razionalità e dell’ordine legalizzano e normalizzano i pericoli per la vita, si scatena il pandemonio nel milieu della sicurezza burocraticamente promessa. Perciò, non è sbagliato affermare che all’interrogativo sul soggetto politico della società di classe corrisponde l’interrogativo su questa "riflessività politica" nella società del rischio.

Tuttavia, sarebbe un errore trarre da ciò la conclusione che si sia aperta una nuova fase di illuminismo, beneficamente offertaci dalla storia. Al contrario, a qualcuno la prospettiva qui tracciata potrebbe suggerire il paragone con il tentativo di praticare un foro nello scafo di una nave per far uscire l’acqua del mare penetrata al suo interno.

Un aspetto problematico per chi considera Internet il paradigma del bene comune globale è dovuto al fatto che per suo tramite si è affermata ancor più profondamente l’egemonia del modello americano. Questa egemonia non preoccupa come problema di lingua. Sebbene l’inglese domini Internet, il pluralismo linguistico della Rete è oggi sotto gli occhi di tutti. Né preoccupa come problema culturale, derivante dall’individualismo e dalla competitività estrema che caratterizzano da sempre l’ideologia statunitense, collocandola tradizionalmente come antagonista di tutto quanto sia comune (la radice di communism e commons sono le stesse). Il vero problema di questa pratica egemonica sta nella governance di Internet che si presenta come profondamente antitetica rispetto a quel modello dell’«accesso» che dovrebbe caratterizzare il governo dei beni comuni (a questo propostio, vedere «il manifesto » del 2 Marzo).

Nonostante queste cautele non possiamo esimerci, nel percorrere i primi passi di un cammino volto all’elaborazione di strutture giuridiche nuove per il governo dei beni comuni, dall’affrontare i paralleli fra il mondo della Rete, che potremmo descrivere come una «nuovo mondo» virtuale, «scoperto » quasi esattamente mezzo millennio dopo la «scoperta» dell’ America. Profondi furono gli sconvolgimenti prodotti dai viaggi di Colombo, fino al punto che le immense possibilità di saccheggio che ne derivarono produssero l’accumulaziuone originaria e la nascita della modernità. Oggi è proprio internet a presentarsi come il fattore scatenante della trasformazione cognitiva del capitalismo globale, sicché forte è la tentazione di osservare un ricorso storico.

Fuorvianti analogie

Occorre però cautela nel tracciare affascinanti paragoni. La questione della traducibilità istituzionale dal mondo del materiale tangibile a quello dell’immateriale (e viceversa) non è infatti banale. Per risolverla i giuristi hanno dato vita ad un ambito disciplinare problematico autonomo, noto come diritto della proprietà intellettuale (talvolta come diritto industriale) frequentato da cultori diversi da coloro che si confrontano con i problemi della proprietà tangibile, in particolare di quella fondiaria. In effetti, al di là dei suggestivi paralleli teorici, per cui tanto la proprietà privata delle idee quanto quella di un terreno sarebbero caratterizzate dagli stessi aspetti di «esclusione » di chi non sia autorizzato dal titolare rispettivamente ad accedervi o a farne uso, le analogie sembrano fermarsi ad un livello di astrazione inadatto alla pratica del diritto.

Sebbene anche in ambito fondiario il processo di mercificazione abbia ottenuto i suoi effetti, la terra resta una risorsa strutturalmente limitata, non riproducibile e tendenzialmente unica. Questo aspetto fondamentale non è vero per i marchi, brevetti o diritti d’autore, i tre ambiti che rientrano nella nozione di proprietà intellettuale. Di fronte a risorse che in natura non sono limitate (e anche nel caso di quelle che, come l’acqua, si riproducono ciclicamente) il diritto di proprietà privata svolge la funzione di renderle artificialmente scarse (a fine di trarne profitto). Per quelle che sono viceversa limitate e già scarse la proprietà privata, regolandone l’accesso, potrebbe tutt’al più limitarne il consumo, almeno stando all’insegnamento (assai poco convincente) della tragedia dei comuni.

Non solo. Se è vero che occorrono sempre recinzioni per far nascere un mercato, quelle necessarie per l’informazione e la conoscenza (risorse strutturalmente illimitate) devono essere particolarmente pervasive. Infatti, il potenziale acquirente di un’informazione difficilmente potrà sapere il valore che essa avrà per lui senza prima conoscerla. Ovviamene il potenziale venditore non sarà disposto a far conoscere l’informazione prima di venderla, perché questo equivarrebbe a regalarla. Di qui i problemi particolarissimi che sorgono nell’utilizzare la logica della proprietà privata in materia di informazione e la particolare virulenza che i grandi latifondisti intellettuali (case discografiche e editrici, big pharma, proprietari dei grandi logo) utilizzano per difendere i propri recinti.

Questi problemi in realtà derivano dal fatto che informazioni e conoscenza crescono quantitativamente e qualitativamente con la condivisione (perché hanno natura di beni comuni relazionali) ma la condivisione non genera profitti (basta considerare Wikipedia che è sul lastrico). Proprio in materia di proprietà intellettuale si riproduce così, non a caso in modo particolarmente visibile nella presente fase del capitalismo cognitivo, quel legame indissolubile fra proprietà privata e apparati repressivi dello Stato (e oggi anche della globalizzazione si pensi agli accordi Trips dell’Organizzazione mondiale del commercio) che sempre si accompagna alle enclosures.

Ideologia della repressione

Queste osservazioni, che balzano agli occhi sol che si guardino le cose ponendo al centro la loro natura fenomenologica (terra, conoscenza) e non il loro regime giuridico (proprietà privata, brevetto), sono offuscate dagli ingenti investimenti che i grandi latifondisti intellettuali compiono nella costruzione di apparati ideologici loro favorevoli. Poiché in una società che condivide e mette in comune le proprie conoscenze, riconoscendo che queste sono sempre il prodotto di un determinato contesto sociale, copiare è un comportamento del tutto naturale. Per scoraggiare questi comportamenti sono necessari apparati repressivi che utilizzino anche l’ideologia come strumento di inibizione. Apparati che puntano a distruggere il comune a favore del privato. Così, nelle Università degli Stati Uniti i compiti scolastici vengono valutati comparativamente su una «curva» in cui soltanto alcuni possono ricevere un voto alto, creando un meccanismo di mors tua vita mea che distrugge la cooperazione attraverso la competizione: se faccio copiare l’amico danneggio me stesso. Similmente le maestre cercano di convincere le bambine più secchione che «non è giusto» aiutare i maschietti meno bravi incentivando in loro comportamenti da mostriciattoli egoisti (con la conseguenza che poi, escludendo, restano escluse).

Allo stesso modo i molti cultori-cantori della proprietà intellettuale, raccolti presso dipartimenti riccamente finanziati dalle corporation latifondiste intellettuali, diranno che la proprietà intellettuale «stimola l’innovazione e la creatività», utilizzando esattamente la stessa retorica che i fisiocrati (XVIII secolo) usavano nel celebrare le recinzioni, ossia che senza proprietà privata non c’è incentivo alla coltivazione e al lavoro.

Non è questa la sede per soffermarsi sulla discutibilità storica di quelle affermazioni di fronte all’uso comune della terra. Bisogna invece qui enfatizzare il risultato completamente controfattuale di queste affermazioni nel caso di risorse come la conoscenza che non sono scarse ma hanno viceversa natura collettiva e relazionale. Privatizzare l’informazione ne limita di fatto la diffusione, e limitarne la diffusione non può che rendere più difficile l’ulteriore innovazione.

Dovrebbe dunque essere evidente che il governo più coerente alla fenomenologia dei beni comuni si deve fondare su istituzioni capaci di coinvolgere coloro che sono disinteressati all’accumulo di proprietà privata e di potere politico ma che invece sono gratificati proprio dalla cura del comune. Istituzioni cooperative, fondazioni, associazioni, consorzi fra enti locali, comitati, insomma gruppi che pongano in essere autentiche dinamiche democratiche più o meno informali e conflittuali prive di fine di lucro costituiscono gli assetti istituzionali più adatti a governare i beni comuni. In simili ambiti la creatività fiorisce nella condivisione dei problemi sociali e non si trasforma in un mero esercizio narcisistico dell’individuo.

Individualisti e narcisisti

Tutto ciò colloca Internet, il grande common globale che tanti indicano come il modello per la gestione dei beni comuni, in una luce ai miei occhi tetra. La Rete, lungi dall’unire, in realtà mi pare divida, individualizzi ed illuda, sollecitando falsa comunità e vero narcisismo. Oggi ci si mandano mail da un ufficio all’altro e la comunicazione scade e si impoverisce. I caffè dei campus americani sono affollati di studenti, ognuno sul proprio computer, che non si guardano e non si parlano, ma che sono collegati via Facebook magari con qualcuno dall’altra parte del mondo o in un caffè poco lontano. La politica è tuttavia «fisicità» se vuole avere qualsiasi chance di emancipazione.

E i beni comuni si possono difendere e governare davvero soltanto con la fisicità di un movimento sociale disposto a battersi lungamente e generosamente per riprendere i propri spazi. Non sarà mai un solo giorno di piazza convocato via Facebook a fermare una guerra, a cacciare un tiranno o a scongiurare un saccheggio di beni comuni.

SCAFFALE

Piccola biblioteca attorno al «comune» e la Rete: «Il Saccheggio. Regime di Legalità e Trasformazioni Globali» di Ugo Mattei e Laura Nader (Bruno Mondadori); «L’acqua e i beni comuni raccontati a ragazze e ragazzi» di Ugo Mattei (Manifestolibri, con Illustrazioni di Luca Paulesu); «Il sapere come bene comune. Accesso alla conoscenza e logica di mercato » di Stefano Rodotà (Notizie Editrice); «Comune» di Toni Negri e Michael Hardt (Rizzoli); «Cultura Libera» (Apogeo) e «Il futuro delle idee» (Feltrinelli) di Lawrence Lessig; «I padroni di Internet. L’illusione di un mondo senza confini» di Jack Goldsmith e Tim Wu (Rgb Media); «La nascita delle società in Rete» (Università Bocconi Editore) e «Galassia Internet» (Feltrinelli) di Manuel Castells.

La tendenza ad applicare a Internet le norme che regolano la proprietà privata produce solo confusione. La conoscenza e le informazioni non sono infatti risorse scarse come la terra ma illimitate, perché crescono ogni volta che si condividono

CI SONO momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.

All'orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.

Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica ). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: «Diventa necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta»( Il principio di responsabilità, Einaudi '90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari.

Obama e Angela Merkel dicono ben altro: «Non si può fare come se nulla fosse». Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani.

Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine «catastrofe», preferendo il meno allarmante «incidente grave». Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a «non farsi prendere dalla paura», senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come morissero in piedi.

Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventurae se la porta dentro come assillo, s'è fidata della tecnologia, nonè corsa in tempo ai ripari? Ci sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d' un mondo: fondato sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no.

La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: «What ever is, is right»: tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo «nel migliore dei mondi possibili».

Cadde anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la «rabbia del mare»), lo sguardo di Voltaire: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra». Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: «Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa».

Ma anch'egli pone domande che solo l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: «Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino», dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo il 1755: «legno storto», «mai più grande dell'uomo». Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che «il male è sulla terra», e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereoavvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: «guai! guai!») che vola verso lo schianto.

Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano «Aiutami!», nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest'effigie di sé.

È la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

Rompendo i confini

di Ida Dominijanni

Ci hanno messo pochissimo, le donne egiziane, a realizzare quanto sia abile il potere maschile a ricomporsi dopo le rotture rivoluzionarie. Loro sono state protagoniste decisive della lotta di piazza Tahrir e di tutto ciò che l'ha preparata e fatta crescere, eppure, dicono adesso, il governo militare che s'è insediato al posto di Mubarak se n'è già dimenticato: per questo oggi celebreranno l'8 marzo tornando in piazza. Non si creda che sia un problema solo laddove i militari subentrano ai despoti, o dove, come in Iran dove pure domani sarà una giornata di lotta femminile, sono andate al potere rivoluzioni islamiche con un segno, e con delle legislazioni, esplicitamente patriarcali. Accade anche nelle democrazie occidentali, ed è precisamente quello che è accaduto nell'Italia democratica degli ultimi decenni, dove una estenuante e infinita «transizione» ha potuto compiere tutte le sue giravolte, di centrodestra e di centrosinistra, berlusconiane e antiberlusconiane, nella pervicace sottovalutazione e dimenticanza della rivoluzione femminista. La contro-rivoluzione tentata dal sultanato di Arcore, giova ricordarlo, è stata possibile grazie a questa più vasta e generalizzata rimozione: e non va imputata, com'è diventato vezzo diffuso anche nella stampa di sinistra, al fallimento del femminismo degli anni Settanta, peraltro tutt'ora vivo e vegeto, ma al fallimento della classe politica (maschile) dagli anni Ottanta in poi, nonché alla cecità dell'informazione mainstream. E non ci sarà solidarietà credibile e non sospetta di strumentalità con noi donne oggi che non passi per un'autocritica severa e sincera, della classe politica e dell'informazione.

Le rivoluzioni però, come diceva quel tale, scavano nel tempo e in profondità, e approfittano delle ironie della storia. Per un'ironia della storia, grazie alla contro-rivoluzione del sultanato la rivoluzione femminista, che non ha mai smesso di essere all'ordine del giorno, torna anche al centro della scena. E il laboratorio italiano, volente o nolente, torna all'avanguardia della battaglia epocale che si gioca sul fronte del rapporto fra i sessi. Dove non c'è più la vecchia questione femminile, ma una nuova questione maschile, della quale finalmente si fa strada, fra uomini, una qualche consapevolezza. Mentre fra donne si riallacciano fili generazionali e culturali, messi alla prova da un ventennio che ha cambiato l'antropologia del paese tentando di rifare del «femminile» il giocattolo plastificato di un immaginario colonizzato. Senza dimenticare il negativo che lo macchia oggi come cento anni fa - le operaie asfissiate del 1911, le ragazze massacrate di oggi come Sara e Yara - facciamo di questo 8 marzo davvero un giorno di festa. Più di rimessa al mondo della libertà che di difesa della dignità, più di lotta contro il lavoro disumanizzato che di rivendicazione di un lavoro paritario, più di rilancio del desiderio sequestrato che di censura del sesso esibito, più di sconfinamento in altri mondi che di ricostruzione dei profili della nazione. Se oggi il Cairo è più vicino di quanto non fosse cento anni fa New York, lo si deve anche se non in primo luogo alla rivoluzione femminile.

Tutti i nomi della scintilla

di Alessandro Portelli

Oggi vorrei parlare di Francesca Caputo. Aveva diciassette anni. Morì cento anni fa, in un giorno di marzo del 1911, asfissiata o bruciata, insieme con altre 145 donne, nell'incendio di una fabbrica, la Triangle Shirtwaist Factory, a New York, Stati Uniti d'America. Donna, operaia, immigrata - tre volte senza diritti. Anzi, quattro: era anche minorenne.

Vorrei parlare di lei, ma questo è tutto quello che so: il nome, l'età, dove lavorava, dove abitava (81, Degraw Street, Brooklyn), dove e quando è morta. Ma basta a commuovere e a fare rabbia, perché ci dà i contorni di una vita, e così ci ricorda una cosa elementare che però dimentichiamo spesso di fronte alle tragedie di massa. Quel 25 marzo a New York, come il 24 marzo 1944 a Roma, come in qualunque bombardamento in Afghanistan o in Libia, non è accaduta una strage, un massacro - ma: centoquarantasei omicidi sul lavoro, trecentotrentacinque esecuzioni a sangue freddo, una per una.

C'è una struggente canzone di Utah Phillips, il grande folksinger anarchico scomparso pochi anni fa, che racconta un'altra strage, ventisei lavoratori migranti sepolti senza nome in una fossa comune a Yuba City, California, negli anni '60: «se avessi una lista, se solo li sapessi, vi canterei i loro nomi uno per uno, e arrivato alla fine li ricanterei di nuovo». I rituali e i monumenti più efficaci e struggenti della nostra epoca - dalla commemorazione dell'11 settembre a quella delle Ardeatine, fino al monumento di Washington ai caduti americani del Vietnam sono infine nude liste di nomi.

I nomi delle vittime dell'incendio della Triangle Shirtwaist Factory li conosciamo, e adesso una lista li mette finalmente insieme, con le età, persino gli indirizzi. Con Francesca Caputo morirono Vincenza Billota, che di anni ne aveva 16; e Michelina Cordiano, che ne aveva 25 e abitava a Bleecker Street, in quel Greenwich Villae allora ghetto di immigrati e futuro quartiere degli artisti dove in altri tempi sarebbe andato ad abitare Bob Dylan; e Annie L'Abate, sedici anni anche lei - la stessa età di Tillie Kupferschmidt. Morirono con loro Daisy Lopez Fitze, Nettie Leibowitz, Bettina e Frances Maiale (18 e 21 anni), Caterina, Lucia e Anna Maltese (39, 20, 14 anni: madre e figlie?), Rosie Makowski, Sadie Nussbaum (18 anni anche lei), Providenza Panno, che ne aveva 43, e Antonietta Pasqualicchio, sedicenne; e Golda Schpunt, Jenie Stiglitz, Clotilde Terranova, Frieda Velakovski... C'era anche qualche uomo: Theodore Rotten, Israel Rosen (17 anni). Nomi di italiane, qualche nome ispanico (Loped, Del Castillo), soprattutto nomi ebraici, ben 102: il 1 marzo (centesimo anniversario secondo l calendario ebraico), nel cimitero di Staten Island, davanti a una tomba dove sono ammucchiati 22 dei loro corpi (4 uomini, 18 donne), poche decine di persone si sono radunate in una giornata di vento ad ascoltare dalla voce del Rabbi Shmuel Plafker intonare i loro nomi ebraici: Leah bas Leib (Lizzie Adler), Chaya bas Eli ben Zion (Ida Brodsky), Sarah bas Mordechai (Sarah Brodsky), Aidel bas Asher (Ada Brook), Masha bas Meir (Molly Gerstein), Rashka Mirel bas Reb Moishe Leib (Mary Goldstein), Dina bas Dovid (Diana Greenberg), Perel bas Tzvi (Pauline Horowitz), Rivkah bas Yosef (Becky Kappelman)...

Erano addette alla macchine da cucire, facevano un nuovo tipo di camicette, con la fila di bottoni sul davanti come quelle degli uomini, molto alla moda. Lizzie Adler era arrivata in America solo tre mesi prima, e aveva già cominciato a mandare soldi alla famiglia in Romania; Sara Brodsky avrebbe dovuto sosarsi fra un mese, e il fidanzato riconobbe i corpo dall'anello di fidanzamento che aveva ancora al dito. Venivano dagli shtetl dell'Europa orientale e dai paesi dell'Italia del Sud, italiane ed ebree: le grandi ondate migratorie a cavallo del ventesimo secolo, le donne di cui era fatta l'industria di New York,- la Ladies' Garment Workers Union, la Amalgamated Clothing Workers' Union, sindacati un tempo militanti in una New York proletaria, migrante, femminile - sindacati di donne diretti sempre da uomini... La tragedia della Triangle Shirtwaist Factory fu la scintilla di una campagna per la sicurezza sul lavoro: morendo, queste donne hanno salvato molte vite future.

Per decenni ci hanno raccontato la favola degli Stati Uniti come un paese senza classi e senza lotta di classe. Eppure le due ricorrenze che tutto il mondo ricorda - il 1 maggio e l'8 marzo - vengono tutte da lì, dalla piazza di Haymarket a Chicago nel 1886 dalla Triangle Shirtwaist Factory a New York nel 1911. Soprattutto, la più ispirata delle rivendicazioni - vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose - l'hanno inventata altre donne migranti, le operaie tessili di Lawrence, Massachusetts, nel 1912. In questi giorni, in cui la lotta di classe si fa sempre più feroce, sotto forma di offensiva padronale, da Pomigliano d'Arco a Madison, Wisconsin, sono le facce delle maestre di scuola e delle impiegate statali in prima fila nella grande protesta contro le leggi antisindacali del Wisconsin a dire che si può ancora resistere.

E ce n'è bisogno. Uno degli eventi di commemorazione del disastro del 1911 ha preso la fiorma di un cerchio di donne che si sono riunite per cucire insieme, e per ricordare le 25 donne uccise non più tardi del dicembre scorso un incendio a Dacca, in Bangladesh, in una fabbrica tessile che produce indumenti distribuiti da marche come Gap e J.C. Penney. A questo serve la memoria, a ricordare non solo il passato, ma soprattutto il presente.

E allora, per resistere e non dimenticare, leggiamo e ascoltiamo ancora: ... Annie Ciminello, Rosina Cirrito, Anna Cohen, Annie Colletti, Sarah Cooper, Michelina Cordiano, Bessie Dashefsky, Josie Del Castillo, Clara Dockman, Kalman Donick, Celia Eisenberg, Dora Evans, Rebecca Feibisch, Yetta Fichtenholtz...

La piazza dei desideri

di Cinzia Gubbini

In decine di città la mobilitazione del comitato «Se non ora quando» e dei coordinamenti femministi. Le donne parlano di dignità e autodeterminazione. E pensano a un paese libero e liberato

In tante, e tanti. La giornata internazionale delle donne in Italia parla soprattutto dalla piazza, con iniziative ampie, ampissime e anche con qualcuno che, invece, mette i punti giusti sulle «i».

Ci sarà anche il cotè istituzionale, con Giorgio Napolitano che stamattina al Quirinale ospiterà l'iniziativa «Centocinquanta anni: donne per un'Italia migliore». Dalla poltrona che più maschile non si può un omaggio all'unità d'Italia, tema dell'anno più bipartisan dell'altro - gettonatissimo invece nelle piazze - che è sesso e potere, forse anche a causa della presenza di due ministre, Maristella Gelmini, Istruzione, e Mara Carfagna, Pari Opportunità. Le donne del governo Berlusconi, d'altronde, si sono mobilitate per esorcizzare ogni possibile riferimento al sex-gate: «Alla piazza che parla di dignità delle donne vorrei dire che si tratta di un concetto né di destra né di sinistra», ha detto la ministra all'Ambiente Stefania Prestigiacomo, sottolineando che non ha senso alludere oggi alla vicenda di Ruby, trattandosi «come tutti hanno capito» di un vero e proprio «accanimento giudiziario».

Il riferimento di Prestigiacomo è, ovviamente, all'iniziativa più larga in programma per oggi in decine di piazze italiane. Il «Se non ora quando» che dopo l'oceanica manifestazione del 13 febbraio si dà di nuovo appuntamento «nel rispetto della trasversalità e dell'autonomia che vogliamo mantenere e rafforzare». Davvero tanti e diversi i punti d'incontro, da Roma a Milano, da Reggio Calabria a Sidney (dove si manifesterà davanti al consolato italiano). Con qualche elemento in comune per riconoscere il filo di ragionamento nato dalla reazione indignata alla rappresentazione dell'Italia in mano ai desideri del padrone. Un fiocco rosa «benaugurante nel 150esimo dell'Unità d'Italia per una rinascita del nostro paese» da appuntare ognuno dove vuole, e lo slogan «Rimettiamo al mondo l'Italia» allusione sia al tema della maternità - libera, consapevole e possibile - che alla possibilità pure per questo paese di «stare al mondo», solidale con gli altri popoli, ma anche in linea con i movimenti per la democrazia che hanno rivoluzionato il Maghreb.

A Roma l'appuntamento principale, a piazza Vittorio alle 16. Dal palco si susseguiranno diversi interventi e dalle 19 sarà possibile assistere al teatro Ambra Jovinelli allo spettacolo di Cristina Comencini «Libere».

Ma ci sarà anche l'iniziativa messa in piedi dal coordinamento «Indecorose e Libere» (www.riprendiamociconsultori.noblog.org) che dà appuntamento alle 18 a piazza Bocca della Verità per un corteo notturno che raggiungerà Campo De' Fiori. Con «voce impetuosa» le donne del coordinamento rivendicano «diritti, welfare e autodeterminazione», rifiutando quella «logica familista» che mette al centro la maternità per negare, di fatto, la libertà di scelte e relazioni. Un ragionamento, questo, che parte da più lontano e non vuole perdere il collegamento con altre grandi manifestazioni che hanno messo al centro i diritti delle donne, come quella del 2007 contro la violenza maschile. Violenza che, come testimoniano gli ultimi eventi di cronaca romani, non finisce di esistere e di essere strumentalizzata. Proprio ieri sera mentre il sidnaco Gianni Alemanno insieme alla presidente della regione Lazio Renata Polverini proiettava sul Colosseo illuminato i «dieci punti» per rendere la città «più sicura». «Zone rosse: case, chiese, caserme, carceri, cie», lo striscione calato da «Indecorose e libere». Mentre in un blitz contemporaneo al Pincio, dove si svolgeva il «Carnevale della capitale», è stato esposto lo striscione «If the girls are united they will never walk alone!». «Indecorose e Libere» dà appuntamento anche a Milano a piazza Cordusio alle 17,30 dove verrà cantato l'inno «Sorelle di Tania» (invece che d'Italia), componimento scherzoso ma non troppo che non manca di tirare qualche stilettata alle organizzatrici della manifestazione del 13 febbraio (http://consultoriautogestita.wordpress.com/).

Che sulla democrazia – come su ogni altra forma di governo – incomba il pericolo del disfacimento, è un dato d´esperienza che non può essere negato. Le forme di governo sono vitali se sono animate da un principio, un ressort, secondo l´espressione di Montesquieu. Il ressort della democrazia è la virtù repubblicana. Quando la molla è totalmente dispiegata e dunque non ha più forza da sprigionare, quello è il momento d´inizio della decadenza. La questione, gravida di conseguenze pratiche, è se l´esito finale del processo corruttivo sia o non sia inevitabile. Se non è evitabile, tanto vale rassegnarsi e, se mai, lavorare per il dopo. Se è evitabile, la democrazia come ideale politico non perde di valore, pur in presenza di difficoltà. Possiamo dire la stessa cosa prendendo a prestito l´espressione di Norberto Bobbio, "le promesse non mantenute della democrazia", e chiederci: queste promesse possono o non possono essere mantenute? (...) Che cosa possiamo rispondere a questa cruciale domanda? È necessario prendere atto di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l´odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l´oggetto e, spesso, le vittime.

Per secoli, democrazia è stata la parola d´ordine degli esclusi dal potere per contestare l´autocrazia dei potenti; ora sembra diventare l´ostentazione di questi ultimi per rivestire la propria supremazia. Presso i cittadini comuni, non c´è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C´è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più trasmettono ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C´è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Quando si sente esclamare con fastidio: "tanto sono tutti uguali" (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l´occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una "teatrocrazia", è stato detto. L´esito potrà essere l´astensione o l´adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un distacco. Lo scetticismo a-democratico dal basso fa da pendant alla retorica democratica dall´alto.

Il paradosso sopra segnalato si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue spoglie ideologiche si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un´efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. Basta consultare la storia. Essa ci dice che la democrazia, come parola, può contenere l´anti-democrazia, come sostanza. Anzi, oggi il potere antidemocratico ha bisogno di passare per la porta rassicurante della democrazia (...) Realisticamente o, come si dice, "sperimentalmente", dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere in poche mani, nelle mani di élites. Gli studi in proposito sono numerosi; le loro teorizzazioni presentano diverse varianti e le conclusioni cui pervengono non sono necessariamente in opposizione alle esigenze minime della democrazia. Ma le cose cambiano quando dalle élites si passa alle oligarchie, anzi a quella che è stata definita la "ferrea legge delle oligarchie": una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili, sia della democrazia sia delle stesse élites. Questa tendenza è denunciata concordemente dai critici della democrazia, i critici sia di destra che di sinistra. Il che è quanto dire che la denuncia è corale e che coloro che proclamano l´ideale del governo del popolo sono o degli ingenui o degli impostori. La "ferrea legge" si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l´uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, per ragioni strutturali ha bisogno di piccoli numeri, di gruppi di potere ristretti. Non basta. L´oligarchia non è però l´élite. L´oligarchia - si potrebbe dire così - è l´élite che si fa corpo separato ed espropria i grandi numeri a proprio vantaggio. Trasforma la res publica, in res privatae. Poiché, poi, questa è una patente contraddizione rispetto ai principi della democrazia, occorre che queste oligarchie siano occulte e che esse, a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così il regime dell´illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il "principio maggioritario", che è l´essenza della democrazia, si rovescia infatti nel "principio minoritario", che è l´essenza dell´autocrazia: un´autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un´autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che possono sostenersi solo su se stesse.

(...) Le oligarchie nascoste di cui stiamo parlando, per il sol fatto d´essere tali, tendono naturalmente, anzi necessariamente, all´illegalità e alla corruzione. Poiché le oligarchie del nostro tempo sono costruite e finalizzate all´accaparramento di ricchezza - sempre questo: pecunia regina mundi - il potere di cui si parla oggi è il potere illegale e corruttivo del denaro di cui si occultano il possesso e la gestione per poter corrompere ogni altro ambito della vita sociale. È una tendenza "naturale", per l´ovvia, antropologica legge del potere che già Montesquieu ha chiarito, nella sua crudezza: chi detiene il potere, se non incontra limiti, è portato ad abusarne. Le oligarchie del nostro tempo non incontrano altri limiti se non quelli rappresentati da altre oligarchie. Ma l´abuso come limite all´abuso è semplicemente una complicazione dell´abuso. È anche una tendenza "necessaria", perché i regimi dei pochi sono incompatibili con la legalità uguale per tutti. Le oligarchie hanno bisogno di privilegi, cioè di leggi che valgono solo per loro, diverse da quelle che valgono per tutti gli altri. O, quanto meno, hanno bisogno che le leggi generali e astratte siano interpretate e applicate a loro in modo tale da non contraddire l´esistenza dell´oligarchia stessa. Ciò che occorre loro è una "giustizia dei pari", diversa da quella comune; un "foro speciale" non di giudici imparziali, ma di giudici amici. "Un´aristocrazia - ha scritto Tocqueville, e noi potremmo senz´altro dire: un´oligarchia - non potrebbe lasciarsi sfuggire i suoi privilegi senza cessare d´essere una aristocrazia". La legalità uguale per tutti - lo si comprende senza spiegazioni - è incompatibile con la divisione della società in appartenenti ed esclusi dal potere oligarchico. Quando, alla fine, nel senso comune si sommano due percezioni: l´estraneità al potere e la sua illegalità e corruzione, ecco la miscela esplosiva che può indurre a chiedere che la si faccia finita con la democrazia, se essa, in concreto, significa queste cose.

Che dire, allora? La democrazia è destinata a trasformarsi in oligarchia; l´oligarchia è in se stessa disuguaglianza di fronte alla legge; l´illegalità e la corruzione sono la conseguenza. Allora, dunque, alla domanda se le promesse della democrazia siano tali da non poter essere mantenute, la risposta sembra che debba essere: sì, non possono essere mantenute. Si fondano le democrazie e si mette in moto un processo destinato alla rovina delle società. Fermiamoci un momento, però, prima di questo passo fatale, del quale, se lo facessimo leggermente, ci dovremmo presto pentire, perché, abbandonata la democrazia, avremmo solo autocrazie e le autocrazie non sono un rimedio, sono anzi l´accentuazione dei mali.

(...) Potremmo forse dire così: la democrazia non è - nel senso che non può essere - l´autogoverno del popolo che si afferma durevolmente. È invece la possibilità istituzionalizzata, dunque resa stabile secondo procedure riconosciute e accettate, di combattere e distruggere sempre di nuovo le oligarchie ch´essa stessa nutre dentro di sé. Una definizione in negativo, dunque: qualcosa che si qualifica per essere contro un´altra. Da questo punto di vista, la democrazia è tutt´altro che un ideale impossibile. È invece una possibilità, cioè una serie di strumenti che spetta a noi di utilizzare, per tradurre in pratica l´avversione alle oligarchie. Se gli strumenti esistono e non sono utilizzati, non si può dire che non c´è democrazia, ma si deve dire che la democrazia (come possibilità) c´è e ciò che manca è la pratica della democrazia. Allora, la responsabilità dello scacco non deve essere addossata alla democrazia come tale, ma deve essere assunta da noi, incapaci di utilizzare le possibilità ch´essa ci offre. Se cediamo all´accidia della democrazia, è perché prevale sulla libertà morale il richiamo del gregge e la tendenza gregaria, che sono il lato biologico profondo degli esseri umani che l´avvicinano agli altri esseri viventi, come ha messo in luce Sigmund Freud nel suo studio sulla psicologia delle masse. Ma il gregge è una possibilità, non un destino.

(....) Diciamo così, a costo di cadere nell´enfasi: la democrazia vuole potenti gli inermi e inermi i potenti; vuole forti i giusti e giusti i forti. È per questo che i suoi nemici mortali sono le concentrazioni oligarchiche del potere. Contro le concezioni ireniche della democrazia, non possiamo pensare ch´essa sia il regime che definitivamente pone fine ai conflitti, eliminandone le cause. Il suo tempo non è quello in cui tutto è pacificato. Non è il regno dell´armonia, della giustizia e della concordia. È illusione che sia il luogo ove "il lupo dimorerà con l´agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera" (Isaia, 11, 1-9). Questo sarà, se mai sarà, il tempo messianico. Finché ci sarà politica, ci saranno conflitto, ingiustizia e discordia. La questione non è come eliminarli, ma come affrontarli.

Questo testo è un brano tratto dall´introduzione di Zagrebelsky al volume "L´interesse dei pochi, le ragioni dei molti. Le letture della Biennale Democrazia", a cura di Pier Paolo Portinaro, che esce l´8 marzo per Einaudi. La prossima edizione della Biennale Democrazia sarà dal 13 al 17 aprile

Se l’istruzione per tutti diventa un bersaglio

di Stefano Rodotà

In pubblico, con toni veementi (esagitati?), il Presidente del Consiglio è andato all’attacco della scuola pubblica come luogo di cattivi maestri, dalla quale a buon diritto genitori liberi e pensosi vogliono tenere lontani i figli. Non è una novità. Per raccattare voti, Berlusconi non va mai troppo per il sottile. Ma una scuola allo stremo avrebbe meritato ben altra attenzione da parte del Presidente del Consiglio e della sua sempre fedele ministra dell’Istruzione (così ne avrebbe scritto Damon Runyon). Se una parola doveva venire, questa doveva essere di riconoscenza e rispetto per chi, in condizioni personali e ambientali sempre più difficili, svolge l’essenziale funzione della trasmissione del sapere e della formazione dei giovani. E anche di rispetto per gli studenti, ridotti nelle sue parole ad oggetti docilmente manipolabili, e che invece hanno mostrato di essere tutt’altro che inclini all’indottrinamento, di possedere sapere critico. Ma è proprio il sapere critico che inquieta, che turba il disegno di una scuola tutta e solo votata alla "formazione al settore produttivo"(queste le larghe vedute del Governo).

La scuola pubblica è un’altra cosa. Le sue ragioni sono oggi persino più forti di quelle che indussero i costituenti ad attribuirle valore fondativo, a costruirla come una istituzione affidata alle cure e agli obblighi della Repubblica, come ben risulta dalla severa lezione di diritto costituzionale impartita da Salvatore Settis all’inconsapevole ministra (Repubblica, 1° marzo). Le nostre società sono divenute più complesse, plurali nella loro composizione, attraversate da conflitti. Hanno per ciò bisogno di spazi pubblici dove le persone diverse possano incontrarsi, dialogare. Di fronte all’altro, infatti, non è più sufficiente la tolleranza. Oggi servono soprattutto riconoscimento, accettazione, inclusione. E per questo non bastano le buone parole, peraltro rare, i propositi virtuosi. Sono indispensabili istituzioni capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento.

Di queste istituzioni, di questi spazi aperti, la scuola pubblica è la prima e la più importante. Il mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di "appartenenza" – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati – e avvia un tempo in cui non è la libertà di ciascuno ad essere esaltata, ma nel quale il riconoscimento reciproco è sostituito dall’esasperazione della propria identità, il confronto dalla distanza dall’altro. Chiuso ciascuno nel proprio ghetto, tutti preparati a contrapporsi ferocemente l’un l’altro. Si rischia così una società nella quale nessuno è educato alla conoscenza degli altri, ma solo dei propri simili. Dove, dunque, il dialogo tra diversi diviene impossibile o superfluo, dove non solo la soglia della tolleranza si abbassa drammaticamente, ma si perde pure la possibilità di essere educati alla ricerca di dati comuni, che sono poi quelli che consentono di superare gli egoismi e di individuare interessi generali. Solo una scuola pubblica può trasformare la molteplicità in ricchezza.

Con espressione felice, Piero Calamandrei aveva parlato della scuola pubblica come "organo costituzionale". Proprio queste parole ci aiutano a cogliere un altro aspetto sconcertante dell’intervento del Presidente del Consiglio. Un organo costituzionale delegittima un altro organo costituzionale. Pure questa non è una novità. Non v’è più nulla nelle istituzioni che Berlusconi pensi che meriti d’essere rispettato, fuori di se stesso. Nel momento in cui la scuola viene indicata al disprezzo dei cittadini come luogo dove si "inculca" qualcosa, ecco costruita la premessa per giustificare il suo abbandono materiale, il taglio delle risorse, la mortificazione di chi lavora lì dentro – docenti e studenti. E, al tempo stesso, si dà nuovo fondamento al "dirottamento" dei fondi pubblici verso le scuole private.

Uso questa parola non per riaprire qui, come pure sarebbe doveroso, la questione della legittimità del finanziamento pubblico alla scuola privata, ma per porre un altro problema. Essendo indiscutibile l’obbligo dello Stato di istituire "scuole statali per tutti gli ordini e gradi" (art. 33 della Costituzione), nel momento in cui le risorse disponibili si riducono, quella chiarissima prescrizione costituzionale deve essere almeno intesa come criterio per la distribuzione delle risorse disponibili, sì che ai privati si dovrebbe arrivare solo dopo aver soddisfatto le esigenze del pubblico.

Si perde, altrimenti, proprio la qualità di organo costituzionale della scuola pubblica, il suo essere luogo di produzione della conoscenza, dunque di una delle precondizioni della stessa democrazia. Ma l’innegabile natura costituzionale della scuola pubblica, improponibile per una scuola privata che può esserci o non esserci, è specificata dal fatto che di essa la Costituzione parla subito dopo aver detto che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se l’attenzione, invece, è sempre più rivolta al "settore produttivo", si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro.

Per chi suona la campanella

di Marco Lodoli

La scuola pubblica vacilla sotto le bastonate del governo, sotto le radiazioni mortali delle televisioni e dei nuovi valori dominanti, disprezzata e vilipesa dal primo che passa e dal primo ministro. I professori sono piuttosto vecchi e giovani non ne arrivano, graverebbero troppo sul deficit; anche gli edifici spesso sono malridotti, sistemarli sarebbe un altro costo impossibile; i programmi spesso sono astrusi, frutto di tanti anni di astrattismi furibondi; i ragazzi sono confusi, a volte addirittura maleducati, imparano poco, pensano ad altro o a niente.

Eppure se vogliamo che l´Italia abbia un futuro, dobbiamo tenerci stretta questa scuola così malridotta e cominciare ad amarla di nuovo e di più, dobbiamo investire denaro e energie nell´unico laboratorio culturale che il paese possiede. Certo, ci sono le scuole private, e sono tante: ma vogliamo vederle un po´ più da vicino, vogliamo entrarci? Appena laureato ho lavorato alcuni anni in diplomifici preoccupati di una sola cosa: la retta mensile. Non c´era problema didattico o disciplinare che non potesse venir spianato da un assegno. Ricordo anche il volto attonito del gestore della mia prima scuola quando si rese conto che avevo rimandato in storia il rampollo di una nobile famiglia: «Ma quelli pagano, pagano! Lo capisci o no? Quelli ci mantengono a tutti quanti, anche a te che vuoi fare l´eroe! I soldi nella tua busta paga ce li mettono loro, è chiaro?». E gli studenti questo lo sanno benissimo, questi principi vengono loro inculcati – per usare un verbo alla moda – concordemente dai genitori e dalla scuola. Sanno di andare avanti spinti dal soffio di una mazzetta frusciante di banconote: do ut des, pagare moneta vedere cammello, tanto dal ministero non arriva nessuno a controllare.

L´educazione si snoda attorno a un solo comandamento: i ricchi se la cavano sempre, anche quelli decerebrati. Poi ci sono le scuole private d´elite, e anche queste stanno aumentando perché fanno promesse importanti. Qui non si tratta più di salvare i mentecatti, qui si tratta di preparare il club dei migliori. "Non conta la conoscenza, contano le conoscenze" questo è lo slogan implicito delle nuove scuole private, quelle con gli stemmi, i nomi inglesi, le divise stirate e inamidate. Qui ci si iscrive in una loggia che durerà nel tempo: ci si scambiano indirizzi, visite, week-end, sorelle e fratelli, qui si cementa la nuova classe dirigente. A volte c´è una spolveratina di cattolicesimo, zucchero a velo, ma di sicuro in nessun luogo al mondo le parole di Gesù valgono meno che qui: amore, fratellanza, carità sono solo carta da parati. Qui i cammelli passano in fila e al trotto nella cruna dell´ago. Le rette si aggirano attorno ai mille euro al mese proprio per fare selezione, per tenere fuori i miserabili. Quali valori sociali vengono inculcati nelle tenere menti dei vari Jacopo e Coralla? Non perdete tempo nella commiserazione, fate finta che tutto vada bene e andate avanti, il mondo vi aspetta!

Per tenere insieme la società c´è solo la scuola pubblica. È commovente vedere come i ragazzi italiani e i ragazzi che in Italia sono arrivati da lontano riescono a stare bene insieme, a capirsi, a spiegarsi, quanta solidarietà c´è tra tutti quanti, quanti discorsi crescono insieme e si intrecciano al futuro. Bisogna solo rendere la nostra scuola più bella, perché sia il fondamento di una società giusta: bisogna credere in questi ragazzi, proteggerli, farli crescere bene, anche se non hanno mille euro al mese da spendere.

Così è cresciuto il nostro paese

di Miriam Mafai

Alla fine, a ripensarci adesso, non fu poi così male la nostra scuola ai tempi della cosidetta Prima Repubblica, quando al ministero di Viale Trastevere, comandarono quasi senza interruzione dal 1946 al 1997 uomini della Dc, da Gonella a Gui a Misasi fino a Rosa Russo Iervolino. Qualche battaglia, e non delle meno importanti, è stata vinta. Non fu poi così male la nostra scuola negli anni della Prima Repubblica se, grazie all´impegno dei nostri maestri e delle nostre maestre, si riuscì ad abbattere il tasso di analfabetismo che nel 1951 in Italia era ancora del 14% (con punte del 25% in Puglia e Sicilia e del 32% in Calabria) e si riuscì moltiplicare il numero degli studenti della scuola media che nel 1951 non arrivavano, in tutta Italia, a un milione e venti anni dopo sfioravano i tre milioni.

Non sarà stato merito dei vari ministri democristiani, ma grazie all´impegno dei suoi insegnanti, la nostra scuola pur nelle dure condizioni di quei tempi ha accompagnato e promosso, forse senza programmarla, la crescita del nostro paese. Eravamo allora un paese in movimento, nel quale erano possibili sogni e speranze. Penso alle centinaia di migliaia di contadini meridionali semianalfabeti che, emigrati a Milano o Torino, indicati spregiativamente come "marocchini", sognavano per i propri figli un futuro da operai. Ed erano migliaia gli operai di Torino o Milano che sognavano per i propri figli un futuro da tecnico o da ingegnere. Solo sogni? No, non furono solo sogni: quello che chiamiamo "ascensore sociale" bene o male per un certo periodo ha funzionato, anche grazie all´impegno ed alla fatica dei nostri insegnanti.

Una spinta decisiva in questo senso venne dalla prima vera riforma della scuola che, ereditata dal precedente regime, prevedeva dopo i cinque anni di elementare due percorsi alternativi: da una parte una scuola media con il latino per i ragazzi (e le ragazze) che si ripromettevano di proseguire gli studi fino all´Università. Gli altri potevano, volendo, frequentare un avviamento professionale o, ancora meglio, dare una mano a bottega o nei campi. Va ascritto a merito del primo centrosinistra, presieduto da Amintore Fanfani, avere cancellato per sempre quello che era stato definito un "marchio dei poveri al bivio dei dieci anni" istituendo una scuola media unica obbligatoria per tutti fino ai 14 anni. E senza il latino. Aspramente discussa e contestata la riforma avrebbe aperto a ceti che ne erano stati fino a quel momento esclusi le porte dell´istruzione superiore, fino, eventualmente, all´Università. Al ministero di Viale Trastevere c´era sempre un democristiano, naturalmente. Era Luigi Gui, un veneto personalmente assai poco proclive alle riforme, ma il clima politico era cambiato e la riforma, fortemente voluta e quasi imposta dai socialisti e dal loro uomo di punta, Tristano Codignola, alla fine nel dicembre del 1962 sarà approvata. Qualcuno definì quella riforma un miracolo.

Poi, nel corso degli anni fu la volta di altri provvedimenti, più o meno ambiziosi e condivisi, destinati a suscitare dibattiti e proteste. Nel corso dei quali mi vien fatto di pensare che bisognerebbe ascoltare di più le voci di coloro che nella scuola lavorano, gli eredi di quei maestri e quelle maestre che ai tempi della Prima Repubblica sconfissero l´analfabetismo e avviarono quell´ascensore sociale di cui oggi sentiamo la mancanza.

Strane e nuove cose stanno accadendo nei paesi arabi. Strane e nuove anche per quel che dicono di noi, democrazie assestate ma incapaci di ricordare come nacquero, di chiedersi se ancora sono all’altezza delle promesse d’origine. Tutti i paesi europei sono sconvolti dai turbini nordafricani, ma è in Italia che lo sgomento s’accoppia a quest’inettitudine, radicale, di interrogare se stessi. È come se ci fossimo abituati, lungo gli anni, a pensare la democrazia in maniera monistica: come se il dominio, anche da noi, fosse di uno solo. Come se una fosse la fonte della sovranità: il popolo elettore. Una la legge: quella del capo. Una l’opinione, anche quando essa coincide con il parere di una parte soltanto (la maggioranza) della collettività. Monismo e pensiero unico cadono a pezzi oltre il Mediterraneo, ma da noi hanno messo radici e vantano trionfi. Tocqueville spiega bene, nei libri sulla Rivoluzione francese, le insidie delle prese della Bastiglia. Il Re fu sostituito da un potere solitario, illimitato, più efficace della Corona.

Quello del Popolo, uno e indivisibile. Un solo valore venne eretto a valore supremo, non negoziabile: quello della Ragione. L’Uno è il fulcro del pensiero monistico, e surrettiziamente ci addestra a pensare contro la democrazia. Fino a due non riusciamo a contare. La stabilità è l’idolo cui sacrifichiamo le primordiali aspirazioni democratiche. Forse è il motivo per cui i governanti europei, e gli italiani in sommo grado, faticano a capire i paesi arabi o l’Iran. Stentano a osservarli, a parlarne: non ne hanno il vocabolario, pur essendo i padri dei dizionari democratici disseppelliti oltre il Mediterraneo anche per noi. Cantileniamo il ritornello della primavera dei popoli, e non sappiamo più quel che accade, quando un popolo s’appropria del proprio destino. Quel che urge costruire, una volta distrutto il trono. Eppure basta guardare: non si riducono a questo, per ora, le rivoluzioni arabe. Non è un Popolo che si solleva, monolitico grumo di passioni che conquista il potere. Quel che vediamo sono le molteplici aspirazioni, il proliferare e differenziarsi di progetti, il bisogno –inaugurale in democrazia– di un regime regolato in modo da favorire tale differenziazione. Non il dominio del popolo è la meta ma la possibilità della disputa, la concordia nutrita di discordia.

Due sono le caratteristiche delle rivoluzioni arabe, che possono finir male o bene ma sono comunque esperienze della democrazia ai suoi albori. In primo luogo la scoperta dell’altro, del diverso, non più sotto forma del nemico che si odia o cui ci si assoggetta: dunque la scoperta di sé, di quel che io posso fare per sortire dal marasma. È significativo che la prima scintilla delle rivolte sia stata il suicidio del tunisino Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante, il 4 gennaio. Il gesto ha annullato d’un colpo anni di suicidi-omicidi terroristi, e per la prima volta l’arabo insorge cominciando da sé. La seconda caratteristica è la scoperta di quanto sia prezioso, perché ci sia democrazia, lo spazio pubblico dove le varie idee s’incrociano, s’oppongono, sfociano in delibera. Nella Grecia antica si chiamava agorà: la piazza dove i privati s’incontrano, diventano cittadini che accudiscono la cosa pubblica oltre che la propria famiglia. Dove democraticamente decidono. Si decide votando a maggioranza, ma l’esistenza dell’agorà è il preambolo che dà spazio, dignità, legittimità al diverso.

Chi ha seguito su internet i tumulti arabi avrà visto le discussioni sterminate attorno a ogni articolo, appello. In assenza di un’agorà ufficiale (di una res publica), gli arabi scelgono internet e cellulari per parlarsi l’un l’altro come mai prima d’ora, per manifestare contro gli autocrati da cui erano manipolati, non governati. Il primo atto della democrazia è uscire di casa, contrariamente a quel che dice Berlusconi secondo cui la famiglia privata ti insegna tutto, e fuori s’aggirano scuri professori della scuola di Stato che inculcano nozioni devianti. Ha scritto Robert Malley sul Washington Post che Al-Jazeera è divenuta un attore politico di primo piano «perché riflette e articola il sentimento popolare. È diventata il nuovo Nasser. Il leader del mondo arabo è una rete televisiva».

Ma internet e Tv sono gli strumenti, non la stoffa delle democrazie nascenti. Altrimenti potremmo dire che anche da noi le Tv commerciali sono state levatrici di democrazia. Quel che le reti sociali arabe suscitano è la pluralità di opinioni e notizie, non l’emergere dell’etere privatizzato italiano; non la Tv a circuito chiuso di Milano 2 che s’estende alla nazione ed è emblema del quartiere sbarrato che gli americani chiamano gated community. Al-Jazeera e social network arabi abbattono i recinti, aprono finestre. Le aprono a quel che le nostre democrazie inventarono, quando nacquero anch’esse nel tumulto: la pluralità di idee, la separazione dei poteri, la convinzione che il potere tende a estendersi, se altri poteri non lo fermano e controbilanciano. Le apre infine alla laicità, tappa essenziale delle democrazie d’occidente. Naturalmente è possibile che i Fratelli musulmani, più organizzati dei manifestanti, abbiano il sopravvento. Ma gli ingredienti iniziali delle rivolte non sono in genere confessionali. Può darsi che le cerchie autocratiche si limitino a spostar pedine. Ma gli insorgenti, come si vede in Tunisia, sgamano presto e non tollerano gattopardi che fingono cambiamenti. Un esempio significativo è il documento pubblicato il 24 gennaio sul sito del giornale Yawm al-Sâbi’ ("Il settimo giorno"): un manifesto in 22 punti in cui si chiede la separazione tra religione e Stato, la dignità delle donne, il diritto di ogni cittadino (comprese donne, cristiani) di accedere alle massime cariche, tra cui la Presidenza. Il documento è firmato da una ventina di teologi e imam egiziani, ed è stato ripreso prima da Asia News e poi da più di 12.400 siti arabi. Ne parla da giorni Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e professore in Libano e al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Secondo Samir, i firmatari del proclama non sono soli: «Questo desiderio di operare una distinzione tra religione e Stato è un sentimento comune. La religione è una cosa buona in sé e non vogliamo ostacolarla, purché rimanga nel suo ambito, come una cosa piuttosto privata, che non entra nelle leggi dello Stato. Invece i diritti umani, questi sì! (...) E se la legge religiosa va contro i diritti umani, allora preferiamo i diritti umani anziché la sharia» (www.zenit.org). In Italia parole simili sono eresia, perché tutt’altro è lo spettacolo cui assistiamo: una regressione della laicità, della separazione dei poteri, della democrazia. Non stupisce che Berlusconi abbia difeso in principio i dittatori, temendo di disturbarli: non è la storia araba, ma la storia delle nostre democrazie che non arriva a interiorizzare. Metà del mondo entra in contatto con la democrazia, con le tesi di Montesquieu sul potere frenato da altri poteri, ma lui è fermo, a presidio dell’Uno e l’Indivisibile, in polemica costante con ogni potere di controllo (magistratura, Consulta, Quirinale). Mai come in queste settimane il suo esperimento è apparso superato: espressione di una democrazia impigrita, chiusa. Anche la sua idea di televisione non è agorà, inclusione del diverso. È un’opinione sola che grida dallo schermo della «scatola tonta» e ha l’impudicizia di presentarsi come Radio Londra armata contro tiranni. Non siamo certo gli unici ad arrancare dietro la primavera araba senza sapere perché arranchiamo: dimentichi dei patti coi tiranni, dei profughi respinti ai nostri confini e consegnati ai campi di concentramento libici, dell’Arabia tramutata in terra d’affari. Il ministro degli Esteri francese Michèle Alliot-Marie ha reagito all’inizio come Frattini, Berlusconi. Ma in Francia son bastati due mesi, e domenica il ministro ha dovuto dimettersi, spinto dal suo stesso partito.

Il discorso sui valori, caro al Premier quando inveisce contro la scuola pubblica, o contro l’adozione da parte di single o gay, o contro il diritto del morente a decidere se farsi o non farsi tenere in vita, è frutto di questo monismo non democratico. È una visione gradita alla Chiesa, che può ottenere potere (non in omaggio ai Vangeli ma a una sacralizzazione della stabilità degna del Grande Inquisitore) spartendolo alla maniera dell’Islam radicale: agli imam le moschee, i soldi, la signoria sulle anime; agli autocrati l’imperio politico inconfutato. L’orizzonte è quello dell’agorà negata: che trasforma l’inquilino della comunità protetta non in cittadino, ma in consumatore appeso alla scatola tonta, incapace di uscire e scoprire la Città.

La vera egemonia culturale degli ultimi anni ha avuto il segno del cinismo, ha scritto Michele Serra, ed è difficile dargli torto. Perché quell’orientamento si è imposto? Attraverso quali percorsi e opzioni, ma anche attraverso quali sconfitte, rinunce, rese? Come invertire la tendenza? O meglio, come consolidare i segnali di opposta natura che iniziamo a cogliere? Domande come queste possono apparire superflue se si rovescia ogni colpa su mali eterni e inguaribili degli italiani. Hanno molto senso, invece, se pensiamo che il prevalere del cinismo sia andato di pari passo con i processi di degenerazione della Repubblica e con l’incapacità di porvi argine. E che su questo crinale abbia messo radici profonde, con le quali dobbiamo fare i conti.

Quel prevalere ha trovato indubbiamente impulso - anche in questo ha ragione Serra - nel rifluire della tumultuosa stagione degli anni Sessanta e Settanta, e nelle macerie che essa ha lasciato. Lo ha trovato nel declino delle speranze e al tempo stesso nell’avanzare di processi profondi di corruzione e decadimento delle istituzioni: essi faranno la loro marcia trionfale negli anni Ottanta ma sono già evidenti nell’avvio del decennio. E’ nel 1980 che Italo Calvino scrive su queste pagine un Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti che ha un avvio fulminante: "c’era un Paese che si reggeva sull’illecito" [vedi anche in eddyburg, precisamente qui - n.d.r.].

In quegli stessi mesi Massimo Riva vedeva profilarsi fra i miasmi di una corruzione senza precedenti il "Fantasma della Seconda Repubblica" e osservava amaramente: ogni giorno che passa si attenua la speranza che l’alternativa possa essere rappresentata da "un politico sagace e democratico, cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli". Era, appunto, il 1980, e l’anno dopo Giuseppe Tamburrano scriveva un racconto fantapolitico ambientato nel 1984: prevedeva per le elezioni di quell’anno "una valanga di voti contro lo ‘Stato dei partiti’" (con il Pci "crollato al 21%", la Dc al 14%, il Psi al 7%) e "una maggioranza assoluta di uomini nuovi", eletti a furor di popolo per seppellire quel che restava della democrazia italiana.

Fantapolitica, come si vede, presto dimenticata nei ruggenti anni Ottanta. Un profondo corrompersi della politica (e la crescente disaffezione nei suoi confronti) andò allora di pari passo con processi che investivano per intero il modo di essere del Paese. Con il progressivo prevalere, appunto, della "società cinica" sulla "società civica", per dirla con il sociologo Carlo Carboni: un prevalere che portò con sé anche l’indifferenza crescente ai processi di corruzione, agli scandali, all’involgarirsi della comunicazione politica (cui il nuovo panorama televisivo offriva scenari e stimoli inediti). Il tutto favorito, naturalmente, dal deperire di alternative adeguate. Qualcuno osservò allora che con il "compromesso storico" la sinistra aveva smarrito il Progetto, e con Craxi il Candore: l’osservazione era un po’ impressionistica ma non del tutto infondata. Si giunse così al tracollo dei primi anni Novanta: improvviso e inatteso, ma non difficilissimo da spiegare. L’esplodere di Tangentopoli rivelò in realtà - lo sottolineava bene alcuni anni fa Barbara Spinelli - un vero disastro nazionale, che coinvolgeva la società e la politica. E fu un disastro, aggiungeva, anche per quel che non abbiamo imparato da esso. Per la lezione che non ne abbiamo tratto. Il mito di una società civile sana contrapposta a un ceto politico corrotto aiutò allora a rimuovere il deficit di moralità collettiva che si era accumulato. Favorì nuove illusioni, che trovarono in Bossi e in Berlusconi i loro araldi. Del resto, il favore popolare nei confronti di Mani Pulite cominciò a deperire quando l’estendersi delle indagini rivelò la fragilità e la labilità dei confini fra società civile e ceto politico: il primo ad avvertirlo fu un giudice, Gherardo Colombo. Il miracolo promesso dall’"uomo nuovo" di Arcore, inoltre, accoglieva pienamente al suo interno i modelli sociali e culturali che si erano delineati negli anni Ottanta. Permetteva ad essi di uscire rafforzati e non indeboliti dalla catastrofe etica che si era rivelata. E il Cavaliere non mancò mai di manifestare, coerentemente, la sua solidarietà a Craxi, sino alla beatificazione postuma (e sino ad ereditarne collaboratori e aedi). Altrettanto coerentemente - sia detto per inciso - l’articolo di Serra non è piaciuto a Giuliano Ferrara, che sul "Foglio" - dopo aver citato i "paradossali e moralistici elogi del malandrino" del suo giornale - ha dato una brillante dimostrazione di come si possano mescolare arbitrariamente fatti, categorie e concetti (in attesa della grande platea di Raiuno, in coda al Tg di Minzolini: evocando abusivamente, come negli anni Ottanta, una storica trasmissione di libertà, contrapposta al fascismo, di cui era proibitissimo l’ascolto).

La stagione berlusconiana ha consolidato potentemente, insomma, modelli formatisi in precedenza ma il suo volgere al termine mostra l’interna debolezza di essi. Li rivela impietosamente a se stessi. Non è forse casuale che nei giorni scorsi sia naufragato un maldestro tentativo di trasferire le scene finali del Caimano nella realtà, davanti al Palazzo di giustizia di Milano. Altri tentativi potranno certo esser fatti con maggior impegno ma la capacità di mobilitazione populista era stata alimentata negli anni scorsi dal permanere di una qualche fiducia nel "miracolo" promesso dal Cavaliere. Ed è destinata a deperire assieme ad essa. Assieme alla riscoperta - anche all’interno della "società cinica" - che le regole non sono un’ingiusta vessazione ma una difesa essenziale, per tutti. Irrinunciabile, in crisi profonde come quelle che viviamo. Ha qui radici il crescente appannarsi della credibilità del premier, che trova ormai puntelli solo nell’assenza di alternative. Di qui, anche, l’importanza degli inaspettati e straordinari pronunciamenti collettivi che hanno fatto irruzione sulla scena dopo moltissimo tempo. Sullo sfondo di essi vi è il riemergere di una consapevolezza che sembrava dimenticata, sepolta dalle delusioni e dalle disillusioni. Una consapevolezza cui dava voce ancora Italo Calvino nel lontanissimo 1977, in un’Italia minacciata dall’offensiva terroristica e aggredita dai processi di degenerazione delle istituzioni: "Lo Stato siamo noi proprio perché lo Stato dà sempre più di frequente prova di non esistere. L’insipienza dei governi ci ha portati al punto in cui i problemi, lasciati aggravare, esplodono l’uno dopo l’altro (…). Lo Stato oggi consiste soprattutto nei cittadini democratici che non si arrendono, che non lasciano andare tutto alla malora". E’ necessario ancora partire da qui, ma sarà difficile andare molto lontano e molto in profondità se dal centrosinistra non verranno quei segnali di rinnovamento radicale che sinora non sono venuti. Se una "partitocrazia senza partiti" e da tempo afasica, prigioniera dei temi e dei tempi del premier, non inverte la tendenza, non contribuisce a mettere realmente al centro i nodi del Paese e la speranza di futuro. Anche facendo un passo indietro, volto alla sua stessa rigenerazione e rivitalizzazione. Anche pensando realmente a mettere in campo, in un domani non lontano, una ipotesi di governo fondata su figure di altissima autorevolezza e competenza. Un’ipotesi che abbia la credibilità e la forza per alimentare i fermenti positivi della società e per offrirsi ad essi come riferimento sicuro e affidabile.

Dieci anni di memoria «ufficiale» della Shoah. Un decennio di dolorose celebrazioni: visite, convegni, pubblicazioni, nuovi spazi museali, dibattiti giornalistici, documentari tv. La liberazione di quei residui tenaci di umanità che l'efficiente barbarie nazista non era riuscita a eliminare in tempo nel «campo» di Auschwitz, da parte dell'Armata Rossa (un dato che, chissà perché, viene spesso tralasciato o sottaciuto), aveva aperto gli occhi al mondo su quello che Lord Russell avrebbe chiamato «il flagello della svastica». Da quel 27 gennaio 1945, nessuno poté più dire (spesso mentendo): «io non sapevo». Certo, a quel tipo di reazione, con l'apertura dei lager accadde un'altra reazione sbagliata, che ci è stata mostrata dai filmati angloamericani: i bravi borghesi tedeschi accompagnati in vista obbligata ai campi che davanti ai forni crematori, con le pile di cadaveri che la macchina dello sterminio non fece a tempo a bruciare, dopo che erano passati per le «docce» a base di Zyclon B, quegli onest'uomini e quelle distinte signore elegantemente vestiti, distoglievano lo sguardo. Quasi a negare quella evidenza sconvolgente. Voltavano la testa dall'altra parte.

Voltare la testa, o fingere di non sapere, o dimenticare volontariamente, segna un atteggiamento che, almeno in punto di teoria, l'istituzione della «giornata della memoria» dovrebbe contrastare. Ma è così? Davide Bidussa intervistato da Simonetta Fiori (su la Repubblica di ieri), ha espresso dubbi condivisibili, marcate perplessità e una certa insofferenza, specificamente sull'overdose di memoria. Io credo che l'overdose sia non della memoria, la pratica volta a far sì che una comunità conservi, nel la sua intelligenza collettiva come nelle sue viscere profonde, la consapevolezza dell'accaduto, bensì della commemorazione: specie quella a comando, quella codificata da leggi, normata da regolamenti, applicata da circolari ministeriali. Se un po' di sensibilità in più sull'universo concentrazionario e su quello che uno studioso (Wolfgang Sofsky) ha chiamato «l'ordine del terrore», si è diffusa, il Giorno della Memoria è buona cosa, da conservare e sviluppare. Tanto più che anche ieri la provocazione antisemita e neofascista, a Roma, nella città di Alemanno, ha imbrattato di scritte il quartiere Monti e il Museo della Resistenza di Via Tasso.

Ma come non badare all'effetto uguale e contrario? Il commemorazionismo, che diventa celebrazionismo, inevitabilmente stucchevole e ripetitivo, può suscitare stanchezza, e addirittura rigetto, quando diventa non solo di Stato, ma addirittura di governo; e, d'altro canto, non smettiamo di assistere a un disinvolto impiego della memoria dell'Olocausto per redigere incessanti peana allo Stato di Israele, assolvendolo non solo dal suo «peccato capitale» - la sua nascita violenta, con l'espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre e dalle loro case - ma altresì dalla sua perdurante politica di discriminazione e di apartheid.

Ciò detto, e ribadito che le persecuzioni subite non possono giustificare nuove persecuzioni, tanto meno ai danni di innocenti, forse il decennale della Giornata può essere l'occasione per passare, dalla Memoria alla Storia: se la prima comprende l'errore, l'oblio, la rimozione; alla seconda spetta il compito, insostituibile, di ricostruire e preservare la verità, contro le imposture negazioniste dell'Olocausto, contro i «rovescismi» interessati e ogni tipo di contraffazione. Ma a difendere il fortino della storia, non può ergersi un «Ministero della Verità Storica», che diventa ipso facto verità politica o giudiziaria. La concomitanza tra questo decennale e la (reiterata) richiesta di una legge «antinegazionista» è inquietante e reclama vigilanza da parte dell'unico «tribunale» cui si possa riconoscere un ruolo: quello rappresentato dalla comunità scientifica.

Insomma, la Memoria ricordi, con tutti gli umani errori che comprende; la Storia acclari i fatti, servendosi del metodo e delle tecniche appropriate; e la Politica? La Politica faccia il suo mestiere. Provi ad amministrare la polis - istituzioni e società -, che ne ha tanto bisogno, a cominciare dagli amministratori stessi, che avrebbero necessità di 365 giorni della memoria che ricordino loro doveri e princìpi, che, a quanto pare, essi tendono a dimenticare in allegria.

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