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Se la crisi profonda in cui siamo immersi ci sta insegnando qualcosa quel qualcosa è che, per immaginare il futuro, è imprescindibile passare da quella che è stata definita la «politica del fare» ad una politica (e cultura) del «fare responsabile, giusto, equo e sostenibile». Questo passaggio ha oramai raggiunto lo stato di necessità e di urgenza dal punto di vista etico, sociale, ambientale ed economico; anziché essere visto come un’ulteriore difficoltà allo sviluppo, va considerato come approccio unico e necessario che possa portare, anche velocemente, ad un nuovo sviluppo più durevole e più solido. La questione della Torre Cardin pone quindi, prima ancora che di merito, una questione di metodo. Ciò che sorprende infatti è che pur parlando di una trasformazione fisica significativa e consistente il “dibattito” in corso ruoti essenzialmente attorno al valore monetario (peraltro oscillante) della cosidetta“grande occasione”. Nessuna considerazione sulla forma urbana, sul traffico, sull’impatto ambientale. Solo soldi, ma in questo caso di cemento, di un cemento che deve rimanere almeno mezzo secolo per potersi “ripagare”. Il pericolo di questa impostazione sta nel fatto che, soprattutto in un momento di crisi economica gravissima come quello attuale, il progetto e la discussione sul progetto vengano strumentalizzati in modo assoluto: o prendere o lasciare, la Torre Cardin o lo status quo cioè il degrado. Posta così la questione lascia lo stesso molti dubbi sia nel Consiglio Comunale che tra i cittadini ma porta inevitabilmente verso un consenso acritico cioè all’accettazione del meno peggio essendo oggi quel degrado già ampiamente insopportabile. È questione di metodo perché la città e i suoi cittadini non dovrebbero trovarsi di fronte ad un simile aut‐aut ma dovrebbero discutere quali opportunità la città intende offrire al mercato; costruire com‐porta e porta sempre molto denaro; si tratta di capire come, cosa e dove costruire; perché non si tratti di una “abominevole speculazione”ma per far sì che si tratti di una “importante occasione” il progetto (qualsiasi progetto di siffatta dimensione) dovrebbe creare , oltre che profitto immobiliare, ricchezza collettiva tramite l’apporto di nuove relazioni, l’introduzione di fattori di efficienza energetica, la creazione di nuovi collegamenti, di nuova socialità, di nuova urbanità che incrementa il senso civico del vivere sociale. Questi sono gli elementi che trasformano una qualsiasi operazione edilizia in qualcosa che rappresenta un vantaggio per la collettività. Se si partisse da questo presupposto allora il progetto dello stilista dovrebbe essere valutato in quanto progetto urbano, progetto di una parte di città importante. La discussione sarebbe virtuosa se, per quella preziosa parte urbana, si valutassero questo sì in un dibattito pubblico aperto alla cittadinanza l’ipotesi del grattacielo immerso in una distesa di parcheggi insieme con altre proposte progettuali alternative a quello schema. Il grattacielo isolato è “una delle” possibilità ma ve ne sono molte altre, forse più opportune, che andrebbero valutate, con la serenità del sapere che anche nelle altre “forme” ci sarebbero grandi capitali coinvolti, si creerebbero posti di lavoro, servizi, commerci, cioè sarebbero altrettanto “grandi occasioni” non piovute dal cielo ma saggiamente preparate ed indirizzate ad un obbiettivo condiviso. Forse si potrebbe discutere, in alternativa al grattacielo, di un intero quartiere innovativo, sostenibile, di un vero cuore pulsante del sistema Mestre‐Marghera che ha oggi un vuoto nella sua cerniera centrale – l’area della stazione ‐ e che la torre non farebbe altro che congelare per i prossimi decenni come “vuoto” della città al servizio della torre. Il centro di una grande città non si può trasferire nella lounge di un grattacielo, e tantomeno in un immenso parcheggio.

Sull’argomento vedi anche l’articolo di Somma

Mi sembra che l’occasione della ricorrenza dei 70 anni dalla approvazione della legge urbanistica nazionale puntualmente colta da eddyburg, in particolare da link http://eddyburg.it/article/articleview/19358/0/375/Vezio De Lucia>, sia molto opportuna proprio in un momento di così intensi e, per certi aspetti, confusi mutamenti in corso in questo paese.Non sostengo che bisognerebbe “aprire un dibattito” ma qualche considerazione e qualche proposito forse si potrebbero azzardare. Provo a portare il mio contributo sulla base della mia esperienza “sul campo”, da funzionario pubblico.

Lo scritto di De Lucia lascia un fondo amaro quando riconosce il progressivo declino delle speranze di ottenere una legislazione urbanistica nazionale imperniata sulle acquisizioni fondamentali elaborate in decenni di battaglie culturali e politiche della comunità che si era riproposta di adeguare i principi di governo del territorio al dettato costituzionale repubblicano.

L’affermazione che «abbiamo finito con il sentirci obbligati a difendere quella legge con le unghie e con i denti, sapendo che dalla politica e dalle istituzioni di oggi possono venire solo peggioramenti» riassume efficacemente un senso di desolazione dell’autore a cui sono tentato di aderire senza riserve. Però mi sforzo, nonostante tutto, di cercare una strada e un metodo razionale per riproporre l’esigenza di una nuova stagione della disciplina degli interventi sul territorio.

Proprio di fronte ai pessimi esempi che siamo costretti a constatare quotidianamente a tutti i livelli di responsabilità istituzionale?

Proprio in una fase in cui la ristrutturazione economica in corso (impropriamente e interclassisticamente chiamata “crisi”) sembra travolgere gli ultimi pilastri di una corretta gestione dei fatti urbani e assume il territorio come motore di un improbabile e, comunque distruttivsviluppo (anzi crescita senza aggettivi di sorta)? Proprio nel momento in cui non si sa più bene nemmeno quante e quali entità territoriali sopravviveranno alla sconclusionata distruzione spacciata per riduzione della spesa pubblica? Si, penso che proprio ora sia il momento di riprendere il ragionamento sul tipo di ordinamento che vogliamo dare alla legislazione del territorio di questo tormentato Paese.

Il punto di partenza sono i principi cardine su cui costruire un nuovo quadro di riferimento nazionale. Questi sono talmente presenti sulle pagine di Eddyburg da consentirmi di darli per acquisiti. Mi limito solo a riprendere la recente intervista di Salzano ad “Architettura del Paesaggio” pubblicata sul sito dove indica con chiarezza i tre passaggi essenziali per imprimere il cambiamento culturale necessario ad aprire la strada ad una nuova stagione dell’urbanistica italica. Lì c’è già tutto quel che serve e provo a riassumerli:

- bloccare il consumo di suolo come presupposto per il rinnovo del patrimonio edilizio costruito e la difesa delle risorse naturali;

- affermare una concezione “sistemica” del territorio per ricondurre ad unità le sue componenti e ricostruirne le relazioni complesse e imprescindibili;

- ridare centralità alla pianificazione urbanistica e territoriale (pubblica, aggiungo io, e forte perfino autoritativa!) per scongiurare la deriva di un libero mercato che poi non è ne libero ne mercato ma semplice appropriazione privata di beni e valori pubblici.

A questi andrebbe senz’altro aggiunta una decisiva disposizione che sganci definitivamente i contributi sulle attività edilizie da utilizzi di bilancio impropri facendo venir meno l’alibi delle esigenze di finanza locale per lo spreco di suolo.

Il secondo punto da valutare riguarda le gambe sulle quali la rivendicazione di una nuova legge urbanistica può camminare. Si sa che i processi di riorganizzazione politica in corso, in Italia come altrove, seguono orientamenti che vanno in direzione ben diversa dalle mete auspicate.

Si è ancora impegnati in una scomoda trincea in cui si cerca di difendere le posizioni acquisite dai continui assalti avversari.

Eppure siamo in una situazione in cui si mescolano

elementi regressivi nelle scelte politico-istituzionali a esperienze diffuse di indubbio interesse per la qualità e intensità dei conflitti che sui territori si generano.

Penso alle lotte su molti aspetti legati a obbiettivi affini a quelli proposti da Salzano che ho richiamato. Per tutti indicherei la difesa dei beni pubblici territoriali ed economici: paesaggio, acqua pubblica, recupero del significato di “comunità”; la scoperta/riscoperta del concetto di “bene comune” (che bello sarebbe vederlo scritto in una legge urbanistica); le mille iniziative che coinvolgono temi grandi (NO TAV, il risanamento di una fabbrica-città come l’Ilva) e piccoli (come la difesa di un lembo di spazio di vita sociale in un piccolo borgo italiano). Per tutto questo e per i cittadini che resistono dobbiamo continuare a sostenere la necessità e l’urgenza di una legge urbanistica nazionale basata sui principi ricordati. Sono tanti, generosi e lo meritano.

Chi la può sostenere oltre a quelli che questa legge già la praticano nel loro impegno? Il panorama offerto dalle istituzioni odierne non induce certo all’ottimismo ma, prima o poi, anche le rappresentanze politiche, se vorranno ancora rappresentare qualcosa, saranno costrette ad accorgersene. O ne pagheranno le conseguenze.

Un’obiezione del tutto ragionevole suggerisce che in questo momento storico è più prudente un’azione di contrasto delle nefandezze peggiori in attesa di tempi più propizi. Temo che il momento favorevole per conquistare nuove posizioni non verrà mai se non usciamo dal ristretto orizzonte dei rapporti di potere consolidati passando ad una fase propositiva che faccia tesoro delle migliori esperienze su cui possiamo già oggi contare. Di questo, in fondo, si discuterà nella prossima scuola di eddyburg a Verona che propone una riflessione sulle forme della politica e i conflitti territoriali oggi. Forse vale anche la pena di legarla alla ricorrenza dei 70 anni della legge urbanistica nazionale.

Postilla

Ricominciare e poi che senso ha. Ho pensato a Mina leggendo l'intervento di Bellone. Nel merito della sua proposta sono pienamente d'accordo, ma al tempo stesso non mi sottraggo al senso di inutilità, e quindi di frustazione, che mi prende all'idea di impegnarci nuovamente nella stesura di un disegno di legge urbanistica. L'ultima proposta di eddyburg è del 2006, frutto di un lavoro intenso e collettivo. Fu anche, inutilmente, presentata alla Camera e al Senato. Comunque ne discuteremo , a cominciare prossimo seminario Se/ed, anche in preparazione di nuove iniziative, nelle quali ci piacerebbe molto riuscire a mobilitare anche altri rispetto a quelli che hanno finora lavorato per le nostre proposte normative, mutando il loro ruolo da interlocutori e amici a protagonist di iniziative di eddyburg.(v.d l.)

Il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Mario Catania, ha partecipato all’evento “Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione”, convocato ieri 27/07/2012, dal suo Ministero nella Biblioteca della Camera a Palazzo San Macuto. Con i relatori Sergio Rizzo, del Corriere della Sera e Carlo Petrini, fondatore di “Slow Food” ha presentato un disegno di legge sul tema. Lo stato di fatto delle campagne nostro Paese è da anni ben noto, e il Ministro ne ha dato una spietata sintesi: «Ogni giorno 100 ettari di terreno vanno persi, negli ultimi 40 anni parliamo di una superficie di circa 5 milioni. Siamo passati da un totale di aree coltivate di 18 milioni di ettari a meno di 13. Sono dati che devono farci riflettere sul fatto che il problema del consumo del suolo nel nostro Paese deve essere una priorità da affrontare e contrastare. In un quadro come quello italiano, che da questo punto di vista non è assolutamente virtuoso, dobbiamo invertire la rotta di un trend gravissimo che richiede un intervento in tempi rapidi[...] . In epoca recente, in questa alternanza, si è inserito un fattore che ha reso il consumo del suolo un processo irreversibile: la cementificazione. È un fenomeno che ha un impatto fortissimo sulle aree agricole del nostro Paese, ma diventa ancora di più preoccupante quando lo vediamo concentrato in quelle zone altamente produttive, ad esempio sulle pianure. È qualcosa di devastante sia per l'ambiente sia per l'impresa agricola, con effetti negativi sul volume della produzione. La sottrazione di superfici alle coltivazioni abbatte la produzione agricola, ha un effetto nefasto [...] Tutto ciò avviene in un Paese come il nostro dove il livello di approvvigionamento è molto basso, dato che almeno il 20 per cento dei consumi nazionali è coperto dalle importazioni». Petrini e Rizzo hanno poi ricordato il valore del lavoro agricolo per la tutela dell’ecosistema e i principi costituzionali violati, mettendo in risalto da diversi punti di vista la caratteristica di “salute pubblica” del tema e la sua eccezionalità catastrofica.

In conclusione il Ministro ha invocato la collaborazione di tutte le istituzioni per salvare il salvabile e passare a un nuovo modello di sviluppo: contrastare l’aggressività dei poteri forti, l’assenza di regole e la cecità della politica; cambiare il meccanismo degli oneri di urbanizzazione che vanno ai Comuni. Ha concluso chiedendo suggerimenti e dialogo.

Subito Michele Serra gli ha risposto dalla sua Amaca di Repubblica: «io non ci credo che un ministro, per giunta “tecnico”, per giunta a termine, possa avere la meglio contro l’orda famelica degli speculatori».

Il disegno di legge Catania, già all’articolo 1 parte con il piede sbagliato e limita l’intervento alle aree definite “terreni agricoli qualificati tali dagli strumenti urbanistici vigenti”. Finiremmo col veder salvaguardato solo ciò che lo dovrebbe essere già, impotenti nei confronti delle enormi aree agricole produttive, ma anche naturali, boschive, permeabili, che si possono cementificare “a norma”, col beneplacito di Comuni, Provincie e Regioni.

C’è poi il rischio di continuare a mettere le galline sotto la protezione delle volpi. Infatti, nell’articolo 2, si articola una piramide istituzionale che in 180 giorni dovrà spartire fra le Regioni nuove “quote terra”, cioè quanto del terreno agricolo di cui sopra, finora sottratto alla rendita immobiliare, potrà essere scialato. Speriamo sia poco, ma è certo di troppo rispetto alle già enormi estensioni compromesse con i Piani, anche dalle Amministrazioni che si dichiarano meno sensibili alle lusinghe delle cricche del cemento.

I criteri che il Ministero si darà per determinare le quote di agricoltura da dismettere, non sembrano voler essere quelli di salvare il salvabile, di difendere tutto ciò in cui può vivere e produrre una vigna o un orto, qualche albero da legno o da frutta, un po’ di biodiversità e di paesaggio, nella grave situazione di carenza alimentare a km 0, mantenendo la possibilità di riassorbire in agricoltura di qualità almeno una parte della dilagante disoccupazione. Ci si occupa invece «dell’esistenza di edifici inutilizzati, dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche e della possibilità di ampliare quelle esistenti, invece che costruirne di nuove». Tutti urbanisti fai-da-te quindi, ancora una volta, a discutere quale tangenziale sia più comoda, quale sacrificare fra i poderi per farci la discarica o l’inceneritore, quali dei beni comuni venduti per far cassa possa diventare un villaggio turistico.

Se qualcuno azzarda a credere che, piani o non piani, il suolo “agricolo e naturale” sia un bene comune da proteggere collettivamente (meglio se in modo democratico e partecipato) perché da esso dipendono, fra l’altro le riserve idriche, la qualità dell’aria, la sicurezza geologica, il cibo e i luoghi ameni del paesaggio, non trova in questo decreto niente di consolante.Trova invece all’art. 4 un insieme di scoordinate misure di incentivazione alla ristrutturazione dell’edilizia rurale sparsa, con tanto di sconto fiscale e sugli oneri di urbanizzazione che, da come sono messi giù, possono solleticare le voglie villiniche dei ceti benestanti a ciò vocati.

Non insensibile al grido di dolore... il ministro Catania ha denunciato la gravità del problema del paesaggio agrario italiano. Peccato che la risposta costruita con il disegno di legge non risulti conseguente o convincente. Ben diverso è lo stile adottato dal Governo Monti quando tratta a muso duro con altre categorie: i pensionati, gli esodati, i precari. Ci saremmo aspettati un maggior rigore con gli speculatori dell’espansione urbana alla cui avidità dobbiamo almeno una parte dei guai di questa crisi. Data la gravità della situazione del paesaggio agrario, il cui destino si muta non in tempi biblici, ma in annate, il provvedimento indispensabile è la moratoria, di un quinquennio, alla trasformazione edilizia o per infrastrutture di ogni terreno agricolo produttivo o no, naturale o permeabile (con una franchigia, ad esempio, di 1000 o 2000 metri quadrati), destinato o no alla edificazione o all’urbanizzazione da un Piano urbanistico vigente. Con qualche norma di adeguamento che tenga conto delle autorizzazioni concesse, dei cantieri veramente avviati, delle infrastrutture da adeguare. Non sottraendo a tale moratoria le innumerevoli nuove tangenziali, bretelle che minacciano le aree più ubertose delle varie regioni del Paese.

C’è persino un precedente, che possiamo richiamare, nella storia urbanistica Italiana, la legge 765/1967, la Legge Ponte.

Una equa moratoria, senza indennizzo, data la durata canonica, permetterebbe, come nell’occasione citata, di riconsiderare tante scelte megalomani o interessate, arrivando a soluzioni più sagge e sobrie da porre alla base del modello sostenibile cui aspira lo stesso Ministro. E la moratoria potrebbe dare ancora un po’ di fiato a noi cittadini che da anni ci battiamo in massa, con risultati deludenti, per la salvaguardia dei beni comuni, del paesaggio o di ciò che ne rimane.

Dinanzi a un provvedimento di secca moratoria potremo perdonare finanche una lacrima in diretta, da versare sulle rendite e sulle speranze sfumate di qualcuno di coloro che sulle rovine del Bel Paese di tutti vogliono continuare a fondare le loro private fortune.

mercoledì 25 luglio 2012

Postilla

Sulla fondatezza dell’allarme lanciato, sulla gravità della situazione determinata dalla concezione mercantile del territorio, sulle gravi conseguenze che ne deriveranno (se il processo non s’interrompe e s’inverte), come sulle bune intenzioni del ministro e dei suoi consiglieri non solleviamo dubbi né perplessità: li condividiamo in pieno. Siamo invece fortemente dubbiosi sulle proposte. Intanto, sono viziate le stesse basi conoscitive: i dati di partenza. Da tempo insistiamo per spiegare che è un errore grave misurare il “consumo di suolo” determinato dall’abnorme espansione della “repellente criosta di cemento e asfalto con le statistiche relative riduzione della superficie delle aziende agricole. A nostro parere la superficialità nell’analisi di un fenomeno patologico impedisce di individuare lo soluzioni giuste per correggerlo. . Abbiamo scritto più volte in che direzione deve essere cercata la soluzione efficpace. Le opinioni possono essere diverse. Una cosa er noi è certa: non basta una cosa sola. che si tratti del ripristino delle regole originarie per la finalizzazione degli oneri di costruzione (cosa in sé sacrosanta) o della fissazione di traguardi quantitativi (cosa della quale dubitiamo fortemente, anche dopo l’analisi dei risultati del tentativo tedesco), o della moratoria (quella del 1967 andava nella direzione opposta, caro Toni). Come abbiamo scritto « Il fenomeno deve essere contrastato con un insieme sistematico di azioni, che ne affrontino i diversi aspetti». Lo abbiamo argomentato nell’ eddytoriale n. 136 del dicembre 2009, al quale per ora rinviamo. Torneremo presto sull’argomento.

Nel 1994 , al momento della istituzione del Parco delle Alpi Apuane (la proposta di legge di iniziativa popolare per la sua istituzione, risalente al 1977, era stata firmata dalla locale sezione di Italia Nostra e dalle sezioni di Lucca, Pisa e Pistoia del Club Alpino Italiano) la Regione Toscana si è trovata a fare i conti con un’attività estrattiva alquanto ingombrante e deturpante, oggi con soli 1.000 addetti che mette quotidianamente a rischio gli acquiferi e uno dei sistemi carsici più importanti d’Europa. Netta è stata la scelta del Comune di Carrara che ha deciso di sottrarre i suoi agri marmiferi alla tutela e la stessa strada ha seguito il Comune di Massa per una piccola area alle spalle di Carrara, che ricade però nella zona della sorgente del Cartaro.

Ma, se osserviamo la cartografia allegata al piano istitutivo del Parco, ci rendiamo conto che i principi della tutela sono stati da subito sacrificati all’interesse del privato, dal momento che l’area delle cave è stata artatamente disegnata con una linea di confine grossolana, con tratto infantile, che ignora le curve di livello; una carta perciò poco attendibile scientificamente.

Potremmo definirla senza ombra di dubbio una carta “politica” , perché la Regione disponeva di carte molto precise e disegnate con i criteri convenzionali usati per la stesura della cartografia, le quali individuavano per le singole località il bacino di escavazione con completezza, indicando anche le cave lavorate nell’Ottocento e poi caducate (carte Giunta Regionale-ERTAG, progetto marmi).

Viceversa, la cartografia rispondente alla realtà è stata adottata per ottemperare alle Direttive CEE sulle aree protette (SIC, SIR, ZPS), con la conseguenza che in queste mappe gli agri marmiferi risultano (come è nella realtà) di dimensione ridotta rispetto alla carta allegata all’atto istitutivo del Parco.

Purtroppo i funzionari rilasciano i permessi di escavazione in base a quella che ritengono il documento ufficiale, cioè la carta allegata al documento istitutivo del Parco, che non risponde alla reale condizione dei luoghi.

Ma altre ancora sono le carenze: infatti non sono ottemperate, né fatte rispettare le prescrizioni (?) del Consiglio Regionale del 24 luglio 1997 che specificavano tra l’altro “le modifiche morfologiche indotte dalla coltivazione NON devono alterare le linee di crinale e di vetta”. La cava Piastramarina situata sul crinale del monte Tambura, ad esempio, ha abbassato il passo della Focolaccia (m. 1650 in origine) di oltre 50 metri, devastato parte del crinale, ma continua regolarmente la sua attività.

Poche sono le cave in galleria e sia queste poche, sia quelle a cielo aperto, intercettano vene d’acqua e occultano le cavità carsiche che incontrano durante lo scavo, con due conseguenze negative e dannose per l’ambiente e per l’uomo: nella cavità carsiche della Carcaraia capita che i laghetti abbiamo spiagge di marmettola ( polvere di marmo) e in caso di piogge abbondanti la marmettola fuoriesce dalle sorgenti che danno acqua alla città, cioè la sorgente del Cartaro e la sorgente del Frigido a Forno (la sorgente più importante della Toscana per portata), ma anche nelle grotte di Equi Terme in Lunigiana, con gravi alterazioni dell’ecosistema carsico. Meno evidenti all’occhio sono le tracce di olii usati per il funzionamento delle macchine in caso di sversamento.

E’ evidente che per queste cave sarebbe opportuna la chiusura anche perché si trovano sopra i 1.200, che è l’altitudine da cui parte la tutela prevista dal Codice dei Beni Culturali negli Appennini, tanto più che la Regione stessa nel 2000 e nel 2002 stabiliva: “ E’ da prevedere la dismissione di cave che possono palesare condizioni ambientali e paesaggistiche precarie e contrastanti”.

Si aggiunga, a sottolineare la trascuratezza della Regione nei confronti dell’istituzione, che il Parco non è al momento dotato di un regolamento e la materia paesaggistica resta ancora delegata ai Comuni, nonostante il Codice (art. 4 comma 16, Legge 106/2011) preveda gli Enti Parchi tra i soggetti cui la Regione può delegare la materia paesaggistica. Da ultimo segnaliamo questo “paradosso” tollerato dalla Regione, la quale permette che il Comune di Massa, non essendosi ancora dotato del regolamento specifico richiesto già da una legge del 1927, poi dalla legge regionale 28/2/1995, regolamenti le cave, cioè quelle aperte e quelle che ri-apre, sulla base delle leggi estensi e di un regolamento del 14 luglio 1846 (milleottocentoquarantesei) con gravi danni per il patrimonio comunale e le sue entrate. Infatti viene applicato in questo modo un regime privatistico con livelli perpetui che il concessionario può alienare e lasciare in eredità e con facoltà di subconcessione, livelli che hanno “laudemi” cioè diritti di entrature bassissimi. Viceversa la normativa regionale, essendo stati riconosciuti gli agri marmiferi “beni indisponibili”, prevede che le concessioni siano regolate secondo il diritto pubblico e cioè diventino temporanee, con il divieto di subconcessione e soprattutto con un canone adeguato al marmo scavato.

Un Parco zoppo? Sì, un Parco zoppo e una Regione cieca o che non vuol vedere!

L’autrice è Consigliere Nazionale di Italia Nostra

Meglio alcune Grandi Opere oppure tante, diffuse Piccole Opere? Da tempo economisti e trasportisti, ma anche politici (come Pier Luigi Bersani), sostengono che la seconda opzione sia preferibile: più agile, meglio condivisa dalle popolazioni e quindi più cantierabile. Il migliore antidoto contro la crisi occupazionale drammaticamente in atto. Una filosofia opposta all’enfasi berlusconiana delle Grandi Opere (e non meno Grandi Trafori) tanto cara a Lunardi e a Matteoli.

Prendiamo il comparto dell’edilizia gravemente depressa. Durante l’ultimo “boom” edilizio (2000-2008) l’offerta era fatta di seconde e terze case o di alloggi “di mercato”, nulla per la angosciosa domanda di edilizia economica e sociale (adesso fa fino chiamarla “social housing”) per la quale l’Italia è finita in coda all’Europa con un misero 5 % (la Francia è al 17, l’Olanda al 34). La situazione occupazionale sarebbe meno disperata se, invece di finanziare la speculazione edilizia (e sempre nuovo consumo di suolo), si fosse impostato un serio piano pluriennale di recupero del patrimonio edilizio degradato, sfitto, precariamente occupato (a Roma 185.000 alloggi, a Milano 90.000, con uffici vuoti equivalenti a 30 grattacieli).

Il discorso vale per la messa in sicurezza anti-sismica e idrogeologica, strategiche nel nostro Paese sismico e franoso, per la riforestazione mirata, con le essenze autoctone, dell’Appennino. Ma sarebbe bastato non togliere ossigeno ai Parchi “motori”, di per sé, di una nuova, diffusa economia agro-silvo-forestale, invece a rischio di soffocamento.

Le Grandi Opere sono fondate, in genere, su non meno Grandi Previsioni. Spesso fantasiose. Come il traffico passeggeri e merci fra Italia e Francia posto alla base della TAV, che sarebbe dovuto balzare a vette incredibili e inevece è sceso nettamente. Per cui gli esperti di trasporto da anni invitano a ragionare e a progettare su dati reali. Anche il cosiddetto Corridoio Tirrenico da Livorno a Roma (oltre sul Tirreno non si va) è stato prima spacciato come un “obbligo europeo” e poi come opera comunque strategica. Malgrado i veicoli/giorno risultassero 18.000, pochi per un’autostrada a pedaggio. Non basta: quei 18.000, oggi calati del 20 %, sono per due terzi di maremmani che giustamente invocano l’esenzione dal pedaggio, oppure il diritto (costituzionale) di fruire di complanari gratuite, costosissime da realizzare sul piano finanziario e ancor più pesanti sul piano ambientale. Il tratto di gran lunga più pericoloso dell’Aurelia è quello fra Grosseto e Civitavecchia (sotto Capalbio una sola corsia di marcia per parte) con 0,87 incidenti/Km, il doppio della media Italia e della Rosignano-Grosseto. Dove invece, a Cecina, suo collegio, l’allora ministro Matteoli concentrò i pochi fondi disponibili. Per fortuna la Giunta Marrazzo aveva concordato e definito il progetto per la Civitavecchia-Tarquinia (una corsia soltanto) che ormai “vede” i primi cantieri. Rimane il nodo difficile di Orbetello. Comune e Provincia propongono una bretella al di là della collina a est che però trancia boschi, aziende biologiche, siti archeologici (Settefinestre). Bisogna studiare, discutere e ancora discutere, progettando tante piccole opere ben fatte anziché poche grandi opere impattanti, spesso infinite. “Dobbiamo insieme trovare le soluzioni più ‘risparmiose’”, ha detto, ad un recente convegno a Orbetello (disertato da Comune e Provincia), Maria Rosa Vittadini, docente a Venezia. Nel 2001 il governo Amato approvò il sospirato Piano nazionale dei trasporti. Berlusconi lo buttò via. Ecco i risultati.

Un versione ridotta dell’intervento è stata pubblicata su L’Unità del 20 luglio 2012.

Il sistema dei parchi della Val di Cornia è stato, ed è tutt'oggi, uno degli esempi più avanzati e complessi di tutela e valorizzazione integrata del patrimonio culturale e naturale di un territorio. Prende vita dalla pianificazione urbanistica coordinata di 4 comuni della Val di Cornia degli anni 70-90, è stato il luogo di feconde ricerche in campo archeologico e naturalistico, è stato costituito per esclusiva volontà dei Comuni senza ricorrere ad enti parco ed è gestito da una società pubblica che ha raggiunto livelli altissimi di autofinanziamento (99% nel 2007) con tangibili ricadute sull'economia locale, in particolare sul turismo. Tuttavia, neppure questi risultati sembrano mettere al riparo l'esperienza dei parchi della Val di Cornia da regressioni nelle politiche di tutela del patrimonio culturale, nella stessa gestione associata del sistema e, più in generale, nella percezione del valore strategico del progetto.

In una recente assemblea, Renzo Casini, esponente del PD, e il Sindaco di Campiglia Rossana Soffritti, hanno espresso giudizi preoccupanti sui parchi.

Sorvolo sulle affermazioni di Casini, secondo il quale nella società Parchi, definita “carrozzone”, ci sarebbero sei dirigenti. Sono affermazioni del tutto prive di fondamento, perchè quella società non ha dirigenti, ha il costo del personale più basso tra le società partecipate, ha assicurato la gestione di parchi e musei con costi inferiori a quelli di strutture simili e, per questo, viene ancora oggi considerata una buona pratica a livello nazionale. Posso dirlo a ragion veduta, avendola amministrata per 9 anni. Sconcerta che Casini, evidentemente molto male informato e mosso da un irresponsabile calcolo politico, neghi l’evidenza e getti discredito su un progetto che ha cambiato in positivo la nostra economia.

Preoccupazioni maggiori destano le affermazioni del Sindaco, per il quale sarebbero state fatte “troppe ricerche archeologiche”, “troppe valorizzazioni” ed ora è giunto il momento di dedicarsi al “marketing territoriale”. Basta analizzare i bilanci per capire che i risultati economici dei parchi sono migliorati man mano che, grazie alla ricerca e oculati investimenti, le aree archeologiche di San Silvestro e Populonia si arricchivano di contenuti e attrattive. Così come lo sviluppo e la qualificazione del turismo in Val di Cornia è andato di pari passo con la crescita del sistema dei parchi. Disponendo di straordinari beni archeologici e naturali, solo in parte valorizzati, è proprio sicuro il Sindaco che la scelta giusta sia quella di fermare questo processo virtuoso? Io penso l’opposto e che, se ben condotto, il progetto dei parchi può crescere, dare risposte di lavoro ai giovani e sostenere lo sviluppo dell’economia locale.

Davvero singolare, poi, è sostenere che il “marketing” prescinderebbe dalla valorizzazione del patrimonio culturale. Secondo questa tesi, essendo l’Italia ricca di beni culturali e paesaggi, dovremmo sospendere studi e ricerche e trasformare archeologi, storici e naturalisti, in “venditori” di quello che altri hanno fatto prima di loro. Una visione miope, poiché il marketing non è scisso dal prodotto e si basa sulla crescita e sulla qualificazione delle offerte culturali e dei servizi. E’ inconcepibile che un territorio che ha queste potenzialità decida scientemente di rinunciarvi, proprio nel momento in cui sono venute meno le certezze dell’economia del secolo scorso, basata sull’industria manifatturiera e sulla speculazione immobiliare.

Senza considerare che il “marketing territoriale” non è la promozione di quello che c’è (questo lo stanno già facendo egregiamente la Parchi e le aziende turistiche), ma una strategia politico-amministrativa che individua i punti di forza dell’identità territoriale e su questi costruisce coerenti azioni di governo: funzioni che spettano ai Comuni e vanno svolte in forma associata. E’ l’opposto di ciò che accade in Val di Cornia, dove è scomparsa la sovracomunalità lasciando spazio a ricatti e decisioni arbitrarie dei singoli Comuni che indeboliscono anche la coesione sociale. Così come manca la coerenza strategica, perché non si può affermare che i parchi sono uno degli elementi forti dell’identità territoriale e compiere scelte che li mettono in contraddizione con le cave a Campiglia, la speculazione edilizia a Rimigliano o la pressione antropica sulla costa che rischia di snaturare il significato stesso delle aree naturali protette; mentre distese di pannelli fotovoltaici e impianti industriali disseminati nelle campagne negano il valore del paesaggio rurale e la tipicità dei nostri prodotti agricoli.

Dunque c’è un vuoto di analisi e di visione strategica che non si colma con slogan, scorciatoie o, peggio ancora, meschini calcoli politici, ma con seri confronti, senza menzogne, e un unico obiettivo: il bene comune e il futuro della Val di Cornia, tanto più in tempi di crisi.

L’idea di promuovere un Piano per le città è di qualche interesse. Diversamente da altri Paesi a noi vicini, l’attenzione per le città da parte della politica è stata da sempre pressoché inesistente (con l’eccezione del Dipartimento delle aree urbane, scomparso dalla scena istituzionale senza sollevare discussione alcuna dopo essersi occupato di piste ciclabili e poco più). Anzi, una prima critica sul come è stata gestita l’iniziativa è proprio nel non averne marcato la rilevanza e la novità qualora si ritenga davvero che le città possano contribuire alla tanto invocata crescita, ma, se ancora oggi non è dato di conoscere cosa intenda questo Governo per ”crescita”, sarebbe illusorio aspettarsi che Monti o qualche ministro teorizzasse il contributo atteso da un (eventuale) programma di interventi mirato sulle città.

Nessuna indicazione di merito, dunque, da parte del Governo. Se, come appare assai verosimile, era chiaro fin dall’inizio che la disponibilità di risorse finanziarie da destinare alle città è di entità irrisoria (su questo aspetto tornerò in seguito), si sarebbe potuto quantomeno avviare un percorso. Provare cioè ad affermarne l’importanza, a declinare alcuni punti su cui impostare una politica urbana a livello delle amministrazioni centrali, a veicolare il semplice ed inappuntabile messaggio che le politiche urbane necessitano – e chi può contestarlo? – di tempi medi (non inferiori al decennio) per conseguire risultati apprezzabili e che quindi con il Piano per le città si avviava una iniziativa responsabilizzando i governi successivia proseguire l’opera.

Al contrario – ed è quanto ritengo più colpevole – nessuna strategia è stata messa in campo; si è privilegiato l’annuncio rispetto al contenuto, la promessa di rapide aperture di cantieri al tentativo di scomporre la complessità - che però va assunta come tale senza scorciatoie, senza inventare impossibili scorciatoie – per attivare le necessarie politiche di settore. Insomma, una riproposizione delle vuote promesse che hanno costituito quanto di peggio è statopropagandato negli anni trascorsi.

In checosa consiste, in definitiva, il Piano per le città? Decismente in una piccola iniziativa destinata, inevitabilmente, a far perdere le proprie tracce in breve tempo. Così la vede in sintesi il vice Ministro Ciaccia che ne ha assunto la paternità: riunire intorno ad un tavolo, ambiziosamente chiamato Cabina di regia, i rappresentanti delle amministrazioni dello Stato che, al momento (e quindi senza finanziamenti aggiuntivi o riconvertiti per l’occasione), gestiscono programmi di spesa con una ricaduta percepibile e localizzabile (nel senso che l’investimento o il contributo pubblico può essere incluso in un ambito predefinito) sul territorio. I comuni presentano delle proposte, ma non sono previsti vincoli dimensionali di popolazione, né di estensione dell’ambito oggetto della richiesta, né sono definiti di particolari caratteri da possedere come requisiti di accesso per l’ammissibilità. La Cabina di regia verifica se sussistono le condizioni per attribuire risorse. Tutto qui, tenendo comunque presente che i vari capitoli di bilancio gestiti dalle amministrazioni statali – in tutto poche centinaia di milioni di euro - hanno solitamente finalità e modalità di spesa dalle quali è difficile svincolarsi. Qualche esempio: il piano per l’edilizia scolastica deve rispettare delle priorità che non è detto coincidano con le richieste contenute nella proposta, così come il fondo Fia della Cassa DD e PP deve necessariamente ottenere una remunerazione del capitale investito (altrimenti l’operazione non è sostenibile).

C’è di più. Anche pergli obiettivi più modesti il “piano “rischia il fallimento. Nel decreto ministeriale che verrà firmato tra qualche giorno da Ciaccia non è chiaro chi debba fare cosa: da procedure snelle si è passati a (quasi) nessuna procedura. L’ANCI è chiamata a raccogliere ed illustrare le proposte (sono già pervenute circa 40 richieste ma è questo il mestiere dell’Associazione? Di che strumenti tecnici dispone?) dnon si sa con quali criteri le poche risorse disponibili sulla carta saranno ripartite; la questione non è di poco conto poiché, come era prevedibile, i comuni hanno presentato ambiti del tutto eterogenei: riguardano, in alcuni casi, territori assai vasti e, in altri, poco più di un singolo complesso immobiliare.

Una parola sul ruolo delle regioni. Il 5 giugno, in Conferenza unificata, le regioni sono state chiamate ad esprimere il parere sulla questione; le richieste avanzate, con l’eccezione di alcune di incidenza minima, sono volte esclusivamente a rivendicare le proprie competenze senza affrontare alcun aspetto del merito della proposta. In sintesi, le regioni hanno chiesto che le proposte formulate dai comuni siano a loro indirizzate per poi essere trasmesse, dopo una verifica di coerenza con la programmazione e la legislazione regionale”, alla Cabina di regia. Ancora una volta il confronto Stato-regioni si esaurisce in una contrattazione simile ad una vertenza sindacale il cui fine è stabilire il perimetro che delimita il posizionamento dei diversi ruoli (la mediazione “di alto profilo” che sarà proposta, a quanto si dice, in sede ministeriale prospetta l’attribuzione, all’interno della Cabina di regia, di 5,5 punti ai due rappresentanti regionali per bilanciare gli undici voti dei rappresentanti degli altri membri dell’organismo decisore).

In conclusione – ma ci sarà modo di tornare sull’argomento – invitiamo a lettura dei commi 2 e 3 dell’articolo 12 del decreto legge, riguardanti rispettivamente gli elementi che devono essere riportati nelle richieste dei comuni ed i criteri che la Cabina di regia deve adottare per selezionare le proposte. Sulla compilazione dei due elenchi una valutazione che si traduce in una domanda (senza attesa di risposta): è possibile che la complessità dei problemi che oggi investono le città si traduca in forme di tale sconcertante arretratezza culturale?

Postilla

Il nostro corrispondente ha una buona conoscenza degli ambienti nei quali è stata elaborata la proposta governativa. Le sua critica investe ulteriori aspetti della questione rispetto a quelli che abbiamo affrontato nell’eddytoriale 153. Conferma un connotato sconcertante della compagine governativa: la sua assoluta incapacità “tecnica”, non sanno progettare bene neppure la macchine volte al male che si propongono di avviare per realizzare la “crescita”. Ecco, su questo punto abbiamo un’idea diversa da quella espressa da Buccino: crediamo di conoscere checosa intenda questo Governo per ”crescita”: solo l’aumento del “prodotto interno lordo”, il PIL. Che cosa questo sia lo ha descritto con grande precisione Bob Kennedy. Per conto nostro sappiamo che il concetto di sliluppo e di crescita che il goveno “tecnico” mette nel conto comprende l’incremento del valore della rendita immobiliare. Ogni metro di aumento della “abominevole crosta di cemento e asfalto”, ogni volume edilizio costruito (quale che sia la sua utilità) aumenta il Pil: perciò ben venga, quale che sia il contributo che esso dia ai reali problemi della città e dei suoi abitanti

Vogliamo solo accennare a un’ altra iniziativa del governo Monti nella quale si rivela la pochezza culturale e “tecnica” della compagine montiana: ci riferiamo a quella forma draconiana di abolizione delle province che è stata decisa: come se il complesso disegno istituzionale (la forma italiana della moltiscalarità deil governo) non fosse un organismo complesso che l’uso della scimitarra distrugge ma non riforma; e come se non esistessero problemi essenziali del funzionamento del territorio urbanizzato che gli altri livelli di governo sono incapaci di risolvere. L’amarezza per i danni provocati dall’assoluta inadeguatezza del governo ad affrontare i problemi reali cresce se si considera che all’abolizione delle province sembrano opporsi solo quanti vedono minacciati i piccoli feudi che l’arcipelago dei partiti, vecchi e nuovi, che ha rovinato l’Italia negli ultimi decenni.

Duecentoventiquattromilioni di euro sono i finanziamenti disponibili per i progetti da finanziare con il Piano Città promosso la settimana scorsa dal Governo Monti con il Decreto Legge cosiddetto sviluppo. Pochi spiccioli per poter dire che c’è un reale cambio di rotta sullo stato in cui versano le nostre città. Si potranno finanziare forse dieci quindici progetti in altrettante città. I Comuni recupereranno progetti che giacciono nel cassetto o che non si sono guadagnati altre forme di finanziamento e li riproporranno. Ci sarà da augurarsi che si riesca almeno in parte a selezionare quelli più robusti, quelli che pur presentando interventi puntuali si applicano ad ambiti urbani unitari e che possano dare una qualche consistenza all’obiettivo della rigenerazione. L’attenzione dedicata dai media alla proposta, due pagine su Repubblica e il titolo di apertura, mette in luce il delicato momento che sta attraversando il governo: ci si aggrappa e quello che c’è, si fa quel che si può.

Rimesso nelle giuste misure l’intento del governo resta però la questione di fondo: la mancanza da anni nel nostro paese di politiche urbane di livello nazionale. Su questo chiamerei a riflettere, dipanando la nebbia della notizia che avvolge i fatti.

Il decreto riafferma la potestà del governo centrale a formulare iniziative rivolte alle Città, alla rigenerazione della città costruita. Mi pare un punto da non sottovalutare e sul quale pretendere che si vada avanti in modo serio, non frettoloso o perché sospinti dalla sollecitazione mediatica.

Rivendichiamo la possibilità che ci sia un’attenzione nazionale sulle città. In Italia da decenni non ci sono più politiche urbane e, invece, le città costituiscono una carta da giocare per uscire dal declino. Le politiche urbane degli anni Novanta (ricordate i vari Pru, Prustt, ecc…) sono ormai finite in una sorta di vicolo cieco, lasciate alle capacità dei singoli comuni.

Il secolo nuovo, nei suoi primi dieci anni, ha portato una “mistificazione” della questione urbana. Le politiche della sicurezza da una parte e il dibattito sul federalismo municipale, dall’altro, hanno dominato il discorso pubblico e hanno evitato che si affrontassero le questioni urbane entro a un quadro di respiro strategico che ne evidenziasse l’interesse nazionale dinanzi ai cambiamenti che le città hanno registrato nel ventennio a cavallo tra il secolo vecchio e il nuovo. Le città hanno subito cambiamenti profondi, per alcuni versi radicali.

Pretendiamo che l’affermazione di centralità delle Città nella politica del governo centrale, pur nel rispetto delle competenze e delle attribuzioni che restano alle Regioni, alle Province e ai Comuni, si affermi; pretendiamo che si individui un percorso reale che porti alla costruzione di un vero Piano nazionale per le Città d’Italia. Dobbiamo pretendere, anche in vista dei futuri programmi di governo, che le forze politiche si pongano l’obiettivo di ricostituire in sede nazionale un luogo di elaborazione e di attuazione di queste politiche (meno improvvisato e spartitorio della cabina di regia prevista dal decreto). Sparare sul Piano Città di Monti è come sparare sulla Croce Rossa e ci distoglie dalla questione vera che merita di essere affrontata: se e come le città possono tornare al centro dell’Agenda politica nazionale.

Una delle espressioni più alte dell’ambientalismo italiano risiede proprio nelle riflessioni e nelle azioni legate alla città e al suo territorio portate avanti nel corso degli ultimi cinquant’anni da una minoranza piuttosto agguerrita, alla quale l’Italia e gli italiani devono molto. Una storia di cui si parla poco, ma che andrebbe fatta conoscere nelle scuole a studenti ed insegnanti, poiché chiarisce strade ed obiettivi. una strada per il futuro. Questo è il senso più profondo che si può trarre dalla lettura congiunta dei due libri presentati insieme lunedì 18 giugno a Napoli presso la sede della casa editrice Clean: La misura della terra di Antonio di Gennaro edito da Clean Edizioni e Antonio Cederna. Un vita per la città, il paesaggio, la bellezza, pubblicato di Francesco Erbani pubblicato da La Biblioteca Del Cigno.

Si tratta di due libri apparentemente molto diversi. Una raccolta di articoli e interventi sulle vicende che hanno interessato il territorio (prevalentemente campano) il primo e la biografia di un grande ambientalista il secondo. Anche gli autori praticano attività professionali per nulla affini. Un agronomo, pianificatore e “misuratore della terra” e un giornalista raffinato, scrittore e saggista. A ben vedere, tuttavia, questi due libri non solo sono profondamente legati da una varietà di temi e di questioni, da un mondo di valori e di ideali, ma nel loro insieme raccontano un unico percorso intellettuale e civile di cui gli stessi autori sono al contempo interpreti e protagonisti.

Nel ripercorrere la vita di Antonio Cederna, Francesco Erbani ricostruisce e rappresenta questo percorso soffermandosi sulle elaborazioni teoriche e sulle battaglie e civili e politiche più significative portate avanti dal grande archeologo e giornalista: la difesa dei centri storici, la lotta contro la speculazione edilizia a Roma tra gli anni cinquanta e sessanta, la battaglia contro i condoni negli anni ottanta, l’attività da parlamentare, l’intensissima opera di sensibilizzazione sui costi del dissesto idrogeologico e della cementificazione delle coste.

Antonio Cederna apparteneva a quell’area di intellettuali che si era formata intorno a “il Mondo” di Pannunzio. Ed è dall’incrocio tra il liberalismo radicale e progressista di questo gruppo, che individuava nello stato il principale attore in grado di tutelare la società e l’ambiente dalle spinte distruttive provocate dal libero dispiegarsi delle forze di mercato, e i principi più autentici dell’urbanistica riformista propria della cultura politica di una parte del PCI poi Pds, che derivava l’idea originaria e fondante di quel pezzo importante della cultura territorialista italiana che Cederna contribuì a costruire e di cui rappresentò una delle figure di maggior rilievo fin dalla fine degli anni quaranta. Insieme a Italia Nostra e al FAI, a Elena Croce e ad Antonio Iannello, a Vezio De Lucia e a Piero della Seta, ad Aldo Natoli a Edoardo Salzano e a molti altri, Cederna maturava una concezione di intervento sul territorio non più inteso come mera registrazione del processo espansivo della città, ma come governo delle sue trasformazioni volto alla ricerca di un equilibrio il più possibile sostenibile tra attività umane e risorse naturali.

Appartenente ad un’altra generazione, Antonio Di Gennaro si connette con forza a questa tradizione e ne condivide valori e ideali, configurandosi come prosecutore ed erede di questo percorso. Ne La misura della terra, spostato il suo sguardo al Sud del paese e la sua sfera di azione alla Campania, egli ricostruisce in questo libro la storia del suo lucido (a volte precursore) punto di vista sulle trasformazioni del territorio campano nel corso degli ultimi otto anni e sul suo progressivo processo di distruzione e di irreversibile degrado: Oltre a ciò egli ci dà conto delle sue battaglie: quella contro l’approvazione del piano provinciale di Napoli nel 2003 che avrebbe in gran parte annullato gli effetti del Piano regolatore, la difesa e il sostegno al Parco delle colline di Napoli, la dura lotta contro l’approvazione del Piano Casa e molte altre .

Gli argomenti e i temi che i due libri pongono sono dunque numerosi e non è possibile qui trattarli tutti. Vale la pena, tuttavia, soffermarsi su tre importanti chiavi di lettura delle vicende che hanno interessato e interessano il territorio contemporaneo e che ambedue i libri sembrano offrirci.

Questa tradizione non ci indica solo i modi attraverso i quali difendere e tutelare risorse e paesaggi, ma definisce una weltanshauung, una concezione del mondo all’interno della quale trovano il loro posto la politica, la giustizia, l’economia. Il territorio rappresenta l’espressione del patto costitutivo di una società e del suo livello di civiltà, di benessere e di equità. Esso è storicamente un ambito eminentemente pubblico, è storia e ricchezza. I centri storici per cui lotta Antonio Cederna così come i terrazzamenti lungo le coste della Campania di cui ci racconta Antonio di Gennaro sono frutto di lavoro e di saperi sedimentati nel corso di secoli. Ed è proprio la sua dimensione storicamente pubblica che impone al territorio trasformazioni che tengano conto delle funzioni collettive che esso esprime. Tale dimensione impone anche che sia governato da chi è svincolato da interessi privati siano essi dei poteri forti che dei ceti più umili.

La storia di paesi e nazioni può dunque essere letta attraverso questa categoria. Ed uno dei caratteri originali della storia dell’Italia repubblicana risiede proprio nella debolezza con cui fin dal secondo dopoguerra lo Stato ha regolato il rapporto tra diritto di proprietà e diritto di edificabilità, tra attori privati e attori pubblici nell’ambito del mercato del suolo, delle acque, dell’energia e più in generale dei beni comuni. Da qui è nata una grande questione urbana intesa come modernizzazione senza sviluppo. Un’urbanizzazione caotica e disordinata e a bassa densità demografica ha prodotto consumo dei suoli più fertili, inquinamento, disagio sociale, problemi igienico sanitari, aggravio di costi pubblici, difficoltà di trasporto e così via. Ed è a questi scenari che Antonio di Gennaro dedica le pagine più belle, le più accorate e arrabbiate ad un tempo.

In alcuni parti del paese (si pensi alla parte meridionale della provincia di Caserta ed alla settentrionale di quella di Napoli) , poi, dove i poteri pubblici hanno consentito alleanze con la criminalità organizzata, questa caratteristica ha lasciato spazio al sorgere di intere città illegali, ha dato vita a quel ciclo del cemento che si è andato intrecciando a quel ciclo dei rifiuti tossici che è costantemente al centro della cronaca locale e nazionale.

Ma qual è dunque l’anello debole? Dov’è che le istituzioni pubbliche non hanno funzionato? Antonio di Gennaro e Francesco Erbani ci offrono una risposta dando una efficace rappresentazione di donne e di uomini che ricoprono ruoli di responsabilità all’interno dei poteri pubblici che si sono macchiati non solo di gravi atti di disprezzo del bene comune, di ricerca del proprio “particolare” interesse e del proprio personale consenso politico, ma anche di azioni che non sembrano sostenute da quelle competenze richiesta per delineare strategie in grado di governare trasformazioni così complesse che necessitano conoscenze profonde e visioni condivise di progetti e soluzioni. Il cuore della questione è qui, ed è in questo ambito che l’Italia rivela ancora tutta la sua fragilità.

Con il terremoto sono riapparsi, in velocità, subdoli e dimenticati fantasmi.

Si è tornati anzitutto a far distinzione fra edilizia di maggiore o di minore valore. Un argomento culturalmente superatissimo, ma determinante per legittimare e giustificare ogni azione di pulizia etnica nel campo dell’edilizia.

Gli edifici antichi e il patrimonio diffuso, fino a pochi giorni or sono nostro volto e nostra memoria collettiva, sono improvvisamente apparsi come pietre mute quando non possibile incombente rischio. Anche perché le strutture statali di tutela, istituzionalmente demandate proprio alla salvaguardia di “quei beni”, hanno subito dimostrato -quasi agendo contro natura- una inedita disponibilità ad autorizzare o tollerare demolizioni.

Non hanno convinto “gli altri” e non hanno agito “in proprio”. Non hanno preso le attese decisioni responsabili e comunque finalizzate alla salvaguardia del patrimonio, mettendo in atto (con altrettanta urgenza) interventi di messa in sicurezza come quelli, numerosi, che quelle stesse strutture avevano attivato nella zona di Reggio Emilia a seguito del terremoto del 1996. Interventi, esplicitamente previsti allora come oggi dalla normativa dei beni culturali, che avevano reso possibili opere rapide, economiche e di definitiva messa in sicurezza (con l’impiego di fasciature, incatenature, imperniature, incollaggi: non di puntellature). A Bagnolo in Piano, Villa Sesso, Correggio e in altre località e sempre in situazioni (campanili e altro) che apparivano staticamente compromesse, certo non meno di quelle per cui oggi viene approvata la demolizione. In altre parole: la “prevenzione”, non fatta nei decenni trascorsi, non viene condotta neppure -nei numerosi casi in cui è pur possibile- nell’emergenza.

L’opinione pubblica (cioè i cittadini, molto e dolorosamente provati dalla situazione), quasi liberati da ogni remora morale, si sono all’improvviso convinti che le demolizioni possono essere una soluzione: anzi, l’unica possibile soluzione per molti problemi del momento. Le richieste a procedere in tal senso si sono moltiplicate ed hanno assunto le più varie e stravaganti forme, tutte enfatizzate dagli organi di informazione. Gli stessi organi (carta stampata e non) anzi “celebrano” le modalità di esecuzione delle demolizioni, classificate in gruppi, dalla dinamite controllata fino allo smontaggio. Sembra di essere tornati…a proposito di fantasmi…alle (inizialmente lodate) demolizioni del 1908-09 a Messina o a quelle (aspramente criticate) del 1976 in Friuli.

Subito dopo la scossa del 20 maggio, molti Sindaci apparivano più rispettosi -nel confrontarsi con le strutture storiche antiche, la loro salvaguardia o la necessità di successive ricostruzioni- degli stessi organi di tutela (che operavano invece come e umilmente insieme agli Organi della Protezione Civile), poi anche quelle voci sono sembrate affievolirsi. Si è avviata una “spirale” nella quale gli uomini e le loro “cose” non rappresentano e non costituiscono più un unicum inscindibile.

E’ prevalsa una visione cavillosamente burocratica del “valore” degli edifici, in cui, ad esempio, la “stratificazione” (tutti i nostri edifici hanno momenti costruttivi di diversa epoca) da elemento di forza si trasforma in negativo apprezzamento. Quindi in inedita giustificazione per l’eliminazione, avendo anche messo in comparazione “quel corpo di fabbrica” con altre esigenze, ad esempio quelle della viabilità.

Ai gravissimi danni provocati dal terremoto si aggiungono quindi quelli voluti dall’uomo e dall’opinione pubblica, che ha fatto subito proprio il passepartout dei beni culturali.

Una cosa è certa: qualora si intendesse demolire il più possibile, si sta percorrendo la strada più opportuna e si sta utilizzando il momento più propizio. Dietro, forse, c’è lo spauracchio delle “puntellature a tappeto” del centro storico dell’Aquila, quelle che continuano ad aspettare, esauste, i futuri interventi di ripristino.

Con una singolare se pur casuale tempestività il Consiglio dei ministri, approvando il decreto legge (n. 59 del 15 maggio) che riordina e potenzia il servizio nazionale di protezione civile, è giunto a darsi il rinnovato strumento per governare gli effetti del sisma che meno di cinque giorni dopo avrebbe colpito l’Emilia.

La più rilevante (e inquietante) innovazione del provvedimento legislativo d’urgenza: il potere di ordinanza “in deroga ad ogni disposizione vigente”, riserva fino ad ora della responsabilità politica al più alto livello – il presidente del consiglio -, è conferito al capo del dipartimento della protezione civile.

E appunto, deliberato dal governo lo stato di emergenza nei territori delle province di Bologna, Modena, Ferrara e Rovigo, il capo della protezione civile ha inaugurato quel potere con le ordinanze del 22 maggio e del 2 giugno che minutamente organizzano gli interventi di soccorso, apprestando i necessari mezzi al riguardo, e in nessun modo considerano i concorrenti e irrinunciabili poteri delle istituzioni statali della tutela del patrimonio storico e artistico.

Se ne è invece preoccupato il segretariato generale del ministero dei beni e delle attività culturali che si è affrettato (25 maggio) a dettare con un proprio “decreto” un vero e proprio assetto organizzativo speciale di emergenza, creando appositi organi ai livelli centrale e regionale (ma è esercizio di potestà regolamentare che non spetta certo al segretariato) e a interpretare autenticamente le nuove disposizioni con una pedissequa e perentoria circolare.

E così come la “unità di crisi - coordinamento nazionale” istituita presso il segretariato generale non comprende e supera le direzioni generali dei diversi ambiti di merito, la direzione regionale, operando quale “unità di crisi – coordinamento regionale”, accentra in sè i compiti di rilevazione e intervento, perché “tutti gli istituti del MIBAC aventi sede nell’ambito territoriale dell’evento emergenziale [bene lo spiega la circolare] dovranno riferirsi esclusivamente[sottolineatura nel testo della circolare] alla direzione regionale territorialmente competente sia per le comunicazioni relative al danno subito che per i successivi interventi (rilievo e messa in sicurezza). La direzione regionale costituisce infatti l’unica struttura del MIBAC che, in stretto collegamento con l’unità coordinamento nazionale, opera in sinergia con le strutture territoriali deputate agli interventi in emergenza (prefetture, vigili del fuoco, protezione civile, enti locali)”.

Insomma, un ufficio di coordinamento amministrativo come la direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici, privo di attribuzioni di merito istituzionalmente affidate alle differenziate soprintendenze, tenuto allo “stretto collegamento” con l’unità di crisi nazionale, è identificato come l’unica struttura operativa che esercita la tutela nelle condizioni straordinarie di difficoltà e impegno. Così mortificate e in pratica escluse le soprintendenze di merito, l’esercizio della tutela è condannato alla subordinazione alla protezione civile ed è sollevato dal compito suo proprio (che non può essere sacrificato alla affermata esigenza di “sinergia”) di mettere in discussione il fondamento in concreto delle misure di massima precauzione perseguite (con sbrigative demolizioni), nei singoli casi di edifici tutelati e lesionati dal sisma, dalle diverse istituzioni preposte alla salvaguardia della pubblica incolumità. Che è quanto è apparso non sia avvenuto con la affrettata dichiarazione di condanna alla demolizione di più di un campanile, mentre ne è risultato accreditato tra i residenti lo schema polemico, comprensibile ma artificioso, della alternativa tra conservazione del bene e difesa della vita.

Quello che non hanno fatto le ordinanze 0001 – 0003 del capo del dipartimento della protezione civile (che pur avrebbero potuto derogare ad ogni disposizione vigente, salvi i principi generali dell’ordinamento giuridico) è stato dunque operato dal segretariato generale con il “decreto” che sospende l’esercizio delle competenze come affidate agli istituti territoriali di merito dal codice dei beni culturali e del paesaggio e disciplinate dal regolamento di organizzazione del ministero. Alle soprintendenze è stato in pratica sottratto lo strumento tipico, appropriato alle condizioni di urgenza, previsto dall’art.33, ultimo comma, del “codice”, il così detto “pronto intervento” (“In caso di urgenza, il soprintendente può adottare immediatamente le misure conservative necessarie”).

Crediamo che il decreto 25 maggio del segretario generale abbia introdotto una inammissibile lacerazione nel compatto tessuto della tutela, sia cioè palesemente illegittimo e soprattutto ci preoccupano gli effetti di burocratizzazione della funzione, mortificata nel suo esercizio nel merito e indebolita nella sua efficacia.

Non può stupire che nelle province colpite dal terremoto non sia stato attivato alcun pronto intervento, come invece era (1996) con successo avvenuto nei territori della bassa reggiana dove furono immediatamente messi in sicurezza i campanili danneggiati dal sisma di allora (e non meno gravemente rispetto a quelli di cui oggi è stata decretata la demolizione). Né può stupire che dalla prima manifestazione del terremoto, dal 20 maggio, sia stata vanamente attesa la voce dei soprintendenti per i beni architettonici (ridotta al silenzio, si direbbe), mentre per le istituzioni della tutela parla, esprimendo valutazioni di merito pure sui singoli casi controversi, la direzione regionale (e se è architetto il titolare, il ruolo amministrativo non esige affatto quella qualificazione professionale). Non stupisce quindi ma allarma che fino ad oggi la tutela si sia qui in Emilia espressa con l’assenso alle demolizioni e con l’avvertimento che non sono affatto scontate ricostruzioni sollecite.

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso ho incrociato molte delle vicende urbanistiche sulle trasformazioni delle grandi aree dismesse e/o da ridestinare a nuovo uso nell'area milanese (ex Falck di Sesto S.G., ex Alfa Romeo di Arese-Lainate-Garbagnate-Rho, ex Fiera di Milano, aree EXPO 2015, ecc.) che oggi suscitano tante discussioni, perplessità e spesso indagini della magistratura a causa del comportamento delle pubbliche amministrazioni coinvolte. Voglio soffermarmi qui su quella temporalmente più antica e che costituisce una sorta di preistoria delle vicende raccontate in questi giorni dai media a commento delle iniziative giudiziare della magistratura inquirente. A metà del 1992 mi chiama un consigliere comunale di opposizione (PRC) di Sesto e mi dice: so che in università studi il riuso delle aree industriali dismesse, qui ci propongono di entrare con un rappresentante in una società mista Comune-Falck, noi non ci capiamo niente, accettiamo solo se ci vai tu. Dopo aver tentennato un po', decido di accettare: meglio aver conoscenza di quel che accade e semmai uscire sbattendo la porta, facendo rumore sulle scelte non condivise! Si inizia - Sindaca Fiorenza Bassoli, presidente della società l'economista Ferdinando Targetti, recentemente scomparso – tra Natale e Capodanno del 1992, incrocio come rappresentante Falck Giuliano Rizzi, architetto allievo di Marescotti e già membro del Collettivo comunista di architettura negli anni Cinquanta, che – dopo aver studiato i piani di ricerca della Falck – propone un nucleo commerciale lungo viale Italia e sul resto dell'area centri di ricerca e sperimentazione produttiva nel riuso del rottame ferroso (carri ferroviari, frigoriferi, computers, ecc.). Una sfida intrigante su cui mettere alla prova la Falck sulle sue reali intenzioni; ma, nel frattempo, è diventato Sindaco Penati e il consigliere PRC è diventato vicesindaco e assessore all'urbanistica. Penati (primavera 1994) ci convoca e ci dice: smontare carri ferroviari e frigoriferi non è qualificante per la Sesto del 2000! Poi ci ordina di affidare un incarico da 500 milioni di lire (che la società non ha!) a Gregotti (che sta studiando il nuovo PRG e quindi non può assumere nuovi incarichi diretti), G.B. Zorzoli, Umberto Colombo (ex ministro della ricerca ed ex presidente CNEN) e un oscuro economista cileno con studio a Ginevra, Juan Rada.

Ci viene detto che hanno un piano di riuso delle aree e soprattutto clienti già pronti all'acquisto a prezzi che ripagheranno il costo dell'incarico e la ricapitalizzazione della società. Al nostro rifiuto di obbedire ci vengono imposte le dimissioni entro 24 ore, la società viene sciolta e ne viene costituita una nuova sotto la presidenza dell'ex assessore allo sviluppo economico Fabio Terragni, poi destinato ad una luminosa carriera dentro Pedemontana Spa.

Da lì in poi inizia la vicenda che altri raccontano in questi giorni con la vendita a Pasini, poi Zunino, poi Bizzi e con intricati giri di fatture milionarie (in euro!) ad off-shore olandesi, lussemburghesi e quant'altro, per oscure consulenze che – a chi proprio non vuole avere fette di salame sugli occhi – puzzano di tangenti lontano un miglio!

Dal giugno 1994 al luglio 1998 vengo chiamato a fare l'assessore a Rho e mi occupo, tra l'altro, dell'ex raffineria di Rho-Pero dove si insedierà in seguito il polo esterno di Fiera e dell'ex Alfa Romeo (di cui Rho ha nel proprio territorio una piccola quota) e in anni successivi, mi batterò coi cittadini della zona contro il progetto Citylife per il riuso dell'area della vecchia Fiera a Milano. Tutte battaglie perse, ma che forse è valsa la pena di combattere.

Oggi sembra che – almeno sull'ex Falck – la magistratura abbia deciso di metterci il naso, ma se la politica avesse voluto vedere e capire, avrebbe potuto farlo ben prima.

Postilla

In realtà la politica non poteva vedere perchè era cambiata l’ideologia. Non più rigorosa distinzione tra interesse pubblico e interesse privato, non più visione olistica della città e del territorio, non più sguardo orientato al future di noi tutti, non più la politica al servizio della collettività (e sinistra in difesa dei più deboli). Iniziò con l’urbanistica contrattata e con la critica al “giacobinismo degli urbanisti”, proseguì con lo smantellamento della pianificazione. Dalla lotta agli incrementi della rendita provocati dalle decisioni pubbliche si passò alla celebrazione della rendita (delle rendite) come motore dello sviluppo. Non bastò essere chiamati una volta nelle aule della giustizia per imparare. Anzi, si accusò chi difendeva la legalità di “demonizzare” i governanti che predicano e praticano l’impunità per chi comanda. Ricordiamo, per cambiare.

Qualche riferimento a testi in questo sito: P. Della Seta, E. Salzano, Italia a sacco; E. Salzano, 20 anni e più di urbanistica contrattata; W. Tocci, L’insostenibile ascesa della rendita urbana

A Sesto San Giovanni, a Milano Santa Giulia, il sistema Lombardia come quello di Bari o di Imperia e altri scandali ancora; l’urbanistica in giro per l’Italia è divenuta (è più giusto dire continua a essere) il luogo di scambio e di mercimonio: tangenti in cambio di metri cubi, soldi ai partiti in cambio di varianti urbanistiche con gli architetti mediatori che al telefono promettono la luna in cambio di un “progettino”.

Si dirà, come da sempre! Sì, ma con qualche elemento di novità dato dalle particolari condizioni di debolezza in cui sono ridotte le regole dell’urbanistica: oggi si può legittimare qualsiasi operazione, non c’è più l’obbligo della conformità al piano e nessuno più si straccia le vesti se bisogna giustificare qualche variante. E allora, perché le tangenti? Perché in assenza di diritti certi e di doveri altrettanto chiari l’edificabilità si concede al migliore offerente. Chi paga ottiene, e chi paga di più, ottiene di più.

Quanto emerge dalla cronaca segnala i comportamenti illegali, ma sotto a questi, nella prassi ordinaria e quotidiana, la sudditanza del soggetto pubblico agli interessi immobiliari dei privati è altrettanto evidente. Facciamo un esempio concreto. A Roma il Nuovo PRG, approvato nel Febbraio del 2008, prevedeva una certa quantità edificabile all’interno delle 18 centralità. Molti ricorderanno che le centralità furono descritte come la principale scelta strategica del nuovo piano. Nella centralità Romanina è consentita una edificabilità di 352.935 mq, il 58% è pubblica e il 42% privata. Nel settembre del 2011, l’operatore privato, proprietario anche delle aree, presenta all’amministrazione comunale una nuova proposta che prevede di edificare 600.777 mq, con un incremento del 70%. Ancora più rilevante è la variazione della ripartizione tra quota pubblica e quota privata che ora è rispettivamente del 5%, invece del 58%, e del 95%, invece del 42%. Tutto questo, a scanso di equivoci, è legale e si è svolto nell’ambito delle regole che l’amministrazione si è data. Infatti, la nuova proposta avanzata dal privato segue due “indirizzi operativi delle memorie di giunta” del 4 e del 20 ottobre del 2010 che portano la firma dell’assessore all’urbanistica della giunta Alemanno, Corsini. La questione quindi è: quali sono le ragioni che giustificano una variante così consistente a favore del privato, per altro dopo pochi mesi dall’approvazione definitiva del piano? Qual è l’utilità sociale che si ricava dall’autorizzare un nuovo intervento che prevede ora circa 10.500 abitanti in una delle zone più densamente costruite della periferie Est di Roma?

Le ragioni contenute nei due atti dell’amministrazione comunale sono di una debolezza sconfortante. Nel “considerato” della memoria di giunta del 20 ottobre si legge: “che tale istruttoria ha evidenziato una serie di criticità diffuse e comuni alle differenti situazioni, consistenti prevalentemente nella difficoltà sia di adeguamento e di realizzazione delle infrastrutture per la mobilità, sia di selezione e di allocazione delle funzioni urbane e metropolitane di pregio, sia di reale fattibilità finanziaria e gestionale dell’operazione complessiva;”. Si aggiunge, subito dopo, che un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dalle ridotte potenzialità edificatorie, l’indice medio di edificabilità territoriale nelle centralità private è di 0,28 mq/mq, e che pertanto “appare, altresì, necessario, a questi stessi fini, verificare la possibilità di incrementare la potenzialità edificatoria delle Centralità da pianificare, con una quota di Sul premiale da attribuire ai proprietari promotori delle Centralità, quale corrispettivo per il contributo offerto ai fini del conseguimento e del buon esito degli obiettivi pubblici e di interesse pubblico prefissati, attraverso il superamento delle summenzionate criticità;”. E’ il caso di tornare sui numeri e sulle parole. I numeri, si cita l’indice medio di edificabilità delle centralità private, comprese quindi quelle con funzioni diverse, ad esempio le superfici commerciali, al solo scopo evidente di fare riferimento a un valore medio basso, ma si omette di dire che la centralità per cui si sta decidendo la variante ha un indice edificabile di 0,38 mq/mq, superiore a quello medio. E poi le parole, una “Sul (superficie utile lorda) premiale.. quale corrispettivo per il contributo offerto .. al conseguimento degli obiettivi pubblici..”. Quali obiettivi? E come misurare il loro conseguimento? Si manipolano i numeri e si ricorre alla più banale retorica pubblica per conseguire, in definitiva, solo l’interesse del soggetto privato! Come detto non c’è nulla di illegale ma atti di questa natura sono anche più gravi e fanno luce sul problema reale che le città, e quindi anche Roma, vivono: la politica ha abdicato alle sue responsabilità verso la collettività a favore dei soli interessi privati e i documenti tecnici “apparecchiano” numeri e retoriche allo scopo.

La questione ovviamente non è mettere all’indice il ruolo del privato ma ristabilire una verità che dovrebbe essere ormai acquisita: l’intervento privato è tanto più importante e contribuisce all’ordinato sviluppo della città, quanto più esso si svolge all’interno di precise regole del gioco. Regole che hanno lo scopo di innalzare la qualità dell’intervento privato, di produrre ricchezza e, nello stesso tempo, contribuire alla costruzione di beni pubblici e conservare le risorse non riproducibili.

La questione quindi è come costruire un quadro di regole certe nel rapporto tra prerogative del soggetto pubblico e interessi dell’operatore privato. Pubblico e privato nella storia urbanistica italiana, soprattutto in quella del dopoguerra, si sono dati battaglia, e alcune sono state anche di particolare rilievo. Molti ricorderanno il tentativo di riforma della legge sui suoli proposta dall’allora ministro democristiano Sullo, una vicenda che non fu estranea, com’è stato accertato poi dagli storici, al tentativo di golpe del generale De Lorenzo, il famigerato Piano Solo. La riforma Sullo proponeva, copiando quanto già avveniva in altri paesi europei, il diritto di superficie: il comune espropria le aree da edificare, le urbanizza e successivamente le cede al privato in diritto di superficie, eliminando così la rendita fondiaria. Un’altra battaglia fu la legge Bucalossi, la legge 10 del 1977, che istituì la concessione edilizia e sancì il principio che l’atto di edificare era una potestà che spettava al soggetto pubblico il quale, attraverso le previsioni di piano, lo “concede” al privato. L’ente pubblico decide dove e quanto edificare e tramite la concessione edilizia concede al privato il compito di realizzare l’intervento e di conseguire il profitto che spetta all’imprenditore. Con la deregulation urbanistica, cominciata già nei primi anni ’80, il tentativo di affermare il primato del pubblico nella costruzione della città viene progressivamente meno e si afferma, sempre di più, il primato del privato, tanto che ancora oggi l’Italia non ha una norma sul regime dei suoli. Citare questi fatti sa di antico, di obsoleto, ma quelle sconfitte oggi pesano e la città nella quale viviamo è anche conseguenza di quelle vicende. Oggi la situazione è del tutto diversa, intanto perché la questione dei suoli connessa alla sola espansione della città è, almeno dal punto di vista quantitativo, meno rilevante. La città oggi è tutta costruita e le principali trasformazioni riguardano il territorio urbanizzato negli ultimi sessant’anni. La questione più rilevante è l’intervento nella città esistente. A questa condizione si lega poi il bisogno di ridurre il consumo di suolo salvando i brandelli di territorio ancora agricolo e non urbanizzato.

Affrontare una riforma seria e profonda del rapporto tra pubblico e privato nella costruzione della città che assicuri l’affermazione di principi comuni e consegua una migliore abitabilità della città, richiede diversi livelli di intervento. Non serve qui dilungarsi troppo sui diversi livelli (urbanistico, fiscale, giuridico,…) ci soffermiamo, invece, su quello che si potrebbe fare subito, a regime normativo invariato. Come insegna l’esempio di Roma la questione centrale è rafforzare la valutazione tecnica delle richieste di variante e rendere il processo decisionale tutto trasparente. Rafforzare l’istruttoria tecnica separandola dalle considerazioni politiche vuol dire fare la valutazione dei vantaggi concessi al privato e contemporaneamente avere la valutazione di merito dei vantaggi che il pubblico deve conseguire. Perché una tale valutazione possa essere fatta è necessario avere politiche pubbliche espresse con obiettivi chiari e soprattutto misurabili (quanti alloggi sociali si intende realizzare nell’arco di tempo considerato, quanti in quel settore urbano, quali infrastrutture per la mobilità sono necessari, quali servizi pubblici, ecc…). L’amministrazione comunale potrà definire così i modi e soprattutto i tempi della procedura di negoziazione che deve essere condotta coinvolgendo associazioni, comitati di quartiere rappresentanze locali al fine di svolgere una vera propria contrattazione territoriale. Spetta all’amministrazione pubblica decidere quando dichiarare concluso il processo negoziale; il fattore tempo può essere un aspetto decisivo tale da portare il privato ad accettare condizioni più gravose purché la decisione sia presa in tempi brevi. Una procedura trasparente, senza retorica e ipocrisie, che guarda il merito, che coinvolge le parti interessate e che si attiva solo quando è necessario modificare ciò che prevede il piano. Infatti, se non si dovesse raggiungere l’accordo il privato potrà sempre realizzare quanto previsto dal Piano regolatore generale.

Quello che si propone è che ogni variazione di piano sia riportata entro un quadro decisionale che guardi al complesso delle scelte che la città si trova a fare e che valuti le compatibilità complessive della variazione proposta, che ristabilisca quindi il quadro di coerenze che attribuiamo a una decisione quando questa è inserita dentro il Piano regolatore generale. Ogni variazione puntuale, se necessaria, deve seguire quindi una procedura di valutazione tecnica indipendente e un processo negoziale a guida pubblica che coinvolga tutti i soggetti interessati. Procedure negoziali di questa natura sono in vigore in città come Londra (si veda la procedura 106 della legge urbanistica) o in Germania; Roma non è necessariamente figlia di un Dio minore. Per farlo servirebbe però il primato della politica sui meri interessi particolaristici dell’economia immobiliare romana. Serve coraggio politico! Se si volesse intraprendere questa strada si troverebbero di certo altri alleati, come le tante piccole e medie imprese edili, schiacciate anche loro dai soliti noti, e poi si ritroverebbero soprattutto gli abitanti. Dovrebbe essere questo un criterio per decidere chi votare alle prossime elezioni comunali: chi ha questo coraggio?

Chissà se i cantori dello sviluppo del territorio alla padana sono mai andati a lavorare. Lavorare nel senso comunemente inteso, non in quello di saltellare da una sala convegni all’altra, costruendosi quel genere di punto di vista che considera le cose ad altezza d’uomo, non scrutate dall’alto o dal di fuori, che il freddo dei capannoni lo prova nelle ossa la mattina presto, che l’ingorgo sull’ennesimo cantiere eterno per revisione in corso d’opera lo vive come ansia per il ritardo e il rischio di licenziamento. Dato che non siamo in un paradiso artificiale del lavoratore governato dalla banda dei quattro, forse nessuno ha mai obbligato questi intellettuali organici al potere a strappare le erbacce in una risaia, a rispettare gli orari, a tirare qualche colpo di attrezzo a tot centesimi al colpo. Se sapessero di cosa parlano in termini umani e territoriali, discettando di sviluppo del territorio davanti a un microfono, forse inizierebbero a porsi qualche dubbio sulla sostenibilità del modello attuale, magari a partire dalla qualità media che garantisce.

Qualità bassissima, al limite dell’inesistenza, quella che si tocca con mano nel nostro sprawl, che molti non chiamano così giusto per non evocare altre culture, che l’hanno capito da tempo. Uno sprawl che fa schifo sul versante sociale, negando spazi di relazione, a volte addirittura vera accessibilità a quello stesso verde in cui gli immobiliaristi vogliono a tutti i costi immergerci, soprattutto negli opuscoli promozionali. La mancanza di spazi di relazione è evidente esattamente nel successo di massa del modello centro commerciale: perché mai la gente ci va con tutto quell’entusiasmo? Qualche improvvisato sociologo ci risponde che è per via della società dei consumi e dintorni, ma si scorda per strada l’aspetto spaziale. I corridoi e gli slarghi fra le vetrine sono un surrogato di quanto è stato del tutto cancellato (magari a bella posta) dalle lottizzazioni monocordi di stradine solo residenziali, ovvero tutto quanto somiglia a un parente dello spazio pubblico, a volte compresi i marciapiedi (a che servono, se si esce sempre in auto?). Non si perdono una puntata delle Casalinghe Disperate, e non si accorgono di stare nel bel mezzo di una storia identica, di solito senza lieto fine.

Lo sprawl fa schifo anche per chi si deve muovere, per chi vuole spostarsi. Anche qui salta fuori il solito cosiddetto buon senso comune che dice la gente vuole andare in macchina, e chi lo nega? Il fatto è di essere prima obbligati ad andarci, in macchina, perché non c’è altro modo, e poi ad ammucchiarsi costantemente a tutti gli altri disgraziati che al pari di noi subiscono la condanna alle quattro ruote coatte, di solito in fila a sprecare soldi e tempo. La coda per uscire allo stop dove la strada residenziale a fondo cieco sbuca sulla strada locale, poi il primo rallentamento dove la strada locale si avvicina alla rotatoria all’incrocio con la perpendicolare, e più oltre il solito blocco in vista dello svincolo, a chiedersi se c’è stato un incidente o c’è il solito nonno iperprotettivo coi nipoti in macchina che si è fermato in terza fila davanti al complesso scolastico, invece di entrare nel parcheggio. E non siamo mica i soli ad essere stressati, basta dare un’occhiata all’autista precario del furgone bianco per le consegne che impreca sull’altra corsia.

Allora, lo schifo sociale, più lo schifo mobilità, uguale schifo al quadrato. Però si va oltre, e si arriva allo schifo al cubo con quello che è saltato agli occhi (non solo, diciamo per l’ultima volta) col terremoto padano. L’aspetto più vistoso è il crollo dei capannoni sulla testa di chi ci lavora: ci sono i cultori dell’arte e gli studiosi dei centri storici che giustamente si infuriano per tutti quei monumenti senza manutenzione crollati in briciole, ma è davvero tanto più sconcertante che ad ammazzare le persone siano dei precompressi di cemento tirati su da pochi anni. In generale, è questa la qualità media degli spazi di cui i soliti cantori ci raccontano le meraviglie socioeconomiche? Il nostro relatore da convegno a gettone è lì sul suo piedestallo pagato dal contribuente, a raccontare di produzione, sinergie, concorrenza, luminosi futuri per la rete territoriale, e pensiamo un istante al materiale di cui è fatta, questa scricchiolante rete da pollaio. Capannoni che crollano perché bassa densità vuol dire anche bassa densità di controlli, strade che portano male e in modo inefficiente dentro a questi capannoni pronti a crollarci sulla testa, e infima qualità del vivere, dello studiare, del lavorare, del muoversi, del far spesa, dell’incontrarsi.

Fa schifo al cubo, e non è poi detto (come suona implicita la minaccia dei modernisti da strapazzo) che l’alternativa sia tornare al lume di candela, agli zoccoli senza calze, alla fetta di polenta quando c’è. Di solito è questa l’alternativa posta dai cantori dello sviluppo del territorio: vi lamentate tanto, ma c’è il progresso, e compagnia bella. Qualcuno addirittura a suo modo accetta la sfida e ribatte certo che si, torniamoci al lume di candela e alla fetta di polenta (e al fatto di non poter andare mai da nessuna parte, per esempio, come succedeva ai nonni), perché si stava tanto meglio. Discutibile, per non dir peggio. Certo l’alternativa non è cosa che si possa evocare facendo schioccare le dita, ma ragionarci fa bene. Hanno provato a farlo, tra gli altri, negli ultimissimi giorni, di diversi ma a mio parere complementari studi europei, uno sul modello equilibrato città campagna costituito dalla classica città giardino britannica, riproposta in una prospettiva molto contemporanea; un altro che affronta il ruolo di punta della città e della metropoli di fronte alla sfida del cambiamento climatico. Modello insediativo, sfide socioeconomiche e ambientali. Sono gli stessi temi emersi anche con l’ultimo terremoto padano, e ho provato ad affrontarli in parallelo in un altro articolo, a cui rinvio.

Nella sua replica al servizio di Gian Antonio Stella sul crocerismo a Venezia, il presidente dell'Autorità Portuale, Paolo Costa, fa almeno quattro affermazioni che non possono restare senza commento.

La prima, che l'inquinamento prodotto dalle navi da crociera in laguna sia “insignificante”. Basterebbero le due foto che alleghiamo a smentirlo (la foto “A” è della Norvegian Jade, entrata a Venezia il 2 giugno scorso, mezz'ora prima della Msc Divina; la foto “B” è della stessa Divina), ma ricordiamo che il tenore di zolfo presente nel carburante di queste navi è dell' 1,5% in navigazione e solo da poco dello 0,1% all'ormeggio in banchina. I controlli, saltuari, sono solo sui documenti di bunkeraggio e in ogni caso, tanto per capire, il tenore di zolfo nel diesel delle automobili è dello 0,001%, cioè 1500 volte inferiore. Il parlamento europeo, dopo aver valutato che almeno 50 mila persone muoiono ogni anno in Europa a causa dell'inquinamento delle navi, ha votato a fine maggio una direttiva che imporrà per tutte le navi il limite dello 0,5%, ma solo dal 2020. Già ora, nel Mar Baltico e nel Mare del Nord, tale limite è dello 0,1%: la laguna di Venezia è di minor pregio?

La seconda, che l'inquinamento verrà reso nullo all'ormeggio con l'alimentazione elettrica da terra. Al riguardo, esiste solo uno studio di fattibilità dell'Enel, non finanziato (si parla di 20 o 30 milioni di euro), per alimentare solo 4 navi delle 9 che a breve la Marittima potrà ospitare, contro le 6 di oggi: ovvero, l'inquinamento prodotto domani sarà identico a quello prodotto oggi.

La terza, che le navi non fanno onde. E chi mai l'ha detto? Il Porto continua strumentalmente a tirar fuori il falso problema delle onde di superficie per non affrontare il problema vero, e cioè gli effetti “sotto” dello spostamento (dislocamento) di migliaia di tonnellate d'acqua pari al peso delle navi che passano. Cosa succede sulle rive e le fondazioni di una città medioevale? Cosa succede nella fragile laguna che già ora per il passaggio delle navi nel canale dei petroli perde in mare circa un milione di metri cubi di sedimenti all'anno? Chiamare “ricostruzione ambientale” il devastante scavo del canale Contorta Sant'Angelo è proprio una mistificazione.

La quarta, l'indotto economico, dopo che finalmente anche Costa ha riconosciuto il “modesto” contributo del crocerismo all'economia turistica della città. Bene: dica Costa quali e quante imprese beneficiano dell' “economia di fornitura”. Dove sono localizzate? Quali ne sono i capitali, e dunque dove vanno i guadagni? Ci faccia vedere i conti. Perchè se di quelle centinaia di milioni di euro che Costa afferma girare molti non si fermassero a Venezia, la città farebbe (come al solito) solo la parte della mucca da mungere.

Tanto si è detto a proposito dell’occupazione della Torre Galfa, tanto si dirà, su una vicenda che tra l’altro è in pieno svolgimento. Il tema non è nuovo nella politica cittadina. La Lega al governo di Milano, per fare un esempio, riempì la sua altrimenti vuota agenda politica di proclami contro il “vecchio” Leoncavallo. Il fatto che Macao sia sorto sotto la Giunta Pisapia fa sperare che – nonostante le evidenti esitazioni dei giorni scorsi – l’intero tema possa essere inquadrato in un’ottica nuova, più evoluta e appropriata a quelli che sono gli interessi in gioco, che non sono e non possono essere quelli della sola proprietà (e ciò a prescindere dalla antipatia che può suscitare Ligresti e il suo gruppo). Il fatto è che una città è un corpo vivo, e le sue parti, i suoi palazzi, spazi, parchi, strade, manufatti di qualsiasi genere ne sono le membra.

E dunque la proprietà privata va certamente tutelata e garantita, ma nell’ambito di un’ottica generale di governo del territorio, nell’interesse di tutti i cittadini e degli stessi proprietari. Dopo decenni passati a discutere di responsabilità sociale dell’impresa, in termini spesso troppo astratti perché potessero incidere davvero sul mondo reale, il rapporto tra immobiliaristi e città – con riferimento specifico alla vicenda Galfa – consente di calare finalmente la questione nella realtà. Il fatto che grandi edifici giacciano abbandonati per anni nel cuore della città non è questione che riguarda solo la proprietà, come potrebbe essere il caso di un ninnolo lasciato ad ammuffire in soffitta dal suo trascurato proprietario. Il richiamo alle questioni del latifondo del sud Italia a chi scrive appare immediato. Anche lì si invocava l’applicazione della legge contro i contadini che occupavano abusivamente terreni che però i proprietari lasciavano totalmente incolti e abbandonati mentre le manovalanze pativano la fame.

La legalità ha un senso se attraverso il rispetto delle regole viene tutelato sì il diritto di una parte, ma senza che al contempo venga leso l’interesse comune. Se l’applicazione di una norma crea ingiustizie e problemi sociali è la norma che deve essere cambiata, non la società. Il saccheggio perpetrato ai danni del territorio e delle nostre città da immobiliaristi in passato appoggiati dalle amministrazioni pubbliche è sotto l’evidenza di tutti. Interi quartieri e cantieri nuovi pressoché vuoti o mai terminati, nessuna area verde per la città se non qualche albero qua e là che ci viene spacciato come giardino metropolitano. Progetti immobiliari avveniristici in piena crisi economica, di cui la bolla immobiliare peraltro è una concausa non certo secondaria. Nessuno, anche se proprietario, può aver il diritto di sequestrare alla comunità intere aree permettendosi di abbandonarle al degrado più totale, perché l’incuria finisce sempre per tracimare dal perimetro della proprietà trascurata, per riversarsi sui quartieri limitrofi a danno della popolazione che in quel territorio vive.

Non sarà forse il caso di Ligresti, a nessuno interessa oggi personalizzare la vicenda, ma a chi ha osservato le dinamiche degli ultimi anni lo schema appare chiaro. Attraverso il mio immobile che lentamente degrada e contamina il territorio circostante lascio che l’esasperazione degli abitanti cresca, che quel relitto li faccia sentire meno sicuri, meno felici, meno cittadini. Quando la situazione è matura mi presento, io proprietario (e dunque artefice primo di quel degrado), come salvatore, propongo un progetto di risanamento dell’area partendo dal mio immobile, così il comune mi concede cubature in più ed io monetizzo, facendo piccole regalie alla comunità, come una rotonda, una piccola pista ciclabile, o asfaltando un pezzo di strada. Questo modello di sviluppo a iniziativa privata deve cessare.

La città non è dei grandi proprietari. La città è di tutti. Pisapia ha un compito, se vuole dare un senso al suo governo: progettare una città diversa. Per farlo deve dialogare con chi propone, con chi è attivo affinché questa città rinasca e si possa ricostruire, non attraverso nuovi quartieri, ma attraverso nuova cultura. E questo compito non si adempie sgomberando con la forza pubblica chi vuole una città migliore, ma condividendo un progetto con i cittadini stanchi delle vecchie logiche, per anni spacciate come pensiero unico del libero mercato.

postilla

Corrado e Nicosia hanno ragione quando propongono l'analogia tra la questione odierna dei grandi complessi immobiliari nelle grandi aree urbane e quella - di mezzo secolo fa - dei latifondi nell'Italia centrale e meridionale, questi e quelli in preda all'abbandono e alla rapina della rendita (allora si chiamava assenteista). In entrambi i casi è inaccettabile che spazi essenziali per la vita della società siano sottratti all’utilizzazione più opportuna per le esigenze della civitas e lasciati in pasto alle decisioni della proprietà.Il fatto è che in Italia, fino a pochi decenni fa, queste leggi esistevano ed esistevano i loro strumenti e metodi. Esisteva la pianificazione urbanistica, nata nel 1942 e riformata nei decenni sessanta e settanta. Esisteva il potere dell'amministrazione pubblica di decidere le destinazioni d'uso più opportune in relazione a un progetto di città democraticamente deliberato. Esisteva, grazie alla legge Bucalossi del 1977, l'obbligo dei proprietari di attuare gli interventi previsti dai piani urbanistici e inseriti nei programmi pluriennali di attuazione. Il fatto è che a partire dagli orribili anni ottanta questo insieme di leggi e di strumenti è stato progressivamente smantellato nel silenzio e spesso nella complice compiacenza della parte maggioritaria della cultura urbanistica e della totalità della cultura politica. Per quanto riguarda il resto dell'intellettualità italiana, essa ha spesso denunciato i guasti prodotti al bel paese, al territorio, all'ambiente, ma si è raramente chinata a occuparsi degli strumenti della pianificazione urbanistica (vogliamo ricordare quella rara avis che fu Antonio Cederna). Forse sarebbe ora di cominciare a farlo visto che i danni gravissimi provocati dall'uccisione del governo pubblico delle trasformazioni del territorio, dei sui principi metodi e strumenti.

Sarebbe bello, e anche utile, se il sindaco Pisapia organizzasse una pubblica riflessione per ricordare quel grande milanese che fu Pietro Bucalossi (nella foto in homepage: Sindaco di Milano negli anni '60 e Ministro dei Lavori Pubblici nei '70) , per raccontare ai contemporanei le fondamenta e il contenuto del suo tentativo, le ragioni e i modi in cui il suo progetto di migliore governo pubblico del territorio fu gradualmente smantellato. Se il sindaco raccogliesse questo invito, eddyburg sarebbe lieto di collaborare.

Provo ad aggiungere qualche breve considerazione sul dibattito che si è sviluppato su eddyburg a seguito della pubblicazione dei primi dati del nuovo Censimento del 2011.

Come è noto, il consumo di suolo è legato alla presenza sia di edifici ad uso abitativo sia di edifici non residenziali (alberghi, uffici, attività commerciali e produttive, trasporti, impianti sportivi, scuole, luoghi di culto, ecc.), tralasciando le infrastrutture. Oltre al numero assoluto di edifici, conta naturalmente anche la loro grandezza media ed il modo in cui sono stati realizzati (su un solo piano, su più piani, ecc.).

Ora, i dati che l’ISTAT ha reso al momento disponibili ci raccontano solo una parte della storia. Innanzi tutto, ci dicono che gli edifici complessivamente censiti nell’ottobre del 2011 ammontano a 14.176.371 unità; di questi, 11.714.262 sono edifici ad uso abitativo, mentre i restanti 2.462.109 sono edifici non residenziali. Purtroppo, il confronto con la situazione esistente nei decenni precedenti può essere solo parziale. Infatti, i dati sugli edifici vengono rilevati dall’ISTAT solo a partire dal Censimento del 2001, mentre in precedenza venivano rilevate solo alcune caratteristiche degli edifici ad uso abitativo.

Se facciamo comunque il confronto con il 2001 risulta in particolare che:

• gli edifici totali (residenziali e non residenziali) sono passati da 12.774.131 unità a 14.176.371 unità, con un incremento in termini assoluti di circa 1,4 milioni di unità (+11%); è importante sottolineare che nel dato relativo agli edifici totali sono compresi anche gli edifici che al momento del Censimento non risultavano utilizzati perché in costruzione, ricostruzione o in fase di consolidamento oppure perché in stato di decadenza, rovina o in corso di demolizione (nel 2001 gli edifici non utilizzati ammontavano complessivamente a circa 725 mila unità, pari al 5,7% del totale);

• gli edifici ad uso abitativo sono aumentati in misura abbastanza modesta (+4,3%), essendo passati da 11.226.595 a 11.714.262 (meno di 500 mila unità in più);

• infine, gli edifici non residenziali – che comprendono anche quelli non utilizzati – sembrerebbero viceversa essere aumentati in modo molto rilevante (+59%), poiché dovrebbero essere passati da 1.547.536 unità (2001) a 2.462.109 unità (uso il condizionale perché l’ISTAT non ci dice esattamente quanti sono, ma questo dato può essere tuttavia ricavato per differenza, sottraendo agli edifici totali il dato relativo agli edifici ad uso abitativo).Per comprendere meglio questo fenomeno sarebbe tuttavia utile conoscere più nel dettaglio quali tipologie di edifici non residenziali sono aumentate maggiormente nell’ultimo decennio, distinguendo gli edifici utilizzati a fini produttivi (alberghi, uffici, laboratori, impianti produttivi, ecc.), dagli edifici che ospitano attività sportive, ricreative, scuole, ospedali, chiese, ecc. e dagli edifici che risultano non utilizzati .

Da questi primi pochi dati mi sembra quindi di poter affermare che la “cementificazione” del Paese segnalata da alcuni quotidiani, sia un fenomeno che – laddove venisse confermato da dati più analitici al momento non ancora disponibili – è da ricollegare soprattutto al boom dell’edilizia non residenziale. Per esprimere giudizi più circostanziati sarebbe inoltre opportuno chiarire direttamente con l’ISTAT quali eventuali limiti presenti la rilevazione degli edifici, dal momento che non risulta al momento chiaro se il censimento degli edifici sia a carattere sostanzialmente esaustivo oppure trascuri alcuni edifici, ed in particolare le costruzioni più ingombranti, come sostiene Meneghetti.

Per quel che riguarda invece l’edilizia residenziale, non c’è viceversa alcun dubbio sul fatto che la situazione sia andata apparentemente migliorando nel nostro Paese, almeno rispetto agli anni precedenti. Per avvalorare questa tesi credo sia sufficiente considerare i tassi di crescita delle abitazioni mettendoli a confronto con quelli delle famiglie e facendo riferimento ad un arco temporale che copre gli ultimi 50 anni. Come emerge chiaramente dalla tabella seguente, se nei tre decenni che vanno dal 1961 al 1991, il tasso di crescita delle abitazioni nel nostro Paese è stato non solo molto sostenuto (sempre a due cifre), ma anche nettamente superiore al tasso di crescita delle famiglie, nell’ultimo decennio la situazione si è completamente invertita, visto che l’incremento delle abitazioni – oltre ad essere stato percentualmente modesto (+6%) – è risultato pari a meno della metà di quello degli alloggi (+12%). La conseguenza è stata ovviamente un aumento del tasso di occupazione abitativa, che è passato dall’80,5% del 2001 all’83,1% del 2011, il che non può che essere interpretato come un segnale di un utilizzo se non altro più efficiente del patrimonio abitativo esistente.

[tabella e note nel file .pdf allegato]

L’Istat pubblica i risultati “in via provvisoria”, ma in forma talmente definita per i numeri (le tabelle denominate Prospetti) e, al contrario, ambigua per le definizioni, che la cautela nell’interpretazione – già qui perorata da Vezio De Lucia – diventa un obbligo. Ad ogni modo, consultare la fonte diretta è meglio che affidarsi a quanto giornali e altri siti diversi da quello dell’istituto statistico hanno pubblicato. Ne ho ricavato le osservazioni seguenti (ed eviterò di citare numeri in apparenza veritieri perché precisati all’unità, li arrotonderò al migliaio).

Le famiglie residenti sarebbero 24.512.000 e le abitazioni occupate appunto da residenti 23.998.000. L’avanzo, se così possiamo chiamarlo, di 514.000 famiglie rispetto agli alloggi, indica un probabile aggravamento della coabitazione, che riguarderebbe almeno un milione di famiglie, giacché l’avanzo di dieci anni prima era sensibilmente minore, 388.000 (scrive De Lucia: “…rilanciare l’urgenza di una politica abitativa dai forti connotati sociali). Le abitazioni in totale sono aumentate del 5,8 per cento (da 27.292.000 a 28.864.000) ma quelle occupate da residenti lo sono del 10,83; il paragone con l’aumento delle famiglie residenti, 12,4 per cento, confermerebbe l’ipotesi circa la coabitazione.

Il moderato aumento delle abitazioni totali sarebbe dovuto alla diminuzione delle ”altre abitazioni” che, esempio massimo di doppiezza, mischiano quelle non occupate (cioè vuote o seconde case) a quelle occupate da non residenti. Così uno dei fenomeni più gravi, l’enorme spreco degli alloggi vuoti, in buona parte seconde case, potrebbe essere da altri visto come parziale contenitore di abitanti non censiti per lo più stranieri; il cui numero, se così fosse, a mio parere non potrebbe che incidere marginalmente. I 3.770.000 stranieri rilevati dall’Istat sono stranieri residenti, quindi censiti in abitazioni occupate da famiglie residenti, probabilmente partecipi non secondarie dei casi di coabitazione.

Comunque, accettando le quantità presentate nel prospetto 14, risalta la diminuzione degli alloggi che preferisco unificare sotto la dizione “non occupati”: da 5.639.000 a 4.865.000 (dal 21 al 17 per cento del totale). Le 774.000 unità in meno dal 2001, calo di misura mai verificatasi nei precedenti periodi intercensuari dal dopoguerra, spiegherebbero la decelerazione dell’aumento delle abitazioni in complesso. Non arrischio alcuna motivazione (crisi economica, crisi del mercato edilizio, restrizione dei prestiti…). Sono però convinto che la vecchia affermazione di Pier Luigi Cervellati, “abbiamo prodotto troppe case, abbiamo prodotto le case che non servono”, rimanga valida. Le case che non servono hanno accresciuto fortemente il potenziale distruttivo già detenuto da quelle ritenute necessarie: le une e le altre hanno invaso il paese in maniera anarchica, smaccatamente liberistica in “assenza di una corretta pianificazione urbanistica e territoriale, causa della devastazione del territorio e del crescente disagio dei suoi abitanti” (Salzano, in Postilla all’articolo di De Lucia sopra citato). Sul problema del conteggio delle abitazioni non occupate i miei dubbi superano quelli inerenti ad altri soggetti. In una lettera a eddyburg del 13 marzo scrivevo che nel 2005 il Coordinamento europeo per l’alloggio sociale indicava nel 24 per cento la quota di alloggi vuoti in Italia. Sarebbero bastati cinque o sei anni per attenuare in misura rilevante un fenomeno che ha segnato malamente il nostro paese più di ogni altro in Europa, per oltre mezzo secolo?

Ultima annotazione rivolta al censimento degli edifici, settore per il quale l’Istat sembra voler impedirci di avvicinare una plausibile verità degli accadimenti, essenziale per valutare il reale consumo di suolo, la “cementificazione” – come usa dire – del paese, non bastando evidentemente per questo scopo il computo delle abitazioni. “Per ciascun comune, nelle sezioni di centro e nucleo abitato sono stati censiti tutti gli edifici presenti, mentre nelle sezioni classificate come ‘case sparse’ e ‘località produttive’ la rilevazione è limitata ai soli edifici residenziali”: questo l’incomprensibile criterio adottato dall’istituto. Sono sparite dal resoconto proprio le costruzioni più ingombranti e, lo sappiamo, poco o niente controllate dai Comuni dal punto di vista urbanistico e edilizio: quell’enorme massa di capannoni, centri commerciali, eccetera che non è di sicuro distribuita ”nelle sezioni di centro e nucleo abitato” e che invece ha ricoperto persino le campagne dell’agricoltura alimentare oltre agli spazi liberi fra le case sparse. Il territorio di intere regioni è stato sconvolto dai nuovi mostri; è successo non solo nel sempre nominato Veneto (la sua classe dirigente e i consenzienti ceti subalterni…) come caso limite della distruzione del proprio paesaggio, ma dappertutto secondo una scala di disvalori urbanistici e paesistici non sempre consequenziale a quella dello sviluppo economico.

Concludendo sul bilancio statistico degli edifici: il censimento del mero numero già dichiarato parziale dall’Istat è da contestare. Un aumento dell'11 per cento comprensivo di un 4,3 per cento relativo agli edifici residenziali (Prospetto 15), dato ripreso piattamente da alcuni giornali, descrive una condizione del consumo di suolo lontanissima da quella che solo un’indagine anche dei manufatti prima esclusi, secondo la loro tipologia e la superficie di territorio occupato, potrà certificare.

Milano, 7 maggio 2012

Seguendo la cronaca concitata di un qualunque pomeriggio padano di recessione, con il piccolo imprenditore indebitato che si barrica dentro gli uffici delle tasse in un piccolo centro della media pianura, sparando contro il soffitto con un fucile a pompa, non potevo fare a meno di ripensare a un’altra cronaca di alcuni mesi fa, probabilmente scivolata nel dimenticatoio. È un giorno di inizio gennaio 2011, e alla periferia di Tucson, Arizona, l’ennesimo ragazzo in stato di confusione mentale si presenta armato davanti a uno shopping mall, e apre il fuoco contro un piccolo comizio della deputata Gabrielle Giffords: sei morti, fra cui un importante magistrato, e la stessa Giffords ferita molto gravemente insieme ad altri. I resoconti della stampa, poi, si soffermavano abbastanza naturalmente sulle biografie dei protagonisti, andando a cercare amici, testimoni, gente del posto. E qui arrivava l’aspetto forse più interessante per il resto del mondo, incluse le medie pianure bergamasche.

La descrizione del quartiere North Soledad – dove abitava il ragazzo – immerso nello sprawl dell’Arizona, era piuttosto illuminante. File di villette con giardino, qualcuna un po’ mal messa, altre più in là pignorate e in attesa di improbabili nuovi occupanti, altre ancora con qualche abitante arrivato qui negli anni del boom trascinato dall’edilizia, e ora alle prese con la recessione e i conti da far quadrare, le rate del mutuo, la benzina sempre più cara ma indispensabile per far andare il furgoncino dell’impresa individuale, o per andare a far spesa al supermercato, una decina di chilometri minimo, intesi come dieci all’andata e dieci al ritorno. E torniamo invece a Romano di Lombardia … invece? Invece un accidente, verrebbe da dire: schiere di villette con la macchina parcheggiata sul viale di ghiaia, appena fuori dall’antico fossato che ancora cinge il centro storico praticamente non c’è altro, per chilometri e chilometri. I capannoni delle aree industriali-artigianali che chiudono comunque sempre l’orizzonte, salvo dalla parte delle Orobie a nord, in mezzo ai quali spesso spuntano curiose nuove attività, sempre capannoni con parcheggio ma bar o centri abbronzatura con tanto di palma finta illuminata, parecchi cartelli VENDESI o AFFITTASI.

Tanto lavoro operaio, tanta piccola impresa, edilizia coi furgoncini che ancora escono la mattina presto per andare magari fino a Milano, nei piccoli cantieri di riqualificazione commerciale del centro. Il sequestratore dell’ufficio tasse era titolare di una piccola attività di servizio nel settore pulizie. E centri commerciali che pullulano ovunque. Solo per citare geograficamente i più grossi, c’è il Borgo giusto sulla rotatoria appena fuori Romano, poi le Acciaierie a Santa Maria del Sasso, nel vuoto pneumatico della pianura dove pascolano le vacche, e giù a cavallo della Padana, anche lui in trepida attesa del serpentone Bre.Be.Mi., l’ultimo arrivato di Antegnate, ancora circondato dal marasma di cantieri dell’autostrada spudoratamente concepita per lo “sviluppo del territorio locale”. Per adesso i cantieri arrancano, complice anche uno dei tanti guai giudiziari della Regione, quando si è scoperto che sotto il serpente d’asfalto volevano nasconderci e anzi ce li avevano già nascosti, dei micidiali veleni. Ma se l’autostrada non c’è ancora, i suoi cosiddetti prodotti collaterali abbondano, e del resto è per quello che è stata progettata sul nuovo percorso, ad accontentare gli appetiti locali di capannoni, svincoli, cinture, bretelle, varianti.

E adesso? Adesso i carabinieri si sono portati via il sequestratore di Romano, e il dibattito anche giustamente si sta concentrando per un verso o per l’altro sulla recessione, le tasse, il cittadino lasciato solo davanti alla crisi. Ma chissà cosa stanno combinando e macchinando i fat cats ai piani alti del Formigone, il monumento alla propria vanità fortemente voluto dal cosiddetto “Celeste”, che da una quarantina di chilometri scrutano la pianura che considerano proprio possedimento e dominio. Di sicuro non hanno alcuna intenzione di rinunciare al loro modello di “eccellenza” a base appunto di sprawl che si autoalimenta, e trasformazioni territoriali in un modo o nell’altro a carico del contribuente. Magari, come cantava Johnny Cash, quegli alti papaveri stanno lì “probably drinking coffee, and smoking big cigars”. Mentre l’altro lo trascinano via, e già qualche ufficio stampa prepara gli inevitabili profili da psicopatico, il gesto sconsiderato, o magari lo slogan contro il fisco in genere.

Resta il fatto che, da un piccolo modesto punto di vista, quando si usano certi criteri di giudizio, magari anche certi termini come il solito sprawl, non si vuol fare nessun esotismo, ma solo provare a ricordare che ormai davvero tutto il mondo è paese, tutto ciò che capita sta capitando anche a noi, “altrove” è un concetto geografico che va sempre spiegato. Il fucile a pompa che spara sul soffitto nel pomeriggio di un giorno da cani, davanti al parcheggio di un centro commerciale, ormai ce lo dobbiamo tenere. E forse sarebbe meglio prendere però anche sul serio gli anticorpi culturali che certe situazioni hanno già prodotto: quelli sono tutt’altro che esotici, e invece utilissimi per esempio a sbugiardare gli ideologi del finto ovvio.

Mi sembra che siano esagerati o sbagliati i titoli e i commenti di molti giornali a proposito dei primi dati del censimento 2011 relativi alla produzione edilizia. “L’Italia del cemento”, titola la Repubblica, e scrive che «una nuova cementificazione selvaggia ha violentato l’Italia». Non è così almeno per quanto riguarda la costruzione di nuovi alloggi. Anzi. Basta osservare che nel 2011 le nuove abitazioni sono aumentate del 5,8 per cento rispetto al 2001 mentre le famiglie sono aumentate del 12,4 per cento, cioè più del doppio degli alloggi.

La conseguenza è l’aumento del tasso di occupazione abitativa che passa dall’80,5 per cento del 2001 all’83,1 per cento del 2011. Nell’Italia centrale le abitazioni occupate da residenti raggiungono l’87,8 per cento e nell’Italia Nord-Occidentale l’85,5 per cento. Considera che venti anni fa il tasso di occupazione era in Italia del 79 per cento. Mi pare evidente un certo miglioramento, nel senso che l’innalzamento del tasso di occupazione significa una riduzione dello spreco edilizio.

D’altra parte, la persistenza, anzi l’aggravamento degli squilibri, è subito confermato dalle 71 mila famiglie (erano 23 mila nel 2001) che vivono in “altri tipi di alloggio” eufemismo per “roulotte-caravan, tenda, camper, baracca, capanna, grotta, garage, cantina, stalla” (definizione dell’Istat). Basta andare appena fuori della periferia storica di Roma per rivedere situazioni che pensavamo cancellate dagli anni del sindaco Petroselli.

Non traggo nessuna conclusione, ha ragione Michele Serra, le statistiche sono una lingua da tradurre con molta circospezione. Mancano i dati relativi all’edilizia non abitativa e i numeri relativi a non meglio specificati “edifici” non significano nulla. Dovremo approfondire l’analisi per ambiti ristretti, a partire dalle città e dalle aree metropolitane. Ma non possiamo per questo sottrarci ad avviare una riflessione sul tema. Intanto per due ragioni:

- per mettere in guardia dalla prevedibile onda revisionista, non so come chiamarla, di chi coglierà l’occasione della differenza fra l’aumento del numero delle famiglie e il minor aumento del numero degli alloggi prodotti per rilanciare le magnifiche sorti e progressive dell’espansione senza fine e per ripetere che solo il libero mercato edilizio può risolvere il problema. Mi sembra che si debba invece rilanciare l’urgenza di una politica abitativa dai forti connotati sociali, a tutte le scale, dal governo nazionale alle regioni ai comuni, una politica che da circa venti anni è uscita di scena;

- la seconda ragione è che seppure il numero delle abitazioni costruite è minore rispetto a quanto si poteva immaginare, non si è certamente ridotto il consumo del suolo urbanizzato, che anzi negli ultimi anni – come dimostrano tutti i dati di cui disponiamo, anche se parziali e difformi – è aumentato vertiginosamente. Secondo me la spiegazione sta soprattutto nel fatto che la più recente edificazione avviene a bassa, bassissima densità (a Roma si sono costruiti nuovi quartieri con 13 abitanti/ettaro, e nel Mezzogiorno abusivo non si raggiungono i 10 abitanti/ettaro). Non dovunque è così, e anche in proposito sono necessarie analisi approfondite e circostanziate. Ma non si possono fare passi indietro nell’opposizione netta e determinata al consumo del suolo.

Postilla

Le analisi imprecise conducono sempre a proposte inadeguate al problema. Così è stato nella fase iniziale del dibattito sul consumo di suolo, quando si sono confusi i dati delle diverse fonti (e si è assunta la riduzione della superficie delle aziende agrarie come la misura dell’aumentato del consumo di suolo) o si è ritenuto che la modernità tecnologica dello strumento di rilevamento (il Corine) garantisse la precisione del dato rilevato.

Una lettura attenta dei dati del censimento può essere l’occasione di aggiornare l’analisi della reale situazione del territorio in relazione ai bisogni che il territorio deve soddisfare. Solo in questo modo si potranno individuare le politiche giuste per raggiungere due obiettivi che devono sempre essere strettamente congiunti: risparmiare la sottrazione del suolo al ciclo biologico, e sodisfare i bisogni reali (socialmente e umanamente utili) che fanno del territorio l’habitat dell’uomo.

Da questo punto di vista mi sembra che anche una prima lettura dei dati del censimento confermi due tesi:

1) L’assenza di una corretta pianificazione urbanistica e territoriale è causa della devastazione del territorio e del crescente disagio dei suoi abitanti. Chi frequenta eddyburg sa che per corretta pianificazione intendiamo quella volta a realizzare la “città dei cittadini” e non quella della rendita.

2) Assumere il mercato come il meccanismo risolutore (il dominus) della soluzione dei problemi che la condizione urbana deve soddisfare è un errore analogo a quello che compie il medico che cura la malattia ammazzando il malato.

Queste tesi erano ampiamente condivise nei decenni che hanno preceduto i nefasti anni Ottanta. Abbandonarle e distruggere (o lasciar distruggere) gli strumenti che si erano predisposti per trasformarle in fatti è stato l’errore più grave che la cultura politica e quella urbanistica hanno compiuto.

Non è una “visita guidata”; se qualcuno dei frequentatori più assidui e più pazienti volssi farla sarebbe un bel regalo. Oggi ci limitiamo a segnalarvi qualcuno dei numerosi scritti sull’argomento nascosti nei quasi 19mila articoli accolti in questo sito.

Oltre ai due brevi testi di Marx raccolti nel “Glossario” Lavoro, secondo Marx, vi segnalo tre articoli recenti di Laura Balbo, L'economia e il lavoro fuori del mercato, tratto da Sbilanciamoci, Giorgio Nebbia Il lavoro: Orgoglio, non solo reddito e Piero Bevilacqua, Un reddito oltre il lavoro, gli ultimi due nella rubrica “Opinioni” di eddyburg. Poi vi rinvio all’ Eddytoriale n. 89 e all’Eddytoriale n. 144 specificamente dedicati alla questione del lavoro.

Naturalmente nelle cartelle “Sinistra”, “Giornali del giorno”, “Capitalismo oggi” e “Recensioni e segnalazione” (tutte nel settore "Società e Politica") troverete altri numerosi articoli che affrontano l’argomento. Mentre un approfondimento del tema da un punto di vista dell’economia come dimensione dell’uomo lo trovate in alcuni testi di Claudio Napoleoni, quali Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e nella sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ho ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)

Un gran numero di Associazioni, Onlus, collettivi, cooperative etc. comprendenti da AIAB a Campi Aperti, da Crocevia a Civiltà Contadina, da Libera a Slow Food, hanno con manifestazioni, presidi, lettere alle commissioni parlamentari, preso posizione sulla vendita dei terreni agricoli demaniali che il Governo Monti ha di recente approvato (Decreto1/2012). La norma che la prevede è contenuta nel cosiddetto “decreto liberalizzazioni” (all'art.66) che specifica e in qualche misura aggrava quanto già previsto dalla legge del 12 novembre 2011.

In alternativa alla vendita dei terreni “agricoli o a vocazione agricola” demaniali, auspicata anche da CIA e Coldiretti, gli oppositori proponevano la concessione in affitto a equo canone, con priorità ai giovani agricoltori per:

- contrastare ai processi di ulteriore concentrazione della terra agricola nelle mani di un sempre minore numero di aziende di grandi dimensioni (un “landgrabbing” a scala nazionale) con conseguente drastica riduzione delle piccole proprietà contadine considerate più virtuose quanto a distribuzione dei redditi e cura della terra;

- l'esclusione di occasioni e facilitazioni per il riciclaggio, nell'acquisto della terra, di risorse finanziarie originate da attività criminali;

- l'esclusione di opportunità per speculazioni immobiliari possibili con l'ottenimento di cambi di destinazione d'uso dei terreni alienati.

L’iniziativa, pur non avendo ottenuto alcun esito, ha avuto il merito di porre sulla questione ipotesi diverse certamente più interessanti e con prospettive meno limitate del far cassa vendendo un bene demaniale, ma forse questa occasione costituisce una opportunità per affermare e iniziare a praticare, attraverso un progetto mirato, un paradigma economico-sociale e politico davvero alternativo centrato sul lavoro, la biodiversità e i servizi ecosistemici, la terra e i suoi prodotti come bene comune, la solidarietà, la condivisione.

Il progetto

Secondo l'Agenzia del Demanio, che utilizza dati del Censimento per l'Agricoltura 2010, l'estensione dei terreni agricoli demaniali sarebbe di oltre 338.000 ha. per un valore che oscilla fra 5 e 6 miliardi di Euro ma è facile prevedere, anche sulla base di passate esperienze di vendita di beni pubblici immobiliari che, un po' per la scarsa capacità di vendita da parte degli enti pubblici, un po' perchè a fronte di una tale ampia offerta i prezzi scenderanno, un po' perchè sono sempre in agguato meccanismi clientelari e abusi, l'ammontare complessivo di introiti derivanti dalla svendita potrebbe essere di molto inferiore alle previsioni.

Dove si trovano questi terreni? In quasi tutte le regioni; dal Piemonte (56000 ha) al Lazio (41000 ha), dalla provincia autonoma di Trento (30000 ha) a quella di Bolzano alla Lombardia e Basilicata (oltre 20000 ha). Oltre i 10000 ha sono anche in: Calabria, Toscana, Campania, Veneto, Marche, Puglia, Molise e Sardegna. Una distribuzione piuttosto uniforme tra Nord Centro e Sud del Paese tale da rendere equa, in senso geografico anche una distribuzione dei benefici possibili con un progetto nazionale per affrontare le decisive implicazioni che la questione della terra riveste per il Paese e il suo futuro “possibile”.

Le questioni connesse alla vendita di questo patrimonio pubblico vanno infatti ben oltre le pur rilevanti criticità presenti nel settore agricolo da diverse parti evidenziate ed investono temi quali la conservazione del suolo, del paesaggio e della biodiversità, la qualità del lavoro, le relazioni sociali.

Intanto è certo che anche la semplice cessione in affitto dei terreni demaniali non risolverà comunque il problema dell'accesso al credito del settore che vede, soprattutto i piccoli e i giovani agricoltori dover contare solo sulle proprie limitate risorse, strozzati come sono da banche sempre più avare. Altrettanto certo è che le piccole aziende che riuscissero ad ottenere la terra, in proprietà o anche in affitto, continuerebbero ad essere escluse dall'enorme torta degli aiuti comunitari all'agricoltura che viene distribuita soprattutto a grandi aziende o consorzi di trasformazione e commercializzazione del prodotto agricolo (spesso per riconversioni che riducono i posti di lavoro) lasciando meno che briciole ai piccoli agricoltori.

E' ancora altrettanto certo che cedere semplicemente in affitto i terreni non inciderà minimamente sul problema della distorsione della filiera di distribuzione e commercializzazione dei prodotti agricoli che: strozza i produttori pagando il prodotto al di sotto dei costi di produzione; spreca energia nella conservazione del prodotto e nel suo trasporto; distrugge grandi quantità di prodotto come eccedenza; banalizza la qualità aprendo le porte a prodotti di importazione, spesso di basso valore qualitativo e alimentare, realizzati a basso costo con sfruttamento del lavoro. Pesa, infine, in termini di costi, su un consumatore reso incapace /di o indifferente/a valutare: qualità del prodotto e del processo produttivo in senso allargato esteso cioè a fattori normalmente trascurati quali la qualità del lavoro, dell'ambiente fisico e biologico; le caratteristiche genetiche, biologiche, nutrizionali, organolettiche del prodotto; il sistema delle relazioni del territorio in cui avviene la produzione.

Il progetto a cui penso segue invece il sentiero tracciato negli ultimi anni da esperienze diverse che cominciano oggi a connettersi in reti sempre più estese e diffuse e che consentono di vedere già realizzato nella pratica un modo di produrre e consumare salvaguardando un futuro possibile per chi vive oggi, per i nostri figli e per il pianeta. Parlo dei produttori agricoli biologici e biodinamici, dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS), delle esperienze di Libera nella gestione dei terreni sottratti alle mafie, degli agricoltori custodi della biodiversità agricola, dei mercati di prossimità e “a km0”, dei mercatini aziendali autogestiti dai produttori. Ognuna di queste esperienze fornisce materiale su cui costruire un progetto che in modo sistemico promuova la qualità del lavoro contadino, sia nel senso di renderlo ricco di saperi e “saper fare”, che riportandolo al centro di un sistema di relazione con le comunità del territorio riconoscendolo non soltanto per la qualità di ciò che produce per l'alimentazione e il consumo, ma per ciò che produce come conservazione di servizi goduti da tutti (i servizi ecosistemici) ed essenziali quanto il cibo per il nostro benessere. E così ricostruisca su una base territoriale identificata dalla dimensione di comunità umane partecipi e solidali, il rapporto città-campagna come sistema relazionale in grado di produrre qualità ambientale, salute fisica e mentale, valori etici, estetici ed in ultima analisi economici.

Formazione e capacity building

Per raggiungere tali obiettivi occorre mettere mano in primo luogo ad un grande progetto formativo ed educativo sostenuto finanziariamente dallo Stato con risorse del tutto ragionevoli (100-150 Ml di €) e destinate ad essere restituite moltiplicate nel tempo perché capaci di produrre (come vedremo meglio in seguito) un ritorno certo, costante nel tempo ed enormemente superiore se misurato sul valore dell'insieme dei servizi resi. Risorse, infine, una buona parte delle quali potrebbe essere attinta dalle risorse comunitarie della Politica Agricola Comunitaria (PAC).

La formazione e la costruzione di capacità ad operare dovrà essere affidata, con una articolazione regionale o interregionale e con un coordinamento nazionale soltanto di indirizzo e di definizione dei target da raggiungere, ad associazioni ed organizzazioni che già operano localmente nel settore sulle linee concettuali del progetto massimizzando così le opportunità di partecipazione.

Si può più realisticamente stimare che sugli oltre 338.000 ha di terreni demaniali possano essere impiegati, come esito di questo progetto, almeno 100.000 nuovi (una parte dei terreni risulta già in uso agricolo con la presenza di addetti) occupati raggiungendo una media di circa un addetto ogni 2,5ha. Tale media di operatori/ha è tuttavia molto prudente per diversi ordini di motivi: nelle piccole imprese contadine biologiche e biodinamiche, come quelle che si intende costituire, la media di manodopera per ettaro è più alta che nella grande impresa; le nuove realtà produttive dovrebbero mantenere come criterio generale un ciclo integrato e diversificato di produzioni animali e vegetali che richiede normalmente maggiore intensità di manodopera; la produzione dei cosiddetti servizi agroambientali meglio descrivibili come servizi ecosistemici e di conservazione della biodiversità richiede un ulteriore maggiore impiego di manodopera; altri addetti saranno impiegati nella gestione amministrativa e organizzativa dell'impresa compreso il resource management (ad es. risparmio e produzione energia, riciclo acque); ulteriore occupazione potrebbe essere generata dalla produzione di servizi educativi e formativi in ambito aziendale rivolti ai cittadini e dall'esercizio di attività agrituristiche. Un lavoro, organizzato principalmente in imprese cooperative, quindi che si configura ad alto contenuto conoscitivo e di specializzazione (fare il biologico richiede più conoscenze e capacità) , a forte contenuto sociale per i servizi che è in grado di produrre a beneficio della comunità e nello stesso tempo un lavoro che, poiché è fondato su una interazione strutturale con le componenti umane e fisico biologiche del territorio in cui opera, non risente della cosiddetta competizione globale ed è liberato dallo sfruttamento che assume talora un connotato schiavistico quando controllato da organizzazioni criminali. Un lavoro, dunque la cui caratteristica di “sostenibilità” si coniuga non solo in senso ambientale, produce cioè un positivo impatto sulla ecologia e il paesaggio, ma anche e soprattutto in senso sociale in quanto legato al sostegno etico e solidale della comunità del territorio che ne riconosce anche il contributo fornito al suo benessere e alla qualità di vita.

Perciò è necessaria anche un'opera sia di informazione ed educazione, che di formazione mirata a creare l'integrazione della costituenda azienda agricola con i cittadini che ne consumano i prodotti e ne godono i servizi. Solo in tal modo, il consumatore riconoscerà a un produttore qualificato non solo adeguata remunerazione del lavoro ma sarà consapevole della complessità di un processo produttivo fino al punto di volerne condividere(come sta succedendo in alcune esperienze tra GAS e produttori in diverse parti d'Italia) i rischi oppure di partecipare a processi di certificazione. La formazione, oltre che a dotare gli addetti di conoscenze e saper fare adeguati alle articolate e diverse attività da svolgere in azienda con le caratteristiche delle produzioni biologiche e biodinamiche, sarà dunque orientata anche a costruire capacità di organizzazione di reti locali di commercializzazione dei prodotti basate su GAS, mercati di prossimità, spacci aziendali ed anche integrazione con la ristorazione collettiva (scuole, mense, ospedali,...) e di singoli esercizi (“menù a Km 0”) e con aziende di trasformazione locale (nell'insieme qualcosa di più di una “filiera corta”).

Coloro che opereranno in una gestione aziendale così articolata avranno anche una formazione che consenta, da un lato di utilizzare appieno strumenti di gestione hardware e software e di comunicazione come la rete internet e in particolare la sua dimensione 2.0, dall'altro di avere consapevolezza dell'importanza del resource management aziendale per produrne o indirizzarne l'ottimizzazione, infine di essere in grado di mettere in valore le caratteristiche della propria azienda e le competenze acquisite creando sinergie con le istituzioni locali (per attivare progetti rivolti alle popolazioni locali di educazione ambientale e alimentare, di formazione, etc.) e soprattutto accedendo alle erogazioni degli aiuti comunitari (da cui oggi le piccole aziende sono sostanzialmente escluse a vantaggio dei grandi gruppi industriali/commerciali) che proprio verso le produzioni di qualità, la polifunzionalità aziendale, la prestazione di servizi ecosistemici, saranno sempre più orientati.

Si pensi al fatto che già nelle premesse da tempo espresse della prossima PAC è presente una pregiudiziale a favore della Agricoltura ad Alto Valore Naturale (High Nature Value Farming, HNVF), cioè quella agricoltura che, per localizzazione e/o pratiche utilizzate, maggiormente contribuisce alla salvaguardia della biodiversità, e che verranno fortemente incoraggiate attività capaci di tutelare, conservare, riprodurre razze e cultivar locali che rappresentano la biodiversità genetica agricola di un territorio.

Chi saranno i nuovi lavoratori agricoli cui nelle intenzioni di questo progetto va destinata l’attività di formazione? Certo una quota di coloro che sono stati in questi terribili ultimi anni espulsi dai processi produttivi e non abbiano, per competenze o età, più possibilità di rientrarvi. Una buona parte di loro saranno giovani che sappiano cogliere una grande opportunità, anche al di là di specifica formazione o titoli di studio precedentemente acquisiti, per potere guardare con speranza e dignità al futuro.

Accesso al credito

Non solo la cessione dei terreni dovrà avvenire in affitto a canoni agevolati ed eventualmente differiti nel tempo, non solo sgravi fiscali dovranno essere previsti nelle fasi iniziali per le nuove imprese che si costituiranno e a regime e dovranno essere rapportati al valore dei servizi prodotti (vedi oltre), ma è essenziale che le nuove realtà aziendali possano contare su risorse per sostenere l'avvio delle attività e gli investimenti necessari.

La Cassa Depositi e Prestiti, nonostante la sua trasformazione nella direzione di banca mercantile avvenuta nell'ultimo decennio, ha ancora, come doveri istituzionali, compiti legati alla produzione di servizi di interesse generale, raccoglie principalmente il risparmio postale dei cittadini ed ha ottenuto, al pari di altre merchant bank europee e italiane in particolare, crediti dalla BCE al tasso dell'1%. A tale tasso, o inferiore (con la differenza a carico dello Stato come per i recenti programmi per le energie rinnovabili al tasso dello 0,5%; vale, per la sua restituzione il criterio, già enunciato, del valore dei servizi prodotti ma anche dell'effetto moltiplicatore dell’ acquisto dei beni strumentali) la CDP dovrebbe garantire alle nuove realtà produttive agricole insediate sui terreni demaniali un credito per il sostegno dell'avvio di attività (start up di impresa) e dei primi investimenti in mezzi, tecnologie, impianti, sementi, animali etc. per almeno un quinquennio: un periodo minimo per consentire all'azienda un funzionamento a regime. Non è, per inciso, per nulla trascurabile nella valutazione del bilancio di un tale progetto, l'anticipazione che la nuova PAC incoraggerà con premi consistenti (si parla di 70.000€ per cinque anni) nuove imprese agricole.

Ruolo delle Regioni

Le Regioni e le Province autonome devono essere attori protagonisti del progetto, ad esempio: cooperando con le Agenzie nazionali all'individuazione dei terreni (sia di quelli demaniali che anche di quelli di proprietà regionale e comunale, la cui dimensione potrebbe addirittura essere superiore ai primi) da investire con il progetto stesso; contribuendo: alla elaborazione degli aspetti di dettaglio; alla diffusione dell’informazione; al supporto dell’attività di formazione; all’elaborazione dei requisiti e criteri di selezione degli attori (organizzazioni e candidati); fornendo supporti amministrativi-burocratici per la costituzione d'impresa e l'accesso al credito; rendendo coerente col progetto e ad esso funzionale in termini di aiuti erogati il Piano di Sviluppo Rurale in attuazione della nuova PAC; etc.

Distretti territoriali

La creazione delle nuove piccole aziende contadine e la loro forte integrazione con il territorio e le sue comunità è prevedibile avranno nel contesto in cui operano un effetto traino di altre realtà aziendali di piccola dimensione già esistenti che troveranno interessante e vantaggioso divenire parte di un “distretto” dotato di obiettivi produttivi, ma anche sociali, supportati da organizzazione partecipata di aspetti commerciali e amministrativi e che autonomamente non sarebbero state in grado di realizzare. A tali distretti le Regioni dovrebbero fornire costante incoraggiamento e supporto. E proprio le Regioni tra loro coordinate dovrebbero farsi carico di mantenere un monitoraggio del progetto e della sua attuazione tale da realizzare un primo studio sistematico sul valore dei servizi ecosistemici e della biodiversità legati all'uso agricolo della terra.

Servizi ecosistemici e biodiversità

Sono la chiave di questo progetto e dunque occorre un po' di spazio per affrontare concetti intuitivamente semplici, ma tanto articolati quanto poco percepiti nella loro complessità da molta parte dei cittadini. Non tragga in inganno infatti il linguaggio classificatorio e sistematico con cui sono enunciati nel mondo della ricerca e dell'accademia, si tratta proprio (almeno in parte) di quei servizi riconosciuti dallo stesso mondo contadino più attento alla ecosostenibilità ma ormai anche dalle organizzazioni di categoria più conservatrici e in qualche modo presenti da tempo più o meno esplicitamente fra le misure condizionanti gli aiuti europei del settore (le cd. Misure agroambientali).

Sul tema del valore dei servizi ecosistemici sono stati prodotti in anni recenti studi basilari come il Millennium Ecosystem Assessment (MA2005) da parte di diverse agenzie delle Nazioni Unite e un importante approfondimento concluso tra il 2008 e il 2011 da parte della Commissione UE, dell'UNEP e di numerosi ministeri e agenzie per l'ambiente di governi europei, intitolato “L'Economia degli Ecosistemi e della Biodiversità (The Economics of Ecosystems and Biodiversity – TEEB). Senza contare le esperienze empiriche di sperimentazione dei paradigmi concettuali costitutivi in diversi casi di studio, in tutto il mondo, tra cui il più sistematico e completo è certamente il National Ecosystem Assessment (UK NEA) condotto nel Regno Unito tra il 2010 e il 2011.

TEEB sulla scia di MA2005 e degli studi di R. Costanza della fine del secolo scorso ci dice che:

A) i servizi che vengono prodotti dagli ecosistemi sono distinguibili concettualmente in:

- servizi di approvvigionamento che comprendono cibo, combustibili, legnami, ma anche acqua potabile etc.;

- servizi di regolazione che comprendono la regolazione del clima e idrogeologica, l'equilibrio sanitario e la depurazione delle acque, etc.;

- servizi culturali di tipo estetico, spirituale, educativo, ricreativo, etc.;

- tutti questi servizi sono a loro volta sostenuti da servizi definibili di sostegno basilare (supporting services) quali: il ciclo dei nutrienti, la formazione dei suoli, la produzione primaria....

B) Non tutti tali servizi hanno un valore di mercato (ce l'hanno ad esempio i prodotti agricoli e il legname, non ce l'ha l'equilibrio idrogeologico!) ma tutti incidono profondamente, talora in maniera decisiva sul benessere delle persone in tutte le componenti in cui il benessere può essere schematicamente diviso: sicurezza, salute, materiali basilari costitutivi del benessere, qualità delle relazioni sociali.

C) il fatto che non abbiano mercato non significa che non abbiano valore e che tale valore non possa essere quantificato con diversi metodi dell'analisi economica. Tali valutazioni hanno anzi portato ad identificare valori di dimensione tale, su base globale o nazionale o locale, da surclassare anche l'abusato indicatore di ricchezza benessere delle nazioni: il Prodotto Interno Lordo calcolato alla stessa scala. Un importante corollario consiste nel fatto che tali servizi prodotti “gratuitamente” dal sistema naturale non sono dati una-tantum, ma possono essere fortemente compromessi dall'azione dell'uomo al punto tale da dovere provvedere alla loro sostituzione, ove e nella misura possibile, con sistemi artificiali, con risorse quindi sottratte ad altri servizi. Si pensi alla spesa per impianti di depurazione e potabilizzazione delle acque, funzione che corsi d'acqua in buone condizioni ecologiche e idro-morfologiche e senza un sovraccarico di inquinanti produrrebbero a costo zero generando così allo stesso tempo servizi di approvvigionamento (l'acqua da bere) servizi ricreativi (l'acqua adatta alla balneazione o la vista di un fiume o un lago pulito), servizi di regolazione (il mantenimento della salubrità), e sostegno basilare (il mantenimento di processi vitali necessari alle comunità ittiche o alla vegetazione ripariale). Ecco perchè si è arrivati ad affermare che, in un sistema decisionale, se si trascura “la valutazione di questi servizi il sistema economico su cui si continua a fare affidamento è destinato al degrado ecosistemico e al sovrasfruttamento”.(TEEB).

In ambito agricolo europeo, un primo approssimativo riconoscimento di tali valori è avvenuto, come già accennato, attraverso i “pagamenti agroambientali” contemplati in misura crescente, da almeno un ventennio, dalle politiche agricole della UE. E tuttavia, pur trascurando il modo discriminato, spesso infondato e inconsistente rispetto agli obiettivi di conservazione cui dovrebbero essere condizionati (il “Piano d'Azione a favore della Biodiversità in agricoltura” della Commissione Europea è del Marzo 2001!), con cui tali pagamenti sono erogati, gli studi più recenti hanno messo in evidenza che i servizi potenzialmente associati ad una agricoltura che abbia anche un alto valore di conservazione della natura, producono un valore economico enormemente eccedente i pagamenti.

Cito un aspetto dei più noti e del quale, seppure sempre in modo marginale hanno talora parlato anche alcuni mezzi di informazione. Il valore del “servizio di impollinazione” (uno dei servizi di “approvvigionamento”) fornito dalle api per le colture agricole in particolare per quelle frutticole è stato evidenziato in una casistica “catastrofica” sia quando si è avuta una morìa particolarmente grave delle api dovuta a concause diverse e non ancora del tutto chiarite (2006-2009), sia anche più recentemente a seguito dell'impatto particolarmente rilevante sugli alveari delle recenti nevicate e gelate di inizio Febbraio. Pochi hanno tuttavia evidenziato con la dovuta enfasi che il valore dell'impollinazione per le colture è sempre presente come beneficio e non solo quando appare sotto la forma di danno. Studi recenti franco-tedeschi hanno quantificato il valore del servizio di impollinazione per le produzioni agricole nella UE (a 27 membri) in 14,2 Miliardi di € ogni anno e nel mondo tale valore ammonterebbe a circa 153 miliardi all'anno. UK NEA ha identificato per il Regno Unito un valore di 430 milioni di sterline (circa 600 milioni di €); Greenpeace sostiene che oltre il 35% del prodotto agricolo vendibile nel mondo dipende dalle api e in Svizzera un recente studio ha computato il valore del servizio di impollinazione (il raccolto di frutta e bacche) generato dalle api nel Paese pari a oltre 4 volte (265 milioni di Franchi Svizzeri) il valore del prodotto vendibile(65 milioni di FS): miele, pappa reale, cera, propoli, etc. generato dal loro allevamento. Ogni colonia presente in Svizzera produrrebbe un valore annuale di servizi ecosistemici pari a 950-1250 FS. In Italia si è stimato il valore dei servizi di impollinazione a circa 1,5 Mld € per anno.

E sono proprio le pratiche agricole biologiche, che non impattano sulle api con prodotti chimici ma che anzi si avvalgono programmaticamente dei loro servizi favorendone la presenza con l'allevamento, con la diversificazione colturale, con l'alternanza di ambienti coltivati e naturali etc., che hanno un impatto positivo su tale valore conservandolo e incrementandolo nel tempo. Solo relativamente a tale servizio reso su 330.000 ha di terreni si può realisticamente stimare un incremento/conservazione di valore legato alle nuove realtà agricole realizzate con il progetto pari immediatamente a 7,5-15 milioni di Euro all'anno ed in crescita nel tempo.

Nella rassegna casuale di esemplificazioni dei servizi ecosistemici prodotti in agricoltura vale menzionare la funzione di sequestro della CO2 prodotta dalle attività colturali. Si è stimata mediamente in 0,8-0,9 t x ha x anno ma le aziende biologiche e biodinamiche, per le pratiche che utilizzano, aumentano l'efficienza di assorbimento della CO2 fino al 50%. Il valore del solo incremento stimato sarebbe di circa 4 milioni di € all'anno. Mi pare che molto più conveniente che acquistare crediti di emissione e/o pagare sanzioni per il mancato raggiungimento da parte dell'Italia degli obiettivi stabiliti dalla Commissione europea per la riduzione delle emissioni in linea con il Protocollo di Kyoto, come dimostrano i dati più recenti!

Il mantenimento e l'incremento/ricostituzione di aree boscate a macchie e lineari come corridoi ecologici o siepi e filari che stanno tra le pratiche obbligatorie dell'agricoltura biologica e biodinamica e che dunque sarà da realizzare sulle terre demaniali è azione importantissima per il mantenimento della diversità e della continuità (in opposizione alla frammentazione) degli habitat che garantisce la presenza diversificata di specie selvatiche animali e vegetali; per la conservazione e miglioramento dei paesaggi; per la costituzione di infrastrutture verdi capaci di connettere anche gli ambienti urbani con quelli agricoli e naturali. Dunque al valore della CO2 sequestrata occorre aggiungere, in questo caso, il valore della mitigazione climatica in riduzione dei consumi energetici, la ritenzione di umidità in termini di minore consumo di preziose risorse idriche, la salute fisica e mentale degli abitanti, il valore ricreativo degli ambienti; la conservazione della storia, della cultura e della bellezza del paesaggio oppure, per chi proprio non apprezza né valori etici né estetici, semplicemente il differenziale di valore che una proprietà immobiliare “nel verde” ha rispetto ad un'altra che ne è priva. Non si sottovaluti infine che la presenza di un'agricoltura ”urbana e suburbana” sana sotto il profilo ambientale e della salute umana, integrata territorialmente, socialmente e culturalmente con le comunità urbane, redditizia sotto il profilo economico, è forse l'unica chance per contenere un consumo di suolo a fini immobiliari divenuto travolgente nel decennio trascorso.

Accenno soltanto infine ai valori (consistenti in termini strettamente economici e talora incommensurabili se visti con una prospettiva allargata) connessi con la conservazione della biodiversità genetica agricola, cioè di quelle cultivar e razze animali create dall'uomo nel tempo per adattarle alle condizioni locali. Un patrimonio genetico, di cui l'Italia in Europa è il più forte depositario, a forte rischio di estinzione la cui conservazione non solo è stata definita strategica per l'agricoltura del futuro, che dovrà adattarsi a cambiamenti climatici intensi, ma anche capace di conservare saperi, culture e tradizioni del mondo agricolo e dell'alimentazione. Sono infatti proprio le aziende agricole di piccola e media dimensione e in particolare aziende biologiche e biodinamiche che dimostrano oggi maggiore sensibilità a questa funzione.

Chiudo evidenziando, sempre muovendomi in modo casuale tra i “servizi ecosistemici” connessi all'uso agricolo dei suoli, la funzione regolatrice che può assumere la pratica agricola virtuosa, sulla stabilità idrogeologica del territorio, conservando i fossi e i canali, utilizzando arature superficiali o non sovraccaricando i pascoli, mantenendo mosaicature di diversi usi agricoli (seminativi, orti, frutteti, pascoli, prati etc.) e presenza di aree con vegetazione naturale, etc.. Non farò calcoli sul valore di tale “servizio” mi limito a fornire alcuni dati sul costo medio annuo del ripristino riparazione del danno provocato da frane e smottamenti: 3 Miliardi! Ma sicuramente, e solo considerando quanto è avvenuto in Liguria e Toscana, nel 2011 tale cifra suona davvero molto sottostimata.

Quanto ho sopra enunciato assomiglia certamente più ad un presentazione concettuale che ad una analisi costi benefici di un progetto, ma ciò che mi pare emergere anche da questa limitata analisi è che il suo valore economico è consistente, duraturo, sostenibile, equamente distribuito e diffuso verso l'intera comunità nazionale, capace di dare una risposta alla crisi sociale determinata dall'uscita dal lavoro di decine di migliaia di addetti nel settore industriale e dal mancato ingresso nel lavoro di un'intera generazione. Una risposta che non implica privatizzazione di beni comuni o sottomissione ad astratte regole mercantili e che è ancora possibile ottenere, a dispetto della norma varata da Monti, se le organizzazioni e le associazioni della galassia sociale che fino ad oggi si è mobilitata saprà allargare l’orizzonte della sua proposta e se gli enti territoriali saranno spinti ad imporlo alle agenzie del Demanio in virtù del ruolo loro riconosciuto dal decreto.

Il primo tempo della vicenda della biblioteca nazionale dei Girolamini, che eddyburg ha seguito costantemente contribuendo alla diffusione e al successo dell’ appello per la rimozione di Massimo De Caro, ha dunque trovato un esito clamoroso imposto dalla magistratura: sigilli alla biblioteca e pesanti accuse al suo Direttore, Marino Massimo De Caro, nominato con il benestare del ministro Ornaghi di cui era Consigliere.

Ma molto resta ancora da fare perchè questa battaglia a difesa del nostro patrimonio culturale e non solo, possa dirsi vinta. Come spiega esemplarmente Tomaso Montanari nell’articolo di oggi che riportiamo di seguito, uno degli elementi che hanno pesantemente giocato è il ruolo delle consorterie politiche.

Anche per questo la vicenda dei Girolamini è esemplare: non per competenza o scienza in qualsiasi modo verificata, De Caro è stato posto a capo di un’istituzione di antico prestigio quale la biblioteca napoletana, ma per appartenenza di lobby.

Lo spregio del merito a favore di criteri di questo tipo è uno dei vizi che ha condotto questo paese nella situazione in cui si trova, ancora in bilico fra modernità e feudalesimo.

E che questa deriva sia oggi presente e grave più che mai lo dimostrano le interrogazioni e gli interventi dei parlamentari appartenenti alla stessa consorteria che nei giorni immediatamente successivi all’appello che denunciava l’incredibile situazione dei Girolamini, hanno attaccato i due principali protagonisti di questo atto di coscienza civica, Montanari e Caglioti: intimidazioni e minacce hanno trovato così spazio in un luogo come il Parlamento, i cui esponenti hanno dato prova dell’ennesima vergognosa difesa “a prescindere” di casta e di parte.

A salvare la dignità del luogo, un altro parlamentare, Barbato, ha suggerito al Sindaco di Napoli di attribuire a Caglioti e Montanari la cittadinanza onoraria. E ci pare effettivamente una straordinaria dimostrazione di amore civico da parte dei due docenti dell’Università Federico II la loro iniziativa di denuncia a difesa di un patrimonio culturale napoletano che la città stessa aveva per lungo, troppo tempo, abbandonato ad un grave declino.

Ma ancora per un altro aspetto la vicenda dei Girolamini sottolinea con brutalità l’attuale situazione di degrado del paese: veri protagonisti in negativo, al di là dello stesso De Caro, sono senza dubbio il ministro Ornaghi e l’alta dirigenza Mibac che, negando ogni responsabilità, si sono vergognosamente trincerati dietro la pretesa autonomia di scelta dei frati di San Filippo Neri nella nomina del Direttore e che, pur se informati da tempo della situazione, l’hanno lasciata marcire fino al suo scoperchiamento da parte di un’azione civica di un gruppo di intellettuali prima e della magistratura poi.

La gravità del comportamento di Ornaghi e dei suoi dirigenti appare però non solo in quest’ultima fase, ma fin dalla nomina a consigliere Mibac di De Caro, privo di qualsiasi titolo per esercitare quella carica cui l’aveva designato Galan, ancor meno costui poteva essere nominato in un ruolo squisitamente tecnico scientifico quale la direzione di una storica biblioteca nazionale. Eppure la considerazione dell’istituzione che dirigono è tale che nessuno, nè Ministro, nè Dirigenti generali ha ritenuto doveroso opporsi alle pressioni della lobby partitica che appoggiava De Caro.

Di fronte a questa trahison des clercs conclamata non suscita alcuna sorpresa la situazione di irrilevanza politica, culturale, sociale in cui il Mibac attualmente si trova inabissato, incapace sempre più spesso financo di una dignitosa gestione degli ordinari compiti di tutela, come il caso dei Girolamini dimostra.

Nell’articolo di Tomaso Montanari che potete leggere di seguito, vi è un termine che chi scrive ha letto, considerato il contesto, con vero rammarico: politica. Quella politica arrivata ad un tale livello di degenerazione da considerare possibile lo stravolgimento di ogni criterio di trasparenza e competenza.

E’ da lì, evidentemente, che dobbiamo ricominciare: a partire dal Mibac e dal suo ministro pro tempore il cui primo compito dovrebbe essere l’elaborazione, prima che sia troppo tardi, di una politica dei beni culturali in grado di affrontare la crisi di sistema del ministero e del paese.

Il paese che quel 25 aprile di 67 anni fa festeggiò nelle piazze d’Italia voleva opporsi anche a queste degenerazioni; i firmatari della lettera scritta da Francesco Caglioti si pongono per questo in linea di diretta continuità con quegli ideali che oggi ricordiamo, purtroppo non come conquista acquisita o consolidata, ma come traguardo cui giungere.

Prima o poi, ma i nostri avversari sappiano che abbiamo molta... Resistenza.

Patrimonio culturale, niente politica

Tomaso Montanari - ilfattoquotidiano on-line, 25 aprile 2012

Tra le tante cause di fatale degrado del patrimonio storico e artistico della nazione italiana ce n’è una assai poco analizzata e dibattuta: la violenza con cui il ceto politico si appropria di musei, biblioteche ed enti culturali, calpestando, con ostentato disprezzo, ogni criterio di competenza, merito, trasparenza.

La clamorosa vicenda della Biblioteca dei Girolamini a Napoli è un esempio da manuale. Comunque finiscano le indagini dei carabinieri del Nucleo di Tutela del Patrimonio artistico e della Procura, ce n’è abbastanza per delineare un quadro illuminante.

Marino Massimo De Caro non ha titoli per dirigere una biblioteca. Anzi, non ha proprio titoli. Si è iscritto a Giurisprudenza a Siena, nel 1992: è rimasto iscritto fino al 2002, ma non si è mai laureato. In compenso, il 22 settembre del 2004 l’Universidad Abierta Interamericana (privata) lo ha nominato dottore «honoris causa» in cambio del dono di quattro libri antichi e di un meteorite piovuto nel Sahara. In effetti, tutti i contatti di De Caro col mondo del libro antico non sono scientifici, ma commerciali: e non senza numerosi episodi assai dubbi.

In un paese normale quante possibilità ha uno con questo curriculum di arrivare a dirigere una delle 46 biblioteche pubbliche statali? Se da noi ci riesce, è solo grazie ad una cosa: la politica.

Dal marzo di quest’anno De Caro è il segretario organizzativo dell’associazione politica «Il Buongoverno», che raccoglie l’eredità dei Circoli di Marcello Dell’Utri: il presidente onorario è quest’ultimo, il presidente è il senatore Pdl Riccardo Villari, il segretario il senatore Pdl Salvatore Piscitelli, vicesegretari i senatori (sempre Pdl) Elio Palmizio e Valerio Carrara. È stato grazie all’antico legame (nato in Publitalia) tra Dell’Utri e Giancarlo Galan, che quest’ultimo si è preso De Caro come consigliere al ministero dell’Agricoltura. E quando Galan si è spostato ai Beni Culturali, anche De Caro si è spostato (ovvio no?), diventando consigliere per l’editoria.

A quel punto il gioco è fatto. La Congregazione dell’Oratorio doveva nominare il direttore della biblioteca, ma l’impoverimento numerico e culturale dell’ordine di San Filippo Neri è tale da non consentire di trovare un candidato interno: cosa di meglio che rivolgersi ad uno dei consiglieri del Ministro per i Beni Culturali?

Ci fosse un dubbio sul ruolo che il Mibac deve aver giocato in quella nomina, basta rammentare chi era il sottosegretario ai Beni Culturali quando De Caro diventa direttore dei Girolamini: il napoletano Riccardo Villari, oggi presidente del Buongoverno! Il cerchio magico dellutriano non ha abbandonato De Caro nemmeno nella tempesta di questi giorni.

I senatori Piscitelli e Palmizio hanno presentato un’interrogazione al ministro dell’Università per sapere se quanto il sottoscritto e il mio collega Francesco Caglioti (entrambi professori alla Federico II di Napoli) abbiamo cercato di fare per difendere i Girolamini «si riconduca allo svolgimento delle normali attività accademiche loro imposte dalla legge e se – soprattutto – non rischi di gettare discredito sulle istituzioni accademiche». Una (grottesca) intimidazione che è interessante solo perché teorizza esplicitamente che il legame politica-cultura si deve intendere come lottizzazione violenta della prima sulla seconda, giammai come azione civile degli intellettuali per la difesa del patrimonio culturale.

E non è finita. È stata Diana De Feo (senatrice Pdl e moglie di Emilio Fede) a difendere De Caro a spada tratta dalle prime polemiche. Ed è stato «il Mattino» (diretto dal nipote di Dell’Utri) ad accogliere sue interviste a raffica.

Il ministro tecnico Lorenzo Ornaghi avrebbe avuto un’ottima occasione per mostrare agli italiani che le cose possono cambiare. E invece anche lui si è genuflesso all’eterno primato della consorteria politica. Fonti ministeriali assicurano che ben prima che scoppiasse lo scandalo, erano arrivate al Mibac pesanti segnalazioni di irregolarità ai Girolamini: e che, tuttavia, una vera e rigorosa ispezione era stata archiviata a causa di pressioni politiche. Non ci sarebbe da stupirsi: Ornaghi ha taciuto dopo il mio articolo; ha taciuto dopo che gli sono state inviate le prime 500 firme (oggi sono oltre 4500) di intellettuali che chiedevano la rimozione di De Caro; ha taciuto dopo che Gian Antonio Stella ha raccontato la vicenda, da par suo, sulla prima pagina del «Corriere della Sera».

Il coraggioso ministro ha parlato solo il giorno dopo che i carabinieri hanno sequestrato la biblioteca e indagato il suo consigliere per peculato. Ma ha parlato per comunicare alla Camera che aveva accettato nientemeno che l’autosospensione di De Caro dalla carica di suo consigliere: che intraprendenza, signor ministro! L’indomani – dopo aver ricevuto la visita del procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo – Ornaghi ha avuto un soprassalto di decenza, ed ha finalmente deciso di rimuovere De Caro: ma si è ben guardato dal comunicarlo alla stampa, limitandosi a farlo cancellare dal sito Mibac. E se domani dovesse venir meno il sequestro conservativo della Biblioteca, De Caro tornerebbe a dirigerla. E Ornaghi ha detto alla Camera che quella nomina spetta alla Congregazione dell’Oratorio, e che lui, dunque, non può far nulla.

La verità è che non mancano strumenti giuridici e politici che permettano a Ornaghi di porre fine a questo scandalo. Se non lo farà, sarà almeno chiaro che il rapporto tra la politica dei tecnici e la politica dei politici si può riassumere in una singola parola: complicità.

Sulla vicenda, in eddyburg:

Segreti e bugie di Marino Massimo De Caro

Una biblioteca da cani

Sotto sequestro i Girolamini. Indagato il Direttore

In questi giorni di primarie americane ci arrivano spesso in diretta le sparate “cattolico-naturaliste” dell’incredibile Nick Santorum, e a qualcuno è sicuramente saltato in mente di accostarle, nel merito, alle altrettanto intemerate uscite del nostro loquace Carlo Giovanardi. Del resto la panoplia di argomentazioni dell’internazionale reazionaria è un po’ come l’amato (da loro) sistema tolemaico, dove tutto gira attorno a un unico motore immobile, e quindi tematiche come la vita, la morte, i rapporti umani, tutto quanto affrontato a mascella tesa da questi buzzurri dell’anima si risolve anche lessicalmente sempre dalle stesse parti: ognuno al suo posto, senza tanto cianciare di diritti, bisogni, trasformazioni. Tutto fissato per omnia secula seculorum amen.

Il passaggio diretto da questi temi sociali e culturali a quelli territoriali di cui si occupa più specificamente questo sito, lo si è visto ad esempio nella recente e segnalata levata di scudi del Tea Party contro l’Agenda 21, considerata come vero e proprio complotto contro tutto ciò che attiene al buon senso comune e quindi al cosiddetto sogno americano, ingerenza internazionale indebita a condizionare subdolamente i rapporti dell’uomo con l’ambiente. L’argomentazione, sviluppata in modo tra l’altro quasi credibile da alcuni sedicenti studiosi, è che dietro il concetto non-americano (quindi già di per sé sospetto) della sostenibilità si nasconda un progetto satanico-dittatoriale per privare l’individuo di libertà irrinunciabili. Forse superfluo osservare come gira e rigira si scopre poi che le famose libertà irrinunciabili si riducono al diritto di inquinare fuori dalla proprietà individuale, eventualmente pagando, e di occupare tanto spazio quanto il proprio reddito riesce a comprarsi, facendone quello che si vuole.

Dalle nostre parti, certi pensieri non mancano certo di svolazzare nell’aria, e anzi di atterrare solidamente nelle culture e nei programmi politici. Solo, si rivestono di altra forma di obiettività, piuttosto facile da spacciare come senso comune. Quando non è così facile, ci pensa l’elaborazione di altri sedicenti studiosi, del genere specializzato a tradurre qualunque finta ovvietà in simil-percorso scientifico, meglio se con linguaggio ricco di neologismi. Tutto è già stato stabilito, si tratta solo di ribadirlo senza farsi troppe domande, ma dare sempre la medesima risposta: certo che si. Nascono così le opere pubbliche giustificate da altre opere pubbliche, o pezza per i guai provocati da errori precedenti, dietro cui già si intravedono i guai futuri, che richiederanno altre opere ancora … Tornando al linguaggio brutalmente chiaro del cugini reazionari d’oltreoceano, la cosiddetta sostenibilità mette a repentaglio alcuni diritti inalienabili: costruirsi ciò che si vuole dove si vuole, e farci arrivare tutte le infrastrutture possibili per il massimo comfort; consumare tutto ciò che si desidera e che ci si può permettere; intrattenere relazioni sociali e umane improntate a precisi rapporti gerarchici “naturali”.

Tradotto in spazio: villetta monofamiliare in proprietà, abitata da famiglia nucleare, meglio se con parecchi figli che sono dono di dio; varie auto in garage per scarrozzare la famigliona su e giù per le autostrade, verso tutto ciò che non si è potuto privatizzare nel cortile o dentro la villetta; svincoli, bretelle, strisce attrezzate multicorsia, entro cui collocare le suddette mete, dal centro commerciale, al complesso sportivo, al centro uffici, alla fabbrica, centro scolastico integrato ecc. Il tutto garantito da un modello di produzione e consumo energetico anch’esso ispirato al modello “dio me l’ha dato e io me lo piglio”, magari bombardando l’Iraq se serve, in fondo abitato da gente stravagante con un tovagliolo in testa. È nella villetta castello con siepe fossato, che chi produce reddito ha un potere quasi assoluto su chi non ne produce, i genitori sui figli, sulla loro mobilità, socialità, consumi di qualunque genere. Dentro a questa caricatura di ambiente naturale al cemento-petrolio, non penetrano le cosiddette fratture dello sviluppo, i nuovi diritti, bisogni, relazioni. Al massimo, c’è qualche effetto diretto o indiretto dei consumi: il figlio ciccione, la casalinga sexy, il manager dallo psicanalista ma solo dopo i quarant’anni.

E non si creda che il modello di mondo villettaro-autostradale-petrolifero sia una indebita semplificazione del sottoscritto. Certo, era già sostanzialmente raccontato così fra le righe di articoli e saggi d’area culturale, ma bisognava appunto dedurlo. Adesso, è diventato pari pari programma politico del Partito Repubblicano fatto proprio da un caucus regionale, in attesa del decollo definitivo verso le politiche nazionali. Con Santorum che vola nei sondaggi, pare solo questione di tempo. Un mondo ideale anche per la famiglia modello di stereotipi, autoritaria il giusto, del nostro Giovanardi e di chi lo guarda con simpatia. Fede e business, come nella prosperosa padania di CL tanto per fare un esempio.

Se tutto questo, grazie al linguaggio adamantino e brutale dei nostri reazionari, è piuttosto chiaro e inequivocabile, non si capisce invece se e dove voglia andare a parare l’idea progressista di città. O meglio, se ne esista una. Un tempo le elaborazioni cultural-spaziali, pur articolate e perfettibili, erano ovvie: prima risanamento e igiene, più tardi la città razionale e la città giardino. A unire idealmente i due modelli complementari, ad alta e bassa densità, l’idea di quartiere coordinato, non a caso teorizzato prima sul versante sociale che su quello spaziale. Adesso, pare che per la legge dei corsi e ricorsi la città progressista sia rispuntata nel centro storico, da cui era partita qualche generazione fa verso nuove frontiere. Perché, esplose prima le magagne del quartiere alveare, poi appunto l’insostenibilità della dispersione, si è cercato rifugio nel modello teorico della città che fu. Spazi tradizionali, ma è il caso di chiedersi: sono davvero adeguati alla vita moderna, come avrebbe detto Gustavo Giovannoni? Vita moderna non intesa terra terra, come diritto a scorazzare col Suv su e giù per qualche carruggio, ma proprio nel senso che sfugge ai Giovanardi e ai Santorum: una città di diritti e relazioni aperte.

Con tutti i loro difetti, le città ideali autentiche non sono mai nate dalla matita di qualche ingegnere svizzero in vena di elucubrazioni universali, ma da un’idea condivisa di società, magari filtrata e schematizzata da qualche disegno. Solo i modelli autoritari, per quanto travestiti da pacioccona accoglienza come la paradimatica ultratecnologica E.P.C.O.T. di Disney pretendono in buona misura di adattare il contenuto al contenitore. Lo stesso potrebbe accadere se si cascasse nell’equivoco di individuare appunto la città storica con quella ideale, convinti che l’errore sia stato quello di allontanarsene. Senza chiedersi, così en passant, quanto compatibili possano risultare, che so, il diritto alle pari opportunità con il tipo di erogazione dei servizi garantito da un centro storico (privo del complemento attuale di quanto sta parcheggiato nella dispersione), il diritto alla mobilità e comunque alla prossimità qualsivoglia, alla salute, all’igiene, alla cultura. E in senso allargato, magari anche alla sessualità, o al fine vita, tanto per citare qualche tema caro ai reazionari, che non salta subito all’occhio nel rapporti con lo spazio, ma prima o poi c’entra.

Ecco: domande, che di solito vengono prima delle risposte. Anche se non sembra il caso oggi.

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