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Ci vogliono riforme profonde, rivoluzionarie, per tirarsi fuori da questa crisi. Che ha un nome ben preciso: crisi del capitalismo manageriale monetario». Allarme radicale, persino impensato, quello di Giorgio Ruffolo, economista ed esponente di punta del riformismo italiano. Che fa corpo con un’analisi anticipata nel finale del suo ultimo libro: Testa e croce. Una breve storia della moneta (Einaudi, pp. 176, Euro 17). La tesi: la liquidità finanziaria, in moneta e titoli, si autoalimenta, e «scommette» su di sé. Divaricandosi dai beni e dai servizi reali. Fino al crollo e al contagio dopo la vertigine. Che inghiottono in un vortice globale risparmiatori, economia e stati. Inclusa la crisi del debito italiano.

Bene, come raddrizzare la barra? Quali contromisure anticicliche? E poi: va bene Monti? O ci vuole dell’altro? E sinistra e centrosinistra, come devono muoversi in questo scenario? Sentiamo Ruffolo.

Ruffolo, tutti parlano di crisi del capitalismo, dall’Economist a Tremonti, passando per una selva di economisti. Però le politiche sono sempre quelle: rigore e correttivi finanziari. Dunque solo geremie moralistiche?

«Attenzione, c’è una crisi di legittimazione e di consenso sociale. Sicché anche l’aspetto etico conta, come un tempo nelle dispute tra gli avversari cristiani del capitalismo avido e i suoi apologeti settecenteschi. Il punto è che l’avidità economica fine a se stessa ha preso oggi il sopravvento. Ma senza mostrare i benefici della prosperità, come nel capitalismo industriale di un tempo, e nel capitalismo manageriale successivo....».

Un’inversione mezzi -fini. È questo che è accaduto?

«Esatto. Prima la finanza convogliava i risparmi verso gli investimenti. Con l’avvento del terzo capitalismo, quello monetario, la finanza si rivolge a sé stessa, cresce e scommette su di sé. E il circuito risparmi-investimenti si capovolge in impieghi speculativi. Un circolo vizioso, che penalizza la produzione, crea impoverimento e genera fenomeni simili alla grande depressione del 1929. Con una fondamentale differenza...».

Quale?

«Allora la crisi fu causata dalla sfasatura tra sovrapproduzione e sottoconsumo. Con crollo dei titoli azionari, aumento dei prezzi e inflazione. Oggi, ad accendere la miccia è stata l’inflazione finanziaria. Cioè l’aumento della liquidità totale, comprensiva di moneta e titoli. Nel 2007 tale ammontare di liquidità eccedeva di ben 12 volte il Pnl mondiale! Non sono aumentati i prezzi dei beni, bensì i prezzi dei titoli, sopravavalutati all’eccesso. Fino allo scoppio finale della bolla negli Usa».

Si è inventata e venduta ricchezza per accorgersi che non c’era?

«Già. In passato l’aumento dei prezzi frenava la domanda, ristabilendo un possibile equilibrio tra massa di prodotti e prezzi. L’inflazione era una spia. Con la finanza globale tutto è molto più pericoloso. Perché quando il prezzo dei titoli cresce, pompato dalle agenzie di rating e dalle banche, la gente acquista in massa titoli sul nulla. Titoli sorretti da credito al consumo e mutui, dunque da debiti. Che vengono rinnovati e crescono. Fino all’impossibilità di onorarli e al crollo, annunciato da vendite al ribasso che travolgono tutti: risparmiatori, imprese e proprietari di case ipotecate. Altro che distruzione creatrice!».

Colpa del capitalismo liberista giunto all’acme finanziario, o anche di welfare states troppo indebitati?

«La colpa è stata delle disuguaglianze, alimentate da un capitalismo che per ricostruire i suoi margini di profitto s’è liberato di lacci e lacciuoli. Ristrutturandosi, e comprimendo salari e occupazione. E così, dopo gli anni 70, invece di redistribuire senza sprechi e rilanciare gli investimenti, si è scelta la strada dell’indebitamento pubblico e privato. Per ricostruire la domanda e sostenerla. La conseguenza è stata il debito sovrano incontrollato. E il ruolo egemone della finanza mondiale nel valutarlo e gestirlo».

Un certo Marx lo aveva detto: a un certo punto il capitalismo si indebita, invoca la finanza e vi si mescola. E scarica tutto sulle spalle dello stato...

«Marx aveva capito quasi tutto. Incluso il passaggio dal capitalismo industriale e manageriale, a quello finanziario, con le sue logiche autodistruttive. Aggiungerei un certo Braudel, che parla di autunno del capitalismo nella fase finanziaria».

Veniamo al che fare. Nel suo ultimo libro Lei parla addirittura di “decumulo monetario”, in chiave anti-finanza. Che cos’è?

«Significa fermare la bolla. E ripristinare l’equilibrio tra beni e moneta. Penalizzando l’accumulo di titoli e denaro, e riconducendo quest’ultimo a mezzo di pagamento e investimento. Vuol dire Tobin Tax, far costare di più le transazioni, e ricondurre le banche alla loro funzione di sostegno alla crescita e alla creazione di posti di lavoro. Insieme però ci vuole una politica in grado di indicare obiettivi generali. La piena occupazione innanzitutto. E il rilancio della domanda di beni e servizi non effimeri. Con particolare attenzione all’ambiente, che non è un vincolo ma un moltiplicatore di crescita. Sia in termini di qualità della vita, che come innovazione tecnologica ad alto valore aggiunto».

Lei auspica una sorta di comando politico sull’accumulazione economica. Quasi a plasmare il capitalismo oltre se stesso. Ma come si fa con “questa” Europa?

«Il problema è lì. Manca l’Europa. Manca la Banca centrale in funzione anticiclica. Mancano gli Eurobond. Manca un vero parlamento sovrano. In una parola, manca l’Europa politica».

E Monti, rispetto a tutto questo, sta facendo bene o male?

«Ha fatto nell’immediato, le uniche cose possibili. Frenare l’indebitamento e ricostruire l’onorabilità dell’Italia in Europa. Ma non si vedono ancora le scelte nuove ed essenziali: rilancio della domanda e redistribuzione. È su questo che Monti deve concentrarsi».

Chiede cose di sinistra a un governo che non lo è...

«È un paradosso. Ma lo uso per esortare la sinistra a sostenere questo governo in autonomia. E a battersi al suo interno oggi, per le cose da fare domani».

Le cose vanno chiamate per ciò che sono, e analizzate per la loro portata, evitando di restare prigionieri, sia sul piano politico che su quello culturale, di un pensiero così debole da apparire subalterno. Non c’è dubbio che siamo di fronte alla crisi del capitalismo occidentale, sia nella sua versione americana che in quella europea, e mi riferisco in particolare ai Paesi dell’eurozona. E un pensiero critico deve essere all’altezza di questa crisi».

A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici e studiosi della sinistra europea: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawm, ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra. Profondo conoscitore della realtà, politica e intellettuale, italiana, Sassoon ricorda, da storico, che «con la fine del Pci è tramontata una certa visione cosmopolita, che alcuni avevano bollato come velleitaria. Ma è bene avere una intelligente presunzione cosmopolita, perché ciò resta il migliore antidoto ad un realismo provinciale, miope, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, tanto non può incidere...».

Professor Sassoon, nel mondo, a partire dall’America, si discute della crisi del capitalismo, argomento che appariva tabù...

«Andiamo con ordine. Da storico vorrei far notare che di crisi del capitalismo ce ne sono state altre. Non vorrei che quelli che si considerano “nemici del capitalismo” cantassero vittoria. Perché a me sembra che ciò che è accaduto negli ultimi tempi dimostri al contrario il “trionfo del capitalismo”...».

Affermazione forte...

«Vede, un sistema economico-sociale ha veramente vinto non quando va tutto bene, bensì quando è in crisi e tutti quanti, da destra a sinistra passando per il centro, cercano in ogni modo di salvarlo. Certo, su come salvarlo esistono differenze, ma nessuna forza significativa porta avanti un’alternativa di sistema. I riferimenti continui che si fanno alla crisi del ’29 ci ricordano che negli anni Trenta esisteva un punto di riferimento “altro” sul piano sistemico: il comunismo e l’Urss. Oggi invece abbiamo lo spettacolo assolutamente sorprendente che 20-30 anni fa nessuno si sarebbe sognato di prevedere dei dirigenti del Partito comunista della Repubblica popolare cinese che fanno la predica ai dirigenti americani perché costoro non si preoccupano abbastanza delle sorti del capitalismo mondiale. Nella stessa direzione va il cancelliere dello Scacchiere britannico quando offre la City, e dunque il mondo finanziario britannico, come principale punto di riferimento per una avanzata globale del capitalismo cinese».

Restiamo sul dibattito internazionale. Secondo lei è appropriato, sul piano analitico, parlare di modello in crisi o di fallimento del neoliberismo?

«Assolutamente sì. Questa crisi mette in discussione il modello di deregulation che fu portato avanti principalmente dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, e in Gran Bretagna sia dai conservatori che dai laburisti. La questione cruciale oggi è definire una “regulation” che non può che essere internazionale, e qui le cose si complicano, perché a questo livello mancano le istituzioni adeguate, istituzioni che abbiano legittimità politica. Quanto ai concetti “forti”, non si devono avere remore nel definire le cose per quel che sono: il capitalismo occidentale è in crisi, e lo è sia nella sua versione americana che in quella europea. Come ci ricordano i marxisti, le crisi sono occasioni per un rimescolamento generale delle carte. Il gioco continua ma non necessariamente con gli stessi giocatori».

Un gioco che in Italia appare quanto meno titubante, rispetto a quello che si è aperto negli Usa, in Gran Bretagna e in Francia. Cosa nasconde questa incertezza, professor Sassoon?

«Vede, nei Paesi che lei ha citato, se non necessariamente a livello della politica ma di certo nell’intellighenzia, si è abituati a pensare in modo globale. Per la Francia e la Gran Bretagna l’epoca degli imperi è finita da molti anni, ma la pratica dell’impero lascia una mentalità che porta a guardare a ciò che accade nel mondo come a qualcosa sulla quale occorre ragionare e, forse, intervenire. Un esempio recente: la Libia. Quando è cominciata la lotta armata contro Gheddafi, Londra e Parigi si sono subito chieste se intervenire o no. Nessun altro Paese, neanche l’Italia che pure aveva un rapporto storicamente e geograficamente stretto con Libia, si è posto questo problema con la stessa determinazione».

Mentre nel mondo si discute nel merito, in Italia il solo parlare di crisi del capitalismo è un tabù che in pochi osano infrangere.

«Lungi da me passare per un nostalgico del tempo che fu, tuttavia ricordo che quando c’era il Pci, i congressi del partito o le riunioni del comitato centrale, si aprivano sempre con una discussione sulla situazione mondiale, quasi come se facesse parte della politica quotidiana il chiedersi e ragionare sul rapporto che esisteva tra ciò che succede nel mondo e l’Italia. È come se con la venuta meno del Pci sia tramontata questa visione cosmopolita, che alcuni hanno frettolosamente liquidato come velleitaria. Ma l’esercizio di una critica fondata, di programma e progetto, allo stato di cose esistente resta, a mio avviso, una sfida irrinunciabile, affascinante. Se non si vuole restare prigionieri di un certo provincialismo succube, spacciato per realismo, per il quale è inutile che l’Italia si preoccupi troppo per ciò che succede nel mondo, e nemmeno provi a darne una lettura sistemica, tanto su quella realtà non può incidere. Ma questo non è realismo, è subalternità culturale oltre che politica. Ogni tanto vale la pena essere intelligentemente presuntuosi. E questo è il momento di provare ad esserlo».

E se cercassimo di ricostruire l'intera vicenda politica italiana recente almeno nei suoi passaggi fondamentali? Il vantaggio sarebbe duplice: potremmo innanzitutto organizzare dei focolai di discussione intorno a ognuno di quei passaggi al fine di decidere più meditatamente se li abbiamo letti bene oppure no (a suo tempo e oggi): e potremmo in secondo luogo arrivare a conclusioni meno precarie e instabili e, se non più tranquillizzanti, almeno dotate di una più ampia prospettiva strategica.

La mia tesi di fondo, che enuncio subito per amor di chiarezza, è che abbiamo assistito a novità molto più straordinarie e profonde di quanto comunemente non si dica. Il carattere davvero insolito del processo che si è dipanato qui da noi nel corso degli ultimi mesi non è però (almeno non del tutto) improvvisato; ossia, più esattamente: dato quel che che si è visto, non può esserlo. Questo rende le (suddette) novità probabilmente più durature di quanto non si pensi, contrapponendosi loro, in caso di fallimento, una crisi verticale di sistema (la quale resta comunque, fin dall'inizio, una delle principali motivazioni, anzi giustificazioni, anche sul piano etico e locale, di tale esperimento). Ma vediamo.

1. Per essere documentali e precisi dovremmo risalire all'indietro fino, almeno, a vent'anni fa, e cioè alla genesi e alle fortune, imprevedibili in qualsiasi altro paese europeo che si rispetti, di Silvio Berlusconi e del berlusconismo e alla contemporanea decadenza e frantumazione e impotenza del restante quadro politico italiano. Siccome non lo possiamo fare (ma vorremmo comunque che il lettore con la coda dell'occhio lo seguisse e lo tenesse presente), fermiamoci al 2011, al progressivo, rapidissimo, sconvolgente degrado della situazione italiana, ai vizi pubblici e privati da ogni parte debordanti, alla perdita clamorosa di ogni credibilità nazionale (inserita bensì, come sappiamo, in una crisi economica globale ed epocale, ma destinata a renderla più catastrofica che altrove), fino alle prime, drammatiche giornate di novembre.

In questa situazione il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appena al di qua del baratro, mette fuori gioco il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, con l'inedita formula: «prima l'approvazione in Parlamento della manovra, poi le dimissioni» (dimissioni sulle quali, come recitò un comunicato del Quirinale, non poteva esistere «nessuna incertezza»). Berlusconi dunque non fu sfiduciato (nel senso letterale del termine) dalle Camere: ma indotto alle dimissione da una moral suasion spinta oltre qualsiasi traguardo precedente.

E' vero: nell'operazione di avvicendamento non c'è stata (io penso) una vera e propria forzatura costituzionale. Ma una formidabile pressione politica sì, non mi pare possa essercene alcun ragionevole dubbio. Può dolersene uno come me che era arrivato a richiedere l'intervento dei carabinieri per liberarci dalla sempre più catastrofica presenza del governo Berlusconi? Evidentemente no. Anzi: chapeau! (potrei, se mai, pretendere che mi sia restituito l'onore che mi era stato strappato ai tempi della mia sparata: in fondo, gli strumenti, i mezzi, la capacità di manovra, la lungimiranza sono stati ben diversi - e come avrebbe potuto essere altrimenti? -, ma le intenzioni e soprattutto gli effetti gli stessi).

2. Date le premesse, è abbastanza ragionevole che nessun governo "politico" fosse in grado di subentrare al governo Berlusconi: ed è perciò che la presidenza del Consiglio è stata affidata dalla presidenza della Repubblica a un "tecnico", il professor Mario Monti, che ha formato intenzionalmente e dichiaratamente un governo di soli "tecnici". Rinuncerei ad entrare nel merito dell'ormai stucchevole questione se il governo Monti, sia al tempo stesso anche un governo "politico": è chiaro che ogni governo "tecnico" è anche "politico", e ogni governo "politico" è anche "tecnico", ammesso che voglia governare; ma - e questo è fondamentale nel mio ragionamento - un governo "tecnico" resta nonostante tutto un governo "tecnico", ben diverso da uno stricto sensu "politico".

E' la prima volta che questo accade in questa misura estrema in Italia. Gli uomini della Destra storica erano in parte dei tecnici, ma prestati da lungo tempo alla politica (facevano, insomma, "partito"). Lo stacco fra "il governo" e "la politica" si fa dunque attualmente più marcato che in qualsiasi altro momento della storia italiana. Per dirla più semplicemente: per governare non è più necessario essere "rappresentanti del popolo", cioè passati attraverso il filtro del voto. I "rappresentanti del popolo" divengono ormai solo l'interfaccia del potere: colloquiano con il potere e in qualche modo tentano d'influenzarlo, ma restandone (almeno per ora) totalmente all'esterno. La meccanica decisionale cambia radicalmente: il "sistema democratico" tende a conformarsi come un "duopolio del potere".

La "tecnicità" di questo governo potrebbe cioè essere una caratteristica non transeunte della gestione del potere in un paese dalla fragile democrazia e dai non irreprensibili costumi come l'Italia. Il primo pilastro dell'esperimento testè iniziato si presenta insomma come uno "strumento decisionale" di tipo nuovo, stabilmente e (molti dicono) finalmente sottratto alle fluttuazioni delle interne (ed esterne) contrattazioni e agli interessi di parte continuamente ricorrenti (la violenta campagna in atto da mesi contro la "casta", certo non priva di motivazioni, tuttavia non ha fatto che accentuare questa richiesta di una governance sottratta alla tabe della politica). Insomma: un governo non più "di parte", ma singolarmente "super partes", e quindi autorevole ed efficace non a dispetto ma in considerazione esattamente della sua natura non rappresentativa.

3. A garantire la persistenza del rapporto fra le due componenti del duopolio (governo tecnico e rappresentanza politica parlamentare) ci pensa l'oculata presenza del Presidente della Repubblica, cui non a caso, ovviamente, va ricondotta l'origine di tutta l'operazione. Il secondo pilastro - ma primo in ordine di tempo e d'importanza - è dunque la presidenza della Repubblica (non a caso gli editorialisti del Corriere della sera Panebianco e Galli della Loggia pretenderebbero che si dia veste anche formale alla innovazione, transitando dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale).

E' giocoforza, di conseguenza, osservare che in una situazione del genere il "duopolio", oltre che dal basso verso l'alto (cioè dal parlamento verso il governo), si genera anche dall'alto verso il basso, e cioè al vertice del potere. Senza voler togliere niente a nessuno (lo dico con autentico rispetto), è il Presidente della Repubblica che dà la linea e il Presidente del Consiglio la interpreta e realizza (il discorso di fine anno di Napolitano conferma in maniera decisiva questa impressione). Per dirla in modo meno tranchant: fra i due esiste un interscambio continuo, che discende da un'assoluta uniformità di vedute su questioni di fondo e da una precisa divisione dei compiti e delle funzioni (una cosa così non s'improvvisa, è evidente che era in gestazione da tempo: altrimenti non avrebbe potuto funzionare così bene).

Come è potuto accadere - e in Italia, poi - un mutamento così rapido e profondo? Qui entriamo nel vivo della questione. Il fatto è che, dietro l'uno come dietro l'altro di questi due protagonisti c'è l'Europa: ovvero, meglio, quell'insieme di valori, comportamenti, giudizi e pregiudizi, orientamenti di politica economica e visioni civili, che tradizionalmente promana dalla tecnocrazia di Bruxelles, più che dal ceto politico per ora dominante in Francia e in Germania: Sarkozy e Merkel hanno certo recitato la loro parte in questa vicenda italiana - non c'è bisogno di pensare alla famosa telefonata in cui la Merkel avrebbe chiesto a Napolitano la liquidazione di Berlusconi, per arrivare alle medesime conclusioni -, ma la stella polare dei nostri due eroi è a Bruxelles, non altrove. Come sia stato possibile che a questa assolutamente non posticcia convergenza di propositi e, direi, di culture politiche siano pervenuti contemporaneamente un raffinato politico iscritto per più di cinquant'anni al più grande partito comunista dell'Occidente e un professore di chiaro orientamento conservatore formato e cresciuto nella più autorevole università privata del nostro paese, è un'altra delle singolarità di questa storia, sulla quale non abbiamo né il tempo né lo spazio per qui soffermarci (ma che di certo, ai fini di migliore conoscenza storica, andrebbe meglio studiata).

4. Il "governo tecnico" prodotto da questo duplice, inedito duopolio del potere, è formato da personale proveniente dalle università (prevalentemente private, e anche questo occupa un suo posto di chiaro rilievo nel mio ragionamento), dalle banche, da iniziative imprenditoriali pubbliche e private, dal personale tecnico-amministrativo dei ministeri corrispondenti, ecc. ecc. Profilo generalmente dignitoso, in qualche caso molto elevato; il salto di stile rispetto al "governo politico" che lo ha preceduto (e anche di molti altri governi degli anni passati) è assolutamente marcato. Quando Monti è apparso per la prima volta in televisione a Strasburgo accanto a Merkel e Sarkozy, mi sono sorpreso a pensare quanto fossero buffi il francese Sarkozy e la germanica Merkel di fronte all'eleganza dignitosa e riservata dell'italiano Monti. E il mio italico cuore non ha potuto reprimere un sobbalzo d'orgoglio.

5. Un altro tratto accomuna i componenti del "governo dei tecnici" Monti: l'essere a fortissima (esclusiva?) caratterizzazione cattolica. Insomma: tutti questi "onesti uomini" ministri e queste "onestissime donne" ministre la domenica vanno a messa. Una cosa del genere non s'era mai vista neanche nei governi della fase di assoluta predominanza democristiana successivi al 1948, nei quali sedevano, e sia pure in posizione di assoluta subalternità, esponenti di chiara, anche se fragile, ascendenza laica. In sé e per sé la cosa non avrebbe motivo di suscitare reazioni. Tuttavia, se il fenomeno da individuale si fa collettivo, esso tende a far massa e a produrre effetti conseguenti (ci si può chiedere fin d'ora, infatti, quale sarebbe l'atteggiamento del governo Monti di fronte a un nuovo caso Englaro). Naturalmente questa spiccata connotazione religiosa non va inscritta automaticamente (mi pare) in nessuna reale o ipocrita vocazione partitica: e questa è un'ulteriore connotazione di novità, da cui il fenomeno appare contraddistinto. Ciò, infatti, apre un fronte di rapporti inediti con la Chiesa di Roma, non mediati, appunto, dai (spesso scomodi) filtri partitici, e perciò più diretti, e insieme più liberi e flessibili: la felice esperienza pluridecennale della Comunità di Sant'Egidio, non a caso assunta direttamente nell'organigramma di questo governo, potrebbe rappresentarne un utile precedente, e magari un ulteriore coagulo nei prossimi mesi, e forse anni. Non stupisce perciò che la Chiesa di Roma, dopo il lungo (e alquanto abnorme) idillio con il governo Berlusconi, si schieri urbi et orbi dietro il governo Monti: esso rappresenta per lei l'ottima chance per rimediare agli errori commessi e recuperare il tempo perduto in un vano inseguimento alla falena Berlusconi.

Il Governo Monti poggia dunque, almeno in questo suo inizio, su questi quattro formidabili pilastri: la sua propria "tecnicità", che va intesa, più che come superiore sapienza ed esperienza, come estraneità alle procedure e allo spirito del tradizionale gioco politico italiano: la Presidenza della Repubblica; l'Europa di Bruxelles; la Chiesa di Roma: autorità d'indiscutibile prestigio, tutte convergenti, in maniera probabilmente non casuale, verso il medesimo obiettivo.

6. Il governo Monti è stato costituito e messo alla prova esplicitamente per arrestare la catastrofe economica nazionale. Le misure di pronto intervento sono state assunte dal governo sotto la pressione di una formidabile urgenza: non si poteva fare di più e soprattutto di meglio nello spazio consentito dall'incalzare degli eventi (per lo stesso motivo è stato esorcizzato il ricorso alle urne, che sarebbe stato il normale metodo per far fronte a una crisi di governo parlamentare irrimediabile). Questo spiega perché tali misure siano apparse da subito così tradizionali: tagliare qualcosa a tutti invece che tagliare molto ad alcuni è, tecnicamente, molto più semplice, rapido ed efficace - se si prescinde, naturalmente, dalle reazioni delle grandi masse duramente toccate dalla manovra. Intervenire sulle pensioni, aumentare l'età pensionabile, tornare a tassare e/o tassare più violentemente la proprietà immobiliare senza distinzioni di ceto né di situazioni sociali poteva venire in mente (lo dico senza ironia) a ognuno di noi comuni mortali. E poi, a seguire: gas, energia elettrica, autostrade, benzina, ecc. ecc.: la logica è sempre la stessa, tutti, più o meno, vengono colpiti, perché il colpo, per così dire, sia universalmente doloroso ma non mortale per nessuno.

La tecnicità, in prima battuta, c'entra poco, mi sembra. Qui converrebbe piuttosto chiamare in causa un'altra, importante caratteristica di questo governo (dopo tecnicità e cattolicesimo): e cioè il fatto che questa tecnicità è a sua volta tutta inscritta nell'orbita di valori - culturali, ideali, economici ma soprattutto, mi verrebbe voglia di dire, antropologici - che caratterizzano l'attuale orizzonte tecnopolitico europeo. Se gli elettori dei rispettivi paesi mandassero a casa, come si spera, Sarkozy e Merkel, forse qualcosa potrebbe cambiare (ma intanto gli elettori spagnoli hanno mandato a casa Zapatero). Per ora, però, il quadro - ferreo quadro - è questo e tout se tient.

Dati quei parametri, quei meccanismi finanziari, quelle scelte civili oltre che economiche (bisognerebbe rendere obbligatorio a sinistra, e anche altrove, la lettura di Finanzcapitalismo di Luciano Gallino), il resto quasi automaticamente ne consegue, e il governo Monti non ha fatto per ora che interpretare questa logica. La «fase due» si profila incerta all'orizzonte. Se essa dovesse imperniarsi, come sembra, sulle liberalizzazioni dei taxi, delle farmacie e delle professioni (che una volta, ormai paradossalmente, si dicevano "liberali"), la tecnicità avrebbe dato per la seconda volta in pochi mesi una prova sostanzialmente modesta. Se invece, com'è pressoché inevitabile, dietro questa cortina sostanzialmente fumogena, si andassero a toccare i rapporti e i diritti del lavoro, il quadro logico-tecnico-politico di questo governo non potrebbe che risultarne ancora più coerente e, nella prospettiva, consolidato: ma anche, al tempo stesso, più energicamente e fino in fondo contestabile.

7. Portato in parlamento il governo Monti ha ricevuto una maggioranza schiacciante; portata in parlamento la manovra ha ricevuto una maggioranza alquanto inferiore, ma sempre straordinaria. Anche questo fenomeno non s'è mai visto in queste dimensioni nella storia dell'Italia unita (dico: dell'Italia unita) se si esclude ovviamente la "parentesi del fascismo". L'esperienza che da questo punto di vista gli si avvicina di più è quella del ministero guidato da Luigi Luzzatti (a modo suo anche lui un tecnico: era stato più volte in precedenza ministro del tesoro), il quale, fra il marzo 1910 e il marzo 1911, in un breve interregno della lunga egemonia giolittiana, ne formò uno composto da uomini di professioni politiche assolutamente eterogenee, con il compito, peculiarmente, di varare una nuova legge elettorale (che invece poi fu bocciata) ed ebbe alla Camera l'astronomica maggioranza di 386 voti favorevoli su 415 votanti. Naturalmente le affinità finiscono qui (anche se anche nel ministero Luzzatti, come in ogni governo «tecnico» che si rispetti, la carica di ministro degli Esteri fu ricoperta da un ambasciatore). Per quel che riguarda il ministero Monti, la cosa ha infatti una rilevanza politica ben maggiore. Il ministero Luzzatti ebbe la sua spropositata maggioranza in base ad una consultazione parlamentare in gran parte preventiva: il ministero Monti l'ha avuta solo dopo, in conseguenza della scelta delle principali forze politiche - fino a quel momento di maggioranza come d'opposizione - di convergere su di esso, una volta formato il governo.

Si presenta qui con forza, a far da quinto pilastro al governo Monti, un protagonista indispensabile e di primissimo piano di tutta la vicenda, e cioè l'Italia, del resto continuamente evocata nel corso del 2011, l'anno del suo centocinquantenario, a far da riferimento o da ammonimento a tutte le azioni politiche in corso nella Repubblica. Superfluo rammentare il ruolo decisivo esercitato anche in questo senso dal Presidente della Repubblica. E' in nome della salvezza della comune e unica patria di cui tutti disponiamo ("la Nostra Patria", appunto, non la patria di questo o di quello), che i partiti rappresentati in parlamento si sono, "con senso di responsabilità" (l'espressione è di Berlusconi, ma rapidissimamente è stata fatta propria da tutti gli altri protagonisti della storia unione), adattati all'inedita e in larga misura imprevista situazione. E' ovvio che una componente di natura nazionale (nazionalistica?) faccia parte di ogni esperienza emergenziale.

8. Ma non esistono più in Italia una Destra e una Sinistra? Non ci sono più diversità e contrapposizioni di logiche, programmi, culture, non ci sono più antagonismi storici, oggettivi, insormontabili, tra i diversi settori dell'elettorato? Qual è la mano santa che riconduce tutto questo all'unità di una sola proposta e manovra di governo? Nel determinare il fenomeno intervengono due fattori, provvisoriamente (solo provvisoriamente?) convergenti, l'uno di natura oggettiva, l'altro eminentemente soggettivo, o anche, a dir la verità, un poco artificioso.

Quello oggettivo, non c'è bisogno di descriverlo molto, è sotto gli occhi di tutti: lo spappolamento in Italia della struttura delle classi, la comparsa di un gigantesco, proteiforme contenitore sociale, dove sacche residue di vecchio proletariato industriale convivono gomito a gomito con fasce di piccola e piccolissima borghesia in sfacelo, e i soggetti dotati ancora di una precisa identità sociale si trovano isolati e circondati da masse anonime di consumatori sempre più allo stremo; e a far da collante a tutto questo una spropositata, crescente (e in larga misura motivata) sfiducia nella politica e nei suoi principali strumenti, i partiti e la cosiddetta "classe dirigente". È in situazioni del genere, contraddistinte da una congenita fragilità democratica, che il capitale rinuncia a servirsi delle tradizionali, ormai inefficaci e inconcludenti, mediazioni politiche e passa a gestire la cosa pubblica in proprio (non a caso pretendendo, come linea generale di condotta, che sia il pubblico ad adattarsi a regole e consuetudini del privato per poter funzionare).

Un governo il quale, per l'appunto, non è dichiaratamente né di destra né di sinistra, e cioè non è un "governo politico" nel senso tradizionale del termine, proprio perché è un "governo tecnico", può pescare consenso, oltre che fra ceti decisamente dominanti, nelle grandi masse prive di identità (la "moltitudine" negriana, ma risolutamente rovesciata in negativo), più di ogni altro settore sociale a rischio.

Su questa realtà oggettiva - e dunque non senza motivazioni e giustificazioni reali - interviene la manovra soggettiva (e artificiosa). I partiti che siedono attualmente in parlamento sono (salvo che qua e là, in zone limitate del paese) larve di organizzazione, non più in grado di secernere il grano dal loglio, perché la confusione sociale circostante si è riversata anche al loro interno (basti pensare al Pd e alle sue molteplici e contraddittorie anime: dalla giraffa comunista non è nato, come io auspicavo anni fa, un buon, normale cavallo occidentale, ma un grifone con la testa d'uccello e gli zoccoli da quadrupede). In questa situazione era normale che i principali protagonisti dell'aspro scontro politico-sociale dell'era berlusconiana convergessero sull'ipotesi dell'appoggio al medesimo "governo unico": non avevano scampo, perché non c'era scampo.

I primi effetti "politici" (questa volta da intendersi in senso tradizionale) di questa manovra sono stati la scomparsa dalla scena del patto di Vasto, l'unico ragionevole marchingegno pre-elettorale che il buon Bersani fosse riuscito con grande fatica a mettere in piedi (Di Pietro, che non ne ha mai sofferto, è stato improvvisamente precipitato nella partita del dubbio amletico; Vendola ha scelto di tacere, perché anche lui non aveva altra scelta); e l'emarginazione del gioco della Lega, che, non avendo a che fare né con la Presidenza della Repubblica, né con i professori universitari, né con l'Europa, né con la Chiesa, è stata costretta a ricacciarsi nei suoi provinciali nidi di partenza. Non irrilevante anche, in questo quadro, che Silvio Berlusconi, depravatissimo e deprecatissimo come Presidente del Consiglio, sia stato restituito a una sua tranquilla, rispettabile e da tutti rispettata onorabilità in quanto leader di uno dei partiti che sostengono l'attuale governo. Non ci sono più escort in giro, la vita privata del Cavaliere è diventata improvvisamente impenetrabile e ingiudicabile, i suoi atti non sono più gravati dal conflitto d'interesse e dalle grane giudiziarie: lo si consulta perciò normalmente e disinvoltamente e lo si ascolta e commenta con grande attenzione quando sussurra, con astuta parsimonia, le sue riflessioni sul bene del popolo e della Nazione. Per forza: se toglie l'appoggio, il castello genialmente creato crolla di colpo.

Quel che strategicamente emerge è dunque una colossale pulsione neocentrista: ossia la spinta a creare al Centro un'aggregazione imponente (non necessariamente un nuovo partito: anzi), che proprio nella tecnicità troverebbe il suo esemplare punto di riferimento e di "rappresentazione". Non a caso esulta più di chiunque altro Casini che, sia pure per ora non in prima persona, si vede idealmente proiettato (e senza sforzo alcuno)... al centro dell'operazione; e nel Pd trionfa di nuovo Walter Veltroni, il quale finalmente scorge le sue pulsioni antibersaniane di sempre colorarsi di realtà.

In Italia, storicamente, questa convergenza delle ali verso il Centro ha preso il nome di trasformismo: nella sua versione nobile una forma della politica destinata a sopperire alle carenze dei singoli partiti, trovando fra i rappresentanti del popolo, nei momenti considerati più gravi, quelli disposti a mettere l'interesse del paese al di sopra di quello delle singole fazioni politiche e, naturalmente (sebbene in accezione puramente o prevalentemente ideale) dei singoli stessi. Nel caso odierno potremmo dire di trovarci di fronte a un esempio di trasformismo di altissimo livello, di cui sono protagonisti non i singoli "individui" ma i partiti stessi, consapevoli di fare responsabilmente il bene del paese e, più sotterraneamente, di non avere neanche loro altra strada al di fuori di questa.

Se l'esperimento di Monti andasse avanti fino, oppure oltre, la scadenza elettorale del 2013, l'ipotesi neo-centrista qui ipotizzata arriverebbe ad avere manifestazioni spettacolari. Del resto, se c'è un solo programma valido, ed è quello che dall'Europa promana all'Italia, come potrebbe essere che la prospettiva del grande, anzi grandissimo Centro non si affiancasse a Presidenza della Repubblica, tecnicità, Europa, Chiesa e Italia, a fondare il sesto pilastro della manovra?

9. Il settimo pilastro della saggezza è di natura squisitamente ideologica e si avvale di strumenti mediatici poderosi. Non solo, infatti, la manovra, e il governo Monti che la raccomanda ed esprime, sono considerati e detti come necessari, e dunque indispensabili, e dunque inevitabili. Ma ciò che si presenta oggettivamente come necessario, e dunque indispensabile, e dunque inevitabile (e come tale potrebbe persino essere accettato da una quota di non consenzienti: insomma, l'invito a "baciare il rospo"), viene presentato come un "sistema di valori" destinato a fondare la "nuova Italia", attraverso l'adozione di generalizzati comportamenti conseguenti. È, insomma, la "coesione sociale" (Napolitano, Bagnasco), il "superamento degli steccati tradizionali" (Casini, Alfano), l'"equità" da raggiungere, però passando attraverso il "sacrificio" (tutti): e cioè, in sostanza, l'idea che il "passaggio" possa essere effettuato soltanto se restiamo tutti uniti, se attenuiamo al massimo i conflitti, e di conseguenza accettiamo più o meno in toto il pacchetto di misure e - di più, molto di più - la prospettiva sociale, politica e civile, che attraverso di esse ci viene proposta. Non vuole dire anche questo che ci vuole sempre meno politica (e conseguentemente, o primariamente, meno politici), se vogliamo andare avanti? Curiosamente, in politica (e i politici) sopravvivono ancora a livello locale e regionale, mentre a quello nazionale li si considera vieppiù superflui e distorcenti. E così il quadro è completo, e si può chiudere.

10. Il pacchetto della saggezza va assunto per intero, per essere efficace (anche la Chiesa di Roma? Sì, almeno nel senso che anche un laico deve riconoscere la funzione positiva che essa attualmente svolge nel grande concerto comune). Nessuna alternativa è considerata come ragionevolmente possibile. Persino quella modesta rivoluzione, puntualmente contemplata e regolamentata all'interno di qualsiasi sistema democratico, che è in caso di necessità, oltre che alle scadenze normali, il ricorso al voto, viene additata come da evitare.

C'è qualcosa di totalitario nel sistema finanzcapitalistico. Non solo ne sono sconosciuti, - e imprevedibili, e non sanzionabili, almeno finora - i grandi protagonisti, cui l'ultimo grande salto tecnologico, quello informatico, ha consentito di agire sempre e ovunque al di fuori di ogni controllo (la tecnica, nel corso del processo storico degli ultimi tre secoli è sempre stata, prevalentemente, dalla parte del capitale e contro il lavoro). Ma il dissenso, la prospettazione di una diversa strategia, persino la sacrosanta difesa di un interesse "particolare" - si tratti del diritto di rappresentanza sindacale in fabbrica, negato a coloro che non firmano accordi con l'impresa, come della difesa di una valle alpina dalla devastazione tecnologica, per giunta, come tutti sanno, economicamente improduttiva - vengono sempre più considerati atti ostili alla soluzione dei problemi di questo sistema e come tali aspramente combattuti. La difesa dei diritti umanitari e della persona riemerge solo ai margini del sistema: l'atteggiamento di solidarietà e di comprensione nei confronti degli immigrati e dei "reietti della terra", più volte recentemente e molto autorevolmente evocato, ne rappresenta una testimonianza (del resto, questo duplice e contraddittorio nesso è stato praticato per secoli con successo dalla Chiesa di Roma). Ma quel che accade in conseguenza delle logiche interne di sistema, e fra coloro che, anche senza affatto volerlo, ne sono principali protagonisti e vittime, questo viene affrontato e ridotto al rango di una pura, necessaria revisione sistemica: tanto più efficace - e ovviamente indiscutibile - quanto più il governo della cosa pubblica è oggi nelle mani di un manipolo di onest'uomini invece che di una banda di predoni di strada.

11. L'ultimo paragrafo di questo discorso riguarderebbe, ce ne avessi la forza e la capacità, l'assenza di una risposta critica e alternativa adeguata al livello dei problemi che mi sono sforzato di discutere (del resto, se la risposta non fosse rimasta assente per troppi decenni, i problemi non sarebbero ingigantiti fino a questo punto che ha assunto la bronzea parvenza dell'oggettività pura e semplice). Qualcosa, certo, è stato già detto ed enunciato; e altro si può, senza grande sforzo, elaborare e dire. Ma quel che mi parrebbe ora giusto sarebbe fissare con chiarezza il "punto di partenza" del nuovo discorso. L'altissimo concentrato di "saggezza", di cui io parlo, non è un'invenzione di parole: è un fatto drammaticamente reale e presenta dimensioni formidabili. Per fronteggiare questa "saggezza", poggiata su pilastri di tale consistenza, ci vuole un pensiero altrettanto globale e onnicomprensivo di quello su cui essa si sostiene e motiva: una "saggezza" persino più scaltrita e raffinata; e al tempo stesso più corposa e vicina al mondo dei normali esseri viventi, degli individui umani a loro volta pensanti, non, come oggi pare, semplici oggetti, distanziati, semintelliggenti destinatari delle manovre altrui, quali che siano; e quindi, come tutte le vere "saggezze" capaci di cambiare il mondo e di arrestarne la presunta inevitabilità del corso, anche un po' folle (del resto come tutti sanno, c'è una logica in questa follia). E a questo pensiero, e a questa diversa "saggezza", deve corrispondere un'organizzazione adeguata (questo nesso non è semplicemente storico: è eterno; se non c'è, niente funzione). Da questi due punti di vista noi siamo ancora alle primissime battute: il vecchio che è in noi supera di gran lunga quello che ci fronteggia e sovrasta. Per colmare le lacune e i ritardi ci verranno decenni. Ma intanto bisognerebbe cominciare a farlo.

Il disegno, di Francesco Lorenzetti, rappresenta il grifone, il mitico animale al quale AAR si riferisce sintetizzando l'immagine del PD

Si stava celebrando in piazza del Duomo, strapiena di festanti, la vittoria di Pisapia alle amministrative, si succedevano sul palco politici, cantautori, attori, artisti, e uno dei nostri comedians più bravi mi stava dicendo che andava a leggere il discorso di Pericle agli ateniesi, come elogio della democrazia. Io gli avevo detto: "Stai attento, perché Pericle era un figlio di puttana". Lui aveva preso il mio giudizio come una boutade, aveva riso, ed era salito. Dopo, quando era disceso, mi aveva detto: "Sai, mentre leggevo mi accorgevo che avevi ragione".

Pericle era un figlio di buona donna o, come avrebbero detto ai suoi tempi, per esprimersi in modo più gentile, figlio di una etera. Non più di tanti altri politici e, tanto per dire, Machiavelli lo avrebbe ampiamente giustificato, per carità. Ma il suo discorso agli ateniesi è un classico esempio di malafede.

All´inizio della prima guerra del Peloponneso, Pericle fa il discorso in lode dei primi caduti. Usare i caduti a fini di propaganda politica è sempre cosa sospetta, e infatti sembra evidente che a Pericle i caduti importavano solo come pretesto: quello che egli voleva elogiare era la sua forma di democrazia, che altro non era che populismo - e non dimentichiamo che uno dei suoi primi provvedimenti per ingraziarsi il popolo era stato di permettere ai poveri di andare gratis agli spettacoli teatrali. Non so se dava pane, ma certamente abbondava in circenses. Oggi diremo che si trattava di un populismo Mediaset.

Ricorda Plutarco (Vita di Pericle) che "Pericle governando si dedicò al popolo, preferendo le cose dei molti e poveri a quelle dei ricchi e pochi, contro la sua natura che non era affatto democratica". Vale a dire, se le parole hanno un senso, che, aristocratico di buona condizione economica, era attaccato alla sua classe ma usava il ricorso al favore popolare come strumento di potere. Al punto tale che, visto che Cimone, più ricco di lui, spendeva un sacco di soldi suoi per iniziative popolari, ne aveva intraprese altrettante, ma coi soldi pubblici.

Ricorda ancora Plutarco che secondo molti a causa di queste elargizioni senza criterio il popolo fu abituato male e divenne dissoluto e spendaccione anziché moderato e lavoratore. Non solo, ma in certe occasioni Pericle aveva usato i beni pubblici per le sue elargizioni demagogiche, così che "avendo allentato le redini del popolo, si occupava di politica per ingraziarselo, provvedendo che in città ci fosse sempre qualche spettacolo pubblico, o banchetto o processione, intrattenendo la città con piaceri non rozzi, inviando sessanta triremi ogni anno, sulle quali molti cittadini navigavano stipendiati per otto mesi, praticando e insieme imparando l´arte nautica. (…)

Pericle, che si voleva campione di democrazia, non poteva usare con gli ateniesi la forza, ma doveva richiederne il consenso, e per ottenere il consenso popolare non è indispensabile essere nel giusto, basta usare delle accorte tecniche di persuasione. E Pericle si era allenato sin da giovane ad essere oratore convincente ed affabile, che sapeva sostenere anche fisicamente la sua fama di persona affidabile, visto che, come ci dice ancora Plutarco "non solo ebbe una mente grave e un linguaggio elevato immune da volgare e comune loquacità, ma anche l´espressione del volto inflessibile al riso, la mitezza dell´andatura e la decenza della veste che non si agitava per alcun trasporto nel parlare, la modulazione quieta della voce".

Il discorso di Pericle (riportato da Tucidide, in Guerra del Peloponneso) è stato inteso nei secoli come un elogio della democrazia, e in prima istanza è una descrizione superba di come una nazione possa vivere garantendo la felicità dei propri concittadini, lo scambio delle idee, la libera deliberazione delle leggi, il rispetto delle arti e dell´educazione, la tensione verso l´uguaglianza. Ma che dice in realtà Pericle?

Prima naturalmente fa portare in scena le bare (in cipresso) dei caduti, compresa una per quella che chiameremmo oggi il Milite Ignoto, poi così parla: (…) «Io, dato che non voglio fare lunghi discorsi, lascerò perdere, fra questi fatti, le imprese compiute durante le guerre, grazie alle quali furono conquistati i singoli possedimenti, o quando noi o i nostri padri respingemmo con valore il nemico barbaro o greco che ci attaccava (…). Utilizziamo infatti un ordinamento politico che non imita le leggi dei popoli confinanti, dal momento che, anzi, siamo noi ad essere d´esempio per qualcuno, più che imitare gli altri. E di nome, per il fatto che non si governa nell´interesse di pochi ma di molti, è chiamato democrazia; per quanto riguarda le leggi per dirimere le controversie private, è presente per tutti lo stesso trattamento; per quanto poi riguarda la dignità, ciascuno viene preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo in cui sia stimato, non tanto per appartenenza ad un ceto sociale, quanto per valore; e per quanto riguarda poi la povertà, se qualcuno può apportare un beneficio alla città, non viene impedito dall´oscurità della sua condizione».

Come discorso populista non è male salvo che Pericle non menziona il fatto che in quei tempi ad Atene c´erano, accanto a 150.000 abitanti, 100.000 schiavi. E non è che fossero solo barbari catturati nel corso di varie guerre, ma anche cittadini ateniesi. Infatti una delle leggi di Solone stabiliva di togliere dalla schiavitù i cittadini diventati servi a causa dei debiti verso i latifondisti. Segno che erano servi anche altri cittadini, caduti in schiavitù per altri motivi. E d´altra parte, circa cent´anni dopo Aristotele avrebbe scritto (Politica I): «Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo (...). Comandare ed essere comandato non solo sono tra le cose necessarie, ma anzi tra le giovevoli, e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere comandati, parte a comandare. (...) Ora gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti all´uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l´uno è per natura superiore, l´altra inferiore, l´uno comanda, l´altra è comandata - ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio così. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l´uomo dalla bestia (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all´impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre), costoro sono per natura schiavi» (...).

Ma ogni epoca ha le sue debolezze, e lasciamo a Pericle di celebrare questa sua democrazia di schiavi. Però il nostro così prosegue: «Noi... ci procurammo moltissime occasioni di svago dalle fatiche, per il nostro spirito, dato che celebriamo secondo la tradizione giochi e sacrifici per tutto l´anno e grazie a case e suppellettili eleganti, il cui godimento quotidiano allontana lo sconforto». E qui siamo di nuovo al populismo Mediaset e all´elogio del consumismo.

Ma andiamo avanti. A che cosa mira questo elogio della democrazia ateniese, idealizzata al massimo? A legittimare l´egemonia ateniese, sugli altri suoi vicini greci e sui popoli stranieri. Pericle dipinge in colori affascinanti il modo di vita di Atene per giustificare il diritto di Atene a imporre il proprio dominio sugli altri popoli dell´Ellade (…). Segue l´elogio militare degli ateniesi che combattono sempre bravamente per difendere la loro terra. Pericle si dimentica di rilevare che (e proprio sotto il suo governo) erano stati riconosciuti come cittadini ateniesi solo coloro che avevano tutti e due i genitori ateniesi. Quindi c´erano gli schiavi, i veri cittadini ateniesi e i meteci, qualcosa come degli extracomunitari con diritto di soggiorno, che non erano cittadini a pieno diritto e non potevano votare - anche se tra coloro possiamo annoverare personaggi come Ippocrate, Anassagora, Protagora, Polignoto, Lisia o Gorgia.

Ma non è finita: «Non ci procuriamo gli amici ricevendo benefici, ma facendone. Dunque chi fa un favore è un amico più sicuro, tanto da conservare il favore dovuto grazie alla riconoscenza di colui al quale egli l´ha dato». Il che francamente mi sembra un principio mafioso.

Tornato poi ai defunti, Pericle osserva che bellamente sono morti per difendere una città che è di modello a tutto il mondo (e cara grazia che abbia lasciato a un suo futuro collega il compito di celebrare il proprio "popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori"). (…) Comunque i genitori dei caduti, ascesi all´olimpo degli eroi, non si debbono dolere perché li deve animare «la speranza di avere altri figli, per coloro che sono ancora in età adatta per avere figli: infatti, su un piano privato, i nuovi figli costituiranno per alcuni la possibilità di dimenticare quelli che non ci sono più, per la città, poi, sarà utile in due modi, contro il divenire spopolati e per la sicurezza: infatti non è possibile che prendano decisioni imparziali e giuste coloro che corrono dei rischi senza esporre al pericolo anche i propri figli come gli altri».

Il che mi pare solo sfacciataggine, ma sembra che ai dolenti questa oratoria piacesse. Così che l´oratore può concludere con «Ora, dunque, dopo aver compianto ciascuno il proprio parente, tornate alle vostre case», che - traducendo alla buona - significa «e ora smammate e non rompete più le scatole con i vostri piagnistei» (…).

Ecco perché bisogna sempre diffidare del discorso di Pericle e, se lo si dà da leggere nelle scuole, occorrerà commentarlo, ricordando che molti padri di tante patrie sono stati figli di un´etera.

Nella controversa agenda politica di questa difficile stagione ha fragorosamente fatto ingresso la lotta all´evasione fiscale. Non più come tema polemico, non più come rivendicazione di qualche buon esito di un´azione amministrativa di contrasto, ma come questione capitale, destinata a sconvolgere equilibri, colpire interessi, revocare in dubbio compiacenze. Questo è avvenuto con due mosse fortemente simboliche. Il blitz a Cortina e una dichiarazione del Presidente del consiglio che ha indicato negli evasori quelli che «mettono le mani nelle tasche dei contribuenti onesti». Non siamo solo di fronte allo smascheramento dell´ipocrita vulgata berlusconiana, ma alla denuncia di una inaccettabile redistribuzione alla rovescia delle risorse, per cui oggi sono soprattutto i meno abbienti a pagare servizi di cui, troppe volte, sono proprio i più ricchi ad avvantaggiarsi (si pensi solo al caso dell´istruzione universitaria, alla quale spesso non riescono poi ad accedere i figli di chi maggiormente la finanzia). Ed è giusto ricordare quel che disse Tommaso Padoa Schioppa: «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l´istruzione e l´ambiente».

Ironie e dileggi accolsero questo limpido richiamo alle virtù civiche. E oggi sono violente le reazioni dei molti che ritengono inaccettabile una priorità come la lotta all´evasione, certamente incompatibile con il melmoso immoralismo che si è fatto cemento sociale e nel quale si è cercato il consenso politico. Ma i gesti simbolici sono importanti, a condizione che siano poi accompagnati da inflessibile volontà politica e da quella adeguata strumentazione tecnica ricordata da Alessandro Penati, con una sottolineatura significativa: la necessità di modificare "i comportamenti individuali e collettivi".

Qui si gioca la partita vera. Certo, «non si cambia la società per decreto» – ammoniva Michel Crozier. È indispensabile, allora, un lavoro che vada nel profondo e rimetta in onore principi fondativi abbandonati. E, poiché questi sono tempi in cui è così insistente il richiamo ai doveri (magari per rendere più debole l´appello ai diritti), bisogna partire dai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» previsti dall´articolo 2 della Costituzione. Ma contro la solidarietà sono state spese negli anni passati parole di fuoco, denunciandone i "pericoli" e, muovendo da questa premessa, si sono organizzate "marce contro il fisco". Si è così cercato di svuotare di senso sociale e di valore civile l´articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e secondo criteri di progressività. Da quest´insieme di doveri, invece, non si può "evadere".

Arriviamo così alla radice dell´obbligazione sociale e del patto tra cittadini e Stato. Nel momento in cui "tutti" non significa davvero "tutti", e emerge con nettezza che il contributo alla spesa pubblica appare inversamente proporzionale alla capacità contributiva, con i meno abbienti che pagano più dei ricchi, allora si rompe il legame sociale tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Il ritorno pieno al principio di solidarietà, come valore fondativo, è la via obbligata per interrompere questa deriva e la Costituzione, parlandone come di un insieme di doveri inderogabili, individua un criterio ordinatore dell´insieme delle relazioni tra i soggetti, anzi un connotato della cittadinanza.

Abbandonando quel riferimento, infatti, si innescano processi che dissolvono la stessa obbligazione politica. Torna alla memoria un´espressione icastica e fortunata, legata alla rivoluzione americana: «No taxation without representation» - nessuna tassa senza rappresentanza politica, principio che ritroviamo nell´articolo 22 della Costituzione che affida solo alla legge, dunque a un atto del Parlamento, l´imposizione di prestazioni patrimoniali. Ma, una volta garantito il rispetto di tale principio da parte delle istituzioni pubbliche, il rapporto così istituito vincola il cittadino a fare la sua parte. L´evasione, allora, lo delegittima come partecipante a pieno titolo alla comunità politica.

Sono questi i punti di riferimento, rispetto ai quali valgono poco gli esercizi intorno al ruolo da riconoscere alla ricchezza. Questa, benedizione di Dio o sterco del diavolo, fa semplicemente nascere un dovere sociale. Non è una penalizzazione, dunque, un vera lotta all´evasione, ma lo strumento indispensabile per ricostituire una delle condizioni di base per il funzionamento di un sistema democratico. Ma il rigore non deve essere necessariamente declinato nei termini dell´emergenza. Come il contrasto alla criminalità non rende legittimo il ripescaggio delle perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, così la lotta all´evasione deve rifuggire da strumenti sbrigativi, e non in linea con le indicazioni europee, come quelle riguardanti la segnalazione di ogni movimento d´un conto corrente.

Ricordiamo, poi, che già l´articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789 parlava del diritto del cittadino di "seguire l´impiego" dei contributi versati. Una vera lotta all´evasione, dunque, ha come complemento necessario una totale trasparenza pubblica, una implacabile lotta alla corruzione, l´inaccettabilità d´ogni forma di uso privato di risorse pubbliche.

Andare al governo o cambiare il mondo senza prendere il potere? Stare dentro o lontani dai partiti di centrosinistra? Essere per lo sviluppo o contro? Discutiamo di tattiche, a breve e lungo termine

Sotto tutti i punti di vista, il 2011 è stato un buon anno per la sinistra mondiale - qualunque sia la definizione, ristretta o ampia, che viene data di sinistra mondiale. La ragione di fondo dipende dalle condizioni economiche negative di cui soffre gran parte del mondo. La disoccupazione è alta e sta aumentando. Molti governi hanno dovuto far fronte alla sfida di alti debiti e entrate in diminuzione. La risposta è stata di cercare di imporre alle popolazioni delle misure di austerità, mentre contemporaneamente hanno cercato di proteggere le banche.

Il risultato è stata una rivolta mondiale di coloro che il movimento Occupy Wall Street (Ows) ha chiamato «il 99%». La rivolta si è focalizzata contro l'eccessiva polarizzazione della ricchezza, contro i governi corrotti e la natura essenzialmente non democratica di questi governi, che siano o no basati su un sistema multipartito.

Questo non vuol dire che Ows, le primavere arabe o gli indignados abbiamo realizzato tutto quello che auspicavano. Ma significa che sono riusciti a cambiare il discorso dominante a livello mondiale, spostandolo dai mantra ideologici del neoliberismo verso temi come l'ineguaglianza, l'ingiustizia e la decolonizzazione. Per la prima volta da molto tempo, la gente normale ha discusso sulla vera natura del sistema in cui vive; non lo prendono più come una fatalità.

Adesso per la sinistra mondiale la questione è come andare più avanti e trasformare questo successo iniziale a livello del discorso in una trasformazione politica. Il problema può essere posto in termini abbastanza semplici. Benché dal punto di vista economico persista una chiara e crescente distanza tra un piccolosissimo gruppo (l'1%) e uno molto più grande (il 99%), non ne discende che questa sia la divisione politica esistente. A livello mondiale, le forze di centrodestra dominano ancora circa la metà della popolazione del mondo, o almeno di coloro che in qualche modo sono politicamente attivi. Quindi, per trasformare il mondo, la sinistra mondiale avrà bisogno di un grado di unità politica che ancora non possiede. In effetti, ci sono profonde distorsioni tra gli obiettivi di lungo periodo e le tattiche di breve periodo. Certo, questi problemi sono stati dibattuti. Sono stati dibattuti addirittura animatamente, ma sono stati fatti pochi passi avanti per superare le divisioni.

Queste divisioni non sono nuove. E questo non le rende certo più facili da risolvere. Due dominano. La prima ha a che vedere con le elezioni. Non ci sono solo due, ma tre posizioni diverse relative alle elezioni. Esiste un gruppo profondamente sospettoso delle elezioni, che sostiene che parteciparvi sia non soltanto inefficace ma rafforzi la legittimità del sistema mondiale esistente. Gli altri pensano che partecipare al processo elettorale sia cruciale. Ma questo gruppo è spaccato in due. Da un lato, ci sono coloro che vogliono essere pragmatici. Vogliono lavorare dall'interno - all'interno dei grandi partiti di centrosinistra quando esiste un sistema multipartitico funzionante, o all'interno del sistema de facto a partito unico, quando l'alternanza parlamentanre non è permessa.

E naturalmente ci sono coloro che criticano la politica della scelta del meno peggio. Insistono sul fatto che non c'è una differenza significativa tra i principali partiti che rappresentano l'alternativa e invitano a votare per partiti «genuinamente» di sinistra.

Siamo tutti implicati in questo dibattito e abbiamo ascoltato le diverse argomentazioni mille volte. Comunque, è chiaro, almeno per me, che se questi tre gruppi non troveranno un punto di intesa sulle tattiche elettorali, la sinistra mondiale avrà poche speranze di vincere, sia nel breve che nel lungo periodo.

Credo che esista una strada per la riconciliazione. Bisogna partire dalla distinzione tra le tattiche di breve periodo e la strategia di lungo termine. Sono assolutamente d'accordo con coloro che sostengono che sia irrilevante conquistare il potere statale e che possa persino mettere in pericolo la possibilità di trasformazioni di lungo periodo del sistema mondiale. Questa strategia di trasformazione è già stata tentata varie volte ma non ha mai avuto successo.

Ma da ciò non consegue che la partecipazione elettorale a breve sia una perdita di tempo. Nei fatti, un'ampia parte del 99% soffre pesantemente in una prospettiva a breve. Ed è proprio questa sofferenza nell'immediato che li preoccupa principalmente. Cercano di sopravvivere e di aiutare famiglia e amici a sopravvivere. Se consideriamo i governi non come agenti potenziali di trasformazione sociale ma come strutture che possono incidere sulle sofferenze di breve periodo attraverso decisioni politiche immediate, allora la sinistra mondiale è obbligata a fare quello che può per ottenere dai governi delle decisioni che minimizzino la sofferenza.

Lavorare per minimizzare le sofferenze richiede la partecipazione alle elezioni. Quale è il dibattito tra i fautori del male minore e chi propone di appoggiare i veri partiti di sinistra? Questo dipende da scelte di tattica locale, che variano enormemente a seconda di vari fattori: estensione del paese, struttura politica formale, situazione demografica, posizione geopolitica, storia politica. Non esiste una risposta standard, non può esistere. E la risposta che potrà essere data nel 2012 magari non varrà più nel 2014 o nel 2016. Secondo me, non si tratta di una discussione di principio, ma piuttosto di una situazione di tattica evolutiva in ogni paese.

Il secondo dibattito di fondo che sfinisce la sinistra mondiale è tra ciò che definisco «sviluppismo» e ciò che potremmo chiamare la priorità attribuita a un cambiamento di civiltà. Questo dibattito ha luogo in varie parti del mondo. Esiste in America latina negli abbastanza tesi dibattiti in corso tra i governi di sinistra e i movimenti indigeni - per esempio in Bolivia, Ecuador o Venezuela. Esiste in America del nord e in Europa nei dibattiti tra gli ambientalisti/Verdi e i sindacati che danno la priorità alla conservazione e all'aumento dell'occupazione disponibile.

Da un lato l'opzione «sviluppista», quando è proposta da governi di sinistra o dai sindacati, difende il fatto che senza la crescita non c'è modo di correggere gli squilibri economici del mondo attuale, sia nel caso di polarizzazione all'interno di singoli paesi che tra paesi diversi. Questo gruppo accusa gli avversari di sostenere, almeno oggettivamente e a volte soggettivamente, gli interessi delle forze di destra.

I fautori dell'opzione anti-sviluppista sostengono che concentrarsi sulla priorità della crescita economica sia doppiamente errato. Si tratta di una politica che non fa che confermare le caratteristiche del sistema capitalistico. Ed è una politica che produce danni irreparabili - sia dal punto vista ecologico che sociale. Questa divisione è persino più appassionante, se possibile, di quella relativa alla partecipazione alle elezioni. L'unica soluzione per risolverla è un compromesso, da realizzarsi caso per caso. Affinché il compromesso sia possibile, entrambi i gruppi devono accettare la buona fede delle credenziali di sinistra dell'altro. Non sarà facile.

Queste divisioni a sinistra potranno venire superate nei prossimi cinque-dieci anni? Non ne sono sicuro. Ma se non ci riusciranno, non credo che la sinistra mondiale possa vincere la battaglia dei prossimi venti-quarant'anni, che sarà su quale tipo di sistema sostituirà il capitalismo quando questo crollerà definitivamente.

Una delle illusioni ricorrenti del pensiero umano è di ritenere di vivere il punto d'arrivo della storia. Non è esatto che tale veduta sia stata caratteristica soltanto del pensiero antico, privo di mentalità storicistica. Certamente in alcuni storici e pensatori di età classica si coglie la persuasione di vivere nella «pienezza dei tempi», al culmine cioè di uno sviluppo del quale non si immaginano ulteriori tappe. Ma assai più diffuso è, semmai, in quell'età, il convincimento che la storia umana non sia stata che una continua decadenza.

È noto che il sovvertimento radicale di tale prospettiva è dovuto al pensiero storico di matrice cristiana, in particolare all'influenza di un gigante del pensiero tardoantico quale Agostino, alla sua intuizione del tempo e alla sua visione della storia come progresso verso la «città di Dio». Gli incunaboli dello storicismo moderno sono lì. Con il limite, ovviamente, di una visione insieme conclusiva e utopistica: conclusiva, in quanto fondata appunto sull'idea di un punto d'arrivo (la città di Dio); utopistica perché proiettante fuori della storia la conclusione della storia. È altresì chiaro che una laicizzazione della visione agostiniana — l'intuizione di un cammino positivo ma immanente — è alla base del moderno pensiero progressista.

Se dal piano della visione filosofica passiamo a quello della ricostruzione storica, possiamo osservare analoga polarizzazione nello scontrarsi, nell'età nostra, di due opposte visioni del «modo di produzione capitalistico», così efficacemente studiato da Marx. Da un lato una visione eternizzante e statica, secondo cui il capitalismo non solo è forma durevole e ricorrente nelle più varie epoche, ma è anche l'approdo ultimo dell'organizzazione sociale. Dall'altro una visione storicizzante (e certo scientificamente agguerrita), secondo cui è prevedibile un declino anche del «modo di produzione capitalistico», come di ogni altro modo di produzione ad esso precedente.

Per tanta parte del nostro secolo questa seconda veduta si coniugava con la certezza di essere entrati — con la rivoluzione sovietica — in un'età storica che avrebbe visto realizzarsi quel superamento del capitalismo che già sul piano scientifico-analitico era dato «prevedere». E si coniugava anche con l'idea — non meno azzardata — che l'età del socialismo, e poi del comunismo e della dissoluzione dello Stato fosse anche l'ultima dello sviluppo umano. La crisi, rapida in fine ma a lungo incubatasi, dei sistemi politico sociali detti del «socialismo reale» ha dato un duro colpo a quelle convinzioni e ha ridato fiato in modo spettacolare all'altra veduta, quella dell'«eternità» del capitalismo.

Anche sul piano logico, però, è subito chiaro, a chi non si lascia trascinare dalla passione, che il crollo di gran parte dei sistemi di «socialismo reale», mentre dà un colpo mortale all'idea di essere già entrati nell'età «successiva» (quella del socialismo), non altrettanto reca un argomento risolutivo alla veduta, sempre ritornante, dell'eternità del capitalismo. Questa seconda deduzione continua ad apparire azzardata, se solo si considera quanto l'esistenza di una settantennale esperienza di economia socializzata e di piano abbia inciso sulla natura stessa e sul funzionamento del capitalismo. Al punto che, non senza ragione, commentatori del più vario orientamento, tendono oggi a dire che il risultato di quasi un secolo di esperienze socialistiche (poi entrate in crisi) è stato per così dire di tipo dialettico. Il socialismo ha contato o «resta» nella storia del XX secolo non perché abbia «inventato» società nuove, ma perché ha inciso profondamente nelle dinamiche del capitalismo. L'avversario modifica l'antagonista e si viene modificando esso stesso.

Quanto detto sin qui può forse bastare a non prendere sul serio saggi troppo fortunati come La fine della storia del nippo-statunitense Fukuyama. Il problema è però un altro. Non cullarsi nel rifiuto di interpretazioni avventate o semplicistiche, ma cercare di capire il movimento storico che continua incessante sotto i nostri occhi. E qui incominciano le difficoltà. Le classi si sono profondamente rimescolate; l'operaio di fabbrica del mondo industrializzato palesemente non sarà il soggetto della trasformazione e del superamento (quando che sia) del capitalismo. In compenso, la polarizzazione tra ricchezza e miseria a livello planetario si è approfondita e irradiata sull'intero pianeta.

Sul piano, poi, dei modi dell'organizzazione politica, accade che il modello occidentale — proprio quando doveva celebrare i suoi fasti e il suo trionfo — è entrato in gravissima crisi. Lungi dal determinarsi l'apoteosi della mitica «liberaldemocrazia», si appalesa, in tutta la sua brutalità, il trionfo della compravendita politica, veicolo dell'esproprio della volontà popolare.

Benchè non possiamo indovinare il tempo che sarà, possiamo avere almeno il diritto di immaginare come desideriamo che sia.

Le Nazioni Unite proclamarono le grandi liste dei diritti umani tuttavia la stragrande maggioranza dell’umanità, non ha altro che il diritto di vedere, udire e tacere.

Che direste se cominciassimo a praticare il mai proclamato diritto di sognare?

Che direste se delirassimo per un istante?

Alla fine del millennio puntiamo lo sguardo oltre l’infamia, per indovinare un altro mondo possibile.

L’aria sarà pulita da tutto il veleno che non venga dalla paure umane e dalle umane passioni.

La gente non sarà guidata dalla automobile, non sarà programmata dai calcolatori, ne sarà comprata dal supermercato, ne osservata dalla televisione.

La televisione cesserà d’essere il membro più importante della famiglia.

La gente lavorerà per vivere, invece di vivere per lavorare.

Ai codici penali si aggiungerà il delitto di stupidità che commettono coloro che vivono per avere e guadagnare, invece di vivere unicamente per vivere, come il passero che canta senza saper di cantare e come il bimbo che gioca senza saper di giocare.

In nessun paese verranno arrestati i ragazzi che rifiutano di compiere il servizio militare, solo quelli che vorranno compierlo.

Gli economisti non paragoneranno il livello di vita a quello di consumo, ne paragoneranno la qualità della vita alla quantità delle cose.

I cuochi non crederanno che alle aragoste piaccia essere cucinate vive.

Gli storici non crederanno che ai paesi piaccia essere invasi.

Il mondo non sarà più in guerra contro i poveri, ma contro la povertà e l’industria militare sarà costretta a dichiararsi in fallimento.

Il cibo non sarà una mercanzia, ne sarà la comunicazione un affare, perchè cibo e comunicazione sono diritti umani.

Nessuno morirà di fame, perchè nessuno morirà d’indigestione.

I bambini di strada non saranno trattati come spazzatura perchè non ci saranno bambini di strada.

I bambini ricchi non saranno trattati come fossero denaro perchè non ci saranno bambini ricchi.

L’educazione non sarà il privilegio di chi può pagarla e la polizia non sarà la maledizione di chi non può comprarla.

La giustizia e la libertà, gemelli siamesi condannati alla separazione, torneranno a congiungersi, ben aderenti, schiena contro schiena.

In Argentina, le pazze di Plaza de Mayo saranno un esempio di salute mentale poichè rifiutarono di dimenticare nei tempi dell’amnesia obbligatoria.

La perfezione… la perfezione continuerà ad essere il noioso privilegio degli dei.

Però in questo mondo, in questo mondo semplice e fottuto, ogni notte sarà vissuta come se fosse l’ultima e ogni giorno come se fosse il primo.

Il video

Movimenti - una ricerca tra i precari dell'euromayday, i partecipanti al primo maggio dei sindacati e allo sciopero generale. Il maggiore disincanto tra i giovani, ma l'antipolitica è lontana

Che cosa pensano di chi ci rappresenta i partecipanti alle manifestazioni di protesta italiane? Che dei partiti e del Parlamento ci si poteva fidare poco e ora quasi per nulla. E che servirebbe un'Europa democratica. La richiesta di più partecipazione

La primavera araba è stata considerata come una ulteriore testimonianza della espansione della democrazia. Questa interpretazione può essere tuttavia fuorviante, se si definisce la democrazia come forma meramente rappresentativa. Chi protestava e protesta a Tahir Square non chiede solo elezioni libere, ma propone e pratica anche altre concezioni di democrazia che sono, se non opposte, certo in tensione con quelle della democrazia liberale, e risuonano invece con una idea partecipativa e deliberativa di democrazia. Non casualmente, quando il messaggio della primavera araba si è diffuso sul continente europeo, con gli Indignados soprattutto in Spagna e Grecia, e poi sul continente americano, con il movimento Occupy Wall Street, il tema della democrazia ("altra" e "ora") è stato centrale, così come centrale è stata la critica ai rappresentanti eletti, accusati di essere catturati dagli interessi dell'1% contro il 99% della popolazione. Le occupazioni di spazi pubblici - delle tante piazza Tahir in Europa e nel mondo - hanno rappresentato non solo forme di protesta, ma anche prefigurazioni di altri modelli di democrazia, basati sulla partecipazione di tutti, in un dialogo rispettoso della diversità. Ad essere contestate sono quindi non solo le politiche dei governi, ma anche le loro traballanti basi di legittimazione.

Queste tensioni tra diverse concezioni di democrazia emergono da una recente ricerca - condotta nel maggio scorso, quindi poco prima che in Italia si avviassero, sotto la forte spinta dell'Unione Europea, e di alcuni paesi europei, politiche di austerità, orientate ad un immediato far cassa, colpendo soprattutto i gruppi più deboli. La ricerca, svolta attraverso questionari, rileva le opinioni di chi ha partecipato, nel maggio del 2011, a tre manifestazioni per i diritti al lavoro e dei lavoratori, e contro le crescenti disuguaglianze sociali. Le tre manifestazioni coperte sono l'EuroMayDay a Milano, il Primo Maggio sindacale a Firenze, e, ancora a Firenze, il 6 maggio, lo sciopero generale della Cgil.

Questi dati confermano, prima di tutto, che i partecipanti alla tre - diverse - manifestazioni condividono un'altissima sfiducia nelle istituzioni rappresentative. Governi e parlamenti nazionali vedono livelli di fiducia bassissimi (vedi tabella 1).

Nonostante i partecipanti alle manifestazioni siano elettori (e anche talvolta membri) di partiti di sinistra e centrosinistra, la fiducia nei partiti non raggiunge il 7%, con punte dell'1,6% tra i partecipanti all'EuroMayDay. Seppure più alta, la fiducia nei sindacati raggiunge livelli critici, soprattutto se si considera che le manifestazioni coperte vedevano la partecipazione di attori sindacali: solo un terzo dei partecipanti, in media, e meno di un quinto per l'EuroMayDay, si fida dei sindacati. Sebbene la fiducia nell'Unione Europea sia più alta di quella nelle istituzioni nazionali, il giudizio resta - come vedremo - negativo.

Confrontando questi dati con quelli raccolti, sulla stessa batteria di domande, ad altri eventi di protesta in Italia all'inizio degli anni duemila (tabella 2), si può notare come la - allora già bassa - fiducia nelle istituzioni della democrazia rappresentativa (soprattutto parlamento e partiti) si sia addirittura ulteriormente ridotta. E si può aggiungere che, in generale, la fiducia è in caduta libera fra i più giovani.

Questa altissima sfiducia nelle istituzioni rappresentative ha diverse spiegazioni. Soprattutto, partiti politici e istituzioni rappresentative sono percepiti come non più in grado, o non più interessati, a svolgere una delle loro più importanti funzioni, che ha legittimato le democrazie in passato: ridurre le diseguaglianze sociali. Mentre la globalizzazione neoliberista viene considerata da chi protesta (all'80%) come principale causa di un insopportabile aumento delle diseguaglianze, che dovrebbe essere (secondo l'86% degli intervistati) sottoposta ad un governo politico, parlamenti e partiti vengono considerati come disinteressati ad assolvere a questi compiti. Non solo le istituzioni nazionali, ma anche l'Unione europea appare a chi protesta come sostanzialmente incapace di difendere un diverso, e più sociale, modello di sviluppo e viceversa orientata (per due terzi dei partecipanti in media, fino a tre quarti per l'EuroMayDay) a rafforzare le conseguenze negative del neoliberismo.

Chi protesta non chiede tuttavia una riduzione delle competenze delle istituzioni rappresentative. Seppure estremamente critici sul funzionamento delle istituzioni esistenti, gli attivisti intervistati chiedono un loro rafforzamento, e questo a tutti i livelli. In una situazione critica e complessa, chi protesta chiede che la politica torni a fare valere le sue ragioni sull'economia, lo stato (inteso in senso ampio) sui mercati (tabella 3).

In maggioranze consistenti, coloro che protestano chiedono che istituzioni locali, nazionali, europee e globali - riformate e trasformate - tornino a fare quello che, come scrive Colin Crouch nel suo "Post-democrazie", un tempo le democrazie sapevano fare: intervenire a ridurre le diseguaglianze prodotte dei mercati.

Seppure senza fiducia nelle istituzioni esistenti, chi protesta non vuole però un loro indebolimento. La critica della democrazia rappresentativa è una critica costruttiva - pervicacemente e nonostante tutto. A livello locale, nazionale o europeo, chi protesta difende la democrazia, chiedendo però una "democrazia vera", capace di difendere i cittadini e i loro diritti, e contribuisce a costruirla.

Nell'ultimo decennio in 25 paesi emergenti il Pil è cresciuto ad un tasso medio annuo del 5.8 per cento (Qatar, Cina, Kazakhstan, India, Vietnam e Nigeria l'hanno nettamente superato), di contro ad una crescita negativa del Giappone, all'1% dell'eurozona, ed all'1,5% degli Usa. Sempre nell'ultimo decennio la distribuzione del prodotto industriale mondiale ha visto il crollo degli Usa (passati dal 24.8 al 15.6%), del Giappone (dal 15.8 al 9,1%) e della Ue (dal 24.2 al 18%).

Mentre tutti i paesi occidentali sono gravati da un pesante debito pubblico, da una bilancia commerciale passiva (eccetto il Giappone e la Germania), da una crisi finanziaria e da una caduta delle Borse da quattro anni, i capitali sovrani - cioè i capitali in mano agli Stati - crescono e si concentrano nelle potenze emergenti, che stanno facendo shopping di imprese, risorse minerarie, terreni agricoli (solo in Africa sono state acquisite dai capitali sovrani terre fertili per una superficie pari alla Francia).

La democrazia rappresentativa, simbolo e vanto dell'Occidente, non regge ai colpi della crisi finanziaria, della crisi fiscale dello Stato, della perdita di competitività verso i paesi emergenti. Proprio nella fase storica in cui l'Occidente, con gli Usa in testa, hanno tentato di "esportare la democrazia" nel resto del mondo (magari con qualche bomba di troppo), questa forma politico-istituzionale è entrata profondamente in crisi, non appare più adeguata a rispondere alle grandi sfide della globalizzazione finanziaria e del mercato mondiale. In molti circoli della haute finance, dei Ceo che governano le imprese multinazionali, cresce l'invidia per il modello cinese, un modello di capitalismo di Stato dove le decisioni vengono prese velocemente e vengono eseguite senza i logoranti rituali della democrazia parlamentare, ignorando o calpestando nel sangue le decine di migliaia di rivolte popolari.

L'area occidentale, e l'Europa in primis, dove sono nati lo Stato moderno, il mercato capitalistico (le prime forme si trovano in Italia nel secolo XIII), ed infine le Costituzioni repubblicane e la democrazia parlamentare, appare ormai come una zona del mondo sempre più marginale, travolta dagli eventi, non più in grado di dare una risposta alla crisi che la sta erodendo dall'interno. Il rilancio della "crescita" di cui tutti straparlano in Europa e negli States è il classico miraggio, un'illusione ottica in un deserto di analisi e proposte che non fa i conti con la realtà.

La crescita del Pil a ritmi sostenuti era già finita in Occidente negli anni '80 del secolo scorso. Solo il ricorso ad un indebitamento massiccio - di imprese, famiglie e Stati - ha permesso di mantenere artificialmente alta la domanda di beni e servizi, di drogare l'economia reale. Oggi questa corsa è finita nel default di tutta l'area occidentale e la terapia messa in atto dai governi europei, basata sulla riduzione del welfare e sui tagli all'occupazione ed ai salari, appare sempre più chiaramente come un autodafé. In un'area interna al mercato mondiale abbassare il potere d'acquisto della stragrande maggioranza della popolazione e, soprattutto, tagliare i salari ha un senso solo se questa manovra permette di esportare di più ed utilizzare il surplus della bilancia commerciale per ripianare il debito esterno. Ma il costo del lavoro incide marginalmente per molti prodotti esportati fuori dall'Ue (per le auto, ad esempio, incide solo per l'8%), ed anche per quei settori più tradizionali dove invece incide (calzature, abbigliamento, ecc) il divario salariale è tale che non è colmabile, salvo affamare letteralmente i lavoratori e fare crollare il Pil, esattamente il contrario di quello che viene sbandierato.

Infine, con una popolazione stagnante ed in gran parte dotata dei beni di consumo di massa, i consumi dei beni non alimentari avvengono in gran parte per sostituzione e spingerli ancora in alto può avvenire solo attraverso una riduzione ulteriore del ciclo di vita delle merci, con accresciuti fenomeni di inquinamento e rifiuti sempre più ingestibili. Così come le Grandi Opere, che molti rivorrebbero rifacendosi all'esperienza del New Deal di Roosevelt - senza tenere conto dei profondi cambiamenti intervenuti nell'impronta ecologica occidentale - sono sempre più devastanti, sul piano ambientale, ed inutili su quello dei bisogni sociali. Va poi ricordato che prima del crac delle Borse del 2008 la crescita in Occidente, in particolare negli Usa, si era contraddistinta per un effetto nullo o negativo sull'occupazione. Non a caso era stata definita growth jobless (crescita senza occupazione).

Ben diversa è la situazione dei Bric e di gran parte dell'Africa e dell'America Latina, dove la popolazione continua a crescere e ci sono ancora una marea di bisogni primari e secondari da soddisfare, vale a dire un grande mercato potenziale.

In sintesi, dobbiamo avere il coraggio di dire con chiarezza che la società occidentale è entrata in una fase di crisi profonda, strutturale, che va ben al di là della questione dei cosiddetti debiti sovrani (che i paesi latinoamericani chiamano più correttamente "deuda externa", perché di "sovrano" non hanno niente).

Certo, nel medio periodo la caduta della domanda dei consumatori occidentali inciderà anche sui Bric e sui paesi emergenti, e la compensazione con la crescita dei consumi nel mercato interno potrebbe non essere sufficiente. Soprattutto c'è una resistenza popolare che si sta allargando su scala mondiale e mette in discussione il modello di accumulazione capitalistica su scala globale. Paul Hawken, riprendendo una categoria cara a Toni Negri, l'ha chiamata "Moltitudine inarrestabile", Marx forse l'avrebbe definita semplicemente una nuova fase della "lotta di classe", individuando nei nuovi proletari i soggetti che si oppongono all'espropriazione delle terre, delle case rurali, alla devastazione ambientale, all'impoverimento crescente. Di fatto si tratta di centinaia di migliaia di lotte sociali che registriamo ogni anno contro le Grandi Opere, i processi di urbanizzazione selvaggia, la privatizzazione dei beni comuni, a partire dall'acqua. Sono i nuovi partigiani del XXI secolo che si oppongono ai processi di espropriazione ed accumulazione capitalistica, dalle circa 5000 culture indigene che tentano di proteggere le terre natie, ai milioni di contadini cinesi espropriati/espulsi dalle terre (come testimoniato su questo quotidiano da Angela Pascucci), alle vittime incalcolabili delle multinazionali del petrolio (a partire dal delta del Niger), fino ad arrivare a casa nostra dove movimenti come il No Tav ed il No Ponte stanno resistendo da vent'anni a progetti di devastazione del proprio territorio.

Se l'Ue diventerà un punto di riferimento politico, scientifico, culturale, per i "nuovi partigiani" di questo secolo avrà ancora un ruolo da svolgere nel mondo. Soprattutto se saprà dimostrare che si può "vivere meglio con meno", se saprà mantenere alta la qualità della vita ed i diritti sociali . In breve, se sapremo utilizzare la crisi per modificare profondamente questo modello di accumulazione capitalistica, disarmare la finanza e fare emergere i nuovi bisogni sociali e ambientali.

Abbiamo trovato il modo per uscire dalla crisi, rilanciare l'economia e attrarre i capitali stranieri, risolvere il problema del precariato e dare un futuro ai giovani. Se va bene, potremmo farla finita persino con la fame nel mondo. Con la sua bacchetta magica la ministra Elsa Fornero ha compiuto il miracolo: via l'art. 18, dice, liberiamo le imprese da questo odioso laccio rendendo più facili i licenziamenti e vedrete che la macchina si rimetterà in moto. Magari introducendo una norma contro le discriminazioni politiche, ma per il resto liberi tutti. Tutti chi? I padroni, naturalmente. Per carità, se un lavoratore è licenziato ingiustamente dev'essere risarcito: prendi questi quattro soldi e ritenta la sorte da qualche altra parte.

Ci risiamo. Con un accanimento degno di miglior causa, finalizzato solo a regolare i conti con il Novecento, riparte l'assalto a un diritto che, con un'operazione subdola quanto stantia, viene declassato a privilegio. Di che stiamo parlando? Del fatto che se un dipendente in un'azienda con più di 15 dipendenti è messo fuori e il giudice ritiene il licenziamento ingiusto, quel lavoratore dovrà essere riassunto nello stesso luogo a parità di trattamento. L'azienda condannata può comunque opporsi alla sentenza, ha a disposizione altri due gradi di giudizio. Sarebbe questa la causa di tutti mali, contro cui destre e Confindustria hanno sempre scagliato i loro strali? Sarebbe l'art. 18 a far perdere il sonno persino a tanta intellighentia democratica? Le armate del giuslavorista del Pd Pietro Ichino si sono infoltite con l'arrivo della Fornero, a cui la parola sacrifici strappa lacrime mentre la sua sensibilità non sembrerebbe colpita da chi è stato licenziato ingiustamente. Basta pagare il giusto, ma al padrone dev'essere garantita massima flessibilità. Del resto, anche al padrone dell'amianto Schmidheiny che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti nel mondo e di 1.800 solo a Casale, il consiglio comunale di questa città monferrina ha consentito di monetizzare i morti di oggi e di domani in cambio della rinuncia alla costituzione di parte civile. La logica è la stessa: fai quel che ti pare del futuro e della vita delle persone, purché tu sia disposto a pagare un obolo alla coscienza collettiva. Non è sufficiente la già prevista causa di crisi a consentire i licenziamenti. L'importante è evitare le rappresaglie politiche. E quando mai i padroni hanno licenziato un operaio accusandolo di essere comunista, o della Fiom, o magari gay? Ci sono molti modi più subdoli per liberare le linee o gli uffici da un «avversario».

L'ultimo imbroglio della ministra che promette «la riforma del ciclo di vita» (qui siamo oltre il miracolo) è il tentativo maldestro, anch'esso stantio, di contrapporre i privilegi dei «vecchi» alla condizione precaria dei giovani. C'era bisogno di cambiare governo per continuare a sentire queste banalità? La precarietà è ancor più pesante nelle aziende con meno di 15 dipendenti dove lo Statuto non entra: come la mettiamo? E non basta ancora la progressiva sterilizzazione dell'art. 18 operata dal governo Berlusconi?

Era il 24 marzo del 2001 quando tre milioni di italiane e italiani occuparono Roma in difesa dell'art. 18, il ministro dovrebbe ricordarselo. E dovrebbe ricordarsi che un altro ministro del lavoro, piemontese come lei, aveva varato lo Statuto. Si chiamava Donat Cattin, era democristiano. Sarebbe stato meglio morire democristiani?

Nell’icona e nel testo un’immagine della manifestazione contro l’abolizione dell’articolo 18, del 24 marzo 2001, al Circo Massimo, Roma

Massimo Torelli, di Sbilanciamoci, apre la discussione. "Siamo qui per dire che c'è un'altra via per uscire dalla crisi che non sia la depressione economica. Consideriamo fallimentari le proposte istituzionali perché non portano a una via d'uscita. Non c'è solo un aspetto economicista. “Rotte d'Europa” non deve diventare Europa in rotta. Una politica che non si occupa di economia, non è una politica. Che soluzione dare al debito. Dopo la primavera italiana e il referendum ero contento, ma dall'estate è cambiato tutto. La nostra primavera è nata intorno a Pomigliano, a Mirafiori, alla Fiom. Quindi interroghiamoci come siamo arrivata qua".

È la volta di Rossana Rossanda. "Vorrei che fosse una riunione di lavoro. Raccogliere ciò che è stato fatto e portarlo avanti a scadenze ravvicinate. Una politica di cui ci si vergona di meno e di cui si fidi di piu. Perche siamo qui? Quali sono le proposte di lavoro che vogliamo avanzare? La via d'uscita va cercata. Partiamo ricordando che l'asse franco-tedesco non rappresenta formalmente niente, si è auto-imposto. E gli altri paesi, di fronte al rinnovarsi della situazione, non reagiscono con un sussulto di solidarietà, ma con atteggiamenti di preoccupazione nazionale in cui ognuno cerca di cavarsela alla meno peggio da solo. Questo provoca il crollo dei debiti degli Stati e l'incapacità di governare positivamente la tempesta. Il primo punto da marcare è una mia persuasione: è ormai opinione diffusa che l'economia abbia fatto il colpo di stato e abbia destituito la politica. No, è la politica che ha consegnato all'economia i suoi poteri. E li ha consegnati con responsabilità delle sinistre e del centro sinistra. Perché scombussolati dal socialismo reale, sono balzati a piedi uniti sull'ipotesi liberista, che non ha mai cessato di essere presente, che era praticamente scomparsa dalla scena. L'Europa era un vecchio sogno dei padri fondatori europei, ma invece di portare avanti libertà, eguaglianza e fratellanza è stata costruita negli anni del boom del liberismo. Libertà di circolazione di uomini, merci e capitali. Che imbroglio! L'Europa è stata costruita sulla competitività e concorrenza dell'uomo sull'uomo, sul contrario della collettività. Primo segno: non ha avuto una dichiarazione politica, ma la moneta unica. Una politica monetaria liberista. Il risultato è stato che la moneta è stata fatta ma non i cittadini europei. Dove finiremo fra qualche mese. Dove sarà finita l'Italia e l'Europa con questa crudele ripartizione del reddito a favore di chi ha di più e contro chi ha di meno.

La merce denaro fa denaro. Non produce se non denaro. Sbarellando il sistema. Sono crisi finanziarie in presenza di un abbassamento della crescita produttiva. Siamo in presenza non di una politica liberista crudele ma efficiente, perché è umanamente crudele e inefficiente. Questo dominio dei capitali è incapace di previsioni. Non capisco perché questo dominio dei conti, dei calcoli, fuori dalle volontà politica, non ci abbia detto nulla della crisi dei surprime in Usa che ha trascinato tutti. Non sapevamo fino a un anno fa che la Grecia era in grande crisi. E adesso anche tutta la zona euro. Stiamo assistendo a questo scontro europeo, che si riflette nel governo Monti. Governo onesto e pulito che dà sberle incredibili. Tutta l'Europa è in una crescita molto bassa, quasi zero, i deficit di bilancio vengono cercati fra pensioni, salari, gente debole e riduzione spesa pubblica, welfare, scuola, istruzione. Ogni paese fa le stesse politiche. Questo passaggio di incrudelimento verso i più deboli non ha via d'uscita. Perché i paesi relativamente più forti, Francia, Germania, Finlandia non sono presi da impeto di solidarietà per venire in contro alle esigenze di questa comunità. Siamo in pericolo tutti. Accanto a un lavoro degli amici economisti che ha avuto inaspettato successo nell'avanzare proposte alternative, basate sul proteggere i deboli, è urgente ridare all'Europa una struttura democratica in cui le decisioni non vengano prese da protagonisti impropri, ma che ritorni ai popoli. Diamoci delle scadenze rapide.

Mario Pianta, docente di Economia all'Università di Urbino, parla di 'rotta': come direzione o come disastro? "L'Europa si basa su due pilastri: il liberismo e la convinzione che i mercati risolvono i problemi da soli, e il lasciare le porte aperte all'espansione della finanza. Questi due pilastri hanno prodotto una totale liberalizzazione dei movimenti di capitale per cui è possibile investire senza limiti, tanto che i paesi poveri trasferiscono i fondi a Londra o New York invece di investirli nel locale. I pochi ricchi dei paesi poveri non investono il capitale e lo lasciano fuggire all'estero. Tutta la crescita era fondata sull'investimento di risparmi. Ora no, non si investe più nei paesi, si specula all'estero.

Così in Europa lo Stato non interviene nell'economia. È da venti anni che i movimenti globali sostengono la tassa sulle transazioni finanziarie. Questo perché una tassa piccola ridurrebbe le operazioni speculative che puntano a guadagnare una piccola percentuale sulla variazione di prezzo, piccolo margine che però consente di guadagnare da grandi speculazioni. La buona notizia arrivata da Monti è che l'Italia dovrebbe sostenere ciò. Lo diciamo da venti anni, meglio tardi che mai. Ma dall'Europa ancora nessuna notizia in questo senso.
Persino il Fmi riconosce di introdurre limiti e controlli ai flussi di capitale. Altra cosa importante: distinguere le banche commerciali da quelle speculative, imponendo a queste ultime severi controlli, vigilare sui cattivi della finanza. Ci possono essere misure per ridimensionare le attività e dare alla finanza meno munizioni per sparare con la speculazione. Togliere il potere alle agenzie di rating di creare aspettative di indebolimento di alcuni soggetti su cui si scatena la speculazione. La via d'uscita più concreta è costruire una garanzia collettiva sull'eurozona - che ha l'economia reale più forte del mondo. La banca centrale europea deve fare da banca centrale e deve dichiarare che realizzerà acquisti illimitati di tutti i titoli europei sul mercato e in questo modo i tassi di interesse non si alzeranno e i carichi degli interessi passivi da pagare diverranno sostenibile. Per evitare di aver bisogno di finanziarie solo per pagare il debito. 
Da tempo c'è la proposta di una commissione per capire come affrontare il debito, di un Fondo monetario europeo, che tuteli la moneta dalla speculazione. Ma non dimentichiamo che debitori e creditori son le due facce di una stessa medaglie. Quindi anche i deboli possono costruire un cartello e dire quanto possono pagare nel tempo in modo da proteggere la propria economia.

Abbiamo esigenza di affrontare la recessione che richiede misure coraggiose di cui non c'è traccia. Le risorse devono essere trovate in quel dieci percento di ricchi e in quell'un percento di super ricchi, che hanno concentrato tutta la ricchezza. La tassazione deve spostarsi sui redditi alti e sulla ricchezza. Pretendiamo l'armonizzazione fiscale a livello europeo, per ridare coerenza anche dal punto di vista fiscale all'Europa. Monti non ha mai pronunciato la parola modello di sviluppo. Invece bisogna ridurre la dipendenza dall'estero e l'apertura, ricostruire capacità produttiva non basata su lavoro a basso costo. L'Europa deve dare risposta alla recessione. Il problema è avere l'economia a servizio della società e non al contrario. Una serie di politiche sostenibili ed equità vera, giustizia e economia che non opprima la gente".

Ha quindi concluso Luigi Ferrajoli. "Con questo dibattito e questa riunione si capirà che esistono proposte alternative per un Europa più equa. È una crisi oltre che economica, della democrazia. La vera divisione non è tanto fra nord e sud, fra ricchi e poveri, ma fra un piano altro dove c'è una sterminata quantità di quattrini e il resto dell'umanità. È un altro modo per dire siamo il 99 percento governato da un uno percento che controlla il 40 percento delle ricchezze, dove un miliardario paga meno imposte della sua segretaria, e un finanziere meno tasse di un operaio. Abdicazione totale della politica e assoggettamento politica all'economia. L'idea della sfera pubblica è in bilico. La separazione della sfera pubblica dalla sfera economica. Stiamo assistendo alla fine della separazione e al capovolgimento del rapporto fra politica ed economia. Crisi del diritto e dello stato di diritto. Non è stato elaborato uno stato di diritto privato in grado di porre un freno ai poteri selvaggi del mercato e contemporaneamente si è svuotato il ruolo del diritto nei poteri pubblici. L 'insofferenza dei limiti ha prodotto la devastazione. Il diritto del lavoro è stato distrutto. Azzerato dal capovolgimento delle fonti, dall'idea che il contratto individuale prevale sul collettivo e sulla legge. Qualsiasi diritto diventa derogabile. La proposta che dobbiamo avanzare non è solo di politiche alternative. Ma dobbiamo trasformare queste politiche in regole, stabilizzarle in forma costituzionale. Non bastano le leggi perché le maggioranze le distruggono. Occorre costituzionalizzare, anche a livello europeo, i diritti dei lavoratori, come inalienabili e non modificabili o sopprimibili dalle varie maggioranze. Costituzionalizzare i beni comuni. Beni demaniali, ossia sottratti al mercato. Vanno sottratti i beni sociali. Un demanio europeo sottratto ai mercati e alla politica. Demanio planetario. Acqua, aria, i beni vitali vanno sottratti. Costituzionalizzare non solo i diritti sociali, che sono vuote parole se no accompagnate da altre. Costituzione brasiliana ha vincoli di bilancio. Ossia nel bilancio degli stati e dei municipi il 25 percento va destinato a salute, 25 a istruzione. E cio ha prodotto una forte riduzione di diseguaglianza. Nel trattato europeo va introdotto vincoli di bilancio. Proposte che trovano sorde perfino le sinistre. Ma sono le proposte che attuano le belle parole scritte nel trattato. Uno degli impegni è realizzare seminari, incontri fra economisti, giuristi e politici, perche esiste un analfabetismo economico dei giuristi e un analfabetismo giuridico degli eocnomisti. Stiamo vivendo il fallimento delle politiche neoliberiste, al via libere ai poteri selvaggi. Dobbiamo invocare un sussulto di solidarietà ma anche di razionalità. Il tratto caratteristico di questa catastrofe è il dominio dell'irrazionalità contraddistinto dalla paura di tutti verso tutti. L'unica alternativa razionale è prendere atto che questa situazione si sta risolvendo in un disastro generale che rischia di travolgere stati popolazioni equilibrio mondiale all'insegna dell'irrazionalità. Quindi costruire un programma politico e istituzionale che dovrebbe diventare anche un programma dei movimenti che rischiano di essere movimenti che si mobilitano sul locale e contro i propri governi. Invece devono avere un programma comune, in modo da dare legittimazione popolare all'Europa".

Gabriele Polo introduce la seconda sessione di discussione, precisando che questo confronto sarà esteso a livello europeo. Il primo a parlare è Giulio Marcon.

"Tre le parole-chiave di Monti. La prima equità. Si dovrebbe puntare sulla giustizia fiscale. Ma questa non c'è. I diritti sociali devono essere riconosciuti parte vincolante dell'intervento pubblico. C'è bisogno della trasformazione del concetto di Welfare al di là della carità e della compassione verso gli ultimi. Pretendiamo interventi massicci in questa direzione.

La seconda è rigore. Siamo a favore del rigore. Tagliare le spese militari, gli sprechi, le grandi opere. Siamo a favore del rigore contro i soldi alle scuole private. Contro gli abusi come i fondi alle cliniche private. Si può tagliare in questa direzione. Dove si può tagliare senza colpire la povera gente.

La terza, crescita. In questa manovra, non c'è molto per la crescita. Ci sono strumenti vecchi. Abbiamo bisogno di altro, come investire dell'economia verde.

Infine, una parola che Monti non ha nominato: modello di sviluppo, ossia su quale produzione e consumi incentivare e quale economia vogliamo per il nostro domani. Il futuro qual è? Solo investendo in produzioni e consumi ecologicamente e socialmente sostenibile, che favoriscano il lavoro, avremo futuro senza ulteriori disuguaglianze.

Ha preso la parola Guido Viale. "Per affrontare in termini operativi la via d'uscita occorre farlo a livello europeo. La crisi della Grecia affrontata a livello nazionale è stato il disastro. Ha portato al default. Per dieci anni tutti gli economisti sanno che non ha la possibilità di risollevarsi dallo strangolamento dell'Europa. La ricetta imposta all'Italia è la medesima. Sono politiche tragiche e inutili. Nei programma enunciati da Monti non c'è la percezione dell'ordine di priorità dei problemi. La condizione delle prossime generazioni dipenderà da quello che il mondo farà da oggi alla metà del secolo per salvaguardare l'equilibrio ambientale del pianeta. Il problema del debito viene al secondo posto. E non è solo il debito italiano, ma di tutta la zona euro. Alla finanza sono state consegnate le chiavi degli Stati. Ma anche degli Stati forti. Anche della Germania.

Non ci sarà crescita nei prossimi anni, non ci sarà nemmeno a livello mondiale. Ci aspetteranno anni in cui non potremo rimanere fermi, e dobbiamo prospettare una via d'uscita, che passa da varchi stretti. In primis, il debito, non solo quello italiano, ma il debito in cui versa l'intero pianeta, debiti pubblici ed esteri e privati di milioni di persone costrette a indebitarsi, non si puo uscire se non ristrutturando il debito, un abbuono totale del debito. Gli economisti dovrebbero capire come abbonare il debito.

Non c'è un programma generale disponibile, non c'è il soggetto portatore di questo programma, e nemmeno la prospettiva perché tutti siamo prigionieri di quell'uno percento di ricchi, della teoria per cui non c'è alternativa. È solo attraverso la realizzazione della costruzione dell'iniziativa locale, che riusciamo a arrivare a costruire un programma generale. Fondamentale nell'iniziativa sociale è il ricorso alla democrazia partecipata. Se l'idea della democrazia partecipata è di sinistra, la parteciazione deve essere aperta a tutti anche a chi ha altre idee è un'arena dove potersi confrontare. Con tutti. Invece nella rappresentativa vincono sempre i peggiori".

Quindi è stata la volta di Francuccio Gesualdi. "Viviamo in un mondo ingiusto in cui un venti percento vive una vita dello spreco a fronte di una maggioranza che nn ha mai conosciuto il gusto del benessere. La crisi ambientale ci comincia a far prendere coscienza che non ci sono più le condizioni del crescere. Finalmente anche la sinistra accetta questo concetto perché abbiamo una radice produttivista. Bisogna risolvere i problemi mentre si produce meno. Questa la sfida. L'alternativa non è fra crescita e decrescita, ma nemmeno fra crescita e green economoy. Dobbiamo capire che società vogliamo. Consentire ancora alle multinazionali di arricchirsi alle spalle di tutti? Dobbiamo costruire una società con l'obiettivo che tutti debbano vivere bene. Come si fa a costruire la società del buen vivir? È il concetto di benessere da mettere in discussione. Non è l'avere. Non è la quantità. La persona umana non può essere un bidone aspiratutto. Siamo anche dimensione affettiva, spirituale, intellettuale. È realizzare in modo armonico tutte queste dimensioni. Questi aspetti in armonia. E le popolazioni quechua delle Ande ce l'hanno insegnato. Buona relazione con noi, con l'ambiente e con la comunità.

Secondo aspetto, il concetto del lavoro. Siamo vittime del fatto che il lavoro è il salario e lo scopo è solo quello dello stipendio. È una deformazione del mercato. In ogni epoca il lavoro ha avuto lo scopo di risolvere i bisogni. Si lavora per soddisfare i nostri bisogni. Dunque lavorare tanto quanto basta. La novità è che se ci liberiamo del lavoro salariale, scopriamo che ci sono altre forme di lavoro come il fai da te che oggi è snobbato perche non produce denaro. Eppure c'è una quantità di cose che possiamo risolvere da soli e che ci aiuta ad andare avanti. Mettiamo i nostri ragazzi in condizione di risolvere da soli molti problemi

E che dire dei lavori di comunità. Auto-generare lavoro tramite lo scambio, con rete autogestite, con altri metodi di pagamento a livello locale. Lavoro comunitario: rivalutiamolo! Abbiamo gente disoccupata, con problemi da risolvere, e non abbiamo i soldi. Ma liberiamoci da questa schiavitù dal denaro. La nostra prima funzione di cittadini è metterci in gioco con il nostro tempo. La tassazione del tempo! Non abbiamo prospettive. O progettiamo un altro modello di società o nulla. Ragioniamo sulle politiche di transizione. Chiediamoci come riconvertire l'apparato produttivo basato sullo spreco in un sistema che ha l obiettivo di produrre in modo razionale sotto il profilo delle risorse e non monetario. Il sistema vede nella green economomy una buona cose e quindi l'accetta. L'altra grande politica da perseguire è la redistribuzione dell'esistente. La prima risorse è il lavoro salariale. Lavorare meno, lavorare tutti. Ridistribuire i salari. E ridistribuire le risorse. Sistema fiscale che tassi di più le ricchezze. Siamo in una guerra, l'industria della finanza ha dichiarato guerra. Quale parte del debito non deve essere pagato perché illegittimo? Stabiliamolo! Congelamento del debito e istituzione di una commissione d'inchiesta che stabilisca quanto dobbiamo pagare davvero".

È poi intervenuta Annamaria Simonazzi. "Non ci piace la parola crescita? Allora chiamiamolo modello di sviluppo alternativo, ma abbiamo bisogno di dare lavoro a tutti. Magari verso attività socialmente utili che non ci porti a consumare. Ma non sono molto d accordo. E non pagare il debito pubblico significa non avere più le banche. Ci sono tre modi con cui le economie sono uscite dal debito. Inflazione. Crescita (sviluppo alternativo sostenibile). Fallimento (default). Ma non è che fare default per i prossimi 15 anni è facile. Sono convinta che non si esce dalla crisi con l'austerità. Soprattutto se l'austerità è perseguita da paesi che possono permettersi una politica di rilancio come la Germania. Se l'austerità è la politica scelta dall'Europa andremo al disastro. C'è un pensiero dominante di questo tipo e anche il nostro governo è molto vicino a questa posizione. E anche la banca centrale europea. Dunque, che politica alternativa per un modello di sviluppo alternativo si può fare in Italia.

Come salvaguardare la crescita data la posizione pesante che abbiamo?

1 - Riqualificare la spesa. Se partiamo da una situazione in cui abbiamo un vincolo di bilancio, allora si deve stabilire delle priorità. Spese da tagliare, (militari, della politica). Ma una maggiore attenzione va anche a infrastrutture che abbiamo chiamato sociali. Sono menzionati investimenti in infrastrutture fisiche da questo governo, ma mancano investimenti in infrastrutture sociali: welfare, che crei direttamente occupazione (il tempo pieno scuole, servizi di cura adeguati, aumentare la formazione) ossia investimenti sociali che non possono più essere considerati un lusso. Questi non possono essere tagliati. Bisogna investire in capitale umano: istruzione, servizi. O noi consentiamo alle donne occupate di potere anche respirare, conciliando lavoro e cura, o neppure l'occupazione che c'è può essere sostenuto. Creare occupazione attraverso investimenti in infrastrutture sociali. Tutti gli altri paesi hanno tagliato, ma mai in questo senso, anzi pensanti sussidi nell'occupazione alla persone. Creando occupazione in una fascia di lavoratori, donne e poco qualificati, che avrebbe consentito loro indipendenza economica e inserimento sociale.

2 - cosa ha fatto questo governo per giovani, donne, precari? L'occupazione netta c'è se c'è domanda, se le imprese non hanno convenienza non lo faranno.

3 – pensioni. La manovra lo si sa ha elementi di iniquità, ma c'è un aspetto sottovalutato. La saggezza di estendere l'età pensionabile per alcuni anni si è detto non contrasta con l'occupazione dei giovani. In Italia, con questa crisi, finché non esce qualcuno qualcun altro non entra. E se lasciamo dentro gli anziani i giovani restano fuori. Ed è controproducente".

E ha finito, applauditissimo Maurizio Landini. "La domanda che dobbiamo porci è: chi è il soggetto deputato a fare le proposte, chi è oggi che decide dove si investe, cosa si produce? Non siamo di fronte ad una concentrazione del potere privato e finanziario che non c'è mai stata prima? Tutte le cavolate sulla fine del lavoro. In Europa, Italia e nel mondo non ci sono mai stati cosi tanti lavoratori salariati. Crisi del sindacato: se una volta si diceva proletari di tutto il mondo unitevi, oggi a chi ci si rivolge? Che capacità di contrattazione ha più il lavoratore? Allora, rimettiamo al centro la rappresentanza del lavoro, e la democrazia. Ciò che sta succedendo alla Fiat non è solo un problema dei metalmeccanici o del sindacato. Siamo di fronte all'istituzione di un modello di impresa e di relazioni sindacali che rompe con qualsiasi sindacato di interesse generale a fronte di un sindacato corporativo che diventa un gendarme, con un attacco alla libertà sindacale non di un settore, ma dei lavoratori tutti. In queste ore potrebbe essere firmato l'accordo della Fiat, con 86mila dipendenti che non hanno più un contratto di lavoro nazionale, che non hanno più diritti. Quando i sindacati confederali firmano accordi che impediscono ad altri sindacati di esistere siamo di fronte a una profonda distorsione. I rapporti di forza sono peggiorati, e la logica con cui le imprese si muovono stanno spostando i centri decisionali, la contrattazione è efficace se si puo sviluppare là dove vengono prese le decisioni. In tutta Europa c'è un attacco violento alla contrattazione collettiva, si va verso un'aziendalizzazione spinta, le imprese non vogliono discutere con nessuno. Cosa è oggi il prodotto, a cosa serve, quali investimenti fare, quale sostenibilità ambientale deve avere, bisogna riattivare i consumi o ci sono anche bisogni individuali, collettivi e sociali... Tutte queste cose non hanno più un luogo di discussione, di interlocuzione. Non c'è più la rappresentanza del lavoro, e questo è anche un problema di democrazia. Chi ha chiesto ai lavoratori della Fiat di rinunciare al contratto nazionale? I lavoratori della Fiat sono stati messi sotto ricatto, è scomparsa la capacità di decidere. Senza la democrazia lavoratrici e lavoratori non possono partecipare, non possono essere rappresentati. L'azienda Fiat continua la trattativa solo coi sindacati coi quali può ottenere ciò che vuole. Mi hanno sempre raccontato dell'interesse generale, ora siamo di fronte al fatto che di fronte all'emergenza generale devono pagare i lavoratori. Mi dicono che le pensioni di anzianità sono un privilegio. Ma siamo matti? E poi, lavorare quarant'anni alla catena di montaggio non è lavorare quarant 'anni in università. Lunedì faremo otto ore di sciopero generale, perchè dal primo di gennaio in Fiat succederà che i delegati non esisteranno più, se i lavoratori entrano con un volantino della Fiom non li faranno entrare. E' o no un problema, la libertà dei lavoratori e delle lavoratrici? La politica lo affronta o non lo affronta? Bisogna riaprire una discussione che rimetta al centro la rappresentanza, la politica e la democrazia. Dopo Berlusconi è stato tirato un sospiro di sollievo, dopo aver visto le misure di Monti, il sospiro di sollievo non lo tirano più in molti. Il Parlamento purtroppo è sempre lo stesso, e allora, prima o poi bisognerà tornare finalmente a votare".


Norma Rangeri, introduce La democrazia, la politica, la terza e ultima sessione del Forum Nazionale di Firenze. Finora, buona miscela fra utopia e realtà. Credo che l'europeismo è capitolato rispetto ai temi economici, capitolazione politica. Il governo Monti sono economisti chiamati a governare mentre la democrazia sta cercando il modo di ripresentarsi ai cittadini. La tecnostruttura di Bruxelles e Francoforte domina. I partiti sono in penitenza e poi risorgeranno o sono finiti perche nessuno li richiamerà in vita. Siamo governati da paura e sensi di colpa e la democrazia sembra un lusso. Da una parte, crisi economica, dall'altra crisi della politica. Crisi di leadership. A sinistra non esiste più il partito come soggetto collettivo, è un campo dove ogni componente giova in proprio. È fallito il progetto Pd, come maggioritario. Ci sono due anime che non convivono in armonie. E nel centrosinistra c'è un Idv con molti limiti. Da qui il successo di Vendola persino indipendentemente dalla sue capacità perche ha un linguaggio un'idea politica e non ha un partito alle spalle. E i partiti, per come li abbiamo conosciuti, hanno esaurito la funzione pedagogica e sono un ostacolo al rinnovamento della politica e della rappresentanza. Assistiamo a una deriva securitaria. Incattivimento sociale. Le disuguaglianze crescono. E le masse sono preda del popolusimo e della xenofobia. La rappresentazione della protesta non basta a fare la sinistra. Occorre un punto di vista e un programma.

Prende la parola Paul Ginsborg. Tre punti telegrafici.

1 - non è facile arricchire ed estendere la democrazia in un periodo di recessione e di neoliberismo. La recessione porta alla restrizione delle possibilità della democrazia, proprio in quella rivendicazione dei diritti che sono avvenute nella seconda parte del Novecento. La democrazia sociale, al democrazia economica e la democrazia di genere. Espulsione delle donne dai loro diritti di cittadinanza e di lavoro. In Italia c'è una democrazia di uomini. E la repressione peggiora la situazione. E il neoliberismo si può intravedere un doppio processo. A livello globale c'è stata un'espansione della democrazia rappresentativa che ha portato il 70 % a essere democratici. Insieme con quello troviamo che il neoliberismo impoverisce la democrazia rappresentativa nei paesi in cui la democrazia è vecchia. I flussi ininterrotti e incontrollabile di denaro che vanno nella competizione elettorale, l'impossibilità di controllare le spese elettorali. E ovviamente Berlusconi è un illustre esempiuo della deformazione della democrazia. È difficile invertire questo andamento.

2 - in un articolo del 7 dicembre sul Manifesto il sindaco di Napoli chiede una rete di comuni per i beni comuni, in particolare difesa esito referendum sull'acqua. Mentre il 5 dicembre, tutta una parte dei sindaci della toscana hanno votato una proroga della concessione del servizio idrico alla Spa Nuove Acque. Il suggerimento del sindaco di Napoli mi ha rammentato Carlo Cattaneo. I comuni sono la Nazione nel più intimo asilo della sua libertà. Pare che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi dal punto di vista politico. Quando ci siamo recentemente messi insieme per la sinistra arcobaleno l'esperimento è stato fatto male e in modo razzista ed è stato solennemente bocciata dall'elettorato. Chiedo, si può andare oltre queste esperienze infelici?

3 - bisogna pensare a una forma costitutuvia non gerarchica ma confederale. Il mio punto di riferimento è Ferraris e il lavoro che ha fatto sul movimento socialista belga a fine ottocento. È un esempio storico ricco ci fa vedere come molte espressioni diverse riescono a confederarsi autonomamente. Mettiamo in nuova forma la necessità di andare oltre ciò che abbiamo.

A - qui c'è un nodo teorico difficile. La questione rapporto fra democrazia rappresentativa e parteceipata. Non si può cancellare uno in favore dell'altro. Non solo quale sia più giusta. Questa connessione è da elaborare.

B - vorrei che discutessimo di un altro problema mai discusso recentemente, la discussione della democraticità delle persone. Perché la sfera intima, dei rapporti non è mai considerato nei discorsi della sinistra. A casa ci facciamo a pezzi fra piccoli e grandi gruppi. Mai un'autocritica sulle passioni, sull'odio, sull'invidia, la competizione. Che porta un target preciso che è lontano alla sinistra e cioò è neoliberista. Occorre una forma non gerarchica di un nuovo soggetto, la democraticità delle persone. Lavoriamoci.

Donatella Della Porta. Quando si parla di crisi della democrazia e di soluzioni non ci sono ideechiare, abbiamo bisogno di spazi dove le idee possano crescere. Il percorso del social forum è stato un percorso in cui sono state avanzate tante proposte sull'Europa, ma il problema resta aperto. La crisi finanziaria è prima di tutto crisi di democrazia. Rinuncia delle Istituzioni a intervenire a ridurre le disuguaglianze. La politica è stata abbagliata dal potere economico, da qui la corruzione visibile decisioni spostati in luoghi non rappresentativi. Tecnici legittimati a fare politica. La democrazia rappresentativa non rappresenta più perché è stata espropriata. Da Merkel e Sarkozy alle agenzie di rating le decisioni si sono spostate a istituzione non legittimate dalla rappresentatività. E le risposte sono vecchie e inefficaci. La politica e la democrazia sono sempre meno capaci di intervenire. La folle proposta di introdurre il pareggio di bilancio nella Costituzione viene da qui. L'effetto è il crollo della fiducia dei cittadini. Il popolo della sinistra non si fida più del Parlamento, delle istituzioni rappresentative. Ci sono però elementi di speranza. I movimenti che si sono sviluppati dalla primavera araba agli indignados a occupy wall street hanno lanciato l'idea di un'altra democrazia ora. Non c'è solo l'alternativa fra rappresentata e diretta. Siamo di fronte a una situazione di crisi economica che rende le soluzione politiche più importanti ma anche più difficili.

Uno degli elementi a cui dare risposta è la diffusione dell'idea che non c'è alternativa. Non è vero ed è pericoloso. Vuol dire delegittimare la democrazia e la politica che in questi momenti sono fondamentali. In questa crisi, si cercano i tecnici. I canali di collegamento fra movimenti e partiti si sono indeboliti notevolmente. Prima c'era una doppia militanza. Il partito debole, il partito che non esiste più come costruzione di idee è ciò che è rimasto della sinistra di una volta e non ha più questi canali di ascolto. E nemmeno ce l'hanno i movimenti. La ricostruzione di interazione fra rappresentanza e movimenti è un problema aperto. La democrazia cosmopolita è da costruire. Tanti spazi e modelli di incontro e di democrazia nel rispetto della diversità e nella potenziale ricerca di una soluzione possibile.

Tania Rispoli 1 -Svuotamento della democrazia rappresentativa. 2 -Ruolo dei tumulti nella costruzione della democrazia 3 -Esperienze già in campo e che ripensano la democrazia oggi.

Si può valutare la chiamata di Monti come una forma di dittatura commissaria o come una rivoluzione dall'alto. Il dispositivo finanziario ha commissariato il potere decisionale ai cittadini sulla loro vita politica. La rivoluzione dall'alto è connessa a uno stato d'eccezione, che si fa permanente. Stato d'eccezione è anche populismo. È finito Berlusconi ma non il berlusconismo. È una forma di potere, il potere carismatico in questo caso fondato sui media, che non è finito. L'esautoramento della democrazia significa anche disaffezione verso la democrazia parlamentare e rappresentativa. Esempio spagnolo. La scelta dell'astensionismo è stata consapevole, e ha vinto il partito popolare che ribadisce la crisi della democrazia rappresentativa. Da una parte la Bce e dall'altra i movimenti. 2 - la politica è l'affermazione della parte dei senza parte. Dal 2008 abbiamo visto che i ci sono stati molti conflitti e tumulti. Ci sono alternative oggi. Bisogna assumere fino in fondo la crisi della forma partito e della forma sindacato. La divisione non è solo fra democrazia rappresentativa o democrazia diretta, si può immaginare una forma di democrazia aperta. 3 - molti quando parlano della crisi della seconda repubblica si rifanno alla prima repubblica o alla Costituzione. C'è bisogno di un nuovo processo di ricostituzionalizzazione che deve arrivare dal basso. Una riscrittura dal basso dei principi fondamentali della nostra vita associata. Il referendum è un istituto relativamente antico che stavolta ha funzionato grazie al movimento e al conflitto. Da dove dobbiamo partire? Dalle occupazioni, dalle reti sociali, dalla denuncia e dalle mobilitazioni. Vedi il Cile e i suoi studenti. E infine Oakland: il 2 novembre tutti i movimenti di occupazione si sono incontrati con una forma di sciopero molto nuova che ha bloccato città produzione e distribuzione è un'ispirazione transatlantica che ci può fare arrivare a vedere una nuova democrazia. Ha chiuso Mario Dogliani. "non sono così certo che la situazione di essere sull'orlo dell'abisso da cui è nato il governo Monti si potesse evitare. Non penso si potesse evitare un passaggio così traumatico. Riflettiamoci. L'essere sull'orlo del burrone era una bufala o no? Io non penso. Si è affermata l'idea che la democrazia sia due fazioni in lotta. Ed è un'idea che viene da lontano e che è stata istituzionalizzata. Certo la democrazia è un succedersi delle maggioranze, ma in un combattimento a due faccia a facci la destra vince sempre con la sinistra. È chiaro che vince lo schieramento che solletica la paura, l'avarizia, il mantenimento dello status quo. Si crea una democrazia basata sul pauroso marginale e sull'abietto marginale. Questo tipo di democrazia riduce, degrada l'elettore a un consumatore, che scegli quello o quel prodotto. E ciò indebolisce la democrazia, snervandola della sua essenza. La democrazia è conflitto di gruppi sociali. Se viene meno questa idea del conflitto organizzato, della democrazia come la versione secolarizzata della società divisa dalle lotte religiose, in cui la militanza politica è la secolarizzazione del diritto alla conversione, la democrazia si indebolisce, perché fatta da platea di consumatori. E si indebolisce lo Stato. Sono stati imbelli quelli che non hanno più dentro questa ossatura rappresentato dal pluralismo e dal conflitto politico. Parliamo di crisi del potere democratico. Il potere economico c'è ed è forte, ma il potere democratico di cosa è fatto, di cosa ha bisogno? Questa la domanda cruciale. Bisogna guardare davanti e dedurre dal tipo di problemi e di sfide la gravità di questo problema. Come si riporta il controllo degli Stati sul movimento dei capitali. Come si riorienta l'Unione europea, oramai ingoiata dal neoliberismo vincente che l'ha concepita come un avamposto della globalizzazione? Il berlusconismo e il debito pubblico sono uno specchio della nostra autobiografia. L'Italia è malmessa, ma con che tipo di potere colmiamo il debito. Fra democratizia rappresentativa e diretta, non possiamo stabilire delle cesure, bisogna che gli uni fertilizzino gli altri. Evitiamo l'aventinismo!

Alberto Lucarelli. Individuare la democrazia della rappresentanza della partecipazione, diretta e di prossimità. In questo momento storico si deve lavorare intorno a queste quattro dimensioni. Che possano ridurre una discrezionalità dall'alto, volgare e rozza. La partecipazione deve passare attraverso la passione, la forza, e soprattutto la formazione e l'informazione. L'idea di una rete di Comuni per il bene pubblico è un tentativo di dare rappresentanza a nuove soggettività politiche che siano in grado di mettere in comunicazione le quattro forme della democrazia. Significa far partire dal basso questioni di portata universale. Far sì che i Comuni possano diventare laboratori come quello di De Magistris a Napoli, che ha lanciato l'esempio sull'acqua e sull'applicazione del referendum sull'acqua.

Primavere arabe, indignados e il movimento Occupy Wall Street: è solo il primo round di un'onda che aspira a cambiare le strutture economiche mondiali attraverso una disciplina collettiva, priva di leadership

Durante le proteste in piazza Tahrir nel novembre 2011, Mohamed Alì, 20 anni, alla domanda di un giornalista sul perché fosse lì, ha risposto: «vogliamo la giustizia sociale. Niente di più. È il minimo che ci meritiamo».

Il primo round del movimento ha assunto molteplici forme nel mondo - le cosiddette Primavere arabe, il movimento degli Occupy iniziato negli Stati uniti e poi diffuso in numerosi paesi. Oxi in Grecia e gli indignados in Spagna, la protesta studentesca in Cile e altre ancora.

È stato un grande successo. Il livello del successo può essere valutato attraverso uno straordinario articolo scritto da Lawrence Summers per il Financial Times del 21 novembre, intitolato «L'ineguaglianza non può più essere tenuta a bada dalle solite idee». Si tratta di un tema inabituale per un economista come Summers. Nell'articolo si sofferma su due punti importanti, tenuto presente che è stato in prima persona uno degli architetti della politica economica mondiale degli ultimi vent'anni, che ci ha trascinati tutti nella disastrosa crisi in cui si trova oggi il mondo.

Il primo punto riguarda il fatto che si sono realizzati cambiamenti fondamentali nelle strutture economiche mondiali. Summers afferma che «il più importante di essi è stato un forte cambiamento nei mercati a vantaggio di una piccola minoranza di cittadini rispetto a quello che è a disposizione della maggioranza di essi».

Il secondo punto riguarda i due tipi di reazioni pubbliche a questa realtà: quella di chi ha protestato e quella di chi si è opposto fortemente a questa protesta. Summers afferma di essere contro la «polarizzazione» che, secondo lui, è la strada intrapresa dai protestatari. Ma aggiunge: «Contemporaneamente, coloro che sono pronti a tacciare ogni espressione di preoccupazione sulle crescenti ineguaglianze come inopportuna o come il prodotto della lotta di classe sono ancora più lontani dalla comprensione di ciò che accade».

L'articolo di Summers non significa che l'economista sia diventato un esponente del cambiamento sociale radicale - lungi da ciò - ma piuttosto che è preoccupato per l'impatto politico del movimento mondiale a favore della giustizia sociale, specialmente in quello che definisce il mondo industrializzato. Per me, questo deve essere considerato un successo del movimento mondiale per la giustizia sociale.

La risposta a questo successo sono state alcune concessioni minori, qui e là, seguite poi dappertutto da un aumento della repressione. Negli Stati uniti e in Canada, ci sono stati interventi sistematici per sloggiare le «occupazioni». La simultaneità virtuale di questi interventi della polizia sembra indicare che esiste un alto livello di coordianamento. In Egitto, i militari hanno fatto resistenza contro ogni limitazione del loro potere. Politiche di austerità sono state imposte in Grecia e in Italia, su pressione di Germania e Francia.

Però la storia non è finita. I movimenti stanno riprendendo fiato. La protesta ha di nuovo occupato piazza Tahrir e sfida il maresciallo Tantawi allo stesso modo di come aveva sfidato Hosni Mubarak. In Portogallo, una giornata di sciopero generale ha paralizzato il sistema dei trasporti. Lo sciopero in Gran Bretagna contro il taglio alle pensioni ha tentato di ridurre del 50% il traffico a Heathrow, con grandi ripercussioni nel mondo, vista la centralità dell'hub di Heathrow nel sistema dei trasporti aerei mondiali. In Grecia, il governo ha cercato di spremere i poveri pensionati imponendo una pesante tassa fondiaria da versare con le bollette della luce, minacciando di tagliare la corrente nel caso non fosse pagata. La reazione è stata una resistenza organizzata. Gli impiegati dell'elettricità locale stanno riallacciando illegalmente la corrente, contando sull'incapacità degli impiegati dei comuni, ridotti al minimo, a far rispettare la legge. È una tattica che era stata usata con successo una decina di anni fa a Soweto, sobborgo di Johannesburg in Sudafrica.

Negli Stati uniti e in Canada, il movimento di occupazione si è esteso dai centri città ai campus universitari. E gli «occupy» stanno discutendo su posti alternativi da occupare durante l'inverno. La rivolta degli studenti cileni si è estesa alla scuola secondaria.

Due cose vanno sottolineate rispetto alla situazione attuale. La prima è che i sindacati - come parte di ciò che sta succedendo, come effetto di ciò che sta succedendo - sono diventati molto più militanti e molto più aperti all'idea che devono essere dei partecipanti attivi nel movimento mondiale per la giustizia sociale. Questo vale per il mondo arabo, in Europa, in America del nord, in Africa del sud e persino in Cina.

La seconda cosa da sottolineare è il livello nell'enfasi dato alla strategia orizzontale che dappertutto i movimenti sono stati in grado di mantenere. I movimenti non sono strutture burocratiche, ma coalizioni di molteplici gruppi, organizzazioni, settori di popolazione. Sono ancora fortemente impegnati a dibattere, senza interruzione, le tattiche e le priorità e stanno evitando di cadere in processi di esclusione al loro interno. Funzionerà sempre così? Sicuramente no. Funzionerà però meglio che ricostruire un nuovo movimento verticale, con una leadership chiara e una disciplina collettiva. Finora, in effetti, ha funzionato meglio.

Dobbiamo pensare che la lotta mondiale sia una lunga corsa, nella quale i corridori devono utilizzare con saggezza la loro energia, per evitare di sfiancarsi, mantenendo l'attenzione sull'obiettivo finale - un diverso tipo di sistema-mondo, molto più democratico, molto più egualitario di quello che abbiamo conosciuto finora.

Traduzione di Anna Maria Merlo

Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell'ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan).

Il liberismo ha di fatto esonerato dall'onere del pensiero e dell'azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, "i mercati"; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un'attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell'auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un'inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell'Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai "mercati" ha significato la rinuncia a un'idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra - quella "vera", come la vorrebbero quelli di sinistra - è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora "un vero programma" (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.

Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che "i mercati" gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo - risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa - ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi. Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po' lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, "di nascosto"). Se la Bce è oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di "creare moneta" è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i "mercati". E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di "denaro virtuale": se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto - anzi molto spesso - una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell'acquisto di un'azienda, una banca, un albergo, un'isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l'umanità.

È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro "fittizio" - che fittizio non è - si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e "prestiti d'onore"), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non - probabilmente - con una generale bancarotta.

In termini tecnici, l'idea di pagare il debito con altro debito si chiama "schema Ponzi", dal nome di un finanziere che l'aveva messa in pratica negli anni '30 del secolo scorso (al giorno d'oggi quell'idea l'hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama "catena di Sant'Antonio". In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell'immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell'acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l'intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.

Prendiamo l'Italia: paghiamo quest'anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L'anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell'anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni - da quando hanno cominciato a correre - e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l'economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l'evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di "politica", della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale - e ci stanno - per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte - non tutti - gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto "risorse inutilizzate": lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e "risparmi" che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.

Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo "generose"! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all'anno. E da una "riforma" anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all'anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant'altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l'economista di riferimento, quest'ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell'economia di un intero paese. Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da "saldare" si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governo potrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un'impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene (anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).

L'altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream - e in primis dai bocconiani - è la "crescita". A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve "costituzionalizzato", cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la "crescita" del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le "grandi opere" (in primis il Tav).

Ma per raggiungere con l'aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita "cinesi"; in un periodo in cui l'Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l'Europa sta per entrarci, l'euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l'economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale - di cui nessuno vuole più parlare - e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire.

È ora di pensare - e progettare seriamente - un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza "crescita". Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c'è niente di utopistico in tutto questo; basta - ma non è poco - l'impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

Che cosa è accaduto in Europa, tra la caduta del governo greco e italiano, e il disastro della sinistra spagnola alle elezioni di domenica scorsa? Una peripezia nella piccola storia dei rimpasti politici che si estenuano a inseguire la crisi finanziaria? Oppure il superamento della soglia nello sviluppo di questa crisi che ha compromesso irreversibilmente le istituzioni e le loro modalità di legittimazione? A dispetto delle incognite, bisogna rischiare un bilancio.

Le peripezie elettorali (quelle che forse ci saranno anche in Francia tra sei mesi) non richiedono grandi commenti. Abbiamo capito che gli elettori giudicano i loro governi responsabili dell’insicurezza crescente nella quale vive oggi la maggioranza dei cittadini dei nostri paesi e non si fanno troppe illusioni sui loro successori. Bisogna però contestualizzare: dopo Berlusconi, si può capire che Mario Monti, almeno in questo momento, batta ogni record di popolarità. Il problema più serio riguarda però la svolta istituzionale. La congiuntura delle dimissioni avvenuta sotto la pressione dei mercati che fanno alzare o diminuire i tassi di interesse sul debito, l’affermazione del «direttorio » franco-tedesco nell’Unione Europea, e l’intronizzazione dei «tecnici » legati alla finanza internazionale, consigliati o sorvegliati dall’Fmi, non può evitare di provocare dibattiti, emozioni, inquietudini e giustificazioni.

Una strategia preventiva

Uno dei temi più frequenti è quello della «dittatura commissaria» che sospende la democrazia al fine di rifondarne la stessa possibilità, nozione definita da Jean Bodin all’alba dello Stato moderno e più tardi teorizzata da Carl Schmitt. Oggi i «commissari» non possono essere militari oppure giuristi,ma sono economisti. È quello che ha scritto l’editorialista de Le Figaro il 15 novembre scorso: «Il perimetro e la durata del mandato (di Monti e di Papademos) devono essere sufficientemente estesi per garantirgli l’efficacia.

Ma entrambi devono essere limitati per assicurare, nelle migliori condizioni, il ritorno alla legittimità democratica. Non è concepibile pensare di fare l’Europa sulle spalle dei popoli». A questa citazione, io ne preferisco un’altra: quello di una rivoluzione dall’alto che, sotto la frusta della necessità (il crollo annunciato della moneta unica), starebbe tentando i dirigenti delle nazioni dominanti e la «tecnostruttura» di Bruxelles e di Francoforte. Sappiamo che questa nozione, inventata da Bismarck, indica un cambiamento della struttura della «costituzione materiale», e quindi degli equilibri di potere tra la società e lo Stato, l’economia e la politica, ed è il risultato di una strategia preventiva delle classi dirigenti.

Non è questo che sta accadendo con la neutralizzazione della democrazia parlamentare, dei controlli sul bilancio e sulla fiscalità da parte dell’Unione Europea, la sacralizzazione degli interessi bancari in nome dell’ortodossia neo-liberista? Queste trasformazioni sono senz’altro in gestazione da molto tempo, ma esse non erano mai state rivendicate nei termini di una nuova configurazione del potere politico. Wolfgang Schäuble non ha quindi torto quando presenta come una «vera rivoluzione» l’elezione del Presidente del Consiglio Europeo a suffragio universale che conferirebbe al nuovo edificio un alone di democrazia. Salvo che questa rivoluzione è già in corso o, perlomeno, è già stata abbozzata.

E tuttavia, non bisogna nascondere che il tentativo è tutto tranne che sicuro di andare a buon fine. Tre sono gli ostacoli che ne bloccano il percorso e che possono collaborare ad aggravare la crisi, e quindi la «fine» dell’Europa come progetto collettivo. Il primo riguarda il fatto che nessuna configurazione istituzionale non può, per definizione, «rassicurare i mercati» - nome in codice per fermare la speculazione – perché i mercati sono alimentati dai rischi del fallimento come dai ricavi che essi offrono a breve termine. Questo è il principio della proliferazione dei «prodotti» derivati e dello spread sui tassi d’interesse sul debito. Le istituzioni finanziere che alimentano lo shadow banking hanno bisogno di portare i bilanci nazionali sull’orlo del collasso, nonostante le banche abbiano bisogno di contare sugli Stati (e i contribuenti) in caso di crisi di liquidità. Ma le une come le altre formano un circolo finanziario unico. Finché l’economia del debito, che ormai regge le nostre società dall’alto al basso, non sarà rimessa in questione, nessuna «soluzione» sarà possibile. Ma la governance attuale esclude a priori questa ipotesi, e per questo sacrificherà l’intera crescita a tempo indeterminato. Il secondo ostacolo è l’intensificazione delle contraddizioni intra-europee.

Non solo l’«Europa a due velocità » esiste nei fatti, ma essa si trasformerà in un’Europa a tre o quattro velocità, rischiando in ogni momento l’esplosione. Tra i paesi che fanno parte della zona euro, alcuni (i subappaltatori dell’industria tedesca ad Est) cercheranno un surplus d’integrazione, mentre gli altri (innanzitutto il Regno Unito) a dispetto della loro dipendenza dal mercato unico, saranno spinti a rompere o a sospendere la loro partecipazione.

Quanto al meccanismo delle «sanzioni» annunciate contro i cattivi allievi del rigore di bilancio, è illusorio pensare che toccherà solo qualche periferia. Basta vedere dove ha già portato una Grecia esangue, sull’orlo della rivolta, per immaginare gli effetti di una generalizzazione delle stesse «ricette » all’Europa intera. Last but not least, il «direttorio» franco-tedesco, già scosso dal dissidio sul ruolo della Banca Centrale, ha pochissime speranze di rafforzarsi in queste prove, a dispetto degli interessi elettorali dei suoi membri, e in particolare del Presidente francese.

Il ricatto del caos

Ma l’ostacolo più difficile da superare sarà quello delle opinioni pubbliche. Il ricatto del caos, la minaccia continuamente ribadita di un degradazione del debito, possono tetanizzare i riflessi democratici, ma non possono rinviare all’infinito la necessità di ottenere una sanzione popolare che ottenga una riscrittura dei trattati, anche se «limitata». Ma oggi qualsiasi consultazione rischia di ritorcersi contro questo stesso progetto, com’è già avvenuto nel 2004. Alla crisi strategica si aggiungerà quella della rappresentanza, anch’essa molto avanzata. Non sorprende che, in simili condizioni, si facciano sentire alcune voci critiche, anche se vanno in direzioni opposte.

Da una parte c’è chi, come Jürgen Habermas, sostiene il «rafforzamento dell’integrazione europea »,ma dice che essa è possibile solo a condizione di una tripla «ridemocratizzazione »: riabilitazione della politica contro la finanza, controllo delle decisioni centrali attraverso una rappresentanza parlamentare rafforzata, ritorno alla solidarietà e alle riduzioni delle disuguaglianze tra i paesi europei. Dall’altra parte (e penso ai teorici francesi della «demondializzazione ») c’è chi vede nella nuova governance la realizzazione dell’assoggettamento dei popoli «sovrani» ad una costruzione sovranazionale che non può servire ad altro che al neo-liberismo e alla sua strategia di «accumulazione attraverso l’espropriazione ». Le prime voci sono chiaramente insufficienti, mentre le seconde si espongono pericolosamente al rischio di fondersi con nazionalismi potenzialmente xenofobi.

L’indignazione che verrà

Il grande problema è capire come si orienterà la «rivolta dei cittadini», che Jean-Pierre Jouet qualche giorno fa non ha avuto paura di definire nell’atto di scontrarsi contro la «dittatura dei mercati» di cui i governi sono oggi gli strumenti. La loro rivolta si scaglierà contro la strumentalizzazione del debito che supera le frontiere, oppure vedrà nella costruzione europea in quanto tale un rimedio peggiore del male? Oppure cercherà, dove la gestione della crisi investe i poteri di diritto o di fatto, di costruire contro- poteri, non solo costituzionali, ma anche autonomi e, se sarà possibile, insurrezionali?

O, ancora, si accontenterà di rivendicare la ricostruzione del vecchio Stato-Nazione e sociale, oggi corroso dall’economia del debito, oppure cercherà alternative socialiste e internazionaliste, adottando i fondamenti di un’economia dell’uso e dell’attività all’altezza della mondializzazione, di cui l’Europa non è in fondo altro che una provincia? C’è da scommettere che l’estensione e la distribuzione in Europa delle disuguaglianze e degli effetti della recessione (in particolare della disoccupazione) saranno il fattore determinante per rimuovere le incertezze. Ma è dalla capacità di analisi e di indignazione degli «intellettuali» e dei «militanti» che emergeranno – o meno - i mezzi simbolici.

(traduzione di Roberto Ciccarelli)

Si può dissentire radicalmente sulle premesse e consentire pienamente sulle conclusioni? È la domanda che ci si pone al termine della lettura dell´ultimo, profondo, appassionato, angosciato ma non rassegnato libro di Roberta De Monticelli, La questione civile – Sul buon uso dell´indignazione (Raffaello Cortina Editore).

Il tema è la giustizia, massima virtù sociale; lo scopo è il risveglio alla giustizia attraverso "esercizi di disgusto". L´impianto è filosofico. Il discorso si svolge da Platone e Aristotele, indugia su quello che sembra il preferito, Immanuel Kant, per arrivare a Simone Weil e a Bobbio. Ma, la riflessione spazia: antropologia, psicologia, teologia, giurisprudenza, letteratura. Tutto può essere messo a frutto e fatto reagire, al di sopra delle divisioni disciplinari. Trattandosi di filosofia pratica, cioè orientata all´azione sul suo oggetto – la giustizia –, inevitabile è incontrare di continuo le brutture, le oscenità, le meschinità, gli arrivismi, l´ipocrisia, l´illegalità, la corruzione, le prepotenze, le viltà e il servilismo, cioè la catastrofe etica della nostra società.

Il libro, con una certa sorpresa del lettore, non inizia dalla giustizia. Vi arriva attraverso la bellezza. Bellezza e giustizia: che rapporto c´è? Dicendo bellezza, non si deve pensare a estetismo, snobismo, collezionismo d´arte e cose di questo genere. Se bellezza è armonia e proporzione dei rapporti – di elementi figurativi, architettonici, poetici e musicali, e anche sociali – allora possiamo dire che la bellezza è forma visibile della giustizia. Il rapporto è stretto, inscindibile. Vale l´eterna massima della filosofia scolastica: iustum, bonum, verum et pulchrum convertuntur. Queste qualità dell´esistenza vivono l´una nell´altra. Non occorre intuizione metafisica per capirne i nessi. Risultano ancora più chiari rovesciando il positivo in negativo: l´ingiustizia è cattiva; il cattivo è falso; il falso è brutto. Si può arrivare alla giustizia a partire dalla bellezza, ma si sarebbe potuto anche dal bonum o dal verum. A partire da uno, si arriva agli altri.

Fin qui, tutto bene. Il passo successivo è da discutere. Giustizia, bontà, verità e bellezza sono "valori", "cose che valgono", non in termini economici, (non c´è un mercato dei valori secondo la legge della domanda e dell´offerta), ma in termini morali. Sono il lato positivo, prezioso, della vita. A meno di pervertimento in bruta animalità, dove vige il fatto compiuto, cioè la "giustizia del più forte", non ne possiamo fare a meno. Potremmo perfino dire che li chiamiamo valori, ma sono necessità, secondo il motto di Kant: se non c´è posto per la giustizia sulla terra, non ha senso la vita degli uomini. De Monticelli dà grande importanza alla questione del fondamento. È convinta che i valori siano "dati", non perché li si possa constatare e ammirare in sé e per sé. Nel teatro greco, per esempio, "La Pace" si presentava come una fanciulla, avvolta in un peplo trasparente, e tutti esclamavano: "come è bella!". Di lei si poteva dire: "Come è bella!" perché la bellezza le era incorporata e gli spettatori ne facevano esperienza. Dunque, "i fatti stessi si qualificano come beni e come mali" (belli o brutti, giusti o ingiusti, ecc.) e a noi non resta che prendere atto del loro valore, come constatazione. Ne è convinta De Monticelli e chi, come Platone, crede che esista "la bellezza" che si riflette in "le cose belle". Se fosse così, sarebbe possibile fondare la morale in termini oggettivi: le cose belle sono belle perché portano in sé la bellezza, non perché l´attribuiamo loro, secondo la nostra concezione. Insomma: è bello ciò che è bello, non ciò che piace: piace perché è bello, non viceversa (lo stesso, per gli altri valori).

Come possiamo non insorgere – leggiamo nel libro – di fronte alle casette a schiera che deturpano le colline senesi dipinte da Simone Martini? Non è questo, oggettivamente, un insulto al bello, e dirlo non è forse una constatazione di fatto? "Nerone era crudele", non è la stessa cosa? Andiamo oltre: Adolf Hitler era un essere degenerato. Chi non sarebbe d´accordo? Dunque il brutto è incorporato nelle casette a schiera del Senese; la crudeltà, in Nerone; la degenerazione, in Hitler. Ripeto: chi non sarebbe d´accordo? Ma perché siamo d´accordo? Sono "le cose" (le villette, Nerone, Hitler) che parlano a noi, o siamo noi che parliamo a e di loro?

Siamo al problema del fondamento. Al "monismo" essenzialista – fatti e valori sono tutt´uno – si oppone la separazione "dualista": ciò che è non è detto che debba o non debba essere. Un muro separa i fatti dai valori: gli uni non "convertuntur" affatto negli altri. Riconsideriamo l´esempio estremo di Hitler. Ora (e, purtroppo, nemmeno da tutti) si ritiene sia stato uno dei massimi flagelli dell´umanità, ma non allora. C´era chi lo riteneva un nuovo messia, perfino tra gli uomini di chiesa. Per milioni di persone, in Germania e altrove, era il salvatore della civiltà europea contro la barbarie asiatica, impersonata dal comunismo sovietico. In nome del "valore" superiore della civiltà occidentale, si è stati perfino disposti a chiudere gli occhi davanti alla shoah: evidentemente, la difesa della vita degli ebrei si riteneva un non-valore, o un valore minore, di fronte ad altri valori, come il capitalismo o la religione cristiana. C´era un valore assoluto, obiettivo, e, se sì, qual era? No, non c´era. C´era invece una lotta mortale tra valori soggettivi e relativi, con le rispettive armate schierate su fronti opposti. Noi sappiamo, ora, come sarebbe stato giusto, buono, vero, e bello schierarsi. Ma, come osservatori, dobbiamo ammettere che entrambe le parti, allora, ritenevano di combattere la buona battaglia e che ciascuna delle due vedeva incorporate nelle armi dell´altra il male, e nelle proprie il bene.

Dunque, è più probabile che la condizione esistenziale degli esseri umani non sia quella assunta da De Monticelli. Per lei, il valore delle cose, positivo o negativo, si manifesta nella loro esistenza. Dunque la precede. Per chi non pensa metafisicamente, invece, è l´esistenza che precede i valori. Il che è come dire ch´essi non sono dati ma sono i viventi a doverli dare; vengono dalla nostra libertà e responsabilità e non li troveremo fuori, ma in noi.

Sappiamo che entrambe le posizioni, monismo e dualismo, sono aperte a grandi rischi. Non sono quindi i rischi, gli argomenti per propendere per l´uno o per l´altro. La metafisica dei valori espone al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come è possibile, nelle mani di autorità etiche: stato, partito-chiesa, chiesa. L´anti-metafisica espone all´indifferenza o al soggettivismo estremo e distruttivo, quando prevale l´idea che le questioni di valore non abbiano senso o siano affari da gestire ciascuno per sé. Piuttosto, riprendendo l´interrogativo iniziale, che è quello davvero importante per il vivere comune, possiamo dire che, quali che siano le opinioni circa il fondamento, sui contenuti si può perfettamente convenire. Gli uni riterranno di andar scoprendo valori; gli altri, di andar creandoli. Da punti di partenza diversi si può giungere alla medesima meta e, cosa consolante, si può, anzi si deve, operare insieme. A condizione di isolare le ali estreme: i dogmatici e i nichilisti. Per riprendere il titolo del libro di De Monticelli: a queste condizioni, far buon uso della comune indignazione è possibile.

E l'ambiente? È scomparso dai radar, soffocato dalla paura dello spread, della crisi, del default. Non solo in Italia ma in tutta Europa; e in tutto il mondo. Non solo a livello locale, ma anche a quello globale.

Tra il 28 novembre e il 10 dicembre si terrà a Durban (Sudafrica) la Cop 17, l'ultima conferenza sul rinnovo degli accordi di Kyoto per il contenimento delle emissioni che sono all'origine dei cambiamenti climatici. Scienziati di tutto il mondo, riuniti nell'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) insistono nel mettere in guardia i governi che il tempo per evitare una catastrofe irreversibile che cambierà i connotati del pianeta Terra e le condizioni di sopravvivenza della specie umana sta per scadere; e che misure drastiche devono essere adottate per realizzare subito un cambio di rotta. Ma a Durban, come a Cancun (2010) o a Copenhagen (2009) non succederà niente. La delegazione europea, che aveva le posizioni più avanzate, ha ormai rinunciato - a causa della "crisi" - a proporre agli altri governi vincoli più stretti (e quella italiana non ha mai avuto qualcosa da dire). Se stampa e media avessero dedicato alla minaccia di questa catastrofe imminente anche solo la metà dell'attenzione dedicata allo spread, il 99 per cento della popolazione mondiale sarebbe scesa in piazza con i forconi per costringere i rispettivi governanti a prendere provvedimenti immediati.

A livello locale il nostro paese - ma anche il resto d'Europa - viene sconvolto sempre più spesso dal dissesto di interi territori, con morti e danni incalcolabili. Cielo (clima) e terra (suolo) si uniscono nel provocare disastri che non hanno altra origine che l'incuria e il profitto, e che mille "piccole opere" di salvaguardia del territorio (invece di poche "Grandi opere" che concorrono al suo dissesto) potrebbero invece prevenire.

Di tutto questo non troverete la minima traccia nella presentazione del nuovo governo, dove la parola ambiente non viene mai nominata. La cultura ambientale, che è ormai "scienza della sopravvivenza", è fuori dall'orizzonte mentale di Mario Monti, e probabilmente dei suoi ministri (sicuramente del nuovo ministro dell'Ambiente, da sempre oppositore degli accordi di Kyoto, che ripropone - appena apre bocca - l'opzione nucleare all'indomani del referendum che l'ha affossata. D'altronde è sempre stato lui il vero ministro dell'ambiente, dietro la faccia di cartapesta della Prestigiacomo: alla faccia della "discontinuità").

Eppure la cultura ambientale potrebbe e dovrebbe essere una bussola per la riconversione del sistema economico (e di ogni prodotto che usiamo o consumiamo, dalla culla alla tomba). Oltre a contribuire a salvarci dai disastri, rappresenta un'opportunità unica per difendere e promuovere l'occupazione - per di più altamente qualificata - e per salvare impianti, competenze e capacità produttive di imprese che ogni giorno vengono chiuse, vuoi per delocalizzazioni, vuoi per crisi di mercato, vuoi per speculazioni selvagge. Ma per questo bisognerebbe mettere al centro del programma di governo una politica industriale, una vera politica agroalimentare, una politica di salvaguardia dell'ambiente, un piano per l'occupazione. Neanche di tutto questo c'è la minima traccia nel discorso di Monti. Non a caso: nella sua cultura, a decidere tutto - cioè che cosa, perché, come e per chi produrre - deve essere "il mercato", la profittabilità dell'investimento; a cui al massimo si può offrire un incentivo per rendere "profittevole" qualche infrastruttura che altrimenti non lo sarebbe.

Compito del governo, per Monti, è solo rilanciare la "crescita" (la parola più vuota del vocabolario politico, accanto ai termini, altrettanto vuoti, di "riforme" e di "modernizzazione"). Dalla "crescita" dipenderebbe il rilancio dell'occupazione, la salvaguardia di quel che resta del welfare, il futuro e la dignità delle donne e dei giovani, oggi ai margini del mercato del lavoro o tartassati da un'occupazione precaria. Ma la "crescita", per Monti e quelli come lui - e sono tanti! - è solo un rapporto contabile: quello tra Pil e debito. Non volendo, o non sapendo come ridurre il debito, non c'è che da puntare su un aumento del Pil, comunque sia: con la produzione di armi (della cui riduzione infatti non parla); con le Grandi opere (che verranno incentivate, a spese del bilancio - e del debito); forse anche con le spese per la riparazione dei danni delle alluvioni o di una gestione criminale dei rifiuti (modello Impregilo in Campania: un buon caso di studio di privatizzazione dei servizi pubblici locali) e quant'altro: tutte cose che comunque "fanno Pil". In questa visione del mondo anche le donne e i giovani non sono che poste contabili: alle prime, per promuoverne l'occupazione, si propone un trattamento fiscale di favore invece di servizi per l'infanzia e per gli anziani non autosufficienti e regole per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro; ai secondi, uno scambio contabile tra assunzioni e libertà di cacciare dal lavoro i "vecchi" (che dovranno comunque continuare a lavorare fino a settant'anni da qualche altra parte: ve lo immaginate una persona di sessantanove anni assunta in un call-center?).

E se la "crescita" non viene? Se "i mercati" non reagiscono agli stimoli di Monti? Che ne sarebbe del suo programma? E della sua promessa di salvare il paese e l'euro? E come potrà mai esserci "crescita" in Italia - e una "crescita" sufficiente a pagare gli interessi del debito pubblico, e magari anche a riportarlo al 60 per cento del Pil (750 miliardi in meno) - se tutti i paesi europei, Germania compresa, e anche gli Stati Uniti, stanno imboccando la strada di una nuova recessione? Di quel double dip tanto paventato e ora, molto probabilmente, arrivato? E quanta crescita ci potrà essere ancora in un mondo avviato a precipizio verso l'esaurimento delle risorse e una stagione di crescenti sconvolgimenti climatici?

In queste domande senza risposta si può misurare tutta la miseria della cultura del prof. Monti. Non solo la vacuità del suo discorso programmatico, forse particolarmente insulso - a parte i riferimenti alle misure feroci imposte dalla Bce, che non lasciano prevedere un futuro gradevole per chi le dovrà subire sulla propria pelle - per non scontentare le opposte esigenze dei partiti che lo sostengono; ma anche quella degli editoriali del Corriere della sera - suoi e dei suoi sodali della Bocconi - che hanno preceduto e preparato la sua "discesa in campo". Una miseria in cui balza agli occhi la continuità con la "cultura" del governo che l'ha preceduto, evidenziata dagli elogi per la rivoluzione di Marchionne (santificata da Sacconi) e per la riforma Gelmini (il ministro dell'istruzione più ignorante di tutti i tempi). È la cultura del liberismo. "Vero" o falso che sia, la cosa non cambia: perché il liberismo è comunque e sempre una rappresentazione falsa, mitologica e sviante della realtà, che impedisce di capire quello che succede nel mondo e, soprattutto, fa da copertura a interessi - scientemente o inconsapevolmente protetti - che stanno portando il pianeta, e la sua economia, verso il disastro. Una cultura tanto vuota e pericolosa, ma anche tanto egemone, da indurmi in altre occasioni di definirla, con un termine preso a prestito, "dittatura dell'ignoranza".

Non spaventiamoci, allora, se vediamo la Lega, o i "giovani" e gli energumeni del Pdl gridare slogan simili ai nostri: vengano a difendere la Val di Susa dal duo Cota-Fassino, i territori del Veneto e della Lombardia dagli scempi di Zaia e Formigoni, o la trasparenza dei bilanci delle banche dove si sono incistati come termìti. Non lo faranno. Ma se noi nella protesta non ci saremo, saranno loro a trarre profitto da scontento e frustrazioni.

Il terreno su cui ciascuno di noi - ciascuno di coloro che sentono di appartenere a quel 99 per cento degli abitanti della terra calpestato dagli interessi del rimanente 1 per cento - si dovrà misurare con questo governo nei prossimi mesi e anni è dunque innanzitutto il confronto tra la cultura espressa da Monti e una cultura totalmente altra; e tra le conseguenze e le iniziative che derivano da queste opposte visioni. Loro possono contare sulla forza del denaro - e quanto denaro! Da dieci a quindici volte il valore del Pil del mondo: più o meno un milione di miliardi di dollari - e sulla forza delle armi - quelle impiegate in Iraq, in Libia e in Afganistan, tutti "episodi" di cui Monti nemmeno fa cenno - ma anche quelle della militarizzazione della Val di Susa e dell'inceneritore di Napoli: per imporre a una popolazione renitente quelle Grandi opere che uccidono territorio, socialità e salute. Noi invece possiamo contare su un moto di indignazione che ribolle in tutto il mondo, sulla consapevolezza di dover salvare la Terra e le nostre vite dal disastro - e sulla volontà di farlo - ma anche su mille e mille esperienze e pratiche di lotta, di organizzazione, di modi di lavorare, di stare insieme, di consumare e di produrre, dentro cui sono cresciuti i nostri saperi e la nostra cultura. Tutte cose poco appariscenti che oggi possono sembrare piccole e insignificanti, ma che sono il sale della Terra e una bussola per navigare verso il futuro. Questi saperi dobbiamo valorizzarli e diffonderli; fare di tutti coloro che ci circondano e con cui entriamo in rapporto degli "esperti" di fonti rinnovabili, di efficienza energetica, di agricoltura sostenibile, di alimentazione sana, di gestione dei suoli, di riconversione dell'edilizia, di mobilità flessibile, di cultura dell'anima; perché è con queste conoscenze che si costruiscono le piattaforme rivendicative condivise; che si può proporre la riconversione della fabbriche in crisi; e la riforma della scuola, dell'università e della ricerca in un legame diretto con i problemi di una comunità e non con gli interessi di un consiglio di amministrazione; e l'autogoverno di un territorio; e una piattaforma di governo veramente alternativa. Ma dobbiamo diventare tutti anche "esperti" di finanza, promuovendo un grande audit pubblico sul debito; perché tutti devono sapere come si è formato quel debito, chi lo detiene, e come si può evitare di pagarlo, o di pagarne almeno una parte, o di non esserne comunque schiacciati.

Temo, come tutti, il default, il fallimento dello Stato italiano, la fine dell'euro, la dissoluzione dell'Europa; e i disastri che ne potrebbero conseguire. Ma sono anche certo che lungo la strada prospettata da Monti non ci sarà alcuna "crescita"; che con lui il default é dietro l'angolo, anche se non prima di aver impoverito, con misure inutili e feroci, tutto il paese; e che il default prossimo venturo è meglio affrontarlo per via negoziale. Magari promuovendo un "fronte dei porci" - cioè dei cosiddetti Pigs - come propone Tonino Perna, per non lasciare che quel default si consumi, abbattendo le finanze degli Stati una dietro l'altra, come tanti birilli. Perché la cornice di ogni prospettiva politica alternativa passa attraverso la liberazione dai vincoli del debito e dallo strapotere della finanza. Andiamo avanti.

In Europa il welfare state non è più in grado di far fronte ai suoi impegni. Non può far debiti indefinitamente. Non ha più una banca centrale con pieni poteri. Qualcuno l'ha definita la «quadratura del cerchio». È una questione che affligge un quinto dell'umanità - quel quinto privilegiato che non muore di fame (semmai, ha un problema di obesità), gode dell'acqua calda, ha un tetto e un'occupazione più o meno decente - ed è una questione che non si riduce a quelle che, in evidente polemica con l'impostazione marxiana, l'intelligente Daniel Bell chiama le «contraddizioni culturali del capitalismo». Pesca più a fondo. In un mondo in cui gli Stati Uniti, con 300 milioni di abitanti, consumano l'80% delle risorse del pianeta, riguarda la possibilità di conciliare gli entitlements, cioè i diritti di cui i cittadini si ritengono legittimi titolari, con le provisions, cioè le risorse effettivamente disponibili nelle nazioni tecnicamente progredite per farvi fronte. Nei paesi più sviluppati, in particolare nell'Europa Occidentale o Unione Europea, nel Nord America e in Giappone, dopo la grande transizione storica dallo Stato di diritto allo Stato dei diritti, questa tensione fra entitlements e provisions è diventata drammatica. Notavo vent'anni fa che la tensione, di cui discorre ampiamente con il consueto accattivante praticismo di diligente burocrate Ralf Dahrendorf, scaturisce dalle contraddizioni e dai dilemmi dello Stato democratico pluriclasse socialmente orientato, di cui scrivevo nel 1954, introducendo L'azione volontaria di Lord Beveridge in Italia.

Ma lo Stato di cui parlano Beveridge e Dahrendorf non può essere spacciato, se non con inammissibili forzature, per lo Stato sociale di William Beveridge. L'interpretazione spenceriana dello Stato, quella che sottende la posizione liberale tradizionale, è puramente negativa. La formulazione classica di questa posizione la si può trovare in Man versus the State. Essa corrisponde abbastanza esattamente agli interessi delle classi medie al loro sorgere nel mondo moderno, in rivolta contro i residui del dispotismo feudale e appassionatamente devote alla libertà di movimento, di azione e di atteggiamento dell'individuo.

Non c'è strabismo, temo, che possa far scambiare questa situazione storica e culturale con quella italiana. La ricetta di Beveridge contro gli eccessi dell'autoritarismo centrale e il mito dello Stato onnipresente e onnisciente è di natura strettamente pragmatica e non ha riscontro nella cultura politica italiana, salvo forse il caso del gran lombardo Carlo Cattaneo, del resto presto isolato e battuto, con il suo giudizioso, sobrio e tenace riformismo, dalla retorica delle patrie carducciane e dei "soli dell'avvenire" privi di avvenire.

In Italia non sono solo le carenze a suo tempo individuate da Piero Gobetti a pesare (mancanza di una rivoluzione politica, come in Francia, e di una riforma religiosa, come in Germania). C'è di più, e di peggio. Bisogna fare uno sforzo e andare a rileggere, sociologicamente, il codice Rocco, che solo da pochi anni ha subito varianti procedurali di un certo rilievo con riguardo al processo penale. Vi spira una fredda, coerente aria di autoritarismo centralizzato assoluto, in cui la spaccatura classista della società viene esaltata come una funzionalità ritenuta nello stesso tempo necessaria e auspicabile. Ad Alfredo Rocco corrisponde, sul piano della scuola e su quello, più ampio, della cultura politica, Giovanni Gentile. Con la sua riforma, Gentile deliberatamente riserva il ginnasio e il liceo alle classi alte, vivaio per i futuri dirigenti in tutti i campi, mentre alle classi popolari vengono indicati i corsi della "scuola di avviamento professionale", secondo un disegno di autoperpetuazione delle élite al potere in cui l'intelligenza si suppone duramente condizionata dalle origini sociali e familiari.

In Europa lo Stato sociale non è più in grado, oggi, di far fronte ai suoi impegni. Non può far debiti indefinitamente. Non ha più una banca centrale con pieni poteri. E la Banca centrale europea non è disposta e non è comunque in grado di comprare tutti i buoni del Tesoro necessari a "servire" il debito. D'altro canto, la classe politica non può, non ha né il coraggio né la lungimiranza per imporre drastiche misure, di cui pure riconosce, a parole, la necessità. Ne va della sua rielezione. Sono misure necessarie ma impopolari: imposta patrimoniale, abolizione di vasti parassitismi in tutti i servizi pubblici, elevazione dell'età pensionabile, riforme delle pensioni di anzianità e dell'assistenza sanitaria pubblica.

È chiaro che chi si è battuto in Italia per i diritti sociali e per lo Stato sociale ha avuto una certa quota di illusioni, se non di pura e semplice ingenuità, che una certa vocazione al sarcasmo potrebbe anche presentare come analfabetismo economico o sprovveduta spinta utopistica. Non andrebbe però dimenticata o sottovalutata, dai duri realisti odierni che non perdono occasione per incensare il mercato (che non è più solo italiano - avvertono - ma è anzi europeo, anzi mondiale), la funzione sociale dell'utopia.

Non c'è solo lo Stato. Quando si dice "pubblico", nella pubblicistica politica italiana e, cosa più grave, nella mentalità media dei politici, si pensa unicamente allo Stato. Pubblico non significa solo statuale, secondo una impostazione essenzialmente statolatrica, che purtroppo non è stata prerogativa solo della destra politica fascista, ma per anni ha anche permeato e seriamente compromesso le prospettive della sinistra innovatrice. Pubblico significa statuale, ma anche, e forse in primo luogo, sociale. La società civile è più ampia dello Stato; non può accettare di venirne tutta assorbita senza correre il rischio di negarsi. Lo Stato, ad ogni buon conto, con riguardo ai diritti sociali, si è mosso in Italia secondo due modalità di intervento largamente insufficienti: da una parte, trasferimenti monetari e, dall'altra, istituzione di servizi sociali erogatori di prestazioni dirette.

Entrambe le modalità di intervento, non solo in Italia, sono approdate ad esiti per certi aspetti negativi. I trasferimenti monetari non garantiscono livelli minimi di sussistenza, tali almeno da far uscire dalle situazioni di povertà e di indigenza cronica - si vedano in proposito le risultanze della Commissione Gorrieri - né fungono da volano per l'economia con l'aumento dei consumi interni, se non marginalmente e per prodotti di uso comune. I servizi sociali, d'altro canto, non sembrano in grado di trarsi fuori dalla spersonalizzante spirale burocratica, autentica maledizione italiana che frustra nel momento dell'implementazione anche le leggi socialmente più avanzate, con incredibili inefficienze, costi e sprechi incalcolabili, insoddisfazione ai limiti del tollerabile da parte dei cittadini-utenti. La visione generosa di Claudio Napoleoni che scorgeva il loro trasformarsi in relazione comunicativa umana, pensando al rapporto tra operatore sociale e utente, in una vena forse non immemore dell'apporto di Lord Beveridge, resta a tutt'oggi un prologo in cielo, se non un'illusione finanziariamente insostenibile.

Il debito pubblico è dunque destinato a crescere. D'altro canto, la classe politica non può permettersi interventi drastici, teme l'impopolarità. I "mercati", intanto, speculano sulla paralisi; gli interessi sul debito crescono rapidamente, salgono e scendono, ma soprattutto salgono (dall'1,9% ad agosto al 7,3% a novembre 2011). I politici lasciano il posto e passano le leve di comando ai tecnici; almeno loro non hanno da temere le elezioni. Se necessario, sono nominati senatori a vita. Trionfano, nelle loro ovattate stanze, i potentati finanziari, rigorosamente anonimi, ancora giuridicamente "domicili privati", a vergogna dei giuristi, anche quando le loro inappellabili decisioni incidono sulle condizioni di vita di intere popolazioni. Sono il deus absconditus che comanda a quelli che comandano. Come accadeva in Inghilterra nel Medioevo, quando il boia veniva dalla città vicina, la crisi sociale potrà contare sui suoi anonimi, asettici, ma efficienti macellai sublimati.

A luglio, quando è precipitata la crisi greca, ho chiesto ad alcuni padri dell’Unione Europea se e quale era stato l’errore nell’impianto ormai scricchiolante della Ue. Con Sbilanciamoci e Opendemocracy è iniziata una discussione che si è presto spostata dal “perché” si è arrivati a questo punto al “che cosa fare perché la situazione non si aggravi”. Ad essa hanno portato contributi preziosi molti economisti e sociologi, e sarà pubblicata interamente come ebook. In essa si sono confrontate alcune voci, peraltro interessanti, che hanno proposto l’uscita dall’euro dei paesi in maggiore difficoltà, primo la Grecia, mentre la maggioranza ha ragionato su come mantenere l’euro e la Ue dandole un nuovo indirizzo. Condivido queste ipotesi correttive, esposte da Mario Pianta sul manifesto del 6 novembre. Ma quali forze politiche le porteranno avanti ?

L’Europa è nata male. Una federazione europea, che era stata un ideale antifascista di pochi, sarebbe diventato più forte con la vittoria sul nazismo e sul fascismo: l’orrore del secondo conflitto mondiale avrebbe finalmente indotto il bellicoso continente ad andare a una pace perpetua dotandosi d’una qualche struttura federale. E pareva ovvio che un’avanzata democrazia sociale ne sarebbe stata la natura e il fine.

L’Europa era stata non solo la madre del pensiero politico moderno, che si sarebbe diffuso in Occidente, ma l’unico continente che ne aveva portato a fondo il nodo, lasciato irrisolto dal 1789, fra eguaglianza e libertà, sciogliendolo nella necessità di ravvicinare le condizioni di vita dei cittadini perché potessero effettivamente esercitare i diritti di libertà loro promessi. Era la questione sociale, divenuta dirompente fra il XIX e il XX secolo. Essa aveva prodotto un forte movimento operaio fondato sulla necessità di un modo di produzione diverso dal capitalismo, basato sull’abolizione della proprietà privata dei mezzi per produrre (terra e capitali); su questo, in seguito ai grandi moti del 1848, si sarebbero delineate a fune secolo le correnti socialiste, la I e la II internazionale e nel 1917 si produceva in Russia la rivoluzione comunista della III internazionale, dando luogo alla Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Che il nodo fosse sociale riconosceva anche negli Usa il presidente Roosevelt, reagendo alla crisi del 1929 con un forte intervento pubblico, correttivo, il New Deal. E lo confermava la violenta reazione delle altre potenze europee, sviluppatesi nel liberismo, non solo con il tentativo di bloccare la giovane rivoluzione sovietica ma lasciandosi andare, prima con il fascismo in Italia, poi con il nazismo in Germania, e negli anni Trenta anche in Grecia e in Spagna, a forme estreme di reazione di destra, incontrollate fino alla tesi della sottoumanità delle “razze” ebraica e zingara e al loro sterminio. Ci sarebbe voluta la seconda guerra mondiale perché l’alleanza fra l’Urss e l’occidente democratico, Stati Uniti inclusi, ne avesse ragione, distruggendo il III Reich.

Già qualche anno prima, nel 1938, il liberale John Maynard Keynes rifletteva, similmente a Roosevelt, sulle catastrofi derivanti da un sistema totalmente affidato al mercato, e opponeva sia all’Ottobre sovietico sia alla reazione fascista e nazista un compromesso fra capitale e lavoro che, riconoscendo il conflitto di interessi fra le due parti, si proponeva di stabilire un qualche equilibrio di forze in un rapporto contrattato e garantito dallo stato. E infatti dopo la seconda guerra mondiale fu il keynesismo a dare la sua impronta alle costituzioni o alle politiche di ricostruzione europee, con l’allargamento dei diritti sindacali e un ruolo crescente delle istituzioni di welfare.

Si poteva pensare che la caratteristica di una Europa riunita sarebbe stata una avanzata democrazia sociale. Ma questa ipotesi non godeva delle grazie né degli gli Stati Uniti dopo la morte di Roosevelt, né del campo socialista dell’est, che temeva l’indebolimento dei partiti comunisti, e aveva le sue ragioni di diffidare dalle socialdemocrazie che, in linea di principio, avrebbero dovuto esserne le promotrici. L’aspetto militare assunto dallo scontro fra i due blocchi ha offuscato l’aspro scontro sociale che avveniva nell’Europa occidentale fra i governi e le sinistre del movimento operaio e comunista. I primi abbozzi di un coordinamento europeo, la Comunità del carbone e dell’acciaio e i tentativi militari della Comunità europea di difesa e poi della Ueo, portavano il segno dell’egemonia di destra. Il timore d’una terza guerra mondiale, per di più atomica, divenne centrale nei rapporti est-ovest.

Ma un cortocircuito saldava negli anni sessanta il movimento americano per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam con la, apparente o reale, “nuova frontiera” dei Kennedy, e al sisma indotto nella chiesa cattolica dal Concilio Vaticano II si affiancava una ripresa radicalizzata delle lotte operaie. Erano crepe che si aprivano su terreni divisi con lo stesso segno: il 1968, con la eco delle grandi università europee e l’espandersi per le strade di masse giovanili acculturate e sicure di sé, sarebbero state la nuova colata lavica che, simile al 1848, erompeva dal grembo della inquieta Europa.

Nuova, travolgente, e per ora ultima. Le forze conservatrici ne avvertono il pericolo più che le sinistre la intendano e ne colgano le possibilità. A dividerle dal ’68 era la sua natura libertaria; è tanto se, come in Italia, non lo attaccano. Sospetta ai partiti comunisti e ai sindacati, la fiammata del 1968, accesa in tutte le capitali ma prolungatasi nel decennio successivo soltanto in Italia, mette in allarme la conservazione. Negli anni ’70 parte la controffensiva della Trilaterale (1973), si forma la maggioranza ultradestra di Ronald Reagan negli Usa, i Chicago Boys di Milton Friedman imperversano su tutti i paesi dell’America Latina, in Gran Bretagna vince Margaret Thatcher e ne segue il New Labour di Tony Blair. Ed è ormai visibile il disgregarsi prima dell’egemonia poi della stessa Unione Sovietica, sancita dalla caduta del Muro di Berlino e la disfatta ingloriosa dei residui partiti comunisti in Europa. La Cina di Mao ha già cambiato il suo orizzonte e Cuba passa da una crisi all’altra.

L’implosione del campo dell’est nel 1989 mette un brusco arresto a quel che restava - e non era poco - delle conquiste sociali europee , che erano andati crescendo negli anni sessanta. Nell’agonia e morte del comunismo, erano le ipotesi keynesiane il nemico che restava da sconfiggere. Per ”lacci e lacciuoli”, dai quali l’ardore dei capitali esigeva di essere sciolto, si intendeva qualsiasi regolamentazione da parte dello stato, mentre la spesa pubblica era denunciata come causa del debito pubblico. Non solo le sinistre storiche, sotto botta per lo scacco dell’Urss, si arrendevano al liberismo, ma gran parte dell’estrema sinistra era sedotta dallo slogan “meno stato, più mercato”. Insomma il vessillo di von Hayek sventolava di nuovo sul nostro continente.

All’inizio degli anni novanta, questa è la Stimmung dominate dell’Europa che costruisce la sua Unione, rilancia il mercato unico e progetta l’euro. Alla base politica dell’unità europea non restava che una sbiadita identità antifascista con tinte nazionaliste: la povera discussione sulle “radici” europee (greco-romane o franco-germaniche, cristiane o ebraiche) fu la prova del declino di ambizione sulla fisionomia futura del continente.

Nella confusa fine del Novecento e nella persuasione che un’unità continentale sarebbe stata più rapida se si fosse evitato di sbrogliarne i nodi, si procedeva quindi a una unificazione della moneta fra paesi di differente struttura economica e politica, di diversa composizione sociale, legislazione e cultura. Il Patto di stabilità e crescita, che ne stringeva le regole, avrebbe costretto, con l’oggettività delle leggi economiche, a omologare lentamente le strutture e le istituzioni dei singoli paesi, senza forzarli a cedere di colpo le loro sovranità. L’Europa nasceva dunque soltanto come moneta comune, con le conseguenti politiche monetarie consegnate alla leadership della Banca centrale. Che fin dall’inizio ebbe come unico scopo contenere l’inflazione, rinunciando a ogni possibilità di alimentare lo sviluppo. A questo avrebbe provveduto la mano invisibile e la logica del mercato.

L’integrazione europea, nata con i sei paesi della Comunità, si sarebbe progressivamente allargata fino ai 27 dell’Unione attuale, indebolendosi piuttosto che rafforzandosi per le difficoltà dei paesi della periferia. Era rappresentata da un parlamento senza poteri, quelli effettivi appartenendo alla Commissione e quelli ufficiali al Consiglio europeo e a un suo presidente. Non si trattava di una federazione, perché i singoli stati, a cominciare dai fondatori, non erano disposti a trasferire alla Comunità le loro facoltà, salvo quella di battere moneta.

Tale era ed è rimasta l’Unione Europea. La supposizione che la moneta avrebbe trainato di per sé una armonizzazione delle politiche economiche e fiscali non si è verificata. Si auspicava anche che la Ue “parlasse con una sola voce sulla scena internazionale”, ma neanche questo è avvenuto. Ogni stato manteneva le sue prerogative e le sue leggi salvo alcuni pochi punti di principio, di cui si va molto orgogliosi, come l’interdizione della pena di morte. Un qualche coordinamento si dava, specie dopo l’11 settembre, fra le polizie su pressione degli Stati Uniti. E’ stata installata una Corte di Giustizia alquanto conservatrice. I ministri delle Finanze si incontrano periodicamente nell’Ecofin.

I diversi paesi sono rimasti dunque, in sostanza, allo stato di partenza, ognuno crescendo o calando da solo, con in più la strettoia di una moneta unica che impedisce di aggiustare i conti attraverso le svalutazioni. Crescere è diventato più difficile e ad ogni stretta di crisi risorgono velleità nazionaliste, e fin xenofobe, oggi infatti assai diffuse. L’allargamento all’ex blocco dell’est, Russia esclusa, introducendo nazioni di scarsa solidità economica e scombussolate dal capovolgimento di un sistema politico e sociale, ha complicato il quadro, e costretto la Ue a un doppio regime: tutti ne fanno parte, ma alcuni fuori dall’euro, per ragioni opposte: la Gran Bretagna per non rinunciare alla sterlina, l’est europeo per non essere ancora in grado di stare al suo livello. La Germania avrebbe sperimentato sulla sua pelle le difficoltà di rimettere assieme un paese attraverso il quale era passata la frontiera fra est e ovest, riunendo due tessuti economici di forza affatto differente e due generazioni postbelliche formate su direzioni opposte.

La scelta liberista della Ue di lasciare piena libertà di movimento a capitali, uomini e merci apriva i confini nazionali e continentali a un via vai di esportazioni e investimenti che ha lasciato indebolite le economie europee. Essa interdiceva ai governi e alla Commissione di elaborare una linea di politica economica, e esponeva così le proprie classi lavoratrici, che avevano conquistato in Europa i migliori salari e normative di lavoro, alla concorrenza dei costi minimi e della mancanza di diritti della manodopera dell’ex blocco dell’Est e dei paesi asiatici. La capacità di trasformare gran parte del lavoro vivo in tecnologia, anziché far risparmiare tempo alla forza di lavoro, ne moltiplicava la produttività e riduceva la dimensione numerica e il potere contrattuale del lavoro.

E’ evidente nei governi di centrodestra, che sono andati sostituendo i socialisti e i centrosinistra degli anni novanta, l’intenzione di riavvicinare i salari europei al livello di quelli mondiali. La forza che avevano raggiunto nel dopoguerra i sindacati e i contratti nazionali è sottoposta a un fuoco incessante, e quando alcuni settori, come i metalmeccanici in Italia, resistono, i governi si industriano, in nome della deregulation, a far perdere di forza agli accordi fra le parti, introducendo una molteplicità di contratti diversi, il cui culmine è costituito da un precariato senza contratti. E’ una frantumazione della forza dei salariati e una riduzione di quella dei sindacati, che peraltro, formatisi nazionalmente, tendono a conservare i modesti margini raggiunti entro i confini nazionali, piuttosto che organizzarsi in una prospettiva continentale. Alla crisi delle sinistre politiche si somma l’assenza di una rappresentanza europea del lavoro. E una poderosa campagna ideologica per la quale il superamento della fabbrica fordista - con la sua direzione nei piani alti e la massa di manodopera che entrava e usciva dai cancelli - è gabellata per “fine dell’operaio” proprio mentre la mondializzazione aumenta un proletariato diffuso e inorganizzato.

Da parte sua la proprietà si unifica o divide attraverso fusioni o cessioni che passano oltre i confini nazionali, rendendo al massimo astratti i rapporti, inaccessibile la fisionomia del “padrone”, spaccando la manodopera e i suoi contratti attraverso le esternalizzazioni, mentre la libertà di movimento dei capitali induce i gruppi esteri più forti a fare incursioni nel know how di ciascun paese, acquistando questa o quella azienda, salvo spostarne le produzioni nei paesi dove il lavoro è a più basso costo.

L’occupazione europea scivola, quella giovanile cade, il potere di acquisto della forza lavoro diminuisce e con esso da domanda e le entrate degli stati. Per cui sale il debito pubblico e una politica di rigore segue all’altra, rendendo sempre più esigui i margini per la crescita. Il crollo del 2008-2009 di tutta Europa ha visto un modesto rialzo nel 2010 e in questa fine di 2011 la produzione rallenta di nuovo ovunque, compreso il paese più forte, la Germania.

Da parte loro, i capitali si spostano sempre di più dall’investimento in produzione a quello sui titoli finanziari, dove i profitti sono maggiori. La pressione delle banche, diventate tutte banche d’affari, e l’invenzione di una molteplicità di derivati - che si inanellano su se stessi fino a non avere a alcuna base su cui poggiare, con la formazione e lo scoppio di una “bolla” dopo l’altra - ha portato la finanza a raggiungere una dimensione molte volte superiore all’intero Pil mondiale. Gli allarmi e i propositi dei G20 non hanno fermato in nessun modo la finanza, neanche nei limiti minimi della abolizione dei paradisi fiscali.

L’esplicitazione del conflitto sociale aveva fatto dell’Europa alla fine degli anni ’70 la regione del mondo meno squilibrata fra ricchi e poveri, il prodotto lordo ripartendosi per quasi tre quarti al lavoro e per un quarto a profitti e rendite. Nel 2000 la quota dei salari era scesa di dieci punti percentuali, al 65%, e da allora non si è ripresa. La crescita del reddito si è concentrata sempre più nelle mani del 10% più ricco e, tra i ricchi, nell’1% dei ricchissimi. Le classi medie si sono impoverite e sono aumentate le aree di povertà assoluta. Cui fanno sempre meno fronte le politiche dello stato, costretto a ridurre il sostegno ai non abbienti e ogni forma di welfare, e imporre una maggiore tassazione dei redditi bassi e medi, nella propensione di classe a non colpire i grandi redditi, travestita da speranza che essi si risolvano a reinvestirli nella produzione.

Questa spirale e l’ostinazione a non colpire né le rendite né le transazioni finanziarie ha condotto la Ue all’attuale caduta della crescita e all’indebitamento crescente degli stati. Se a questo si aggiunge il flusso di migranti, prodotti dalla speranza di trovar in Europa il lavoro che manca in altri continenti, segnatamente in Africa, si intende come i paesi più esposti al loro passaggio, come l’Italia e la Spagna, pratichino misure di impedimento al loro accesso e di espulsione, non di rado su base etnica (i rom) che contrastano con tutti i principi di diritti, umani e politici, di cui la Ue suole vantarsi. Da parte sua, la manodopera europea, colpita aspramente dai suoi governi, non vede con solidarietà i disgraziati che sbarcano sulle sue coste: la guerra tra poveri è dichiarata.

Se liberismo, deregulation e libertà di movimento dei capitali rendevano difficilissima una politica economica degli stati e la interdicevano anche alla Ue, chi diventa la forza egemone dello sviluppo dell’Unione Europea?

La crisi aperta dalla catastrofe americana dei subprimes del 2008 e la crisi greca di oggi lo hanno evidenziato brutalmente. La sfera della decisione politica avendo consegnato da un lato alle priorità monetarie dall’altro al gioco dei mercati la maggior parte dei poteri che deteneva sull’economia, non è stata più in grado né di accompagnare né di correggere sviluppo o declino dei suoi paesi membri. L’accrescersi del debito greco, per gli squilibri crescenti dell’economia e una fiscalità ridicola, mentre l’Europa lasciava le sue banche specularvi a man salva, ha spinto quel paese all’insolvenza. Ma quando questa verità esplode, chi si trova davanti la Grecia? Non il Consiglio europeo né la Commissione, e tanto meno il Parlamento europeo. Si è trovata davanti l’asse franco-tedesco, le cui banche erano le sue più grosse creditrici.

Quale delle istanze europee ha incaricato Francia e Germania di affrontare la crisi greca? Nessuna. Alle spalle di Francia e Germania sono stati una Bce, il cui governatore era sulla via d’uscita per essere sostituito da Mario Draghi, e il Fondo Monetario Internazionale, diretto, dopo le sfrenatezze sessuali di Dominique Strass Kahn, dalla ex ministra francese delle finanze Christine Lagarde. Chi dunque della Ue dava autorità al presidente Sarkozy e alla cancelliera Merkel di decidere sul fallimento di un paese, sulla sua eventuale uscita dall’euro, sulle condizioni per evitare l’una e l’altra catastrofe (neanche prese in considerazione dai tentativi ripetuti di poderosi trattati)?

Il potere delle grandi economie, che avevano prestato alla povera Grecia. Un potere sancito dalle agenzie di rating. Esse hanno stabilito che la Germania, con i suoi surplus, è il solo paese a tre A che può accedere al credito al tasso del 2,5%; la Francia ha le tre A in bilico e deve pagare un tasso del 3%, l’Italia ha solo due A intere e deve pagare circa il 7% mentre la Grecia, sprovvista di buoni voti, deve pagare un tasso dal 24% al 30%, i creditori essendo così poco certi delle sue possibilità di rimborso da praticare interessi che costituiscono già parziale rimborso di capitale. Sono dunque la Germania e la Francia a porsi di fronte alla Grecia, debitrice soprattutto alle loro banche, e sono loro a predisporne il piano di salvataggio: tagli ai salari, tagli alle pensioni, vendita di tutti i beni pubblici possibili, imposte leonine e ventennali controlli. In cambio, il dimezzamento del valore dei titoli greci detenuti dalle banche private.

Quando il premier greco Papandreou, che ne aveva preso atto, ha dichiarato l’intenzione di sottoporre il piano a un referendum popolare, dato l’impegno enorme che esso costituiva per ogni cittadino greco, è venuto giù il mondo. Era un tradimento dell’Europa. Quando mai il popolo greco avrebbe votato il suo strangolamento? Già i cittadini del continente bocciavano di regola gli accordi europei loro sottoposti, e i governi preferivano farli passare dalle più docili maggioranze parlamentari. In breve, Papandreou e il parlamento hanno ritirato la proposta, il governo è caduto, una coalizione di unità nazionale porterà la Grecia a rapide elezioni. Questa è la fotografia esatta della democrazia in Europa. Il prossimo paese che si troverà nella medesima situazione sarà l’Italia.

A quale Europa si troverà di fronte? La stessa. Se i mercati - cortese astrazione per non dare nome ad assai concrete proprietà - hanno avuto ragione degli stati, va da sé che hanno liquidato il peso degli schieramenti politici. Quale Italia si troverà davanti a questa Europa?

Le residue sinistre radicali sono state escluse dalla rappresentanza grazie a una legge elettorale trappola e ai loro limiti - primo di tutti non aver esaminato i cambiamenti del capitale e del lavoro, cioè le dimensioni della finanza e la frantumazione del lavoro dipendente. Gli eredi democratici dell’ex partito comunista, confusi e pentiti di essere stati tali, sono balzati a piedi uniti sulla linea liberista cui i governi di centrosinistra li avevano consegnati, senza neppur arrestarsi sul fronte keynesiano. I socialisti in Italia non esistono più. Il centro - ammesso che abbia una presenza simbolica - non è che una destra presentabile. La malattia più grave è che il paese s’è affidato, per ben tre volte dal 1994, dunque con cognizione di causa, a quel crescente margine di confusa illegalità e corruzione che è stato il berlusconismo ed è parso a metà degli italiani quasi una disinvolta furberia, giustificata dal fiasco delle sinistre. Silvio Berlusconi e i suoi partiti sono stati questa nuova veste della dominazione democristiana, cui solo la sinistra della medesima s’è rifiutata. E le inclinazioni anticostituzionali del berlusconismo hanno trovato utilmente un alleato nel populismo della Lega, che è antieuropeo perché bassamente “sovranista”. Un fascismo inquieto e in via di qualche conversione non ha avuto la tempra di reggere alla coalizione di Berlusconi.

La pulizia che, sperabilmente,verrà fatta con la partenza di Berlusconi darà spazio a una destra liberista dura, che si intenderà con quella franco-tedesca per una terapia d’urto all’enorme debito pubblico italiano, il più ingente d’Europa. Ci attendono lacrime e sangue, e ce li meritiamo.

A moderarla può essere una riflessione dei primi padri dell’Europa, che stanno esprimendo alcune preoccupazioni per una deriva che trascinerebbe, dopo i paesi della periferia, anche il centro – la ricetta greca non potendosi estendere senza indurre una recessione dalla quale nessuno potrebbe salvarsi. La urgenza di mettere un limite all’espansione e alla dominazione della finanza, attraverso una tassazione consistente delle transazioni, la possibilita della Bce di acquistare sui mercati secondari parte dei debiti pubblici riducendo subito le razzie dei mercati, una riforma fiscale di tutti i paesi del continente e l’emisissione di bond per rilanciare una crescita oggi soffocata – nella linea delle nostre proposte – allenterebbe i vincoli che la sfera politica si è imposta e ne permetterebbe un inizio di riarticolazione antiliberista. Le scadenze elettorali imminenti in Francia e i Gemania, il – per ora assai confuso – rimescolamento delle carte in Italia, aprono alcuni spiragli a una modifica che non si limiti a orazioni di duro risanamento dei bilanci, con una risorgenza delle mortificate sinistre.

Dico risorgenza perche oggi come oggi, la sola risorsa politica e morale, cui farebbe bene a collegarsi subito quel che resta di sano nel sistema rappresentativo, sono i movimenti che si estendono su scala mondiale, sfiorando persino il santuario americano di Wall Street, e per l’Italia promotori dei referendum per l’acqua e i beni comuni, ecologisti, contrari al nucleare, per le piccole opere - fra le quali il risanamento idrogeologicio del paese - e, sperabilmente, per la cultura. Nel welfare preso a fucilate, scuola e sanità, la protesta non è mai cessata e ha la sua massa critica. Queste aperture delle coscienze e della voglia di battersi dovranno anche fare un salto, moralmente doveroso, verso una solidarietà con i paesi che sono state nostre colonie e che abbiamo lasciato, o forse indotto, alla disperazione della fame, delle malattie e delle guerre tribali.

Il fatto che anche in paesi economicamente meno disastrati siamo oggi a “crescita negativa” - come si usa dire – implica ripensare che significa “crescita”, da dove possono venire occupazione, redditi, tecnologie. La perdita di lavoro e la precarietà sono malattie della società; non solo diminuiscono le entrate pubbliche, elidendo i margini del welfare - educazione, salute, previdenza - ma scompongono ogni tensione di libertà e eguaglianza e solidarietà, i soli valori sicuri che il nosto continente ha prodotto per le sue genti.

La politica vive in questi soggetti e questi temi di fondo. Le proposte che il nostro dibattito sulla “rotta d’Europa” ha sviluppato sono una prima rivolta contro le tendenze, che possiamo senza esagerazione definire criminali, del capitale finanziario, della accumulazione sempre più ineguale, di un rigore verso i poveri che con la austerità non ha niente a che vedere.

E’ un primo ed elementare cambiamento della rotta attuale europea. Si può osservare che è un programma così ragionevole da ridare il senso perduto alla parola “riformista”. Ma è una svolta in direzione di una convivenza umana meno feroce, cui ci siamo troppo facilmente rassegnati.

È sempre più chiaro che non solo la Grecia e l'Italia, ma anche l'Europa, gli Stati uniti, e il mondo intero, stanno marciando verso una recrudescenza irreversibile della crisi in corso. La questione del debito - dei debiti: quelli delle «famiglie», delle imprese, delle banche, dei «fondi», degli Stati - ha offuscato quasi completamente la questione ambientale, a partire dai cambiamenti climatici e, a seguire, dell'acqua, della biodiversità, della deforestazione, dell'esaurimento delle risorse rinnovabili e non rinnovabili.

Il pianeta Terra viene messo al tappeto da una «crescita» di prelievi e di emissioni che non è in grado di sostenere. Eppure è proprio alla «crescita», a una «ripresa» della crescita, al raggiungimento di tassi di crescita irrealistici e insensati, come quelli che sarebbero necessari per fare fronte alla crisi del debito, che tutto l'establishment politico, finanziario, industriale e accademico fa continuamente riferimento come ricetta per «uscire dalla crisi».

Prendiamo il caso dell'Italia: per raggiungere il pareggio - di cui è prevista addirittura la «costituzionalizzazione» - il bilancio dello Stato dovrebbe realizzare un avanzo primario (differenza tra le entrate fiscali e la spesa pubblica) del 5 per cento del Pil all'anno (ma con l'attuale spread si arriverà facilmente al 6,5 per cento). Per fare fronte alla nuova versione del patto di stabilità europeo (che impone di ridurre ogni anno del 5 per cento la quota di debito che eccede il 60 per cento del Pil) ci vuole almeno un altro 3 per cento annuo. Per avere la «crescita», una volta assolti questi obblighi, ci vorrebbe un altro 2-3 per cento: cioè un aumento annuo del Pil del 10-12 per cento: tassi «cinesi». Ma di una Cina che non esiste più. Perché si cominciano a pesare anche là scioperi, aumenti salariali, disastri ambientali, rivalutazione dello yuan e delocalizzazioni (che alla fine cominciano a coinvolgere anche quel paese: alcune «in senso inverso», con un ritorno delle produzioni nei paesi da cui erano emigrate; altre verso paesi ancora più «economici», sia in campo ambientale che salariale). E questo sta mettendo fine al dumping con cui sono stati costruiti quindici anni di «sviluppo» tanto accelerato quanto insensato e pericoloso.

In attesa di un ritorno alla «crescita», però, in Italia come in Grecia, e in tutti i paesi sottoposti al ricatto del debito, si cerca di «salvare» i conti saccheggiando tutto quello che è saccheggiabile: pensioni, pubblico impiego, livelli salariali, occupazione, pause e ritmi di lavoro, diritti, assistenza sanitaria, scuola, università, ricerca, trasporti pubblici, welfare municipale. Ma soprattutto privatizzando tutto il privatizzabile; e anche quello che privatizzabile non è, perché gli italiani hanno votato perché non lo sia. Ma è proprio lì che ci sono i bocconi più succosi: nei servizi pubblici locali. E i caimani più voraci: la mafia che ha la «liquidità» per comprarli; oggi, e per molti anni a venire, a prezzi di svendita.

Basta con la tesi che privato è meglio di pubblico: sono uguali, ugualmente voraci, e inestricabilmente intrecciati. Solo per fare qualche esempio: il disastro dei rifiuti in Campania è il prodotto dell'affidamento (fraudolento) del ciclo dei rifiuti di un'intera regione a un gruppo privato (Impregilo) che continua a dominare gli appalti pubblici in tutto il paese: facendo disastri. A2A, impresa pubblica quotata in borsa, sta affondando per aver cercato di inghiottire Edison. Eni ed Enel, di cui il ministro Tremonti - improvvisamente trasformato in un ammazza-evasori - mantiene il controllo, sono entrambe ben insediate nei peggiori «paradisi fiscali» (non sarebbe ora di cominciare la lotta all'evasione proprio da lì?). Ecc. La gestione dei beni comuni - e dei servizi pubblici - non può essere né pubblica né privata: deve essere «comune», cioè condivisa, trasparente, partecipata.

Ma la Bce fa ora pagare alla Grecia, con la distruzione del suo tessuto economico, le spese sostenute con i costi astronomici delle Olimpiadi di Atene e con i giganteschi acquisti di armi, mentre corruzione e evasione fiscale imperversavano. Niente che la Bce non sapesse; o non potesse sapere per tempo. La situazione italiana non è diversa: anche qui, sotto gli occhi della Bce, le spese militari sono cresciute dell'80 per cento e gli «eventi» - dalle Olimpiadi invernali all'Expò, passando per il G8; ma ce ne sono stati altri mille, promossi, naturalmente, per «rilanciare» lo sviluppo - si sono moltiplicati, divorando i fondi sottratti a scuola, università, ricerca, trasporti, difesa idrogeologica, welfare, ecc. Mentre corruzione e evasione fiscale impazzavano e impazzano, qui come là. La Grecia, si dice ora, ha truffato la Bce falsando i bilanci (ma la responsabilità è di Goldman&Sachs, all'epoca in cui Mario Draghi, ora governatore della Banca d'Italia e domani Presidente della Bce, ne dirigeva la branca europea). La verità è che l'unico a essere veramente truffato - dal suo Governo, dalla Bce e da Goldman&Sachs - è stato il popolo greco. Come lo è - e continua a esserlo - il popolo italiano. Che a differenza della Bce, che sicuramente «sapeva» che si stava imboccando una strada senza ritorno, non ha nessuno strumento per controllare, e nemmeno per sapere, come vengono spesi i fondi del bilancio pubblico e a che cosa sono riconducibili i deficit che, anno dopo anno, hanno concorso a mettere insieme il debito mostruoso di cui adesso vorrebbero renderci schiavi.

Per questo è irrinunciabile la rivendicazione di un auditing pubblico del bilancio: quello che oggi viene rivendicato dai movimenti che riempiono le piazze greche; che un anno fa è stato promosso dal governo equadoregno di Correas, che sulla base delle risultanze si è sbarazzato di metà del suo debito; e che diversi altri governi hanno in programma. Il debito, la sua composizione, la sua origine devono diventare l'oggetto di un pubblico dibattito che supporti la rivendicazione di non pagarlo; o di riconoscerlo solo in parte.

Ma se non si paga il debito - ci si chiede - o una sua parte, o una parte degli interessi, non si manda a catafascio il circuito monetario, e con esso le banche, i mezzi di pagamento, la possibilità stessa di lavorare e produrre? Non è detto. Molte banche, nel 2008 e nel 2009, negli Stati uniti come in Europa, sono andate in fallimento già una volta (la banca franco-belga Dexia addirittura due); e sono state salvate a spese dei bilanci pubblici. Molte altre hanno nascosto, e continuano a nascondere, nonostante i cosiddetti stress-test, quasi tutti fasulli - altro che Grecia! - il loro stato fallimentare. Il circuito economico non si è certo bloccato. Anzi. Quasi tutte le banche hanno ripreso a speculare (anche, e soprattutto, sui titoli di stato), a fare profitti a spese del sistema produttivo, a pagare bonus astronomici ai loro dirigenti. Tanto che ora siamo al punto di prima; anzi, peggio. Infatti, è lo stato comatoso delle banche il motivo per cui i cosiddetti debiti sovrani (cioè i debiti di Stati che «sovrani» non sono più da tempo) preoccupano tanto.

Il fatto è che questa crisi planetaria non troverà soluzione fino a che non si sarà sgonfiata la bolla del debito che da quattro anni rimbalza dai mutui subprime alle banche, e da queste agli Stati, e dagli Stati di nuovo alle banche, e da queste al tessuto produttivo, o ai redditi di chi lavora, mettendo alle corde le entrate fiscali e, con esse, ancora di più i bilanci degli Stati. Ma per sgonfiare quelle bolle non basteranno tutte le misure prescritte da Mario Draghi e avallate dall'establishment. Per farlo occorre azzerare buona parte del debito in essere. Prima lo si fa e meglio sarà per tutti (tranne, ovviamente, per chi su quelle bolle fa profitti; e non son pochi). Meglio lo si fa - cioè, in modo «pilotato», selettivo, scadenzato, e con adeguate compensazioni, dove è indispensabile - e prima si potrà tornare a parlare del «che fare». Ma non per «crescere», per gonfiare il Pil a spese del benessere di chi lo produce; ma per valorizzare le capacità, le competenze, i saperi, la buona volontà, la convivenza, gli affetti di milioni di persone oggi sotto sequestro dai vincoli del debito.

Per questo occorre aprire un dibattito pubblico generale su quale sia - anche da un punto di vista strettamente «tecnico» - il modo migliore per liberarsi del debito; un dibattito fondato sulla trasparenza (bando ai segreti, bancari e aziendali!) e sulla partecipazione; senza temere l'inevitabile conflitto che un processo del genere scatena nei confronti di tutti coloro che detengono le leve del vero potere mondiale; e di tutti coloro che ne traggono beneficio asservendosi.

La finanza internazionale sta distruggendo le ultime parvenze di sovranità popolare e di democrazia. Oggi non si può difendere e rivendicare la democrazia - che non è mai una condizione acquisita, ma è sempre un processo in corso, più o meno sviluppato - se non riunificando economia e politica in un'autentica democrazia economica. Una democrazia dove si possa decidere, o rivendicare e lottare per il potere di decidere, che cosa produrre, per chi produrre, dove produrre e come produrre; dove i diritti di ciascuno non vadano a detrimento di quelli di nessun altro. Non è il manifesto di uno «stato ideale», ma l'indirizzo concreto di un processo pieno di ostacoli e di contraddizioni. Ma che ora si è messo in moto.

A conclusione della Perugia-Assisi, che abbiamo convocato a cinquant'anni dalla prima Marcia organizzata il 24 settembre 1961 da Aldo Capitini, vogliamo lanciare un nuovo appello per la pace e la fratellanza dei popoli.



Lo facciamo richiamando il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che proclama: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza".



La fratellanza dei popoli si basa sulla dignità, sugli eguali diritti fondamentali e sulla cittadinanza universale delle persone che compongono i popoli. I diritti umani sono il nome dei bisogni vitali di cui è portatrice ogni persona. Essi interpellano l'agenda della politica la quale deve farsi carico di azioni concrete per assicurare "tutti i diritti umani per tutti" a livello nazionale e internazionale. La sfida è tradurre in pratica il principio dell'interdipendenza e indivisibilità dei diritti umani - civili, politici, economici, sociali e culturali - e ridefinire la cittadinanza nel segno dell'inclusione. L'agenda politica dei diritti umani comporta che nei programmi dei partiti e dei governi ciascun diritto umano deve costituire il capoverso di un capitolo articolato concretamente in politiche pubbliche e misure positive.

Il nostro appello per la pace e la fratellanza dei popoli contiene alcuni principi, proposte e impegni:

Principi


Primo.

Il mondo sta diventando sempre più insicuro. Se continuiamo a spendere 1.6 trilioni di dollari all'anno per fare la guerra non riusciremo a risolvere nessuno dei grandi problemi del nostro tempo: la miseria e la morte per fame, il cambio climatico, la disoccupazione, le mafie, la criminalità organizzata e la corruzione. Se vogliamo uscire dalla crisi dobbiamo smettere di fare la guerra e passare dalla sicurezza militare alla sicurezza umana, dalla sicurezza nazionale alla sicurezza comune.


Secondo.

Se vogliamo la pace dobbiamo rovesciare le priorità della politica e dell'economia. Dobbiamo mettere al centro le persone e i popoli con la loro dignità, responsabilità e diritti.


Terzo.

La nonviolenza è per l'Italia, per l'Europa e per tutti via di uscita dalla difesa di posizioni insufficienti, metodo e stile di vita, strumento di liberazione, strada maestra per contrastare ogni forma d'ingiustizia e costruire persone, società e realtà migliori.


Quarto.

Se vogliamo la pace dobbiamo investire sulla solidarietà e sulla cooperazione a tutti i livelli, a livello personale, nelle nostre comunità come nelle relazioni tra i popoli e gli stati. La logica perversa dei cosiddetti "interessi nazionali", del mercato, del profitto e della competizione globale sta impoverendo e distruggendo il mondo. La solidarietà tra le persone, i popoli e le generazioni, se prima era auspicabile, oggi è diventata indispensabile.


Quinto.

Non c'è pace senza una politica di pace e di giustizia. L'Italia, l'Europa e il mondo hanno bisogno urgente di una politica nuova e di una nuova cultura politica nonviolenta fondata sui diritti umani. Quanto più si aggrava la crisi della politica, tanto più è necessario sviluppare la consapevolezza delle responsabilità condivise. Serve un nuovo coraggio civico e politico.


Sesto.

Se davvero vogliamo la pace dobbiamo costruire e diffondere la cultura della pace positiva. Una cultura che rimetta al centro della nostra vita i valori della nostra Costituzione e che sappia generare comportamenti personali e politiche pubbliche coerenti. Per questo, prima di tutto, è necessario educare alla pace. Educare alla pace è responsabilità di tutti ma la scuola ha una responsabilità e un compito speciali.



Proposte e impegni



1. Garantire a tutti il diritto al cibo e all'acqua.
E' intollerabile che ancora oggi più di un miliardo di persone sia privato del cibo e dell'acqua necessaria per sopravvivere mentre abbiamo tutte le risorse per evitarlo. Ed è ancora più intollerabile che queste atroci sofferenze siano aumentate dalla speculazione finanziaria sul cibo, dall'accaparramento delle terre fertili, dalla devastazione dell'agricoltura e dalla privatizzazione dell'acqua.



2. Promuovere un lavoro dignitoso per tutti.
Un miliardo e duecento milioni di persone lavorano in condizioni di sfruttamento. Altri 250 milioni non hanno un lavoro. 200 milioni devono emigrare per cercarne uno. Oltre 12 milioni sono vittime della criminalità e sono costrette a lavorare in condizioni disumane. 158 milioni di bambine e di bambini sono costretti a lavorare. Occorre ridare dignità al lavoro e ai lavoratori, giovani e anziani, di tutto il mondo.



3. Investire sui giovani, sull'educazione e la cultura.
Un paese che non investe, non valorizza e non dà spazio ai giovani è un paese senza futuro. La lotta alla disoccupazione giovanile deve diventare una priorità nazionale. Investire sulla scuola, sull'università, sulla ricerca e sulla cultura vuol dire investire sulla crescita sociale, politica ed economica del proprio paese.



4. Disarmare la finanza e costruire un'economia di giustizia.
La finanza, priva di ogni controllo internazionale, sta mettendo in crisi l'Europa politica e provoca un drammatico aumento della povertà. Bisogna togliere alla finanza il potere che ha acquisito e ripristinare il primato della politica sulla finanza. Occorre tassare le transazioni finanziarie, lottare contro la corruzione e l'evasione fiscale e ridistribuire la ricchezza per ridurre le disuguaglianze sociali. 



5. Ripudiare la guerra, tagliare le spese militari.
La guerra è sempre un'inutile strage e va messa al bando come abbiamo fatto con la schiavitù. Anche quando la chiamiamo con un altro nome è incapace di risolvere i problemi che dice di voler risolvere e finisce per moltiplicarli. Promuovere e difendere sistematicamente i diritti umani, investire sulla prevenzione dei conflitti e sulla loro soluzione nonviolenta, promuovere il disarmo, contrastare i traffici e il commercio delle armi, tagliare le spese militari e riconvertire l'industria bellica è il miglior modo per aumentare la nostra sicurezza.



6. Difendere i beni comuni e il pianeta.
Se non impariamo a difendere e gestire correttamente i beni comuni globali di cui disponiamo, beni come l'aria, l'acqua, l'energia e la terra, non ci sarà né pace né sicurezza per nessuno. Nessuno si deve più appropriare di questi beni che devono essere tutelati e condivisi con tutti. Urgono istituzioni, politiche nazionali e internazionali democratiche capaci di operare in tal senso. Occorre ridurre la dipendenza dai fossili, introdurre nuove tecnologie verdi e nuovi stili di vita non più basati sull'individualismo, la mercificazione e il consumismo.



7. Promuovere il diritto a un'informazione libera e pluralista.
Un'informazione obiettiva, completa, imparziale, plurale che mette al centro la vita delle persone e dei popoli è condizione indispensabile per la libertà e la democrazia. Sollecita la partecipazione alla vita e alle scelte della collettività; favorisce la comprensione dei fenomeni più complessi che attraversano il nostro tempo, promuovere il dialogo e il confronto, costruisce ponti fra le civiltà, avvicina culture diverse, diffonde e consolida la cultura della pace e dei diritti umani.



8. Fare dell'Onu la casa comune dell'umanità.
 Tutti nelle Nazioni Unite, le Nazioni Unite per tutti. Se vogliamo costruire un argine al disordine internazionale, i governi devono accettare di democratizzare e rafforzare le Nazioni Unite mettendo in comune le risorse e le conoscenze per fronteggiare le grandi emergenze sociali e ambientali mondiali.



9. Investire sulla società civile e sullo sviluppo della democrazia partecipativa.
Senza una società civile attiva e responsabile e lo sviluppo della cooperazione tra la società civile e le istituzioni a tutti i livelli non sarà possibile risolvere nessuno dei grandi problemi del nostro tempo. Rafforzare la società civile responsabile e promuovere la democrazia partecipativa è uno dei modi più concreti per superare la crisi della politica, della democrazia e delle istituzioni.



10. Costruire società aperte e inclusive. 
Il futuro non è nella chiusura in comunità sempre più piccole, isolate e intolleranti che perseguono ciecamente i propri interessi ma nell'apertura all'incontro con gli altri e nella costruzione di relazioni improntate ai principi dell'uguaglianza e alla promozione del bene comune. Praticare il rispetto e il dialogo tra le fedi e le culture arricchisce e accresce la coesione delle nostre comunità. I rifugiati e i migranti sono persone e come tali devono vedere riconosciuti e rispettati i diritti fondamentali.



Queste priorità devono essere portate avanti da ogni persona, a livello locale, nazionale e globale, in Europa come nel Mediterraneo.

Per realizzarle abbiamo innanzitutto bisogno di agire insieme con una strategia comune e la consapevolezza di avere un obiettivo comune.

Per realizzarle abbiamo bisogno di dare all'Italia un governo di pace e una nuova politica, coerente in ogni ambito, e di investire con grande determinazione sulla costruzione di un'Europa dei cittadini, federale e democratica, aperta, solidale e nonviolenta e di una Comunità del Mediterraneo che, raccogliendo la straordinaria domanda di libertà e di giustizia della primavera araba, trasformi finalmente quest'area di grandi crisi e tensioni in un mare di pace e benessere per tutti.



Assisi, Rocca Maggiore, 25 settembre 201

Vittime predestinate del nostro sistema numerico decimale, attribuiamo particolare rilevanza agli anniversari che finiscono con lo zero, come nel decennale dell'11 settembre 2001 che oggi cade. E meno male che non adottiamo una numerazione binaria come invece fanno i computer, altrimenti ci toccherebbe dare straordinario risalto a ogni bienniversario. Questi riti del ricordo sono intrinsecamente manierati (le inaggirabili esposizioni di disegni di bambini sul tema, le testimonianze in diretta dei superstiti, le immagini e le voci nei telefonini ripetute fino alla saturazione). Ma proprio il loro carattere codificato ci interroga sul ruolo (e sulla strumentalizzazione) della nostra memoria storica.

Perché nel lutto collettivo avviene come nei lutti privati con la dipartita dei nostri cari: lasciato a se stesso il dolore si attenua (per fortuna!), il ricordo impallidisce, la vita riprende a poco a poco il sopravvento. In questo caso specifico la funzione dell'anniversario (come di tanti stratagemmi) è quella di non lasciare elaborare il lutto collettivo, ma di spargere sale sulla ferita perché rimanga aperta e diventi difficile relegarla nell'oblio. Compito alla lunga impossibile perché tutti gli eventi umani - checché se ne dica - cadono nel dimenticatoio. Chi ricorda che tra il 1914 e il 1918 la prima guerra mondiale (35 milioni di morti) fu combattuta come «la guerra per finirla con la guerra»? Bastarono 21 anni perché il ricordo di quegli orrori sbiadisse e nel 1939 scoppiasse una guerra ancora più sanguinosa (più di 60 milioni di esseri umani uccisi), che anch'essa sta ormai dissolvendosi nel regno delle ombre (i ragazzi di oggi non ne sanno quasi più nulla).

Subito dopo l'attentato, il presidente George Bush jr. paragonò l'11 settembre all'attacco di Pearl Harbour (7 dicembre 1941), e all'«inizio di una nuova guerra». Oggi in realtà nessuno più ricorda Pearl Harbour (nonostante i molti film allora girati da Hollywood sul tema), e nessuno si sognerebbe di boicottare i prodotti giapponesi a causa di quell'attacco, né i viaggiatori nipponici vengono perquisiti a fondo a causa di quel raid.

La storia è costellata di eventi che hanno suscitato (e susciteranno in futuro) il ritornello «Niente sarà più come prima», tesi sempre vera, poiché la storia è un processo irreversibile, ma anche sempre falsa perché nessun evento ha mai un tale primato. Da questo punto di vista l'11 settembre 2001 è particolarmente insidioso, poiché è sì rilevante nella storia del mondo (in parte a causa dell'abnorme reazione che ha suscitato), ma non è quella cesura storica che la vulgata statunitense ci invita (anzi ci ingiunge) ad adottare: come c'è una cesura prima e dopo Cristo, così vi sarebbe uno spartiacque tra a.9/11 e d.9/11.

Se la storia del mondo non si è divisa tra prima Hiroshima e dopo Hiroshima (80.000 morti subito e altri 90.000 per le ricadute) che segnò l'inizio dell'era atomica, è dubbio che ciò avvenga per le 2.977 vittime del World Trade Center (e connessi). Ma in realtà la prima lotta politica è per la definizione, poiché ciò che sembra descrivere in realtà prescrive: quando ci si impone di considerare l'11 settembre una cesura epocale, è perché la si vuole rendere tale. Noi comuni terrestri non possiamo fare a meno di considerare la disparità del peso che hanno i morti nella storia. Quelle quasi 3.000 vite vengono messe sullo stesso piatto della bilancia di centinaia di migliaia di giapponesi, ma addirittura eclissano le decine di migliaia di cileni uccisi in un altro 11 settembre, quello del golpe di Pinochet nel 1973.

L'11 settembre 2001 fu eccezionale non di per sé (malgrado la sua straordinaria spettacolarità), ma perché colpì una «nazione eccezionale»: la sua abnorme importanza s'inserisce perciò nel- (è dovuta a, e contribuisce a rafforzare) l'eccezionalismo americano. Non a caso, un effetto collaterale di quest'atteggiamento è la nascita del Tea Party che proprio sull'eccezionalismo Usa si fonda.

Perciò la frase «Niente sarà mai più come prima dell'11 settembre» contiene una verità, ma parziale.

È vero che quell'attentato ebbe successo al di là di ogni immaginabile speranza di al Qaida. Se lo scopo del terrorista è terrorizzare, ebbene l'America e l'Occidente hanno vissuto nel terrore da allora. Un terrore alimentato, curato: perché è assai curioso che da 10 anni a questa parte negli Stati uniti non sia scoppiato nemmeno un petardo, neanche un misero scoppio, niente. Ma ogni tanto viene lanciato un allarme attentati, più spesso in coincidenza con l'anniversario: è avvenuto anche ieri. E il rituale sempre più umiliante delle perquisizioni e radiografie aeroportuali è mirato a non permettere a nessun viaggiatore di dimenticare la minaccia. È vero che al Qaida ha fatto abrogare articoli ed emendamenti essenziali della Costituzione americana, ha revocato il quasi millenario Habeas corpus, ma solo perché - come scriveva Mike Davis nell'Alias di ieri - c'è stata collusione tra attaccanti e attaccati.

Da un altro punto di vista però, l'11 settembre ha ribadito una continuità. Da tempo infatti gli statunitensi vivevano in quello che, dopo il film di Peter Weir del 1998, possiamo chiamare il Truman Show, vivevano cioè ignari in uno spettacolo, senza mai uscire nel mondo reale là fuori. L'ingresso nel Truman Show non era avvenuto di botto ma gradualmente, con i primi passi compiuti dalla dottrina del «destino manifesto» all'espansionismo Usa (coniata nel 1845), e acceleratosi drammaticamente dopo gli anni '70 del secolo scorso. Ora, noi tutti - noi cittadini del mondo o noi statunitensi di sinistra - avevamo sperato che l'11 settembre facesse infine uscire gli Stati uniti dal Truman show, mostrasse loro che il resto del mondo non li considera come si vedono loro (e cioè come nice guys, come boy scouts che aiutano gli altri paesi ad attraversare la strada per raggiungere la democrazia). E in realtà per qualche giorno, forse per un mese, gli Usa uscirono dal Truman show, il segretario di Stato Colin Powell dichiarò persino che bisognava riconoscere lo stato palestinese (quello stato al cui riconoscimento oggi, dieci anni dopo, gli Usa di Barack Obama hanno già dichiarato di voler apporre il veto). Ma nel pianeta reale i dirigenti americani ci resistettero pochissimo e si precipitarono a rientrare nel loro mondo immaginario di unici difensori della libertà e della democrazia, per quanto a suon di bombe, intelligenti o meno.

E questo ci porta al ruolo della memoria volutamente intrattenuta: nell'ultimo numero di Harper's David Rieff scrive che non tutte le memorie storiche sono buone e ricorda la guerra jugoslava, una guerra alimentata soffiando proprio su memorie storiche intrattenute ad arte (un po' come i nazisti intrattennero accuratamente il ricordo de «l'umiliazione di Versailles» dopo la Grande Guerra). Versare il sale sulle ferite può non essere buono, e lo si vede dall'islamofobia cresciuta all'ombra delle Due Torri. Rieff si chiede se non sia il caso di cominciare a dimenticare, per esempio celebrare un po' meno gli anniversari.

Non solo è il caso, ma succede già. In tutto quello che è uscito sull'11 settembre negli Usa e nel mondo si sente una certa stanchezza, come un pranzo con la famiglia riunita, qualcosa che non si può evitare ma di cui si farebbe volentieri a meno. Altri timori ben più concreti agitano gli statunitensi: disoccupazione, crisi, mutuo in ritardo sulla casa. La stessa «guerra al terrore», quel mostro giuridico ideato da Bush, è una parola non più usata da quando Barack Obama è presidente ed è una guerra combattua con sempre minore convinzione, una guerra che tutti sanno che non sarà mai vinta. Perciò l'augurio più sentito per questo decennale è che non dovremo celebrare il ventennale.

Lascia senza parole una discussione sui "tagli sostenibili" che infila fra la (mancata) riduzione degli sprechi della politica e le (mancate) misure contro gli evasori anche lo spostamento - e quindi l´appannamento, la perdita di rilievo - di festività che fondano la nostra identità collettiva: il 25 aprile, il I° maggio, il 2 giugno. Dovrebbe essere esattamente il contrario. È proprio la drammatica emergenza che viviamo, è proprio l´infuriare di venti che possono essere devastanti a imporre il mantenimento, e semmai il rafforzamento, di riferimenti solidi, di bussole decisive.

Per averne conferma non occorre spinger lo sguardo molto all´indietro, sino al I° maggio celebrato clandestinamente da piccolissimi gruppi di lavoratori anche durante il fascismo. Qualcuno li considerò con sufficienza degli irrimediabili nostalgici, non era così. Si lasci anche da parte quello straordinario passato, si rifletta però su quello che le tre date, nel loro stretto rapporto, hanno rappresentato nella storia della Repubblica: in primo luogo la pienezza della democrazia e il suo essere una conquista continua.

Si pensi alle celebrazioni del 25 aprile. Negli anni della "guerra fredda" furono in parte oscurate o ridotte a riti ufficiali senz´anima dai governi "centristi", restando segno distintivo della sola sinistra (con le conseguenze negative che questo ebbe). Si affermarono poi con forza - sia pur con qualche retorica - grazie al superamento di quel clima, dopo le grandi mobilitazioni antifasciste del luglio ‘60 e nel vivo di un "miracolo" che non fu solo economico ma anche civile. E si spogliarono anche della retorica fra la fine degli anni sessanta e l´inizio degli anni settanta, quando il riemergere di stragi e trame neofasciste sembrò evocare fantasmi lontani. Negli anni ottanta il rilievo pubblico del 25 aprile scemò di nuovo, anche per l´agire di potenti spinte alla cancellazione della memoria, alla "riappacificazione morbida" con il passato (e sin con il passato fascista), ma il suo valore non scomparve. Lo si vide il 25 aprile del 1994, quando una folla immensa accorse a Milano anche per indignazione e sdegno, all´indomani della vittoria elettorale di una coalizione che comprendeva anche gli epigoni - allora non pentiti - del neofascismo. A ben vedere, inoltre, dietro una ricorrente avversione al 25 aprile non vi è solo la "politica": quella data è lì a ricordare che ci fu un´Italia che seppe scegliere. Che seppe pagare di persona per le proprie idee e per il bene comune anche quando tutto sembrava perduto.

Allo stesso modo il 2 giugno ci ricorda che l´Italia lacerata e piagata del dopoguerra seppe trovare la forza morale e politica per risollevarsi. Per ricostruire non solo case e cose ma anche l´anima, la ragion d´essere della nazione. "Era un giorno bellissimo… Quando i sentimenti neri mi opprimono penso a quel giorno e spero" scriveva Anna Banti, evocando anche la conquista del voto alle donne. Così nacque la Repubblica: "senza eroici furori, senza deliri di grandezza", per dirla con Corrado Alvaro, ma capace di costruire il futuro. Fu "un miracolo della ragione", come scrisse Piero Calamandrei, che trovò continuazione e conferma nella Costituzione: quella Costituzione che periodicamente torna ad essere il bersaglio polemico di poco affidabili innovatori. "Congelata", negli anni della "guerra fredda", perché apriva troppo apertamente la via ad una piena democratizzazione: "rischia di diventare una trappola", disse un ministro ultraconservatore come Scelba. E "una trappola", un ostacolo da rimuovere appare oggi al populismo antidemocratico di Berlusconi.

Anche in questo caso non vi è solo il valore storico di una data, vi è il significato simbolico che essa ha assunto nelle diverse fasi della nostra storia. È diventata un essenziale baluardo di difesa, ad esempio, quando i venti della frantumazione hanno iniziato a spirare fra le macerie del Palazzo e fra le lacerazioni di un Paese che stava smarrendo la fiducia in se stesso. Ed è iniziato da essa lo straordinario impegno del presidente Ciampi volto a ridare valore alla nazione. Volto a far riscoprire a tutti, anche ai più riottosi, quale straordinaria risorsa essa possa essere. È lo stesso impegno del presidente Napolitano, che ha anche ricordato con insistenza e forza a un´Italia troppo spesso immemore il valore del lavoro e la sua talora drammatica realtà. Ha ricordato che lavoro e diritti sono architravi della democrazia: e questo è appunto il significato del I° maggio. Anche gli appannamenti di quella data rimandano da noi agli anni più bui della "guerra fredda", con le profondissime divisioni sindacali e le migliaia di lavoratori licenziati solo perché iscritti alla Cgil o a un partito di sinistra. Con un clima di arbitrio padronale cui posero fine la ripresa dell´iniziativa sindacale, la difficile - e incompiuta - costruzione di unità, la conquista dello Statuto dei lavoratori (una vera pietra miliare). Anche di questo si iniziò a perder consapevolezza negli anni ottanta, e oggi l´irrilevanza dei diritti è diventata pane quotidiano di un centrodestra (e talora di un sindacalismo subalterno) che non ha neppure le giustificazioni ideologiche della "guerra fredda".

No, non è passatismo esigere che il valore di quelle date sia oggi esaltato e non umiliato. Non è volger lo sguardo al passato: è, come sempre, sperare nel futuro.

Se un calciatore commette un fallo cattivo e plateale, l'arbitro lo spedisce immediatamente negli spogliatoi. Ci sarebbe bisogno di cartellini rossi anche nella partita che si sta disputando in questi giorni ed è entrata nella fase più aspra in un clima di crescente smarrimento generale. L'opinione pubblica sa che la situazione del mercato del lavoro è drammatica. Che la crisi colpisce soprattutto giovani, o ex giovani come gli ultratrentenni, disoccupati e privi di tutele non solo legali, ma anche sindacali. Per questo, l'opinione pubblica non può ritenere che il governo voglia smantellare un sistema perfetto: non può, perché il sistema funziona malissimo.

È a questo punto che inizia il grande inganno. Premesso che le cose così non vanno, l'opinione pubblica arriva con estrema facilità alla conclusione che l'assetto degli anni '70 non regge. Che il mondo è cambiato e chi si batté allora per il cambiamento non può pensare di aver ottenuto per sempre l'effetto desiderato: «Un riformista non lotta per una riforma sola», si dice, «e nessun diritto è salvo per sempre». Il che significa che l'opinione pubblica stenta a capire quale sia la posta in gioco tra i contendenti. Ai suoi occhi, tutto si riduce alla contrapposizione tra padri e figli, vecchi e giovani, insider e outsider. È la contrapposizione più rituale, banalizzante e conformista che si possa immaginare. Una variante dell'eterna guerra tra poveri.

Perciò, appare necessario compiere un salto di qualità. Riscoprire ciò che si tende inavvertitamente a trascurare: e cioè che nel rapporto di lavoro sono coinvolti interessi extra-patrimoniali della persona, la lesione dei quali deteriora proprio lo status di cittadinanza esaltato dalle democrazie costituzionali contemporanee. Riprendersi l'orgoglio di appartenere a quell'angolo di mondo dove i legislatori, qualunque fosse la concezione del mondo (liberale, cattolica, socialista e, sì, anche fascista) cui di volta in volta aderivano, si sono sempre proposti di modificare la condizione dell'uomo che vende la sua forza lavoro; e ciò perché maturarono - più speditamente che altrove e con governi di differente colore - la consapevolezza che l'impatto delle regole del lavoro eccede il quadro delle relazioni che nascono da un contratto di natura privatistica. E riproporre con forza il monito pronunciato da uno statista francese contemporaneo con accenti all'altezza della tradizione oratoria del suo paese: «La justification de l'Europe c'est sa différence».

Come dire: il diritto del lavoro del '900, per bisognoso che sia di adattamenti, è un elemento costitutivo della civiltà che caratterizza il Vecchio Continente, sia pure limitatamente ai paesi dell'Europa centro-settentrionale e meridionale. L'uso della memoria storica da parte dei governanti dell'Europa d'oggi non sarà certamente condannabile se servirà per aiutarli a mantenersi all'altezza di un passato come questo. È perdendolo di vista che si cade nell'errore del neo-feudale «ciò che è accaduto prima di Cristo non mi interessa, perché io vivo nell'epoca del dopo-Cristo».

Con un atteggiamento mentale del genere, infatti, si arriva in un amen a giustificare anche la più devastante eccentricità, e cioè che per rimettere le cose a posto si debba guardare con fiducia una Repubblica «fondata sul lavoro» che cede alle c.d. parti sociali, ossia a soggetti privati, il compito di dettarne le regole in deroga alle sue leggi («il massimo del potere sindacale!», ha esclamato in preda ad un ilare delirio il segretario generale di una confederazione) e si debba esultare quando lo Stato autorizza che siano messi intralci alla libertà sindacale da lui stesso riconosciuta e solennemente proclamata. A questo proposito, si legga il comma 3 dell'art. 8 del decreto-legge del 12 agosto: «le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori».

Alcuni commentatori l'hanno interpretata come una disposizione pro-Fiat: «ad aziendam», è il maccheronico latinismo che hanno usato. Ma l'affermazione è pericolosamente riduttiva e, per taluni aspetti non secondari, sostanzialmente inesatta. È riduttiva perché la legificazione degli effetti degli accordi siglati l'anno scorso negli stabilimenti italiani della Fiat concerne anche la clausola in base alla quale «l'adesione di terze parti» in epoca successiva «è condizionata al consenso di tutte le parti firmatarie». «Ho l'impressione», ha dichiarato Gustavo Zagrebelsky, «che ci sia qualcosa che non quadra. (...) C'è la prefigurazione di un sistema privilegiato di rappresentanza, a favore di chi partecipa al patto fondativo del sistema». Tutto il resto non conta. Non conta nemmeno la costituzione della Repubblica.

Ma l'affermazione corrente è anche inesatta perché, essendo lo scopo prioritario del governo quello di legalizzare una assai nota e traumatizzante situazione aziendale, la correttezza (non solo linguistica) impone di qualificare la disposizione «contra Fiom»; oppure, se proprio si vuole parlarne come di una norma a favore della Fiat, bisognerebbe per chiarezza aggiungere che l'impresa era, per l'occasione, eccezionalmente sovra-rappresentata e, ciononostante, è rimasta insoddisfatta. Infatti, può darsi che la sanatoria legale di quanto è successo in Fiat finisca per influenzare a suo vantaggio gli esiti di un nutrito contenzioso giudiziario tuttora in corso; al tempo stesso però essa non equivale alla polizza assicurativa contro il rischio di scioperi spontanei che la Fiat cercava. E ciò perché, malgrado la presenza nei suddetti accordi aziendali di una clausola di tregua sindacale, quest'ultima - come è stato chiarito dall'intesa del 28 giugno - non ha alcun effetto per i singoli lavoratori.

A parte ciò, comunque, è uno scandaloso paradosso che lo Stato italiano si decida ad attribuire efficacia ultra partes ad atti dell'autonomia collettiva privato-contrattuale sotto la spinta a liberalizzare gli sviluppi della contrattazione aziendale con la licenza di peggiorare il trattamento fissato dalla legislazione e a fortiori quello stabilito al livello negoziale superiore. Si dirà che anche l'intesa del 28 giugno si propone di estendere ultra partes l'efficacia della contrattazione aziendale - come se fosse un dettaglio che quella nazionale ne è sprovvista a causa dell'inattuazione dell'art. 39 cost., il quale assegna al Parlamento il compito di allestire il meccanismo previsto affinché i contratti collettivi possano produrre un'efficacia para-legislativa. Ma l'argomento prova soltanto il grado di profondità cui è giunta l'interiorizzazione, da parte degli attori collettivi, del privilegio di far da sé in un contesto che esalta l'autonomia del loro bricolage domestico a tal segno da ritenere di poterla esercitare non solo al di fuori, ma anche al di sopra delle leggi dello Stato. Sotto questo profilo, quindi, l'intesa del 28 giugno non è che l'ultima manifestazione di una concezione proprietaria della rappresentanza e della contrattazione collettiva che è difficile stabilire se sia proterva o ingenua. Di sicuro, risale all'epoca pre-costituzionale.

Secondo i padri costituenti, infatti, la contrattazione collettiva era il vettore dell'istanza egualitaria che percorre da sempre il mondo del lavoro. Un'istanza che essi volevano venisse soddisfatta con un duplice ordine di garanzie. Sul piano giuridico-formale, lo Stato garantiva con le sue leggi l'inderogabilità e l'universalità dei trattamenti minimi negoziati a livello nazionale - il solo operante all'epoca della Costituente - mentre, sul piano sostanziale, la garanzia della loro adeguatezza ai parametri dell'eguaglianza dignitosa ricavabili dal documento costituzionale doveva risiedere nell'ampiezza del consenso sindacale e, sia pure in via mediata e presuntiva, dei più diretti interessati.

Non a caso, una compatta giurisprudenza non ha mai smesso, nell'arco di mezzo secolo e passa, di accostare il contratto collettivo del dopo-costituzione - ossia, la principale e più attiva fonte di produzione normativa in materia di lavoro - ad un grande serbatoio idrico sprovvisto dell'impianto capace di trasformare l'energia potenziale dell'invaso in energia cinetica e di trasportare l'elettricità in tutte le abitazioni, anche le più periferiche. E nei sindacati firmatari di contratti orfani dell'erga omnes ha sempre visto - non tanto dei rappresentanti degli iscritti, bensì - degli incaricati di un servizio di pubblica utilità che non erano messi nella condizione di erogarlo come si dovrebbe. Per questo, i giudici cui si rivolgevano i senza-tessera sindacale per reclamare giustizia decidevano di applicare anche a loro il contratto nazionale, derogando deliberatamente al principio-base del diritto comune in ragione del quale il contratto ha forza di legge solamente tra le parti. Essi sapevano perfettamente che un contratto nazionale con una sfera di efficacia circoscritta ad un terzo o poco più degli interessati è in sofferenza come un animale azzoppato. Per lo stesso motivo, i sindacati del dopo-costituzione evitavano come una sciagura la contrattazione separata che avrebbe tolto anche quel po' di certezza giuridica e di tutele che, senza il sostegno legale costituzionalmente previsto, l'auto-regolazione sociale poteva e può dare. Infatti, come non si stanca di ripetere Gian Primo Cella, «l'unità d'azione è stata una vera e propria alternativa funzionale alla mancata applicazione del 4° comma dell'art. 39». Malgrado limiti e costi. Costi sopportati anzitutto dalla stragrande maggioranza dei comuni mortali che prestano lavoro per, e sotto la direzione di, qualcuno.

Ecco allora, descritto in breve, il retro-terra del singolare contenuto del decreto del 12 agosto. Rammentarlo si deve: serve per sbugiardare le leggende metropolitane messe in circolazione.

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