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Il giornalista morì il 27 agosto del 1996. In quel celebre libro delineò il profilo di un paese che distruggeva i suoi paesaggi e i suoi centri storici - Nel volume raccolse gli articoli apparsi sul "Mondo" fra il 1949 e il 1956 - Tutelare l´antico era il presupposto perché la città moderna crescesse correttamente

Anticipiamo alcuni brani dalla prefazione di alla riedizione de I vandali in casa di Antonio Cederna, in libreria ai primi di settembre (Laterza, pagg. 336, euro 16)

Sono molti i temi che accompagnano Antonio Cederna nei diciassette anni di collaborazione a Il Mondo di Mario Pannunzio, una collaborazione iniziata quando il periodico muoveva i primi passi, nel 1949, e chiusa quando questo terminò le pubblicazioni, nel marzo del 1966. Cederna vi svolse l´intenso lavoro di cronista delle vessazioni che il territorio italiano andava subendo in quelli e negli anni successivi. Ai maltrattamenti patiti dalle bellezze artistiche, si aggiunsero quelli inferti ai centri storici, al paesaggio e poi alle città, la cui crescita, agli occhi di Cederna, stava assumendo caratteri informi, guidata da direttrici speculative e strutturalmente diversa da quella che esse avevano conosciuto nei secoli precedenti. (...) Negli articoli che egli scrisse si delinea il profilo di un´Italia che ha fretta di crescere ignorando se stessa, che dissipa l´antico e le qualità non solo estetiche che da esso promanano, consumando suolo e paesaggi. Parte di quegli interventi Cederna li raccolse ne I vandali in casa, uscito nell´autunno del 1956: è un libro che intona il controcanto di questo mezzo secolo di storia italiana, che dà il tono di un paese il quale sarebbe potuto essere diverso da com´è stato e prefigura un´alternativa possibile che, mezzo secolo dopo (e a dieci anni dalla scomparsa di Cederna), come il negativo di una fotografia, spiega l´Italia di oggi. (...)

Cederna sottolinea il profilo sistematico delle trasformazioni italiane. La degradazione della storia e della sua eredità, la distruzione dell´antico e del bello, la manomissione della natura e dei suoi equilibri non vengono lette solo come violazioni inammissibili di quanto il passato ha elaborato ed esteticamente definito, consegnandolo alle generazioni successive e impegnandole a tutelarlo come il luogo in cui è consegnata parte della loro identità. Questo basterebbe a imporre la salvaguardia, che è prodotto di civiltà e di civiltà moderna in specie. Ma non è sufficiente a spiegare l´atteggiamento di Cederna che si sbaglierebbe a ridurre alla sola componente conservativa: le violazioni Cederna le interpreta come uno dei modi di essere dell´Italia di quegli anni, le mette in rapporto con il tipo di sviluppo che l´Italia aveva intrapreso, con la fisionomia che andavano assumendo - o confermando - le sue classi dirigenti, l´amministrazione statale, dai livelli più alti a quelli semplicemente esecutivi, le burocrazie comunali, combattendo con i suoi interventi chi giudicava quelle manipolazioni alla stregua di un danno collaterale, l´accidentale e inevitabile corollario, e non una delle condizioni perché il cammino del paese procedesse esattamente in quel modo.

Il Mondo è la cornice in cui le riflessioni di Cederna si distendono. E non è difficile cogliere quel di più di significato che il settimanale attribuisce ai suoi interventi: è un contesto nel quale si schierano Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi (per indicare soltanto due fra i tanti collaboratori cui spetta di dettare le linee-guida della testata) e che consente agli argomenti di Cederna di agganciarsi al più ampio dibattito sull´economia, la società e la politica italiana, la cultura, la cultura accademica, l´ambiente delle professioni. I "gangster" che scorrazzano sull´Appia, le grandi famiglie proprietarie di immense porzioni del territorio di Roma, gli azionisti e i dirigenti della Società Generale Immobiliare che orientano lo sviluppo della capitale nella direzione da essi auspicata, i pianificatori-burocrati che sventrano il centro di Milano sono i prototipi di un´economia semi-feudale, che al rischio imprenditoriale preferiscono la rendita fondiaria e immobiliare e si affiancano a quelle figure che compaiono nelle denunce di Ernesto Rossi contro il capitalismo monopolista e parassitario, il quale fonda le sue fortune sui privilegi e non sull´espansione industriale. (...)

La posizione favorevole a una salvaguardia totale dei centri storici è il primo punto sul quale si concentra la lunga introduzione a I vandali in casa. (...) Quel che sta accadendo in quegli anni a Roma, a Milano o a Lucca non è solo l´inserimento di manufatti moderni in contesti antichi. Lo sventramento è un intervento ben più invasivo, che scardina la struttura viaria e architettonica, impone alle strade e agli edifici misure non compatibili con la struttura tradizionale, sovraccarica un ambiente delicato di cubature fuori proporzione. Il caso milanese è esemplare. Nel capoluogo lombardo non si distrugge, salvo che in qualche caso, edilizia monumentale, ma edilizia sette-ottocentesca non particolarmente pregiata eppure in grado di definire il linguaggio architettonico dell´intero centro cittadino. «La bella e antica e sotto molti aspetti importante città di Milano è condannata a sparire dalla faccia della terra», scrive con gli accenti dolenti e paradossali che rendono figurata la pratica di allargare strade, rettificare, raddrizzare, costruendo edifici imponenti, che centuplicano la rendita immobiliare. Il fascismo ha sfigurato il centro cittadino, ma le nuove amministrazioni meneghine proseguono nel progetto immaginando demolizioni e ricostruzioni, disegnando "racchette" che attraversino il cuore della città da parte a parte.

Se ormai è impossibile bloccare a Roma il completamento dei lavori di via della Conciliazione o la mutilazione di via Giulia, all´altezza di San Giovanni dei Fiorentini, possono essere risparmiate altre cruente operazioni nella carne viva del centro storico. Il piano regolatore della capitale prevede il micidiale sventramento di via Vittoria e di buona parte degli edifici circostanti per realizzare una strada che da piazza Augusto Imperatore e di qui fino al Lungotevere tagli perpendicolarmente via del Corso, squarci via del Babuino e via Margutta, sfilando parallela a via della Croce e via Condotti e si infili in un tunnel sotto il Pincio, in via San Sebastianello, sbucando in via Sant´Isidoro, praticamente in via Veneto. È uno scasso che ha le dimensioni di una catastrofe per tutto il centro storico romano e non solo per quella sua porzione pregiatissima. Al posto degli edifici esistenti sorgeranno palazzi di molti più piani e con densità abitative sconvolgenti che alimenteranno una ghiotta spirale speculativa. Sparirà la rete di piccole strade sostituita da arterie per sole macchine ed anzi è proprio questo l´obiettivo dichiarato di tutta l´operazione: rendere più fluido il traffico di scorrimento dalla zona dell´Esquilino e della stazione Termini al quartiere Prati, attraversando quel che resta del centro storico. Ma grazie agli articoli di Cederna e alla mobilitazione di molti intellettuali, quel progetto verrà sventato. (...)

Cederna osserva le trasformazioni che Roma sta subendo con animo dolente e articola il suo stile con i toni dell´invettiva. Non gli sfugge il contesto. L´assalto al centro impedisce che una città funzioni correttamente, perché pretende di caricare il nucleo storico di funzioni incompatibili con la sua struttura e che molto più opportunamente possono essere sistemate nelle zone di espansione. Cederna non manifesta alcuna opposizione verso la crescita di un organismo urbano, verso l´atto del costruire, tantomeno verso la categoria del moderno. L´aggressione di un centro storico, insiste, si evita con la sua integrale salvaguardia e costruendo razionalmente la città moderna, orientandone lo sviluppo in una direzione definita, immaginando un altro baricentro, quello in cui collocare le funzioni direzionali (che a Roma significa soprattutto ministeri, ma non solo) e non ammassando lungo tutta la fascia che cinge la città insediamenti residenziali, anonimi, inospitali, dormitori senza alcun pregio. Distruggere un centro storico e far crescere la città "a macchia d´olio" sono operazioni che si reggono a vicenda, sono «un´equivoca e irrazionale contraffazione di modernità». La modernità delle altre città e capitali europee porta in una direzione diversa, dettata da una pianificazione urbanistica che è tutela di interesse collettivo e che andrebbe resa "coercitiva", «contro le insensate pretese dei vandali, che hanno strappato da tempo l´iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l´opinione pubblica».

Vandalo è chi distrugge l´antico. Ma non solo. La coppia oppositiva vandalo/modernità è scandita con nettezza. Vandalo è chi distrugge l´antico perché la città assuma una fisionomia più consona a interessi privati e non pubblici, perché il suo territorio venga spremuto al pari di una risorsa dalla quale ricavare quanto più reddito possibile. Il secondo tempo dello sventramento è infatti lo sfruttamento intensivo dei terreni appartenenti alle grandi proprietà immobiliari, verso le quali si indirizzano le scelte amministrative, adottate senza criteri razionali, urbanisticamente verificabili, che non siano la forza dei titolari di quelle proprietà. I bersagli polemici del Cederna di questi anni (la distruzione delle ville, gli sventramenti nel centro storico, le costruzioni ai piedi dell´Aventino o a San Giovanni) non si comprendono appieno se non allargando la mira sull´intera urbanistica romana, che a sua volta condensa ed esalta le scelte che le classi dirigenti stanno compiendo su scala nazionale.

Dieci anni fa, il 27 agosto del 1996, moriva Antonio Cederna. Aveva 75 anni. Archeologo e giornalista, per alcuni decenni fu l´artefice di battaglie per la tutela del paesaggio e delle città storiche, sostenitore di una corretta urbanistica e avversario della speculazione edilizia. È stato fra i fondatori, nel 1955, di Italia Nostra. Ha scritto su Il Mondo, sul Corriere della Sera e quindi sull´Espresso e su Repubblica. Nel 1956 pubblicò il suo primo libro I vandali in casa, che i primi di settembre esce in una nuova edizione da Laterza per la cura di Francesco Erbani, il quale ha scritto anche una prefazione e una postfazione (pagg. 336, euro 16). Per il decennale della morte, l´editore Corte del Fontego ha ripubblicato un altro libro di Cederna, Mussolini urbanista, con una prefazione di Adriano La Regina e una postfazione di Mauro Baioni (pagg. 281, euro 23). Da Diabasis esce poi Caro Tonino (pagg. 64, euro 10). Lo ha scritto nel 1997 Manlio Cancogni. È una specie di lunga lettera all´amico Cederna, con il quale lo scrittore toscano aveva condiviso negli anni Cinquanta la campagna giornalistica contro la speculazione edilizia a Roma, in occasione dell´alluvione che nel 1996 si abbatté sulla Versilia.

Lo stato versa un milione e 394mila euro ai privati. E compra un pezzo di storia della Regina viarum: il casale di Santa Maria Nova e gli annessi tre ettari di verde - sotto cui probabilmente dorme il fastoso giardino di una villa romana - che un tempo erano annessi al complesso della magnifica dimora dei Quintili. Ma intanto annuncia che nella villa di Capodibove, vicino a Cecilia Metella, «a giugno sarà inaugurato il Centro di documentazione dell’Appia antica. Sarà intitolato ad Antonio Cederna e il suo archivio verrà ospitato nella dépendance appena restaurata, in attesa che siano completati, entro l’anno, i lavori dell’edificio principale».

Lo ha spiegato ieri Rita Paris, direttrice dell’Appia antica per la Soprintendenza archeologica, presentando l’acquisizione di Santa Maria Nova. Il casale, sorto intorno a una cisterna e una torre d’età adrianea, diventerà spazio mostre, centro studi e struttura d’accoglienza per i visitatori della villa dei Quintili. «Dobbiamo coniugare conservazione e fruizione pubblica» ha detto il soprintendente archeologo Angelo Bottini. Che - dopo aver «reso merito ad Adriano La Regina», suo precedessore, per l’acquisto messo a segno dopo cinque anni di trattative - ha spiegato il senso di un’operazione opposta alla logica di alienazione ai privati: «Solo allargando la proprietà demaniale, si può fare tutela del territorio e aprirlo al pubblico».

Gli ultimi abitanti del casale di Santa Maria Nova erano clandestini romeni, sgomberati dai carabinieri due settimane fa. Il complesso del XII-XIII secolo era del resto abbandonato da una ventina d’anni. Nel dopoguerra era stato trasformato, con diverse aggiunte, in villa da sogno (vi hanno abitato Roger Vadim e la Bardot). E di fantasmi. La proprietaria che l’ha venduta allo Stato, missis Kimble, ha raccontato che in certi giorni era possibile ascoltare strani canti di bambina. Era forse lo spirito della fanciulla romana, la cosiddetta Tulliola, trovata nel 1485 dai monaci olivetani in un sarcofago, e dissoltasi a contatto dell’aria. È l’unica scoperta, per quanto leggendaria, avvenuta nell’area. Ma ora, finiti i lavori di bonifica ambientale (c’è di tutto, frigoriferi, water, amianto), partiranno gli scavi archeologici. Intorno e dentro al casale. Ma anche in tutta l’area, fino all’altra cisterna, riprodotta dal Piranesi in una bellissima tavola.

«Inizieremo il mese prossimo, dal cumulo di terra che potrebbe celare un ninfeo o un’altra architettura del giardino. Poi passeremo all’ambiente ipogeo, pieno d’acqua, che potrebbe essere un criptoportico», spiega Riccardo Frontoni. All’archeologo, già impegnato con altri colleghi ai Quintili, brillano gli occhi davanti ai muri in opus reticulatum sommersi da vegetazione e rifiuti. Ma, lì sotto, potrebbe riposare qualche altra fanciulla romana. Magari di marmo.

Antonio Cederna è stato un archeologo che, per amore della bellezza da salvare, divenne giornalista, urbanista, organizzatore culturale, attivista di associazioni, parlamentare, pubblico amministratore.

Nato a Milano il 17 ottobre del 1921, si è laureato in archeologia classica all’Università di Pavia ed ha conseguito il diploma alla scuola di perfezionamento di Roma. Divenuto nel 1950 collaboratore de Il Mondo, rivista diretta da Mario Pannunzio, si è dedicato, dalle colonne del settimanale, alla denuncia sistematica e puntuale di quanto, nei fatti e nei progetti, metteva a rischio i beni culturali, il paesaggio e la natura del nostro paese. Da allora in poi è stato portavoce e protagonista di una serie di battaglie – alcune delle quali memorabili – contro le manomissioni dei centri storici (a cominciare da quelli di Roma e Milano), l’indiscriminata cementificazione delle coste, la distruzione della natura, l’espansione incontrollata e priva di qualità delle aree urbane. La vicenda alla quale è maggiormente legato il suo nome riguarda la salvaguardia del comprensorio dell’Appia Antica dall'espansione edilizia, alla quale ha dedicato l’impegno di una vita, come testimoniano gli oltre 140 articoli scritti nell’arco di quarant’anni.

Come giornalista, ha collaborato con Il Mondo fino al 1966, con il Corriere della Sera, dal 1967 al 1981 e, successivamente, con Repubblica e l'Espresso. I Vandali in casa, Laterza, 1956; Mirabilia Urbis, Giulio Einaudi, 1965; La distruzione della natura in Italia, Einaudi, 1975; Brandelli d'Italia, Newton Compton, 1991, costituiscono raccolte ordinate e commentate degli articoli pubblicati sui giornali e su alcune riviste di settore. Ha pubblicato inoltre Mussolini urbanista, Laterza, 1979, dedicato alla ricostruzione storica, in chiave fortemente critica, delle più clamorose manomissioni del centro storico di Roma operate durante l’epoca fascista.

E’ stato tra i fondatori, nel 1955, dell’associazione culturale Italia Nostra, di cui è stato consigliere nazionale dal 1960, presidente della Sezione Romana dal 1980, socio onorario, editorialista del Bollettino. E’ stato membro della VI sezione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, consigliere comunale a Roma dal 1990 al 1994, deputato della Sinistra Indipendente dal 1987 al 1992. Come parlamentare ha promosso, in particolare, la proposta di legge per Roma capitale, la legge quadro sulle aree naturali protette e sulla difesa del suolo. Nel 1993 è stato nominato Presidente del Parco dell'Appia Antica e negli ultimi anni della sua vita si è battuto duramente per far decollare il parco.

Più di ogni altra cosa, Cederna deve essere considerato come un grande urbanista moderno. Nei suoi scritti e nei suoi interventi, la difesa del patrimonio storico e ambientale, della storia e della bellezza, costituisce il fondamento della costruzione del presente e del futuro, affidata alla pianificazione urbanistica, strumento indispensabile per “impedire che il vantaggio di pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità”. Ironico, implacabile nella denuncia, nei suoi scritti ha utilizzato volutamente “la polemica acre e violenta, la protesta circostanziata e precisa, lo scandalo sonoro”, finanche l’invettiva. Nelle sue parole traspare soprattutto l’intransigenza, intesa come serietà, come rigore, come “forte posizione moralistica” perchè, come ha sostenuto con amara ironia, “in un paese di molli e conformisti, la rivolta morale può essere almeno un elemento di varietà”.

Sono passati dieci anni da quando Antonio Cederna ha lasciato per l’ultima volta Roma per la Valtellina, nell’estate del 1996.

In questo decennio a Roma, per iniziativa del sindaco Francesco Rutelli, è stata intitolata a Cederna una terrazza di fronte alla basilica di Massenzio e al Colosseo, là dove esisteva la collina della Velia, distrutta all’inizio degli anni trenta del XX secolo per aprire via dell’Impero, da piazza Venezia al Colosseo. Così aveva descritto quel luogo in “Mussolini Urbanista” (Laterza, 1979 pag 189): “Bisogna adesso in qualche modo provvedere a rabberciare la parete risultante dal taglio della collina. Uno degli archeologi più intronati propone che “a decorazione dei moderni sostegni” della Villa Rivaldi sia posta “una colossale protome di elefante primigenio, scolpita nel marmo o fusa nel bronzo” a ricordo dei fossili scoperti: una specie di trofeo nel salotto di un cacciatore. Avrà invece la meglio il Muñoz che provvede da par suo alla sistemazione che ancora oggi si può ammirare: un muraglione in mattoni con nicchie, con doppia scala cieca, decorata da dodici grosse palle di pietra. Una foglia di fico al posto di quello che era stato uno dei giardini rinascimentali più belli di Roma”. (L’archeologo citato era G. Marchetti Longhi).

Non sappiamo se Muñoz si sia rivoltato nella tomba quando è stato posto il nome di Cederna su quella terrazza; certo quella decisione è stata variamente commentata. Da una parte si poteva considerare come uno sbaglio di cattivo gusto: quasi si fosse posta una lapide con il trionfale proclama vittorioso di Diaz non a Vittorio Veneto, ma a Caporetto. Da un’altra parte si poteva invece pensare non tanto a un cippo funerario, quanto a una sfida: proprio là dove era stato compiuto uno dei peggiori misfatti denunciati da Cederna (assieme a Borgo, all’Augusteo-Ara Pacis, al Campidoglio), adesso campeggiava il suo nome ad indicare un futuro diverso ed opposto.

E la scelta di quel luogo da parte dell’allora Sindaco poteva confermare la svolta indicata qualche tempo prima dal sindaco Luigi Petroselli, di cui Cederna citava spesso una frase: “Oggi si dice ancora: dato che abbiamo tante macchine, dato che abbiamo queste strutture viarie, vediamo un po’ che cosa si può fare per campare. E invece va detto: dato che non si campa più, veda un po’ la tecnologia, veda la tecnica del trasporto che cosa si può fare, studi, si adatti, si subordini” (“L’Unità” 05/04/1981).

Dato che la Terrazza Cederna è lì, vediamo cosa è stato fatto (e cosa non è stato fatto).

Guardando a destra si vede che sono stati scavati i fori di Nerva, di Augusto, di Traiano, di Cesare, tra via Alessandrina e i Ss. Luca e Martina. Sono venute fuori le cantine del quartiere costruito nel primo ventennio della Controriforma, riempite con i materiali di demolizione dei piani superiori (per risparmiare negli anni trenta il trasporto alle discariche); poi è venuto fuori qualche insospettato edificio dell’Alto Medioevo; poi sono venute alla luce le tante parti dei fori imperiali rimaste sotto l’asfalto e le aiole (e si è visto che non pochi complessi erano diversi da come gli archeologi e gli storici avevano faticosamente ipotizzato); infine si è visto anche qualcosa anteriore alle opere imperiali, repubblicano o magari risalente alle opere idrauliche etrusche.

Dunque aveva ragione Cederna (e Petroselli): valeva la pena.

Guardando davanti alla terrazza Cederna, si vedono gli scavi in corso del foro di Vespasiano - completamente ignorato - che rivela non solo pezzi di gigantesche colonne, ma interessantissimi pavimenti a mosaico e tarsie. Ci si accorge però che altre cose non sono state fatte. Il grande rettifilo piazza Venezia-Colosseo è ancora lì con il suo traffico e spacca ancora in due la grande zona archeologica centrale, impedendo la vera nascita del grande parco Archeologico dal centro all’Appia antica. E si vede che si è dovuta puntellare con giganteschi tiranti d’acciaio addirittura la basilica di Massenzio, messa in crisi dal traffico pesante: la corsia riservata agli autobus è proprio adiacente alla basilica, su un tratto d pavimentazione tra i più disastrati di Roma. Quanto bene facciano le continue vibrazioni ai resti millenari, non è difficile immaginarlo.

Se dalla terrazza si gira lo sguardo di fianco si vede Palazzo Rivaldi (il “Convento occupato” del ’68): sempre più abbandonato e rovinato, con l’acqua che scende dalle grondaie sfasciate e le finestre chiuse con mattoni per sostituire gli infissi scomparsi.

Da trent’anni, ogni tanto i giornali annunciano trionfalmente (come sempre quando una notizia è campata in aria) che il palazzo finalmente è stato venduto, acquistato, che cominciano i restauri, che sarà un museo... (che sarà inaugurato il 21 aprile).

Quando ciò avverrà chi calcolerà i soldi spesi in più dal Comune o dallo Stato per questi decenni di degrado crescente ed esponenziale?

Immaginiamo che Cederna guardi per finire dalla sua terrazza verso il Colosseo: vedrebbe innanzitutto tanti gladiatori e scriverebbe uno dei suoi pezzi furiosi, ma ironici: era un giornalista che sapeva come l’ironia può essere terribile. Dietro ai gladiatori c’è il Colosseo e qui forse Cederna si sarebbe rallegrato perché una parte è stata dedicata a mostre, ma forse avrebbe protestato per il contenuto (o per la FORMA) di qualcuna un po’ troppo vanesia e dedicata solo alla propaganda di un progetto di mantenimento del rettifilo sopra e contro la zona archeologica.

Ma Cederna sapeva guardare lontano e (lasciando perdere l’Ara Pacis e il continuo sproloquiare su parcheggi sotto ai lungotevere) si compiacerebbe per l’avvio (anche se lentissimo, ma ormai si spera senza rischi) del Parco dell’Appia Antica e soprattutto perché c’è e funziona un’opera che fu lui a “lanciare” quando era consigliere comunale; l’Auditorium al Flaminio (a proposito perché non intitolare anche lì qualcosa a Cederna? Magari proprio l’area archeologica scoperta lì dentro).

Adesso, a dieci anni dalla scomparsa, tutti diranno che l’amavano, che ne condividevano le battaglie, che si identificavano in lui, eccetera eccetera. Non credeteci. Per anni, per decenni, Antonio Cederna, animatore di tante campagne per la salvezza del Bel Paese, è stato un personaggio isolato quando non detestato come una sorta di «bestia nera» dello sviluppo e delle sue magnifiche sorti. Anche nei giornali conobbe, essenzialmente, due bellissime stagioni: quella del settimanale il Mondo di Mario Pannunzio del quale divenne, dal 1950, debuttandovi come pubblicista, una colonna portante, e l’altra dell’ultimo Corriere della Sera (anni ’70) di Giulia Maria Crespi e di Piero Ottone, sul quale ebbe finalmente il grande spazio e il risalto che meritava scrivendovi in piena libertà. Gli ultimi anni a Repubblica non furono fra i più felici, si riteneva confinato alle cronache romane, misurava con amarezza crescente i giorni e le settimane che passavano dalla consegna di un articolo alla sua pubblicazione.

Chi, come me, lo ha frequentato quasi quotidianamente negli ultimi vent’anni di vita, anche professionale, dopo averlo avuto compagno, e maestro, nella ristretta compagnia di giro (lui, Mario Fazio, Alfonso Testa, Vito Raponi, Salvatore Rea e pochissimi altri) che seguiva le vicende urbanistiche e ambientali del tempo conosce bene i rovelli di un personaggio scomodo e anticipatore, del quale oggi si coglie meglio il rilievo e la novità.

Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano (l’animatore di Eddyburg), entrambi apprezzati urbanisti, ne parlano oggi come di un grande urbanista. In effetti riesce difficile incasellare Antonio in una categoria precisa: saggista, giornalista, polemista, sta bene, ma certamente di più, difensore della natura e del paesaggio, propugnatore di progetti innovativi di conservazione (ovunque ve ne fossero, nei musei come nei parchi, tanto contestati, era presente, con la fatica di scrivere, e soprattutto di vedere poi pubblicato il proprio lavoro), estensore di un argomentato progetto di legge speciale per Roma che resta forse il suo sforzo più organico partendo dal discorso del grande parco urbano, dai Fori all’Appia.

Antonio Cederna rimane, con la sorella Camilla, formidabile giornalista di costume e non solo, col cognato Leonardo Borgese, come lui archeologo di formazione e poi critico d’arte, che lo anticipò di qualche anno nel raccontare L’Italia rovinata dagli Italiani (Rcs, 2005), uno degli esponenti più veri di una borghesia lombarda, milanese, che non c’è quasi più: laica con venature di severo giansenismo, impregnata di forti spiriti riformatori e quindi pronta a spendersi, con coraggio, per un Paese finalmente sensibile ai valori della bellezza, della storia, della cultura, insomma della civiltà più piena e praticata.

Antonio si era formato alla scuola di archeologia dell’Ateneo Ticinese di Pavia e a Roma era arrivato per esercitare quel mestiere. Forse non pensava affatto di intraprenderne un altro, quello che era già, con coraggio e successo, della sorella maggiore Camilla, punta acuta e acuminata dell’Europeo di Arrigo Benedetti. Scrisse anzi un saggio sul suo primo scavo, a Carsoli, sulla Tiburtina. Poi l’ingresso nella cerchia degli amici del Mondo, in via della Colonna Antonina, composta da ex azionisti, repubblicani, socialisti liberali, radicali soprattutto, e l’esordio in un giornalismo di battaglia: sull’orrenda, piacentiniana via della Conciliazione e sull’ultimo mega-sventramento proposto per tutta l’area storica fra piazza di Spagna e piazza del Popolo. Subito dopo la campagna in difesa della regina viarum, I gangsters dell’Appia, centinaia di articoli, come per La Città Eternit. Campagne conclusesi, sovente, con successi pieni o parziali. Per esempio, col vincolo dei primi 2.500 ettari dell’Appia Antica decretato dal ministro dei Lavori Pubblici, Giacomo Mancini, esattamente mezzo secolo fa.

Qui va detto che Antonio Cederna, a smentita di tanti avversari e denigratori, fu uomo di proposta. Non era affatto contrario all’architettura contemporanea, purché all’esterno delle città storiche, rigorosamente. Fu tra i primi a visitare le New Towns britanniche per proporle come possibile modello per le nostre nuove periferie (che definiva, invece, «per murati vivi»). Oppure a dar conto agli italiani dell’urbanistica olandese o svedese. Compiendo così, con altri (penso alla rivista Comunità di Adriano Olivetti), un’opera di positiva divulgazione di modelli avanzati, di cui sentiamo anche oggi la mancanza. Sostenne a fondo l’esperienza bolognese del piano Fanti-Cervellati per il recupero e il restauro delle case popolari antiche del centro antico ad uso dei residenti, documentandola a fondo, con scrupolo, e portandola come esempio, in modo felicemente pragmatico. Quando ebbe, abbastanza tardi, nel 1987, la possibilità di dare il proprio contributo quale parlamentare eletto da indipendente nelle liste del Pci alla Camera, fra il 1987 e il 1992, stupì molti colleghi - che lo pensavano un «signor No» e basta - con la sua grande capacità di proporre e di fare, in positivo, secondo una cultura lombarda che risaliva a Carlo Cattaneo. Ne colsi ancora un’eco ammirata, anni dopo, all’interno della Commissione parlamentare Ambiente, Territorio e Infrastrutture di Montecitorio.

Ma, come dicevo all’inizio, non fu certo amato da tutti. Ebbe subito nel Pci un duro scontro con Lucio Libertini il quale, da responsabile della Casa, appoggiava le rivendicazioni «sociali» degli abusivi guidati dal sindaco Monello di Vittoria, nel Ragusano. Su questo e su altro Antonio fu giustamente intransigente. Oggi sorriderebbe amaro dell’«ambientalismo ragionevole» di cui qualcuno discorre mentre scempi e abusi imperversano. Sapeva dire sì e no con uguale rigore. Nel 1987 fu una sorta di candidato-bandiera in otto o nove collegi della Camera. Nel 1992 non venne ripresentato. Stava comunque dando il proprio umile e fattivo contributo nel Consiglio comunale di Roma, dove era già stato, da radicale eletto nel Psi, ai tempi della battaglia durissima, ahinoi perduta, sull’Hotel Hilton a Monte Mario, voluto dal sindaco dc Urbano Cioccetti coi voti del Msi. Contributo che risultò stavolta decisivo, con un memorabile discorso notturno («Avevo bevuto un paio di fernet…», si schermì dopo), per scegliere l’area del Flaminio per il nuovo Auditorium di Roma. Che quindi si deve, in parte, anche a lui. Nel 1993 ebbe la presidenza del Parco regionale dell’Appia, tutto da costruire. Fu la sua ultima commovente fatica, sessant’anni dopo la indignata campagna sul Mondo, consegnata con altre ai suoi libri, da I vandali in casa a Mirabilia Urbis, a La distruzione della natura in Italia, a Mussolini urbanista, all’ultimo Brandelli d’Italia. Sono opere-manifesto, col progetto per Roma, per una sinistra che voglia essere ancora tale.

Nel privato, voglio dirlo, era, come Camilla del resto, persona piacevolissima, pieno di humour, di voglia di mutare in scherzo l’invettiva. Recitava a memoria Dante, Shakespeare e Manzoni. Ma era pure un grandissimo appassionato di calcio, tifoso interista dai tempi del Pepìn Meazza e dell’Arena. Per i Mondiali di Argentina vedemmo insieme a casa sua, accuditi con dolce ironia dalla moglie Maria Grazia, quattro partite di fila, dalle quattro del pomeriggio a mezzanotte. Antonio, il Tonino per i famigliari, era anche questo. Il suo nome non figura fra i fondatori ufficiali di Italia Nostra, nel 1955. «Ero timido», raccontava, fra il serio e l’ironico.

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