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Francesco Erbani, Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Roma, Legambiente-La biblioteca del cigno, 160 pp., 9,50 euro.

Il nuovo volume di Francesco Erbani è dedicato ad uno dei maestri del giornalismo italiano e, assieme, uno dei più importanti intellettuali italiani della seconda metà del ‘900, ben noto ai lettori di eddyburg: Antonio Cederna.

Il volume ripercorre la vita e il pensiero di Cederna sin dalle prime battaglie contro i monopoli e la rendita fondiaria, ancora oggi attualissime. E dall’insieme del volume emerge l’inalterata modernità del suo pensiero: dalle cronache sul Mondo che dal 1949 documentano il modo perverso in cui stanno crescendo le città italiane.

Indimenticabili le battaglie per la difesa dell’Appia e a favore di una pianificazione urbanistica pubblica.

Ma nel corso di oltre quarant’anni, Cederna sarà chiamato a denunciare le mille vicende che testimoniano l’assalto al territorio, il suo degrado e assieme quello del patrimonio culturale italiano.

Ora più che mai occorre rileggere Cederna!

Le prime presentazioni del volume:

5 giugno 2012 - Ferrara, Università di Ferrara, Facoltà di Architettura, via Quartieri, 8, h. 16:

Dialogano con l’autore: Francesca Leder, Arturo Lanzani e Elena Granata.

7 giugno 2012 – Roma, Villa di Capo di Bove, Appia Antica 222, h. 17:

Assieme all’autore intervengono Vezio De Lucia, Roberto Della Seta, Maria Pia Guermandi, modera Marco Fratoddi.

Portano una testimonianza: Desideria Pasolini dall’Onda, Adriano La Regina, Carlo Melograni, Edoardo Zanchini.

Antonio Cederna su eddyburg

Ricorre in questi giorni il decimo anniversario della morte di Antonio Cederna e sono trascorsi cinquant’anni dalla prima edizione del suo capolavoro “I vandali in casa” pubblicato nel 1956, che tornerà in libreria i primi di settembre a cura e con la prefazione di Francesco Erbani (ed. Laterza). Assieme ad Elena Croce e Umberto Zanotti Bianco, Cederna è stato, nel 1955, tra i fondatori dell’associazione Italia Nostra, la sola, ancora oggi, ad avere come obiettivo primario la salvaguardia del patrimonio storico artistico e paesaggistico della nazione. Di Antonio Cederna ricordiamo le innumerevoli battaglie condotte in tutta Italia, contro la selvaggia aggressione dei centri storici, delle coste, per impedire i continui attentati al paesaggio e al patrimonio culturale (esemplare, tra le tante, è quella per la difesa dell’Appia Antica dalla speculazione edilizia).

Ma il nome di Cederna è indissolubilmente legato anche al territorio della nostra regione. La profonda e fraterna amicizia che legò mio padre, Antonio Iannello, ad Antonio Cederna si strinse sul campo durante le comuni battaglie per la difesa del patrimonio culturale, nonostante la diversità di impostazione ideologica: idealista crociano mio padre, radicalmente distante dall’idealismo Cederna. E’ per questo motivo che Cederna diceva spesso a mio padre che lui era “l’unico italiano che predicava male ma razzolava bene”. Come napoletani e come campani, non possiamo non ricordare la battaglia contro la selvaggia aggressione della costiera amalfitana e sorrentina, conclusasi vittoriosamente con l’approvazione della legge regionale n. 35 del 1987, cui oggi sciaguratamente si vorrebbe derogare per rendere possibili opere altrimenti illegittime. Lo stesso Cederna, nella prefazione di “Brandelli d’Italia” cita questa legge della regione Campania come uno dei rari “notevoli risultati” conseguiti in Italia negli ultimi anni. Per restare in tema, la battaglia contro il “Mostro di Fuenti”, nel corso della quale Cederna dava eco sulla stampa nazionale al caso che mio padre aveva sollevato con fermezza e con ostinazione, riuscendo a far annullare l’autorizzazione paesistica. La difesa della via campana antica, sito archeologico che avrebbe potuto essere devastato da uno svincolo della tangenziale. La vittoriosa battaglia condotta per modificare il piano regolatore di Napoli approvato dal Comune nel 1970, che prevedeva lo sventramento di interi quartieri del centro storico e quella, sempre vittoriosa, per bloccare il progetto definito “Il regno del possibile” che riproponeva simili sventramenti.

Di Cederna si potrebbero fornire innumerevoli definizioni: archeologo, ambientalista, giornalista, scrittore, ma soprattutto mi pare che oggi egli debba essere ricordato per il suo impegno in materia urbanistica. E’ questo impegno, forse più di ogni altra cosa, che ha probabilmente rappresentato il cemento dell’amicizia che lo legò a mio padre. Indispensabile, per comprendere cosa era l’urbanistica secondo Cederna, è un memorabile passo tratto dai Vandali in casa: "La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese".

Ricordare l’impegno di Cederna in materia urbanistica mi pare oggi di fondamentale importanza, per contrastare la concezione degenerata dell’urbanistica predominante in questi anni ed esemplarmente rappresentata dallo sciagurato progetto di legge Lupi approvato dalla Camera dei deputati durante la passata legislatura, nel disinteresse dell’opposizione di allora, e solo per un caso fortunato non approdato alla votazione finale. Tale progetto di legge rappresentava il frutto più avvelenato degli anni della deregulation urbanistica, dell’urbanistica contrattata, del rifiuto della pianificazione: esso, infatti, avrebbe cancellato il principio stesso del governo del territorio da parte delle autorità pubbliche, affidando l’intera materia alla contrattazione privata. In altri termini, l’urbanistica rischiava di perdere la sua essenza di funzione pubblica volta alla cura degli interessi dell’intera collettività per divenire un affare privato della proprietà immobiliare. Speriamo che la ripubblicazione del volume “I vandali in casa” contribuisca a ravvivare il ricordo della lezione di un grande italiano e che il nuovo parlamento dia un profondo segnale di discontinuità approvando, come auspicato dallo stesso Cederna, una legge sul regime dei suoli e degli immobili che consenta finalmente di sottrarre l’uso del territorio alla speculazione edilizia e alla rendita fondiaria

I lettori di «eddyburg» sanno che per iniziativa di Italia nostra Lombardia è stato pubblicato da Electa nelle settimane scorse un libro che raccoglie articoli di Antonio Cederna su Milano e sulla regione. L’iniziativa è stata duramente e puntualmente denunciata dai figli dello scomparso giornalista, com’è noto uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano, legato a Italia nostra fin dalla fondazione a metà degli anni Cinquanta.

Giulio, Camilla e Giuseppe Cederna contestano, in una lettera alla presidente di Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino e all’amministratore delegato di Electa Martin Angioni, che il pensiero del padre risulta «sventrato, demolito, raschiato» a causa soprattutto di alcuni degli scritti posti a mo’ di prefazione agli articoli. Quasi contemporaneamente, decine di intellettuali – da Alberto Asor Rosa a Corrado Stajano – chiedono il ritiro del libro denunciando che le idee di Cederna appaiono distorte o criticate senza contraddittorio. Anche la presidente di Italia nostra si dissocia, da «un’iniziativa personale del presidente della sezione Lombardia». Electa chiude subito la partita, si scusa con gli eredi e interrompe la distribuzione del libro.

Ed eccoci alla riunione del consiglio nazionale di Italia nostra del 15 gennaio che avrebbe dovuto fare i conti con la componente lombarda dell’associazione responsabile del clamoroso incidente. Ma la discussione prende subito un andamento sorprendente. La presidente introduce mettendo sullo stesso piano l’errore commesso da chi ha condotto un’operazione volta a rivedere e ad «aggiornare» il pensiero di Antonio Cederna e chi – Maria Pia Guermandi, io e altri consiglieri nazionali – ha preso posizione pubblica contro quel libro, compiendo un atto che, secondo la presidente, avrebbe danneggiato l’associazione. A favore della presidente si schiera la maggioranza dei componenti il consiglio che respinge la mozione presentata da me e da altri, con la quale era chiesta almeno la sospensione del presidente del consiglio regionale della Lombardia e l’intervento dei probiviri. Si approva invece un documento che condanna l’opera di Italia nostra Lombardia ma non assume alcun provvedimento nei confronti dei responsabili, che vanno avanti per la loro strada.

Qui mi riferisco al fatto che, non da poco tempo, il consiglio regionale della Lombardia e la sezione di Milano sostengono posizioni, soprattutto in materia di urbanistica e di tutela del paesaggio e dei centri storici, in contrasto con i principi e la diversità di Italia nostra rispetto ad altre associazioni, come hanno giustamente denunciato anche Marina Foschi ed Elio Garzillo. Il libro illegittimamente attribuito a Cederna è solo l’ultima manifestazione di un – per dire – «rito ambrosiano» di Italia nostra che finora non è stato possibile discutere nell’ambito del consiglio nazionale. E ahimè la linea lombarda fa proseliti. Si consolida un percorso che sta snaturando l’associazione, un percorso fatto di cedimenti progressivi, di opportunismi, di ripensamenti, di esasperata attenzione all’eco della stampa. Il tutto in un vuoto assoluto di elaborazione culturale, surrogato da inverosimili progetti di indagine come quello all’ordine del giorno del consiglio che propone una graduatoria fra i centri storici. Sono iscritto all’associazione dagli anni Cinquanta, da allora, ininterrottamente, ne seguo l’attività in sede locale e nazionale. Un’associazione sempre inquieta e litigiosa all’interno ma compatta nella difesa della sua aristocratica austerità. Che adesso è inquinata dai compromessi e dall’effimero, i gadget, la grafica.

Ma a far traboccare il vaso è stata l’intervista rilasciata dalla presidente al «Corriere della sera» del 16 gennaio per dar conto delle decisioni del consiglio direttivo nazionale sulla vicenda del libro attribuito ad Antonio Cederna. La presidente riferisce che tutto è andato per il meglio, che è stata una disavventura e il caso può dirsi chiuso, con «tutti i consiglieri allineati alle mie posizioni».

A questo punto, per quanto mi riguarda, ho ritenuto inutile e improduttiva la mia permanenza in consiglio nazionale, causa solo di disagio, e mi sono irrevocabilmente dimesso dall’incarico. Con la speranza che l’atto serva ad aprire una discussione autentica, dentro e fuori l’associazione (anche su «eddyburg»). Ho confermato invece la disponibilità nei riguardi delle sezioni, che rappresentano, non senza eccezioni, il nucleo ancora vitale di Italia nostra.

(19 gennaio 2011)

Sembrava che, con la saggia decisione di Electa di ritirare il contestatissimo libro di scritti lombardi di Antonio Cederna inframmezzato di testi critici verso di lui, le acque si fossero placate. La richiesta dei figli Cederna e di un folto gruppo di estimatori e amici di togliere dalle librerie quell’improvvida pubblicazione era stata accolta dall’editore. Rimaneva la brutta figura del suo promotore, il presidente lombardo di Italia Nostra, Santambrogio (ex assessore leghista della Giunta Formentini) e anche di quei dirigenti i quali avevano fieramente condannato l’ “illiberale” appello per il ritiro. Subito dopo, vi sono state le dimissioni da consigliere nazionale di Italia Nostra di uno dei più noti e rigorosi urbanisti, Vezio De Lucia, il quale accusa i promotori del libro di “revisionismo”, cioè di arrendevolezza verso la politica di deregulation urbanistica massicciamente in atto in Lombardia (uno dei due scritti incriminati non ribadisce forse il pieno sostegno all’orrendo parcheggio sotterraneo davanti a Sant’Ambrogio?). Apriti cielo.

Sul Corriere della Sera di lunedì 21 Paolo Conti ha disegnato un quadro imparziale dei contrasti («Quel libro che dilania Italia Nostra») dando voce, giustamente, ad alcuni “garantisti”. In prima fila Carlo Ripa di Meana che tuona, o tromboneggia: «Qui si rischia un processo per mancata ortodossia! Mi pare che qualcuno abbia perso la testa, e penso alla presidenza». Altri parlano di «dogmi e anatemi degni della Cuba comunista», di rogo dei libri, un’apocalisse. Il vice-presidente Nicola Caracciolo proclama: «Nessuno psicologo si sogna oggi di ritenere Freud intoccabile» e quindi nemmeno Cederna lo è. E Ripa di Meana cala l’asso: la presidente Alessandra Mottola Molfino vuole un’Italia Nostra «strumentalizzata dalla sinistra» (ma lui, non è stato anche in Rifondazione Comunista?). «Siamo alle comiche finali», chiosa amaro Giulio Cederna in una caustica, tagliente lettera apparsa mercoledì su Eddyburg. Immagina il padre aggirarsi per casa con gli occhiali inforcati, in mano il libro «che porta indegnamente la sua firma», «folgorato sulla Via Gluck dalle tesi dei suoi detrattori», sbottare: «Cribbio, una vita spesa a scrivere sempre lo stesso articolo e non avevo capito niente!».

Giustamente Giulio ribadisce di aver semplicemente chiesto, coi fratelli Giuseppe e Camilla, di «rispettare le persone, a maggior ragione se defunte, la loro memoria, il loro pensiero». È anche l’obiezione di noi per tanti anni sodali di Antonio: lor signori ritengono “superato” il pensiero di Cederna e vogliono scriverci un saggio? Chi glielo impedisce? Si accomodino. Ma perché impastare una sua antologia con alcuni pareri contrari? Ha ragione Giulio Cederna: «In altre parole, si gioca col morto». Senza contraddittorio. Che volgarità.

Ormai siamo alle comiche finali. La commedia del libro postumo imposto ad Antonio Cederna da Italia Nostra Lombardia, rivive sul Corriere della Sera e raggiunge i vertici dell’ultimo Woody Allen. Se in Incontrerai l’uomo dei miei sogni, uno scrittore in crisi si appropria del manoscritto di un amico dato per morto, salvo scoprire che è uscito dal coma quando il libro è già un caso editoriale, nel film che va in onda da alcune settimane, il defunto, purtroppo irrimediabilmente tale, viene omaggiato di una nuova e immeritata opera, giustamente ritirata dagli scaffali dalla casa editrice, ma difesa strenuamente da alcuni sensitivi che scrivono lettere agli editori, animano violente polemiche sui giornali e comunicano con lui nell’oltretomba.

Davanti alla protesta di tanti esperti - urbanisti, architetti, archeologi, giornalisti – il veggente Carlo Ripa Di Meana sostiene sul Corriere della Sera che “Cederna era un vero intellettuale, anche ironico, e mai avrebbe preteso di veder consacrate in eterno le sue idee”. Lo giura anche Nicola Caracciolo, cartomante, che corrisponde con lui tramite i tarocchi. “Aver curato un libro che contiene due interventi critici ma rispettosi non può essere considerato un delitto di lesa maestà. E Cederna, ne sono certo, non lo vorrebbe assolutamente”. Immagino il fantasma di mio padre che si aggira per il salotto buono di Italia Nostra, con gli occhiali inforcati sul naso, il libro in mano, folgorato sulla via Gluck dalle tesi dei suoi detrattori in bella mostra nel libro che porta indegnamente la sua firma: “Cribbio, una vita spesa a scrivere sempre lo stesso articolo e non avevo capito niente!”, esclama socraticamente, da vero intellettuale.

Medium fatti e finiti, essi dispongono di una bacchetta magica capace di mutare il significato delle parole: si sentono molto liberal (soprattutto con le idee degli altri), danno del cubano a chi censura l’iniziativa, e la difendono con argomentazioni liberal-democratiche degne di un ufficio di polizia: I sottoscritti soci di Italia Nostra (di Roma) a proposito del libro edito da Mondadori-Electa "Antonio Cederna scritti, per la Lombardia" - pubblicazione che ha suscitato recentemente molte polemiche - ritengono, indipendentemente dal giudizio che se ne può dare, che un atto di "censura" sia profondamente estraneo alle tradizioni liberal-democratiche di Italia Nostra. Il libro è frutto di un'iniziativa della Giunta Regionale Lombarda di Italia Nostra che va comunque rispettata”.Qualsiasi iniziativa di Italia Nostra merita rispetto, a prescindere. Ancor prima di rispettare le persone, a maggior ragione se defunte, la loro memoria, il loro pensiero (che avrebbe meritato ben altra rivisitazione critica), bisogna portare rispetto per la divisa. I contenuti non contano. Così si può essere a favore di un parcheggio a Milano e fare le barricate contro a Roma; si può denunciare un presunto “tentativo di strumentalizzazione dell’associazione da parte della sinistra” a Roma e avallare una evidente strumentalizzazione politica di Antonio Cederna a Milano. Nel momento in cui Milano e la Lombardia, spazzata via qualsiasi forma residuale di pianificazione del territorio, registrano l’assalto finale della speculazione e del cemento, si preferisce realizzare un falso storico e riflettere liberal-democraticamente, ovvero senza contraddittorio, sui limiti di Antonio Cederna. In altre parole, si gioca con il morto. Sono pur sempre dei medium.

E’ proprio vero. Con il passare del tempo le associazioni rischiano di diventare dei pericolosi gusci vuoti. Si burocratizzano, perdono fiato e progetto, si svuotano. Una volta Italia Nostra era Zanotti Bianco, Giorgio Bassani, Elena Croce, Desideria Pasolini, Leonardo Benevolo, Italo Insolera, Manfredo Tafuri, Pierluigi Cervellati, Vezio De Lucia, Antonio Cederna, Antonio Iannello; oggi è ostaggio di Ripa di Meana e Santambrogio. Politici politicanti, ma pur sempre rabdomanti.

I promotori dell'appello per il ritiro del libro con scritti su Milano e la Lombardia di Antonio Cederna, gravemente lesivo del suo pensiero, prendono atto con soddisfazione dell'accoglimento da parte della casa editrice Electa della richiesta, avanzata in primo luogo dai figli di Cederna, sostenuta e confortata da un gruppo altamente qualificato di amici e di estimatori. Che ringraziano sinceramente. E' il primo importantissimo passo di una battaglia a sostegno delle idee di Antonio Cederna che, come dimostra il degrado del territorio lombardo, restano più che mai attuali.

A seguito delle numerose richieste pervenute (fra le altre, Rosellina Archinto, Cini Boeri, Giuseppe Giulietti, Federico Orlando), l’appello continuerà ad essere aggiornato ed è consultabile su eddyburg.it.

Il Comitato Promotore: Maria Pia Guermandi, Marina Foschi, Andrea Emiliani, Pier Luigi Cervellati, Vittorio Emiliani, Roma - Bologna, 14 gennaio 2011

Corriere della Sera

Appello contro un libro su Antonio Cederna. Electa lo ritira

di Stefano Bucci

L’ annuncio arriva a tarda sera: Electa ha deciso di interrompere da oggi la distribuzione del volume dedicato a Antonio Cederna (Scritti per la Lombardia, pp. 238, e 15) curato dal Consiglio regionale lombardo (da poco presieduto da Luigi Santambrogio). Una decisione che precede il faccia a faccia tra i vertici di Italia Nostra, a cominciare dalla presidente Alessandra Mottola Molfino, in programma per domani a Roma nell’ambito del Consiglio nazionale. Da oggi dunque il libro, contestato dagli eredi e da un gruppo di intellettuali riuniti in un appello, non verrà più distribuito mentre per il ritiro dalle librerie «ci vorrà ancora qualche giorno» . Il caso Cederna comincia con la pubblicazione a fine anno di un libro, che raccoglie gli scritti di Antonio Cederna dedicati alla Lombardia, fin da subito bocciato dai figli (Giulio, Camilla e Giuseppe) del giornalista, ambientalista, politico nonché per quarant’anni una delle anime di Italia Nostra. Che hanno parlato, in una lettera alla presidente di Italia Nostra e all’amministratore delegato di Electa Martin Angioni, di un «pensiero» che in quelle pagine «viene sventrato, demolito, raschiato» .

«Nessuno può permettersi di appropriarsi impunemente della sua opera e farla a pezzi» concludevano, mentre veniva lanciato un appello «per la difesa di Antonio Cederna e di quello per cui ha lottato tutta la vita» firmato da un gruppo di intellettuali (al momento sono 62): da Alberto Asor Rosa a Leonardo Benevolo, da Pier Luigi Cervellati a Adriano La Regina, da Nicola Spinosa a Corrado Stajano. Anche loro «convinti che la critica, anche radicale, del pensiero è esercizio legittimo e incoercibile » ma «la distorsione e falsificazione per ignoranza, incapacità o faziosità, non lo è affatto» . A farli irritare, in particolare, due frammenti della prefazione al volume: uno firmato dall’urbanista Luigi Mazza, di fatto una recensione critica del 1992 al libro di Cederna Brandelli d’Italia «riproposta senza un aggiornamento, una nota» , dove Mazza scriveva: «L’importanza e il valore dei suoi contributi non sono da cercare nella congruità delle sue affermazioni tecniche ma nella radicalità delle sue prospettive» . E quello dell’architetto Alberto Ferruzzi, da quarant’anni tra le anime di Italia Nostra, dove in forma di lettera aperta si legge: «Caro Antonio, come vedi alcune tematiche permangono: la paura dei grattacieli e i parchi archeologici, la mancanza di riguardo per la facies di Milano e purtroppo la mancanza di approfondita informazione storica in chi conduce le battaglie per la tutela dei beni monumentali usando strumentalmente la loro tutela; l’esempio del parcheggio di Sant’Ambrogio docet».

Quasi un (cattivo) esempio delle ultime battaglie di Italia Nostra. Le reazioni non si erano fatte aspettare. Mottola Molfino si è «dissociata» , definendo il libro «un’iniziativa personale del presidente della sezione Lombardia» , «un’operazione editoriale che non potrà che non incontrare la nostra ferma critica» . Il presidente della Lombardia Santambrogio si è giustificato: «Non volevamo solo commemorare Cederna, ma stimolare un confronto dialettico sulla contemporaneità» . Stessa linea per Alberto Ferruzzi che, amareggiato, nega ogni volontà denigratoria: «Per carità. Cederna è stato uno dei padri fondatori di Italia Nostra. Volevamo dimostrare come le idee possono essere diversamente valutate» . Poi Electa: «La nostra casa editrice — dice Angioni — ha un contratto con Italia Nostra Lombardia che contiene le liberatorie per i diritti di pubblicazione degli scritti di Antonio Cederna comparsi nel volume Scritti per la Lombardia e i responsabili della sezione lombarda di Italia Nostra ci avevano garantito che gli eredi erano al corrente dell’operazione e che l’avevano approvata. Ora scopriamo che non è così. Ce ne scusiamo con gli eredi e ci riserviamo di tutelare i nostri interessi rispetto a Italia Nostra Lombardia» . Poi la decisione di «chiudere la partita» interrompendo subito la distribuzione.

L’appello con l’elenco aggiornato delle adesioni su eddyburg

Le finestre di casa Cederna, a Ponte in Valtellina, si aprivano sulla luminosa vallata, in pieno Parco Nazionale dello Stelvio. In particolare quella dello studio di Antonio. Ogni anno il più attrezzato dei polemisti italiani in materia dedicava almeno un articolo a quel Parco a lui ben noto, il più vasto, istituito nel 1935 dopo Gran Paradiso e Abruzzo “firmati” da Benedetto Croce ministro della PI nel 1922 assieme alla legge sulle “bellezze naturali”. I problemi posti da Cederna (mancato nel ’96, a Ponte) riguardavano una miglior tutela del parco e maggiori fondi rispetto alla solita micragna. Ma già si affacciava l’ombra dello smembramento in 3-4 parti voluto dalle Province Autonome di Trento e Bolzano. Anche per questo molto si adoperò con Gian Luigi Ceruti e altri per la legge-quadro n. 394 del ‘91 sulle aree protette, durante la sola legislatura in cui fu alla Camera (non fu rieletto).

Adesso, viene ridotto a spezzatino con una norma infilata nell’ormai solito mostruoso “milleproroghe” abborracciato a Palazzo Chigi, fra un bonus fiscale, la proroga per le case-fantasma e altre porcherie. Nel modo più becero. Da anni Trento e Bolzano chiedono di poter gestire lo Stelvio (per venire incontro ai costruttori, alle nuove sciovie e, come sempre, ai cacciatori). Ma cosa ha accelerato il grimaldello con cui il governo scassa il Parco Nazionale dello Stelvio? La gratitudine che il premier deve ai deputati della SVP per essersi astenuti sulla sfiducia dandogli un po’ di fiato. Il prezzo pagato, nemmeno dieci giorni dopo, è lo spezzatino dello Stelvio.

Ovviamente, senza tenere in alcun conto l’ordine del giorno fatto approvare dal Pd al Consiglio regionale della Lombardia contro una simile aberrazione. Che va contro ogni tendenza mondiale, come sottolinea, per esempio, Fulco Pratesi, fondatore del Wwf, il quale rimarca che Sudafrica, Zimbabwe e Mozambico si sono accordati per il Parco della Pace “garantendo spazi immensi ai grandi mammiferi finora divisi da recinzioni e barriere”, e analogamente hanno fatto Cina e Russia nell’Assur e nell’Ussuri per salvare le tigri siberiane. Da noi, si va in direzione opposta, disfacendo Parchi Nazionali vecchi ormai di 75 anni e non riuscendo a creare nel Delta del Po un Parco almeno interregionale e nel Gennargentu quello Nazionale. Sempre per l’opposizione dei cacciatori, dei costruttori e di altri interessi localistici.

Ha voglia l’assessore lombardo Alessandro Colucci a precisare che lo Stelvio rimane Parco Nazionale, soltanto “cambia la governance”. Cioè un’inezia detta in inglese ad uso degli sprovveduti, con una “governance” appunto (garantisce il ministro Fitto) “ancora più vicina alle comunità locali”. Cioè assai più localistica che nazionale. Del tutto opposta all’art. 9 della Costituzione. Decisione gravissima perché darà la stura ad altri spezzatini. Da anni la Regione Valdostana preme affinché il Parco Nazionale del Gran Paradiso venga smembrato o che, comunque, la Vallée vi abbia un ruolo preminente rispetto allo Stato. Una sciagurata miopia tutta italiana che riconduce alla ricetta di Bossi di fare dell’intero Belpaese uno spezzatino senza più collante nazionale, con una idea secessionista e non federalista di tipo, per esempio, tedesco.

Del resto, in queste stesse ore, per tornare ad Antonio Cederna, grande paladino dei Parchi e della natura e restare in Lombardia, va detto che Italia Nostra lombarda ha pensato bene di dare alle stampe da Electa – e fin qui niente di male – una raccolta di articoli cederniani coi quali però si confrontano, con scritti lontani e vicini, anche personaggi che avevano o hanno, nel modo più netto, idee opposte. Come l’arch. Gigi Mazza teorico-pratico dell’urbanistica contrattata a Milano di cui viene pubblicata una recensione-stroncatura su Cederna. Protestano, giustamente indignati, i figli di Antonio, ai quali nessuno ha chiesto il permesso. Tantomeno il presidente lombardo, Luigi Santambrogio, ai suoi bei dì assessore con Formentini. La presidente nazionale, Alessandra Mottola Molfino, manifesta imbarazzo e “disappunto”. Un po’ poco visto che Cederna fu una colonna, per decenni, dell’associazione. La sua finestra sulla Valtellina e sulla Lombardia è proprio chiusa.

Nei giorni che hanno visto l’affermazione della maturità di un mondo giovanile stanco del sistema che li esclude sistematicamente, una pessima notizia viene dal mondo di Italia Nostra, la storica associazione che da 55 anni si batte per la tutela del patrimonio culturale e ambientale italiano.

E questa vicenda tocca paradossalmente proprio la figura di un uomo che ha di continuo alimentato la cultura dei giovani che si affacciavano alle prime esperienze della maturità, fornendo loro idee e la lezione del rigore. Antonio Cederna è stata una delle figure più eminenti di Italia Nostra, portando al suo interno idee e battaglie sempre nuove. Forse questo suo carattere di apertura era legato ad un elemento autobiografico, perché non era neppure trentenne quando venne chiamato a scrivere sul Mondo di Pannunzio. La protesta giovanile ha messo il dito sulla piaga di una società gerontocratica che non lascia invece il minimo spazio alle nuove generazioni.

Antonio Cederna è scomparso quasi quindici anni fa. Eppure le sue idee continuano a formare intelligenze. Da poco, grazie alla donazione della famiglia, è accessibile il suo archivio di libri e scritti, gelosamente e intelligentemente custodito dalla Soprintendenza archeologica di Roma. Tanti giovani possono alimentarsi delle sue idee che, solo per fare un esempio, hanno permesso di mantenere nella sua integrità il Parco archeologico dell’Appia Antica, obiettivo per il quale Cederna ha combattuto scrivendo quasi 200 articoli di denuncia e proposta.

Il ritardo di una vecchia cultura incapace di comprendere le novità dei tempi, si trova in una recentissima pubblicazione che la sezione della Lombardia di Italia Nostra ha dedicato al pensiero del grande intellettuale. Un’operazione apparentemente lodevole. Non fosse per il gravissimo fatto che i suoi scritti sono stati fatti precedere da due “contributi critici” che sono assolutamente antitetici al pensiero di Cederna. E’ come se l’opera del pool di Mani pulite della procura di Milano fosse introdotta da Ligresti o Pizzarotti, e cioè da personaggi che di quell’inchiesta furono imputati.

Ma tant’è. Sembra a qualcuno che sia meglio annacquare, diluire. Non prendere posizione. Far parlare uno a favore e uno contro, perché così si è più educati. Se il padre di Eluana Englaro parla –per pochi minuti dentro un palinsesto di milioni di ore dedicate a nani e ballerine - dell’urgenza di dotarsi di una legge civile sul fine vita, ecco che si chiede la “riparazione”. Se un civile leader degli studenti è invitato a parlare brevemente in una trasmissione di grande ascolto, ci pensa un ministro in carica a mettere in campo una fredda provocazione di stampo squadristico per non consentirgli di parlare. Tutto deve essere sommerso dal chiacchiericcio.

Così gli scritti di Cederna sono stati fatti precedere da una critica espressa molti anni fa da Luigi Mazza, uno dei padri dell’urbanistica contrattata milanese. Quell’urbanistica che ha permesso l’ulteriore cementificazione della città e del suo hinterland, consentendo addirittura di far costruire quartieri residenziali senza neppure eseguire le bonifiche dei suoli ex industriali. Così i bambini vanno dentro scuole che navigano su un mare di veleni. E’ la modernità. E’ il trionfo della città privatizzata teorizzato da intellettuali come Mazza. L’esatto contrario della visione pubblica della città che stava a cuore a Cederna. In un altro incredibile “contributo critico” si arriva addirittura a giustificare la realizzazione dell’osceno parcheggio nato davanti a Sant’Ambrogio, uno dei luoghi di Milano più carico di storia e fascino.

Questa stanca apologia dell’equilibrismo acritico sarebbe passata inosservata fino a poco tempo fa. Ancora non ci si era accorti che dietro alla demonizzazione di ogni pensiero critico si nascondevano solo vergognose speculazioni. Oggi i risultati sono invece evidenti a tutti. Roma è ormai una infelice città in preda ai più biechi appetiti speculativi. Firenze decide i destini dell’area di Castello in uno squallido pranzo tra l’ex sindaco Domenici, Ligresti e Della Valle. La (ex) bellissima Parma è preda di un manipolo di cementificatori. Centinaia di ettari di coste incontaminate della Sardegna, prima fra tutte quelle di Malfatano, sono a rischio di inutili lottizzazioni turistiche. Di Milano abbiamo parlato e gli esempi potrebbero continuare.

Ma il segnale nuovo che permette di ricollegarsi alle lotte dei giovani, è che il clima culturale sta cambiando. La famiglia Cederna ha infranto il mediocre tran tran dell’associazione, inviando una lettera di protesta alla presidenza di Italia Nostra. E questa protesta sta provocando un salutare dibattito che non potrà essere fermato. Le idee sempre giovani e attuali di Antonio Cederna non possono essere messe sullo stesso piano di quelle dei suoi nemici. Le sue città vivibili e il rispetto dell’ambiente sono i pilastri di un nuovo pensiero. Le idee degli speculatori e dei distruttori del futuro dei giovani sono il vecchio che sta tramontando. Anche se qualcuno non se ne è ancora accorto.

Un affronto alla memoria. Il suo pensiero sventrato, demolito e fatto a pezzi. Sono molto dure e amare le parole che Camilla, Giulio e Giuseppe Cederna riservano a un volume appena edito da Electa in cui sono raccolti una serie di articoli che il loro padre, Antonio Cederna, dedicò agli scempi e alla cattiva urbanistica di Milano e della Lombardia (il libro, firmato Antonio Cederna, s´intitola Scritti per la Lombardia, pagg. 236, euro 15). L´accusa è contenuta in una lettera al presidente nazionale di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino. Perché a lei? Perché è sotto le insegne della sezione lombarda di Italia Nostra, l´associazione cui Cederna ha dedicato quarant´anni della sua vita e che con le sue battaglie si è identificata, che esce quel volume.

«Alcuni mesi fa», racconta Giulio Cederna, «fummo contattati dalla sezione milanese di Italia Nostra. Poi non abbiamo saputo più nulla. Una settimana fa abbiamo visto il volume e siamo rimasti sbalorditi. Fra le prefazioni compare un articolo scritto nel 1992 dall´urbanista Luigi Mazza, una recensione critica al libro di mio padre Brandelli d´Italia. Perché ospitarla senza un aggiornamento o una nota esplicativa? Inoltre Mazza è stato autore nel 2000 di un documento che ha messo le basi a Milano per uno stravolgimento di tutte le impostazioni più care a mio padre».

Ma c´è un altro intervento nel volume che irrita i Cederna, quello scritto da Alberto Ferruzzi, che, sotto forma di lettera allo stesso Antonio Cederna, cita come esempio negativo una delle più recenti battaglie di Italia Nostra, quella contro il parcheggio a pochi passi dalla basilica di sant´Ambrogio, una battaglia, scrive Ferruzzi condotta per salvaguardare beni monumentali senza «approfondita informazione storica (…) usando strumentalmente la loro tutela». «La pubblicazione degli articoli di nostro padre è stata utilizzata per veicolare tesi opposte a quelle che ha sempre sostenuto», insiste Giulio Cederna.

La reazione dei Cederna ha suscitato un vivace dibattito dentro Italia Nostra. Alcuni consiglieri nazionali chiedono una sconfessione piena dell´iniziativa, che la presidente Mottola Molfino attribuisce alla sola sezione lombarda dell´associazione e che, per parte sua, giudica «con disappunto», trovando improprio che in una pubblicazione del genere il nome di Cederna sia «accostato a quelli di cattivi interpreti o addirittura di suoi detrattori».

La replica dei vertici lombardi di Italia Nostra arriva per lettera ed è firmata dal presidente Luigi Santambrogio: non volevamo solo commemorare Cederna, scrive, ma «stimolare un rispettoso confronto dialettico sulle esigenze della contemporaneità». Ma per Camilla, Giulio e Giuseppe Cederna si è trattato di uno sfregio. Che tenteranno di bloccare anche rivolgendosi a un avvocato.

La lettera che pubblichiamo, rivolta al Consiglio Nazionale di Italia Nostra, smonta un’operazione di falsificazione del pensiero e dell’opera di Antonio Cederna, purtroppo non isolata: già in altre occasioni, su eddyburg, avevamo segnalato come il nome di Cederna venga utilizzato per giustificare operazioni che poco o nulla hanno a che fare con quanto il giornalista e intellettuale milanese ha affermato per tutta la vita. In maniera limpidissima e priva di ogni ambiguità come sa anche chi ha una superficiale conoscenza dei suoi scritti.

Ma in questo caso la mistificazione è ancor più inaccettabile perchè giunge ad uno stravolgimento completo di quello che è uno dei cardini metodologici ed ideali per i quali Cederna ha combattutto tutta la vita: la necessità di un’urbanistica guidata dalla mano pubblica come primo e indispensabile requisito di un governo del territorio corretto, mirato al raggiungimento di un migliore livello di qualità urbana e moderno nel senso europeo del termine.

La puntuale analisi critica contenuta nella lettera rimette le cose a posto, apre una ferita in Italia Nostra (l’Associazione di cui Cederna fu protagonista fin dalla fondazione) che dovrà essere sanata al più presto, ma ci testimonia anche, in maniera inequivocabile, dell’importanza del suo pensiero: così attuale ed imprescindibile da dover essere richiamato, seppur per rovesciarne il senso, tutte le volte che si parla di urbanistica e così vitale da trionfare contro le miserie di qualche malaccorto mistificatore.

Vezio De Lucia, Maria Pia Guermandi

Roma, venerdì 17 dicembre 2010

Gentile Presidente,

tempo fa una telefonata dalla sezione milanese di Italia Nostra ci annunciava il proposito di raccogliere e pubblicare una selezione di articoli di Antonio Cederna dedicati a Milano e alla Lombardia, sul modello di quanto già fatto a Roma e in Emilia Romagna. Fiduciosi nell’operato dell’associazione per la quale nostro padre si è speso dal 1956 fino alla morte, accogliemmo il progetto con il consueto entusiasmo e creammo il contatto con l’Archivio Antonio Cederna, al quale, com’è noto, abbiamo donato le carte, gli articoli, i volumi della sua biblioteca.

Una settimana fa abbiamo finalmente ricevuto copia del volume - Antonio Cederna, Scritti per la Lombardia. E’ facile immaginare la nostra sorpresa quando abbiamo scoperto che tra i promotori della meritoria iniziativa editoriale figura il noto urbanista Luigi Mazza, autore nel 2000 del documento di Inquadramento urbanistico di Milano che ha aperto le porte all’urbanistica contrattata a Milano e altrove, un piano che Antonio Cederna avrebbe avversato con tutte le sue forze. La lontananza di Mazza dal pensiero e dall’opera di Antonio Cederna è del resto dichiarata in una vecchia recensione al libro Brandelli d’Italia ripubblicata oggi, chissà perché, proprio nella sezione introduttiva del volume in esame. Nel testo, scritto ben 18 anni fa (è del 92 e non del 95 come riportato nel volume), l’autore definisce “leggi e divieti” - ovvero piani regolatori e vincoli - “scorciatoie brevi per sciogliere i nodi che un’attenta coscienza civile saprebbe risolvere senza atti di imperio”, e imputa alla cultura dei centri storici “di aver sottovalutato l’incidenza dei costi di ristrutturazione e di manutenzione dell’edilizia degradata, e l’impossibilità, una volta assunti standard di qualità, di procedere al suo recupero con le risorse disponibili per l’edilizia economica e popolare”.

L’articolo attribuisce inoltre ad Antonio Cederna sentenze non sue. Scrive ad esempio Mazza: “il blocco della crescita della città, spesso invocato da Cederna, ha come contropartita proprio un aumento della pressione speculativa sui centri storici che si vuole difendere”. Scriveva Cederna nel 1956 (introduzione ai Vandali in casa): “Un vecchio rione si salva e insieme si risana solo se si dà modo alla gente di poterci continuare a vivere ed abitare più umanamente, se si allontana da esso il peso del traffico e degli affari, inconciliabile con la sua antica struttura, e se si garantiscono alla città razionali possibilità di ampliamento: unica mira dei vandali è invece quella di realizzare immensi guadagni speculando sulle aree da vendere e sui fabbricati da ricostruire, scaraventando gli infelici abitanti in qualche infame borgata periferica…”.

Scrive Mazza: “Cederna a differenza di molti urbanisti, sa che l’esproprio è pochissimo usato da quei paesi che si assumono come modello di governo urbanistico, e lo scrive ma di fronte alla situazione italiana non vede altra risorsa che l’intervento della legge”. Nel 1992 Cederna aveva posto un grande punto interrogativo a margine dell’articolo che riportava questa frase (la recensione con l’appunto originale è conservata nell’Archivio Cederna, fascicolo 605). Diciotto anni fa le tesi di Mazza offrivano un’immagine discutibile, parziale e in parte caricaturale dell’impegno di Antonio Cederna (“l’importanza e il valore dei suoi contributi non sono da cercare nella congruità delle sue affermazioni tecniche, ma nella radicalità delle sue prospettive…”), dell’intera cultura urbanistica italiana e quindi dell’operato stesso di Italia Nostra, dei suoi cinquant’anni di storia e di battaglie. Diciotto anni dopo Italia Nostra Lombardia sceglie di ripubblicarle sic et simpliciter nella sezione introduttiva di un libro a firma di Antonio Cederna, senza un aggiornamento, una nota, un commento da parte dell’organizzazione, senza degnarsi di ospitare l’opinione di uno dei tanti urbanisti che la pensano in modo diverso, e che diciotto anni dopo avrebbero potuto spiegare come “senza atti d’imperio”, ovvero a partire dal piano firmato Luigi Mazza, si sia andata sviluppando in questi ultimi dieci anni Milano e quali mirabili progressi abbia fatto registrare la “coscienza civile” e la pratica della città in materia di ambiente e di urbanistica.

A chiarire quale sia oggi la visione strategica della sezione milanese di Italia Nostra, e in quale considerazione tenga le opinioni di nostro padre, ci pensa d’altra parte un altro promotore, Alberto Ferruzzi, che in un’amabile corrispondenza epistolare con Cederna - che purtroppo, com’è noto, non gli può più rispondere – lo aggiorna oltretomba sulle novità del paesaggio milanese: come Milano e i grandi comuni abbiano conosciuto “un’innaturale esplosione di costruzioni, largamente in soprannumero rispetto alle richieste di mercato”, “come il paesaggio urbano sia minacciato dall’esagerata contemporaneità di nuove costruzioni, quasi tutte di buon livello, spesso interi quartieri che non si sa a chi siano destinati”, come la nuova disciplina urbanistica – che oggi si chiama Piano di Governo del Territorio (e che ha ulteriormente contrattato al ribasso il piano del professor Mazza) abbia “trasformato il vecchio Piano regolatore in un cantiere sempre aperto che vive comunque dell’offerta dei privati”.

Davanti a una situazione tanto preoccupante, il Ferruzzi si perita di comunicare al “caro Cederna” una serie di considerazioni personali: “non so come riusciremo a gestire questo documento, ma la novità comunque ci affascina (!!!). Ho cercato di capire se in qualche modo viene preservato il paesaggio urbano, quella specie di vestito grigio di cui tu spesso parli nei tuoi articoli che coincide però con l’aspetto che amiamo di questa città (!!!). E non l’ho trovato (?)”. Per poi aggiungere: “(Nel piano) è ricomparsa latente la famosa grande strada di attraversamento che ti aveva fatto orrore quando si chiamava Racchetta e il cui sedime in parte è riconoscibile nel centro di Milano per l’esagerata sezione stradale di Piazza Santo Stefano fino a piazza Missori, con i ruderi artificiali di San Giovanni in Conca che tu hai salvato. Ora è sotterranea (il che è sicuramente meglio)”. Peccato che Cederna abbia speso decine di articoli proprio per denunciare il supposto “salvataggio” della Chiesa ad opera dell’Immobiliare nel 1948 e poi all’inizio degli anni Cinquanta, ovvero la “fabbricazione artificiale di un rudere con tutta l’apparenza dell’autenticità”, un “miserando reliquato monumentale in mezzo alla strada” che sorge “entro un salvagente semicircolare, rallegrato da prato e aiole” che “appare adesso come un antipatico moribondo che non vuol morire”: “chi ignora che questa misera rovina era un’antica e bella chiesa distrutta per pura bestialità in questi anni si meraviglia che Milano sappia con tanto amore richiamare in vita monumenti di cui nessuno sospettava l’esistenza” (si veda Lo sventramento di Milano, maggio 1954, purtroppo assente dalla raccolta).

Ma è nella conclusione del suo intervento, che il Ferruzzi dà il meglio: “Caro Antonio, come vedi alcune tematiche permangono: la paura dei grattacieli e i parchi archeologici, la mancanza di riguardo per la facies di Milano, e purtroppo la mancanza di approfondita informazione storica in chi conduce le battaglie di tutela dei beni monumentali usando strumentalmente la loro tutela: l’esempio della questione del parcheggio di Sant’Ambrogio docet. Non riesco a rassegnarmi invece per aver perso contro l’alterazione della Scala, la cui inutilità mi viene confermata assistendo ad ogni spettacolo“.

Et voilà, l’operazione è compiuta. La pubblicazione degli articoli di nostro padre viene utilizzata per veicolare tesi opposte a quelle che ha sempre sostenuto. A Cederna viene riservato lo stesso trattamento della Chiesa di san Giovanni in Conca: il suo pensiero viene sventrato, demolito, fatto a pezzi, raschiato, semiincastrato nei palazzacci costruiti da altri.

Ognuno è libero di pensare e scrivere ciò che vuole su Antonio Cederna, nessuno può permettersi di appropriarsi impunemente della sua opera per farla a pezzi. Per questo ci chiediamo e le chiediamo se e come questa operazione abbia potuto ottenere l’assenso di Italia Nostra nazionale; se le opinioni espresse a nome della sezione milanese sul presente e il futuro della città riflettano il pensiero di tutta l’associazione; che cosa intende fare Italia Nostra a livello nazionale per ristabilire la verità e riparare il torto intollerabile commesso nei confronti della memoria di nostro padre.

Con i migliori saluti,

Giulio, Camilla, Giuseppe Cederna

A un architetto impegnato

Stolto Paolo Cordini

sinistro intelligente

che consideri i pubblici giardini

olandesi svizzeri svedesi

danesi tedeschi inglesi

oppio capitalistico

per la povera gente,

da bravo architetto italiano

tu passi impassibile in mezzo al Tuscolano,

ami viale Marconi e il Prenestino,

Primavalle e il borghetto Latino,

ti piacciono coree, bidonville e borgate,

le palazzine e le palazzate.

È bene che i ragazzi

siano murati vivi negli intensivi

senza prati né campi sportivi:

solo scoliosi e paramorfismi

spingono ai giusti, salutari estremismi,

solo la fisica deformazione

è garanzia di rivoluzione.

Da dialettico scaltro

tu dici sempre che il discorso è un altro:

è infatti invece di Pietralata

in fondo al cuore ti sta l’Olgiata.

(Roma, 1966)

Aver collocato all’inizio dell’intervento l’unica sua poesia che io conosco – come in altra circostanza ha già fatto Francesco Erbani – mi pare più efficace di una lunga esposizione, per intendere, sommariamente, ma subito, la sua complessa personalità e anche le ragioni di chi gli si contrapponeva.La poesia, evocando “i pubblici giardini / olandesi svizzeri svedesi / danesi tedeschi inglesi”, smentisce in primo luogo il diffuso convincimento che Cederna fosse un passatista, un lodatore del tempo passato, un reazionario. Era invece un accanito sostenitore della modernità, dell’urbanistica, dell’architettura, dell’arte moderna. In contrasto con illustri critici dell’architettura, sostenne con entusiasmo la piramide di Ieoh Ming Pei che illumina l’ingresso del Louvre. Fece il possibile perchè le città italiane seguissero l'esempio di Stoccolma, di Amsterdam, di Parigi, di Londra, di Vienna, di Zurigo, della Ruhr. Fece conoscere la meraviglia dei parchi nazionali americani, svizzeri, francesi. Non fu ascoltato. Così abbiamo avuto il Tuscolano, viale Marconi e il Prenestino, Primavalle, il borghetto Latino e Pietralata. Poi l’abusivismo. Fenomeni tutti sconosciuti nell'Europa ammirata da Cederna.

La poesia smentisce anche la leggenda che fosse comunista, estremista di sinistra. Comunista era il destinatario dei versi, lo “stolto Paolo Cordini”, che Cederna nettamente contesta, anche se nei suoi confronti non sfodera il disprezzo furioso che regolarmente riservava agli “energumeni del cemento armato” e alla mala genia dei funzionari affetti da “cupidigia di servilismo” [Ernesto Rossi].

La poesia, infine, con i riferimenti alle malformazioni infantili e giovanili determinate dalla mancanza di aree e di attrezzature per il gioco e lo sport, appare precisamente adeguata al tema “Gli spazi della comunità” che dà nome a quest’edizione del nostro festival.

***

Che mestiere faceva Tonino Cederna? Era stato archeologo (aveva anche fatto una campagna di scavi a Carsoli in Abruzzo, il resoconto è pubblicato in Brandelli d’Italia), comiciò a scrivere come critico d'arte su “Lo spettatore italiano”, rivista diretta da Elena Croce, e nel 1949 iniziò la collaborazione con Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio. Dopo la chiusura del prestigioso settimanale, scrisse sul Corriere della Sera, poi su la Repubblica e collaborò con l’Espresso e altri periodici. Accanto all’attività di giornalista, non trascurò mai d’impegnarsi nelle associazione culturali, fu anche due volte consigliere comunale a Roma, e quindi deputato indipendente nelle liste del Pci, presidente del parco dell’Appia Antica. Da deputato della X legislatura collaborò attivamente all’approvazione delle due fondamentali leggi per la difesa del suolo (183/1989) e per la protezione della natura (394/1991).

È negli anni di collaborazione con Il Mondo che matura il carattere della sua scrittura – al tempo stesso semplice e colta, che sa farsi tagliente, con un vocabolario sorprendente, ma sempre appropriato – e si definisce il perimetro dei suoi interessi, che in fondo coincidono con l’urbanistica moderna (moderna è la qualificazione che Cederna non dimentica mai di attribuire all’urbanistica che ama). Un’urbanistica dagli orizzonti vastissimi: tutto lo spazio comunque vissuto dall’uomo, la sua storia, le sue regole.

In un testo scritto all’inizio degli anni Settanta per Italia nostra di Milano definisce l’urbanistica “quella disciplina moderna per eccellenza la quale, unendo cultura, tecnica e impegno politico, ha per fine di assicurare condizioni umane di vita associata, di indirizzare nell’interesse pubblico gli sviluppi edilizi, di controllare a vantaggio di tutti le trasformazioni sempre più rapide cui è sottoposto l’ambiente dell’uomo”. Obiettivi ignorati dall’Italia che, nei trent’anni del dopoguerra, ha saputo solo “ampliare alla cieca le città esistenti”.

“I quartieri “nuovi” non sono che mucchi di case accatastate le une sulle altre, indiscriminatamente allineate sul filo stradale, immensi e degradati dormitori, periferia squalificata per cittadini di seconda classe, luogo di segregazione, frustrazione e umiliazione: con densità inverosimili che raggiungono e superano, a Roma o a Napoli, i mille abitanti per ettaro. Un universo concentrazionario fatto solo di asfalto e di cemento, dove il verde è quello dei lotti non ancora edificati o delle aiole spartitraffico, e i bambini giocano fra l’immondizia e le ruote delle automobili e gli anziani sono segregati sui balconi e nelle intercapedini: dove l’unica parvenza di natura sono i vasi di fiori alle finestre, come chi mettendo barchette di carta nella vasca da bagno si illudesse di essere al mare".

Scriveva con assoluta indipendenza di giudizio, fermo nei suoi principi, fedele alla concretezza dei fatti. Ineguagliata è l’esattezza geometrica delle descrizioni. Maria Pia Guermandi ha scritto che “parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustrante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo, non poteva essere descritto o definito”.

È noto il rigore estremo che poneva nel selezionare la documentazione dalla quale attingeva, e la puntigliosità con la quale riferiva i dati e le quantità relativi alle situazioni di cui dava conto. Non cedeva mai all’approssimazione, era anzi sempre disponibile e pronto a impadronirsi, non senza fatica, delle più complesse e specializzate questione tecniche, le norme, i parametri, le misure. E se ciò comportava l’esposizione di aridi elenchi, non se ne preoccupava, e sfidava imperterrito la pazienza del lettore. Perciò si è detto che Cederna era posseduto da una sorta di etica dei numeri, che sostiene la sua intransigenza e la sua indignazione. Ecco un esempio da un articolo su “Il Mondo” dell’aprile 1964, dove si confrontano le politiche urbanistiche di Roma e di Amsterdam:

“Considerando il verde esistente (parchi e giardini), Amsterdam ha una dotazione più che quadrupla di quella di Roma, che ha una popolazione più che doppia di quella di Amsterdam: e una media per abitante più che decupla. Senza naturalmente nemmeno paragonare la qualità e la distribuzione (a Roma terra bruciata, aiuole spartitraffico, zone verdi invase dal traffico, quattro quinti della popolazione senza un filo d’erba, eccetera), osserviamo che in trent’anni Roma passa da una media di mq 2,7 nel 1930 a mq 1,8 nel 1961 a mq 1,5 oggi, mentre Amsterdam passa da una media di mq 2,2 nel 1930 a mq 15,9. Tenendo conto dell’aumento della popolazione, si osserva che, ad Amsterdam, ad un aumento di 133.000 abitanti ha corrisposto un aumento di verde di 1.240 ettari, pari a una media di mq 93 per ogni nuovo abitante: mentre a Roma a un incremento di oltre un milione di abitanti ha corrisposto un incremento di meno di un centinaio di ettari, pari a una media di mq 0,8 per ogni nuovo abitante!”

Era insomma un giornalista anomalo, che considerava un vizio di fondo del giornalismo italiano il “culto maniacale e nevrotico della notizia”. Si riferiva alla notizia di eventi calamitosi o comunque clamorosi senza i quali non scatta l’interesse dei giornali: “Notizia, maledetta notizia”, ripeteva angosciato.

“Conseguenza di questo modo di pensare, per quanto riguarda la questione ambientale, urbanistica, ecologica, sarebbe che dovremmo augurarci un’alluvione al mese, una fuga di diossina ogni semestre, un affondamento di petroliera nel Mediterraneo ogni estate, un furto di Piero della Francesca alla settimana: queste sì, vivaddio, sono belle e buone notizie, anche da prima e terza pagina, per le quali mobilitare le grandi e perfino le grandissime firme”.

***

Tonino Cederna scrisse durante tutta la vita, per mezzo secolo, migliaia di articoli, innumerevoli saggi, documenti, libri. Ma ho già detto che la sua attività non si esaurì nella scrittura, e fu sempre molto attivo nelle associazioni culturali, a partire da Italia nostra, fondata a Roma nel 1955 da Umberto Zanotti Bianco – che ne fu il primo presidente – e da Giorgio Bassani, Elena Croce, Desideria Pasolini dall’Onda, e altri. Nel documento istitutivo dell’associazione si legge che:

“essi comparenti, come tutti coloro a cui stanno a cuore le bellezze artistiche e naturali del nostro paese, non possono non essere estremamente preoccupati di fronte al processo di distruzione sempre più grave e sempre più intenso al quale è stato sottoposto negli ultimi anni il nostro patrimonio nazionale, ed hanno perciò deciso di costituire una fondazione nazionale con il proposito di suscitare un più vivo interesse per i problemi inerenti alla conservazione del paesaggio, dei monumenti e del carattere ambientale delle città specialmente in rapporto all’urbanistica moderna”.

Come ricorda Desideria Pasolini, Cederna non volle figurare fra i fondatori di Italia nostra, anche se ne è sempre stato il più autorevole esponente, e il riferimento all’“urbanistica moderna” nell’attoistitutivo è quasi la sua firma.

Molti dei suoi impegni più ardui furono perciò condotti, se così può dirsi, su due binari, quello del giornalista e quello del militante ambientalista. La salvezza dell’Appia Antica è sicuramente la più famosa e la più importante delle battaglie condotte in tal modo. Il suo primo articolo sulla regina viarum (Il Mondo, dell’8 settembre 1953) è quello, celeberrimo, titolato I gangster dell’Appia, al quale hanno fatto seguito almeno altri cento articoli, sullo stesso settimanale, sul Corriere della Sera,la Repubblica, L’Espresso e altri giornali. La sua azione ininterrotta e implacabile, l’impegno di Italia nostra e di altri benemeriti portarono a un primo fondamentale successo con l’approvazione del piano regolatore di Roma del 1965 che obliterò le paurose lottizzazioni per quasi cinque milioni di metri cubi ai lati della strada. Nel decreto, a firma del ministro Giacomo Mancini, si legge che “riguardando la tutela del comprensorio dell’Appia Antica interessi preminenti dello Stato [… ] l’Appia Antica è interamente destinata a parco pubblico da Porta San Sebastiano ai confini del Comune”.

Un risultato clamoroso. Scongiurato il rischio che l’avessero vinta i “nemici del genere umano”, Cederna si impegnò, sempre insieme a Italia nostra, perché alla tutela facessero seguito altri provvedimenti per conoscere, studiare, restaurare quell’intatto cuneo di verde, di storia, di natura che dai Colli Albani penetra fino al Campidoglio e per consentirne il pubblico godimento. La vicenda dell’Appia Antica si è trascinata nei decenni successivi fra alterne vicende: pessimo controllo del territorio da parte del Comune di Roma, che ha consentito l’insediamento di circa un milione di metri cubi abusivi; ripetuti interventi legislativi della Regione per la formazione di un primo e poi di un secondo ente parco regionale (di cui Cederna è stato anche presidente).

Nonostante le lentezze intollerabili, i compromessi, gli abusi, le astuzie, il gran parco dell’Appia Antica è però ormai una realtà indiscutibile, e in tante parti meravigliosa, una realtà che nessuno osa più mettere in discussione.

Tutto ciò lo si deve ad Antonio Cederna.

Va smentita in proposito un’altra insopportabile leggenda costruita ai suoi danni: che fosse un intellettuale astratto, incline all’interdizione, fatalmente destinato alla sconfitta, uno che sapeva dire solo no. Non è stato vero per l’Appia Antica e non è vero per un altro suo impegno, la tutela dei centri storici. Il punto di partenza è il convegno di Gubbio del 1960, un convegno d’importanza straordinaria, aperto da una relazione di Antonio Cederna e Mario Manieri Elia radicalmente innovativa rispetto alle teorie allora prevalenti, che consentivano di manomettere, di “diradare” e anche di sventrare i centri storici (fatte salve le emergenze monumentali). Il convegno approvò la famosa “Carta di Gubbio” che sostiene l’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici (“L’intero centro storico è un monumento”).

Anche in questo caso, fu Giacomo Mancini, che frequentava e stimava Tonino Cederna, a far propria la Carta di Gubbio e a tradurla in norma. La cosiddetta legge-ponte, quella approvata dopo la frana di Agrigento del 1966, subordina infatti ogni intervento di sostanziale trasformazione dei centri storici all’approvazione di un apposito piano particolareggiato. Una soluzione all’apparenza precaria e semplicistica che però, con il passare degli anni, si è dimostrata di eccezionale efficacia. Tant’è che il nostro è l’unico paese d’Europa che ha in larga misura salvato i propri centri storici, ed è questo l’unico merito che la cultura urbanistica italiana contemporanea può vantare nel mondo. Certamente, nessuno può sostenere che la tutela del patrimonio immobiliare d’interesse storico sia perfettamente garantita, ma certamente non sono più all’ordine del giorno gli episodi di gravissima alterazione, se non di vera e propria distruzione, che avvenivano frequentemente nei primi lustri del dopoguerra.

Qui a Ferrara non si può non ricordare il contributo di Cederna alla concretizazione dell’idea che, per primo, Paolo Ravenna, definì dell’addizione verde (quasi il completamento dell’“addizione erculea” del 1492), il grande parco urbano delle mura a nord della città (più di mille ettari), fino al Po, intitolato a Giorgio Bassani. Poi, forse meno conosciuto, un altro merito riguarda la localizzazionedell’auditorium nell’area dello stadio Flaminio, proposta da Cederna e accolta dal consiglio comunale di Roma, in tal modo scongiurando il vistoso errore che si stava commettendo di intervenire nel piccolo e inadatto borghetto Flaminio. E infine Tormarancia, uno splendido brandello di campagna romana, a ridosso dell’Appia Antica, salvato da una colata di cemento grazie ai suoi articoli e al lavoro delle associazioni.

È fuori discussione che, se ci furono vittorie, molto più numerose, e dolorosissime, furono le sconfitte, a partire dalla realizzazione dell’hotel Hilton: una violenza di 100 mila mc sul crinale di Monte Mario. Da allora Cederna adottò l’hilton come unità di misura della speculazione fondiaria: una lottizzazione di 2 hilton, uno scempio di 3 hilton e mezzo …

***

Una buona parte degli articoli di Cederna è stata raccolta dall’autore in quattro libri, che qui rapidamente ricordo:

I vandali in casa, Laterza, 1956. Raccoglie gli articoli scritti per “Il Mondo” dal 1951 al 1956. Fondamentale è l’introduzione, con riflessioni sorprendenti per l’epoca (che anticipano la Carta di Gubbio) sulla continuità, nei centri storici, fra monumenti principali e architettura minore. Altrettanto straordinaria è l’analisi sulla rottura delle tecniche costruttive verificatasi nell’Ottocento a opera dell’architettura moderna che ha reso irrecuperabile il rapporto con un passato nel quale (“dai faraoni al barone Haussmann”) molte cose erano rimaste costanti e immutate. Ad alcuni degli articoli sono accluse note o bibliografia (quella sull’Appia Antica, in calce all’articolo Lo stadio nelle catacombe, impegna 11 pagine). Nel 2006, cinquant’anni dopo la prima, ha visto la luce una nuova edizione de I vandali, che contiene i due terzi degli articoli originali, curata di Francesco Erbani, cui si devono anche la prefazione e la postfazione.

Mirabilia Urbis, Einaudi, 1965. Un’ampia raccolta di articoli del Mondo (dal 1957 al 1965) dedicata alla sua città d’adozione. In appendice è riportata la fondamentale relazione illustrata da Cederna e da Mario Manieri Elia al convegno di Gubbio del 1960 che ha dato origine alla moderna politica di tutela dei centri storici.

La distruzione della natura in Italia, Einaudi, 1975. Tratta della natura in tutti i suoi aspetti, dai parchi nazionali ai giardini, dalle montagne ai laghi, dalle paludi allo stambecco. Sorprende una pagina in cui Cederna, accusato spesso e volentieri di esuberante pessimismo, si mostra invece ingenuamente ottimista, illudendosi che le cose in Italia potessero migliorare con l’entrata in funzione delle regioni a statuto ordinario.

Brandelli d’Italia, Newton Compton, 1991. Ancora un’antologia di saggi e di articoli, da Il Mondo e dal Corriere della Sera. Ogni articolo è seguito da un corsivo che aggiorna il pensiero dell’autore sulle cose scritte molti anni prima. Il corsivo in calce all’introduzione a I vandali in casa è il seguente: “A parte qualche intemperanza espressiva mi pare nella sostanza tuttora attuale. A p. 48 la banda degli architetti viene definita un «branco di scimmie»: oggi, per rispetto degli animali, userei un’altra espressione”.

Merita di essere rilevato il fatto che in nessuno dei libri di Cederna sono ripresi articoli che trattano di esperienze straniere. I suoi famosi servizi da Amsterdam, Parigi, Londra, Stoccolma, dagli Stati Uniti, dalla Svizzera, dalla Grecia non sono mai stati ripubblicati, e i suoi lunghi articoli su “Casabella” (il verde pubblico di Amsterdam) e su “Urbanistica” (il verde pubblico di Stoccolma) sono irreperibili, almeno fino a quando quella straordinaria istituzione che è l’Archivio Cederna (ne parlo in conclusione) non avrà provveduto a renderli accessibili on line.

Cederna ha scritto un altro libro:

Mussolini urbanista, Laterza, 1975, l’unico a carattere monografico. È un’accurata ricerca storica sullo sventramento di Roma negli anni del fascismo. Molto ben documentato e illustrato. Anche di questo libro esiste una nuova edizione, del 2006, pubblicata da La corte del Fontego, con prefazione di Adriano La Regina e postfazione di Mauro Baioni. In una stagione, come l’attuale, di accomodante revisionismo, è una ventata d’aria fresca la lettura delle edificanti biografie di sette protagonisti dell’urbanistica di quegli anni: Armando Brasini, Gustavo Giovannoni, Antonio Muñoz, Ugo Ojetti, Marcello Piacentini, Corrado Ricci, Virgilio Testa. Qualche riga:

- Brasini Armando: “è il campione del titanismo di cartapesta, del pompierismo ipermonumentale e della carnevalata neoromanesca”;

- Giovannoni Gustavo: “Il culmine dell’accecamento lo raggiunge col progetto del gruppo «La Burbera», firmato insieme ai peggiori arnesi dell’architettura e dell’urbanistica romana. È un piano che annienta tutto il centro barocco di Roma […]. All’insania urbanistica egli unisce quella architettonica: la piazza assiro-babilonese disegnata all’incrocio del «cardo» e del «decumano» dalle parti di piazza S. Silvestro ne è un esempio obbrobrioso”;

- Muñoz Antonio: “il regista del più vasto teatro di demolizioni della storia moderna, è l’autentico «mastro ruinante» di Roma, in nome del traffico, della romanità imperiale, della boria fascista e di altre volgarità. Pianta molti cipressi. Le fotografie lo mostrano sempre un passo indietro a Mussolini, che egli sobilla e persuade come uno Jago maligno: solo un trombone come Ugo Ojetti gli può rimproverare, per l’isolamento dell’Augusteo, un eccessivo rispetto archeologico”;

- Piacentini Marcello: “maestro insuperabile del doppio gioco e della riserva mentale: nei suoi innumerevoli scritti sostiene tutto e il contrario di tutto, e parte sempre dalla necessità di conservare «questa nostra cara e vecchia Roma» per proporne, nel capoverso seguente, la distruzione”.

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Nel programma del nostro festival, a proposito del ritratto di Antonio Cederna, si legge che fu definito urbanista ad honorem. Secondo me è stato di più: in materia di urbanistica i suoi contributi non sono stati solo d’informazione, di metodo, di critica – o di biasimo, come sostengono i suoi denigratori. Fu anche uno straordinario inventore di spazi. Il suo impegno ha riguardato soprattutto Roma. E a questa sua attitudine mi pare necessario dedicare la conclusione del mio intervento.

L’idea che aveva della capitale del terzo millennio, Cederna l’ha descritta più volte, ma il testo nel quale è disegnata compiutamente è la sua Proposta di legge per Roma capitale, dell'aprile 1989, quand’era deputato indipendente del Pci. Soprattutto la relazione alla proposta di legge è una vera e propria lezione di urbanistica (moderna). La nuova forma dell’area centrale di Roma voleva realizzarla attraverso due fondamentali operazioni:

- il trasferimento dei ministeri nelle aree del Sistema direzionale orientale (Sdo);

- la realizzazione del parco storico-archeologico dell’area centrale, dei Fori e dell’Appia Antica.

La proposta di legge illustra in dettaglio le cose da fare. I ministeri da trasferire nello Sdo non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico.

“L’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell'intervento (basti pensare allo sgraziato salto di quota che separa la via Cernaia dal piano degli scavi delle terme di Diocleziano, frutto della sommaria sistemazione della zona dopo l’edificazione del ministero delle Finanze)”.

Nel cuore dell’area archeologica centrale, la valorizzazione delle antichità romane non può essere garantita solo dall’opera di restauro, manutenzione e consolidamento: è necessario intervenire sul piano urbanistico. Il parco Fori Imperiali-Foro Romano arricchirà Roma e i romani di “un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo”. Ma soprattutto, “coll’eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere e con la creazione del parco centrale si sancisce l'incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.

Allora, all’inizio degli anni Trenta, Benito Mussolini, per consentire che da piazza Venezia si vedesse il Colosseo, aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma. Migliaia di sventurati cittadini furono deportati in miserabili borgate, dando inizio all’ininterrotta tragedia della periferia romana. La nuova via dei Fori Imperiali doveva formare un grandioso palcoscenico per la sfilata delle truppe, ristabilendo la continuità fra l’impero romano e quello fascista.

Dell’eliminazione della via dei Fori – riprendendo un’idea già proposta da Leonardo Benevolo qualche anno prima – si era cominciato a parlare nel 1978, quando il soprintendente archeologico Adriano La Regina aveva denunciato le drammatiche condizioni dei monumenti romani corrosi dall’inquinamento. Il sindaco Giulio Carlo Argan coniò lo slogan: “O i monumenti o le automobili”. Luigi Petroselli, che sostituì Argan nel settembre 1979, sostenne subito l’iniziativa con entusiasmo e disponibilità culturale sorprendenti. Intuì che era un’occasione straordinaria per la “riforma” della città. “Io credo che non giovi ad alcuno […] volare basso su Via dei Fori Imperiali, anche perché si rischia di restare inquinati”, disse concludendo il 29 marzo 1981 la seconda conferenza urbanistica comunale.

Il progetto Fori messo a punto allora prevedeva il ripristino del tessuto archeologico sottostante la via dei Fori, attraverso la sutura della lacerazione prodotta nel cuore della città dallo sventramento degli anni Trenta. L’idea della storia collocata al centro della città futura – un futuro dal cuore antico – raccolse, come ho già detto, vasti e qualificati consensi. A esclusione del Tempo, tutti i quotidiani della capitale furono a favore del progetto. Un appello preparato da Cederna e dall’archeologo Filippo Coarelli fu sottoscritto da 240 studiosi italiani e stranieri. Vi si legge che, con la chiusura al traffico e con il recupero del grande complesso archeologico, si otterrebbe “un parco archeologico senza pari al mondo, comprendente i Fori Imperiali, il Foro Romano, e il Colosseo, e quindi uno straordinario spazio per la ricreazione e la cultura, tale da permettere un rapporto vitale e non retorico con il nostro passato”. Favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa a quelle straordinarie occasioni determinate dalla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici.

All’impegno e alla rapidità delle decisioni di Petroselli si devono l’eliminazione della via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e l’unione del Colosseo – sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico – all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò così la continuità dell’area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. E’ forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea.

Ma durò poco. Il 7 ottobre 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli. Cederna scrisse su Rinascita dello “scandalo” di Petroselli: lo scandalo di un sindaco comunista che aveva capito l’importanza della storia nella costruzione del futuro di Roma; che non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.

Con la morte di Petroselli cominciò a morire anche il progetto Fori. Gli oppositori si scatenarono. Dopo tre lustri di abbandono, furono ripresi gli scavi ai lati della via dei Fori ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma la chiusura definitiva della strada è stata continuamente rinviata e le automobili di via dei Fori finiscono ancora tutte nel marasma di piazza Venezia.

Cederna restò sempre più isolato e amareggiato. Le pagine culturali de la Repubblica furono in prevalenza occupate da chi si opponeva al progetto. Si sentì “preso per i fondelli” e inutilmente protestò con il direttore Eugenio Scalfari. Nella postfazione a I vandali in casa, Francesco Erbani osserva che

“il grande parco che avrebbe immesso verde e archeologia fin nel cuore di Roma, strutturando la città su ritmi diversi da quelli dettati dalla rendita immobiliare e dalle macchine, viene lasciato cadere, prima sistemandolo nell’orizzonte lontano delle utopie, alle quali si presumeva di poter giungere colla cadenza burocratica delle commissioni e delle subcommissioni consiliari, poi facendolo completamente sparire dall’orizzonte della città. […] svanito è l’impianto strategico, ciò che quel progetto prefigurava come parte della prospettiva di una città che facendo perno sul proprio patrimonio archeologico concepisce un’altra fisionomia di sé, prospetta altri rapporti fra centro e periferia, dichiara esaurita l’espansione “a macchia d’olio” nei territori dell’agro romano e si concentra sul miglior uso delle parti già edificate, sul trasferimento dal centro delle funzioni direzionali, amministrative e aziendali, verso aree periferiche con il doppio intento di liberare il primo e di riqualificare le seconde, interrompendo drasticamente quel processo, affidato tutto al mercato degli immobili, che concentra residenza fuori e uffici dentro, con i drammatici problemi di traffico e di inquinamento che questa conformazione porta con sé”.

Il Requiem al progetto Fori è stato definitivamente recitato nel 2001 con l’apposizione del vincolo monumentale proprio sulla via dei Fori e dintorni, fino alle terme di Caracalla, congelando la situazione attuale. La relazione storico-artistica che giustifica quel vincolo rappresenta un radicale cambiamento rispetto all’impianto originario del progetto, com’era stato concepito da La Regina, Cederna, Petroselli. La sistemazione patrocinata da Benito Mussolini non è più contestata, diventa anzi “un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel bene e nel male, raggiunto”.

Il contrasto con il pensiero di Cederna è assoluto. In Mussolini urbanista si legge che

“i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini, come in seguito a un errore di calcolo o a uno sconquasso sismico; mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il di dietro, per di più gravemente mutilato e rappezzato. Una cosa davvero straordinaria che non ha uguali nella storia urbanistica universale, e che le guide turistiche trascurano di segnalare”.

Secondo Cederna, il progetto Fori non era solo un’operazione di archeologia urbana, ma il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’assetto di Roma. Il recupero dei Fori era un dettaglio del grande parco urbano che avrebbe dovuto estendersi, lungo l’Appia Antica, dal Campidoglio ai Castelli Romani, formando la struttura principale dell’area metropolitana, l’unica pausa in una periferia senza fine. Tutto ciò è ignorato nelle motivazioni del vincolo che contesta la valenza generale del progetto Fori, vilipeso come “un insieme di singoli interventi puntuali, svincolati da ogni problematica urbanistica”.

Leonardo Benevolo è stato fra i pochi che non non ha ceduto alla sirena del revisionismo, e così commenta sul Corriere della Sera il decreto di vincolo:

“E’ diventato illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano, che renderebbe percepibile ai cittadini di oggi uno dei più grandiosi paesaggi architettonici del passato. […] si è preferito Antonio Muñoz (lo sprovveduto autore di quelle sistemazioni) ad Apollodoro di Damasco, l’architetto dell’imperatore Traiano”.

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Un destino clemente ha impedito a Cederna di vedere la fine miserabile toccata negli ultimi mesi all’area archeologica centrale di Roma e agli scavi di Ostia, insensatamente affidati alle cure della protezione civile, con Guido Bertolaso commissario all’archeologia. L’intero mondo delle soprintendenze e quanti hanno a cuore la nostra storia e la dignità nazionale hanno protestato con determinazione. Salvatore Settis, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, si è dimesso. Ma il governo va speditamente avanti lungo la linea dello smantellamento dei poteri istituzionalmente titolari della tutela, come aveva profeticamente previsto Cederna, scrivendo nel 1993: “Liberarsi quanto più possibile dal patrimonio artistico, culturale che la storia, si direbbe, ha avuto il torto di lasciarci in eredità: questo sembra il pensiero dominante dello Stato italiano”.

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Ho velocemente illustrato le opere e i giorni di Antonio Cederna. Mi resta da dire di una mirabile iniziativa, cui ho già fatto cenno, che è stata attivata nel novembre dell’anno scorso per merito soprattutto dell’archeologa Rita Paris: l’Archivio Cederna, sull’Appia Antica, in prossimità del mausoleo di Cecilia Metella, in una proprietà acquistata dalla soprintendenza archeologica di Roma, dopo aver riportato alla luce un impianto termale della metà del II secolo d. C. Nell’edificio principale sono stati raccolti la biblioteca, i documenti, le foto, e gli appunti di Antonio Cederna che la famiglia ha donato allo Stato italiano e che costituiscono il primo nucleo del Centro di documentazione della via Appia che si sta costituendo insieme al comune di Roma, alla Pontificia commissione di arte sacra, all’ente parco. In collaborazione con l’Istituto beni culturali della regione Emilia Romagna si sta provvedendo all’informatizzazione dell’archivio, a mano a mano consultabile anche on line nel sito dell’Archivio.

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Per chi intanto voglia conoscere un po’ meglio la figura di Antonio Cederna segnalo:

Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, un libro a cura di Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, Bononia University Press, 2007. È stato voluto dall’IBC – Istituto Beni Culturali – della Regione Emilia Romagna. Raccoglie saggi scritti per l’occasione da compagni di viaggio, studiosi e testimoni. In appendice 14 articoli di Cederna scelti dagli autori del libro.

"L’indignato speciale", come veniva chiamato per le sue inchieste a tutela del territorio, già negli anni Cinquanta denunciava il "sacco di Roma"

Il suo modello erano le città del Nord Europa come Stoccolma o Amsterdam dove si costruiscono quartieri esemplari non per speculazione

L’Appia Antica, dove ora un casale ospita il suo centro di documentazione, è uno dei fili rossi che tiene insieme tutta la sua attività

Antonio Cederna torna sull’Appia Antica. Le sue carte, a più di dieci anni dalla morte, sono da oggi sistemate a Capo di Bove, in un casale che lo Stato ha acquisito nel 2002, a cinquecento metri dal Mausoleo di Cecilia Metella. In questa villa, dove gli scavi della Soprintendenza archeologica di Roma hanno portato alla luce un complesso termale del II secolo dopo Cristo, sorgerà un centro di documentazione che avrà come fulcro l’archivio che la famiglia Cederna ha donato alla Soprintendenza. E’ un archivio fatto di libri e poi di appunti, lettere, ritagli di giornale, documenti, che potranno essere consultati anche in rete: quasi cinquant’anni di battaglie, una storia della tutela e dell’urbanistica italiane vista da un protagonista di entrambe, che dal Mondo di Mario Pannunzio e poi sul Corriere della Sera, sull’Espresso e su Repubblica e, ancora, nei libri I vandali in casa, Mirabilia urbis, La distruzione della natura in Italia, Mussolini urbanista, fece la cronaca delle malversazioni subite dal territorio italiano, raccontò l’anomalia di un paese che, crescendo, dissipava la sua più grande risorsa. (L’archivio viene presentato oggi alle 10,30 a Capo di Bove, via Appia Antica 222, da Angelo Bottini, Rita Paris, Maria Pia Guermandi, Giovanni Bruno e Stefano De Caro).

Cederna, scomparso nell’agosto del 1996, raccoglieva in migliaia di cartelline il materiale che serviva per i suoi articoli. Aveva uno scrupolo dell’accertamento che sfiorava l’ossessione. In un fascicolo sul sacco edilizio di Monte Mario a Roma, dove si scatenò la Società Generale Immobiliare, sono conservati gli appunti delle riunioni dei consigli comunali che nei primi anni Cinquanta votavano le autorizzazioni a costruire. E fra le carte spunta anche lo schizzo di una piantina con la sagoma inquietante dell’Hotel Hilton, che sarà costruito nel 1960, circondato dalla selva di palazzine che gli avrebbero fatto da corona sui terreni che l’enorme albergo - centomila metri cubi - avrebbe valorizzato.

Un caso di scuola della speculazione romana viene rivissuto passo dopo passo.

Ma in una cartellina compare anche il dattiloscritto di una poesia datata 1964 e poi pubblicata, seppure in una versione leggermente diversa, in Brandelli d’Italia, un libro del 1991. Si intitola "A un architetto impegnato". E’ un epigramma, ha un tono burlesco. Cederna fornisce di sé un’immagine diversa da quella accigliata che gli è spesso attribuita e che gli valse il nomignolo di «indignato speciale». E’ dedicata a un architetto comunista, qui indicato come Paolo Cordini (ma è un nome di fantasia), il quale considera «i pubblici giardini / olandesi svizzeri svedesi / danesi tedeschi inglesi / oppio capitalistico / per la povera gente». A lui, invece, piacciono «coree, bidonville e borgate / le palazzine e le palazzate», perché solo vivendo in casermoni «senza prati né campi sportivi», si prendono «scoliosi e paramorfismi» che spingono «a salutari estremismi» e sono «garanzia di rivoluzione».

E’ un Cederna al quale si è poco abituati, radicale, ma avversario di quell’atteggiamento sintetizzabile nel «tanto peggio tanto meglio». La poesia è un piccolo manifesto anti-ideologico: Cederna non bandisce l’architettura moderna. Il suo modello sono le città del Nord Europa - Stoccolma, Oslo, Copenhagen, Amsterdam, Rotterdam - dove si costruiscono quartieri esemplari, in un contesto politico che va dal liberalismo alla socialdemocrazia, ma non frutto della speculazione che invece deforma il moderno a Roma e altrove, dove si sventrano i centri storici e li si caricano di funzioni alle quali non sono adatti e si allestiscono in periferia insediamenti inospitali, dormitori senza alcun pregio.

La conclusione della poesia è bruciante: «Da dialettico scaltro / tu dici sempre che il discorso è un altro: / e infatti invece di Pietralata / in fondo al cuore ti sta l’Olgiata» (Pietralata è un rione popolare di Roma, l’Olgiata l’emblema del quartiere di ville per ricchi).

L’Appia Antica è uno dei fili rossi che tiene insieme tutta l’attività di Cederna (altro nomignolo per lui: «l’appiomane»), dai primi anni Cinquanta fino alla morte, che lo coglie mentre è presidente dell’Azienda consortile per il Parco dell’Appia. Ed è quasi naturale, meglio, una specie di nèmesi, che le sue carte siano destinate in questa villa, una di quelle che Cederna descriveva negli articoli sul Mondo («I gangster dell’Appia», «La valle di Giosafat», «Lo stadio sulle catacombe».) - le «ville canili» che i proprietari negli anni Cinquanta decoravano incassando nei muri di cinta o nelle facciate pezzi di sarcofago, lapidi e iscrizioni.

All’Appia Cederna dedica un’attenzione costante. La tutela di quell’area, dei suoi valori archeologici e di paesaggio, non è solo dettata da ragioni di conservazione di un patrimonio che nessun’altra città al mondo può vantare. Le ragioni di salvaguardia dell’antico basterebbero, ma ad esse Cederna affianca motivi urbanistici. Ai suoi occhi una città per essere davvero moderna e per funzionare bene deve rispettare quei duemilacinquecento ettari di verde e di reperti antichi che si infilano fino al centro della città e che interrompono l’espansione «a macchia d’olio» dei quartieri. L’Appia Antica (di cui Cederna sottolineerà sempre il destino riservatole a partire dal 1965, quello di diventare parco pubblico) si oppone all’espansione di Roma verso il mare e verso i Castelli - «una spinta artificiale», la definisce - voluta dagli interessi della proprietà fondiaria. I vandali sono coloro che distruggono l’antico, spiega Cederna, ma il vandalismo, specialmente negli articoli dedicati all’Appia, è sempre l’antitesi della modernità.

«Espandendo Roma verso il Sud si fa piazza pulita dell’ultima campagna romana, che il buon senso, nonché le regole elementari dell’urbanistica, consigliavano di salvare come la pupilla degli occhi, e si dà l’ultimo tocco alla distruzione di tutto il verde intorno a Roma, da anni metodicamente perseguita, con grande vantaggio economico di alcuni latifondisti periferici, principi decaduti, appaltatori di immondizie, imprenditori e pie società immobiliari»: Cederna lo scriveva in «Lo stadio sulle catacombe».

Era l’ottobre del 1955 e Roma, grosso modo, occupava un quinto del suolo che occupa oggi.

Da : "Un italiano scomodo", a cura di M.P.Guermandi, V.Cicala, Bologna, BUP, 2007.

Gli anniversari possono rivelarsi scadenze ambigue, a volte ingombranti o pretestuose, che si appiattiscono in formali commemorazioni, funzionali ai rituali accademici; a volte invece divengono necessarie rivisitazioni e analisi rese più lucide dal decantarsi delle contingenze. Talvolta, anche, si tramutano in tagliole della memoria in cui si impigliano ricordi, rimpianti e qualche senso di colpa. Due lustri sono in fondo uno spazio temporale adeguato per una prima decantazione che possa enucleare i motivi fondanti di un’opera, evidenziarne i metodi e dall’altro lato per verificarne la validità in tutto o in parte. E per tentare dei bilanci, anche quelli così limitati e così manichei, di vittorie e sconfitte. In questo anno di commemorazioni uno dei leit motiv che hanno percorso tante delle riletture dell’opera cederniana è costituito proprio da questa ansia di bilanci: credo che questo si debba innanzi tutto al fatto che Cederna è stato, prima di ogni altra definizione, un combattente di una infinita battaglia per la civiltà.

In fase di elaborazione del percorso di ricerca che è all’origine di questo volume ho cominciato in maniera frammentaria per modalità, ma sistematica per ampiezza, la lettura del corpus cederniano edito: mi accompagnavano in queste letture i racconti personali di alcuni dei suoi compagni di viaggio, molti dei quali qui riuniti ad analizzarne percorsi, iniziative, aree d’intervento oppure (o assieme) semplicemente a restituirci un ricordo dell’uomo Cederna.

La sua produzione letteraria, costituita per lo più da articoli su quotidiani e settimanali, poteva ben prestarsi ad un esercizio, per contingenze personali, un po’ discontinuo. Eppure, rileggendo quelle pagine, assieme al disagio crescente spesso provocato da talune descrizioni, risultato certo dell’efficacia della sua prosa, ma ancor più dell’ineluttabilità e dell’evidenza, così attuale e così scomoda, di certe conclusioni e di molte previsioni, uno dei caratteri che mi hanno più colpito è che l’opera di Cederna, pur procedendo per episodi circoscritti - per carattere editoriale e diversificazione di soggetti - possiede una propria straordinaria organicità tanto da risultare persino monolitica quanto a coerenza ideologica.

Cederna tende, fin dalla prima fase della sua attività, a inquadrare gli episodi che descrive, i fenomeni che analizza, in un orizzonte più vasto, per risalire alle cause, certo, e perché possiede una concezione sistemica del territorio e dei suoi problemi. Il territorio è quindi un sistema complesso e fragile in quanto tale, perché in esso ogni elemento che vi viene alterato ne scompone tutto l’equilibrio come nel più delicato degli ecosistemi. E di conseguenza i centri storici sono da interpretare non come insieme di monumenti eccellenti, ma nell’insieme del loro tessuto connettivo, come articolazione organica, complesso contesto di strade e palazzi e così i beni culturali non come emergenze isolate, ma inseriti nel problema più complesso delle città e del paesaggio.

Allo stesso modo Cederna contesta, come arretrata e dannosa, la visione della natura come paesaggio, quando sia inteso come sommatoria di panorami e quindi quasi esclusivamente interpretato nelle valenze estetiche. Possiede, è stato detto, una visione strategica dell’urbanistica nella quale individua lo strumento privilegiato per il governo del territorio. E’ stato detto che Cederna fosse un vero e proprio urbanista: in realtà egli non fu mai (e non ne ebbe mai l’intenzione) un professionista della pianificazione [1], ma seppe portare la divulgazione dei temi urbanistici a un tale livello di chiarezza e inquadrarne i problemi in una visione della città così coerente e ribadita nel tempo da diventare per certo una delle figure di riferimento dell’urbanistica italiana. Fra i primi a capire, con assoluta tempestività di analisi, che le arretratezze delle nostre città in campo urbanistico sono il perverso effetto della costante difesa della rendita fondiaria a livello politico – legislativo; in anticipo su tutti, a livello di comunicazione di massa, diffuse concetti come quello della irriproducibilità e fragilità del suolo. E in controtendenza con il provincialismo che caratterizzava la nostra stampa (e la nostra cultura) pose da subito grande attenzione alle esperienze più avanzate, in campo urbanistico, di ambito europeo - Amsterdam, Stoccolma, Copenaghen, Zurigo - a più riprese additate come modelli a cui ispirarsi. All’ imprinting culturale ereditato dalla borghesia lombarda di stampo illuminista occorrerà far risalire senz’altro la sua vocazione divulgativa e la tenacia assertiva.

Tutti questi elementi connotano l’evidenza della sua attualità, tante volte proclamata e raramente interpretata, forse perché fastidioso sintomo della nostra cattiva coscienza di cittadini distratti e della nostra pigrizia intellettuale. Cederna è attuale non solo perché molte delle sue battaglie sono purtroppo ancora aperte, perché molte delle sue accuse e delle sue descrizioni potrebbero essere riproposte tal quali a venti, trenta, quarant’anni di distanza, lo è ancor più proprio nella capacità di inquadrare i tanti episodi e fenomeni, per lo più negativi, riportandoli sempre ad una analisi complessiva e a ragioni strutturali con le quali ci ritroviamo a fare i conti ancor oggi.

E bisogna leggerle, le date di questi articoli in cui sulla stampa periodica e quotidiana Cederna veniva componendo il suo ritratto - Iliade e Odissea assieme - dell’Italia del dopoguerra, del boom economico, di tangentopoli.

Né apocalittico, né integrato, Cederna, come è stato sottolineato in molti contributi di questo volume, non fu mai solo un critico e un oppositore del mutamento, ma fu studioso in grado di proporre anche soluzioni operativamente efficaci e concretamente realizzabili (il parco dell’Appia, la proposta di legge per Roma Capitale). E i suoi scritti di sintesi si concludono quasi sempre con un’agenda propositiva, in cui il primo punto è invariabilmente dedicato alla necessità di censire, studiare, documentare: conoscere di più per fare meglio: “non si salva, ciò che non si conosce” [2]. La sua azione sempre combattiva e dispensatrice di idee, di iniziative, di alternative non è quella di un semplice conservatore: è per lo sviluppo guidato dalla mano pubblica, per una città moderna ispirata ai criteri dell’urbanistica di stampo nordico che vive accanto alla città storica e per questo ne permette la conservazione nella maniera migliore e più congrua per uno sviluppo ordinato e vitale delle proprie funzioni e in cui la qualità della vita sia garantita a livelli decorosi per tutti.

Né marxista, né crociano, non fu mai contro la proprietà privata intesa come possesso giuridico di un bene, criticando nel marxismo, soprattutto, la sottovalutazione dei problemi del territorio intesi come sovrastrutturali e nell’idealismo la concezione del paesaggio come visione estetica e relegata ad un’apparenza soggettiva e inafferrabile.

Proverbiale la sua pignoleria nella documentazione e nell’elaborazione scritta (sette ore a cartella, il minimo prescritto per ottenere un risultato decente) e l’attenzione che si percepisce per il materiale iconografico, non accessorio, ma parte integrante delle sue analisi. Alla base delle sue inchieste sempre ripetuti sopralluoghi oltre che il vaglio di innumerevoli materiali di prima mano: arrivò a studiare l’olandese per tradurre il piano urbanistico di Amsterdam e poterlo illustrare con precisione d’analisi. Frequentatore attentissimo di convegni, dei quali proponeva accurati resoconti critici, degni, per contenuto, di pubblicazioni specialistiche, ma esemplari per chiarezza e capacità di individuazione degli snodi culturali.

Nel 1949 comincia la collaborazione a “Il Mondo” [3] sulle cui pagine prende a denunciare, fra l’altro, l’urbanizzazione selvaggia che si scatena negli anni delle ricostruzioni postbelliche. L’attività di Cederna, così come è stato messo in rilievo da Francesco Erbani, è perfettamente complementare all’ideologia progressista e laica del periodico di Pannunzio, che in quegli anni veniva denunciando le arretratezze culturali della classe politica e di quella accademica, quando non la loro acquiescenza agli interessi privati più retrivi ed aggressivi e i guasti di un capitalismo distorto, che si poneva al riparo dal rischio d’impresa, rifugiandosi nella passività della rendita immobiliare e fondiaria o nella corruzione [4].

Intanto nasce Italia Nostra (è il 1955) e Cederna ne è tra i fondatori e sarà sempre uno dei soci più attivi in veste di presidente della sezione romana: per Italia Nostra, negli anni, scriverà alcune delle sue sintesi più efficaci e di assoluto rilievo storico [5].

Nel 1956 esce la prima raccolta degli articoli pubblicati su “Il Mondo”, I vandali in casa, dove già presenti sono le tesi di fondo che saranno incessantemente ripercorse e riproposte nell’arco di oltre quarant’anni: quelle per una pianificazione come metodo imprescindibile e garanzia di trasparenza e democraticità; per la tutela della natura e del territorio nel suo complesso perché bene non reintegrabile; il nesso di complementarietà fra antico e moderno per cui, per salvare l’antico, bisogna saper costruire il moderno secondo i criteri di un’urbanistica modernamente intesa. L’incipit de I vandali in casa è una chiamata alle armi a partire da una separazione netta fra chi è vandalo e chi non lo è. Cederna si propone di organizzare contro i distruttori del bello una vera e propria ‘persecuzione metodica e intollerante’ [6]. E inizia una delle battaglie di fondo che caratterizzerà la sua attività nel tempo: quella per la diffusione di una cultura, urbanistica e non, più moderna e per l’incremento di una sensibilità più attenta e profondamente motivata per i temi della tutela dei beni culturali e, in sostanza, per l’allargamento, nell’opinione pubblica, del sentimento di riappropriazione del patrimonio collettivo di città e paesaggio.

Ma nell’introduzione-manifesto de I vandali in casa è anche l’esposizione di uno dei suoi temi privilegiati: la conservazione integrale dei centri storici, premessa obbligata alla loro tutela: la città è cultura, ‘civiltà stessa del vivere e del costruire’ [7]. Da questi assunti trovano linfa, ad esempio, le straordinarie vittorie contro gli sventramenti del tessuto storico di via Vittoria, progettati dalle giunte capitoline dei primi anni Cinquanta e sventati grazie agli appelli di un gruppo di intellettuali, fra i quali Cederna, e assieme la denuncia, quasi solitaria, della progressiva distruzione del centro storico milanese. E inizia, con un famoso articolo del 1953, su “Il Mondo”, I gangsters dell’Appia, la battaglia di una vita, quella per la tutela dell’Appia antica.

Nella furia accusatoria Cederna non fa sconti a nessuno: gerarchie ecclesiastiche, organi di tutela deboli e neghittosi, amministrazioni pubbliche (quella capitolina in primis), classi politica e accademica nel loro complesso, fra cui spiccano, per ignoranza e boria, gli architetti.

Ma oltre che per la solidità e la novità dei contenuti, la polemica cederniana si distingue e si distinguerà sempre per la cifra stilistica che la connota e che ne costituisce elemento di efficacia e riconoscibilità immediato. Nella sua prosa di carattere oratorio e dall’aggettivazione incalzante, i toni variano dall’indignazione all’ironia più acuminata, al sarcasmo vero e proprio: in certi casi Cederna predispone, con le sue descrizioni, quasi una scenografia di una commedia all’italiana di stampo monicelliano, quando non si apparenta alle disarmonie inquietanti di Hieronymus Bosch.

Nei suoi scritti egli dà sfoggio di un uso sapiente degli strumenti retorici finalizzati a dar voce ad uno sdegno in cui l’icasticità della scrittura riproduce la forza emotiva che anima i contenuti. Quelli dell’ironia: tropoi, metalessi, domande retoriche, antifrasi e quelli dell’invettiva: anafore, iperboli, amplificazioni e accumulazioni caotiche, enumerazioni e climax in progressione semantica. E nella reiterazione non esiste quasi mai ripetizione pedissequa, fra un testo e il successivo: Cederna aggiunge sempre qualcosa, approfondisce un’analisi, incrementa i dati documentali, colora di nuovi aspetti la descrizione di un evento, di una situazione, ne definisce più in profondità le conseguenze, ne amplia i paralleli e i confronti. E potremmo in fondo riconoscervi anche in questo caso, l’uso, per così dire espanso, della figura retorica della commoratio: l’indugio ripetitivo sulle idee comunicate finalizzato al loro arricchimento concettuale. Certo i concetti ritornano, e Cederna stesso ammetteva, con civetteria provocatoria: “Scrivo da sempre lo stesso identico articolo, finchè le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose” [8], ma il ricorrere dei concetti è una sorta di necessità reiterativa dovuta al loro carattere episodico, ma ancor di più all’intento pedagogico che lo anima.

Parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustrante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo non poteva essere descritto o definito. L’Italia è, di volta in volta, ‘paese a termine’, ‘espressione topografica delle manovre della speculazione e della rapina privata’, ‘crosta repellente di cemento e asfalto’. E la ‘città a macchia d’olio’ costituisce la prima definizione italiana di sprawl urbano. Gli sventramenti dei centri stirici sono come i clisteri per i medici di Molière, gli obelischi di via della Conciliazione come vecchi candelieri su un comò di campagna. L’assimilazione del Colosseo ad uno spartitraffico è di Cederna, in Mirabilia Urbis [9]. I beni culturali sono vacche sacre: intangibili, ma indesiderati; crosta Adriatica è la riviera romagnola. Espressioni che abbiamo usato tutti, prima o poi, tanto efficaci e lapidarie da diventare insostituibili.

E così le sue unità di misura costruite per evidenziare l’enormità di eventi, progetti e situazioni e la gravità delle loro conseguenze: l’albergo Hilton come misura di ecomostri e lottizzazioni in genere [10]; due sigarette la spesa annuale dello Stato per abitante destinata alle indagini geologiche; mezzo foglio di carta protocollo la dotazione di verde per ogni cittadino romano fra il 1945 e il 1960.

All’inizio degli anni Sessanta Cederna diviene strenuo sostenitore del disegno di legge urbanistica Sullo (è il 1962) di cui sottolinea la novità e la capacità di riallineamento della nostra legislazione alle più progredite normative e prassi europee, riconoscendone anche il merito di aver inserito, per la prima volta, la tutela del paesaggio e dei centri storici all’interno della pianificazione urbanistica [11].

Nel frattempo continua a dedicare molta parte della sua attività giornalistica e non, a Roma, da lui amatissima, pur non essendone la città d’origine e pur così lontana dalla sua impostazione culturale ispirata ad un’etica severa, ma senza moralismi. E a Roma è dedicata la seconda raccolta: Mirabilia Urbis (è il 1965). In essa scopriamo fin da subito l’analista di spietata acribia di documenti ministeriali, il narratore satirico di interminabili sedute comunali capitoline [12] e il ritrattista di feroce sarcasmo di personaggi politici o accademici: valga per tutti l’insuperabile descrizione del “sindaco nero” Cioccetti [13].

In Mirabilia Urbis è la cronaca sempre più dolente dello stravolgimento del piano urbanistico del 1957, ‘il piano degli urbanisti’, elaborato da tecnici competenti e che avrebbe potuto ridare una dignità di pianificazione ad una città preda della speculazione e dell’anarchia edilizia postbellica. Su quel fallimento si innesta la decomposizione urbanistica di Roma ed il definitivo assalto speculativo dei grandi costruttori oltre che l’ammasso delle periferie più tetre e degradate di Europa (le borgate di pasoliniana memoria), al destino dei cui abitanti Cederna riserverà sempre accorati accenti di indignazione sociale.

La raffinata sovracopertina einaudiana anticipa il testo dei risvolti e, nel volume, la sequenza fotografica iniziale - ad opera della moglie Maria Grazia - sintetizza visivamente, con tecnica panoramica precinematografica, l’assunto di fondo dell’insieme testuale: la degradazione della capitale in cui si è già realizzato, nel 1965, lo stravolgimento ironicamente preannunciato nel titolo. E Cederna denuncia anche il totale disinteresse dell’amministrazione nei confronti del problema del verde urbano, la svendita dei parchi delle ville patrizie, lo scempio della costruzione dell’Hilton. E continua la battaglia per l’Appia.

Agli esempi romani sono infine dedicati i primi mirabilia urbis: sorta di vademecum turistici al contrario, di guide rosse dello sfacelo e del degrado che Cederna andrà compilando, nel tempo, col puntiglio del topografo (Appia antica, Campi Flegrei, Palermo, la penisola sorrentina), segnalando abusi, incurie, rovine.

Con l’arrivo al “Corriere” (è il 1967), durante gli anni di Giulia Maria Crespi [14], il suo raggio d’azione si allarga, anche perché nel frattempo è divenuto il vero e proprio collettore di denunce, segnalazioni, proposte che gli provengono da ogni parte d’Italia, il punto di riferimento di quella opinione pubblica ‘qualificata’ (oppure, con termine di nobili ascendenze e di rinnovato successo, ‘società civile’) che va cominciando a formarsi anche per merito della sua attività.

Palermo, Venezia, Firenze, Lucca, Selinunte, Bologna, la situazione dei parchi naturali, delle coste, dei musei. Vere e proprie pagine di storia urbanistica di esemplare documentazione sono gli articoli inchiesta su Napoli del 1974 [15]. Tanto che Leonardo Benevolo ebbe a dire, in quegli anni, scherzosamente:“pensate cosa sarebbe l’Italia se Cederna non fosse pigro”.

La distruzione della natura in Italia, raccolta a tematica più dichiaratamente ambientalista, è del 1975 (dieci anni prima della Galasso): Cederna, che ironizza sugli ecologisti e guarda con sospetto al termine ‘paesaggio’, vi antepone la sintesi ‘Lo sfacelo del Bel Paese’ in cui si scaglia contro il paese delle eterne emergenze, delle calamità che ‘naturali’ sono solo per ipocrita convenzione, che scopre l’urbanistica solo dopo il crollo di Agrigento e la geologia dopo l’alluvione di Firenze. In quelle pagine bacchetta anche i padri costituenti perché disinteressati, nella stesura dell’articolo 11, al problema della conservazione della natura, nelle sue implicazioni urbanistiche e sociali [16]; denuncia ancora “la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria e della rapina privata” [17], il rifiuto delle politiche di piano in ogni settore e la rincorsa, da parte di una classe di governo miope e ottusa, ad un profitto facile e immediato per lo più a vantaggio del privato. Quale rimedio vi contrappone – ancora e sempre – la pianificazione urbanistica come regola suprema di governo del territorio e la conservazione della natura come obiettivo primario di ogni società civile. Talune considerazioni paiono persino anticipare temi degli studiosi della postmodernità, Rifkin in particolare [18].

A seguire, un’analisi senza sconti dei parchi nazionali dell’epoca e della loro gestione, la denuncia della cementificazione delle coste ridotte, per chilometri e chilometri, a informi ‘città lineari’, del dilagare insensato dei porti turistici e degli impianti di risalita e infine, un tema a lui caro, il verde urbano, ridotto nelle nostre ‘città omicide’ a percentuali da prefisso telefonico. Evidenzia, ancora una volta in anticipo su tutti, i danni della ‘valorizzazione (termine che non gli piace) turistica’ in Costa Smeralda, del turismo elitario e di rapina che non regala che briciole all’economia locale e si trasforma in una forma di colonizzazione.

E non manca l’attenzione alle implicazioni economiche: è più vantaggioso risanare, conservare che costruire ex-novo, è più economico prevenire, studiare, che fronteggiare i danni del dissesto idrogeologico. Il recupero dei centri storici creerà nuovi posti di lavoro in quantità maggiore e più qualificati rispetto alla nuova edilizia.

Intanto si schiera a sostegno delle iniziative bolognesi di Sarti e Cervellati per il recupero dell’edilizia abitativa in centro storico [19], denuncia lo ‘scorticamento’ della sua Valtellina, l’assedio del cemento ai siti archeologici, in particolare Paestum; sua l’idea, assieme a Paolo Ravenna, dell’addizione verde di Ferrara che porterà al restauro delle mura cittadine.

Accusatore implacabile del carattere retrogrado e passatista della nostra archeologia della prima metà del ‘900: un coacervo di eruditi incapaci di ergersi a difensori dell’antico contro la montante speculazione e assertori di una concezione retriva e nazionalista della romanità di impronta spesso scopertamente fascista. Per questo lui, archeologo, si scaglia, fin dai primi interventi, contro i retori dell’archeologia e dell’antichità. Summa delle sue battaglie il volume monografico del 1979, Mussolini urbanista nel quale attraverso l’analisi minuziosa delle cronache e degli avvenimenti che ridisegnarono il volto della capitale nel ventennio littorio, Cederna ricostruisce, di fatto, il quadro culturale di un’epoca, e non solo dal punto di vista archeologico-urbanistico. Il risultato di quelle operazioni e i danni irrimarginabili procurati al tessuto urbano e agli stessi monumenti archeologici che si volevano esaltare, sono raccontati con autentico dolore, tanto che le descrizioni cederniane delle ‘povere reliquie disastrate’, dei monumenti come denti cariati’, ‘macerie e ossami calcinati’ sono ormai divenute proverbiali. Ma Cederna non dimentica che il risultato dell’ ‘abbellimento’ del centro storico fu anche e soprattutto il processo di espulsione e ghettizzazione degli abitanti delle classi popolari, condannati, con il trasferimento nelle fatiscenti borgate periferiche, alla marginalità urbana e sociale.

Il volume uscirà in un clima di rinnovata attenzione al patrimonio archeologico romano gravemente minacciato dall’inquinamento: sarà la miccia per accendere il dibattito sul riassetto dell’area archeologica centrale, che vedrà Cederna fra i protagonisti e fra i più accesi fautori della rimozione di via dei Fori Imperiali e dell’elaborazione del progetto Fori che lo vedrà impegnato, quale protagonista, accanto ad Argan prima e a Petroselli poi e a un drappello di urbanisti e intellettuali, nel sostegno del più innovativo progetto urbanistico che Roma abbia conosciuto nell’ultimo secolo, connesso topograficamente e ideologicamente alla creazione del Parco dell’Appia antica, battaglia che continua dopo il successo (temporaneo) del decreto Mancini di destinazione a parco di 2500 ettari di campagna dell’Appia (è il 1965). Nel “Progetto Fori”, al contrario di altri intellettuali, Cederna vede l’archeologia - quella stratigrafica, ‘progressista’, che, ereditando la lezione di Bianchi Bandinelli, prende piede in Italia a partire dai tardi anni sessanta e si raccoglie soprattutto attorno alla rivista “I Dialoghi di Archeologia” - come mezzo per perseguire una finalità urbanistica e come parte di un ragionamento sull’insieme dell’assetto urbano. Il progetto costituirà uno dei punti cardine della proposta di legge per Roma Capitale presentata da Cederna nel 1989 in veste di deputato della Sinistra indipendente: in esso ci si misurava non solo con una visione nuova di Roma, ma la forma urbis diviene l’immagine di una rinnovata ideologia del governo della città.

Più difficili gli anni di “la Repubblica” (dal 1982 al 1996 [20]), più complicati, frastagliati, i rapporti. Come lo stesso Cederna rileva ormai nell’amarissima introduzione a Brandelli d’Italia, l’ultima raccolta (è il 1991), l’attenzione della stampa quotidiana è ormai spasmodicamente tesa alla notizia intesa come evento, catastrofe, disastro. Al contrario Cederna disprezza il “culto maniacale della notizia”, il giornalismo per lui è sempre stato “battaglia costante, continua, tempestiva e preventiva” [21], non semplice registrazione e al più deplorazione di un tragico evento. La continuità della sua denuncia, lo slancio che vi immette avevano fatto dei suoi articoli delle vere e proprie campagne stampa. Negli anni del “Corriere”, in specie, Cederna riesce ad imporre un livello di attenzione per questi problemi impensabile per la stampa odierna, non solo quella quotidiana: nel 1972, in 12 giorni, trasmette 9 articoli sulla conferenza ecologica ONU a Stoccolma . Adesso, negli ultimi anni, lui, urbanista ad honorem, comincia a scontrarsi con il muro di opacità nei confronti dei problemi dell’urbanistica e si deve adeguare ad un sistema mediatico ormai incapace di proporre visioni e analisi complessive e dove è finito il giornalismo d’inchiesta e che si limita a richiamare solo gli eventi spettacolari e mediaticamente spendibili, relegando per lo più i temi urbanistici alle cronache locali.

Persino il linguaggio muta, l’ironia sarcastica che si esaltava nell’aggettivazione a volte feroce e nell’accumulo definitorio in crescendo, lascia il posto ad una amarezza dolente e senza sorriso, come si avverte nei commenti a corredo degli articoli riuniti in Brandelli d’Italia.

Nonostante questo, le sue battaglie conoscono ancora episodi di grande clamore e successi insperati, come quella contro la cementificazione della piana di Castello a Firenze[22]. Sostiene la legge Galasso, ritorna a più riprese a illustrare lo stato di degrado dei musei, in particolare la situazione del museo Torlonia e della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini. E’ fra i pochi oppositori delle costruzioni per il Mundial del 1990. E da ultimo, la vittoria, al termine di una appassionata, notturna perorazione di fronte al consiglio comunale capitolino, per lo spostamento del futuro Auditorium al Flaminio[23].

“Conosciamo i giornalisti, si stancano presto”[24]: così la previsione di un funzionario della Pubblica Istruzione, riportata da Cederna stesso, sulle polemiche da lui innescate a proposito del degrado della regina viarum su “Il Mondo” (è il 1953). Oltre 140 gli articoli che scriverà sull’Appia in quarant’anni di infinita battaglia[25]. Censita in ogni metro, ogni centimetro, come quando (L’Appia in polvere) Cederna compila, da perfetto archeologo, il puntiglioso catalogo dei frammenti archeologici abusivamente impiegati a decorazione del muro di cinta della villa di una nota attrice, al civico 223. Sull’Appia seppe mantenere alta l’attenzione fin dai primi anni Cinquanta, quando più arrembante era l’assalto della speculazione, fino alle prime, contrastate vittorie e all’istituzione del Parco Regionale (è il 1988)[26]. Ancora oggi si succedono sull’Appia episodi di degrado, mentre ancora intatte - anche in presenza di ordini di demolizione - permangono alcune delle costruzioni abusive contro cui egli si battè. Solo il 5% del Parco dell’Appia è di proprietà pubblica e continua lo stillicidio delle costruzioni abusive che ha tratto nuova lena dal condono del 2003. A questo le risibili risorse della Soprintendenza poco possono opporre. Però quando Cederna cominciò la sua battaglia, l’Appia era sentita come terreno privilegiato per l’urbanizzazione di alto livello, mentre ora, nella coscienza dei romani, è ormai vissuta come il Parco dell’Appia: patrimonio della città e dei suoi cittadini. E da qualche mese (luglio 2006) è stata inaugurata, nella villa di Capo di Bove lungo l’Appia, recentemente acquisita dallo Stato, la sede destinata ad ospitare la Fondazione Cederna.

‘Cederna non ha vinto. Non poteva vincere’. Così scrisse nel suo necrologio Nello Ajello [27] Certo nello scorrere di una contabilità spicciola tante sono state le sconfitte e, per loro natura, più rumorose delle vittorie e se la sensibilità della cultura nei confronti delle distruzioni dei singoli monumenti e dei beni culturali nel loro complesso è sicuramente aumentata, in altri campi le sue battaglie sono ancora apertissime.

Il prevalere della rendita fondiaria come motore privilegiato di produzione di ricchezza, è ancora un tarlo che mina nel profondo non solo la nostra economia, condannandola in un limbo di arretratezza, ma anche una più sana dinamica sociale e financo democratica. E molto Cederna si preoccuperebbe di questa liaison dangereuse che oggi collega i nostri beni culturali al turismo, in un abbraccio soffocante e in cui riaffiora, al di sotto della nuova patina garantista, la nefasta equazione “beni culturali come petrolio” di una indimenticata, ma non indimenticabile stagione politica e culturale che egli combattè aspramente [28].

Però la diffusione di una più matura consapevolezza culturale della fragilità del nostro patrimonio e del nostro territorio è da annoverare come uno dei risultati più importanti e duraturi della sua attività. Cederna in fondo rappresenta, ante litteram, uno dei migliori esponenti di quella società civile che egli stesso contribuisce a creare e che pur faticosamente si affaccia sulla scena politica e culturale italiana, società civile intesa come insieme di cittadini che credono che perché l’Italia possa divenire un paese moderno e progredito occorre che ciascuno dia il proprio contributo.

Anche grazie a lui, certi scempi non sono più possibili e molto Cederna si sarebbe rallegrato dell’abbattimento del Fuenti (tre asterischi nella sua guida rossa al contrario).

Si sarebbe compiaciuto del recentissimo piano paesaggistico della Sardegna che si propone, fra l’altro, una tutela integrale di quelle coste sulle quali Cederna, fra i primissimi, aveva fatto scattare l’allarme e intravisto tutti i possibili danni di una speculazione miope e senza ritorni per gli abitanti dell’isola.

Come pure avrebbe festeggiato per il recentissimo ampliamento e la riapertura in una sede finalmente consona, della Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini.

Per concludere, non casuale appare che di questo omaggio alla memoria di Cederna si sia fatto carico il nostro Istituto che pur vive una situazione non semplice di transizione, nella quale forse più acutamente diventano necessarie le figure di riferimento, quasi a conforto di un cammino che pare ancora non privo di difficoltà. Lo spirito di Cederna è in fondo molto vicino alle iniziative e attività che l’Istituto Beni Culturali (IBC), anche se con profilo più istituzionale, ha svolto in questi anni e Cederna stesso guardò sempre con molto apprezzamento alla nostra vicenda[29]. Molti di quelli che annoveriamo fra i nostri padri fondatori ne hanno condiviso l’amicizia e le battaglie, da Andrea Emiliani a Pierluigi Cervellati, da Giovanni Losavio a Lucio Gambi[30].

Al termine di questo percorso, ci pare adesso che il sottotitolo prescelto per il nostro volume – attualità e necessità di Antonio Cederna -sia da leggersi in realtà come un’endiadi: Cederna ci è necessario perché è tuttora attuale e la sua attualità risiede soprattutto nell’inalterata necessità di proseguire la sua battaglia di civiltà.

Sull’attualità di Cederna non tutti convengono: soprattutto in campo urbanistico la sua visione sembra attardata e poco moderna in tempi di concertazione propugnata in varie accezioni. Secondo questi parametri, Cederna, che rivendicò sempre sui temi del governo del territorio il primato del pubblico, è visto come un arcaico. Eppure il dibattito politico di questi ultimi mesi, almeno ad alto livello, ha riproposto il tema del ‘bene pubblico’, dell’ ‘interesse generale’ inteso come tutto quello che il singolo (individuo o gruppo) non può tutelare da solo, nei tempi lunghi e diviene quindi, per definizione, interesse e cura della res publica, delle sue leggi e delle sue istituzioni; Cederna, fra i primissimi in Italia, individuò nel territorio e nel patrimonio culturale uno di questi preziosissimi beni comuni: anche per questo Cederna il ‘visionario’, come fu definito tante volte con accentazione negativa, semplicemente ci ha anticipato. E’ tempo di raggiungerlo.

Riferimenti bibliografici e documentari

Testi

A. Cederna, I vandali in casa, Roma-Bari, Laterza, 1956, Seconda edizione, Laterza, 2006 (prefazione e postfazione di Francesco Erbani).

A.Cederna, Mirabilia Urbis, Torino, Einaudi, 1965.

A.Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975.

La Difesa del territorio. Testi per Italia Nostra di Antonio Cederna, Italo Insolera, Fulco Pratesi, Milano, Mondadori, 1976

A.Cederna, Mussolini Urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso, Roma-Bari, Laterza, 1979;seconda edizione Venezia, Corte del Fontego, 2006 (prefazione di Adriano La Regina, postfazione di Mauro Baioni).

A.Cederna, Brandelli d’Italia, Roma, Newton Compton, 1991.

G. Gallerani, C. Tovoli (a cura di), In nome del bel Paese. Scritti di Antonio Cederna sull’Emilia Romagna (1954-1991), Bologna, Quaderni IBC, 1998.

CD

Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna, a cura di Ministero per i beni e le Attività Culturali e Centro di Documentazione Antonio Cederna, 1999 (con dossier)

In rete:

Sul sito IBC: Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna. Scritti on-line a cura di Maria Pia Guermandi

Sul sito eddyburg: Antonio Cederna

Sul sito del Parco dell’Appia Antica: Antonio Cederna e la nascita del Parco

Meritorio, anche se non esaustivo e con qualche imprecisione, il censimento degli articoli di Cederna usciti sulle principali testate, pubblicato da Italia Nostra all’indomani della sua scomparsa:

Bollettino Italia Nostra n. 331, agosto 1996: Il Mondo

Bollettino Italia Nostra n. 332, settembre 1996: L’Espresso

Bollettino Italia Nostra n. 333, ottobre 1996: Il Corriere della Sera

Bollettino Italia Nostra n. 334, novembre 1996: la Repubblica

[1] Assieme a Leonardo Benevolo, i suoi interlocutori privilegiati, in questo ambito rimarranno, sopra tutti gli altri, Pierluigi Cervellati a partire dall’esperienza bolognese del risanamento conservativo nel centro storico e Vezio De Lucia, per il piano delle periferie napoletane e le varianti urbanistiche della prima consiliatura Bassolino.

[2] A. Cederna, Territorio, ambiente e dintorni, in Il “rovescio” della città. Catalogo della mostra, Bologna, 13 luglio -23 agosto 1987, Bologna, Labanti & Nanni,1987, p. 14.

[3] La collaborazione con “Il Mondo” terminerà nel 1966, quando la testata chiude; dal 1966 al 1969 Cederna scriverà anche per le riviste “Abitare” e “Casabella”.

[4] F.Erbani, Introduzione, in A. Cederna, I vandali in casa. Cinquant’anni dopo, II ed., Roma-Bari, Laterza, 2006.

[5] Cfr. soprattutto i due dossier a ciclostile, diffusi, nei primi anni Settanta, dalla sezione milanese di “Italia Nostra”, dal titolo, Città senza verde e Appunti per un’urbanistica moderna, pubblicati, nel 1975, nel volume miscellaneo La difesa del territorio, Milano, Mondadori.

[6]A. Cederna, Introduzione, in I vandali in casa, Roma-Bari, Laterza, 1956, p. 31.

[7]Ibidem, p.4.

[8] Si tratta della parafrasi di una citazione da Voltaire. Cfr. C.Cederna, Il mondo di Camilla, Milano, Feltrinelli, 1980, p.241.

[9] Cfr.A. Cederna, in Mirabilia Urbis, Torino, Einaudi, 1965, p. 219. La definizione, ripresa più volte, entrerà poi nell’uso comune.

[10] La cubatura dell’Hilton a Monte Mario contro la costruzione del quale Cederna si era inutilmente battuto, diviene metro di paragone per eccellenza per determinare l’impatto di costruzioni in genere, cfr., ad esempio, a tal proposito, la variante Fiat Fondiaria di Firenze il cui ingombro è misurato in “cinquanta alberghi Hilton di Roma”, v. A. Cederna, Editoriale, in “Bollettino di Italia Nostra”, n. 255, gennaio-febbraio 1988, p.4.

[11] Cfr., fra gli altri, A. Cederna, La difesa del territorio, cit., pp. 69 ss.

[12] Cederna sedette nel Consiglio Comunale capitolino una prima volta dal 1958 al 1961 e, successivamente, dal 1989 al 1993.

[13] Cfr., soprattutto, A. Cederna, Il sindaco nero, in Mirabilia Urbis, cit., pp. 84-95.

[14] Cederna scriverà per il “Corriere” dal 1967 ai primi mesi del 1982.

[15] Si tratta in particolare degli interventi usciti fra giugno e luglio del 1974 e riuniti nel capitolo Napoli città omicida, in Brandelli d’Italia, Roma, Newton Compton, 1991, pp.141-160.

[16] Cfr. A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975, pp. 7 ss.

[17] Cfr Ibidem, p. 11.

[18] Cfr. soprattutto J.Rifkin, The Age of Access, New York, Penguin Putnam Inc., 2000.

[19] Cfr. il capitolo La conservazione dei centri storici in Italia, in G.Gallerani, C. Tovoli (a cura di), In nome del Bel Paese, Quaderni “IBC”,Bologna, Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia Romagna, 1998, pp. 53 ss., che raccoglie gli articoli di Cederna usciti sul “Corriere della Sera” nel novembre 1972.

[20] Nel 1986 inizierà anche la collaborazione con “L’Espresso”, mentre carattere più saltuario ebbero i suoi interventi su “l’Unità”, risalenti, soprattutto, agli anni dell’attività parlamentare in veste di deputato della Sinistra Indipendente: 1987 -1992.

[21] Cfr. A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, cit., p.XV; A. Cederna, Notizia, maledetta notizia, in “Oasis”, 1993 e l’Editoriale, in “Bollettino di Italia Nostra”, 325, dicembre 1995.

[22] Si tratta dell’opposizione contro la variante urbanistica della Fiat Fondiaria presso Firenze, sostenuta in particolar modo da “Italia Nostra” e sulla quale cfr. l’Editoriale di Cederna in “Bollettino di Italia Nostra”, 255, gennaio-febbraio 1988, interamente dedicato alla vicenda.

[23] Cfr. A. Cederna, Coscienza urbanistica, in “il manifesto”, 9 giugno 1991.

[24] Cfr. A.Cederna, La valle di Giosafat, in “Il Mondo”, 2 novembre 1954.

[25] Sull’Appia cfr. in rete, la sezione a lui dedicata nel sito del Parco dell’Appia Antica.

[26] Nel 1993 Cederna fu nominato Presidente dell’Azienda Consortile per il Parco dell’Appia antica e si adoperò in ogni modo perché il progetto del parco decollasse, a volte con contrasti anche aspri con l’amministrazione Rutelli.

[27] N.Ajello, L’uomo che voleva sconfiggere il cemento, in “la Repubblica”, 28 agosto 1996.

[28] Sul tema cfr. M.P.Guermandi, Turisti, eventi, metropolitane e beni culturali: o delle relazioni pericolose, in “IBC”, XIV, 4, 2006, pp. 38-40.

[29] Cfr. soprattutto A. Cederna, Un “fondo europeo per i monumenti” forse potrà salvare i centri storici, in “la Repubblica, 22 ottobre 1983 e A. Cederna, l’Italia che finisce, in “la Repubblica”, 2 ottobre 1984.

[30] Ad un’idea di Lucio Gambi, primo presidente dell’IBC recentemente scomparso, si deve il volume che raccoglie gli scritti di Cederna sull’Emilia Romagna, nel 1998: G. Gallerani, C. Tovoli (a cura di), In nome del bel Paese, cit.

Intervengo sul progetto Fori. Dico sempre le stesse cose. Almeno da questo punto di vista, non ci sono dubbi che sono un allievo esemplare di Antonio Cederna. Il quale – come sanno tutti coloro che lo hanno frequentato – continuava a ripetere che non solo non bisogna vergognarsi di ripetere gli argomenti di cui si è convinti, ma anzi si ha l’obbligo morale di farlo, fino a convincere tutti della loro bontà.

Solo due parole per ricordare ai più giovani – stasera non sono pochi – che cos’è il progetto Fori. All’inizio degli anni Trenta Benito Mussolini, per consentire che da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo, e per formare uno scenario grandiosamente falsificato per la sfilata delle truppe (cerimonia che l’Italia repubblicana ha impunemente ripreso), aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma, che si trovava dove oggi la via dei Fori corre in trincea (e dove sono esposte le mappe in marmo delle fasi di espansione dell’impero romano). A seguito dello sventramento, migliaia di sventurati cittadini furono deportati in lontanissime borgate, dando inizio alla tragedia della periferia di Roma.

Cinquant’anni dopo, alla fine degli anni Settanta, il soprintendente archeologico Adriano La Regina, per sottrarre le rovine romane ai danni dell’inquinamento e del traffico, propose di eliminare la via dei Fori Imperiali, ripristinando la continuità del tessuto archeologico sottostante, suturando la lacerazione prodotta dallo sventramento degli anni Trenta. La proposta del soprintendente fu fatta propria da Luigi Petroselli, che per solo due anni (dal 1979 al 1981) fu insuperato sindaco di Roma. Egli mise mano fattivamente all’attuazione del progetto ordinando la demolizione della via del Foro Romano (che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro repubblicano), unendo poi il Colosseo (sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico) all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò così la continuità dell’area archeologica liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. Il progetto Fori divenne il capitolo più importante della strategia politica di Petroselli per l’unificazione sociale e culturale della città. Il sindaco voleva che non solo gli studiosi, ma tutto il popolo di Roma, anche quello delle più remote periferie, fosse coinvolto nel rispetto e nell’amore per il patrimonio storico della capitale.

Terzo grande protagonista del progetto Fori fu Antonio Cederna. Non fu solo il geniale propagandista dell’operazione, ma contribuì alla sua definizione da vero e proprio urbanista (qualità riconosciuta da più di un autore del libro curato da Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala). Secondo Cederna, il progetto Fori doveva diventare il vertice intra moenia del grande parco dell’Appia Antica, dal Campidoglio ai Castelli Romani. Ma anche l’asse intorno al quale costruire una nuova immagine della città, attraverso l’allontanamento dal centro storico dei ministeri (da trasferire nel cosiddetto Sdo – Sistema direzionale orientale), proponendo, tra l’altro, un radicale potenziamento del trasporto su ferro. Il futuro di Roma disegnato da Cederna è oggetto della sua proposta di legge per Roma capitale. La relazione che illustra la proposta è una delle più belle pagine dell’urbanistica contemporanea e dovrebbe essere materia di insegnamento accademico.

All’inizio degli anni Ottanta, il progetto Fori raccolse in tutto il mondo vasti e qualificati consensi. Ma favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa alla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici. Fu forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea. Ma durò poco. Il 7 ottobre del 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli. Antonio Cederna scrisse su Rinascita dello scandalo Petroselli, lo scandalo di un sindaca comunista che aveva capito l’importanza della storia nel futuro di Roma e non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.

Con la morte di Petroselli cominciò a morire anche il progetto Fori, gradualmente accantonato, messo in crisi da successive manifestazioni di prudenza, di opportunismo, di viltà. In verità, per venti anni del progetto Fori si è continuato a parlare – e ancora se ne parla – sono andati avanti, stentatamente, gli scavi ai lati della via ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali, continuamente rinviando però la promessa chiusura definitiva della strada alle automobili (l’ultimo alibi dovrebbe cadere con la realizzazione della linea C della metropolitana).

Ma nel 2001, a venti anni dalla morte di Petroselli, è stata posta la pietra tombale sul progetto Fori con un decreto di vincolo monumentale che congela lo stato di fatto e rende addirittura illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano. E così, l’idea di Antonio Cederna, come ha scritto Francesco Erbani presentando la nuova edizione di I vandali in casa, “è sparita dall’orizzonte della città”. L’immagine ufficiale di Roma moderna resta quella definita negli anni Trenta, quella di Benito Mussolini. Sta scritto in un decreto della Repubblica italiana. È una tristissima operazione di revisionismo, di ammiccamento alla destra neofascista, che non ha suscitato proteste né indignazioni, che io sappia, a eccezione di Leonardo Benevolo.

Ed eccomi a un’indispensabile riflessione conclusiva. È ovviamente fuori discussione che si possa cambiare idea e che l’amministrazione capitolina e quella dei Beni culturali (anche se governate dal centro sinistra) possano confermare l’impianto urbano degli anni Trenta, quello voluto da Benito Mussolini. Nessuno può pretendere il rispetto di un progetto alternativo (quello di Adriano La Regina, Luigi Petroselli, Antonio Cederna, Italo Insolera) se non è più condiviso. Non di questo si discute. Ma non si può non discutere del modo in cui è avvenuto il ribaltamento del fronte, senza aver mai formalmente dichiarato che il progetto Fori era stato archiviato. Si continua invece a evocarlo abusivamente, e ad abbinarlo al nome di Antonio Cederna. Solo che, con la medesima denominazione, si indicano oggi soluzioni ben diverse da quella che sosteneva Cederna. Il quale, della via dei Fori voleva cancellare la memoria (“operazione antistorica, antiurbanistica, antisociale, antiarcheologica per eccellenza”).

Per non cedere alla costernazione, ricordo infine che, nel dicembre 2006, è stata insediata un’autorevolissima commissione mista Stato – SPQR incaricata di procedere a “un ridisegno urbano” dell’area archeologica centrale “che si configuri come una nuova ricerca progettuale”. Dum spiro spero.

L'intervento, nel quale l’attuale Presidente di Italia Nostra rivendica, con grande determinazione e lucida analisi, la necessità di proseguire la battaglia contro le distorsioni “storicistiche “ di ieri e di oggi, è stato tenuto in occasione del convegno: “Politiche culturali e tutela: dieci anni dopo Antonio Cederna”. Sull'iniziativa, che si è svolta a Roma, nella sede del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, il 6 giugno 2007, occasione di ricordo di Antonio Cederna, ma anche di discussione sugli attuali problemi della difesa del patrimonio culturale e paesaggistico e sulla situazione dell'urbanistica italiana ed in particolare romana, v. su eddyburg (m.p.g.)

E’ certamente presente alla intelligenza di chi ha progettato e curato questo originalissimo libro la consapevolezza che anche la più appassionata e insieme lucida commemorazione può nascondere qualche insidia. Nel momento in cui si rivendica la persistente attualità e fecondità del patrimonio ideale che resta documentato nella pagina scritta (oggi riletta con i più raffinati strumenti di analisi testuale) può accadere di non resistere alla tentazione di storicizzare anche talune delle fondamentali proposizioni della riflessione di Cederna. E farle figlie della suggestione di quei tempi duri (ci si misurava allora con la folle proposta di sventramento nel cuore di Roma per un rettifilo da via Margutta a piazza Augusto Imperatore). Se dunque la fermezza e il rigore di certi principi erano imposti dalla necessità di fermare la violenza distruttiva minacciata negli anni cinquanta del novecento alla integrità delle nostre città storiche, anche il diktat della Carta di Gubbio (figlia diretta della riflessione di Cederna) con la sua assolutezza non sarebbe più lo strumento adeguato ad affrontare le forme nuove che l’aggressione alla città e al territorio storici è venuta assumendo nei dieci lustri da quel tempo. Insomma storicizzare Cederna per liberarlo dalle occasioni di allora, meglio comprenderlo e renderlo perciò maestro anche dell’oggi. E anzi c’è chi si è sforzato di cogliere nello sviluppo della sua stessa riflessione i segni di un progressivo adeguamento al nuovo. (Anche il sindaco Veltroni ha storicizzato Cederna e in una recente manifestazione commemorativa in Campidoglio ha detto compatibile con la sua memoria lo sventramento del Pincio per farne il sottile involucro di una autorimessa multipiano).

Ma se è certamente vero che il prontuario dettato dalla Carta di Gubbio è di per sé insufficiente ad assicurare una efficace tutela di quella realtà composita e assai complessa che era, è ancora, vogliamo che sia, il centro storico, perché, si dice, anche del risanamento conservativo si è impossessata la speculazione edilizia e alla preservazione del tessuto edile fisico può non corrispondere quella altrettanto e forse più decisiva del tessuto sociale, è all’urbanistica allora e alla politica della città che spetta di apprestare i più adeguati strumenti di intervento perché i principi cui la Carta si ispira non ne risultino travolti. La fermezza di quei principi Cederna non vide ragione di attenuare e anzi li riaffermò con la consueta acribia in uno dei suoi ultimissimi scritti, quello letto a Napoli nel dicembre del 1995 al convegno di Italia Nostra sui centri storici. Volle riprendere alla lettera il pronunciamento di una ventina di giovani (allora, 1957) architetti pubblicato nel primo numero del bollettino di Italia Nostra. Il pronunciamento era stato provocato da una proposizione di Roberto Pane ancora fondata su una attitudine selettiva dei tessuti antichi e su una concezione tutta esteriore dei centri storici, la cui tutela poteva essere affidata alla mera conservazione del rapporto volumetrico, con divieto di superare, in caso di ricostruzione, cubature e altezze degli edifici preesistenti. Il pronunciamento dunque “enunciava alcune inoppugnabili verità:

I. L’epoca attuale per la prima volta nella storia ci pone in grado di accostarci con eguale capacità di comprensione alle opere e agli ambienti di tutte le epoche passate: e questo ha fatto sorgere l’esigenza tutta moderna della loro conservazione integrale.

II. Di qui l’obbligo tassativo della rinuncia a introdurre nuovi edifici nei centri storici, limitando gli interventi al risanamento conservativo, al restauro, alla dotazione dei servizi essenziali.

III. Non è questione di progetti più o meno belli: uno dei presupposti della modernità è quello di sapersi adeguare alle scelte urbanistiche e quindi di rinunciare, ove occorra, a costruire.

IV. Il vero problema non è architettonico, ma urbanistico: il piano regolatore deve assicurare ai centri storici destinazioni compatibili con il loro tessuto antico, sistemando altrove le strutture moderne che hanno esigenze. scala e funzioni del tutto diverse”.

E’ una sintetica parafrasi, si riconoscerà, degli articoli che Cederna andava scrivendo sul Mondo dai primi anni cinquanta del novecento e in particolare di quello del febbraio 1954 (che avrei visto con piacere scelto da uno degli autori di questo nostro libro) dove indicava le ragioni di cultura della tutela che si opponevano alla operazione Wright in Canal Grande (la “laguna organica” ironizzava in un occhiello sul titolo) e che valgono, tali e quali ancor oggi, per resistere alla forza intimidatrice delle archistars internazionali.

Questi sono i principi, disse, che “considero indiscutibili, immutabili, perenni da qui all’eternità. Da riaffermare con forza, da diffondere, da acquisire in questo paese in cui nulla è dato per acquisito e dove anche le cose ovvie che dovrebbero essere patrimonio comune vengono rimesse in discussione. E da riaffermare con forza oggi che tante cose vanno cambiando nelle nostre città e nuove minacce si addensano sui centri storici”. Forse è dir troppo, francamente, “immutabili indiscutibili perenni” e converrà – fuor dalla consueta iperbole cederniana- relativizzare l’affermazione; ma certo diremo principi fermissimi fino a persuasivi argomenti che abbiano dignità concettuale e l’efficacia di contrastarli e ancora non abbiamo udito, perché continuano a venir opposti, e pure da chi altrimenti benemerita della cultura, quelli vecchi di allora, dell’antistorico storicismo per intenderci, come li irrideva Cederna, e cioè che non si può fermare la storia, che sempre si è fatto così, che il linguaggio autentico dell’architettura di oggi deve potersi esprimere pure nei contesti antichi e dunque è solo questione di controllo della qualità, garantita, se il caso lo richiede, da autorevoli giurie internazionali. In ogni caso sono lì pronti a intervenire pure una apposita direzione generale e un comitato tecnico scientifico per la qualità architettonica e urbana e per l’arte contemporanea, costituiti, forse proprio a questo scopo, presso il ministero per i beni e le attività culturali. E appunto un concorso internazionale, promosso e gestito dalle stesse istituzioni della tutela, ha prescelto Arata Isozaki per la inutile pensilina a proteggere l’uscita dagli Uffizi (moderna loggia dei Lanzi, secondo l’assicurazione del progettista) voluta per arricchire il disadorno posteriore prospetto sulla piazza Castellani della fabbrica del Vasari. Insomma all’antistoricostoricismo si è adeguata l’amministrazione della tutela, approvando pure lo scatolone dell’Ara Pacis che completa il quadrilatero littorio della piazza Augusto Imperatore e schiaccia le chiese di San Rocco (facciata del Valadier) e di San Girolamo degli Illirici (facciata tardocinquecentesca rinfrescata dai getti della fontana sul sagrato). E approvando la nuova Scala Botta-Piermarini con la vertiginosa moltiplicazione dei volumi, che neppure rispetta non solo il piano regolatore milanese (capovolto il principio cederniano della subordinazione dell’architettura all’urbanistica), ma pure la regola aurea che Pane aveva suggerito per l’architettura minore.

A contrastare la cultura ufficiale e ormai pervasiva dell’antistorico storicismo ci manca la lucida contestazione di Cederna che aveva, con ragioni rimaste inconfutate, negato anche al sommo Wright il diritto sul Canalgrande. E si era rifiutato di discutere il suo progetto (certamente di qualità), perché opponeva ragioni di principio e di metodo che neppure la più alta qualità formale dell’architettura può valere a superare. Sono i principi nei quali Cederna aveva espressamente indicato, nel suo intervento di Napoli del 1995, “le radici di Italia Nostra”. Pure con il rischio (accettato) dell’isolamento Italia Nostra rimane fedele a quei principi.

Si svolgerà domani nella sala Piero da Cortona dei Musei Capitolini, il «Convegno sulla legge per Roma Capitale», organizzato da Italia Nostra in occasione del decennale della scomparsa di Antonio Cederna. Un legge della quale l'ambientalista fu promotore e primo firmatario. L'obiettivo è quello di esaltare «il valore assoluto della tutela e valorizzazione del patrimonio archeologico di

Roma». Ad aprire i lavori sarà il sindaco Walter Veltroni, fra i relatori il presidente del parco dell'appia Adriano La Regina e l'urbanista Italo Insolera. Pubblichiamo una sintesi del saluto dell'assessore all'urbanistica Roberto Morassut.

La grande preoccupazione di Antonio Cederna era che l'Italia «finisse», ossia fosse consumata dalla speculazione, sino, un giorno, a veder «scomparire» i propri beni culturali e ambientali. Denunciò questo rischio in un articolo del 1983, in cui rammentava anche le cifre di questa lenta dissipazione. In un trentennio, diceva, abbiamo distratto più di un milione di ettari di suolo.

Prevedeva, di conseguenza, che nel giro di uno/due secoli, a quel ritmo, la consumazione sarebbe stata totale o quasi, e un'immensa «crosta edilizia» (così si esprimeva) avrebbe coperto il Bel Paese per sempre. La «lezione» di Antonio Cederna è oggi consegnata anche al nuovo Piano Regolatore di Roma. In particolare, dove si frena l'espansione indiscriminata e il consumo senza regole del suolo dell'agro. E, soprattutto, dove si avvia con decisione la riqualificazione della città storica e, parallelamente, del tessuto periferico. Penso alla riqualificazione e al moderno recupero di grandi complessi edilizi storici come i Mercati Generali e il Mattatoio: nuove Città dei giovani, del tempo libero, della cultura. Penso anche alla sottoscrizione del protocollo che rilancia la struttura del S. Maria della Pietà per assegnarle nuove funzioni: cultura, sanità, servizi, residenze per i giovani che studiano o che viaggiano. Esemplare anche il «caso» di viale Giustiniano Imperatore, dove la «conservazione» (e, dunque, la qualità urbana) passa anche attraverso la demolizione dei vecchi edifici e la loro ricostruzione a più alti livelli di standard architettonico. Riguardo agli aspetti legati alla sostenibilità ambientale, oggi Roma dispone di un'open area ineguagliata, grande cinque volte Milano: 88.000 ettari, la metà di essa costituita da parchi. I fondi per Roma Capitale, da parte loro, hanno contribuito a curvare lo sviluppo della città, orientandolo alla «conservazione», come direbbe Cederna, (noi diremmo anche: alla salvaguardia e allo sviluppo) dei beni culturali e del tesoro che essi rappresentano, e non alla loro consumazione o «mercificazione». Cito esemplarmente il progetto per la realizzazione del parco archeologico di Gabi, sulla via Prenestina, nella periferia sud-est. Anche la rete museale di Roma si è potenziata e si sono moltiplicate le occasioni di cultura e di alta formazione. È di questi giorni la notizia che, negli immediati dintorni del colle capitolino, sorgerà un nuovo polo museale di oltre 61.000 metri quadrati, all'interno degli edifici pubblici liberati dagli uffici, che si trasferiranno nell'area di Ostiense nell'ambito di «Campidoglio 2». In uno scritto su «Micromega» del 1990, Cederna spiegava quale fosse, a suo avviso, il compito degli amministratori e degli urbanisti: mettere fine alla crescita quantitativa e puntare sulla riqualificazione - trasformazione della città, sul recupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancor urbanizzato. Una lezione che Antonio Cederna, intellettuale che ha dedicato la propria vita a migliorare la vita degli altri, ci consegna e della quale continuare a fare tesoro nel governo delle nostre città.

L'autore è Assessore all'Urbanistica del Comune di Roma

Postilla

Il testo dell'assessore Morassut ci sembra esemplare di quel fenomeno di “appropriazione indebita” del pensiero di Antonio Cederna che, soprattutto in questo anno di commemorazioni, si è riaffacciato spesso a garantire con una patente di credibilità culturale progetti e metodi urbanistici di tutt'altra radice e sostanza. Su eddyburg sono stati segnalati altri casi analoghi, e basta ripercorrere gli scritti di Cederna, nella sezione a lui dedicata, confrontandoli con gli assunti degli odierni epigoni perchè la distanza che li separa, risulti palese.

Quanto all'articolo sopra riportato, senza entrare nel dettaglio dei contenuti urbanistici e della loro affettuosa distorsione (chi ne scrive è uno dei principali responsabili, al quale quindi va concessa, comunque, la scusante dell'“ogni scarraffone..."), ci limitiamo a segnalarne le aporie logiche (conservazione attraverso la demolizione!) e le approssimazioni linguistiche (“open” area, consumazione) - indubitabili sintomi di aporie e approssimazioni culturali - sulle quali Cederna non avrebbe mancato di esercitare la sua ironia.

Lo scritto era destinato a chiudere il convegno capitolino dedicato al progetto di legge per Roma Capitale elaborato da Cederna e da un gruppo di urbanisti e intellettuali e da lui presentato nel 1989, durante la sua attività di parlamentare: non una sola riga rimanda a quel progetto e non poteva essere altrimenti; nell'odierno Piano Regolatore di Roma esso è scomparso e insieme a lui la visione di Cederna del centro storico della capitale.(m.p.g.)

Nel suo Pensiero meridiano, Franco Cassano scrive: «Ci si è modernizzati rendendo tutto vendibile e rendendo sistematico l'osceno, prostituendo il territorio e l'ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni». Si pensa che questa vendita all'incanto sia il prezzo da pagare per l'ingresso nel flusso della ricchezza mondiale. Esperti di marketing, piazzisti del commercio della città girano nel mondo con foto di strade, paesaggi e territori in offerta speciale, in analogia con l'organizzazione della prostituzione ed il catalogo di corpi esibiti. Di fronte ad un'economia che ha ripudiato i legami sociali (se mai li ha avuti), abbacinati dalla cosiddetta modernità, si è abbracciato il mito della competizione tra città, che offrono il possibile e l'impossibile per la transnazionale o l'immobiliare di turno, tendendo in tal modo a rapportarsi fra loro come imprese private in concorrenza. Ma l'innescare una competitività fra aree urbane ha determinato che l'istituzione locale sia cooptata nell'intensificazione dello sfruttamento del territorio. Così l'ente locale, mentre diventa sempre più liberista sul terreno sociale, è fervente interventista sul piano dell 'economia e dei mercati, anche attraverso nuovi piani regolatori o piani strutturali, vere e proprie «offerte» al mercato di aree edificabili. Di fronte all'assalto cementizio che procede senza sosta, il soggetto è confinato in zona periferica rispetto alla rendita e alle immobiliari con una profonda ferita alla democrazia perché si nega l'eguale condivisione dei poteri fra tutti i membri di una comunità. La capacità di escludere gli altri era una volta il privilegio di quelli veramente ricchi. Poi la nostra sola libertà è diventata la rincorsa di quel modello che «ha prodotto la strage degli incontri e delle solidarietà collettive, la trasformazione del pubblico in un'entità residuale». Non abbiamo certo raggiunto coloro che hanno sempre più potere escludente ma si è «imparato a pensare come loro, perdendo anche l'orgoglio di non essere come loro» (Cassano). Questa corruzione / deculturazione alimenta la distruzione del paesaggio, del territorio, delle città: in tal modo si distrugge la storia non solo con negazionismi e neo-revisionismi, ma anche devastando il territorio, le città che sono carne e memoria. Le scelte in materia di governo del territorio fanno capire con quali settori della società l'ente locale preferisce dialogare (Erbani): tutto questo ha un rilievo non solo nel disegno futuro di una città, ma anche nel tipo di democrazia che circola nelle nostre strade. Antonio Cederna insisteva sull'urbanistica come tutore degli interessi collettivi, sostenendo che il suo compito è di impedire che il vantaggio di pochi si trasformi in danno di molti. Queste parole cinquant'anni dopo, recuperano senso se messe in relazione con l'assalto cementizio. Di fronte a questo, nel chiedersi se è possibile che le istituzioni s'impegnino a contrastare la rendita invece che auspicare un suo tariffario, la Libera Università «Ipazia», il Giardino dei Ciliegi, i Comitati dei cittadini e Italia Nostra hanno organizzato a Firenze per questo martedì 6 febbraio, presso il Giardino dei Ciliegi in via dell'Agnolo 5 (ore 21) la presentazione della nuova edizione del libro di Cederna I vandali in casa, a cura di Francesco Erbani.

Ipazia (nell'immagine è ritratta da Raffaello Sanzio nella Scuola di Atene) fu filosofa, astronoma e matematica ad Alessandria d'Egitto (370-415). Uccisa da monaci cristiani in seguito all'editto di Teodosio contro il paganesimo.

Il pensiero corre spesso ad Antonio Cederna quando le cronache registrano che a Monticchiello una società immobiliare costruisce una novantina di appartamenti ai piedi del borgo medievale o quando a Mantova si propone di edificare su trenta ettari di fronte alla sagoma rinascimentale della città. Corre a lui, archeologo di formazione, giornalista sulle pagine del Mondo, del Corriere della Sera, dell´Espresso e di Repubblica.

Corre a lui, urbanista onorario, perché fin dagli anni Cinquanta, quando raccoglie i suoi articoli in I vandali in casa, prova a rispondere al quesito sul perché in Italia si costruisca tanto e male e perché lo si faccia dove e come fa comodo a qualcuno e non dove e come serva.

Cederna, di cui è da poco ricorso il decennale della morte, è stato spesso rinchiuso in una definizione "conservazionista", come se la sua attitudine esclusiva fosse quella di tutelare l´antico e la storia a qualunque costo. In un paese come l´Italia un atteggiamento del genere ha una dignità che difficilmente può essere discussa. E infatti Cederna è stato questo, ma non è stato solo questo. La conservazione dell´antico è una conquista della modernità, scrive, e soltanto conservando l´antico si può costruire una città che funzioni e una città bella. Le due questioni gli appaiono indissolubilmente intrecciate. La logica che gli sembra domini negli anni Cinquanta è un´altra: si distrugge un centro storico perché la città si sviluppi seguendo una direttrice tutta privata e tutta speculativa.

Il meccanismo che ai suoi occhi regola questa disfunzione è di diversa natura. Culturale, intanto: l´Italia è un paese in cui la consapevolezza della qualità del proprio patrimonio non è adeguata all´entità e alle valenze di esso. Economica, in secondo luogo: in Italia la rendita pesa moltissimo, e la rendita fondiaria e immobiliare, in particolare, assorbono tante risorse che altrimenti sarebbero destinate a un più corretto sviluppo (non è difficile leggere le denunce di Cederna sul Mondo contro la Società Generale Immobiliare, che a Roma possiede milioni di metri quadrati, incrociandole con gli interventi che sullo stesso settimanale pubblica Ernesto Rossi contro i monopoli). Politica, infine: una buona parte della politica negli anni Cinquanta non intende né progettare né regolare l´assetto di un territorio, è come inibita dalla forza che esprimono il mondo dell´edilizia e della rendita e si adegua ai suoi desideri, convinta che nel possesso di un suolo sia in qualche modo iscritta la possibilità di una sua trasformazione in senso cementizio e che questa possibilità vada al massimo contrattata, mitigata, ma non condizionata dalla tutela di interessi generali.

Negli anni Cinquanta, scrive Cederna, si costruisce dove e come si vuole purché lo esiga chi possiede un suolo. Non si costruisce perché c´è bisogno, o almeno non solo per questo, ma perché c´è qualcuno che ha la forza di imporlo (una quota consistente di senzacasa continuerà a restare in questa condizione, perché le case che si costruiscono sono in gran parte al di fuori della loro portata e l´edilizia pubblica in Italia resterà sempre marginale). Si spiega così l´andamento prima parallelo e simmetrico e poi sempre più squinternato fra la crescita demografica e la crescita delle abitazioni. Nel 1931, 41 milioni di persone abitavano e lavoravano in 31 milioni di stanze. E si stava indubbiamente strettissimi. Vent´anni dopo, nel 1951, quando Cederna comincia a scrivere sul Mondo, gli italiani sono diventati 47 milioni e le stanze sono arrivate a 37 milioni. E si stava ancora stretti. Ma nel 2001 gli italiani sono cresciuti di appena 10 milioni e sono arrivati a essere 57 milioni: le stanze, però, sono quasi triplicate e sono schizzate a 121 milioni. Venendo a dati più prossimi, nel 1991 c´erano in Italia 23 milioni di ettari di superficie agricola. Nel 2001 questa porzione di territorio si è ridotta a poco più di 19 milioni 700 mila ettari. Tre milioni in meno, un´estensione pari al Piemonte e alla Liguria messi insieme.

Questo incessante procedere del cemento, che ha le dimensioni di uno spreco, a giudizio di molti osservatori rappresenta un´anomalia italiana rispetto al resto d´Europa, dove ai fenomeni di consumo di suolo si tenta da tempo di porre un qualche rimedio. A Londra, per esempio, invertendo la deregulation thatcheriana, sono stati rinnovati i fasti della pianificazione urbanistica: per ospitare i settecentomila abitanti che si prevede arriveranno entro il 2016 non verrà edificato neanche un centimetro quadrato della green belt, la cintura verde che avvolge la città. In Italia, invece, il settore delle nuove costruzioni galoppa: nel primo semestre del 2006 c´è stato un incremento del 3,2 per cento rispetto all´anno precedente. Si calcola che ci sia una produzione di 800 kg di cemento ogni abitante, contro i 350 della Germania. Le cave si espandono e le cronache raccontano di quanto siano vulnerabili territori fino ad alcuni anni fa molto tutelati, come la Toscana, l´Emilia Romagna o l´Umbria. Sotto il peso del cemento cadono territori di pregio, per i quali la tutela paesistica viene esercitata sempre più debolmente, a causa dello smantellameneto delle Soprintendenze e delle norme che limitano i loro poteri di intervento.

I nodi culturali, politici ed economici che rendono possibile questo fenomeno sono modificati e si sono aggrovigliati nel corso dei decenni. Ma nella loro natura essenziale li troviamo descritti negli articoli che Cederna raccolse in I vandali in casa, un libro che sembra suoni il controcanto della storia italiana di questi cinquant´anni e che viene presentato oggi alle 17 da Vezio De Lucia, Antonio di Gennaro e Giuseppe Galasso nella sede dell´Istituto italiano per gli studi filosofici in via Monte di Dio, 15; e domani a Caserta sempre alle 17 nella sala consiliare della Provincia in corso Trieste 133.

A dieci anni dalla morte c’è un ritorno di attenzione verso Antonio Cederna, come dimostra anche la riedizione de «I vandali in casa» curata da Francesco Erbani. Ci è mancato, il contributo di Cederna. Il movimento che si batte per la tutela delle coste, i sardi, gli devono molto: senza le sue denunce chissà quanti altri scempi si vedrebbero in giro per la Sardegna. La sua assenza ha pesato nel confronto di questo decennio di cui sarebbe stato informatissimo, per la propensione ad affezionarsi ai luoghi che visitava.

Qualcuno ha notato un aspetto rimasto in ombra: che un intellettuale nato al Nord e trasferito a Roma si fosse innamorato della «città più bella e più complessa del mondo», preoccupato dei pericoli che correva fino al punto di dedicare ad essa la gran parte dei suoi studi e delle sue attenzioni di archeologo-urbanista. La sua generosa disponibilità a muoversi continuamente, lo portava a riflettere con puntuale attenzione, e con molta rabbia, sulla progressiva distruzione del paesaggio del Bel Paese (di cui rischia di restare solo l’etichetta di un formaggio, aveva detto in uno dei tanti dibattiti); un’attenzione che ha sempre sottinteso il senso unitario del paesaggio italiano e avvertito il rischio di una irreversibile perdita di scenari differenti ma collegati da vicende storiche comuni.

Per tanti anni ha scritto sul Mondo di Pannunzio, poi sull’Espresso e sul Corriere della Sera, quindi su La Repubblica articoli di fuoco contro gli scempi di località più o meno note delle diverse regioni italiane. Le sue denunce sono arrivate, provvidenziali (o sgradite), ad interessare moltissimi casi variamente ubicati. Contro gli sventramenti di Roma e le speculazioni sull’Appia antica, per la tutela dei centri storici, per l’istituzione di vincoli su aree a rischio ecc. Una linea coerente di interventi che ha contribuito a far crescere una più estesa ed articolata nozione di bene culturale.

Ha iniziato a occuparsi della Sardegna tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Quando era sulla cresta dell’onda l’iniziativa dell’Aga Khan in Gallura. E quasi tutti applaudivano senza riserve e passava inosservato il fatto che il Programma di fabbricazione di Arzachena - una previsione spropositata in riva al mare di 370.000 vani - era redatto dal progettista di fiducia del principe, inaugurando la sciagurata teoria della coincidenza degli interessi dell’azienda Costa Smeralda con quelli pubblici.

Cederna, irritato dalla «speculazione d’assalto» alle coste sarde, prefigurava con la metafora della città lineare l’esito che in parte si realizzerà. «E’ un’impresa - scriveva - che abbiamo definito di speculazione e di colonizzazione perché si è avvalsa della depressione economica della zona [...] Un’impresa che si è giovata in parte della compiacenza pubblica e che oggi [...] ad altro non mira che alla massima, diffusa edificabilità per ottenere il massimo profitto nel mercato dei terreni. Una impresa destinata a provocare difficoltà e distorsioni economiche senza scampo».

Tra il 1970 e il 1972 scrive diversi articoli sui lavori in corso nelle coste sarde sul Corriere diretto da Giovanni Spadolini (che più tardi, nel 1975, costituiranno la struttura di un capitolo del libro «La distruzione della natura in Italia» intitolato «I nuovi saraceni in Sardegna»). La sua denuncia arriva inattesa a guastare il clima di consenso unitario sulle iniziative di Karim e apre qualche breccia nel silenzio sulle prospettive di sviluppo di questa impresa. Soprattutto provoca nel 1970 il famoso incontro a Cagliari tra rappresentanti di ministeri, della Casmez e delle Soprintendenze che esprimono contrarietà alla proposta chiedendone il ridimensionamento. Un atto che segna la prima la prima minaccia sdegnata del principe di lasciare l’isola.

Due articoli pubblicati nel luglio del ‘70 scatenano la reazione del giovane Aga Khan che cita una prima volta il quotidiano milanese per danni provocati alla immagine dell’ azienda, per proseguire con altre querele per articoli e interviste successive contro Cederna, Giorgio Bassani all’epoca presidente di Italia Nostra e Giorgio Bocca. Lo stesso Cederna si lamenta a posteriori della «gazzarra dei giornali sardi» che da una parte raccontano di una congiura dei milanesi a danno dell’isola, dall’altra insinuano un inesistente interesse dei Crespi, proprietari del Corriere, a spostare il baricentro degli investimenti a sud della regione.

Nonostante lo sdegno di altri commentatori (su alcuni quotidiani italiani e anche su Le Nouvel Observateur) l’assalto alle coste non si ferma e specialmente i propositi negli anni Ottanta sembrano inarrestabili. La Nuova Sardegna pubblica il dicembre del 1982 e il gennaio del 1983 un’inchiesta curata interamente da Cederna dedicata alle previsioni dei comuni costieri. Il clima è mutato e questo nuovo intervento colpisce l’opinione pubblica; anche perché i dati che nel frattempo vengono forniti dalla Regione non possono lasciare indifferenti: 70 milioni di metri cubi - specialmente case da vendere - incombono dappertutto e si osserva amaramente che il fenomeno denunciato tempo addietro si è esteso, il danno è gravissimo e potrebbe assumere dimensioni estreme.

Si apre, anche a seguito di queste denunce, la fase che condurrà ai risultati noti, dalla legge urbanistica al piano paesistico del ‘93, durante la quale non mancheranno interventi schierati - ancora su La Nuova Sardegna- utili per incoraggiare gli atteggiamenti più consapevoli e rigorosi. La grande lezione di Antonio Cederna è più che mai attuale, la sua linea di conservazione radicale del paesaggio trova oggi eco in Sardegna anche nella politica, che lui guardava con diffidenza.

Avrebbe compiuto 75 anni a ottobre. È morto dopo una lunga malattia Per tutta la vita ha denunciato i maltrattamenti che il nostro patrimonio storico, paesaggistico e monumentale ha subito ad opera di incompetenti retori e speculatori Le sue battaglie per una Italia diversa Personaggio antico, un eroe o un poeta infuriato E l’Urbe si sviluppava a macchia d’olio santo

È scomparso l’uomo che voleva sconfiggere il cemento. Antonio Cederna stava per compiere settantacinque anni, e la sua contesa con una forza più potente della ragione e della storia - la Costruzione che diventa Distruzione - durava da quasi mezzo secolo. Ora che s'è interrotta, ripensando alla sua vita si può tracciarne un bilancio amaro: Cederna non ha vinto. Non poteva vincere. Era un'antiretorica, la sua, che coalizzava contro di sé interessi, convenzioni, mitologie bugiarde, seducenti demagogie: lo sviluppo, il lavoro, l’avvenire contrapposto al passato, l’asfalto delle autostrade confrontato ai sassi delle vie consolari, edifici sontuosi capaci di ridicolizzare gli umili tessuti urbani lavorati dal tempo. Una coalizione di interessi e di pretesti che avrebbe scoraggiato chiunque.

Antonio Cederna non si lasciava né intimorire né sedurre. Studiava. S'informava. Si documentava "sul campo" con la destrezza di un segugio e la passione di un missionario. Paragonava questa nostra Italia sventata a tanti paesi europei meno favoriti dall’arte ma più attenti a non offenderla. Nella redazione del Mondo, il settimanale che lo scoprì, fioccavano per lui i nomignoli. Lo chiamavano "l’Indignato speciale", l’"Appiomane", il "piccolo Borgese", con allusione alla sua discendenza, per parte di madre, dal celebre scrittore Giuseppe Antonio Borgese. Scherzi che nascondevano una grande stima per quel giovane don Chisciotte e le sue "campagne".

Il primo articolo di Cederna lo lessi nella primavera del 1950. S' intitolava "Via degli Obelischi". Era l’Anno Santo, e Roma lo festeggiava a modo suo: inaugurando via della Conciliazione con i suoi ventotto obelischi, disegnati dagli architetti Piacentini e Spaccarelli. Uno sconcio storico. Storico era anche il legame che in quell’occasione si stabilì, o si confermò, tra fascismo e Repubblica italiana. Già Mussolini aveva infatti progettato lo sventramento della "spina di Borgo", un modesto tessuto edilizio costruito nei secoli, che si apriva all’improvviso sullo scenario berniniano. Ora l’opera si completava, sommando al danno estetico il disastro ecologico. Dopo lo sventramento, migliaia di persone che abitavano quelle vecchie case vennero sbattute altrove. Antonio Cederna, allora ventinovenne, si scatenò.

Quello che uscì dalla sua penna era un intervento critico. Ma era soprattutto un’invettiva. Accorata. Sdegnata. Furente. Dopo quell’esordio, lungo sedici anni, il settimanale di Pannunzio ospitò più di quattrocento note, servizi, inchieste di Cederna. Tema: i maltrattamenti che il nostro patrimonio storico, paesaggistico e monumentale subisce ad opera di incompetenti, retori e speculatori. Antonio, poco più d’un ragazzo, sembrava un personaggio antico, un eroe o un poeta infuriato. Anche se diventò ben presto un maestro di giornalismo, il suo mestiere di partenza era un altro. Lombardo, si trovava a Roma per caso. S'era laureato in archelogia a Pavia e ora frequentava nella Capitale una scuola di perfezionamento, oltre a partecipare a certi lavori di scavo a Carsoli, in Abruzzo. Erano le sue mansioni di studioso. Al Mondo affidava le sue denunzie di cittadino. E con grande efficacia. Nei suoi scritti cultura e giornalismo coincidevano.

Gli anatemi del giovane archeologo toccavano nervi scoperti dell’intellighenzia italiana. Agivano su una minoranza, ma in profondità. Comunicavano sdegno. Creavano allarme nei colpevoli. Se ora penso alle battaglie combattute da Cederna, mi trovo di fronte a un’ininterrotta sequenza di titoli. Alla "Via degli Obelischi" seguono "I vandali in casa". È il 1951. Il delirio distruttivo dell' Italia repubblicana prosegue. Il Comune di Roma rispolvera ancora un progetto di sventramento, compreso nel piano fascista del 1931, che dovrebbe spaccare il centro storico fra piazza di Spagna, il Babuino, via del Corso e l'Augusteo. Vogliono picconare le vecchie case sostituendole con palazzoni in uno stile "littorio ritardato". Chi potrebbe trattenere l’archeologo-urbanista? Anatema, anatema! Un altro titolo: "I gangsters dell’Appia". Cederna era stato raggiunto da decine di telefonate capaci di sconvolgerlo: si tenta di distruggere l’Appia antica. Nel suo appassionato talento semplificatorio, Antonio sceneggiò il destino di quella strada veneranda: stavano privatizzando i monumenti, i paesaggi, i tramonti di fronte ai quali Goethe, Gibbon, Gregorovius, Byron, Stendhal, De Brosse, Mommsen erano venuti a meditare sulla fine del mondo antico, l’invidia del tempo e la varietà della fortuna. Cinematografari, prelati, generoni anelavano a costruirsi la villa. Proprio lì. Cederna si scatena di nuovo. E lo seguono, nella sua ira, urbanisti insigni come Luigi Piccinato e Ludovico Quaroni, mentre gli architetti di regime soffrono di fronte a questa intromissione nei loro progetti per la Roma del futuro.

C'è sempre un futuro in nome del quale sembra urgente disonorarsi. In Campidoglio governano sindaci che si chiamano Rebecchini e poi Cioccetti, nomi passati in proverbio anche per merito dell’"Indignato Speciale". A questo punto Antonio Cederna non è più un archeologo e neppure più soltanto un giornalista. È, a seconda di chi lo giudica, uno spauracchio o una provvidenza. Diventa un centro di raccolta per le novità, spesso agghiaccianti, che si profilano in materia di speculazione edilizia a Roma. La battaglia per la difesa del centro storico è vinta, o quasi. Ma, appena fuori, la città si sviluppa secondo i desideri delle grandi proprietà, titolari di migliaia di ettari a ridosso delle strade consolari, Tiburtina, Prenestina, Tuscolana, Aurelia, Portuense. Una dilatazione incontrollata e irresponsabile. Immobiliare, Torlonia, Gerini, Scalera, Lancellotti sono i nomi segnati nel taccuino di Cederna, il reporter dello scempio. La vicenda reca impresso lo stemma del Vaticano.

"L’Urbe si sviluppa a macchia d’olio santo", scrive Mino Maccari sotto le sue vignette. I titoli-slogan di Cederna maturavano a grappolo. "La città Eternit" (sui nefasti della baraccopoli romana) l'inventò Flaiano, che del Mondo era allora caporedattore. "Mirabilia urbis" era un’immagine riesumata dallo stesso Cederna spulciando le antiche guide turistiche di Roma. E poi "Napoli città omicida", "La morte a Venezia", "Palermo decomposta", "La caduta di Milano", "Il turco a Bologna", "Cremona sventrata", "Urbino in pericolo", "Ravenna al macello". Il Mondo morì nel 1966. Per la cultura italiana fu una sconfitta, ma Cederna non aveva fallito. I suoi temi diventavano di dominio comune. Era nata Italia Nostra, uno strumento di vigilanza, denunzia, intervento in campo urbanistico. In materia di tutela ambientale, la periferia rispondeva agli appelli emanati dal centro. Cederna fungeva da terminale per un enorme flusso di segnalazioni, suggerimenti, memoriali, proposte provenienti da ogni angolo d’Italia. Dighe fasulle al servizio di un'agricoltura che non c' è più, autostrade inutili, scempi di edifici storici, musei inagibili, parchi nazionali che stentano a nascere. I giornali accolgono queste campagne.

Ma a Cederna non basta mai. Dopo un breve flirt con L' Espresso, ecco la sua firma sul Corriere della sera, in una fase in cui su quelle pagine influisce Giulia Maria Crespi, assai sensibile ai temi cederniani. Antonio lavora con tre direttori, Alfio Russo, Spadolini e Ottone. Poi, dal 1980, comincia a collaborare alla Repubblica. I suoi libri sono ormai dei classici: ai Vandali in casa e a Mirabilia urbis si affiancano La distruzione della natura, Mussolini urbanista, Brandelli d' Italia. I lettori non sono più soltanto una pattuglia nobile e unanime. Crescono di numero. E Cederna agita le sue campagne anche in sedi politiche. Eletto consigliere comunale e poi deputato come indipendente nelle liste del Pci, si scontra, nella sua materia, con antiche sordità. C'è da lavorare e da litigare. Anche a sinistra, lungo buona parte degli anni Ottanta, l'abusivismo edilizio viene protetto o tollerato perché lo si considera un'arma nella mani dei poveri. Il ricatto "occupazionale" domina.

Eppure, nella vicenda dell'Indignato Speciale non manca qualche trionfo della ragione. Il suo candore mette a segno punti insperati. Contribuisce a impedire (e siamo alla fine degli Ottanta) che nella piana occidentale di Firenze la Fiat e la Fondiaria piantino milioni di metri cubi di cemento: è la "Grande Firenze", che non si fa, anche per l' opposizione del Pci. Va in fumo il progetto Venezia Expo, così caro a Gianni De Michelis. Vanno a buon fine, almeno sulla carta, la legge su Roma capitale e quella sull' istituzione di parchi e riserve naturali. Uno degli ultimi progetti sul quale si sia accalorato il tenace Cederna riguarda i Fori imperiali. Si tratta di portare alla luce una delle illustri zone archeologiche del pianeta, da piazza Venezia ai piedi dei Castelli romani. L’urbanista raccoglie consensi importanti: quello, ad esempio, del sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Ma gli ostacoli sono imponenti, il disegno rivoluzionario. Armato d’una vecchia macchina per scrivere, lui non demorde. Lo assiste la convinzione, o almeno la fiducia, di guadagnare ogni giorno qualcuno di più alla sua causa.

Gli articoli più recenti, usciti sulla Repubblica, parlano della nascita del Gran parco sul Litorale romano, in zona Maccarese; della creazione del Porto di Traiano, a Fiumicino; della sistemazione di piazza Augusto Imperatore, a Roma. L’elegia più sferzante, quando cadde la cupola della cattedrale di Noto, portava la sua antica firma. L’Indignato speciale non aveva cessato di esserlo. Adesso, pensando al Giubileo, ci domandiamo come faremo a sopportarlo senza ispirarci alle sue angosce e alle sue speranze.

Non è facile assorbire l’entusiasmo dei suoi estimatori, confrontarsi con i giudizi sbrigativi dei suoi detrattori, accettare che una persona con cui hai avuto un rapporto esclusivo sia trasformata in un monumento. Per fortuna, tra le cose che mi ha insegnato mio padre c’è innanzitutto il rispetto per i beni comuni.

Più difficile ancora è scriverne in forma privata. Con il passare degli anni, la tela che la fama comincia a tessergli intorno finisce per avvolgere i ricordi più intimi. Per scrivere questo articolo ho scelto di giocare in contropiede: ho tirato fuori dai cassetti decine di ritagli ingialliti e li ho sparpagliati sul tavolo. Elzeviri, interviste, testimonianze. “Scompare a 75 anni il difensore del Belpaese”. Mio padre avrebbe sorriso. “Il paladino dell’ambiente”. Si sarebbe schernito. “Addio a Cederna, tenero efurioso”. Si infervorava declamando l’Ariosto, Dante, Manzoni e Shakespeare. Per il resto era una persona pacata, non ricordo di avergli mai sentito alzare la voce. “Muore Cederna, il pioniere della coscienza ambientale”. E’ stato certamente uno dei primi a scrivere di beni artistici e naturali, poi di natura, quindi di ambiente, infine di ecologia e di limiti dello sviluppo. Ma allo stesso tempo è difficile immaginare un pioniere dai tratti più urbani di lui. “Intellectuel?” gli aveva domandato a bruciapelo un ufficiale svizzero, colpito dalla precisione con cui aveva portato a termine la corvée che gli era stata assegnata: pulire i cessi del campo di lavoro dove era recluso. Era il 1943, mio padre aveva appena varcato clandestinamente la frontiera per fuggire dalla guerra e dal fascismo.

“All’inizio incompreso. Ma rigoroso, pieno di coraggio, integerrimo”. Ricordo un’intervista a metà degli anni Settanta: “Cederna, lei è un ambientalista quindi le piace la campagna?”. “Preferisco la città”. “Conduce una vita sana?” “Fumo due pacchetti di sigarette al giorno”. “Fa passeggiate?” “Faccio la Settimana Enigmistica”. Allora si confondeva l’impegno per l’ambiente con la bucolica aspirazione di un ritorno alla natura…ma anche in seguito non è andata meglio. “E’ morto Cederna, l’uomo che voleva fermare il cemento”. Boom! A Don Chisciotte preferiva Sancho Pancia. Denunciava la “cementificazione” delle coste, le speculazioni dei palazzinari, le autostrade di Prandini, ma era favorevole alla riqualificazione delle periferie, alla costruzione di servizi, di quartieri più umani e perfino di strade che avessero un senso. (Ricordo una visita al cantiere della bretella autostradale di Roma, lo sguardo diffidente dei tecnici dell’Anas, l’articolo elogiativo pubblicato sull’Espresso). Per alcuni era “l’intellettuale che aveva il coraggio di dire di no”. (In famiglia ci aveva provato una volta: “o me o il gatto”, aveva intimato a mia sorella Camilla tanti anni fa, naturalmente erano rimasti entrambi). Altri lo accusavano di voler “imbalsamare le città”. (del tutto improbabile, era molto superstizioso, aveva il terrore delle mummie).

"Nel nome di Cederna a Roma si è consolidato un vincolismo selvaggio – hadichiarato qualche anno fa Caltagirone su Panorama - Per decenni chiunque voleva intervenire sul territorio era combattuto come uno speculatore. Risultato: le altre capitali si adeguavano ai tempi, a Roma si impedivano le trasformazioni del semicentro". La solita (vecchia) tesi dei palazzinari aveva il potere di fare ritrovare a mio padre l’allegria e perfino il suo accento meneghino (“Oh signùr, signùr”). La responsabilità dell’arretratezza di Roma non era da rintracciare nell'intreccio di politica e affari che aveva governato la capitale per decenni, ma nella penna dei suoi critici! (“Il mondo alla rovescia”, avrebbe detto sorridendo). Non poteva immaginare che la stessa tesi sarebbe finita sui libri di storia. “Vittorio Vidotto mette sotto accusa anche Cederna e Insolera”. “La loro visione di Roma si è tradotta in una sostanziale incomprensione storica della città, incapace di cogliere e di volgere in positivo la complessità dei fattori della trasformazione urbana... Ispirata a un dirigismo illuministico, raramente una battaglia politico-culturale fu così avara di successi”. Non ho i titoli per entrare nel merito di questa polemica. Chi è curioso di sapere che cosa fosse e dove avrebbe portato “la complessità dei fattori di trasformazione urbana” a quei tempi, può leggersi I Vandali in Casa, appena ristampato da Laterza. Il riferimento all’illuminismo, invece, mi spinge a pensare che mio padre avrebbe citato Candide, il suo libro preferito, e in particolare le gesta del saggio Pangloss, che scambiava cause ed effetti, credeva di vivere nel migliore dei mondi possibili e, a chi gli faceva notare che gli uomini si sterminano a colpi di baionetta, rispondeva: “Anche questo è indispensabile. I guai privati compongono il bene generale; così che più ci sono guai particolari e meglio vanno le cose”.

Ricordo il coraggio scostante di Antonio Cederna, circondato spesso dall’irrisione, e, ora che è scomparso, elogiato con debita ipocrisia da quelli che lo dileggiavano”, scriveva Giuseppe Pontiggia nel 1997. Mio padre non si sarebbe scomposto, sapeva che sarebbe stato osannato soltanto da morto. Se fosse vivo starebbe scrivendo sempre lo stesso articolo sulle responsabilità della sinistra, “la casa politica dell’ambientalismo italiano – come ha scritto Michele Serra - a cominciare dal padre di tutte le battaglie Antonio Cederna… E’ normale che oggi le attese siano più pressanti che in passato. Perché non si può parlare, per anni, di sviluppo distorto e poi non sentirsi, una volta al governo, costretti a trarne delle conseguenze”.

Antonio Cederna era figlio della borghesia milanese, una borghesia ora assai difficile da immaginare: laico, antifascista, sobrio e ironico, rigoroso, con una forte passione civile. Impegnato dal dopoguerra nello sforzo per la ricostruzione dell’etica pubblica del nostro Paese. A partire dalla tutela del territorio, dei centri storici, dei beni culturali e ambientali, assunti quali beni comuni e valori in sé. E’ stato un archeologo che per dedicarsi alle battaglie di tutela ambientale e del paesaggio, per amore delle nostre bellezze divenne innanzitutto giornalista (il Mondo di Pannunzio dal 1950 al 1966, il Corriere della Sera della Mozzoni Crespi e di Ottone dal ’67 al 1981 e poi a Repubblica) ma anche urbanista, critico d’arte, saggista. E poi amministratore locale, parlamentare di rango, tra i fondatori dell’ambientalismo italiano ma anche concreto e attivo presidente del parco dell’Appia.

E’ davvero impressionante la mole di attività svolte da Antonio Cederna con libri, saggi, interventi, proposte di legge, articoli sui giornali; e sempre sul valore della conoscenza, dei beni storici e culturali, dell’ambiente, delle nostre radici nelle articolate e complesse identità territoriali.

Nei suoi articoli era capace di dissacrare i luoghi comuni del nostro Paese, ricco di tecnici e tecnicismi ma debole di cultura. Così scriveva oltre trent’anni fa, nel 1975: “In questa cultura dimezzata spiccano quelli che per mestiere operano direttamente sul territorio, la legione di architetti, ingegneri e geometri al soldo dei costruttori e della immobiliari. Vittime di un’educazione sbagliata e di una scuola retrograda, costoro credono ancora che scopo del costruire sia l’affermazione della loro “personalità”, che architettura moderna sia produzione di capolavori da pubblicare sulle riviste, che foreste e litorali ci guadagnino ad essere lottizzati, che le “qualità formali” riscattino l’errore sociale, economico ed urbanistico del loro intervento.” Considerazioni di un’attualità addirittura sorprendente, che Eddy Salzano mantiene scolpite sul bellissimo sito internet eddyburg.it, e che così commenta: “Parole oggi più vere che mai. Le città non competono scommettendo sulla migliore qualità della vita (migliori servizi, più verde, comunicazione tra gli abitanti, bellezza d’insieme, solidarietà) ma sulla più fantasiosa Grande Opera.”

Cederna intuì prima di altri che il grande problema del Paese era ed è l’aggressione al territorio, il bene comune che dà un senso effettivo alle comunità. Con lui intere generazioni di romani hanno imparato a sentir proprie le bellezze del territorio in cui vivevano. Un milanese pungente che divenne un profondo conoscitore e tutore intransigente delle bellezze ambientali, storico-culturali e paesaggistiche dell’area romana. Basti solo ricordare l’impegno profuso per l’Appia Antica e per il Progetto Fori, per unificare, liberare e far riemergere da sotto il cemento il più grande patrimonio archeologico del mondo e restituirlo a Roma. E in questo impegno trovò sponda attenta e appassionata in un “grigio funzionario di partito”, Luigi Petroselli, il sindaco più amato che la sinistra abbia avuto a Roma.

Con Cederna emerge un’etica fondata sulle regole e sul governo pubblico e democratico dei processi territoriali, in grado di coniugare istanze sociali e attenzione prioritaria ai beni ambientali e culturali. In particolare a Roma, dove pure non si sottrasse mai a misurarsi con le esigenze di una città che assommava alle esigenze di metropoli in crescita le funzioni di capitale nazionale e internazionale. Per questo avanzò la proposta di legge per Roma capitale (1989), con soluzioni coraggiose di riassetto metropolitano per una città moderna da edificare nella periferia orientale (il sistema direzionale orientale, lo Sdo) dove trasferire terziario, uffici e ministeri, per liberare un centro storico divenuto invivibile. E, come racconta Vezio De Lucia su Carta del 30 gennaio 2006, doveva trattarsi di un’operazione a “saldo zero”: gli immensi spazi lasciati liberi dagli uffici del centro non dovevano essere sostituiti con altri carichi urbanistici, ma divenire vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e zone pedonali, con la piena valorizzazione delle aree archeologiche poste nella Roma storica. L’archeologia, la memoria, l’identità stratificata diveniva il punto di partenza per un diverso assetto della città, per una nuova socialità. La modernità di Cederna è proprio nella sua idea di città imperniata sul bene comune della convivenza nella bellezza condivisa, sul benessere, assolutamente lontana da chi continua a delegare al mercato, al Pil, ad immobiliaristi e costruttori la definizione dei destini delle nostre comunità.

Scrivo sempre la stessa cosa”. Si schermiva così Antonio Cederna quando lo chiamavi per fargli i complimenti per l’efficacia di un suo articolo che ti aveva colpito più degli altri. La voce aveva la stessa impostazione di quando declamava a memoria i brani di poesia e letteratura classica da lui più amata. E forse aveva ragione, perchè dietro ai suoi scritti e alle sue invettive appariva sempre un’identica tensione per i destini del paesaggio, del patrimonio storico e artistico italiano. Sempre la stessa cosa.

Un compito scomodo, da portare avanti controcorrente. Erano sempre in agguato gli “etichettatori” scaltri, bravi nel dipingere a tinte fosche le opinioni altrui. Così nell’immaginario di molti passava per il severo censore che diceva sempre no. L’esatto contrario della verità. E’ certo vero che da rigoroso uomo di cultura qual’era sapeva dire no. Alle fameliche speculazioni edilizie e agli sfregi al patrimonio culturale. Ma se si guarda alla sua opera è facile scorgere una grande capacità di formulare obiettivi, di fornire proposte, di disegnare orizzonti.

Fu lui, quando negli anni ’90 sedeva nella Camera dei Deputati, a presentare il più organico e convincente progetto per “Roma capitale”. Erano essenziali –ma quanto complesse!- le proposte che aveva elaborato per la città a cui dedicò molta parte della sua opera. Il parco archeologico dei Fori imperiali che vedeva come il motore del cambiamento della città. Un grande spazio nel centro della città da lasciare al silenzio indispensabile per godere dell’incomparabile stratificazione storica e culturale del luogo. Senza più automobili, senza più la tronfia offesa di via dei Fori imperiali. Un progetto che avrebbe cambiato il destino del centro storico e, insieme al potenziamento dell’offerta museale, fatto diventare Roma capitale della cultura mondiale.

Il secondo progetto riguardava la realizzazione del sistema dei parchi urbani da realizzare nelle periferie per preservare natura e storia, quell’inscindibile connubio che contraddistingue la meravigliosa campagna romana. Ad iniziare dall’Appia antica a cui, dopo decenni di denunce, aveva dedicato gli ultimi anni del suo impegno quale presidente del Parco. Ancora, il recupero delle periferie da ottenere con il trasferimento dei Ministeri dal centro storico e con la fine dell’interminabile espansione edilizia della città. Infine, la realizzazione di una moderna rete su ferro che consentisse di diminuire gli effetti devastanti sulla salute dei cittadini e sui monumenti dei due milioni e mezzo di veicoli che ogni giorno intasano le strade della città. Un grande progetto urbanistico. Cederna era un archeologo, ma la sua cultura urbana e la sua curiosità verso quanto di nuovo e di bello avveniva nelle città del mondo era ineguagliabile.

Quella stessa sensibilità e cultura che gli permisero nei primi anni ’90, quando era consigliere comunale di Roma, di proporre la realizzazione del nuovo Auditorium al Flaminio così da evitare la compromissione della più centrale area del Borghetto Flaminio su cui allora sembravano essersi concentrati unanimi consensi. O le tante proposte, non solo no, elaborate con Italia Nostra.

Dopo tanti anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 27 agosto 1996, ciascuno di noi po’ tentare un bilancio, per quanto parziale e frammentario, dell’esito delle proposte di Cederna. Cogliendo le luci, quali ad esempio la realizzazione della rete dei parchi urbani e di tanti nuovi musei, ad iniziare da Palazzo Altemps, con la collezione Ludovisi, per il quale si era tanto battuto e che non riuscì a veder completato. E vedendo le ombre, ad iniziare dalla inarrestabile espansione urbana in atto e dalla morta gora in cui sembra essersi tristemente avviato il progetto dei Fori centrali. Si può essere certi che avrebbe saputo dare atto pubblicamente dei risultati raggiunti. E continuato a battersi per far sparire le ombre. Per far affermare la cultura della tutela. A dieci anni di distanza manca la sua voce che diceva sempre la stessa cosa.

Sono passati due lustri dalla scomparsa di Antonio Cederna (Milano 1921-Roma 1996) – uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano – archeologo e critico d'arte, poi straordinario giornalista: scrisse sul settimanale Il Mondo, e poi sul Corriere della Sera e la Repubblica. Fuanche consigliere comunale di Roma e deputato della sinistra indipendente. Non è stato dimenticato, e fioriscono le occasioni per ricordarlo. Francesco Erbani ha curato per Laterza una nuova edizione di I vandali in casa, il suo libro più noto, mentre la Corte del fontego, una nuova e benintenzionata casa editrice veneziana, ha pubblicato una nuova edizione di Mussolini urbanista, presentata da Adriano La Regina e Mauro Baioni. L’Istituto beni culturali della regione Emilia Romagna sta allestendo una pubblicazione con contributi di specialisti e compagni di viaggio. La provincia di Roma, che da anni ha istituito il premio Cederna, quest’anno lo assegna a figure che nel decennio hanno operato in continuità con il suo pensiero. Mi auguro che nei prossimi mesi anche Italia nostra, l’associazione che Cederna contribuì a fondare e che frequentò ed ebbe cara più di ogni altra, riesca a organizzare un necessario convegno di studi, per raccogliere e discutere le testimonianze, i contributi e i materiali intorno alla sua eredità prodotti nell’ultimo decennio.

Il nome di Antonio Cederna, si sa, è legato soprattutto al mondo dell’urbanistica, alla tutela del paesaggio, delle antichità e delle belle arti. Si occupò specialmente di Roma, e massimamente dell’appia Antica, e si deve in larga misura a lui se la Regina viarum e il vasto territorio che la circonda si sono salvati dagli assalti degli “energumeni del cemento armato” (oppure dei “nemici del genere umano”), come chiamava gli speculatori edilizi e i loro manutengoli annidati in parlamento e nel governo, nelle pubbliche amministrazioni, nei giornali e nelle università. All’inizio degli anni Ottanta, insieme al soprintendente archeologico Adriano La Regina e all’indimenticabile sindaco Luigi Petroselli, fu protagonista del cosiddetto progetto Fori, che prevedeva lo smantellamento della via dei Fori imperiali, lo stradone costruito per volontà di Benito Mussolini – dopo aver sventrato gli antichi quartieri costruiti nei secoli sopra le rovine romane, scempio accuratamente descritto in Mussolini urbanista – affinché da piazza Venezia si vedesse il Colosseo e per fornire uno scenario imperiale alla sfilata delle truppe. Il progetto Fori prevedeva il recupero e la ricomposizione del tessuto archeologico (fori di Traiano, di Cesare, di Augusto, di Nerva, eccetera) oggi spezzato dalla strada fascista, collocando la storia e la cultura al centro della città moderna. Morto Petroselli, i sindaci che lo hanno sostituito non hanno avuto il coraggio di andare avanti. La via dei Fori è rimasta al suo posto e continua inutilmente a scaricare automobili e inquinamento nel centro della capitale, mentre le rovine romane restano racchiuse in recinti laterali, a quote più basse, come i leoni allo zoo.

Su queste pagine c’interessa però ricordare che Antonio Cederna fu anche un accanito difensore della natura e anzi, in ogni suo intervento, la denuncia del malgoverno del territorio – il tema che credo possa correttamente sintetizzare l’insieme del suo lavoro di giornalista, di scrittore, di rappresentante del popolo – comprende sempre, in un solo intreccio, il disfacimento delle città, l’abrogazione del paesaggio, la distruzione della natura, l’eliminazione dello spazio necessario alla salute pubblica, lo smantellamento dei beni culturali, la privatizzazione del suolo. Ma anche se è difficile, e forse improprio, separare per gruppi e per generi la sua attività, penso che sarebbe tuttavia utile una riflessione ad hoc sui suoi interventi destinati esclusivamente o prevalentemente alla natura. Altrettanto, e forse ancora più utile, penso che sarebbe una ricerca volta a ricostruire puntualmente il contributo che Cederna deputato della X legislatura fornì alla formazione delle due fondamentali leggi approvate negli anni che lo videro legislatore: quella per la difesa del suolo (n. 183/1989) e quella per la protezione della natura (n. 394/1991).

Per ora mi limito a ricordare La distruzione della natura in Italia (Piccola Biblioteca Einaudi, 1975), il libro di Cederna, introvabile come ogni altra sua opera, dedicato in particolare alla natura in tutti i suoi aspetti, dai parchi nazionali ai giardini, dalle montagne ai laghi, dalle paludi allo stambecco. È un libro denso di pagine e di argomenti, che raccoglie saggi inediti e articoli scritti negli anni precedenti sul Corriere della Sera. È formato da un testo introduttivo e da tre parti tematiche: un’indagine sulle condizioni (pessime) in cui versavano i parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, d’Abruzzo e del Circeo; un’inchiesta sugli scempi realizzati o minacciati ai danni delle coste di Toscana, Sardegna, Lazio e Campania; un’indignata denuncia, sulla mancanza di verde pubblico nelle città di Roma e di Milano. Non senza qualche ingenuità. Come quando s’illude che le cose possano migliorare con l’entrata in funzione delle ragioni a statuto ordinario (avvenuta nel 1972), che dovrebbero spazzare via la vecchia mentalità accentratrice dell’apparato statale burocratico e prepotente. Non poteva immaginare – lui, altrimenti così preveggente – che trent’anni dopo dobbiamo troppo spesso rimpiangere i pregi del centralismo statale.

Come sempre, il linguaggio di Cederna è tagliente, talvolta feroce, il vocabolario spesso sorprendente, sempre efficacissimo. A titolo di esempio ho raccolto qui accanto una piccola antologia tratta dalle pagine introduttive del libro, e spero che, dopo le nuove edizioni dei Vandali in casa e di Mussolini urbanista, una benemerita casa editrice colmi la lacuna pubblicando anche La distruzione della natura in Italia.

(Roma, 28 giugno 2006)

Promemoria dal libro di Antonio Cederna, La distruzione della natura in Italia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1975.

In realtà, nella maggioranza dei politici al potere si riscontra (parliamo in generale), prima ancora di ogni comprovata malizia, una vera e propria forma di imbecillità. [p. XII]

In questa cultura dimezzata spiccano quelli che per mestiere operano direttamente sul territorio, la legione di architetti, ingegneri e geometri al soldo dei costruttori e delle immobiliari. Vittime di un’educazione sbagliata e di una scuola retrograda, costoro credono ancora che scopo del costruire sia l’affermazione della loro “personalità” (!), che architettura moderna sia produzione di capolavori da pubblicare sulle riviste, che foreste e litorali ci guadagnino ad essere lottizzati, che le “qualità formali” riscattino l’errore sociale, economico e urbanistico del loro intervento. [p. XIII]

… tutta l’Italia, in assenza di qualsiasi effettiva programmazione economica e urbanistica, rischia di essere a poco a poco ricoperta, dalle Alpi al Capo Passero, da un’uniforme, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto … [p. 17]

… ancora è l’avverbio su cui si regge l’Italia, e su cui riposano le residue speranze … [p. 18]

L’Italia contadina divenuta malamente urbana è soggetta a deprimenti distorsioni psicologiche: scambia spesso per progresso l’inumana malformazione delle città, per civiltà il biossido di carbonio, per benessere il fumo delle ciminiere, per affermazione di libertà l’eliminazione di ogni parvenza di natura. [p. 19]

Scontiamo, s’è detto, gli effetti di una cultura che ha teorizzato la preminenza dell’uomo “artista” sulla natura, di una filosofia che ne ha negato l’oggettiva esistenza e di una religione che, ai suoi livelli più bassi e diffusi, ne ha sempre considerato con sospetto e incomprensione le manifestazioni (siamo passati dal “cantico delle creature” a un papa che ha benedetto il tiro al piccione). [p. 20]

… la conservazione della natura è essenziale per offrire alla collettività un impiego sempre più adeguato del tempo libero, altro grande problema del mondo moderno. [p. 21]

… la conservazione della natura, nel quadro di una politica del territorio che subordini ad essa ogni altro intervento (edilizio, industriale, autostradale) deve essere dunque considerata l’obiettivo primario di ogni società previdente e socialmente progredita. [p. 21]

Conservazione della natura significa soltanto, alla fine, conservazione dell’uomo e del suo ambiente, incolumità e salute pubblica e quindi anche, proprio per questo, progresso economico, culturale e sociale. [p. 22]

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