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La riproposizione della religione in una dimensione civile ha sullo sfondo – espresso o sottinteso – il motto dostoevskijano: «Se Dio non c’è, tutto è possibile» che sintetizza l’atteggiamento etico nichilista di Ivan Karamazov, esposto nel dialogo col fratello Alësha che introduce a Il grande Inquisitore (un testo tutt’altro che irrilevante per i nostri temi). Di fronte all’anomia che pervade la società, solo Dio, la sua religione e la sua chiesa darebbero ragione del bene e del male, del lecito e dell’illecito. I credenti, rispetto ai non credenti, godrebbero così di uno status di superiorità non solo morale ma anche civile. Il cittadino per eccellenza sarebbe l’uomo di fede in Dio. Detto diversamente: solo i credenti in Dio sarebbero capaci di atteggiamenti eticamente orientati nei confronti dei propri simili e, in generale, nei confronti del mondo. Dovremmo così dare ancor oggi ragione a Locke, quando considerava i senza-Dio soggetti pericolosi, perché «inidonei a mantenere le promesse»; a Dostoevskij perché incapaci di districarsi nel dilemma tra il bene e il male?

L’argomento di Dostoevskij non è quello triviale, e in fondo immorale, del premio o del castigo nell’aldilà per il bene e il male compiuti nell’aldiqua. È invece l’argomento di Kirillov ne I Demoni: senza Dio tutto è permesso, perché l’uomo stesso si fa Dio; e il demonio che visita Ivan Karamazov aggiunge che «per Dio non esistono leggi». L’argomento di Dostoevskij è dunque quello della superbia, del super-uomo: l’uomo senza-Dio sarebbe quello che vuol prendersi il posto di Dio. Presso i moralisti cattolici, è proprio questo l’argomento principe, usato per sostenere il valore civile della religione, come strumento per arginare gli effetti distruttivi della libertà insolente di chi non riconosce nulla al di sopra di sé. Ma è un argomento convincente?

Ha senso dire che chi nega Dio vorrebbe mettersi al suo posto? Se Dio non esiste, non può essere questione di rimpiazzarlo. L’argomento della superbia sta e cade con Dio e, se Dio non esiste, non vale più niente. Potrebbe essere addirittura rovesciato: se si crede in Dio, si può credere ch’egli sia con noi, Gott mit uns, e, su questa premessa, ci si può porre legittimamente al di là del bene e del male, avendo Lui al proprio fianco.

Il «Dio è con noi» è la superbia in sommo grado e percorre tragicamente e violentemente la storia dell´umanità fino ai giorni nostri: il ritornante rovello dei capi religiosi, di come privare la fede in Dio della sua carica violenta, è la riprova di un problema insoluto. Invece, chi non crede in Dio non dispone di nessuna sicurezza a priori e sa che il compito dell’umanità di districarsi nelle difficoltà della vita dipende da lui, insieme con gli altri. L’etica della modestia e della responsabilità ha qui la sua radice e qui trova un fondamento che a me pare più chiaro che non la fede in un Dio onnipotente e provvidente.

In ogni caso, almeno questo è da concedere: la fede in Dio non è di per sé garanzia di modestia, esattamente come la mancanza di fede in Dio non è di per sé presupposto di necessaria superbia. Tutti sono a rischio e nessuno può vantare assicurazioni, mentre la disistima verso i non-credenti in Dio, che quel motto dostoevskijano porta nascosto in sé, è propriamente e precisamente un frutto di quella superbia che vorrebbe condannare.

L’utilità o la pericolosità della religione come rimedio contro le tendenze sociali auto-disgregatrici dipende forse anche dalla sua auto-comprensione, come religione della verità o come religione della carità. Il dilemma è particolarmente vivo per il cristianesimo, nato originariamente, nelle prime piccole comunità, come religione della carità (il discorso della montagna e i primi due comandamenti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» e «Amerai il prossimo tuo come te stesso»: Mt 22, 37-37), quando la verità («Io sono la verità»: Gv 14, 6) era non un complesso di proposizioni teologiche né, tanto meno, teologico-politiche, ma semplicemente il riconoscimento e la confessione di Gesù, il Cristo. Progressivamente, però, il Cristianesimo è venuto istituzionalizzandosi come religione della verità, capace, attraverso l’uniformità di un apparato dogmatico, teorico e organizzativo, sempre più complesso, di tenere insieme vaste comunità di credenti, in comunione-confusione-competizione con il potere politico, quando il rapporto puramente d’amore, efficace nelle piccole cerchie, non bastava certo più a garantire l’unità. Le due concezioni del legame comunitario della fede coesistono dialetticamente e la loro tensione rappresenta uno dei fili conduttori della stessa storia della Chiesa nei secoli.

Ora, la questione da porre è se questa distinzione sia rilevante nella discussione circa il valore della religione, in particolare di quella cristiana, come tessuto connettivo spirituale della vita sociale. L´ipotesi da considerare è se non sia propriamente l’odierna insistenza sulla verità l’elemento che, nelle società pluraliste attuali, crea divisioni e conflitti mentre le cose andrebbero all’opposto se l’accento cadesse sulla carità, capace invece di creare solidarietà, legami e convergenze non solo tra i cristiani ma anche tra cristiani e non cristiani. «La scienza gonfia; la carità, invece, edifica. Chi crede di sapere qualcosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita», dice splendidamente l’anonimo autore della Lettera a Diogneto (XII, 5-6) del II secolo d. C.

In breve, c’è qui in nuce la contrapposizione tra l’arroganza della verità e l’umiltà della carità. La prima - a dispetto di tutte le proclamazioni in contrario da parte degli interessati - cerca la potenza e il potere, la seconda ne rifugge e, essendo il potere essenzialmente conflitto, competizione e perfino sopraffazione, si comprende facilmente come ogni religione della verità corre il rischio di alimentare tutto questo.

Con questo accenno alla religione della verità e alle sue inclinazioni, siamo giunti alla questione del «disagio democratico».

Condizioni primarie di ogni concezione della democrazia, non strumentale a poteri esterni che la usano come mezzo se e finché serve, sono la disponibilità alla ricerca di convergenze e, se del caso, l’apertura al compromesso, in condizioni di uguaglianza partecipativa. Su questo, non è il caso di insistere qui. Ma è proprio con queste condizioni che ogni religione della verità è potenzialmente in conflitto.

È in questione il numero due, inteso come unità divisa e come unità raddoppiata. Cerco di spiegarmi.

L’appartenenza tanto alla cerchia dei cittadini quanto alla cerchia dei credenti, ciascuna delle quali con le sue istituzioni, i suoi diritti e i suoi doveri di status, le sue condizioni di inclusione ed esclusione, determina la situazione che si denomina di «doppia fedeltà», una situazione che comporta nella realtà una scissione dell’unità. La democrazia si basa sull’autonomia di tutti i suoi partecipanti, autonomia che è un’offerta di disponibilità reciproca. Quando questo presupposto viene incrinato, si ingenera il sospetto degli uni verso gli altri, un sospetto distruttivo alla radice della convivenza democratica. La religione della verità, al contrario, anche con sanzioni ecclesiastiche, pretende obbedienza agli amministratori della verità, cioè alle istituzioni ecclesiastiche, da parte di quelli che, non a caso, si chiamano i «fedeli». Qui, può nascere il conflitto tra lealtà ai principi della sfera politica e obbedienza ai dettami religiosi, per evitare il quale, sia pure in tutt’altro contesto, Locke negava anche ai «papisti» (oltre che agli atei) il diritto alla tolleranza (nel senso di essere tollerati). Si dirà: ma tutti noi siamo il prodotto di tante appartenenze, della più varia specie (politica, culturale, sindacale, professionale, ecc.) e ciò non genera problemi, anzi arricchisce la democrazia. Sì, ma c´è una differenza tra queste appartenenze e l’appartenenza a comunità dogmatiche che riservano a se stesse la gestione della verità. Si dirà ancora: si è sempre liberi, quando lo si voglia, di uscire dalla comunità dei credenti e riacquistare la propria autonomia, non esistendo più Sante Inquisizioni. L’appartenenza a una confessione religiosa è dunque pur sempre un fatto di autonomia. Sì, ma questa replica, indegna di provenire da uomini di fede, svaluta assai il valore della fede e non considera la profondità del legame, connesso a questioni ultime come la salvezza dell’anima, che questa appartenenza determina. Non è la stessa cosa appartenere a un partito politico, a un’organizzazione sindacale, a una associazione culturale, oppure a una fede religiosa. Questo problema di lealtà democratica non è diverso rispetto alla Chiesa, alle comunità islamiche o a quella che era un tempo la «chiesa» dell’Internazionale comunista. Come lo si discute in questi casi, non dovrebbe essere taciuto con riguardo alla Chiesa cattolica.

Il raddoppio dell’unità consiste in un plusvalore che si determina a favore della Chiesa, in quanto essa opera nella società sia, dall’interno, come insieme dei fedeli, sia, dall’esterno, come soggetto istituzionale che intrattiene rapporti diretti con le istituzioni civili e ne condiziona le dinamiche. Questo sdoppiamento della personalità, comunità e istituzione, e il raddoppio dei tavoli su cui si svolge la partita sociale comportano la moltiplicazione dell’influenza politica, ciò che spiega forse il peso della Chiesa cattolica in taluni Paesi, dell’Europa o dell’America latina, un peso certamente, o probabilmente, sproporzionato a ciò che il dato numerico dei cattolici dalla fede attiva potrebbe indurre a pensare. Questo doppio peso è un problema per la democrazia.

Si diventa ripetitivi, ma non si saprebbe fare diversamente, ricordando che queste questioni sono state affrontate, nella prospettiva della conciliazione della Chiesa con la democrazia e del superamento della sua plurisecolare diffidenza, quando non aperta ostilità, dal Concilio Vaticano II. Il punto nodale è l’autonomia e la responsabilità dei fedeli nella sfera politica e sociale: qui è in gioco il rapporto tra la Chiesa e la democrazia. Allora fu inibito ai laici di invocare l’autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, inibizione che, evidentemente, comporta il reciproco: la necessaria astensione della Chiesa da ogni iniziativa rivolta a impegnare, in quella stessa sfera, la coscienza dei suoi fedeli. Questo spirito del Concilio sembra oggi appannato, ma non abbiamo da perdere la speranza, poiché, come è detto, «lo Spirito spira dove vuole».

Sul sistema previdenziale, esistono, purtroppo, due diversi livelli di discussione. Se si parla di riforme, nel senso dell´Ocse - attento solo alla riduzione dell´intervento pubblico in ogni sua forma - allora non siamo veramente nella sfera di competenza del ministro del Lavoro. Se si vogliono ridurre le spese previdenziali allo scopo di risanare il disavanzo pubblico, si fa un´operazione che riguarda piuttosto il ministro dell´Economia, che dovrebbe però spiegare qual è il nesso forte che lega le pensioni ai parametri di Maastricht.

Non si vedono nessi, se non nel fatto che la spesa previdenziale è una componente molto grande della spesa pubblica totale, per di più perfettamente visibile e ben organizzata nel settore pubblico. Succede che l´osservatore esterno, guardando a un riassunto della spesa pubblica italiana, individua le voci più grosse e chiede che vengano ridotte: un esercizio di modesta intelligenza. Appena lo sguardo si fa più analitico, si noteranno alcuni fenomeni.

Il primo riguarda l´imperfetta separazione della spesa previdenziale da quella per l´assistenza pubblica - una vecchia rivendicazione Uil, mai sufficientemente presa in conto. Si tratta di trasferire al bilancio dello Stato la spesa Inps per una varietà di scopi assistenziali che non riguardano i lavoratori dipendenti: fatta questa operazione, il bilancio dell´Inps migliora grandemente e la quota della spesa previdenziale effettiva diminuisce rispetto al Pil. Un analogo effetto si ottiene se si escludono dalla spesa previdenziale i trattamenti Tfr, che non sono un istituto previdenziale (lo saranno, nel futuro, ma faranno aumentare più le risorse che le spese del sistema previdenziale). Tra l´altro, questi aggiustamenti attenuerebbero un´antica critica al sistema sociale italiano, accusato di dedicare troppe risorse alle pensioni e poche all´assistenza. Questo aspetto è diventato particolarmente antipatico, da quando il sistema pensionistico è passato dal metodo retributivo (nel quale la futura pensione non è strettamente legata ai contributi pagati dai lavoratori) a quello contributivo (nel quale sono i contributi che finanziano le pensioni): poiché è stato detto ai lavoratori che debbono pagarsi le pensioni, come giustificare che essi sussidiano il bilancio dello Stato nelle sue funzioni assistenziali?

La seconda osservazione consiste nel chiedersi perché si dovrebbe ridurre la spesa previdenziale. La risposta è nota. Si dice, infatti, che è necessario aumentare l´età pensionabile in quanto la vita si è molto allungata: se si allunga la vita al lavoro, si riduce l´effetto dell´invecchiamento sui conti della previdenza. L´invecchiamento equivale a una riduzione nel numero assoluto di lavoratori, e questa riduzione fa diminuire i contributi necessari per pagare le pensioni. Ma, allora, il tema non è quello di ridurre la spesa pensionistica, ma di aumentare l´occupazione - ad esempio dei giovani e delle donne, magari in forme non precarie, perché così contribuirebbero pienamente alla stabilità del sistema pensionistico.

Queste brevi osservazioni servono soltanto a chiarire che una vera riforma pensionistica viene dopo una vera azione di politica del lavoro (per un´occupazione piena e "buona"). È allora logico e formalmente più corretto lasciare da parte le raccomandazioni dell´Ocse e non fissarsi sul rapporto tra spesa previdenziale e deficit pubblico.

Per questo, credo, ha fatto bene Damiano a ridurre l´enfasi intorno a questo tema e a elencare elementi di «manutenzione» - dall´aumento dei contributi figurativi, alla rivalutazione delle pensioni, al finanziamento degli ammortizzatori sociali (per il mercato del lavoro com´è oggi, non per quello di domani), fino al finanziamento per la revisione dello scalone.

Quest´ultimo è il punto dolente nel rapporto con il sindacato, e riguarda precisamente l´età pensionabile, cioè uno degli elementi che va visto nel quadro di una politica generale dell´occupazione, non in quello della previdenza. Alcuni sindacalisti non vorrebbero toccare nulla dell´età pensionabile, qualche che sia il quadro del mercato del lavoro. Qualche esponente politico immagina, al contrario, una lotta tra giovani e vecchi e che occorrerebbe togliere a questi e dare a quelli - senza capire che al termine di una politica siffatta, né gli uni né gli altri voterebbero mai più il centro sinistra.

Se non si è ancora in grado di proporre un vero piano per l´occupazione e una riforma della normativa che si è accumulata negli ultimi dieci anni, se il conflitto tra giovani e vecchi è più un´astuzia che una dimensione della realtà, allora le ragioni che militano per non aumentare l´età pensionabile riposano tutte sulla "usura" che il lavoro determina nelle capacità delle persone. Per alcuni, l´usura è solo fisica e si applica ai lavori veramente pesanti - che oggi fanno gli immigrati - e dunque la riduzione dovrebbe applicarsi a piccoli numeri di lavoratori (i minatori, ad esempio). Per altri, l´usura è fenomeno più complesso e può riguardare invece grandi numeri (agricoltori, edili, colf, impiegati esecutivi, ecc.). Questo aspetto, già citato da Damiano in altre occasioni, non ha nulla a che vedere né con il sistema previdenziale né con il mercato del lavoro: è un elemento di civiltà, e ha lo stesso rango del divieto del lavoro minorile.

Il Libro verde di Sacconi potrebbe diventare il paradigma della pubblicizzazione del privato, con tutte le implicazioni di ordine legislativo, economico e fiscale. Il programma delineato ha tutte le caratteristiche tecniche e politiche per ridisegnare l'asse portante della politica economica e sociale del Paese. La parola chiave è sussidiarietà, individuo e solidarietà, che per il welfare state significa un orizzonte istituzionale diverso da quello prefigurato dai liberali e dai socialisti. La sussidiarietà e la solidarietà diventano lo strumento «giuridico» per deresponsabilizzare il pubblico come soggetto istituzionale a cui la collettività assegna, attraverso l'imposizione fiscale, il compito di rimuovere i vincoli che si manifestano nel mercato (fallimenti del mercato).

In questo senso occorre prestare molta attenzione al progetto federalista di Calderoni che modifica l'impianto ed i presupposti del sistema fiscale italiano. Il reddito non è contemplato nella nostra costituzione, piuttosto è privilegiata l'azione pubblica di rimozione dei vincoli di ordine economico e sociale. Purtroppo la novella costituzione del 2001 permette l'interpretazione spregiudicata dei diritti e dei doveri di questo governo. Infatti, la dizione sussidiarietà è declinata in solidarietà e responsabilità, non come cessione di potere verso quelle istituzioni pubbliche che più e meglio di altre possono affrontare i problemi o come diritti e doveri. E' lo spirito individuale, diversamente declinato e rappresentato, a promuovere la solidarietà. La libertà dal bisogno e la «libertà di» sono declinati nell'esatto contrario dell'art. 3 della Costituzione, mentre le politiche che coinvolgono soggetti diversi dallo stato tendono ad assegnare agli stessi interlocutori, individuali o diversamente organizzati, un ruolo che mal si concilia con le finalità dello stesso stato sociale e che poco attengono all'economia del benessere. Forse sarebbe stato molto più interessante parlare di Federalismo verso l'alto (Europa) e obiettivi europei per lo stato sociale.

L'esito di questa politica è l'equiparazione tra pubblico e privato nel campo dell'erogazione dei cosiddetti servizi universali. Ma tra privato e pubblico c'è una differenza sostanziale. Il secondo è soggetto a vincoli comunitari e interni attraverso il Patto di stabilità, mentre i privati possono erogare servizi senza vincoli di carattere giuridico, con tutti i problemi economici che i beni di merito manifestano, ovvero che è l'offerta a creare la domanda.

Sostanzialmente il «modello Sacconi» si prefigura come un progetto politico a tutto tondo in cui il privato, diversamente rappresentato, assume lo stesso spessore giuridico della pubblica amministrazione. Se il progetto «culturale» e «organizzativo» dovesse compiersi, sarebbe difficile recuperare terreno. È bene ricordare che lo stato e l'intervento pubblico sono istituzioni liberali. Il loro dissolvimento prefigurano una società in cui gli interessi particolari sopravvanzano quelli collettivi. Un esito sicuramente non desiderabile.

In calce potete scaricare il documento del ministro al lavoro e al welfare, Maurizio Sacconi

«In un breve lasso di tempo si è consumato in Italia un cambiamento istituzionale e costituzionale di enorme portata. Anche se sia da parte di chi l'ha promosso, sia da parte di chi non è in grado di contrastarlo efficacemente, si tenta di ridurne la rilevanza. Prima continuavano a dire che non bisognava demonizzare Berlusconi, adesso si preoccupano di non rompere le condizioni del dialogo...» Stefano Rodotà esordisce così e lungo un'ora di conversazione non abbasserà la gravità della sua diagnosi.

Si può parlare di un cambio di regime, senza sentirsi rispondere che non c'è il fascismo alle porte?

Quella sul regime mi sembra una disputa nominalistica. Chiamiamolo come ti pare, io registro i fatti. Prima c'è stato un cambiamento del sistema politico indotto dalla legge elettorale. Adesso c'è un'accelerazione evidente della pressione sul sistema costituzionale. Che non incide soltanto, come s'è sempre predicato che si doveva fare, sulla seconda parte della Costituzione: tocca pesantemente la prima. Il principio di uguaglianza è stato violato eclatantemente, e tutto il quadro dei diritti è in discussione.

Ti riferisci al lodo Alfano?

Ovviamente, ma non solo. Mi riferisco al razzismo delle impronte ai bambini rom, alla xenofobia discriminatoria dell'aggravante per i clandestini, alla logica dei tagli in finanziaria che produrrà ulteriori diseguaglianze sociali, all'idea della stratificazione di classe ratificata con la tessera dei poveri. Come diceva...., i princìpi costituzionali non sono dei caciocavalli appesi: per essere effettivi richiedono una strumentazione adeguata. Una finanziaria come quella che stanno votando non è una strumentazione adeguata. E un'altra strumentazione decisiva gliela toglierà la riforma del sistema giudiziario annunciata per l'autunno.

Ma nel discorso corrente il sistema giudiziario non ha niente a che vedere con i diritti, è solo la macchina persecutoria di Silvio Berlusconi...

E invece l'autonomia della magistratura fu voluta dai costituenti - l'hanno ricordato Scalfaro e Andreotti - proprio come garanzia che i diritti delle minoranze non venissero cancellati dalla maggioranza di turno. L'autonomia non garantisce i magistrati, garantisce i cittadini. E mette un limite alla legittimazione politica: dice che la legittimazione popolare non autorizza chi vince le elezioni a mettere le mani sui diritti. L'esatto contrario del discorso di Berlusconi per cui chi vince può fare quello che vuole, e per fare quello che vuole dev'essere immunizzato dall'azione della magistratura. E' un punto cardinale dell'impianto costituzionale, se cade questo scricchiola tutto. La ministra francese della giustizia, aveva provato a fare un discorso simile a quello della destra italiana, ma è stata subito bloccata. In Italia invece gli anticorpi non ci sono, o quelli che ci sono non bastano. Ha ragione Zagrebelsky: o la Costituzione la si rilegittima non a parole ma a partire dai comportamenti dell'opposizione, o decade di fatto. Senonché come ben sappiamo è stata proprio la parte maggioritaria della sinistra ad aprire una breccia alla sua delegittimazione, insistendo per anni su una revisione della seconda parte della Carta che fosse funzionale all'efficienza del sistema politico, invece di verificare che fosse adeguata a rendere effettivi i principi della prima.

A proposito, di recente D'Alema, e con lui 15 fondazioni politico-culturali, ha rilanciato la forma di governo parlamentare e il sistema elettorale tedesco, con relativa autocritica sugli esiti di presidenzialismo strisciante del bipolarismo forzoso. Tu sarai contento, o no?

Certo che sì, proposi il sistema tedesco, con Aldo Tortorella, già quando si discuteva del Mattarellum. Ben venga questo rilancio oggi. Però, che il bipolarismo portasse agli esiti cui ha portato era prevedibile ed era stato previsto. E che Berlusconi volesse la bicamerale per riformare la giustizia lo si sapeva.

Anche se va ricordato che in alternativa alla bicamerale Berlusconi agitava l'assemblea costituente...Torniamo a oggi: che margini di intervento ha la corte costituzionale sul lodo Alfano?

E' un'incognita decisiva. Ovunque il ruolo delle corti diventa sempre più decisivo, a cominciare dagli Stati uniti. Prima o poi il lodo Alfano arriverà davanti alla consulta, come pure l'aggravante per i clandestini. E voglio sperare che non si accuserà di faziosità il primo giudice che solleverà una questione di costituzionalità: nell'un caso e nell'altro è ben difficile sostenere che sarebbe «manifestamente infondata». L'appello dei cento costituzionalisti sul lodo Alfano poteva essere letto come un invito al presidente della Repubblica a non firmarlo, ma è comunque un avallo per i giudici a sollevare la questione di costituzionalità.

Ancora sull'uguaglianza. Il Pd ha approvato con argomenti egualitari l'estensione delle impronte digitali a tutti: così si sarebbe evitata la discriminazione contro i Rom. Sei d'accordo?

No: sono stupefatto. Era già successo negli Stati uniti, che parte della cultura democratica usasse l'argomento della generalizzazione dei controlli come garanzia di uguale trattamento: non pensavo che l'onda sarebbe arrivata anche da noi. Sarebbe questa l'uguaglianza, essere tutti controllati e sorvegliati? Qui c'è solo un segno spaventoso di subalternità culturale.

Da presidente del Garante per la privacy hai suonato più volte l'allarme contro la società della sorveglianza. Ma l'hai suonato anche contro l'abuso delle intercettazioni. Ci vuole o no, un freno alle intercettazioni?

E' un problema aperto dal '96, fu Flick a presentare il primo disegno di legge. Nell'ultima legislatura, fra maggioranza e opposizione, di proposte ce ne sono state otto: se si fosse davvero voluto fare una legge equilibrata, la si sarebbe fatta. Ma in realtà quello che oggi vuole il governo non è disciplinare le intercettazioni, ma restringerle, ammettendole solo per pochi reati (fra i quali non quelli finanziari), ridefinendo i criteri di rilevanza e impedendone la pubblicazione fino al dibattimento. Con questi criteri, per dire, non avremmo mai saputo nulla del caso Fazio. Sarebbe una forma di censura sull'opinione pubblica, nonché un gigantesco dispositivo di privatizzazione delle informazioni, consegnate a poche persone che potrebbero farne un uso ricattatorio e segreto. Ci sono altri metodi per disciplinare l'uso delle intercettazioni e per proteggerle: siamo pieni di studi tecnici e giuridici in materia.

Tu sei un europeista convinto, hai contribuito a scrivere la carta europea dei diritti. L'Europa può giocare un ruolo positivo contro questo processo di de-costituzionalizzazione italiano?

Il ruolo dell'Europa è ambivalente. La direttiva sui rimpatri dei clandestini è una direttiva europea. Ma è europeo anche il voto del parlamento di Strasburgo sui Rom: come dire che laddove c'è un residuo di democrazia parlamentare c'è ancora qualche garanzia. La commissione europea va giù dura sui diritti, ma il parlamento quando può la blocca. E se la carta dei diritti diventasse finalmente vincolante, entrerebbe in campo anche la corte europea: a quel punto le direttive sui rimpatri potrebbero essere impugnate.

Insomma, una pluralità di poteri giocherebbe a favore dei diritti?

Sì. E penso che dobbiamo augurarci che il trattato di Lisbona entri in vigore, per la carta dei diritti e per la corte di giustizia. Sono tutte scommesse, intendiamoci, ma di fronte alla stretta che si avverte in ciascun paese europeo - due esempi: in Gran Bretagna hanno portato a 42 i giorni di custodia cautelare senza garanzie; in Svezia vogliono mettere sotto sorveglianza ogni forma di comunicazione elettronica - dobbiamo puntare sull'Unione.

Lavoro: anche lì allarme rosso?

Sì, per il ridimensionamento del ruolo del sindacato e per la messa in discussione del contratto collettivo. Che altro non significa che la dimensione sociale e politica, non individuale, del lavoro. E poi, per le letture tutte in chiave esistenziale che sento dare del precariato, come se non fosse una condizione sociale di massa che richiede politiche sociali all'altezza.

Caso Eluana: come lo leggi?

E' un caso emblematico di come l'ampliamento delle libertà personali comporti un di più di politiche sociali. Il cosiddetto «diritto di morire», altro che essere complice dell'individualismo, della solitudine e del narcisismo come si sostiene, implica forti strategie di solidarietà e di responsabilità: dalle cure palliative alle strutture di sostegno. Dobbiamo rilanciare la dimensione sociale dell'esistenza umana, contro l'individualismo imperante che non dà né uguaglianza né libertà.

La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo che ha creato uno scarto. È il momento in cui le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti, si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz’anima.

La difesa della Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una cosa è l’incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità costituzionale. Ma, cosa diversa è l’anticostituzionalità, cioè il tentativo di passare da una Costituzione a un’altra. Contro l’anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione. Che cos’è, dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è un’epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla propria privata libertà. L’ossessione per "il proprio" ha, come corrispettivo, l’indifferenza e, dove occorre, l’ostilità per "l’altrui".

In termini morali, quest’atteggiamento implica una pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e discriminazioni.

Esempi? "A casa nostra" vogliamo comandare noi: espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà tutt’altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come "in casa altrui", nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d’ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto eccede, ne facciamo dei "clandestini", trattandoli da delinquenti. Non pensiamo che anche noi, gli "aventi diritto", portiamo una responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l’appunto, da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un’impronta. Basta non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno. L’indigenza si diffonde? Istituiamo l’elemosina di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza.

Ma questa è anche un’epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra sicurezza. L’esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità sospettose l’una verso l’altra; l’Europa segna il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge l’interesse generale e i suoi postulati di legalità, imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo "familismo" crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell’amico, secondo la legge dell’affiliazione. Sul piano morale, quest’atteggiamento valorizza come virtù l’appartenenza e l’affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra "famiglie". Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla l’art. 1 della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l’utilità comune.

Della diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica alleata all’economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di futuro contiene un’autorizzazione in bianco alla consumazione nell’immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per l’avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell’azione pubblica come sequenza di misure emergenziali. In termini costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d’affari a rendita immediata.

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Tutto ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che, oltretutto, non rispecchiano l’intera realtà costituzionale, per nostra fortuna fatta anche d’altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c’è di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro - hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente.

Non è forse questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l’indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come "liberale" una democrazia; sostegno, dall’altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d’investitura, all’antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica invece come "autoritaria" la democrazia.

La sintesi potrebbe essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all’epoca delle nazionalizzazioni decise dal governo Mitterand e osteggiate dall’opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi l’aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità costituzionale.

La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c’è consenso che possa giustificare la violazione delle "forme" e dei "limiti" ch’essa stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l’espressione o la copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s’è detto. Se la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e classico della parola. Ci si dovrà ritornare.

Lo scenario dell'Italia nel luglio 2008, a due mesi dalle elezioni politiche che la segneranno per cinque anni, è fin troppo semplice. Una maggioranza di ferro è stata consegnata a una destra senza confini, arbitrata da Silvio Berlusconi, nella quale è scivolata senza più identità l'ex Alleanza Nazionale, ammesso che ne avesse una negativa o positiva. La Lega invece l'ha conservata, funziona da minoranza nella maggioranza di governo, fuori di esso non avrebbe peso, ma parla con voce sua. Un'alleanza, quella fra Berlusconi e Bossi, fra due che necessitano l'uno dell'altro, senza grande empatia.

Berlusconi tende a modellare il paese su un'immagine aziendale, Fini segue, Bossi ha invece un'ipotesi federalista. Tremonti è tanto suo quanto berlusconiano. Berlusconi ha per priorità la garanzia di non essere disturbato dal sistema giudiziario, del quale quel che più teme è l'obbligo dell'azione penale. E' rapidamente riuscito a mettere in riparo se stesso, celandosi fra altre cariche pubbliche (Presidente della Repubblica, del Consiglio, della Camera e del Senato, questi due in verità non più che transitori speaker), nessuna delle quali ha obiettato. A settembre cercherà di riportare i pubblici ministeri sotto l'egida del Ministero della giustizia, come in altri paesi che peraltro evitano di abusarne. Se potesse farebbe di tutta la giustizia una funzione del governo e non un suo contropotere. Ai vizi, che ci sono, della casta dei giudici si dovrebbero sostituire solo quelli dell'esecutivo, anzi degli esecutivi, inclusi quelli periferici. La Lega starà al gioco, anche se non le facilita la popolarità. Essa è più vicina culturalmente a Di Pietro che al Cavaliere,ma ha bisogno assolutamente del federalismo fiscale, al quale Berlusconi non terrebbe gran ché, mentre le sinistre non sanno proporre una politica pubblica trasparente, unitaria e perequativa; per cui avremo un crescere delle differenze fra livelli regionali di vita (istruzione e sanità) e di rapporti sociali. Se a questi si aggiunge la tendenza del governo e della Confindustria, mortale per la Cgil, ad abolire il contratto nazionale, la frammentazione in regioni e corporazioni sarà ricostituita dopo poco più di mezzo secolo di primato nazionale unitario e repubblicano. Questo andazzo, unito al grandinare di misure legislative, fra le quali primeggiano i decreti e viene privilegiato il voto di fiducia - vizi dei quali il certosinistra non si era privato - hanno determinato in tre mesi una modifica della Costituzione di fatto che non credo abbia precedenti altrove. Anche se Nicolas Sarkozy persegue una analoga ridefinizione dei poteri, ma non senza incontrare qualche difficoltà in una più robusta tradizione dello stato. Comune è la tendenza antiparlamentare, e poggia su un'opinione pubblica che è tornata a prediligere il decisionismo nella speranza che le risolva alcuni problemi urgenti di vita, fra i quali primeggiano la concreta difficoltà di arrivare alla fine del mese e il fantasmatico bisogno di sicurezza che, agitato dalla destra, viene coperto per ignavia dalle opposizioni. Che Berlusconi e Sarkozy siano stati eletti a furor di popolo e perdano non pochi consensi alcuni mesi dopo depone di una crescente immaturità dei cittadini, sempre più determinati da scontentezza e risentimento perché non trovano nel supermercato della politica il prodotto che più gli conviene, l'interesse generale non costituendo più una priorità nella società individualista e «mucillaginosa ». Questo equilibrio di malumori fra ceti medio bassi emedio alti, che ha messo le redini del governo in Italia in un personaggio di bassa cultura e in Francia in uno di stile un po' meno volgare, non sembra facilmente intaccabile a tempi brevi. E' vero che riceverà sul muso l'onda d'urto della crisi,ma non c'è più una sinistra in grado di trasformare il malcontento in coscienza e proposta alternativa. Questo è l'appordo della famosa «transizione » delle repubbliche postbelliche. Restano i movimentima, da noi, eccessivamente locali, quindi strutturalmente minoritari, separati e quindi non in grado di esercitare un'egemonia. A quarant'anni dal trionfo del 1989 le magnifiche sorti e progressive della società liberista, aperta e aconflittuale, si sono ridotte a questo piccolo e un po' ripugnante cabotaggio. Sarebbe fin divertente, sotto il profilo storico, constatare - come negli Usa gli studi Paul Krugman e in Italia quelli di Isidoro Mortellaro - che non c'è mai stato un così ingente ritorno in campo di una proprietà pubblica protezionista, deprivata di ogni qualità sociale, mera forma statale di sostegno a un sistema proprietario inciampato in qualche sua trappola, dalla guerra del petrolio alla crisi dei subprime. Nonché in presenza di due giganti asiatici in fieri, i mostri della «democrazia» indiana e del «comunismo » cinese, sui quali il vittorioso Occidente riflette il meno possibile. Tanto più che le sedi storiche di riflessione del Novecento, le sinistre, non esistono più. O ne esistono deboli tracce, come in Francia e in Spagna. Può darsi che lo scandalo italiano - totale scomparsa delle sinistre radicali dalle Camere - venga sanato dalle elezioni europee del 2009 attraverso un sistema elettorale a bassa quota di sbarramento; ma si deve ammettere che una sinistra che appare o scompare grazie al puro meccanismo elettorale è mal ridotta. Solo caso a parte la Germania, dove sorge dopo oltre mezzo secolo una Linke, per ora non molto di più che come difesa sociale elementare. Meglio che niente, dopo quasi un secolo fra nazismo e il tormentoso dopoguerra. In Italia non c'è stato alcun tormento. Il Pci si è dissolto, più lentamente ma in modo analogo all'Urss, e non con una maggiore elaborazione culturale, negando alla propria storia altra qualità che di essere stato un «errore», più o meno delittuoso. Non è humus sul quale ricostruire qualcosa. Quanto al Partito socialista nel dopoguerra italiano è sempre stato debole, né il Pci aveva colto l'interesse di lasciargli uno spazio, per cui neanche da quella parte viene uno straccio di cultura che possa chiamarsi tale. La fusione a freddo fra Ds e Margherita si è tentata su un terreno culturalmente basso e reticente, e socialmente subalterno a un capitalismo debole. Sono diversamente instabili sia l'anima cattolica, sia quella ex Ds, vaga in Veltroni, un poco più solida in D'Alema, lontane ambedue dalla relativa solidità delle pur indebolite socialdemocrazie nordiche. Per qualche tempo qualcuno di noi, chi scrive inclusa, ha pensato che fosse l'ora del centro, ma credo che ci siamo sbagliati. C'è, mi si perdoni il termine, un incarognimento di molti livelli di società diversamente risentiti, che toglie spazio alla tradizione democratica e si intesse nel restringersi dei margini di mediazione sociale - fra debolezza intrinseca dell' Italia e rombo di una crisi occidentale crescente. Il tutto nel silenzio del sindacato e delle sinistre «radicali» seguito alla sconfitta politica. Non so che cosa avvenga in Corso d'Italia, non essendovi più la scusa del governo amico. L'assenza di reazione del più grande sindacato italiano al tempestoso muoversi del governo fa paura. L'isolamento della Fiom non ha più spiegazioni. La gestione del caso Alitalia e oggi quella del pubblico impiego sotto l'impazzare di Brunetta, sono sconcertanti. E sconcertante è il silenzio di Rifondazione. Si è arrivati da viale del Policlinico persino a dire che la priorità era riflettere rifugiandosi in un buco mentre fuori grandinava di tutto. Come se si potesse parlare o tacere solo se si è o non si è rappresentati alle Camere. Ed è meglio ignorare quel che ogni tanto si sente provenire dalla stanza in cui le mozioni di Rc si sono sbarrate. Non è bello quel che ogni tanto ne arriva. Altro che eccesso di astrattezza e razionalità della politica, i partiti sono famiglie passionali in cui scorre il sangue e più piccole sono più sangue scorre. C'è solo da sperare che un sussulto di responsabilità metta fine alla lotta di tutti contro tutti e ricostruisca per Rc un terreno di sopravvivenza. In questo quadro non si può risparmiare una flebile riflessione sulla stampa scritta e parlata. Essa è oggi una pura cronaca suggerita dal governo o dalla pochezza politica di tutto il resto. Dove sta l'indipendenza del giornalismo, di una sua visione o griglia di lettura? Non occorrerebbe essere eroi per far qualcosa di più che appiattirsi sui portavoce dei ministri. Dei famosi grandi quotidiani indipendenti uno, il Corriere, è passato senza esitazione con il governo, e Repubblica è imbranata quanto il Veltroni che aveva ardentemente sostenuto. Salvo il rispetto per l'Unità e Liberazione, comunque legati ai partiti, nulla resta sulla scena di una sinistra riflessiva in Italia se non il manifesto. Ma ci rendiamo conto? Anche se in difficoltà, anche se inquieto e infelice. Ma soltanto il manifesto e basta. Ansimante ma non morto. Sarebbe da intrecciare una frenetica danza. Forse lo faremo dopo questa pesante estate. Nella quale tutti gli umani si riposano al mare o sotto il fogliame. I gatti si ritirano sotto un mobile, e così si appresta a fare il vostro affezionato micio settimanale.

È ancora possibile valutare le scelte istituzionali italiane con l´occhio rivolto a quel che avviene negli altri paesi? O la nostra politica è ormai così fuori misura da rendere ardua, se non impossibile, qualsiasi comparazione?

Una prima considerazione riguarda l´uso politico dei riferimenti alle soluzioni adottate in altri paesi. Quando si ricominciò a parlare di un "lodo" che avrebbe dovuto mettere il Presidente del consiglio al riparo da qualsiasi azione giudiziaria, subito si disse che questa era la strada seguita in tutti, o quasi, gli ordinamenti democratici. Fu facile a studiosi e commentatori dimostrare che così non era, che l´immunità era una prerogativa dei soli capi di Stati, e neppure in tutti i paesi. Acqua sul marmo. Non solo nei tremendi dibattiti televisivi, ma pure nella discussione nell´aula di Montecitorio, più di un esponente della maggioranza continuò imperterrito a ripetere la giaculatoria secondo la quale a Berlusconi non sarebbe stato concesso nessun salvacondotto, ma attribuito solo quello che altri primi ministri già avevano. Una piccola falsificazione, un peccato tutto sommato veniale? No. Piuttosto la conferma dell´impasto tra ignoranza e arroganza che ormai sta alla base di troppe decisioni politiche e legislative. Di fronte a questo stato delle cose qualsiasi indulgenza è inammissibile.

Due casi specifici possono aiutarci a comprendere meglio lo stato delle cose. Si è citato molte volte Chirac. Ma questo riferimento va nella direzione esattamente opposta a quella dei sostenitori di quello che poi è divenuto il "lodo Alfano". Chirac non è il Primo ministro, ma il Presidente della Repubblica. La decisione di attribuirgli un´immunità provocò polemiche furibonde e si disse, giustamente, che alla sua origine vi era un vero e proprio colpo di mano. Per arrivare a questa conclusione fu comunque necessaria una revisione degli articoli 67 e 68 della Costituzione, ritenendosi impraticabile la via della legge ordinaria.

Il secondo esempio arriva da Israele. Titolo di giornali italiani del 12 luglio: «Olmert ha i giorni contati». Questa drastica previsione deriva dal fatto che il Primo ministro israeliano è indagato per frode. Le indagini vanno avanti e nessuno ha chiesto uno "scudo" per Olmert sostenendo che non si poteva incidere sulle sue delicatissime funzioni alla vigilia del vertice di Parigi, particolarmente importante per il futuro dello Stato di Israele.

Questi sono dati di realtà, facilmente accessibili, che dovrebbero costituire la documentazione di base per chi legifera. Peraltro, nel "documento dei cento costituzionalisti", è stato ricordato che «l´immunità temporanea per reati comuni è prevista solo nelle costituzioni greca, portoghese, israeliana, francese con riferimento però al solo Presidente della Repubblica, mentre analoga immunità non è prevista per il Presidente del Consiglio e per i ministri in alcun ordinamento di democrazia parlamentare analogo al nostro, tantomeno nell´ordinamento spagnolo più volte evocato, ma sempre inesattamente». Basta allineare queste poche informazioni per concludere che la comparazione giuridica ci dice che l´immunità per reati comuni è strumento eccezionale, circoscritto a pochissimi paesi e a un solo soggetto, il Capo dello Stato. La soluzione italiana, quindi, si presenta come l´ennesima anomalia italiana, ancora una volta spiegabile facendo riferimento, purtroppo, a quella che è divenuta una perversa caratteristica del nostro sistema istituzionale, la categoria delle leggi ad personam. Non si è seguita, infatti, nessuna delle vie indicate da altri ordinamenti, dove si sono adottati strumenti particolari per far valere la responsabilità penale dei membri del Governo, senza però creare situazioni di immunità. La comparazione ci dice che alle esigenze di organi dello Stato tra loro diversi devono corrispondere soluzioni differenziate.

Proprio partendo da queste semplici constatazioni, diventa impossibile collocare la mossa italiana nel contesto di un recupero di garanzie che erano state notevolmente ridotte negli anni Novanta, per reagire a fenomeni di corruzione che si erano manifestati non soltanto in Italia. La rinnovata attenzione per l´immunità dei parlamentari e per una più adeguata disciplina dei reati ministeriali, infatti, risponde all´esigenza di costruire equilibri pregiudicati da taluni eccessi, e non ha nulla a che fare con l´attribuzione di privilegi personali. Di questo dovrà tenersi conto se si vorrà riaprire la discussione sull´immunità parlamentare, sostanzialmente travolta nel 1993. Il tempo era quello di Tangentopoli, quando non si scatenò un tornado forcaiolo, ma l´opinione pubblica, sbigottita e indignata, assisteva ogni giorno alla rivelazione di abissi di illegalità, coperti fino a quel momento anche grazie ad una rete di protezione nella quale l´immunità parlamentare giocava un ruolo essenziale. Gli abusi dell´immunità erano noti da anni (ricordo solo che ad essi Gustavo Zagrebelsky aveva dedicato un libro nel 1979), e proprio questa consapevolezza diffusa fece sì che, nel nuovo clima, quel tipo di immunità apparisse indifendibile.

Riproporre il tema dell´immunità dei parlamentari, allora, presuppone un contesto profondamente mutato, dove gli antichi abusi non potrebbero ripetersi, come si va sostenendo in altri paesi. Ma è davvero questa la conclusione che ci ispira la realtà italiana di oggi? O proprio il lodo Alfano ci dà una indicazione in senso contrario, ci conferma che il vecchio vizio di tagliare gli strumenti legislativi sulla propria misura è tutt´altro che scomparso?

Tornando a gettare uno sguardo sugli altri paesi, l´esperienza francese ci dice che bisogna prestare attenzione al modo in cui si arriva a concedere l´immunità alle più alte cariche dello Stato. In Italia, abbiamo assistito ad una sequenza molto semplice, e inquietante. La conosciamo. Per allontanare dal Presidente del consiglio un specifico processo, si è minacciato di sospenderne decine di migliaia. Quando si è realizzato il vero risultato di tutta quella manovra, la tutela di Berlusconi, la norma sulla sospensione dei processi è stata modificata (anche se pure la nuova formulazione suscita gravi perplessità). E questo è stato salutato da più d´uno come un successo della ragionevolezza, mentre era il risultato di una manovra al fondo ricattatoria, che bisogna chiamare con il suo vero nome.

Non è possibile, allora, tirare sospiri di sollievo, quasi che il problema, alla fine, fosse solo quello di liberarsi di una vicenda sgradevole, di eliminare un inciampo sulla strada del dialogo e delle riforme. Il lodo Alfano è stato, appunto, una riforma con la quale si è data una nuova curvatura al nostro ordinamento. Senza una più solida e determinata politica di opposizione, è concreto il rischio di trovarsi ancora di fronte a qualche "prendere o lasciare", alla minaccia di sfasciare tutto per portare a casa quel che davvero interessa. Prima ancora che il Lodo Alfano fosse definitivamente approvato, da Parigi il Presidente del consiglio ha cominciato a lanciare messaggi proprio in questa direzione.

Anche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande, apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa. Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes. Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente in ogni chiesa.

L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di «misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero». Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa. L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione: «Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente».

Tuttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso. Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi, che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia: quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli immoti dati del suo corpo e della sua genetica.

Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti. Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie. Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente» nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.

A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne, da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman (Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in mente il bambino di Varsavia.

Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom, emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano, povero.

Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per protestare contro la schedatura.

I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi - più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere. Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde.

I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta, in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non c’è più nessuno per protestare.

L’adesione alla manifestazione

contro le "Leggi canaglia"

È urgente che esista la pietra dello scandalo.

È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti, del linguaggio, della visione, delle memorie) è vasta e progredisce.

Non è importante il nome che si dà al regime in cui viviamo. Conta la sua sostanza: la maggioranza che ignora e vilipendia la minoranza, la separazione dei poteri messa in questione, il trionfo degli interessi particolari e privati di chi è a capo del governo, l'impunità garantita a un impressionante numero di crimini, l'esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall'infanzia perché appartenente a altre etnie o razze.

Scegliete il nome che volete, purché il nome abbia rapporto con la sostanza.

Barbara Spinelli

Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell’estate di settant’anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una «esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno», da compiersi «con celerità, precisione e massimo riserbo». La schedatura fu completata in una decina di giorni.

Furono 47.825 gli ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l’espulsione). Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. «Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.

Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!

Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: «Lo facciamo per il loro bene». A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi? Lo so che proporre un’analogia fra l’Italia 1938 e l’Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L’esperienza sollecita a distinguere fra l’innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant’anni fa.

Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati nel libro già citato: nomadismo e «repulsione congenita dell’idea di Stato»; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.

Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come «non integrabilità» di «certe etnie»; propense – per natura? per cultura? per commercio? – al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l’ennesima volta che negli ultimi vent’anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.

Un’opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all’ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l’abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l’emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui…

Il censimento etnico del 1938, «destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare», come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.

L’iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell’ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari. Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane – pochissime delle quali "in regola" – se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l’immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.

Un’insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all’inciviltà futura.

Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell’attesa che si plachi l’allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell’illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l’odio e la guerra fra poveri.

Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l’esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali. L’ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l’unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l’"integrazione" come utopia buonista.

A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un’altra reminescenza dell’estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.

Postilla

Sacrosante l’informazione e la riflessione di Gad Lerner. Verrebbe voglia di farne “diffusione militante”, di impiegare l’ottimismo della volontà per convincere i più. Ma purtroppo il filo del pensiero si dirige verso altre sponde. Ricordiamo di aver sentito pochi giorni fa, a Prima pagina di Rai Radio 3, un bravo giornalista di la Repubblica, Sebastiano Messina, rispondere a una signora, che lo accusava di essere troppo tenero con Maroni, con le seguenti parole: “Ma, signora, a me Maroni non mi è particolarmente simpatico, ma bisogna riconoscere che almeno lui sta cercando di fare qualcosa per questi poveri bambini zingari che i genitori non mandano a scuola, sta cercando di fare qualcosa per loro”.

Da allora non sento più Prima pagina: se un giornalista “democratico” parla così…. E poi, quando parlo con altre persone indignate come me per questi rigurgiti di razzismo e mi raccontano di mille casi di affermazioni di disprezzo e paura e repulsione per gli “altri” (gli extracomunitari, gli “ebreacci”, gli zingari, i “negri”), mi viene da domandarmi: ma in che paese viviamo, ma che società abbiamo lasciato che si formasse. Sono convinto che la grande scommessa tra civiltà e inciviltà è stata perduta quando si è lasciato che scomparisse, dagli attrezzi degli uomini, lo spirito critico: la capacità di ragionare sulle cose al di là dei luoghi comuni, di cominciare a pensare alle parole, al loro senso, al loro uso. Forse è di là che bisogna ricomi

Gli osservatori raccontano un vivamaria che trasfigura la crisi italiana in commedia. Soliti attori. Canovaccio arcinoto. Vi appaiono pubblici ministeri; giudici; due processi; condotte border line; conversazioni licenziose (aumentano l’audience). L’imputato Silvio Berlusconi veste i panni dell’agnello sacrificale (o del satanasso) di un corpo togato ostinatissimo a non cedere il suo potere (per alcuni abusivo, per altri benedetto). Come se la crisi italiana fosse immutabile e si potesse soltanto esplorare – oggi, come tre lustri fa – lungo la faglia che separa la politica e la magistratura; il potere sovrano dall’ordine giudiziario. Appendice abituale: il mondo diventa bianco o nero, si divide in "giustizialisti" e "garantisti", in "buoni" e "cattivi" (categorie trasmutabili). Fosse così, le lune non sarebbero poi così nere: è il passato che non passa. Questo teatro di maschere non rappresenta però la radicalità delle mutazioni che cova la crisi italiana.

Berlusconi è il solito lupo dallo stomaco forte, è vero. Lavora pro se. Chiede immunità (al solito). A meno di cataclismi o errori grossolani, la otterrà presto. Se il suo problema fosse soltanto l’impunità, spento l’appetito, dovrebbe fermarsi. Tirerà diritto, invece. Governa tra le macerie e il campo è deserto. Ne è consapevole (e appagato, quale sovrano non lo sarebbe?). Si gode gli utili di una società che ha trasformato il cittadino in consumatore, i diritti in desiderio di benessere (da noi, ha contribuito a inventarla). È favorito dal fallimento del progetto (democratico-capitalistico) di eliminare, attraverso lo sviluppo, le classi povere. Osserva la fine del "progressismo" come conciliazione di capitale e lavoro; democrazia e populismo; cultura e televisione; cattiva coscienza e abiura della memoria. Scruta con compiacimento l’eclissi della politica, subalterna all’economia e perfino alla religione. Prende atto della morte del linguaggio stesso della politica: formule come popolo, nazione, democrazia, Costituzione che cosa significano oggi? Indicano, al più, realtà ormai lontane dai concetti che designavano un tempo. Deve fare i conti con il declino di uno Stato che, dagli anni Settanta, per troppo tempo dunque, ha recuperato in legalità – con un’iperfetazione di leggi, norme, obblighi, istanze di punizione che hanno rinvigorito il potere togato – quel che andava perdendo in legittimità.

Il sovrano sa che – alle viste – non c’è alcuno (partito, istituzione, élite, opinione pubblica) che dia espressione e senso a questo deficit politico e culturale, attualissimo. Il Pd, se è nato, è ancora in fasce, privo di linguaggio e quindi di pensiero: si balocca, in mancanza d’altro, con totem inattuali (un "dialogo" che non c’è). Casini, residuale, non riesce a declinare, dall’opposizione, la sua grammatica della moderazione. Di Pietro, sostenuto dalle "agenzie del risentimento", si colloca tra i suoi migliori alleati con un letale "tanto peggio, tanto meglio". La sinistra radicale, suicidatasi, fatica a rinascere. Cala il capo l’establishment, incerto del suo stesso destino (non c’è posto per tutti sul carro: in tempi di stagnazione, qualcuno morirà). La società appare ammutolita in una zona opaca di indifferenza, confusa dal rumore dei media. È davvero una "crisi" che si può rappresentare nel conflitto – "novecentesco" e nazionale – di politica e magistratura? È, al contrario, il paradigma di una compiuta modernità. Pare che soltanto Berlusconi ne sia consapevole, forse per istinto di predone, forse per chiaroveggenza di mago. Dichiara lo Stato un guscio vuoto. Ne recupera la pura struttura di sovranità e dominio. Chiede di esercitarla senza limiti, in nome del "potere costituente del popolo", con una "decisione" che lascia indistinto il diritto e l’arbitrio, il lecito e l’illecito, l’umano e l’inumano, l’eccezione e la regola. È una tecnica di governo che gli permette (è cronaca) di inaugurare un "diritto della diseguaglianza"; di organizzare "campi di identificazione" al di fuori di ogni garanzia carceraria; di raccogliere le impronte di un’etnia; di trasformare i soldati in poliziotti; presto di smontare gli istituti dello stato sociale che reggono il patto costituzionale. In soldoni, di separare la legge da ogni principio costituzionale, il giudizio da ogni possibile contenuto etico. Quel che abbiamo di fronte allora non sono le "naturali" e prevedibili tensioni interne di una democrazia che fatica a trarsi fuori da una troppo lunga transizione. È, piaccia o meno, la metamorfosi di una democrazia. Bisogna comprenderla, immaginarne gli esiti e le ragioni, prima di liquidarla con qualche pittura pigra o stereotipo antico.

Occorre soprattutto prendere atto che oggi il Paese fa i conti con quell’unico progetto. L’obiettivo primario e dichiarato di Berlusconi (anche i distratti lo vedono, se sono in buona fede) è la riduzione di poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella sua figura di premier e nel ruolo di garanzia del presidente della Repubblica. Berlusconi si muove "in parallelo" alla Costituzione (sospensione dei processi, lodo Alfano, detenzioni senza reato, discriminazione etniche), lungo un percorso "duale" che pretende "ordinario". Bypassa la Carta, ma senza riformarla. Intende contrattare di volta in volta le sue decisioni non nel quadro politico dove competono le forze sociali e politiche, ma in un rapporto diretto (e minaccioso) con chi – di quei principi – è custode (Napolitano). Anche così si deve raccontare la "battaglia" del Csm, come è stata definita. Il botta e risposta, che ne è seguito, tra Quirinale e Palazzo Chigi. Anche in questo caso, siamo nell’officina di una metamorfosi.

Non c’è alcun dubbio che il Consiglio possa offrire al ministro di giustizia un parere sul prevedibile pandemonio provocato dalla sospensione dei processi. «È materia organicamente sua» (Cordero) offrire indirizzi, proposte, avvisi (anche non richiesti) alla discrezionalità del Guardasigilli. Napolitano lo ricorda («Non può suscitare sorpresa o scandalo che il Csm formuli un parere»). Vuole raffreddare il clima: «Non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al Csm non spetti in alcun modo un vaglio di costituzionalità». Ma in ballo non è "il parere" in quanto tale, è il suo peso politico-istituzionale, è il sostegno (indiretto) che può offrire a chi avrà l’obbligo di pesarne presto la coerenza con i principi. Non c’è che dire, il terreno di scontro è ben scelto da Berlusconi. Il Csm, tra gli organi costituzionali (o a rilevanza costituzionale), è il più ambiguo: "potere dello Stato" e insieme "organo di amministrazione". Incompetente a esprimere – direttamente o indirettamente – la sovranità nazionale eppure legittimato a concorrere con le sue proposte alla formazione dell’indirizzo politico. Nella sua autonomia, protetto da divieti preventivi imposti da altri poteri (li pretendevano Schifani e Fini), ma stretto in confini costituzionali che gli impediscono interventi che interferiscono con le altrui prerogative (lo rammenta il capo dello Stato). È quest’ambiguità che consente a Berlusconi di protestare come illegittima ogni parola sui rischi di norme che possono contrastare con la prima legge dello Stato, dimentico che «l’organizzazione giudiziaria è intessuta della concretezza dei principi costituzionali» (è impossibile discutere di quella, senza interpellare gli altri).

L’offensiva del premier, alla fin fine, non indebolisce la discrezionalità del Consiglio nell’esercizio delle sue attribuzioni. Esclude dal "dialogo" istituzionale il Parlamento, già consegnatosi all’impotenza, e un ministro designato al servizio del sovrano e non della giustizia. Libera il campo per quel «confronto a due» a cui Berlusconi chiede protezione per i suoi passi storti. Diventa come un "memento" al capo dello Stato, che avrebbe potuto farsi scudo anche del parere del Consiglio. Se, come dice, trasformerà in provvedimento con forza di legge il divieto di intercettazioni (il capo dello Stato ne ha già escluso l’urgenza), Berlusconi pare già pronto alla mischia. Presenza solitaria nella debolezza dei poteri dello Stato, Napolitano è destinato presto a diventare il punto di attrito e di resistenza alle pressioni del premier nella costruzione della Terza Repubblica, modernissima e inquietante creatura.

Non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi. Da quel che possiamo intravedere nello scabro latino attribuito alle XII Tavole, gli abitanti della Roma arcaica - gli antenati di coloro che sarebbero diventati i padroni del mondo - erano letteralmente atterriti dal buio, già nelle loro stesse case. E nella Francia del Cinquecento, agli esordi della modernità, il terrore non doveva essere meno diffuso. «Paura panica (…) paura sempre, paura dovunque»: così scrive di quegli anni Lucien Febbre in un saggio sul problema dell´incredulità, che ancora leggiamo come un grande classico.

Il paradosso è che però le nostre società contemporanee – almeno in questa parte del mondo – sono anche, e di gran lunga, gli ambienti più sicuri che la storia abbia mai conosciuto: non per caso le nostre aspettative di vita si stanno allungando in modo quasi prodigioso, impensabile ancora agli inizi del Novecento, e ciò sta cambiando dall´interno la qualità stessa delle nostre esistenze. Ma la diffusione del timore e dell´ansia non si placa di fronte a una simile evidenza. Al contrario, se ne alimenta, rovesciando ogni conquista materiale, ogni soglia di agio raggiunta, nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell´incubo della loro imminente vanificazione. Si apre così una spirale senza fine, che sta trasformando la nostra età in un´autentica epoca d´angoscia – un fenomeno ormai molto studiato, di cui però non mi pare sia stato ancora messo a fuoco il punto cruciale, e cioè il rapporto che la rete mondiale dei mercati tende a stabilire fra tecnica e vita, fra benessere materiale e padronanza del proprio destino. Mentre la paura si sta installando come la compagna quotidiana di masse sempre più vaste e infoscate, e stiamo imparando a riconoscerla come il più popolare dei nostri sentimenti.

Dovunque in Occidente il discorso pubblico è stato investito in pieno da questa ondata, e il nesso fra politica e paura è diventato un vero e proprio segno del tempo. Ma è stato particolarmente in America e in Italia che la destra ha saputo trarne per prima vantaggio: Bush ha costruito gran parte della sua fortuna agitando lo spettro del terrorismo, e Berlusconi, da noi, non ha esitato a ridisegnare l´intera immagine del suo partito, dimenticando il trascinante ottimismo delle origini, per riuscire a intercettare il lungo brivido d´ansia che si sollevava dal Paese.

E si può dire ancora qualcosa di più. Che cioè è stata proprio questa capacità di interpretare e di dar voce alla nuova paura italiana che ha reso (o almeno ha fatto sembrare) la nostra destra davvero – e per la prima volta – una destra di massa e di popolo, capace di aggregare intorno a sé qualcosa di molto vicino a un blocco sociale e culturale relativamente compatto. All´opposto, lo schieramento di centro sinistra si è drammaticamente rivelato, in questo frangente, incapace di capire, di sintonizzarsi, di tradurre in politica la preoccupazione e il pessimismo diffuso nel corpo sociale, riducendosi a figurare come una parte chiusa, ingessata, tendenzialmente tecnocratica ed elitaria, in sostanza lontana dalle attese e dai bisogni degli elettori, votata all´autoreferenzialità e attenta solo al dosaggio fra le sue componenti.

Il nostro è un Paese culturalmente fragile, almeno dal punto di vista politico. La fine dei grandi partiti attraverso i quali è avvenuto il nostro non limpidissimo apprendistato repubblicano e democratico ha acuito una debolezza che ha origini molto lontane, cui non è estraneo il millenario magistero della Chiesa. Abbiamo sempre i nervi scoperti, e l´antipolitica a portata di mano. Ciò ci rende ancor più sensibili ed esposti rispetto alle contraddizioni di un´economia globale che per giunta sta avendo su di noi impatti sociali più forti che altrove (anche qui per ragioni connesse a storiche inadeguatezze e a squilibri mai compensati). Percepiamo – sia pure in modo confuso – che la sicurezza complessiva della nostra società sta aumentando, e di molto, ma percepiamo anche – e in modo assai netto – che le quote (per dir così) di questa nuova sicurezza si dividono tra gli aspiranti in modo drammaticamente diseguale, e che gli strumenti per accedervi – mobilità, spazio, informazione, tempo, servizi – si concentrano secondo modalità incontrollate. La consapevolezza dello scarto non si inscrive tuttavia in un´ormai impensabile coscienza di classe, ma dilata solo «l´orizzonte delle paure», come ha scritto Ezio Mauro su questo giornale il 17 giugno, e rende disponibili a una rappresentanza politica che fa, appunto, del timore e della frustrazione il suo collante, che tende a sostituire la delega alla partecipazione, e si mette alla testa delle nuove "plebi"(o presunte tali) non con un messaggio di riscatto radicale, ma con la suggestione di cure assolutamente parziali, però brutalmente efficaci e immediate: Robin Hood tax, ronde e tessere di povertà. E per il resto, calcio (ma l´avete visto il Tg1, in queste sere?), congiunto all´ostentata esemplarità – tra mito e reality – di irresistibili ascese "private", baciate dal denaro e dalla fortuna.

Non sarà facile sostituire all´asse maggioritario fra destra e paura, un opposto legame, fra sinistra e speranza. Ma credo proprio che solo questo potrà essere il nostro compito, e che vi sia d´altra parte – nel mondo che ci aspetta – una intrinseca e oggettiva somiglianza fra la composizione organica della nuova paura e quella della nuova destra (l´idea del vincolo, del limite, del ritorno – altro che libertà!), come ve ne sia una, alternativa, fra sinistra e speranza (l´idea della liberazione, del superamento, della ragione che sa farsi progetto e futuro). Mettersi su questa strada non è semplice. Essa presuppone una critica conseguente dei lati negativi della globalizzazione, che, pur assumendo quest´ultima come un punto di non ritorno – ciò deve restare fuori questione, nello stesso modo in cui lo era per Marx la società capitalistica – sia capace di rendere plausibili ed evidenti le linee di un suo riequilibrio virtuoso, prima locale ma poi completamente planetario. C´è bisogno cioè che la critica dell´economia globalizzata si apra su quella che Jonas e Bauman chiamano una nuova "immaginazione etica", adeguata alle nostre responsabilità, e su una nuova teoria della politica. E questo non sarà possibile se non si tornerà a lavorare, in Europa, a un nuovo rapporto fra intellettuali e popolo, post-ideologico, ma non post-democratico. Sarà bene che l´architettura culturale del Pd che sta nascendo ne tenga debito conto.

A lungo la cultura politico-costituzionale italiana (come del resto quella europea fin dalla Costituzione di Weimar) si è interrogata sul tema di quale dovesse essere il rapporto tra la rendita fondiaria e la tutela dei beni comuni. Il problema è tuttavia scomparso dalle odierne agende «riformiste» (il manifesto del 12 maggio) senza che il compromesso «alto» fra proprietà privata e democrazia raggiunto dalla Costituzione italiana del 1948 abbia ottenuto seguito. (Il tema è stato ripreso da Stefano Rodotà su la Repubblicadi lunedì 11 maggio). Tutte le forze capaci di realizzare quel capolavoro politico-culturale che fu la Costituzione sposarono una logica di lungo periodo ponendo le premesse ed i principi per la realizzazione di un sistema economico-politico misto (Art. 42 e 43 della Costituzone) la cui concreta realizzazione veniva lasciata alla dinamica parlamentare.

Un presupposto fondamentale di ogni economia mista è quello per cui il cosiddetto «surplus cooperativo», ossia la crescita di ricchezza collettiva derivate dall’aggregazione degli individui in società, appartiene a tutti e deve essere utilizzato quindi nell’interesse di un progresso civile e sociale che coinvolga tutti i cittadini di uno stato. In una economia mista, dunque, tale surplus cooperativo non può infatti essere automaticamente ed interamente assorbito dalla proprietà privata. Infatti, se il mio alloggio aumenta di valore, tale aumento è prodotto dalla pressione urbanistica, provocata dal fatto che gli uomini e le donne che vivono o vogliono vivere in citta assieme alle attività economiche e sociali tendono a concentrarsi in certe zone piuttosto che altre.

Sono queste attività sociali che determinano l’aumento del valore della mia proprietà in modo del tutto indipendente dal costo della fabbricazione o dalla qualità dei materiali adoperati per costruirla. Una casa di qualità splendida in una zona «depressa» vale molto meno di una casa costruita con materiali scadenti o anche completamente diroccata in una zona ad alta pressione urbanistica. La forbice fra il valore della proprietà privata sul mercato immobiliare ed il costo (materiali e lavoro) dell’immobile è nota come rendita fondiaria.

La potenza del debito

A chi appartiene questo surplus cooperativo (utilizzando il gergo della teoria dei giochi) o se si preferisce una locuzione più tradizionale, la rendita fondiaria? Oggi, l’ideologia dominante ritiene del tutto scontato che la rendita fondiaria appartenga al proprietario, e anche quel minimo di sua socializzazione prodotta dalla tassazione immobiliare (unica forma di imposta patrinoniale nel nostro sistema) è sotto attacco. Tale comune percezione dimostra il successo dell’ideologia neoliberale, dimenticando il fatto che fino a pochi anni fa la principale preoccupazione delle diverse discipline (sociologia, economia, diritto) che si dedicavano al fenomeno urbanistico era di fornire alla politica gli strumenti istituzionali necessari per governare la rendita fondiaria nell’interesse della collettività che la produce. In altre parole la rendita fondiaria, prodotta da tutti, costituisce un esempio di ricchezza comune, che la politica dovrebbe poter utilizzare nell’interesse di tuttimache quasi sempre viene interamente assorbita dal privato proprietario che così sfrutta una rendita di posizione.

Dopo un quarto di secolo di sostanziale silenzio, di proprietà pubblica, beni comuni e del loro rapporto con la proprietà privata si è ripreso a discutere anche in Italia nel quadro del dibattito sul risanamento dei conti pubblici e sul debito aperto dalla nota proposta di Giuseppe Guarino di vendere il patrimonio immobiliare pubblico per ripianare un debito insostenibile. Il dibattito si è riscaldato principalmente in reazione alla tendenza apparentemente inarrestabile alla privatizzazione e dismissione dei beni pubblici e comuni per esigenze di spesa corrente (la cosiddetta finanza creativa).

La vulgata neo-riformista infatti ha presentato la proprietà pubblica come una specie di buco nero che assorbe risorse senza produrre nulla di cui occorre disfarsi al più presto possible. Le operazioni di dismissione sono state così condotte al di fuori da qualsiasi garanzia costituzionale, come se fosse ammissibile e naturale per un governo in carica, liberarsi di tutto un patrimonio comune garantito dalla Costituzione proprio perchè costruito negli anni con sforzo collettivo. Inoltre, a causa di un quadro normative obsoleto, contenuto nel Codice Civile del 1942 e mai modificato al fine di renderlo coerente con la Costituzione del 1948, qualsiasi privatizzazione anche dei beni pubblici più importanti è stata determinata da un semplice decreto ministeriale di «sdemanializzazione»: al di fuori quindi non solo da qualsiasi controllo costituzionale ma anche senza bisogno di alcun coinvolgimento del Parlamento. Insomma, in Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza parlamentare del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (la collettività dei cittadini italiani) quasi sempre trasferendolo sottocosto ad attori privati e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali «cartolarizzazioni».

Miracoli del censimento

Grazie anche ad un libro fondamentale e coraggioso del Rettore della Scuola Normale di Pisa (Salvatore Settis, Italia S.p.A.) i rischi di tale politica sono stati messi all’ordine del giorno. Si è avviata così una fase di riforme del regime dei beni culturali che hanno ricevuto in poco tempo attenzione bipartisan in forma di un «Codice» (e quindi legislativa) legato al nome di Urbani prima e di Rutelli poi. Ma il patrimonio pubblico, non è affatto limitato ai beni culturali (che pure, soprattutto in Italia, ne sono una componente non trascurabile) e la sua buona gestione e garanzia costituisce una delle più importanti trasformazioni strutturali necessarie per portare la nostra organizzazione sociale in sintonia con la visione della Repubblica italiana contenuta nella Costituzione.

Pur prescindendo dalla rendita fondiaria, fra i beni pubblici infatti ci sono le principali infrastrutture del paese, dalle autostrade alle ferrovie ai porti agli aeroporti, ospedali, tribunali, scuole, asili, prigioni, cimiteri ma anche foreste, parchi, acque, frequenze radiotelevisive e telefoniche, proprietà intellettuale pubblica, crediti fiscali. Il censimento di tali ricchezze ingentissime è iniziato con il «Conto patrimoniale della Pubblica amministrazione» voluto da Giulio Tremonti nel 2004 e per gran parte degli immobili è stato recentemente completato dall’Agenzia del Demanio. Sappiamo adesso che il valore di questo patrimonio pubblico italiano è altissimo, il più alto in Europa, ed è quindi verosimile che la buona gestione di questa ricchezza, secondo principi giuridici generalmente condivisi, possa dare benefici estremamente significativi (non solo economici) alla collettività che, ai sensi della nostra Costituzione, ne è proprietaria.

Non bisogna dimenticare infatti che la collettività non è composta soltanto da proprietari privati ma anche da nullatenenti la cui unica proprietà è pro quota quella pubblica. Di qui il riproporsi dell’annoso conflitto fra proprietà privata e democrazia, alla cui soluzione di principio hanno lavorato i nostri costituenti. Discutere di come utilizzare la proprietà pubblica è perciò questione fondamentale all’interno di un regime politico democratico e il luogo in cui ciò deve avvenire non può che essere il Parlamento perchè il Ministero dell’Economia, a tacer d’altro, è oberato dalle esigenze di far cassa sul breve periodo.

La comunità accademica si è fatta sentire e nel giugno del 2007 il Guardasigilli accolse le raccomandazioni espresso un anno prima dall’ Accademia Nazionale dei Lincei. Con un decreto ministeriale del 21 giugno 2007, l’allora ministro della giustizia Clemente Mastella investì del tema del regime giuridico della proprietà pubblica e della riforma delle parti del Codice Civile che lo riguardano una Commissione affidandone la guida a Stefano Rodotà, uno dei più prestigiosi studiosi internazionali della proprietà. La commissione, composta fra gli altri da «amministrativisti » del calibro di MarcoD’Alberti o da economisti come Giacomo Vaciago, ha completato i suoi lavori nel febbraio scorso a governo dimissionario e Parlamento sciolto. La proposta di legge delega da essa prodotta, è stata tuttavia ripresa e discussa lo scorso mese in una giornata di studio all’Accademia dei Lincei e si trova oggi nelle mani del guardasigilli Angelino Alfano che potrebbe dar prova di autentica volontà riformista di lungo periodo presentandola al più presto al Consiglio dei Ministri al fine di portarla in Parlamento per la discussione.

Fra le più significative innovazioni che il Parlamento dovrebbe dunque discutere vi è l’introduzione di una nozione di beni comuni, che apartengono a tutti i consociati, e che l’ordinamento deve tutelare e salvaguardare anche a beneficio delle generazioni future. Secondo la «Commissione Rodotà» i beni comuni di proprietà pubblica dovrebbero essere gestiti da soggetti pubblici ed essere collocati fuori commercio proprio al fine di evitarne il saccheggio privato.

Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

Un patrimonio da salvaguardare

La Commissione per la riforma del Codice Civile ha inoltre previsto altre categorie di beni pubblici, alcuni dei quali, «che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali», sono ad appartenenza pubblica necessaria e quindi a loro volta non privatizzabili. Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale.

Altri beni sono pubblici non in quanto collegati alla sovranità dello Stato ma in quanto indissolubilmente legati alle esigenze organizzative dello Stato sociale previsto dalla Costituzione italiana: «Sono beni pubblici sociali quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona». Vi rientrerebbero tra gli altri: le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio. Secondo la proposta della Commissione tali beni non potrebbero essere alienati senza che lo stesso livello di servizi sociali sia garantito attraverso altri beni sostitutivi. Tutti gli altri beni pubblici vengono definiti fruttiferi: essi sono alienabili e gestibili dalle persone pubbliche con strumenti ordinari di diritto privato. L’«alienazione » è consentita però solo quando siano dimostrati il venir meno della necessità dell’utilizzo pubblico dello specifico bene e l’impossibilità di continuarne il godimento in proprietà con criteri economici.

Progettualità di lungo periodo

A questa struttura giuridica generale, che cerca di recuperare una progettualità di lungo periodo sviluppando, dopo sessant’anni, il mandato costituzionale, corrispondono diverse proposte volte a coniugare l’equità anche intergenerazionale con l’efficienza economica e gestionale.

In questo itinerario la cultura giuridica ed economica italiana, in dialogo con le più significative esperienze estere, ha cercato di offrire alla politica alcuni strumenti tecnici di avanguardia per affrontare in modo progettuale nell’interesse di tutta la nostra collettività, un futuro di risorse sempre più scarse. Sapranno i «nuovi» Berlusconi e Tremonti, il primo rinnovato statista, il secondo «mercatista» pentito, abbandonare la via della paura ed imboccare finalmente quella della speranza, affrontando in spirito autenticamente bipartisan i veri nodi strutturali ancora da implementare?

Il caso ha voluto che l’annuncio del "pacchetto sicurezza" coincidesse con la discussione al Parlamento europeo sugli immigrati in Italia, alla quale la maggioranza ha reagito condannandola come una manovra contro il Governo. Brutto segno, perché rivela che non v’è consapevolezza della gravità di quel che è accaduto a Ponticelli, con un assalto razzista che la dice lunga sulle responsabilità dei molti "imprenditori della paura" all’opera in Italia.

Invece di riflettere su un caso che ha turbato l’Europa, ci si rifugia nella creazione di un nemico "esterno" dopo aver individuato il nemico "interno" nell’immigrato clandestino, nell’etnia rom. Ma l’iniziativa europea non è pretestuosa, perché i trattati sono stati modificati per prevedere un obbligo dell’Unione di controllare se gli Stati membri rispettano i diritti fondamentali.

Una prima valutazione del "pacchetto" mette in evidenza, accanto all’opportunità di alcune singole misure (come quelle relative all’accattonaggio e ai matrimoni di convenienza), una scelta marcata verso la creazione di un vero e proprio "diritto penal-amministrativo della disuguaglianza". Vengono affidati a sindaci e prefetti poteri che incidono sulla libertà personale e sul diritto di soggiorno delle persone, con una forte caduta delle garanzie che pone problemi di costituzionalità e di rispetto delle direttive comunitarie. Il diritto della disuguaglianza può manifestarsi anche attraverso le norme che prevedono la confisca degli immobili affittati a stranieri irregolari e disciplinano il trasferimento di denaro all’estero. Infatti, può determinarsi una spinta verso un ulteriore degrado urbano, visto che gli irregolari saranno obbligati a cercare insediamenti di fortuna. E la stretta sulle rimesse degli irregolari potrebbe far nascere forme odiose di sfruttamento da parte di intermediari.

Lo spirito del pacchetto si coglie con nettezza considerando il reato di immigrazione clandestina. A nulla sono servite le perplessità all’interno della maggioranza, i moniti del mondo cattolico (da ascoltare solo quando invitano ad opporsi alle unioni di fatto e al testamento biologico?), le osservazioni degli studiosi. Si fa diventare reato una semplice condizione personale, l’essere straniero, in contrasto con quanto la Costituzione stabilisce in materia di eguaglianza. Si prevedono aggravanti per i reati commessi da stranieri, incrinando la parità di trattamento con riferimento alla responsabilità personale.

È inquietante la totale disattenzione per quel che ha già stabilito la Corte costituzionale, in particolare con la sentenza n. 22 del 2007 che ha messo in guardia il legislatore dal prendere provvedimenti che prescindano «da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili», introducendo sanzioni penali «tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi di eguaglianza e proporzionalità». Questa logica va oltre il reato di immigrazione clandestina, impregna l’intero pacchetto, ignorando che «lo strumento penale, e in particolare la pena detentiva, non sono, in uno Stato democratico, utilizzabili ad libitum dal legislatore».

Dopo aver annunciato una sorta di secessione dall’Unione europea, accusata di faziosità, il Governo prende congedo dalla legalità costituzionale? Il Governo dovrebbe sapere che i suoi provvedimenti possono essere cancellati da una dichiarazione di incostituzionalità. Rimarrebbe, allora, solo l’"effetto annuncio" per gli elettori del centrodestra.

Così, neppure l’efficienza è assicurata. Un solo esempio. Tutti sanno che sono state presentate 728.917 domande di permesso di soggiorno (411.776 vengono da colf e badanti). I posti disponibili sono 170.000. Una volta esaurite le pratiche burocratiche, dunque, rimarranno fuori 558.917 persone. Che cosa si vuole farne? Che senso ha, di fronte a questa situazione, parlare di reato e abbandonarsi a proclamazioni «mai più sanatorie»?

Ora i governanti parlano di una attenzione particolare per le badanti, ma la soluzione non sta nella ridicola procedura della legge Bossi-Fini, che subordina l’ingresso in Italia alla preventiva chiamata di un datore di lavoro. Chi farebbe arrivare una badante, alla quale affidare funzioni di cura, senza averla vista in faccia? Ed è inaccettabile la furbesca soluzione di far tornare: gli immigrati per una settimana nel loro paese, farli poi chiamare dal loro attuale datore di lavoro e così farli rientrare regolarmente. Ma che razza di paese è quello che dà una lezione di aggiramento delle leggi proprio agli immigrati dai quali si pretende il rispetto della legalità?

Si dice: in altri paesi l’immigrazione clandestina è reato. Ma non si può usare la comparazione prescindendo dal contesto costituzionale, dalle modalità che regolano l’accesso, dal sistema giudiziario. Quali effetti avrebbe sul nostro sistema giudiziario e sulle carceri l’introduzione di quel reato? Sarebbe insensato caricare le corti di diecine di migliaia di nuovi processi, condannando a morte un processo penale già in crisi profonda e rendendo più complesse le stesse espulsioni. Le carceri, già strapiene, scoppierebbero, o salterebbero tutte le garanzie facendo diventare i Cpt veri centri di detenzione. E tutto questo per colpire persone considerate pericolose "a prescindere", quasi tutte colpevoli solo di fuggire per il mondo alla ricerca di una sopravvivenza dignitosa. E la promessa di accoglienza per le badanti "buone", lascia intravedere ritardi burocratici e possibili arbitri. Si corre il rischio di avere norme, insieme, pericolose e inefficienti.

Queste contraddizioni nascono dal trascurare le diverse forme di sicurezza che proprio l’immigrazione ha prodotto. Per le persone e le famiglie, anzitutto. Come ricorda Luca Einaudi nel libro su Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità ad oggi, le schiere delle badanti hanno consentito di passare da un welfare sociale ad un welfare privato, diffondendo l’assistenza alle persone al di là delle classi privilegiate. Vi è stata sicurezza anche per il sistema delle imprese, provviste di manodopera altrimenti introvabile. E sicurezza per il paese, visto che è stato proprio il contributo al Pil degli immigrati ad evitare rischi di recessione tra il 2003 e il 2005, a contribuire al pagamento delle pensioni di tutti.

Detto questo, il tema dell’insicurezza non può essere affrontato ricordando solo che le statistiche sull’andamento dei reati dimostrano, almeno in alcuni settori, una loro diminuzione. Il senso di insicurezza non nasce solo dal diffondersi di fenomeni criminali, ma da una richiesta di protezione contro un mondo percepito come ostile, contro presenze inattese in territori da sempre frequentati da una comunità coesa, dunque contro mutamenti culturali. Che cosa fare?

Quando un sindaco coglie pulsioni profonde tra gli abitanti del suo comune, non può andare in televisione dicendo «non chiedo la pena di morte, ma capisco chi la invoca». Deve piuttosto evocare l’ombra di un Gran Lombardo e ricordare che Beccaria contribuì all’incivilimento del mondo con le sue posizioni contro la pena di morte. Quando un sindaco vede a disagio i suoi concittadini nella piazza del paese, non fa togliere le panchine per evitare che gli immigrati vadano lì a sedersi. Quando le situazioni s’infiammano, non si propone un "commissario per i Rom", confermando così l’ostilità contro un’etnia intera. Qui sta la differenza tra svolgere una funzione pubblica e il farsi imprenditori della paura.

Nel discorso di presentazione del Governo, il Presidente del Consiglio ha sottolineato che «la sicurezza della vita quotidiana deve essere pienamente ristabilita con norme di diritto che siano in grado di affermare la sovranità della legge in tutto il territorio dello Stato». Ben detto. Si aspetta, allora, una strategia di riconquista delle regioni perdute, passate sotto il controllo di camorra, ‘ndrangheta, mafia. Non è un parlar d’altro. Proprio la terribile vicenda napoletana ha messo in evidenza il protagonismo della camorra, unico potere presente, imprenditore della paura che esercita la violenza per accrescere la propria legittimazione sociale.

La discussione parlamentare deve ripulire il "pacchetto", concentrarsi sulla migliore utilizzazione delle norme esistenti, sul rafforzamento delle capacità investigative, sull’adeguamento delle risorse. Mano durissima contro le vere illegalità, contro chi sfrutta il lavoro nero e contro il caporalato, contro le centrali del commercio abusivo, dell’accattonaggio, della prostituzione. Non ruolo da sceriffo, ma capacità di mediazione da parte dei sindaci, incentivando le "buone pratiche" già in atto in molti comuni.

Mi sarei aspettato qualche proposta complessiva del "governo ombra", non l’eterno agire di rimessa, segno di subalternità. E i sondaggi siano adoperati ricordando la lunga riflessione sui plebisciti come strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica. Esempio classico: la richiesta ai cittadini di pronunciarsi sulla pena di morte all’indomani di una strage. La democrazia è freddezza, riflessione, filtro. Se perde questa capacità, perde se stessa.

Beni materiali come immobili e terreni; grandi infrastrutture come porti, aeroporti, strade, autostrade, acquedotti; e poi risorse naturali come i parchi, le montagne, il paesaggio, i beni d´interesse storico e culturale. E anche beni immateriali come la moneta, i crediti pubblici, marchi, brevetti, opere dell´ingegno, frequenze elettromagnetiche, diritti televisivi su manifestazioni sportive e quant´altro. Il patrimonio pubblico è una cornucopia di attività che vale, secondo le stime degli esperti, il 140% del Prodotto interno lordo. Ma solo il 25%, pari a 400 miliardi di euro, composto di crediti, partecipazioni, immobili e concessioni, è in grado di produrre reddito.

Oggi questo ingente patrimonio ha un rendimento netto negativo. Se si riuscisse a farlo fruttare almeno il 2%, si otterrebbero circa 10 miliardi all´anno da utilizzare nel conto economico della Pubblica amministrazione. Più o meno, la metà di una Finanziaria di medie dimensioni.

Sul fronte dei beni considerati in eccesso rispetto alle funzioni pubbliche, si calcola poi che il valore complessivo degli immobili ammonti a 100-150 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti crediti e partecipazioni. Dalla privatizzazione di questi cespiti, sempre che costituiscano una "mano morta" per lo Stato e senza comprendere le aziende che svolgono effettivamente attività d´interesse pubblico, si potrebbero recuperare in futuro dai 10 ai 15 punti di Pil. Una riserva disponibile, dunque, che può contribuire a finanziare la costruzione di nuove opere o la riduzione del debito pubblico – un mostro che divora ogni anno 70 miliardi di interessi – nell´ordine di 0,5-1 punto di Prodotto interno all´anno.

È un assurdo tutto italiano che il patrimonio demaniale venga amministrato ancora in base a un "corpus" giuridico di dieci articoli (da 822 a 831), contenuti nel Codice civile del 1942 (Libro III, titolo I, capo II). Sono passati più di sessant´anni e questa disciplina risulta ormai obsoleta, incapace di regolare le trasformazioni intervenute nel frattempo. Ma adesso il nuovo ministro della Giustizia e soprattutto quello dell´Economia troveranno sul loro tavolo la bozza di un disegno di legge-delega, predisposto da una commissione nominata nel giugno scorso dall´ex ministro Clemente Mastella; presieduta da Stefano Rodotà, ordinario di Diritto civile all´Università La Sapienza di Roma; e composta da diversi giuristi ed economisti, tra cui il vice-presidente Ugo Mattei, ordinario di Diritto civile all´Università di Torino; Giacomo Vaciago, ordinario di Politica economica all´Università Cattolica di Milano ed Edoardo Reviglio, docente di Scienza delle Finanze all´Università di Reggio Calabria, al quale si devono le stime riportare all´inizio.

Il progetto elaborato dalla Commissione Rodotà introduce, innanzitutto, una nuova categoria fondamentale: quella dei "beni comuni" che non rientrano strettamente nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa e possono appartenere anche a soggetti privati. Oltre alle risorse naturali (fiumi, laghi, aria, parchi, boschi, foreste e coste dichiarate riserva naturale), ne fanno parte i beni archeologici, culturali e ambientali. «Sono beni che – come si legge nella relazione di accompagnamento – soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento e per assoluta insufficienza delle garanzie giuridiche». La Commissione li definisce come cose che hanno utilità funzionali all´esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, con riguardo anche alle generazioni future.

È stata prevista perciò una disciplina particolarmente garantistica, in grado di preservarne in ogni caso un godimento collettivo. La possibilità di concessione dei "beni comuni" ai privati viene rigidamente limitata. E mentre il diritto al risarcimento o alla restituzione in caso di danni o di appropriazione spetta allo Stato, la facoltà di ricorrere alla magistratura per inibirne l´uso improprio è riconosciuta a chiunque possa usufruirne, in quanto titolare di un corrispondente diritto soggettivo.

Per quanto riguarda i "beni pubblici", appartenenti a soggetti pubblici, il progetto della Commissione Rodotà abbandona la distinzione formalistica fra demanio e patrimonio, sostituendola con tre nuove categorie: beni ad appartenenza pubblica necessaria; beni pubblici sociali e beni fruttiferi. I primi sono quelli che soddisfano interessi generali fondamentali, come la sicurezza, l´ordine pubblico, la libera circolazione. E comprendono le opere destinate alla difesa; la rete ferroviaria, stradale e autostradale; i porti e gli aeroporti. Per tutti questi beni, viene introdotta una disciplina rafforzata rispetto a quella oggi in vigore per i beni demaniali: oltre a restare inalienabili e non soggetti a usucapione, ricevono garanzie esplicite in materia di tutela risarcitoria e inibitoria.

I "beni pubblici sociali" soddisfano esigenze della persona particolarmente rilevanti nella società dei servizi, cioè le esigenze corrispondenti ai diritti civili e sociali. Ne fanno parte, fra gli altri, le case dell´edilizia residenziale pubblica, gli ospedali, gli edifici scolastici e universitari, le reti locali di pubblico servizio. Per tutti questi beni, il vincolo di destinazione d´uso può cessare solo se venga assicurato il mantenimento o il miglioramento dei servizi sociali erogati. La tutela amministrativa è affidata allo Stato e a enti pubblici anche non territoriali.

L´individuazione della terza categoria, quella dei "beni pubblici fruttiferi", tende a favorire appunto l´utilizzazione più efficiente del patrimonio pubblico, con maggiori benefici per l´erario. Si tratta, in sostanza, di beni privati in appartenenza pubblica, alienabili e gestibili con strumenti di diritto privato. Ma sono stabiliti limiti precisi alla loro alienazione, proprio per impedire le "dismissioni facili" e comunque per privilegiare un´amministrazione efficiente da pare di soggetti pubblici.

Nella stessa prospettiva, il disegno di legge-delega fissa una serie di criteri per garantire al meglio la gestione e la valorizzazione dei beni pubblici. In particolare, si prevede per il loro uso il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi che può trarne chi li utilizza, con meccanismi di gara fra più offerenti. E inoltre, vengono introdotti nuovi strumenti di tutela in ordine all´impatto sociale e ambientale che deriva dal loro uso.

Al di là degli aspetti economici, «il progetto – come sottolinea lo stesso professor Rodotà – riconduce questa parte del Codice civile ai principi fondamentali della Costituzione, collegandone l´utilità alla soddisfazione dei diritti della persona e al perseguimento di interessi pubblici fondamentali». Non più "mano morta", insomma, ma neppure "dismissione facili" o peggio "svendite di Stato" che favoriscano pochi privilegiati a danno di tutti i cittadini. Se il patrimonio è comune, anche i benefici che se ne ricavano devono essere il più possibile comuni.

Con la scusa del popolo

di Gad Lerner

Difficile, soprattutto per dei politici, mettersi contro il popolo. Col rischio di passare per difensori della delinquenza, dei violentatori, dei ladri di bambini. E’ questa, infatti, la percezione passivamente registrata dai mass media: un popolo esasperato, l’ira dei giusti che finalmente anticipa le forze dell’ordine nel necessario repulisti.

Ma siamo sicuri che "il popolo" siano quei giovanotti in motorino che incendiano con le molotov gli effetti personali degli zingari fuggiaschi, le donne del quartiere che sputano su bambini impauriti e davanti a una telecamera concedono: "Bruciarli magari no, ma almeno cacciarli via"? Che importa se parlano a nome del popolo i fautori della "derattizzazione" e della "pulizia etnica", i politici che in campagna elettorale auspicarono "espulsioni di massa", i ministri che brandiscono perfino la tradizione cattolica per accusare di tradimento parroci e vescovi troppo caritatevoli?

La vergogna di Napoli, ma anche di Genova, Pavia e tante altre periferie urbane, non ha atteso l’incitamento dei titoloni di prima pagina, cui ci stiamo purtroppo abituando. "Obiettivo: zero campi rom" (salvo scatenarsi se qualche sindaco trova alloggi per loro). "I rom sono la nuova mafia" (contro ogni senso delle proporzioni). "Quei rom ladri di bambini" (la generalizzazione di un grave episodio da chiarire). Dal dire al fare, il passo dell’inciviltà è compiuto. Perfino l’operazione di polizia effettuata ieri con 400 arresti e decine di espulsioni sembra giungere a rimorchio. La legge preceduta in sequenza dalla furia mediatica e popolare, come se si trattasse di una riparazione tardiva.

Chi si oppone è fuori dal popolo. Più precisamente, appartiene alla casta dei privilegiati che ignorano il disagio delle periferie. Ti senti buono, superiore? Allora ospitali nel tuo attico! L’accusa, e l’irrisione, risuonano ormai fin dentro al Partito democratico. Proclama Filippo Penati, presidente di centrosinistra della Provincia di Milano: "I rom non devono essere ‘ripartiti’, bisogna farli semplicemente ripartire". E accusa Prodi di non aver capito l’andazzo, di non aver fatto lui quel che promettono i suoi successori. Nel 2006 fu Penati, insieme al sindaco Moratti, a chiedere al comune di Opera di ospitare provvisoriamente 73 rom (di cui 35 bambini). Dopo l’assedio e l’incendio di quel piccolo campo, adesso è stato eletto sindaco di Opera il leghista rinviato a giudizio per la spedizione punitiva. Mentre si è provveduto al trasferimento del parroco solidale con quegli estranei pericolosi.

La formula lapalissiana secondo cui "la sicurezza non è né di destra né di sinistra" appassisce, si rivela inadeguata nel tumulto delle emozioni che travolge la cultura della convivenza civile. Perfino la politica sembra derogare dal principio giuridico della responsabilità individuale di fronte alla legge. Perché un conto è riconoscere le alte percentuali di devianza riscontrabili all’interno delle comunità rom, che siano di recente immigrazione dalla Romania, oppure residenti da secoli in Italia, o ancora profughe dalla pulizia etnica dei Balcani. Un conto è contrastare gli abusi sull’infanzia, la piaga della misoginia e delle maternità precoci, i clan che boicottano l’inserimento scolastico e lavorativo, la pessima consuetudine degli allacciamenti abusivi alla rete elettrica e idrica.

Altra cosa è riproporre lo stereotipo della colpa collettiva di un popolo, giustificandola sulla base di una presunta indole genetica, etnica. Quando gli speaker dei telegiornali annunciano la nomina di "Commissari per i rom", sarebbe obbligatorio ricordare che simili denominazioni sono bandite nella democrazia italiana dal 1945. Il precetto biblico dell’immedesimazione – "In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall’Egitto" – dovrebbe suggerirci un esercizio: sostituire mentalmente, nei titoli di giornale, la parola "rom" con la parola "ebrei", o "italiani". Ne deriverebbe una cautela salutare, senza che ciò limiti la necessaria azione preventiva e repressiva.

La categoria "sicurezza" non è neutrale. Ne sa qualcosa il centrosinistra sconfitto alle elezioni, e solo degli ingenui possono credere che se Prodi, Amato o Veltroni avessero cavalcato l’allarme sociale con gli stessi argomenti della destra il risultato sarebbe stato diverso. Qualora il nuovo governo applichi con coerenza la politica di sicurezza annunciata, è prevedibile che nel giro di pochi anni il numero dei detenuti raddoppi, o triplichi in Italia. Scelta legittima, anche se la sua efficacia è discutibile. Quel che resta inaccettabile è il degrado civile, autorizzato o tollerato con l’alibi della volontà popolare. Insopportabili restano in una democrazia provvedimenti contrari al Codice di navigazione – l’obbligo di soccorso alle carrette del mare – o che puniscano la clandestinità sulla base di criteri aleatori di pericolosità sociale.

Da più parti si spiega l’inadeguatezza della sinistra a governare le società occidentali con la sua penitenziale vocazione "buonista". E’ un argomento usato di recente da Raffaele Simone nel suo "Mostro Mite" (Garzanti), salvo poi trarne una previsione imbarazzante: la cultura di sinistra col tempo sarebbe destinata a essere inclusa, digerita dalla destra. Discutere un futuro lontano può essere ozioso, ma è utile invece riscontrare l’approdo a scelte comuni là dove meno te l’aspetteresti: per esempio sulla pratica delle ronde a presidio del territorio.

Naturalmente gli assalti di matrice camorristica ai campi rom di Ponticelli non sono la stessa cosa della Guardia nazionale padana. Che a sua volta non va confusa con i volontari di quartiere proposti dai sindaci di sinistra a Bologna e a Savona. Nel capoluogo ligure, per giustificare la proposta, è stata addirittura evocata l’esperienza del 1974, quando squadre antifasciste pattugliarono la città dopo una serie di bombe "nere". Il richiamo ai servizi d’ordine sindacali o di partito è suggestivo, quasi si potesse favorire così un ritorno di partecipazione e militanza che la politica non sa più offrire. Ma è dubbio che nell’Italia del 2008 – afflitta da nuove forme di emarginazione come i lavoratori immigrati senza casa, le bidonvilles fucine di criminalità ma spesso impossibili da cancellare – le ronde possano considerarsi uno strumento di democrazia popolare.

Dobbiamo sperare in una reazione civile agli avvenimenti di questi giorni, prima che i guasti diventino irrimediabili. Già si levano voci critiche ispirate a saggezza, anche nella compagine dei vincitori (Giuseppe Pisanu). Il silenzio, al contrario, confermerebbe solo l’irresponsabilità di una classe dirigente che ha già cavalcato gli stupri in chiave etnica durante la campagna elettorale.

Il pogrom moderno

di Adriano Prosperi

"Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case": proprio voi, telespettatori, lettori di giornali, guardate e chiedetevi se sono esseri umani questa donna, quest’uomo e questo bambino che una fotografia terribile ci ha mostrato caricati coi loro stracci sul pianale di un’Ape, in fuga davanti a popoli ebbri di sangue.

Così, con le parole di Primo Levi, avrebbe potuto e dovuto cominciare qualunque reportage sugli eventi di Ponticelli se il giornalismo riuscisse sempre ad avere una memoria lunga e una funzione civile, se non si riducesse talvolta a essere la registrazione muta di orrori quotidiani o la feroce amplificazione di pregiudizi e razzismi diffusi. Là dove si alzano ancora cumuli di immondizia le fiamme consumano ora baracche, materassi e stracci nelle tane dove altri esseri umani hanno trovato un rifugio meno che bestiale.

La parola pogrom è uscita dalle rievocazioni storiche della Shoah per diventare realtà. Non è nemmeno escluso che si possa alla fine scoprire che stavolta – per la prima volta – gli zingari hanno cominciato a rubare bambini, come voleva il pregiudizio di quell’Italia contadina che aveva tanti figli e non conosceva altra ricchezza che la sua prole. Ma c’è un’altra prima volta, questa certa e indiscutibile, che riguarda noi, gli italiani. Da oggi la parola «pogrom» ha cessato di indicare solo tragedie di altri tempi e di altri popoli per diventare la definizione di atti compiuti da folle di italiani.

Dobbiamo capire perché: e non ci aiutano le grida di incoraggiamento alle folle inferocite che giungono quasi da ogni parte politica. Bisognerebbe che qualcuno facesse un esame pacato di quel che è accaduto nelle nostre città e in quella vasta, informe e desolata periferia in cui è stata trasformata tanta parte del suolo della penisola. Come tutti sanno, la mercificazione dei suoli edificabili è stata una fonte essenziale per risolvere i problemi di bilancio delle amministrazioni pubbliche. Chi doveva pensare a provvedere di luoghi vivibili gli emarginati, gli immigrati, i residui gruppi umani non stanziali, ha fatto tutt’altro. Una frazione crescente di umanità abita oggi in Italia sotto i ponti dei fiumi e delle autostrade, vicino alle discariche, in contesti di discarica obbligata, senza acqua corrente, con stufe di fortuna. Qualcuno forse ricorda ancora altri bambini oltre a quelli «rubati» dai rom – i figli di famiglie rom morti nei roghi provocati da stufe occasionali. E ci sono altre storie che hanno un sapore tristemente familiare: quella del bambino rom che non vuole più andare a scuola perché i compagni lo escludono dal gruppo e dicono che è sporco, che puzza. Anche per gli ebrei dei secoli scorsi si diceva che fossero sporchi e riconoscibili dall’odore: ma lo dicevano coloro che prima li avevano chiusi negli spazi stretti e senza acqua dei ghetti.

Ma il problema in assoluto più grave è un altro: come e perché gli italiani sono diventati razzisti? Come e quando le autorità di governo prenderanno iniziative serie per l’integrazione civile e per la tutela giuridica di tutti gli abitanti del paese? Per ora, si assiste solo a una gara a chi grida di più, a chi trova le parole più minacciose contro gli sventurati, contro i dannati della terra. E’ una raffica di provvedimenti di polizia, veri o ventilati, una gara in cui sono impegnati amministratori locali e poteri centrali di ogni colore e che sarebbe ridicola se non fosse tragica per gli effetti di insicurezza e di violenza che provoca. Siamo già alle ronde. Aspettiamo l’arrivo degli squadroni della morte e delle polizie fai-da-te.

Certo, se lo sguardo si ferma non su quella fotografia ma sulle altre che le fanno dissonante compagnia sulle prime pagine – quelle scattate nelle aule del Parlamento – ci sarebbe di che rallegrarsi. Non più risse nel Palazzo: anzi un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e opposizione, un gusto della correttezza, uno scimmiottamento del perfetto stile anglosassone che fanno pensare a quelle caricature dei nostri vezzi provinciali in cui eccelleva Alberto Sordi. Di fatto nel Palazzo circola un’aria di intesa e di pace che riscalda il cuore: il governo e la sua ombra camminano lungo la stessa linea di luce, come si conviene a un paese che ha una coscienza non più divisa. E tuttavia, è spontaneo per chi ha una memoria lunga riflettere sulla opposizione speculare tra l’Italia nuova, quella della pace nei palazzi del potere e della guerra tra poveri, e l’Italia antica, quella della durissima lotta tra partiti inconciliabili e dello spirito di solidarietà diffuso in una società memore della sua storia e delle sue radici popolari. Oggi il Palazzo e la Piazza appaiono ancora una volta divisi, ma la loro divisione è di tipo insolito e inquietante. Diceva Francesco Guicciardini della Firenze del ‘500 che «spesso tra il palazzo e la piazza c’è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che...tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che si fanno in India».

Oggi ancora una volta la scena italiana è divisa tra il palazzo e la piazza. Ma se allora era il popolo che non vedeva ciò che facevano i potenti nel palazzo, oggi sono i potenti che sembrano non vedere quel che accade nelle piazze e nelle periferie di questo nostro paese. O forse lo vedono: forse il pensiero nascosto dietro tutto quel fair play è che conviene a chi sta sul ponte di comando lasciare che la violenza scatenata dal malgoverno sia incanalata contro i soliti capri espiatori.

In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, che cadrà nel 2011, un gruppo di intellettuali ha progettato una serie di iniziative, da rinnovarsi ad anni alterni, che si raccolgono sotto il nome di Biennale Democrazia. A collaborare all’iniziativa sono chiamati la città di Torino e il «Comitato Italia 150», già al lavoro nel capoluogo piemontese. Presidente di Biennale Democrazia è Gustavo Zagrebelsky. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Com’è nato, professore, il vostro progetto?

«L’idea è sorta fra un gruppo di amici, sulla scìa di un preciso precedente, cioè del ciclo di conferenze che si tenne a Torino nella primavera-autunno del 2004, dedicato alla figura di Norberto Bobbio e centrato su temi etici e politici. Ci impressionò, allora, l’interesse suscitato, anche fra la gente comune, dalla personalità e dall’opera di Bobbio. Nei due teatri, il Regio e il Carignano, che ospitavano le conferenze, affluirono migliaia di persone per conoscere nei particolari il pensiero del filosofo. Quella serie di interventi, di cui fu animatore Pietro Marcenaro, parlamentare del Partito Democratico, venne poi raccolta dall’editore Einaudi nel volume Lezioni Bobbio, uscito nel 2006. Abbiamo pensato di dare un seguito a quell’esperienza in un’accezione più ampia: non un semplice ciclo di conferenze, ma un lavoro continuativo, che si concreterà, ogni due anni, in una settimana di lezioni».

Quando esordirà la Biennale Democrazia?

«La prima sessione la terremo l’anno prossimo, dal 22 al 26 aprile: una settimana che incrocia l’anniversario della Liberazione. Sarà una sorta di prova generale delle celebrazioni previste per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Nel 2009 saranno cento anni dalla nascita di Bobbio. Alla base di tutto c’è l’aspirazione a considerare l’intera vicenda risorgimentale non solo nella dimensione statale e territoriale, già interamente realizzata, ma anche in senso etico-politico. Disegno, quest’ultimo, che rientra fra i compiti ancora da perseguire».

Due fasi distinte, dunque, dell’unificazione nazionale. Con quale rapporto fra loro?

«La democrazia è un insieme di aspirazioni mai realizzate una volta per tutte. Già l’unificazione geografica ha creato dei problemi, esemplificati per molti decenni dalla questione meridionale. Ed ecco che essa si presenta, oggi, in una nuova forma: come questione settentrionale. L’una e l’altra "questione" si legano fra loro come fattori confluenti di disgregazione. Ne risulterebbe un paese unificato nel desiderio di scindersi. I fondamenti di legittimità della nostra democrazia sembrano essere entrati in crisi, riducendosi nella pratica a motivi di discordia».

Certo, un bel paradosso. Anche perché risulta chiaro che non si tratta di una mera controversia territoriale, ma di una sostanziale contesa etico-politica.

«Un vero assetto democratico presuppone la tendenziale uguaglianza fra i cittadini. In Italia ci si trova, invece, di fronte a una situazione nella quale - a cominciare dalla disponibilità delle conoscenze - si verifica uno squilibrio crescente, acuito dallo sviluppo delle nozioni tecnologiche. Alla democrazia si contrappone, in molti casi, la tecnocrazia. Ciò riguarda la condizione interna di ciascuno stato, ma anche la democrazia a livello internazionale».

In che modo si presentano, particolarmente in Italia, questi problemi?

«Guardi lo stato in cui versa la scuola. Si cerca di risolverne le difficoltà mediante un approccio di tipo tecnico, privilegiando gli aspetti meramente professionali dell’insegnamento: si pensi, per dirne una, alla trovata delle tre «i», concepita nel 2002 da Silvio Berlusconi: inglese, internet, impresa. Un approccio d’indole esecutiva. La democrazia, invece, richiede cittadini capaci non solo di eseguire, ma anche di decidere che cosa realizzare, perché e come. E’ in questa prospettiva che va considerata la sfida che ci pone oggi l’istruzione».

L’immigrazione, accanto ai suoi riflessi positivi, presenta una fisionomia tale da aggravare simili inconvenienti. Come si pensa di farle fronte?

«Occorre integrare gli immigrati in uno stile di vita che non disconosca le loro particolarità, ma si fondi su un ethos minimo condiviso. Esso dovrebbe in primo luogo comportare la comune rinunzia alla violenza, che genera paura».

E viceversa. Ecco un circolo vizioso che va interrotto. Con quali interventi?

«Il vero antidoto è l’adozione di un tipo di sicurezza che non agisca a senso unico, ma quale componente d’un contesto generale. Riferiamoci a una proposta attuale: le ronde. Esse, che pure mirano a un obiettivo di sicurezza, diffondono violenza e moltiplicano la paura. Ciò appunto perché non rappresentano un rimedio di sistema. Risentono, al contrario, di pulsioni esclusive e "di parte"».

So bene che il tema democrazia è inesauribile. Ma quali proposte concrete avanzerete nella prima sessione della vostra Biennale?

«Pensiamo, per cominciare, proprio al coinvolgimento delle scuole. Prenderemo in esame le proposte provenienti dal mondo dell’istruzione: docenti e studenti. Riprodurremo e diffonderemo a Torino esperimenti attuati in altre zone d’Italia».

Può farmi qualche esempio?

«Eccone uno, denominato "le belle tasse": titolo che venne adottato in epoca non sospetta, prima cioè che il ministro Padoa Schioppa affermasse, con una battuta controversa, che "pagare le tasse è bello". L’esperimento si svolse fra gli allievi delle scuole elementari di Roma. A ciascuno scolaro fu assegnato un gruzzolo in monete di cioccolata per finanziare, mediante tassazione, un qualche progetto comune: una festa, una gita, una recita. Nacquero subito, fra i piccoli contribuenti, alcune domande: alla spesa dobbiamo partecipare tutti nella stessa misura, o qualcuno pagherà di più e qualche altro di meno? E ci sarà chi farà il furbo, evitando di contribuire? Sono, "in nuce", i problemi della democrazia fiscale, dal giusto gravame dei tributi all’evasione e all’elusione».

Avete in programma altre iniziative capaci di interessare ampi ceti sociali?

«Progettiamo di promuovere esperimenti di democrazia deliberativa, attraverso discussioni fra cittadini informati. Si fornisce a un campione di persone una serie di dati di conoscenza imparziali su un tema controverso: il voto agli immigrati, poniamo. Dopo aver sottoposto l’argomento a dibattito, si confronteranno i risultati della conversazione con le opinioni iniziali dei partecipanti. E’ un esempio dei progetti capillari che confluiranno nelle "lezioni magistrali" previste per la settimana. Ad assistere alle quali inviteremo qualche centinaio di studenti che abbiano partecipato alle iniziative preparatorie. Vorremmo, per ospitarli, predisporre un "campus" con la collaborazione del comune di Torino».

Torniamo ai presupposti ideali di Biennale Democrazia. In quale misura al conseguimento della seconda Unità d’Italia, quella etico-politica, potrebbe essere di ostacolo la funzione che in Italia esercita la Chiesa? Mi riferisco all’interventismo della Santa Sede nelle vicende pubbliche.

«L’unificazione cui pensiamo implica la partecipazione di tutti i soggetti portatori di istanze etiche. A patto che nessuna di queste forze si erga ad unico interprete autorizzato dell’ethos nazionale».

Non è la prima volta nella storia d’Europa che la cronaca nera prende uno spazio abnorme e simbolico: nelle scelte governative, nelle campagne elettorali, nel farsi delle carriere politiche, nelle strategie dei mezzi di comunicazione. Accadde già una volta nella belle époque: tempo smanioso d’impazienza e di risse, che Thomas Mann chiamò epoca della Grande Nervosità. Nel 1907, il giornale La Petite République, fondato dal socialista Jaurès, titolò in prima pagina: «L’insicurezza è alla moda, questo è un fatto». Il clima era assai simile al nostro: analogo fascino del crimine, analoghe illusioni di rese dei conti. Insicurezza e cronaca nera vennero politicizzate, in Francia, sullo sfondo di vaste dispute sulla pena di morte. Facevano paura le bande di giovani nei quartieri difficili, proprio come oggi: Apache era il loro nome. Proprio come oggi s’invocava una rottura. Categoria che Foucault ebbe a definire, in un’intervista a Telos dell’83, deleteria: «Una delle più dannose abitudini del pensiero moderno è di parlare dell’oggi come di un presente di rottura». Buona parte degli Apache scomparve nella carneficina del ’14-’18.

Oggi il fantasma riappare, con forza speciale dopo l’11 settembre e lo svanire dell’Urss. È la tesi dello studioso Laurent Mucchielli, che ha pubblicato una raccolta di testi sul ruolo che l’insicurezza ha svolto nell’ascesa di Sarkozy. In realtà la sicurezza s’era fatta invadente da tempo, con l’espandersi delle estreme destre in Europa. Già negli Anni 90 la figura del nemico cambia («Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico», disse Georgij Arbatov, in Urss).

Divenuto meno visibile il nemico esterno, si scopre l’Islam non solo fuori ma dentro casa, si escogitano nuovi reati (tra essi la mendicità), e ai cittadini viene offerto il nemico interno, il capro espiatorio da abbattere. I disordini nelle periferie son descritti come guerre civili - Los Angeles ’92, Francia 2005 e 2007 - e la controffensiva si militarizza. La paura diventa lievito della politica: in Usa, Francia, e ora Italia. Il libro di Mucchielli s’intitola: La Frenesia della Sicurezza (La Découverte).

La frenesia risponde a bisogni concreti, soprattutto in zone di non-diritto, dove l’urbanistica ha fatto scempi: zone grigie, le chiamano i consulenti privati cui si rivolgono i governi, di «guerriglia degenerata».

La società Pellegrini, cui spesso ricorre Sarkozy, parla di guerra civile. È quest’esagerazione che desta dubbi, negli esperti di banlieue. Nelle teorie del nemico interno l’insicurezza non è un male da sanare, riformando giustizia, prevenzione, controllo. L’età nervosa trasforma l’insicurezza da problema, che era, in soluzione, in occasione sfruttabile. Anche la paura cessa d’esser problema e diventa soluzione, investimento politico. I giornali fanno la loro parte, un po’ per vendere un po’ per conformismo. Quasi non sembrano accorgersi della manipolazione che subiscono, dei profitti che politici e imprese private traggono dalla paura.

L’emozione che prende il posto della comunicazione, l’ossessione delle cifre, il linguaggio bellico, le «lunghe scie di sangue»: la stampa imita il politico, perde autonomia, invece di registrare e interpretare escogita titoli-arpioni. È quello che i politici vogliono: «Il silenzio mediatico è un errore», disse il ministro dell’Interno Sarkozy in un discorso ai prefetti del 2003. Così da noi: i telegiornali aprono su un delitto, per poi allacciarsi senza soluzione di continuità a duelli elettorali. E lo spettatore è trascinato nel vortice, diventa attore teleguidato di quella che David Garland, in un libro del 2002, chiama società penale: con il suo voto e la sua rabbia s’immagina demiurgo di nuovi ordini (La Cultura del Controllo, Saggiatore 2004).

La frenesia è passione disperata e panica, non fiduciosa nel progresso sociale ma dominata dal catastrofismo, dall’idea che il criminale sia un individuo predeterminato geneticamente, immutabile. Sono le convinzioni di Sarkozy: non ha più senso la polizia di prossimità, che provava a integrare i giovani in banlieue. «La migliore prevenzione è la sanzione». Decenni di lavoro sulle radici della violenza vengono liquidati, giudicati buonisti, sociologici. Quando paura e insicurezza diventano la Soluzione, il problema svanisce. Il populismo penale straripa, imponendo non riforme di lungo respiro ma pletoriche leggi ad hoc, e politiche dichiarative, simboliche, dettate da permanente indignazione.

In Francia, che per l’Italia è oggi paese laboratorio, il vocabolario bellico adattato all’ordine pubblico è preso in prestito dall’epoca coloniale. Lo spiega Mathieu Rigouste, studioso di scienze sociali: i consulenti più apprezzati dai politici, sulle banlieue, combinano dottrine della contro-insurrezione elaborate nella battaglia d’Algeri con l’odierna lotta al terrore. Così vien cancellato il confine tra sfera civile e militare, tempo di pace e di guerra, interno e esterno. Certo è presto per valutare conclusivamente i risultati di queste politiche, ma un primo bilancio è possibile. L’ossessione delle cifre, della rapidità, della cronica drammatizzazione non ha dato per ora veri risultati.

Il poliziotto-giustiziere appare ancora più illegittimo, nelle banlieue. Le carceri si riempiono, aprendo la via a indulti precipitosi. Soprattutto non funziona la panacea tecnologico-militare (videosorveglianza, biometria): il terrorista non teme la morte né l’occhio altrui. La rapidità è proficua solo in parte: impedisce analisi accurate, corre al risultato-show. È in Inghilterra, dove Blair ha inasprito la repressione, che la percentuale dei minorenni delinquenti è la più forte (20 per cento sulla criminalità globale). In Norvegia, dove perdura il modello «sociologico-protezionista», la percentuale è inferiore al 5 per cento. Mucchielli cita poi una distorsione che conosciamo bene: lo slogan Tolleranza Zero vale per tutti i crimini, «tranne per quelli economici e finanziari: contrariamente ad altri tipi di delinquenza, il governo (francese) cerca, in nome della “modernizzazione” del diritto degli affari, di depenalizzare i comportamenti delinquenti». È la società duale descritta da Garland: da un lato chi s’avvantaggia della deregolamentazione liberista, dall’altra una società disciplinata da regole morali più tradizionali e inasprite.

La politica della paura si concilia male con il pragmatismo che Sarkozy incarna agli occhi di molti. Pragmatismo sempre più incensato, e sempre più equivoco: perché una politica sia efficace, non basta dire che essa «non è di destra né di sinistra». Non c’è nulla di pragmatico nell’ossessione delle cifre, nel disprezzo dei poliziotti di prossimità, nel correre affrettato verso il risultato spettacolare, qualunque esso sia. Non sono pragmatiche le pene minime ai recidivi, che riducono l’autonomia dei giudici. O la carcerazione preventiva che tocca a chi ha già purgato la pena ma viene giudicato tuttora potenzialmente pericoloso (da una commissione di esperti, come voluto dal presidente Sarkozy).

Le ronde proposte dalla Lega possono aver senso: alcuni cittadini partecipano al controllo del territorio, «armati solo di telefonini». Ma non deve significare che Stato e polizia abbassano le braccia. Che la società non solo si autocontrolla ma reprime (salvaguardando ampie zone d’impunità economica, come s’è visto). È per evitare il linciaggio che abbiamo giudici e polizia separati dalla società. Quando ciascuno spia, denuncia, reprime il diverso, il mondo rischia di farsi villaggio, letteralmente: non ordine cosmopolita, ma borgo natio dove il controllo sociale protegge senza freni, e il cittadino perde l’anonimato garantito dalla metropoli, non sfugge agli sguardi, e impara a vivere nel sospetto, senza più lasciar vivere.

Di prima mattina, il 5 febbraio del 62 dopo Cristo, in Campania si verificò uno spaventoso terremoto che nel volgere di pochi secondi uccise migliaia di inconsapevoli abitanti. Vaste aree di Pompei crollarono travolgendo gli abitanti nel sonno e ogni tentativo di salvarli fu ostacolato dallo scoppio di vari incendi. I sopravvissuti si ritrovarono spogliati di ogni cosa, a eccezione degli abiti che avevano indosso e che erano completamente ricoperti di fuliggine, tra gli edifici un tempo eleganti ridotti in rovine. Attraverso l´Impero dilagarono spavento, incredulità e rabbia. "Come è mai possibile", si andava chiedendo, "che i romani, i più potenti al mondo, il popolo tecnologicamente più avanzato, i romani che hanno costruito acquedotti e soggiogato orde di barbari, siano così esposti agli insensati capricci della natura?".

La disperazione e lo sbigottimento - fin troppo diffusi oggi, all´indomani del terremoto al largo dell´Indonesia - attrassero l´attenzione del filosofo stoico romano Seneca. Egli scrisse una serie di testi volti a consolare i suoi lettori, ma, cosa assai tipica in Seneca, il conforto offerto fu del genere più rigoroso e fosco che si potesse concepire: "Voi dite ?Non pensavo che sarebbe accaduto´. Pensate dunque che esista qualcosa che non accadrà quando invece ben sapete che è possibile che accada, quando vedete voi stessi che è già accaduta?".

Seneca cercò di mitigare l´impressione d´ingiustizia che imperversava tra i suoi lettori ricordando loro - nella primavera del 62 - che i disastri naturali e quelli provocati dall´uomo faranno sempre parte della nostra vita, per quanto evoluti e sicuri noi si creda di essere diventati. Pertanto, anche nella nostra epoca dobbiamo sempre attenderci l´imprevisto: la calma è soltanto un intervallo nel caos. Nulla è certo, nemmeno il suolo sul quale poggiamo i piedi. Se non ci soffermiamo a riflettere sui rischi di improvvise onde gigantesche, se di conseguenza paghiamo uno scotto per la nostra ostinata ingenuità intenzionale, è perché la realtà comprende due diversi aspetti che disorientano in modo assai crudele: da una parte il senso di continuità e di sicurezza che si trasmette di generazione in generazione e dall´altra i cataclismi non preannunciati. In pratica, ci ritroviamo a esitare tra il plausibile invito a dare per scontato che il domani sarà molto simile all´oggi e la possibilità che andremo invece incontro a un evento spaventoso, dopo il quale nulla sarà più come prima. Ed è proprio perché abbiamo fortissimi incentivi a non prendere in considerazione il secondo dei due scenari che Seneca ci esortò a ricordare che il nostro destino è sempre nelle mani della Dea Fortuna. Costei può distribuire i suoi doni e poi, con terrificante velocità, osservarci mentre soffochiamo per una lisca di pesce incastrata in gola, o mentre chiudiamo gli occhi per sempre, scomparendo per colpa di uno tsunami insieme all´hotel nel quale eravamo alloggiati.

Il terremoto in Asia ha acquisito un rilievo del tutto particolare perché molte delle aree devastate erano zone turistiche, luoghi dove la gente si è recata espressamente alla ricerca della felicità, soltanto per trovarvi morte e caos. Se si visitano i siti Web degli alberghi ora devastati, si possono ancora osservare magnifiche immagini di spiagge assolate, di camere accoglienti, di barbecue in piscina o di immersioni nei fondali marini.

Seneca sostiene che proprio perché veniamo feriti maggiormente da ciò che non ci aspettiamo, laddove dobbiamo invece aspettarci di tutto ("Non vi è nulla che la Fortuna non osi"), dovremmo sempre tenere ben in mente l´eventualità che si verifichino gli eventi più terribili. Nessuno dunque dovrebbe mai accingersi a partire per un viaggio in macchina, né scendere le scale o salutare un amico senza la consapevolezza - che Seneca per altro non avrebbe voluto che fosse necessariamente funesta o tragica - che possa accadere qualcosa di fatale.

Considerando le nostre competenze tecnologiche, è diventato naturale credere di essere in grado di controllare il nostro destino. L´uomo non deve più essere il trastullo delle forze del caso: esercitando la ragione, tutti i nostri problemi possono essere risolti. Nulla è maggiormente lontano dalla mentalità di uno stoico. Piuttosto, sottolinea Seneca, noi dobbiamo accentuare la consapevolezza di ciò che in un qualsiasi momento della nostra vita può andare storto: "Nulla dovrebbe mai esserci imprevisto. La nostra mente dovrebbe anticipare tutto, in modo da poter far fronte a tutti i problemi. Noi dovremmo considerare non ciò che non è usuale che accada, bensì ciò che può accadere. Che cos´è infatti l´uomo? Un vaso che il più lieve urto, il più lieve movimento brusco può frantumare. Un corpo debole e fragile".

All´indomani del terremoto della Campania, molti sostennero che l´intera zona dovesse essere evacuata e che non si dovesse più edificare nelle zone a rischio di terremoto. Ma Seneca confutò l´implicito principio che sulla Terra potesse esistere un luogo - la Liguria, per esempio - nel quale ci si possa considerare del tutto al sicuro, lontani e al riparo dai capricci della Fortuna: "Chi può garantire che in questo o in quel sottosuolo si possono erigere fondamenta più solide? Tutti i luoghi hanno le medesime caratteristiche e se non sono ancora stati colpiti da un terremoto, ciò non di meno potranno esserlo in futuro. Sbagliamo se riteniamo che al mondo possa esservi un luogo esente da pericoli, sicuro? La natura non ha creato nulla di immutabile". Né - potrebbe aggiungere Seneca qualora fosse vivo oggi - la natura ha creato una costa che non potesse essere investita dall´avanzare della marea.

Per cercare di prepararci psicologicamente al disastro, Seneca invitava a sottoporsi ogni mattina a uno strano esercizio, che egli in latino chiamò praemeditatio - premeditazione - consistente nel rimanere sdraiati prima ancora di colazione e di immaginare tutto ciò che nell´arco della giornata che si ha davanti potrà andare storto. L´esercizio non è fine a se stesso, essendo stato concepito per prepararsi all´eventualità che la città in cui si vive venga distrutta la sera stessa o che per qualche ragione muoiano i propri figli. Così si legge in uno degli esempi di premeditazione: "Viviamo tra cose concepite tutte per cessare di vivere. Esseri mortali ci hanno dato la vita e noi stessi abbiamo dato vita a esseri mortali. Pertanto aspettiamoci di tutto".

Lo stoicismo pretenderebbe dunque che noi si accetti tutto ciò che la vita ci propina? No, essere stoici significa riconoscere quanto siamo vulnerabili nonostante tutto il nostro progresso. Seneca arrivò a chiederci di immaginare di essere simili a cani legati a un carro guidato da un conducente imprevedibile. Il guinzaglio è lungo abbastanza da poterci lasciare un certo qual margine di libertà di movimento, ma non così tanto tuttavia da consentirci di vagare a nostro piacere. Un cane spererebbe per sua stessa natura di potersi allontanare a suo piacimento, ma la metafora di Seneca implica che se non potesse farlo, sarebbe meglio per l´animale seguire docilmente il carro, invece che esserne trascinato a forza e finire strangolato. Così disse infatti Seneca: "L´animale che si dibatte rifiutando il guinzaglio finisce col serrarlo? non esiste giogo più stretto da ferire un animale di quello che l´animale stesso stringe, osteggiandolo invece di assecondarlo. Il miglior sollievo dai mali che ci opprimono consiste nel sopportare e nel piegarsi alla necessità".

Ritornando dunque al passato e alla saggezza dei filosofi stoici, potremmo trovare un metodo utile per ridimensionare alcune delle nostre aspettative e per smorzare il nostro shock davanti ai disastri naturali e allo spargimento di sangue. Nel 65 d. C. quando l´imperatore Nerone ordinò a Seneca di suicidarsi, la moglie e i suoi famigliari scoppiarono in lacrime. Seneca no, poiché aveva imparato a seguire il carro della vita con rassegnazione. Portandosi con tranquillità il coltello ai polsi, pronunciò una frase che faremmo bene a ripeterci, quando leggiamo le notizie sui giornali in alcune mattine particolarmente tristi. Egli disse: "Che bisogno vi è di piangere in alcuni momenti della vita? È per la vita tutta intera che si dovrebbe piangere".

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Traduzione di Anna Bissanti

Non ho seguito tutti i dibattiti, confronti, faccia-a-faccia preelettorali (Dio mi perdoni, credo sarei ammattita) ma insomma, interi o in parte, me ne sono fatti un discreto numero, compresi da cima a fondo i due Prodi-Berlusconi. E mai, dico mai, mi è capitato di sentir nominare, dico nominare, l'ambiente. Immagino che almeno Pecoraro Scanio lo abbia fatto, ma le non poche volte che l'ho incrociato sullo schermo, non ho avuto la ventura di ascoltarlo su questa materia.

Ora, a elezioni sperabilmente concluse, nonostante le previsioni di tempi lunghi per la formazione del nuovo governo, tutti si affannano a dar consigli al futuro premier. Tutti quasi esclusivamente parlando di conti da risanare, e concordemente indicando crescita, produttività, competitività, ai fini di un'indispensabile «risalita», in mancanza della quale l'Italia rischierebbe di rimanere esclusa da quella «ripresa» che nel resto del mondo sembra felicemente annunciarsi, anzi forse già c'è; e tutti suggerendo iniziative che aiutino le imprese ad aumentare dimensioni e fatturati così da reggere la furibonda guerra del mercato globale. Di che stupirci? Questi sono i temi e i toni che tengono banco nel mondo economico come in quello politico, a prescindere dagli orientamenti, praticamente in tutti i paesi. Consigli per tentar di arginare lo sconquasso ecologico nessuno si sogna di darne. Né sembra sfiorato dal dubbio che i consigli elargiti lo sconquasso lo aumenteranno.

E vien fatto di domandarsi: ma i politici e i loro consiglieri i giornali li leggono?

Non che i giornali, per carità, siano assenti dal gran coro che invoca produttività competitività crescita. E però tutti, e con una certa frequenza, strillano titoli a effetto e a piena pagina per dire di calotte polari che si sciolgono, di deserti che avanzano, di fiumi giganteschi (Rio delle Amazzoni, Nilo, Fiume giallo) ridotti in secco, di alluvioni sempre più numerose e distruttive, e per ripetere che sono proprio le attività economiche in continua espansione a determinare una pressione insopportabile dagli ecosistemi e a comprometterne il regolare funzionamento. Lo dicono a una loro maniera schizoide, nel momento stesso in cui in altre pagine (le prime solitamente) levano lamenti sul Pil ostinatamente immobile, sull'auto che non tira come dovrebbe, insomma sulla stagnazione di quanto dello sconquasso è causa prima. Ma comunque lo dicono. E poiché notoriamente i giornali sono immancabili compagni di vita del politico di professione, parrebbe logico che leader di partito, parlamentari, ministri, conoscessero almeno l'esistenza del problema ambiente. O si deve pensare che le pagine dedicate alla materia le saltino a piè pari? Non ho risposte.

A meno che non abbia ragione Jeffrey D. Sachs della Columbia University il quale (su La Repubblica del 18 aprile scorso) afferma: «I nostri politici operano alla superficie degli eventi senza comprenderne le realtà sottese». Se così non fosse - arguisce - poiché si parla di «un possibile aumento di almeno quattro volte dell'economia mondiale entro il 2050», e dato che «il cambiamento climatico non è un timore per il futuro ma un processo già ben avviato», i responsabili delle nostre sorti capirebbero che "le sfide più importanti non sono gli scontri di civiltà, 'noi contro loro', ma quelle che 'noi, tutti insieme' dobbiamo affrontare per prevenire le catastrofi ecologiche e sanitarie che sono in agguato dietro l'angolo".

L'opinione è pienamente condivisa da Nicholas D. Kristof, noto scienziato americano che dopo aver descritto una delle possibili Apocalisse prossime venture (ancora La Repubblica, 19 aprile) dichiara: «Il nostro sistema politico non pare essere in grado di comprendere le questioni scientifiche come quelle del mutamento climatico», qualcosa cioè che «dovrebbe essere considerato una minaccia più grave di un Iran in possesso di una bomba atomica». E conclude: «La migliore ragione per agire in relazione al riscaldamento globale resta l'imperativo di proteggere il pianeta, ma i nostri leader stanno miseramente fallendo in tale responsabilità».

Appena qualche giorno prima era stato il primo consigliere scientiifico di Blair, Sir David King, in un'intervista diffusa dalla Bbc e ampiamente ripresa in prima pagina da The Indipendent del 15 aprile, a lanciare un duro richiamo al suo governo e all'Unione europea, colpevoli di non attenersi agli impegni assunti col secondo Protocollo di Kyoto. Sir David cita la previsione del Headley Centre for Climat Changeand Prediction, uno dei più famosi centri di analisi climatiche, secondo cui un ulteriore aumento della temperatura terrestre (3 gradi centigradi entro il secolo secondo le previsioni) comporterebbe rischio di malnutrizione per 400 milioni di persone, lascerebbe senz'acqua da uno a tre miliardi di individui, causerebbe una diminuzione dei raccolti di grano tra i 20 e i 400 milioni di tonnellate e la distruzione di metà delle risorse naturali mondiali. Ai politici convinti di potersi affidare semplicemente alla produzione di energie alternative per risolvere il problema, grida che dovrebbero piuttosto ascoltare gli scienziati. E conclude: «C'è differenza tra essere ottimisti e nascondere la testa sotto la sabbia».

Chissà se a qualcuno dei nostri politici è capitato di buttare un occhio su questi pesanti giudizi, che indirettamente riguardano anche loro, espressi da persone altamente qualificate e disinteressate? O se, vedi mai, hanno dedicato un minimo di attenzione a qualcuna delle notizie di ordinaria devastazione ecologica e umana, di recente qua e là fornite? Cito a caso dalle ultime due o tre settimane. L'immensa, irrespirabile nuvola di smog e sabbia che avvolge non solo Pechino, ma più di un milione e mezzo di chilometri quadrati di Cina, con 562 città e circa 200 milioni di persone, che raggiunge con polveri tossiche anche Corea e Giappone, che riempie gli ospedali e non ha trovato finora rimedi se non «stare a casa», secondo l'illuminato consiglio delle autorità. Elba e Danubio che innondano Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Serbia, con centinaia di migliaia di evacuati. Altre migliaia di evacuati in Australia per un ciclone con venti a 250 all'ora e onde di otto metri. Ventisette morti per un tornado nel Tennessee, Usa, due morti per un tornado vicino ad Amburgo, Germania. Morti e dispersi per piogge torrenziali e allagamenti in Kenya (quanti non si sa mai con precisione quando si tratta di profondo Sud).

Non si può spaventare la gente bombardandola di paure apocalittiche, dobbiamo tenere alto il morale. Così o pressappoco, di fronte a questo semplice richiamo alla realtà, immagino reagirebbe la grande maggioranza dei politici, indefettbili campioni di «pensare positivo». Vorrei rispondere - semmai qualcuno di loro getti uno sguardo su queste righe - ricordando un sondaggio pubblicato dal Corriere della Sera il 27 novembre dello scorso anno. Si domandava quale fosse la cosa più temuta, e ne risultava che il 63,2 per cento degli italiani temono soprattutto «la distruzione dell'ambiente». La temono più della perdita del lavoro, secondo item in graduatoria, ma con forte distacco (50,6), più di una nuova guerra (50,1), della mancanza di pensione (45,5), di nuove epidemie (40,7), ecc.

Se in campagna elettorale qualcuno dell'Unione si fosse ricordato almeno di citare il rischio ecologico, chissà mai che la vittoria potesse essere un po' meno risicata?

Sviluppo: quale e quanto. È il titolo di questo incontro. Incomincio dal «quanto». Perché la quantità, e la sua continua dilatazione, è indubbiamente la categoria che meglio caratterizza la società moderna, in tutte le sue principali espressioni. Cito alla rinfusa cose diversissime. Popolazione, agglomerati urbani, macchine di ogni tipo, reti stradali, trasporti, mezzi di comunicazione, burocrazie, traffici, carta stampata, spettacolo, pubblicità, scolarizzazione, turismo, velocità, informazione, ricerca: tutto ciò e molto altro nel secolo scorso ha conosciuto aumenti spettacolari.

In questo processo occorre però tener presente un rapporto che illumina e definisce la particolare qualità del fenomeno quantitativo. Nella seconda metà del Novecento la popolazione mondiale è raddoppiata, e continua a crescere. Nello stesso periodo il prodotto dell'economia mondiale si è moltiplicato per sette, e anch'esso continua a crescere. Ma, mentre l'aumento demografico desta preoccupazioni e sollecita (seppure in modo disorganico e da più parti contrastato) politiche destinate a contenerlo, la crescita produttiva si è imposta in modo sempre più netto come l'asse portante della politica economica e sociale del mondo, da tutti auspicata come irrinunciabile, con dogmatica sicurezza e ossessiva insistenza indicata come strumento risolutivo di ogni problema.

Ma siamo certi che lo sia davvero? Che questo continuo moltiplicarsi e ingigantirsi di fatti quantitativi, tutti d'altronde carichi di un'altissima, a volte rivoluzionaria, valenza qualitativa, sia la migliore garanzia per il nostro benessere e per il futuro del mondo? E le sinistre, e con esse il sindacato, come si collocano di fronte a questo interrogativo? O, meglio, se lo pongono?

Facciamo l'esempio dei problema occupazione. Ne avete già parlato a lungo, dicendo cose molto interessanti. Ma forse non è inutile aggiungere qualche altra considerazione. Tradizionalmente il rapporto tra quantità di produzione e quantità di occupazione è stato di regola proporzionale e biunivoco. Oggi di questo rapporto s'è persa ogni certezza. Il più drammatico crollo occupazionale si è registrato mentre il Pil continuava a salire. Né in seguito la crescita produttiva, forzata al di là di ogni reale bisogno e utilità sociale, ha sanato la situazione. Un parziale recupero, lo sapete bene, si è determinato solo a prezzo di precarizzazione selvaggia e sempre più esoso sfruttamento del lavoro. E il fenomeno riguarda tutto il mondo. L'International labour office parla di un miliardo di disoccupati e sottoccupati, un terzo della forza lavoro del pianeta.

Ciò nonostante di fronte a questa drammatica situazione la parola d'ordine, delle sinistre come delle destre, continua ad essere «crescita». Con una evidente sottovalutazione della rivoluzione informatica, della sua capacità di sostituire in misura sempre maggiore non solo il lavoro manuale ma anche quello mentale. E con una sostanziale rinuncia a utilizzare il progresso tecnico a favore dei lavoratori: paradossalmente infatti, quando sarebbe possibile ridurre fortemente la necessità di lavoro umano, la quantità di lavoro erogato va aumentando dovunque: sia complessivamente sia singolarmente. E questo in definitiva porta alla mancanza di una vera politica occupazionale, anche da parte delle sinistre, costringe a un'azione meramente difensiva di fronte alle «leggi» del capitalismo neoliberistico: secondo le quali il lavoro cessa di essere un diritto, perde il suo valore di cittadinanza e di appartenenza sociale (come l'attacco sistematico al welfare dimostra), scade a una variabile soggetta a tutte le incertezze, di durata, di mansione, di orario, di salario, in conformità alle «compatibilità» aziendali.

Ma un altro aspetto del grande mutamento, nei mondo economico mi pare non venga adeguatamente considerato. Oggi tutte le politiche poste in essere dall'imprenditoria mondiale al fine di ingrossare fatturati, migliorare efficienza produttività competitività, aumentare il Pil, cioè a dire in nome degli stessi obiettivi di continuo da tutti invocati, anche dalle sinistre e dai sindacati, di fatto si traducono in strumenti di ulteriore sfruttamento del lavoro: dalla flessibilizzazione nelle sue mille forme, alle ristrutturazioni aziendali operate mediante pesanti tagli di personale, al boom della finanziarizzazione, al fenomeno sempre più vasto della delocalizzazione, che di volta in volta mette sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori. In proposito, a evidenziare la logica che presiede alle politiche economiche neoliberiste, mi pare serva ricordare che le borse americane premiano, con vistosi rialzi delle loro azioni, le imprese che «snelliscono (organico».

Davvero in questa situazione è difficile capire perché si continui a insistere sulle vecchie politiche produttivistiche, a inseguire le destre nella rincorsa della competitività ad ogni costo, della modernizzazione non importa quale, della crescita produttiva indiscriminata, adeguandosi a un'economia sempre più separata dalla realtà sociale e dai suoi bisogni; al cui interno nemmeno il più moderato riformismo riesce ormai a trovare qualche spazio.

Per un lungo periodo la crescita produttiva nella forma dell'accumulazione capitalistica parve in qualche misura favorire il progresso sociale, anzi oggettivamente lo favorì. Fu allora che i movimenti operai, pur senza mettere in discussione il sistema dato, seppero conseguire importanti vittorie, sfruttando la parzialissima e ambigua, ma fondamentale, convergenza di interessi tra impresa e lavoro: quando - sia pure tra mostruosi squilibri, abusi e iniquità - la tendenza espansionistica del capitale incontrava l'esigenza di maggior reddito delle popolazioni industrializzate, a garantire insieme allargamento dei mercati e crescente benessere.

Questo tipo di rapporto il neoliberismo non lo consente più. È la sua stessa ratio a vietarlo, il suo impianto non solo strutturale ma concettuale. L'iniquità è organica alla competitività senza freni che domina il mercato globalizzato, e detta le regole di un'economia unicamente e forsennatamente impegnata alla produzione di quantitativi sempre crescenti di merci, in tempi sempre più stretti, a costi sempre più bassi: il tutto inevitabilmente a scapito del lavoro. Quali merci si producano d'altronde non importa, né per quale utilità, né con quali conseguenze. Ciò che conta è solo la smisurata dilatazione di un consumo che ben poco ha ormai a che vedere col benessere delle masse, e di fatto non ha altro fine che se stesso.

È vero, oggi tra le sinistre si va ormai diffondendo la consapevolezza che la crescita degli ultimi decenni sul piano sociale non ha pagato, che anzi il neoliberismo ha fortemente aumentato le distanze tra ricchi e poveri, non solo a livello internazionale ma all'interno stesso dei paesi più affluenti. E sempre più insistenti si fanno i dubbi sulla possibilità di conciliare obiettivi con tutta evidenza confliggenti, come competitività e welfare, crescita e solidarietà, modernizzazione e occupazione; sempre più premono interrogativi su come poter difendere le idee di giustizia, costitutive dell'esistenza stessa delle sinistre, all'interno del sistema attuale. E si torna a citare - ma ormai come una vecchia e stanca giaculatoria - la necessità di un nuovo modello di sviluppo, che però nessuno finora ha neppure tentato vagamente di abbozzare.

E questo è il più grave peccato delle sinistre, le quali hanno del tutto mancato una seria analisi critica di una società ormai identificata con una straripante produzione di merci, e impegnata nella riduzione a merce di ogni rapporto e ogni dimensione dell'esistenza; di fatto identificando lo sviluppo sociale con una crescita meramente quantitativa, in tal modo avallando come progresso quella perversione del consumo che è il consumismo, e ignorandone l'azione corruttrice, che diffonde il prevalere incontrastato di valori materiali e acquisitivi, a seminare individualismo aggressività e spregiudicatezza.

Su questa via le sinistre, o quanto meno una loro parte non trascurabile, hanno finito per adagiarsi su una deriva coincidente con la favola raccontata dalle destre: secondo cui la continua e crescente produzione di ricchezza toccherà prima o poi dimensioni tali da raggiungere tutti, fino a eliminare fame e miseria. Non eliminando le disuguaglianze, no. Perché, dice la favola, sono proprio le disuguaglianze a sostenere la competitività, a migliorare produzione e consumo, e così a creare ancora e ancora ricchezza, di cui a tutti, o quasi tutti, toccherà una piccola fetta.

O magari perché no una fetta grossa. Non è questa la magia del capitalismo? Non si son fatte così le fortune più vistose? Non mi soffermo sulla palese inaccettabilità per le sinistre di una politica che prevede e teorizza, come normale strumento di strategia economica, la disuguaglianza sociale, fino all'esclusione di individui, gruppi, interi paesi. Vorrei piuttosto esaminare la questione da un altro lato, e domandare: quale futuro, o meglio quanto futuro, può avere un progetto fondato sulla produzione illimitata di ricchezza?

La produzione, di qualsiasi tipo, è consumo di natura: minerale, vegetale, animale. Ma la natura terrestre, cioè il nostro pianeta, è una quantità data e non estensibile a piacere, e in quanto tale non è in grado di alimentare indefinitamente un'economia in continua crescita, fornendole le quantità di natura a ciò necessaria. E nemmeno è in grado di metabolizzare e neutralizzare indefinitamente gli scarti che ne derivano, i rifiuti (solidi, liquidi, gassosi). Parrebbe un'ovvietà, anzi è un'ovvietà, che però nessuno, o pochissimi, soprattutto tra economisti e politici, di destra o di sinistra, sembrano considerare tale.

Il problema ambiente oggi nessuno più lo ignora. È sotto gli occhi di tutti lo squilibrio degli ecosistemi, che sconvolge il clima tra uragani, alluvioni, frane, desertificazioni; che va devastando il mondo e le nostre vite tra malattie da smog, intossicazioni, innumerevoli nuove patologie ignote alla medicina tradizionale, insicurezza di ciò che mangiamo beviamo respiriamo; che produce milioni di senza-casa, di profughi, di morti. A lungo però tutto questo le sinistre lo hanno ignorato.

E ancora oggi (sebbene nessuno più ormai si sottragga al dovere di una citazione, in osservanza del «politically correct») la materia non sembra degna di attenzione nel momento delle scelte politiche decisive. Come se la crisi ècologica nulla avesse da spartire con economia, produzione, lavoro, i grandi temi della Politica con la maiuscola. Come se non fosse invece la conseguenza diretta e inevitabile di un modello economico che si regge sulla crescita illimitata e pertanto, inevitabilmente, sulla rapina della natura, sulla continua rottura del limite. Come se tutto ciò, tra l'altro, non costituisse un rischio per la stessa economia: alcune scarsità, acqua e petrolio in primis, già allarmano infatti la macchina produttiva mondiale, e né il mercato né le tecnologie più avanzate sembrano avere soluzioni in mano.

Forse trovate che io stia spaziando tra problemi che non riguardano il sindacato. Non direttamente almeno. Ed è vero che la funzione specifica del sindacato appartiene a un ambito più circoscritto, in sostanza identificabile con la tutela del lavoro e dei lavoratori; mentre tocca ad altri istituti la elaborazione delle politiche del paese e del loro confronto in ambito internazionale. Ma in una società come l'attuale, definita e radicalmente mutata dalla complessa fenomenologia della globalizzazione, io credo che anche decisioni settoriali, non possano essere assunte senza aver presente il quadro degli immani problemi che scuotono il mondo.

Se la globalizzazione ha aperto nuovi spazi alla valorizzazione dei capitali, fornendo all'industria planetaria manodopera a costi irrisori, e creando nel Sud del mondo condizioni di sfruttamento da protocapitalismo. Se condizioni analoghe spesso si producono anche nei nostri paesi tra le masse sempre più numerose dei migranti, tra l'altro fatalmente trascinando al ribasso i salari di tutti. Se i consumi in Occidente sono saliti al punto che un quinto della popolazione del pianeta si appropria di due terzi delle risorse. Se nonostante la continua crescita produttiva nel Sud del mondo ancora si muore di fame, mentre in Occidente si muore di obesità da iperalimentazione. E se, di fronte a un'economia che in complesso continua a deludere, impantanata in una crisi infinita, a un dato momento soltanto la guerra si pone come unico strumento capace di far quadrare i conti del sistema.

Se questa è la verità dei mondo, il mondo del lavoro non la può rimuovere, nel momento in cui si confronta con i suoi problemi e ne cerca soluzione. E non solo perché in qualche misura questa verità è presente anche tra noi, in un Occidente dove disoccupazione e precarizzazione, attacco allo stato sociale, aumento dei poveri e impoverimento dei ceti medi, vengono imposti come condizione alla crescita economica, data come infallibile strumento di futura prosperità per tutti. Ma perché proprio nel confronto tra il grande mondo e la nostra realtà, mi pare si evidenzi in modo ineludibile l'insostenibilità non solo ecologica ma sociale e politica dell'attuale paradigma economico, dunque la necessità di un diverso modo di produzione scambio e consumo. E in questo i sindacati possano dare un contributo tutt'altro che secondario.

Oggi non è più tempo di sovversioni politiche traumatiche, di rivoluzioni armate e sanguinose. Di tutto ciò abbiamo avuto abbastanza. E d'altronde oggi non si tratta di espugnare il Palazzo d'inverno. Si tratta di rimettere in causa un sistema-mondo che con il suo dogma iperproduttivistico e iperconsumistico, e con l'imposizione del mercato come regolatore indiscusso non solo dei meccanismi economici ma della società intera, ha capillarmente penetrato e inquinato cultura, costume, coscienze, fino a determinare comportamenti, desideri, progetti di vita. E delegittimarlo è possibile solo mediante una rivoluzione dolce ma radicale, consapevole e decisa, da attuarsi per gradi ma con costante tenacia, con un'azione molteplice, presente anche nel quotidiano minore, fermamente orientata a contrastare i valori oggi dominanti. Un'azione che muova dal netto rifiuto di una politica come quella praticata finora dalle sinistre, non solo italiane, sostanzialmente incapace di una linea diversa da quella delle destre.

Un tipo di politica che a volte si ritrova anche nell'azione del sindacato. La lotta per la salvaguardia del posto di lavoro, e quindi la difesa della fabbrica, è la strada da sempre seguita come la più naturale, che ancora oggi scatta ad ogni crisi come un riflesso immediato. Ma oggi si impongono interrogativi di cui ieri non c'era motivo. Per fare un solo esempio. Fabbriche gravemente inquinanti, ad alto rischio per i lavoratori e l'ambiente: è il caso di salvarle ad ogni costo? Una riconversione, con riprofessionalizzazione del personale - come d'altronde sovente si fa - non dovrebbe essere sempre presa in considerazione come la soluzione da preferire?

Ma anche altre domande di volta in volta bisognerebbe porsi: se e quanto serva ciò che si produce; se risponda a bisogni reali o non si tratti di oggetti destinati al consumismo più futile che poi la pubblicità s'incaricherà di dimostrare indispensabili; se non esistano altre necessità insoddisfatte, dunque con diritto di priorità; e quali siano le ricadute dei prodotti in questione, sul piano ecologico, sanitario, culturale, sociale, umano.

Una molteplicità di scelte, anche minori e minime, operate a questo modo, costituirebbe parte non piccola di una rivoluzione non traumatica ma Incisiva, in quanto netta, continua e sistematica negazione dei criteri che guidano l'economia capitalistica, basati unicamente sulla valutazione di quantità e profitto conseguibili, e ignari di ogni altra esigenza. Per questa via, in una realtà come la nostra, straripante di merci ma gravemente carente sul piano dei servizi pubblici e sociali, sarebbe forse possibile progressivamente spostare il baricentro dell'economia dalla produzione di beni materiali alla produzione di beni sociali.

Le conseguenze, anche se inizialmente limitate, sarebbero però tutt'altro che trascurabili, anche nell'immediato. Sul piano occupazionale innanzitutto: perché mentre nell'industria la tecnica sempre più largamente va sostituendo le persone, nessuna attività sociale può prescindere dalla presenza umana. E ai fini degli equilibri ecologici: perché la produzione sociale, a differenza di quella industriale, non inquina. Ma soprattutto per l'avvio di un diverso modo di progettare, pensare, vivere il lavoro, e quindi la produzione e il consumo.

Vi sembrano sogni, pii desideri? E però da qualche tempo stanno accadendo cose insolite. Da più parti, da gruppi di giovani, circoli di intellettuali, nuove riviste, convegni, spezzoni del movimento altermondialista, giungono segnali di rifiuto dell'orgia consumistica, di dubbi sulla bontà indiscussa della crescita illimitata. Alcuni addirittura a gran voce chiedono «decrescita». E, fatto davvero non trascurabile, di recente la Cina, di fronte al sempre più drammatico deterioramento ambientale del paese, e all'aumento costante della distanza tra ricchi e poveri, ha deciso di contenere di un terzo il tasso di aumento del proprio Pil. Infine tra i segnali di questo tipo non posso tralasciare il nostro incontro: che i sindacati si interroghino su materie come quelle dibattute oggi non mi pare davvero di scarso significato.

Dino Greco si diceva convinto di una evidente crisi del capitale. Ne sono convinta anch'io. Sono gli stessi meccanismi dell'accumulazione che spesso ormai sembrano girare a vuoto, inceppati tra crisi e scandali a ripetizione. Forse a riprova che crescita illimitata non esiste, né in natura né nella storia. Forse anche a ricordarci che dopotutto il capitalismo è un fenomeno storico, e come tutti i fenomeni storici ha avuto una nascita e avrà prima o poi una fine. È una verità che le sinistre una volta tenevano presente, a supporto del loro stesso esistere e agire. Una verità forse da recuperare.

Il mitico Luca Mercalli di "Che tempo che fa" indirizza una lettera aperta alla candidata del l'Unione alla presidenza della Regione Piemonte. E' una raccolta di temi aggiornati sulla politica ambientale, e non solo. La Mercedes Bresso risponde in modo ragionevole e problematico. C'è una bella differenza con gli argomenti troppo spesso piatti e triviali della campagna elettorale in Emilia-Romagna. Utile per rimanere aggiornati e anche per la linea di politica locale (anche lo slogan è bello). Ciao (a.b.)

Luca Mercalli indirizza una lettera aperta a Mercedes Bresso:



Ti scrivo per porgerti qualche spunto di riflessione "per cambiare il futuro", come recita il Tuo slogan elettorale. Seguendo l'invito che compare sul Tuo sito Internet, questo vuole essere uno di quei contributi "delle più diverse articolazioni della società civile, dell'economia, del lavoro, della politica e della cultura, vale a dire a tutti coloro che condividono il nostro punto di vista e che vogliono cambiare con noi la nostra regione e il modo di governarla".

Del resto, per chi ha a cuore i problemi ambientali, la lettura del Tuo curriculum è un'iniezione di fiducia: "esperta di economia dell'ambiente, economia agraria e di economia del turismo", autrice di saggi tra cui "Per un'economia ecologica" e "Pensiero economico e ambiente", già Assessore regionale alla Pianificazione Territoriale e ai Parchi". "Amante delle passeggiate in montagna e nei boschi".

So anche che sei stata tra le prime in Italia a commentare il pensiero di Georgescu-Roegen, un pioniere, uno che avrebbe meritato il Nobel per l'Economia ben più di Robert Solow.

Ho avuto il piacere di conoscerTi insieme a tuo marito, quel Claude Raffestin "geografo ed esperto di Ecologia umana e Scienze del paesaggio" che completa il quadro del Tuo ambiente culturale come meglio non si potrebbe desiderare.

Insomma, a leggere queste credenziali, il Tuo programma politico dovrebbe avere una marcia in più rispetto - che so io - a quello di un qualsiasi palazzinaro che si metta in politica con obiettivi palesemente meno sostenibili sul piano ambientale.

Sembrerebbe, con un curriculum come il Tuo, di essere in ottime mani: una figura politica che non solo è ben informata su questi problemi, ma ne è pure navigata studiosa.

Ora, a questo punto, i fatti dovrebbero corrispondere alle premesse.

Eppure dal Tuo programma trapelano gli echi delle sirene della crescita continua.

"Con l'Europa per uno sviluppo sostenibile" per evitare il declino del Piemonte, recita il Tuo programma. Ma cosa vuol dire "declino"? Sulla base di quali indicatori? Forse del PIL? O del numero di autovetture prodotte dalla FIAT? Perché mai dovremmo evitare "un dignitoso e magari confortevole declino" a favore "di una dinamica fase di sviluppo"? Sappiamo che "sviluppo", come è inteso oggi (anche se corredato dell'aggettivo "sostenibile") è in realtà un modo addolcito di camuffare la continua crescita dei consumi. E' un'ossessione il ritenere che un luogo sia prospero solo se la sua popolazione aumenta o almeno non decresce, se le merci continuano ad affluire e a ripartire in sempre maggiori quantità, se l'edilizia continua incessantemente a costruire, se il valore degli scambi finanziari continua ad aumentare. A fronte di tali indicatori sappiamo bene che vi è anche l'aumento di rifiuti di qualsivoglia natura - solidi, liquidi e gassosi - e l'irreversibile diminuzione di naturalità del paesaggio, con conseguenze sia sul piano estetico, sia su quello dei cicli biogeochimici.

Ecco dunque che il passo del Tuo programma che recita come "La regione deve essere dotata in primo luogo di tutte le infrastrutture necessarie ad assicurarne la rilevanza economica, culturale, geografica e logistica cui aspira, il tutto nella logica dello sviluppo sostenibile. Vale a dire: le opere pubbliche dovranno essere progettate e portate a termine con il minimo impatto ambientale e al più basso costo sociale possibile. Opere all'avanguardia, concepite come servizi alla terra e agli uomini che debbono ospitarle, realizzate con tecnologie innovative, gestite con tutta la cura resa possibile dalla modernità", contiene inevitabilmente i germi della catastrofe ambientale. E ciò perché non riconosce il limite, ormai raggiunto e oltrepassato da tempo, del nostro territorio di sostenere ulteriori interventi di artificializzazione. In queste infrastrutture è facile vedere l'appoggio a progetti faraonici e non prioritari quali l'alta velocità ferroviaria, la quarta corsia della tangenziale torinese, una ulteriore espansione urbana e industriale capillare.

Sono tutti interventi ormai non più difendibili, inseriti nel mito della crescita continua, che - per quanto mitigata, per quanto addolcita - non può essere sostenibile per via dei meri vincoli fisici del sistema nel quale è concepita: il Piemonte - così come gran parte del nord-Italia, ha ormai subito un ampio superamento di tutte le soglie di attenzione di natura ambientale e deve ora guardare a come ridurre le conseguenze causate da un passo più lungo della gamba.

Per fare questo ritengo che l'unico mezzo sia ormai un serio approccio al concetto di decrescita. Orbene, il passato è passato. Processi storici ed economici hanno condotto fin qui e non ha importanza esaminarne più di tanto le motivazioni. Però Tu ci dici che vuoi cambiare il futuro del Piemonte. Benissimo. E' un'occasione d'oro per dimostrarlo. Se effettivamente desideri proporre un programma politico innovativo - pure rischioso, ovviamente - dovresti fare tuoi i precetti che il mondo scientifico ha da tempo - e con sempre maggior completezza - messo in luce. Il libro che ti allego "Le mucche non mangiano cemento" ne fa una sintesi, proponendo una bibliografia di riferimento che non ho dubbi Tu conosca ampiamente.

Provo comunque a sintetizzare per sommi capi gli obiettivi di un futuro realmente diverso:

1) il paradigma della crescita continua dei consumi e delle infrastrutture (e quindi pure dei relativi rifiuti) dovrebbe essere abbandonato quanto prima. Il suo fallimento è dietro l'angolo, una presa di coscienza anticipata potrebbe ancora consentire una transizione morbida verso una struttura stazionaria, altrimenti il collasso avverrà, come spesso accade nei sistemi non lineari, in modo improvviso e non modulabile da azioni di mitigazione.

2) sviluppo non deve essere confuso con crescita: esiste uno sviluppo culturale, scientifico, spirituale, perseguibile anche al di fuori di uno sviluppo dei consumi materiali o, peggio ancora, di beni superflui ed energivori. E' proprio lo sviluppo dei primi beni elencati a compensare della riduzione dei secondi. In un momento storico nel quale i livelli di benessere fisico sono ampiamente consolidati questa transizione è possibile ed è la sola a garantirne peraltro il mantenimento a lungo termine. Detto in altre parole, con la pancia piena e la casa calda possiamo anche pensare allo sviluppo spirituale/intellettuale/culturale che a sua volta sarà la chiave per continuare ad avere pancia piena e casa calda. Altrimenti si fa indigestione e si vomita. Poi però bisogna ricominciare dall'età della pietra.

3) il consumo di suoli agrari e di «paesaggio» deve essere arrestato immediatamente: in un mondo fisico dalle dimensioni finite non è pensabile espandersi all'infinito. Basterebbe applicare le illuminate proposte del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Torino, strumento eccellente che Tu ben conosci, purtroppo disatteso. Ovviamente la coerenza è una dote fondamentale del politico di razza: non si possono difendere i preziosi beni agrari dell'Ordine Mauriziano da una parte e contemporaneamente avallare progetti devastanti quali l'alta velocità ferroviaria: entrambi produrrebbero i medesimi risultati finali.

4) l'economia attuale in declino può trovare nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto" che ci circonda in qualcosa di almeno accettabile. Pensiamo a una FIAT che finalmente tiri fuori dai cassetti progetti che già aveva sviluppato da decenni, come la cogenerazione, e investa magari sulla produzione di pannelli solari... Le officine per fare tutto ciò sono praticamente le stesse che oggi si usano per fare automobili. Basta volerlo.

5) vi è necessità assoluta di un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite, imposti non da qualsivoglia ideologia, ma da semplice rispetto del II principio della termodinamica. In tale contesto sarebbe fondamentale disincentivare gli sprechi e l'uso del superfluo nonché gli eccessi nell'impiego di materie prime ed energia, a vantaggio di un benessere più sereno e libero dal senso di competizione sociale generato da modelli pubblicitari ormai patologici.

6) abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. In effetti, in un'epoca dove le telecomunicazioni potrebbero rendere sempre meno necessario il movimento fisico delle persone, e l'esaurimento delle risorse petrolifere porrà in un futuro prossimo restrizioni importanti alla inutile circolazione di merci banali oggi dettata da meri giochi economici, il gigantismo infrastrutturale è una scelta miope e sottrarrebbe enormi risorse alla disponibilità diffusa di servizi efficienti.

Cara Mercedes,

se vuoi veramente cambiare il futuro, dovresti avere il coraggio di inserire nel Tuo programma politico questi elementi, in apparenza fortemente impopolari in quanto lontani dal pensiero unico oggi vigente. Però il grande politico si riconosce proprio dalla capacità di essere realmente innovatore e cambiare totalmente il punto di vista dei problemi. E' peraltro difficile portare avanti tali obiettivi, però bisogna accorgersi che non solo l'ambiente scientifico sta sempre più assumendo consapevolezza che è necessario cambiare rotta, ma anche molta gente comune. Sono innumerevoli nel mondo le associazioni spontanee di cittadini volte alla decrescita (decrescita felice, décroissance, powerdown). Ma non vengo a mostrare ad arrampicare ai gatti: Georgescu-Roegen aveva scritto queste cose già nel 1974. Forse era in anticipo sui tempi. Trent'anni sono passati e ora le condizioni sono fertili per applicare la teoria bioeconomica o una sua opportuna riformulazione attualizzata.

Eppure sembra che la politica resti indietro, fatichi a cogliere questi segnali di disagio profondo, di una disarmonia con le leggi fondamentali di natura. Non basta aggiungere l'aggettivo "sostenibile" ad ogni azione per cambiarne le conseguenze. Molte azioni dovrebbero semplicemente essere abbandonate, non essere rese "sostenibili" quando non lo sono intrinsecamente. Pensiamo per esempio ai Giochi Olimpici Invernali Torino 2006.

Chi meglio di Te può comprendere queste cose? Con un curriculum così.

Ai miei occhi, come a quelli di molte altre persone mature e consapevoli della nostra situazione, assumi con la Tua candidatura politica una grande, grandissima responsabilità: quella di garantire se non il raggiungimento di questi obiettivi, almeno un segno incisivo verso la loro realizzazione, un cambiamento netto di direzione, un gesto di speranza. Se invece anche Tu, con il tuo perfetto curriculum da persona giusta al posto giusto, cadrai sotto la malìa delle sirene dello "sviluppo a tutti i costi", allora, noi che abbiamo capito di essere in un vicolo cieco, saremmo privati anche della speranza.

E senza speranza non resta che la disperazione.

Torino, febbraio 2005

Luca Mercalli (luca.mercalli@nimbus.it)

RISPOSTA DI MERCEDES BRESSO ALLA LETTERA APERTA DI LUCA MERCALLI



La lettera di Luca Mercalli è stata inserita nella sezione "Contributi al programma" del portale.

Normalmente i "Contributi" non ricevono risposta e vengono attentamente esaminati per recepire proposte e suggerimenti utili al Programma. Ma la lettera di Mercalli, trattando argomenti di grande importanza, ha suscitato molte reazioni e ha conquistato spazio sui media.

Decine di e-mail sono arrivate al nostro indirizzo.

Pubblichiamo quindi, in via del tutto eccezionale, la risposta di Mercedes Bresso.



Una bella lettera, la tua, una lettera alla quale voglio rispondere con grande sincerità, senza nascondermi dietro ai tatticismi elettorali che troppo spesso sono una scusa per non dire quel che si pensa e, soprattutto, per ritenersi in diritto di pensare quel che viene considerato indicibile.

Debbo dirti subito che anch'io, anni fa, pensavo fosse necessario arrivare a una sorta di "blocco dello sviluppo". Mi sono resa conto, col tempo, che il blocco puro e semplice non è possibile.

Ho studiato e riflettuto a lungo sulla teoria dell'arresto della crescita. Ma noi - il Piemonte - non possiamo rimanere fuori dallo sviluppo né possiamo rinunciare alla creazione di reddito, conseguenza immediata dell'arresto della crescita. Al contrario, dobbiamo rimanere dentro questi meccanismi di crescita. E dobbiamo rimanerci perché le dinamiche che governano i processi economici non permettono di fermarsi a un certo livello: chi si ferma non mantiene le posizioni acquisite, ma corre il fortissimo rischio di tornare indietro.

Non possiamo dimenticare poi che una quota crescente degli investimenti si concentra su servizi dematerializzati (internet, telefonia, tecnologie satellitari), che sostengono lo sviluppo e hanno un basso impatto ambientale. Io sostengo - insieme a tutto il centrosinistra - che sarà una società basata sulla conoscenza a sottrarci definitivamente al declino. Ritengo anche che il criterio della sostenibilità è l'unico che ci permette di investire in infrastrutture indispensabili e di lavorare per mantenere una parte dell'industria manifatturiera. Senza dimenticare che gli investimenti per la ricerca devono crescere non solo nazionalmente, almeno il 3% del Pil, ma anche e soprattutto nel nostro Piemonte.

Certo quel che conta è cambiare cultura, abbandonando l'equazione mentale che fa coincidere il benessere con l'incremento di beni materiali e consumi.

Io non credo affatto in uno sviluppo a tutti i costi. Credo invece che nel bilancio di ogni opera debbano essere considerati i costi non solo finanziari ed economici, ma anche sociali e ambientali. Al tempo stesso però vanno anche confrontati i risparmi che si conseguono non realizzando un'opera con quelli che l'opera, portata a termine, può garantire.

Non voglio eludere i problemi che poni, a partire all'Alta velocità. Personalmente mi sono battuta perché non si parlasse solo di Alta velocità, ma anche e soprattutto di alta capacità ferroviaria. Mi spiego. I risparmi ambientali che si ricaverebbero da una nuova ferrovia transalpina dedicata al solo traffico di persone sarebbero risibili. Se, al contrario, gli interventi rientrano in un piano destinato a ridurre il traffico su gomma a livello europeo, credo che il rapporto costi-benefici potrebbe essere interessante. Eliminare, o almeno ridurre drasticamente, il traffico dei Tir attraverso la catena alpina sarebbe un fatto grandioso, in grado di produrre effetti positivi sull'ambiente dal Baltico al Mar di Sicilia. Un elemento, questo, che mi pare sia stato enormemente sottovalutato da una parte del movimento ambientalista che pure stimo.

Non sfugge a nessuno poi che l'arretratezza delle nostre infrastrutture è una delle cause più gravi di inquinamento ambientale: un Paese senza metropolitane, con ferrovie inadeguate e con reti telematiche che toccano a malapena le aree metropolitane è condannato, fatalmente, a morire nel traffico e nell'anidride carbonica.

Le alternative sono tre. La prima: condanniamo noi stessi a marcire nell'arretratezza e a morire nell'inquinamento. La seconda, rincorriamo lo sviluppo - Achille e la tartaruga - così come lo abbiamo conosciuto fino agli anni Ottanta. La terza, facciamo del nostro ritardo il punto di battuta per spiccare un salto culturale e tecnologico. Esempio: l'Italia ha rinunciato al nucleare. Bene. Sarebbe sbagliato e antieconomico, oggi, riprendere a discutere di energia atomica nel nostro Paese. Ma il fatto di non averla ci consente di ragionare liberamente su altre opzioni meno disastrose per l'ambiente. Siamo più liberi dei Paesi che hanno investito sul nucleare e che oggi debbono continuare su quella strada per poter assorbire i giganteschi costi di ammortamento.

Possiamo (e per questo dobbiamo) intraprendere con decisione la strada dell'idrogeno, del fotovoltaico, delle energie pulite.

Non possiamo fare a meno delle grandi opere se non altro per il motivo che tutta l'Europa, di cui facciamo parte, ne è dotata. Si è calcolato che il nostro ritardo riguarda interventi per 250mila miliardi di vecchie lire. Io ho la speranza che esistano oggi tecnologie e culture in grado di colmare questo gap a costi ambientali incommensurabilmente più bassi rispetto al passato.

Quanto al Piemonte, la situazione è chiara. La nostra regione fatica a reggere il passo degli altri.

Ci sono zone dove le cose non vanno malissimo (il Piemonte sud) e aree in cui i problemi persistono. Noi abbiamo bisogno di infrastrutture moderne: non a tutti i costi, certo. Pagando solo quel che possiamo permetterci.

E ora vengo ai temi che proponi per il programma del centrosinistra.

La rinuncia al paradigma della crescita continua di consumi e infrastrutture. Qui non si tratta di aggiungere infrastrutture. Si tratta di adeguarle. Quanto ai consumi, possiamo puntare a ridurli, ma con un occhio di riguardo a chi certi standard non riesce a raggiungerli. Possiamo puntare a ridimensionare la produzione di rifiuti, certo, ma per i consumi devi tener conto dei fatti. Ci sono ormai zone di nuova povertà che stanno già sperimentando la riduzione dei consumi, ma controvoglia.

Lo sviluppo non deve essere confuso con la crescita. Posso essere d'accordo con te sugli stili di vita. Se si ha una casa e se si può contare su amici interessanti e buoni libri, il resto viene dopo. Ma non tutti vivono in questa condizione. E poi: la Regione (o lo Stato) hanno il diritto di giudicare lo stile di vita? Ci provò negli anni Settanta, e non senza una certa energia, Enrico Berlinguer, che lanciò lo slogan dell'Austerità. Non ebbe molta fortuna, neppure fra gli intellettuali. Norberto Bobbio osservò che l'austerità si pratica nelle società autoritarie (Sparta), mentre è l'edonismo il corollario delle democrazie (Atene). Forse avevano ragione entrambi. Berlinguer a chiedere uno sviluppo meno dissennato, Bobbio a dire che la riduzione dei consumi, quando i beni sono disponibili liberamente, si verifica solo con interventi autoritari.

Il consumo dei suoli agrari e del paesaggio deve essere fermato. Qui mi trovi perfettamente d'accordo. Nel nostro programma pensiamo alla tutela delle tipologie architettoniche tradizionali. Proponiamo anche di sperimentare un certo tipo di asfalto che avrebbe proprietà simili al materiale fotovoltaico. Come sai il fotovoltaico porta energia pulita, ma "consuma" molto territorio. Se andremo al governo del Piemonte, proveremo a produrre energia non inquinante utilizzando le strade che già esistono, senza occupare altra terra.

Nuove forme di rigenerazione nell'applicazione dei mezzi di produzione di energie rinnovabili, di efficienza e di risparmio energetico, di promozione dell'agricoltura locale di qualità , di riconversione del "brutto". Siamo perfettamente d'accordo. Sia pure con altre parole, tutto questo è già nel nostro programma. Anche noi, poi, sentiamo l'esigenza di incoraggiare Fiat a proseguire sulla strada dei motori a basso consumo di idrocarburi.

Un programma di educazione ai valori della sobrietà e del senso del limite delle risorse. Siamo d'accordo. Ma qui le istituzioni possono solo aiutare. Tocca prioritariamente alla cultura, alle televisioni (sì), ai giornali, ai partiti, alle chiese trasmettere questi valori. Noi faremo la nostra parte, non dubitare, ma ci vorranno ben altre voci per arrivare alla sensibilità delle persone.

Abbandono delle grandi opere di scarsa o nulla utilità e dai grandi costi e impatti ambientali/sociali, a vantaggio di un aumento capillare dei servizi e della qualità di vita a scala locale. Di questo abbiamo già parlato: alcune grandi opere sono necessarie, altre no. Come forse saprai io non sono d'accordo con chi vuole fare tutto e di tutto, mentre mi pare essenziale conciliare la tutela del welfare con ferrovie efficienti.

Sono per fare il necessario.

E finisco da dove avevo cominciato. Sono perfettamente consapevole del fatto che non possiamo permetterci certi costi. Ma so anche che se rinunciamo al criterio della sostenibilità ambientale, non restano che due alternative: lo sviluppo selvaggio da un lato e la paralisi dall'altro. Due rischi che non possiamo correre.

Grazie per le belle parole che hai avuto per me e mio marito. Spero di non averti deluso e mi auguro di poterti incontrare presto per continuare a discutere di persona.

Mercedes Bresso

Bel tempo nell'economia mondiale per oggi e per buona parte di domani: crescita forte nel 2005, nessun brusco arresto all' orizzonte. Ma per il dopodomani il campo è diviso tra chi annuncia sereno e chi attende tempesta, tra Pangloss, il personaggio di Voltaire ostinatamente convinto che viviamo nel migliore dei mondi possibili, e Cassandra, la preveggente figlia di Priamo, secondo cui la quiete sta per diventare tempesta. La disputa che li divide riguarda non solo l'economia, ma anche la politica. Dice Pangloss: il benessere non è mai tanto cresciuto nel mondo quanto nella presente generazione e grazie al mercato si estenderà sempre più a tutti. Le turbolenze recenti (insolvenze finanziarie, Enron, boom e caduta della Borsa, effetto tsunami, caro petrolio) sono state superate più facilmente di quelle precedenti (primo choc petrolifero, crisi del debito latinoamericano). Sì, ci saranno altre turbolenze, ma il mercato ci penserà. Dopotutto io, Pangloss, non dico che il nostro mondo sia magnifico né che sia il migliore in assoluto, ma è il migliore possibile. Abbiate fiducia: le tempeste verranno, ma le sapremo affrontare.

Dice Cassandra: stiamo prolungando una festa che non può durare, e alla cui fine non ci stiamo preparando. L'energia che usiamo (carbone, petrolio, gas) si estingue, dilapidiamo le risorse del pianeta, di cui minacciamo vita e clima. Il mercato di cui ci beiamo è una bestia senza controllo. Stiamo entrando in un nuovo stato di natura dove è privatizzato l'uso stesso della forza, dal terrorista suicida al mercato nero di armi di distruzione di massa. L'economia sembra governare un mondo anarchico, ma finirà per esserne la vittima.

Che cosa dovremmo pensare noi, cittadini comuni? Provo a suggerire alcuni punti, che nascono da una medesima considerazione: prima ancora del mercato e della politica vi è la società, che influenza entrambi, oltre ad esserne influenzata.

Primo punto: ogni lettore può e deve formarsi una propria opinione. Sbaglierebbe a ritenersi in inferiorità rispetto agli specialisti della materia o ai detentori del potere. Questo punto può inquietare chi si attende miracoli da scienziati e governanti; invece, a mio giudizio, dovrebbe rassicurare. Quando non coincide col buonsenso l'economia di solito sbaglia. Viviamo in democrazia e ciascuno contribuisce a scegliere indirizzi e persone di governo. Il pensare che la generalità dei cittadini abbia buonsenso e informazioni sufficienti a compiere scelte ragionevoli è motivo di profonda fiducia per le sorti della nostra libertà e per le prospettive di un buon governo. Gli atteggiamenti diffusi nel corpo sociale si riflettono sul funzionamento del mercato e della politica.

Secondo punto: il «noi» usato sopra è un aggregato di interessi eterogenei. Comprende imprese e famiglie, consumatori e produttori, settori di punta e settori in declino, debitori e creditori. Spesso la fortuna di alcuni è la sfortuna di altri. I pantaloni e i mobili a basso costo offerti dai cinesi e da Ikea mettono in difficoltà il produttore nazionale, ma sono graditissimi al consumatore. L'eterogeneità degli interessi attraversa la singola persona, la singola impresa, il settore, per non dire il Paese. È come se fossimo, nello stesso tempo, dipendenti di Alitalia (oltre 1000 euro per il volo Roma-Londra) e utenti di Ryan Air (meno di 50 per lo stesso viaggio). Tra interessi eterogenei occorre scegliere e i due processi attraverso cui le scelte si compiono nelle nostre società sono il mercato e la democrazia.

Terzo punto: per capire e per decidere bene occorre uno sguardo lungo. Solo questo permette di non arrivare impreparati agli eventi. Le previsioni dell'economista e le decisioni del governo tendono, invece, a non guardare oltre l'orizzonte breve dei modelli o le scadenze delle prossime elezioni. Guardando più lontano, specialisti e politici mettono a repentaglio quanto hanno di più caro, il prestigio scientifico e il potere. Eppure, solo scrutando il paesaggio nebbioso del dopodomani si possono predisporre soluzioni non troppo dolorose alle difficoltà che ci stanno venendo incontro. La recente disputa con la Cina nel tessile e nell'abbigliamento è venuta per aver quasi dimenticato il giungere a scadenza di accordi commerciali liberamente stipulati e noti da tempo.

Quarto punto: il futuro è aperto. Nell'economia, nella politica economica, nelle relazioni umane, più di un futuro può scaturire da uno stesso presente. Nonostante l'importanza del Fato nella cultura greca, perfino Cassandra descrive catastrofi contro le quali, se fosse creduta, potrebbero essere predisposte contromisure. Il suo dramma è che, per punirla, Apollo le ha lasciato il dono della profezia, ma le ha tolto quello della persuasione. A noi Apollo non ha fatto questo cattivo scherzo.

Gli ammonimenti di Cassandra sono fondati. La più ricca società del pianeta (gli Stati Uniti) non potrà per molti anni ancora vivere sul credito di popolazioni e Paesi più poveri. Il mercato globale non può continuare a svilupparsi in modo pacifico e ordinato, se le istituzioni per il suo governo restano insufficienti, prive di potere e di legittimità. Le risorse della Terra (dalle foreste ai giacimenti energetici) non potranno non rincarare drammaticamente e infine mancare, se il consumo che ne facciamo continua a espandersi come se fossero illimitate. L'equilibrio della vita non potrà non alterarsi, se quasi due secoli dopo averlo scoperto continuiamo a ignorare l'effetto serra. Non può rimanere senza conseguenze profonde la disparità di tenore di vita e di condizioni di lavoro tra esseri umani — come gli europei e gli asiatici — con livelli di cultura e di capacità lavorativa quasi uguali.

Settembre è alta stagione per la diplomazia economica internazionale: in ogni parte del mondo sono in corso analisi e consultazioni, che culminano nelle riunioni del Fondo monetario internazionale a Washington. Incontri regionali (l'Unione Europea, i Paesi asiatici), settoriali (finanza, commercio, energia, sviluppo), consultazioni tra Paesi ricchi (il G7) e tra poveri (Africa, America Latina, Paesi in via di sviluppo). Si fa il punto sull'anno che sta per finire e si definisce l'animo con cui guardiamo al futuro.

Vi è motivo di temere che il messaggio degli specialisti e quello dei governanti abbiano lo sguardo più corto e il tono più rassicurante di quanto giustifichi una disincantata osservazione delle tendenze di lungo periodo operanti nell'economia mondiale e nelle nostre società. Spetta innanzi tutto alla riflessione, al buon senso, al desiderio di informarsi e di capire del cittadino comune rendersene conto e trarne conseguenze per il suo modo di guardare al futuro, ai propri comportamenti economici e sociali.

"Il secondo pianeta" era il titolo di un bel libro di Umberto Colombo e Giuseppe Turani pubblicato quattordici anni fa. Allora la popolazione mondiale era di 4 miliardi circa e si prevedeva che sarebbe raddoppiata entro il 2030. In effetti, una volta tanto le previsioni sono state confermate. Siamo oggi sei miliardi e mezzo sulla Terra, supereremo gli 8 previsti nel 2030 e raggiungeremo probabilmente 9-10 miliardi a metà del secolo. Insomma, quel secondo pianeta è qui, con noi.

Certo: non è la «bomba della popolazione» che Paul Erlich vaticinò nel 1986 (20 miliardi di uomini) ma è sempre un bel po’ di gente. E pesa sempre più sulle risorse del pianeta. Anche il recentissimo rapporto del Wwf (vedi Repubblica del 25 ottobre) parla di un altro pianeta in corso di allestimento, gettando un ennesimo allarme.

Ma quanto peserà quel «peso»? Lo si può calcolare all’incrocio di due curve: quella della domanda e quella dell’offerta di Natura. L’offerta è misurata dalla biocapacità: e cioè la produzione della terra in termini di specie, terrestri e marine. La domanda è rappresentata dalla quantità totale di natura: e cioè di terre e di acque utilizzate dall’Uomo. Che provvedono ai suoi bisogni e assorbono i suoi rifiuti.

Il rapporto tra domanda e offerta si chiama impronta ecologica. Se calcoliamo le due curve, ci accorgiamo che dal 1960 ad oggi l’indice della biocapacità è sceso del 30 per cento e l’impronta ecologica ha superato l’offerta del 25%. In altri termini stiamo intaccando rapidamente il capitale su cui viviamo. Ed aumentiamo quello che potremmo definire il nostro debito con la natura. Ma è un debito non rimborsabile. Forse ci sono i banchieri di Dio. Ma non c’è una Banca dell’Universo cui rivolgerci, se il capitale si azzera. E il capitale sta diminuendo al ritmo dell’1% all’anno.

L’imperativo dovrebbe essere chiaro. Promuovere un piano di «rientro» del debito. Proprio come noi italiani con la finanziaria, si licet. Il Wwf ne traccia tre, riguardanti la ripresa di controllo sui cinque fattori di squilibrio dell’impronta ecologica: la popolazione, il consumo pro capite, l’intensità produttiva in materie ed energia, l’estensione dell’area bioproduttiva, l’aumento della bioproduttività per ettaro. C’è un piano business as usual, il quale porterebbe entro il 2050 il debito con la natura dall’attuale 25 al 34%, con conseguenze disastrose in termini di riscaldamento del pianeta e di distruzione delle altre specie. C’è uno scenario di cambiamento lento, che prevede l’estinzione del debito per il 2100, e uno eroico che prevede la chiusura dei conti con la Natura entro il 2050. Basterà dire che questi due ultimi scenari comportano non soltanto un rallentamento decisivo della crescita dei paesi ricchi, che contribuiscono per l’80 per cento circa all’impronta ecologica; ma anche una formidabile redistribuzione di risorse (di conoscenze, soprattutto) verso i paesi poveri.

Qui non si tratta di ecologia. Ma di economia. E di economia molto politica.

Qualche breve osservazione.

Questi allarmi, sempre più frequenti, suscitano nei saggi di Salamanca i soliti sorrisi di scherno.

Il rapporto del Wwf ci dice che stiamo consumando risorse a un ritmo superiore a quello della loro produzione? La risposta convenzionale è semplicissima. Le sostituiremo con altre risorse. I prezzi di mercato ci segnaleranno la loro scarsità. Qualcuno alla fine del Settecento prevedeva che Londra sarebbe stata sommersa nei cinquanta anni successivi dallo sterco dei cavalli. Ma lo sterco fu sostituito dal vapore e il vapore dalla benzina. Elementare. La sostituzione, però, non è infinita. Non può sostituire la terza legge della termodinamica. E costa sempre di più. Qui i prezzi, però, non servono. I prezzi di mercato, gli economisti lo sanno bene, sono prezzi relativi (di una "merce" rispetto a un’altra) mentre il prezzo della natura, è assoluto (di una "merce" non rinnovabile). Se la progressione della "scala" rimane quella attuale, di un raddoppio della produzione ogni 7 anni, in 50 anni la produzione mondiale aumenterebbe di 32 volte: e davvero non basterebbero neppure due pianeti (viene in mente la storiella del Faraone che mette un chicco di grano sul primo scacco e poi raddoppia i chicchi in quelli successivi svuotando i suoi granai già alla quarta fila della scacchiera). Quel limite di scala, nessun mercato può definirlo, è necessaria una decisione consapevole, politica. E mondiale.

Molto prima del limite dell’esaurimento incontriamo comunque il limite del riscaldamento. Oggi le emissioni di energia di origine umana sono trascurabili rispetto a quella che riceviamo dal sole (un quindicimillesimo). Ma nei prossimi 150 anni, al ritmo attuale, provocherebbero un aumento del calore di tre gradi: già catastrofico. Non si dice dopo. Qui però la risposta c’è. Se riuscissimo a utilizzare una anche minima parte dell’energia del sole, senza aggiungervi la nostra, saremmo, per così, dire, a cavallo. Non è facile. Però non è impossibile. Ma quando? In ogni caso, le trasformazioni sociali necessarie per un utilizzo dell’energia solare sono rivoluzionarie e non compatibili con un’economia in crescita continua e squilibrata.

Sarebbe dunque necessario raggiungere, prima o poi, uno stadio stabilizzato (steady state) di crescita zero, anche se continuamente rinnovata nella sua composizione; e soprattutto un grado di consumi equilibrati nell’intero pianeta: il che comporterebbe una restrizione dei consumi (e degli sprechi) nei paesi ricchi e un aumento nei paesi poveri, ma con un tipo di sviluppo diverso da quello attuale dei paesi ricchi.

A chi obietta che i paesi poveri pretenderanno comunque di adottare le abitudini di consumo dei paesi ricchi, e che è impossibile negarglielo, bisogna rispondere che è impossibile raggiungerlo. Al tasso automobilistico americano, indiani e cinesi dovrebbero disporre di circa due miliardi di automobili. E così via per gli altri «beni». Piuttosto si pone, per tutto il mondo, un problema formidabile di redistribuzione dei beni (e dei mali) e di mutamenti fondamentali dei valori (dalla crescita quantitativa al progresso qualitativo).

Non si tratta dunque, soltanto, di un problema di sostenibilità fisica ed ecologica. Si tratta di un gigantesco problema di ristrutturazione sociale, di riorganizzazione politica e di ripensamento etico della civiltà umana. Purtroppo, è probabile che dopo qualche brusìo, ce ne occuperemo (per quanto mi riguarda se ne occuperanno) tra altri quattordici anni. In un altro pianeta.

Tutto iniziò in Canada. Ed iniziò bene. Nel 1971 il Canada fu il primo Paese ad adottare ufficialmente il multiculturalismo. Come dichiara con orgoglio il sito web del Canadian Heritage, «il Canada affermò così il valore e la dignità di tutti i cittadini indipendentemente dalle origini razziali o etniche, dalla lingua o dalla religione».

Il multiculturalismo fu poi adottato ufficialmente dalla maggior parte degli Stati dell'Unione europea, con la Gran Bretagna alla testa di una tendenza che andava diffondendosi e che divenne rapidamente di moda in tutto il mondo. Ma quei tempi felici sono finiti, almeno in Europa. Ora francesi e tedeschi nutrono molti dubbi sull'opportunità di mantenere questo atteggiamento, e danesi e olandesi hanno già modificato la loro politica ufficiale. Perfino la Gran Bretagna è in preda all'incertezza. Qual è, allora, il problema?

La storia del multiculturalismo è un buon esempio di come un ragionamento fallace possa intrappolare la gente in nodi inestricabili, da lei stessa creati. L'importanza della libertà culturale, fondamentale per la dignità di ognuno, deve essere distinta dall'esaltazione e dalla difesa di ogni forma di eredità culturale che non tenga conto delle scelte che le persone farebbero se avessero l'opportunità di vedere le cose criticamente e conoscessero adeguatamente le altre opzioni possibili nella società in cui vivono. La libertà culturale pretende, in primis, l'impegno a contrastare l'adesione automatica alle tradizioni quando le persone (compresi i giovani) ritengono giusto cambiare il loro modo di vivere.

Il valore che la diversità può avere, in termini di libertà, deve dipendere proprio da come viene determinata ed affermata. Se in una famiglia conservatrice di immigrati in Inghilterra una ragazza vuole uscire con un ragazzo inglese, la sua scelta non può essere biasimata appellandosi alla libertà multiculturale. Al contrario, il tentativo dei suoi tutori di impedirglielo (cosa che accade spesso) non è affatto un atteggiamento multiculturale, dal momento che è volto a tenere le culture separate, in quella che si potrebbe definire una «pluralità di monoculturalismi». Eppure è la proibizione dei genitori che oggi sembra suscitare le simpatie dei devoti multiculturalisti.

In questo contesto, è interessante esaminare la storia del multiculturalismo in Gran Bretagna. In Inghilterra la fase positiva dell'integrazione multiculturale è stata seguita da una fase di separatismo e di confusione. L'Inghilterra postcoloniale partì straordinariamente bene, cercando di integrare le comunità di immigrati attraverso un trattamento non discriminatorio nell'assistenza sanitaria, sociale e nel diritto di voto. Quest'ultimo diritto proveniva dalla decisione lungimirante di creare un Commonwealth di nazioni, iniziativa in sé multiculturale con una forte leadership inglese, che ha reso possibile, tra le altre cose, a tutti i cittadini residenti nel Commonwealth (compresa quasi tutta la popolazione di immigrati non bianchi in Gran Bretagna) di partecipare alle elezioni. A differenza della vicenda palesemente discriminatoria degli immigrati in Germania, Francia e in gran parte dell'Europa, la politica britannica di dare il più rapidamente possibile diritti economici, sociali e politici agli immigrati legali va ricordata con grande favore.

I problemi, ad esempio nel mantenere l'ordine pubblico, che si verificarono e che furono chiaramente collegati ai disordini del 1981, soprattutto a Brixton e Birmingham, furono affrontati con un'ulteriore azione lungimirante guidata da Lord Scarman, che condusse un'inchiesta su quei disordini e accusò lo «svantaggio razziale che è un dato di fatto della vita inglese». Non tutti i problemi rilevati dal rapporto di Scarman sono stati risolti (la razza può ancora creare differenze, come continuano a crearle la classe sociale e il genere), ma c'è stato un impegno persistente, cominciato assai prima che il «multiculturalismo» diventasse uno slogan diffuso, nel cercare di ottenere che tutti gli inglesi fossero trattati da eguali, indipendentemente «dall'origine razziale o etnica, dalla lingua o dalla religione», per citare nuovamente la fondamentale espressione del Canadian Heritage.

La tragedia è che, quando lo slogan del multiculturalismo ha guadagnato terreno, è aumentata anche la confusione su quali fossero i suoi requisiti. La prima confusione è quella tra il conservatorismo culturale e la libertà culturale. Essere nati in una particolare comunità non è di per sé un esercizio di libertà culturale, dal momento che non è una scelta. Al contrario, la decisione di restare saldamente all'interno della tradizione sarebbe un atto di libertà se la scelta fosse fatta dopo aver preso in esame diverse alternative. Nello stesso modo, la decisione di allontanarsi — di poco o di molto — da schemi di comportamento tradizionali, presa dopo un'attenta riflessione, sarebbe anch'essa un atto di libertà multiculturale.

La seconda confusione risiede nell'ignorare il fatto che, mentre la religione potrebbe essere un elemento di identità importante (soprattutto se si ha la libertà di scegliere se seguire o rifiutare le tradizioni ereditate o assegnate), ci sono altre affiliazioni e associazioni — politiche, sociali, economiche — cui le persone danno valore. La cultura non è limitata alla religione. L'espressione canadese si riferisce esplicitamente alla lingua, oltre che alla religione, e a questo proposito vale la pena di ricordare che, anche se in Inghilterra i bengalesi sono ora ufficialmente etichettati come «musulmani inglesi», essi hanno lottato (e con successo) per l'indipendenza non in nome della religione, ma per ottenere la libertà linguistica e politica.

I leader politici inglesi ora si rivolgono spesso ai diversi gruppi di appartenenti alla stessa religione come a comunità separate, governate dalle loro tradizioni (naturalmente chiedendo che la politica religiosa abbia una forma «moderata»). I portavoce religiosi dei gruppi di immigrati vengono presi in considerazione — e hanno accesso ai corridoi del potere — come mai prima d'ora. Nuove «scuole religiose» vengono create con l'incoraggiamento e il sostegno del governo, che guarda con più attenzione a «equilibri» religiosi alquanto meccanici, secondo i desideri dei cosiddetti leader delle comunità, piuttosto che a questioni più importanti come i contenuti educativi e l'insegnare ai bambini a ragionare liberamente.

Il ruolo di divisione di una scuola separata, così determinante nel seminare discordia nell'Irlanda del Nord, allontanando cattolici e protestanti (e instillando l'idea di classificazione fin dall'infanzia) è ora permesso e, in effetti, incoraggia a seminare alienazione in un'altra parte della popolazione inglese. Quel di cui abbiamo ora bisogno non è l'abbandono del multiculturalismo, né il rifiuto della meta di un'eguaglianza indipendente dalle «origini razziali o etniche, dalla lingua o dalla religione», ma il superamento di queste due confusioni che hanno già creato tanti problemi. È importante perché la libertà è fondamentale, ma anche per evitare ribellioni di emarginati come in Francia, e la crescente minaccia di correnti di pensiero violentemente separatiste, in ascesa in Gran Bretagna, che in alcuni casi hanno dato luogo ad azioni brutali. È importante riconoscere che il primo successo del multiculturalismo inglese era legato al tentativo di integrare, non di separare. Concentrarsi sul separatismo, come si fa ora, non è un contributo alle libertà multiculturali, ma è il suo opposto.

(Traduzione di Maria Sepa)

© Amartya Sen 2006 Questo testo è apparso sul «Financial Times»

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