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L’anno appena sorto dalle ceneri di un 2016 che nessun europeo, tanto più nessun italiano vorrà rimpiangere, se proposto secondo la tradizionale retrospettiva di cent’anni prima offrirà un ampio panorama di eventi da non dimenticare, sembrando che essi siano stati di tale importanza da costituire una sorta di primato. In verità ogni anno scorrente che volesse, come una persona, rispecchiarsi nei fatti e nelle cose di un secolo prima, troverebbe a sua volta buone ragioni per sgranare gli occhi dalla meraviglia. Eppure il 1917 vide davvero compiersi avvenimenti epocali, alias irripetibili, corredati poi da numerosi e originali casi minori al confronto, ma significanti per delineare forti e unici connotati dell’annata. Va detto infatti che, diversamente da quel che siamo propensi a pensare, cioè che tutti gli anni, bene o male, presentino un bilancio in pareggio dell’uno (bene) con l’altro (male), è ricca la storia di annate per così dire deboli (forse le più confortevoli per i viventi).
Funzionava a pieno regime la macchina del massacro nella Guerra Mondiale. Il nostro paese visse la tragedia della dodicesima battaglia dell’Isonzo conclusa con la disfatta di Caporetto, 24 ottobre. La rivoluzione russa di febbraio (marzo) non aveva risolto i rapporti fra le diverse formazioni politiche. Sarà la rivoluzione bolscevica di ottobre (novembre) ad abbattere il governo provvisorio «moderato», ad assegnare tutto il potere ai soviet e a dar vita alla Repubblica socialista federativa sovietica russa. Iniziava la guerra civile.
La guerra infuriava e sconvolgeva l’esistenza dei popoli nazionali. Eppure in qualche città pur non estranea alle vicende del fronte interno, qualcuno sembrava non farci caso, invece cercava di esorcizzarla. Il miglior esempio? Parigi dove, fra altre iniziative culturali e artistiche, si distinguevano (paradossalmente…) gli spettacoli dei Balletti Russi: che, superando solide tradizioni e modi convenzionali, sostennero (cito un solo evento fra numerosi) il cubismo picassiano per la triade Cocteau-Satie-Massine col balletto Parade.
L’Olanda riuscì a tenersi da parte. Il popolo olandese aveva costruito la propria stabilità identitaria, morale e materiale, la certezza e la sicurezza del proprio habitat attraverso altre battaglie, per lo più incruente se non quelle necessarie per ribellarsi all’impero. Il secolo d’oro olandese, il Seicento, con propaggini temporali prima e dopo, fu il tempo dell’incredibile repubblica pacificamente dedita a raggiungere il primato mondiale nel commercio senza confini (l’autentico primo propulsore dello sviluppo sociale), delle scienze, delle arti. Dal vertice raggiunto intorno al 1650 non ci fu caduta improvvisa. Potette reggere l’enorme pressione dei grandi regni nazionali come l’Inghilterra e la Francia fino a Settecento inoltrato quando lo sviluppo dei due potenti stati cominciò a intaccare lo slancio olandese. Ad ogni modo la libertà conquistata allora, anzi i princîpi di libertà uniti a quelli di collettività costituiranno la più preziosa eredità per i secoli futuri. (La vicenda repubblicana del piccolo paese affacciato sul Mare del Nord è stata raccontata da Charles Wilson, La repubblica olandese, Il Saggiatore – Alberto Mondadori, 1968).
Al principio del XX secolo gli olandesi, impegnati come sempre nella loro storia a «costruire» il loro territorio, a difenderlo dal mare, a ricavarne demanio pubblico per i bisogni della comunità, si distinguono nuovamente e nettamente, ma in tutt’altro campo, dai grandi stati nazionali. In questi, infatti, deludono i tentativi rivolti a produrre una legislazione in materia urbanistica e edilizia che detenga una forte carica sociale riformatrice, un decisivo cambiamento rispetto al passato. È appunto dall’ Olanda che proviene l’indicazione rivoluzionaria, un’apertura verso orizzonti più vasti col varo della Legge sulle abitazioni (Woningwet), ben conosciuta dai frequentatori di eddyburg, non solo urbanisti o architetti. Che converranno ad osservare che la definizione pare impropria per un provvedimento di vasta portata che spazia dalla questione della pianificazione secondo diversi livelli a quella della realizzazione di una moderna edilizia sovvenzionata.
La condizione obbligante per passare dal nudo terreno all’edificazione pubblica è l’esproprio, da effettuarsi sulla base certa del piano particolareggiato. Esso è il cardine dell’unificazione fra previsione urbanistica (“disegno” del piano) e strumenti economico-sociali per la realizzazione architettonica. Del resto, come la cooperazione è un connotato largamente presente da molto tempo nella società olandese, così l’esproprio è una pratica storica ampiamente accettata dal corpo sociale. Entrambe le tradizioni sono ormai sperimentate e verificate in conformità a obiettivi di interesse generale delle popolazioni. Cooperazione e bisogno di terra per la comunità costituiscono il presupposto per effettuare le colossali opere atte a formare i polders, i terreni strappati alle acque sfruttabili prima per il pascolo, più tardi per le coltivazioni, infine, eventualmente, per ampliare la città.
Hendrik Petrus Berlage all’inizio del secolo appariva dubbioso di un radicale progresso della situazione sociale e artistica nell’Europa dominata dal capitalismo: mancando un ideale di vita, di cooperazione per obiettivi comuni è difficile risolvere i problemi dell’architettura e dell’urbanistica, in realtà un problema unico. Tuttavia egli pare propenso a superare la visione critica attraverso un’apertura di credito verso la socialdemocrazia avanzante. Vincent van Rossen nota che per lui tale avanzamento potrà determinare «un nuovo movimento nell’arte. L’ordine esistente in campo sociale ed estetico merita biasimo: ma “la grande lotta è cominciata”» (Berlage e la cultura urbanistica, in Sergio Polano, Hendrick Petrus Berlage. Opera completa, Electa, Milano 1987, p. 54). In altre parole: per assicurare all’architettura nuova vita occorre condividere l’azione del movimento operaio affinché annulli l’influenza negativa del capitale e dello «spirito» capitalista che impediscono la nascita di un stile nuovo. E, osserviamo, se solo attraverso i comuni intenti la società potrà costruire la nuova città, efficiente e bella, dove più che in Olanda, punto geografico e storico di rapporti sociali sconosciuti altrove, si sarebbero potute trovare risorse umane e culturali adeguate?
C’è stata dunque una lunga preparazione, per così dire, nel campo sociale, politico e legislativo-normativo all’incontro decisivo fra un maestro dell’architettura politicamente impegnato e la prassi urbanistica sotto il controllo pubblico. Il piano di ampliamento di Amsterdam a sud si ricollega sia alla legge del 1901 sia alla vocazione cooperatrice della società olandese in generale e dei cittadini di Amsterdam in particolare. Così l’incarico del 1900 e il primo progetto del 1904-1907 approdarono a un nuovo progetto esecutivo compiuto a un livello di definizione pre-architettonica, nel 1917. Su questa certezza potranno operare gli architetti della «Scuola di Amsterdam» (valga per questo il testo a cura di Maristella Casciato, La Scuola di Amsterdam, Zanichelli, Bologna 1987).
H. P. Berlage, Amsterdam Sud(primo progetto 1904-1907; progetto definitivo 1917) |
Amsterdam Sud, col progetto dei grandi blocchi residenziali di altezza media lungo i margini dell’isolato e il vasto rettangolo interno destinato totalmente a giardino, con l’architettura, vorremmo dire, incorporata nell’urbanistica forse come mai prima e dopo, è troppo nota per descriverne ancora i caratteri particolari e riaffermarne il valore sotto diverse prospettive (ved. fra altro in eddyburg La sostenibile infelicità della divisione / La memoria, 15 marzo 2015). Riprendiamo invece il giudizio di Giedion, l’alfiere indefesso del razionalismo. In primo luogo egli riconosce l’importanza dell’urbanistica residenziale olandese giacché, per esempio, «Amsterdam riuscì davvero a costruire interi quartieri omogenei e rispondenti alle esigenze della comunità»; poi ammira la posizione di Berlage verso «gli organi di controllo edilizio che non dovrebbero considerare case isolate, ma strade intere e tronchi di strade» in modo da raggiungere la massima unità delle case; cita la raccomandazione, dinnanzi alla «produzione di massa» di abitazioni, a «usare di nuovo l’isolato, e più estesamente di una volta»: ma, non può non concludere, secondo la logica razionalista, che «l’Amstellan… rientra nella corrente principale dell’urbanistica ottocentesca…[ed] è rappresentativa dell’intero progetto: c’è una riforma, ma non una concezione nuova» (cfr. Sigfried Giedion, Spazio, tempo e architettura (orig. 1941), Ulrico Hoepli, Milano 1954, pp. 669, 675, 677, 679).
Allora, cosa contraddistingue il blocco berlaghiano, 1917 e seguenti, da esempi ottocenteschi di edificazioni lungo i margini dell’isolato? L’isolato di Amsterdam Sud è costruito lungo i lati e il rettangolo interno è un grande giardino che è rimasto così fino ad oggi, privo di ingombri invasivi, di costruzioni estranee al progetto. Lungo i lati le case instaurano una doppia coerenza: l’omogeneità relativa al blocco e il superiore livello di unitarietà con gli altri blocchi che definisce l’ordine e la bellezza architettonica delle strade e dell’intera parte di città (caso perfetto di architettura urbana). Gli incroci stradali rientrano nella normale geometria della rete. Gli spazi diversi, come le piazzette, appartengono alle soluzioni ottenute dagli architetti.
Prendiamo ora il più importante dei progetti ottocenteschi realizzati, il Plan Cerdà di Barcellona. L’ordinamento dei blocchi quadrati coi lati di 113 metri e con gli angoli smussati è inflessibile, non ammette tregue. Nelle prime prove del progettista gli isolati prevedevano anche l’edificazione solo su due lati, paralleli/frontali o consecutivi/ad angolo. La soluzione definitiva consiste nella costruzione sui quattro lati ma spezzettata in tratti edilizi diversi, anche molto fitti e in migliaia di incroci stradali contrassegnati da un previsto effetto spaziale e volumetrico singolare, grazie alla giustapposizione dei quattro smussi e quella degli altrettanti vuoti degli imbocchi stradali. Non sappiamo se per tutti, per noi contò la sensazione di appartenere a un paesaggio urbano «diverso», ma anche di spaesamento, con una breve oscillazione della certezza d’orientamento. Infine, il quadrato interno immaginato libero da costruzioni per averne un giardino: al contrario, lasciato libero all’inserimento, man mano, di un’edilizia non molto più controllata che dalla ragione della rendita. D’altronde la suddivisione dell’isolato in lotti secondo diverse soluzioni era prevista fin dal principio.
Siamo sotto i nostri cieli milanesi. Anche il piano regolatore di Cesare Beruto prevedeva un’espansione, all’esterno della circonvallazione, con grandi isolati non solo quadrilateri, con lati persino di 200-300 metri. Una destinazione dell’interno esclusivamente a giardino non fu mai pensata e progettata. È lo stesso Beruto a comunicarlo nella relazione alla giunta municipale : «Gli isolati a grandi dimensioni si prestano a qualsiasi destinazione; i nuovi fabbricati vi si possono svolgere a piacimento; nel centro dominerà lo spazio; riescono suddivisibili in qualsiasi sistema di minori lotti, senza alterare la rete stradale principale…» (cit. in M. Boriani e A. Rossari, La Milano del piano Beruto (1884-1889), in Rivista milanese di economia, n.10, aprile-giugno 1984, p. 43). Tuttavia in qualche tratto della realizzazione più interna, lotti regolari e limitati concorrono a identificare un tessuto quantomeno non caotico e strade corredate da cortine edilizie di altezza costante (gli interni non contano…). Per questo, talvolta, lo abbiamo dichiarato preferibile a certo disastroso scompiglio urbanistico cominciato subito nel dopoguerra.
MargaretKropholler, Edificio d’abitazione entro un complesso di case per 2000 alloggi,1921-23.
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In quel cruciale 1917 l’avvio alla realizzazione del piano di Berlage attraverso l’opera di architetti che lo considerano anche maestro di architettura civile, sta dimostrando come la capacità di pianificare e di architettare secondo l’imprescindibile compartecipazione delle due prerogative (si è visto come i problemi delle due discipline dovessero riunirsi in uno solo) onora «l’arte di costruire le città» di Camillo Sitte al rango di eccezionale prova al vero, vittoriosa. A questa stregua, l’arte del maestro e dei Van der Mey, Kramer, De Klerk, Van Epen, delle Kropholler rappresenterà la più forte alternativa, con antecedenti negli anni Dieci, al nascente e progredente razionalismo, fino ad influenzare i progetti anche di tutt’altri periodi e contesti urbani nazionali: come negli anni Cinquanta in Italia riguardo alla generazione di architetti seguente a quella dei razionalisti. Ad ogni modo Giedion, che non presterà alcuna attenzione alle opere degli appartenenti alla «Scuola», ammirava la figura di Berlage.
H. P. Berlage, La borsa diAmsterdam, 1895-1903. |
Nella Borsa di Amsterdam, riconosciuto capolavoro d’inizio secolo, «il consapevole ascetismo… si unì col suo amore fanatico per la verità ad ogni costo; col risultato che l’edificio diventò una pietra miliare per molti. Egli diede l’esempio di come risolvere onestamente un problema architettonico. Nessun altro edificio si accorda così bene con l’istanza che era alla base delle tendenze architettoniche in quel particolare momento – l’istanza morale» (S. Giedion, cit., pp. 301-303). Lasciato il critico alle sue predilezioni, ripensiamo a un altro accordo, nostro, con le architetture singole e con l’architettura d’insieme in quello straordinario ambiente tutto costruito col mattone. I giovani nominati e altri si ispiravano al maestro, la «Scuola» crescerà secondo i suoi principi, ma essi erano radicali nelle loro espressioni e, all’interno di un comune sentire, volevano esprimere il proprio carattere, la propria forza. Espressionismo, moderno romanticismo, fantasia… questi attributi ci sembrano rappresentare il punto di convergenza del pensiero critico. L’esperienza in sito lo conferma, percepiamo un’irremovibile coerenza dell’insieme esaltata dai diversi particolari costruttivi e decorativi.
1917. A Parigi, si è visto, nonostante la guerra la cultura non rinunciò a cercare nuove strade e raggiunse traguardi rivoluzionari benché settoriali. In Olanda la cultura non racchiusa in ambienti di stretta specializzazione presentava un panorama multilaterale di gruppi, di iniziative, di riviste. L’evento da evidenziare è unico e sdoppiato: la fondazione a Leida del movimento De Stijl con alla testa Van Doesburg, seguito da diversi e noti protagonisti dell’architettura (dal design all’urbanità) e delle arti visive; la fondazione a Leida-Amsterdam della rivista De Stijl. I principi e gli scopi resteranno autonomi dal razionalismo, tuttavia alcune istanze non saranno in contrasto: un’arte universale, uno «Stijl» dovevano nascere.
L’architettura doveva essere di tutti. La produzione di massa e la standardizzazione avrebbero potuto dare a molti una buona abitazione. Nel merito dei particolari architettonici e artistici (arredi per la casa) lo stesso Van Doesburg, con Van der Leck, Rietveld… scelgono la funzione del colore come partecipazione a una concezione spaziale nuova, con ciò apportando un piccolo segno a un sembiante espressionistico. Il contenuto del primo numero della rivista, datato ottobre 1917, è quanto mai adatto a chiudere il cerchio olandese aperto con Berlage. Un articolo di Oud, L’immagine urbana monumentale (datato Leida, 9 luglio 1917), è un fondamentale approccio al problema della città; il richiamo a Camillo Sitte si sviluppa attraverso l’interposizione del maestro olandese. «Il concetto di “monumentale” è di natura interiore, non esteriore e può quindi manifestarsi in oggetti sia piccoli che grandi… l’architettura si evolve, come la pittura, nella direzione dell’universale e del monumentale. In ciò essa segue la linea stabilita dalla scuola di Berlage… L’architettura è un’arte plastica, l’arte di definizione dello spazio, e come tale si esprime nel modo più universale nel paesaggio urbano… Nel moderno ampliamento urbano… l’edificazione a isolati o in grandi raggruppamenti prenderà il posto dell’abitazione singola» (citazione riportata in G. Fanelli, Architettura edilizia urbanistica. Olanda 1917-1940, Papafava Editore, Monte Oriolo (Firenze) 1978, p. 52). Di tutto questo l’Amsterdam Sud è il compimento.
H. P. Berlage, Museo municipaledell’Aia (Den Haag), 1919 - primi anni Trenta |
Berlage: fin troppo noto per la Borsa di Amsterdam immortalata in una sorta di aura ferma, come opera di altezza inusitata, icona di un moderno romanticismo; riconosciuto maestro del progetto urbano, con qualche riserva alla Giedion: non si fermò mentre il tempo fuggiva trascinando con sé cambiamenti in tutte le arti, soprattutto grazie alla liberazione degli spiriti e delle vocazioni nelle persone e nelle classi sociali dopo la guerra. Egli non si sottrasse alla prova dinnanzi all’affermazione di nuove correnti culturali, di nuove tendenze. Occorsero anni per ottenere importanti, sorprendenti risultati col progetto architettonico. Si dedicò soprattutto per quasi tre lustri alla progettazione e alla realizzazione del Museo municipale dell’Aia, la sua città d’adozione (morì l’anno prima dell’inaugurazione). Un complesso spettacolare articolato in volumi derivati da uno studio accurato del rapporto fra esterno e interno. La presenza di bacini d’acqua, quasi obbligata dalla storica condizione del paese, ne aumenta il fascino. Il disegno riflette la correlazione fra le diverse sperimentazioni e conquiste dell’architettura in Olanda, (con qualche riverbero di tutt’altra origine): Il movimento De Stijl, l’architettura lineare di Dudock, l’Art Déco evoluzione dell’Art Nouveau e dell’espressionismo, il pensiero di Wright, l’amicizia con Mies van der Rohe… Berlage non ne trasse imitazioni, ognuna concorse ad aumentare la preparazione critica verso la realtà dell’arte del suo tempo e a partecipare alla creazione tutta sua di un capolavoro.
(segue)
Il 24 dicembre, vigilia di Natale, all’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York è stata approvata la risoluzione L.41 che impone l’avvio di negoziati per mettere fuori legge le armi nucleari, primo passo per la loro abolizione totale. La risoluzione è stata approvata con 113 voti a favore, 35 contrari e 13 astensioni; Hanno votato contro le potenze nucleari (ma la Cina si è astenuta), che non intendono privarsi delle loro bombe nucleari, molti paesi europei.
L’Italia ha votato a favore, cambiando il voto contrario alla stessa risoluzione espresso nella commissione disarmo il 27 ottobre scorso.
Il governo italiano, con il voto a favore del disarmo nucleare, ha ascoltato la voce di tante associazioni e persone - anche in eddyburg -che hanno chiesto tale svolta nella politica italiana e la voce del papa Francesco che domenica prossima, nella giornata della pace, ripeterà l’appello proprio in favore “della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari”, denunciando che la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca non assicurano la coesistenza pacifica fra i popoli.
Nel mondo nove paesi possiedono armi nucleari; ce ne sono 15.000, molte su missili intercontinentali, pronte a portare morte e distruzione in qualsiasi parte del pianeta; alcune bombe termonucleari americane sono anche in Italia a Ghedi e Aviano.
Tutto questo dovrebbe gradualmente cessare con i negoziati per l’eliminazione delle armi nucleari che cominceranno nel 2017, settantadue anni dopo il lancio della prima bomba atomica americana su Hiroshima; molti problemi tecnici, economici, ecologici e politici, dovranno essere risolti, il cammino sarà lungo e difficile ma è cominciato.
Con l’eliminazione delle bombe nucleari, le centinaia di miliardi di dollari che ogni anno le potenze nucleari spendono per l’aggiornamento e il perfezionamento dei loro arsenali, potrebbero diventare disponili per assicurare cibo, acqua e case ai due miliardi di poveri del mondo.
Quante cose possono succedere se si preme il tasto giusto, quello del disarmo e della pace, durante la votazione in una aula delle Nazioni Unite, in un freddo giorno invernale.
Pochi giorni fa, un tizio sul social network mi impartiva una sua personale lezioncina declinando il classico tema «è il mercato, baby!» (segue)
Il vero problema, qui, è che il commentatore non ha quattordici anni, non sta scoprendo da adolescente più o meno traumatizzato le difficoltà di una vita circondata da egoismo e particolarismi: si tratta di un professionista delle politiche urbane, e pure di un ex amministratore eletto, piuttosto attivo proprio in quell'ambito. Sentirlo liquidare così, anche se forse si trattava di una battuta forzatamente cinica, le potenzialità di un mezzo così efficace per la mobilità, non è un bel segnale. Soprattutto se si mescola a tanti altri, piccoli e meno piccoli, dello stesso tono, tutti piuttosto sbilanciati a indicare una sorta di schizofrenia nell'offerta delle cosiddette «alternative all'auto privata» negli spostamenti in città. Per essere alternativi a qualcosa in particolare, si dovrebbe in tutto o in parte riuscire a presidiare il medesimo campo, e nel caso dell'auto quel campo sono le varie attività urbane sparse sul territorio a una certa distanza, che il mezzo privato consente di connettere con una certa storica efficacia. Una efficacia che non è sicuramente eguagliabile dal pedone, ma che dovrebbe essere perseguita dal mix di mezzi che per così dire «prolungano» e complementano la pedonalità: dai trasporti pubblici classici, alle nuove offerte della condivisione.
E invece quella miscela pare non avere nessuna intenzione di comporsi, viaggiando ciascun mezzo e rete per conto proprio, salvo in quella percezione distorta e falsamente «integrata» che si verifica dentro il piccolissimo nucleo centrale metropolitano, ricco sin ben oltre la saturazione di una vera e propria overdose di queste offerte. Accade così che dentro la microscopica città densa (e poco abitata per via della nota terziarizzazione dei decenni passati) letteralmente si inciampi ad ogni passo in qualche automobilina in condivisione di qualche operatore, spesso una mezza dozzina parcheggiate in attesa di clienti nel medesimo tratto di via, ma poi si trovi il deserto totale nella notte periferica. E questo non perché non esista domanda, ma perché gli operatori, per motivi tutti propri, semplicemente non servono quelle zone, esattamente come accade alle biciclette in condivisione, o per altre ragioni le linee di metropolitana o di tram. E infatti, la periferia – vale a dire la quasi totalità del territorio urbano-metropolitano, è zona di caccia esclusiva dell'auto privata. E se constatare queste cose, anche solo limitarsi a sottolineare che i «trasporti alternativi» non trasportano da nessuna parte, significa suscitare le risate di scherno di chi si candida ad occupare posizioni di potere nella pubblica amministrazione, stiamo messi piuttosto male. Dobbiamo davvero fare anche noi così, comportarci da ragazzini un po' cinici un po' ingenui, e pensare alle alternative di mobilità solo come problema di immagine, di mercato, di pubblicità? Roba da rifilare ai turisti? È piuttosto deprimente, baby
come ha appena fatto Helsinki, il cui consiglio comunale ha rifiutato di costruire, e pagare, una filiale del museo Guggenheim perché “troppo cara per la città, richiede troppo denaro pubblico, occupa un sito di proprietà pubblica troppo pregiato per regalarlo a dei privati!”
La vicenda è stata ignorata dalla stampa italiana, ma andrebbe studiata attentamente, se non dagli amministratori, impegnati a farsi immortalare mentre inaugurano sedicenti musei, che spesso sono solo involucri vuoti, ancorché firmati da costosi architetti, dai cittadini terrorizzati di perdere le “occasioni uniche” elargite dalle multinazionali dell’arte, tra le quali la fondazione Guggenheim primeggia.
A partire dagli anni ’90, la fondazione ha dato avvio ad un piano di espansione globale delle sue attività e imposto una radicale trasformazione del significato e del ruolo dei grandi musei ridotti ad “attrazioni” per turisti e acceleratori di gentrificazione urbana. Dopo Bilbao, le successive tappe di tale piano avrebbero dovuto essere Abu Dhabi e Helsinki.
Il progetto per Abu Dhabi, la cui inaugurazione era inizialmente prevista per il 2017 (ma i lavori sono fermi e non è chiaro se e quando riprenderanno), ha suscitato critiche di varia natura, e non solo con riferimento alla qualità dell’intervento architettonico, firmato da Frank Gerhy e praticamente una replica di quello costruito a Bilbao. Gli oppositori hanno contestato l’approccio post- coloniale dell’operazione, definita una sorta di scambio “oil for art”, perché la gestione e ogni scelta di rilievo sarebbero rimaste a New York, e hanno denunciato e portato all’attenzione di tutto il mondo le condizioni di sfruttamento e semischiavitù dei lavoratori impiegati nella costruzione. Qualche mese fa GULF Labor, una NGO impegnata nella difesa dei diritti umani, ed un gruppo di artisti hanno proiettato sulla superficie esterne del Guggenheim a New York la scritta “Ultra luxury art, ultra low wages”.
La performance ha avuto grande visibilità e ha molto irritato la direzione della fondazione, ma non incide sull’accordo sottoscritto dall’emirato.
A Helsinki, invece, la mobilitazione dei cittadini ha obbligato le autorità locali a fermare il progetto la cui genesi era iniziata nel 2011, quando grazie a un’intensa attività di lobbying la fondazione aveva ricevuto l’incarico, nonché due 2 milioni e mezzo di dollari, per predisporre un piano di fattibilità per un Guggenheim Helsinki, dopo di che aveva suggerito di collocare il nuovo museo sulla parte più pregiata del waterfront, di proprietà della città, e di indire un concorso internazionale di architettura.
Già allora molti cittadini protestarono sia per i costi, 144 milioni, che per i probabili effetti negativi che il Guggenheim avrebbe avuto su altre strutture locali - musei e gallerie - e il consiglio comunale bocciò la proposta. I settori favorevoli però, soprattutto commercianti, albergatori e operatori turistici, hanno formato un gruppo di sostegno alla fondazione e concordato con questa una modesta riduzione dei costi a carico della città, cioè uno sconto sull’affitto del nome il cui prezzo, dai 30 milioni (uno all’anno) inizialmente richiesti, sarebbe stato ridotto a 20 milioni e una possibile partecipazione finanziaria anche da parte dello stato.
La fondazione, quindi, ha elaborato una nuova proposta e indetto un concorso di progettazione che si è concluso nel 2015.
Ma l’attenzione dell’opinione pubblica non ha mai smesso di seguire la vicenda e di evidenziarne gli aspetti negativi, dall’intenzione di sfruttare i cittadini per costruire un museo finalizzato al profitto privato al tentativo di imporre un modello che considera il museo come un marchio da cedere in franchise, invece che come strumento per promuovere il pensiero critico, e propaganda la vendita sui mercati locali di una merce globale, cioè l’arte contemporanea, con tecniche che essenzialmente sono una versione neoliberale del colonialismo culturale. Questa opera di svelamento è stata resa possibile anche perché gli intellettuali non sono stati in silenzio, e molti architetti e critici d’arte si sono impegnati per costruire alternative alla “McDonald dell’arte”. I risultati del loro lavoro sono ora raccolti nel volume The Helsinki effect. Public alternatives to the Guggenheim model of culture driven development.
Nel settembre 2016, la questione è arrivata in parlamento. Il ministro degli affari economici Olli Rehn (quello che non era mai contento dei conti pubblici italiani) si è dichiarato favorevole a stanziare 40 milioni, sostenendo che ne sarebbero derivati benefici all’economia e al turismo, ma il partito “populista” ha messo il veto sull’uso di soldi statali, con il risultato che il conto da pagare sarebbe nuovamente ricaduto tutto sulla città che ha, quindi, dovuto nuovamente votare sulla questione.
In una votazione ristretta la giunta comunale si è espressa a favore, ma i consiglieri sono stati sommersi da una petizione popolare inviata online che intima loro: City of Helsinki Councillors! Vote NO to the Guggenheim proposal!
Il testo con il quale i cittadini sono state sollecitati a sottoscrivere l’appello è molto semplice:
«Malgrado il consiglio comunale abbia già votato NO nel maggio 2012, è stato bandito un concorso di architettura. E’ questo un processo democratico? Un tentativo di far pagare allo stato finlandese il conto per i loro progetti è fallito. Ora, poche settimane dopo riprovano a far pagare con soldi pubblici i loro affari molto privati. E tutto questo in tempi di austerità e tagli!» e il messaggio si basa soprattutto sulle cifre che quantificano l’entità dei costi per i cittadini che si traducono in profitti per la corporation:
- 98 milioni di euro per l'edificio e la sistemazione del sito, in contanti dalla città,
- 35 milioni in prestiti garantiti dalla città,
- 1,3 milione di euro ogni anno dal ministero dell’educazione e della cultura, o in caso di non pagamento da parte del ministero, dalla città
- 0,9 milioni annuali per la manutenzione a carico della città,
- da 3 a 6,5 milioni di deficit ogni anno, perché la città coprirà tutti i rischi derivanti da previsioni finanziarie (introiti sovrastimati e costi sottostimati) totalmente non realistiche.
Per non parlare di una mai vista esenzione da IVA, mentre tutti gli altri musei privati pagano le tasse, per non parlare del terreno ceduto gratuitamente, per non parlare di 1 milione di euro all’anno solo per avere il brand Guggenheim.
In conclusione: oltre 100 milioni di euro per un museo privato che non corre alcun rischio finanziario e la cui gestione è in mano a una corporation straniera.
«Chi pagherà per tutto questo? TU. La proposta dice chiaramente che tutti i rischi saranno della città di Helsinki, dei contribuenti, dei cittadini, cioè NOI. Firma, dici ai nostri consiglieri di votare NO a questo progetto rischioso, costoso e antidemocratico. Se solo una frazione di tutto questo denaro andasse a iniziative culturali e ai musei locali, questo arricchirebbe la nostra città!»
I cittadini hanno firmato in massa e il consiglio comunale non ha potuto far altro che votare NO.
l signor Renzi che compra i voti dei sindaci, nonché futuri senatori, promettendo fondi speciali alle città ubbidienti è uno spettacolo .. (segue)
La definizione “città santuario”, che non ha valore dal punto di vista legale, è entrata in uso negli anni ’80 , per indicare le chiese di varie confessioni che offrivano rifugio alle persone in fuga dall’America centrale e meridionale. Ora si è trasformata nel marchio spregiativo con il quale i sostenitori di Trump bollano tutte le amministrazioni locali che hanno adottato provvedimenti per proteggere gli stranieri senza documenti da fermi e arresti arbitrari, e in genere da pratiche discriminatorie e vessatorie. In genere, tali provvedimenti consistono nel divieto per i pubblici ufficiali di chiedere informazioni circa lo “status” di una persona e il rifiuto di detenere individui che non abbiano commesso reati, in attesa delle verifiche da parte delle autorità federali. Alcune città, inoltre, rilasciano agli immigrati un documento d’identità che consente loro di lavorare e di accedere ai servizi di base. Nel complesso la denominazione riguarda 39 città, 364 contee e 4 interi stati (California, Connecticut, New Mexico e Colorado).
Alcuni hanno cercato di rassicurare i propri concittadini. Eric Garcetti, sindaco di Los Angeles, parlando ad un gruppo di studenti preoccupati per la sorte delle loro famiglie, ha promesso che farà “tutto il possibile per impedire la deportazione degli immigrati”. “A quelli che, dopo le elezioni, hanno paura, noi diciamo, qui siete sicuri” sono le parole di Rahm Emanuel, sindaco di Chicago e “noi non sacrificheremo nessuno” quelle del sindaco di Providence Jorge Elorza (figlio di immigrati dal Guatemala).
Molti sindaci hanno sottolineato i principi morali su cui si basa la loro politica. “Noi rimaniamo una città inclusiva”… “ è una questione di diritti umani”… “cacciare migliaia di giovani cresciuti qui è immorale” hanno dichiarato, rispettivamente, i sindaci di Denver, Santa Fe e Seattle. E simili proclami si sono ripetuti in tutte le grandi città: Philadelphia, Boston, New Orleans, Dallas, Minneapolis, Newark.
Il sindaco di New York, Bill de Blasio, dopo un incontro con il presidente eletto, ha ribadito che non cederà alle intimidazioni e, se necessario, farà distruggere i database con l’elenco degli immigrati senza documenti che hanno ottenuto la carta d’identità - “non sacrificheremo mezzo milione di persone che vivono con noi e sono parte della nostra comunità, non spezzeremo le famiglie”-, e a San Francisco sia il sindaco Ed Lee -“essere una città santuario è nel DNA di San Francisco”- che il capo della polizia hanno espresso la determinazione a preservare la propria indipendenza dai federali.
Ma tutti sono consapevoli che il ricatto economico è un’arma molto potente e che il nuovo governo la userà. Come ha detto Reince Preibus, capo di gabinetto di Trump, i sindaci devono togliersi dalla testa “l’idea che le città possano disobbedire alle leggi federali e poi sperare nel nostro aiuto economico”, mentre i più acerrimi nemici delle città santuario reclamano misure ancor più punitive nei confronti dei colpevoli di “sedizione e tradimento” e , oltre all’arresto dei sindaci, chiedono l’invio dell’esercito per ristabilire il rispetto della legge.
Nei prossimi mesi si vedrà quanta parte delle minacce del governo sia mera propaganda, quali compromessi saranno negoziati nelle singole situazioni, quali contromisure le città adotteranno, ad esempio con che criteri aumenteranno le tasse locali, per far fronte al taglio dei fondi.
Ma soprattutto, la contrapposizione tra governo federale e amministrazioni locali darà il via a una serie di vertenze giudiziarie e, comunque vada, le città saranno uno dei campi di battaglia cruciali per la democrazia americana.
Dal punto di vista legale, le città oltre che sulla incostituzionalità di alcune norme persecutorie nei confronti degli immigrati contano sulla cosiddetta “anti-commandeering doctrine”, il principio, cioè, secondo il quale il governo federale non può ordinare ai pubblici ufficiali di fare qualcosa che non sia un loro obbligo secondo la Costituzione, né può emanare una legge e poi intimare alle istituzioni locali di renderla operativa. Inoltre, il bilanciamento dei poteri che è uno dei cardini della Costituzione americana, prevede che in caso di conflitto prevalga il rispetto dei principi costituzionali. Per questo, qualsiasi paragone con le due volte nelle quali un presidente ha inviato l’esercito per far applicare la legge è improponibile. In entrambi i casi, infatti - Eisenhower (Little Rock, 1957) e Kennedy (Università Alabama,1963 )- la decisione fu motivata dal rifiuto dei governi locali, in sfregio alla Costituzione, di applicare le leggi antisegregazioniste.
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divenne molto popolare come l’autore degli studi che portarono alla redazione del libro I limiti alla crescita (in italiano I limiti dello sviluppo, pubblicato da Mondadori nel 1972).
La ricerca era stata voluta da Aurelio Peccei, presidente del Club di Roma, un gruppo di scienziati, imprenditori e uomini politici; nella sua autobiografia Forrester racconta che Peccei, durante un incontro sul Lago di Como, alla fine degli anni sessanta, gli espresse le sue preoccupazioni sul futuro di una umanità presa fra una popolazione crescente, un impoverimento delle risorse naturali, consumi materiali crescenti e un crescente inquinamento.
Forrester suggerì che il problema poteva essere trattato con l’”analisi dei sistemi”, un metodo consistente nella risoluzione contemporanea di varie equazioni differenziali relative ai mutamenti nel tempo di variabili interrelate, come appunto quelle elencate da Peccei. Il progetto “sul destino dell’umanità” iniziò con un finanziamento della Fondazione Volkswagen e un primo rapporto fu presentato nel 1970 davanti ad una commissione del congresso americano.
L’analisi, condotta con gli allora favolosi calcolatori elettronici del Massachusetts Institute of Technology (MIT), forniva dei grafici in cui si vedeva che, se fossero continuate le tendenze in corso, la popolazione umana sarebbe stata destinata ad un declino dovuto al crescente inquinamento e peggioramento della salute e scarsità di cibo. Le anticipazioni delle ricerche di Forrester cominciarono a circolare in Italia già ai primi del 1971, furono presentate alla Commissione sui “Problemi dell’ecologia” istituita dal presidente del Senato Fanfani e furono discussi nel corso della conferenza sul tema “Processo alla tecnologia ?” nel febbraio 1972.
Il lavoro di Forrester, esposto nel libro World Dynamics, del 1971, attrasse grande attenzione dopo la pubblicazione, da parte dei coniugi Meadows, collaboratori di Forrester, di una versione semplificata e “popolare”. Il loro libro The Limits to Growth, apparve contemporaneamente in varie lingue in molti paese nel 1972, in fortunata coincidenza con la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano in corso a Stoccolma. Al successo e alle reazioni del libro sui “limiti alla crescita” il prof. Luigi Piccioni ha dedicato un importante saggio pubblicato nel n. 20 della rivista altronovecento.
Alla scoperta dell’analisi dei sistemi Jay Forrester, nato nel 1918 in un paesino agricolo del Nebraska, laureato in ingegneria nel MIT, era arrivato dopo una lunga carriera scientifica. Poco più che ventenne era stato coinvolto nella progettazione di dispositivi per l’orientamento automatico delle antenne dei radar della difesa antiaerea. Alla fine della seconda guerra mondiale aveva partecipato alla costruzione del calcolatore elettronico Whirlwind utilizzando le memorie a nuclei magnetici inventate da An Wang nel 1949. Con questi nuovi strumenti di calcolo elettronico nei primi anni cinquanta del Novecento era possibile risolvere le complicate equazioni matematiche capaci di analizzare degli insiemi, dei “sistemi”, di grandezze economiche, sociali e biologiche legate fra loro.
Nel 1956 la Fondazione Sloan decise di istituire un cattedra di gestione aziendale presso il MIT al fine di portare i manager industriali a contatto con le realtà dell’ingegneria nel più prestigioso centro di tecnologie avanzate. Forrester fu chiamato a coprire tale cattedra e applicò la “analisi dei sistemi” ai fenomeni aziendali.
L’analisi dei sistemi permetteva di descrivere come i vari fattori delle attività di un’impresa - materie prime, produzione, distribuzione, mercato, personale - sono legati fra loro e si influenzano a vicenda; che cosa succede di ciascuno, per esempio dell’occupazione, se aumentano i costi di produzione e diminuisce la richiesta del mercato. La soluzione contemporanea di adatte equazioni matematiche può offrire una risposta a simili domande, come Forrester mise in evidenza con il libro Industrial Dynamics del 1961.
Una successiva occasione di applicare il nuovo modo di ragionare Forrester ebbe nel 1968 quando il sindaco di Boston gli chiese se fosse possibile analizzare il sistema urbano - distribuzione di abitazioni, servizi, uffici, trasporti - con il suo metodo. I risultati sono contenuti nel libro Urban Dynamics del 1969.
Dopo il successo del libro sui “limiti alla crescita” Forrester ha continuato a diffondere la cultura dell’analisi dei sistemi la cui utilità è andata crescendo a mano a mano che diventavano disponibili calcolatori elettronici sempre più potenti.
L’analisi dei sistemi non consente, né vuole, fare previsioni, come erroneamente credevano molti critici della ricerca del Club di Roma sul futuro dell’umanità, ma induce ad interrogarsi su quello che potrebbe succedere se: se aumenta la popolazione mondiale aumenta la produzione industriale; se aumenta la produzione industriale aumenta l’inquinamento; se aumenta l’inquinamento si diffondono malattie che rallentano la crescita della popolazione, e così via. Insomma uno strumento che aiuta a considerare che persone, economie, territori, città, materie prime, risorse naturali, sono legati da invisibili ma solidissimi fili. Meglio rendersene conto.
Tra i vincitori in borsa delle elezioni americane, spiccano Corrections Corp e GEO Group, due società che possiedono e gestiscono prigioni private, le cui azioni sono salite rispettivamente del 48% e del 34% , e la Magal Security Systems il cui titolo ha guadagnato il 20% in una settimana.
The Immigrant-Only Prisons (2015) |
Per i padroni delle prigioni, la vittoria di Trump rappresenta l’occasione di invertire la crisi del settore, che si era profilata in seguito alla decisione del Dipartimento di Giustizia di sospendere contratti e appalti in seguito ai molteplici scandali e alle denunce di violenze e maltrattamenti ai danni dei detenuti. Ora, la prospettiva di incarcerare un gran numero di immigrati senza documenti, è per loro una garanzia di grandi profitti. Va ricordato, a questo proposito, che undici carceri privati sono destinati esclusivamente ai non-cittadini americani ed è chiaro che i “clandestini” sono i clienti perfetti per queste strutture.
Magal Security Systems è una società israeliana, quotata a Wall Street, leader mondiale nel settore della cyber sicurezza. Oltre alle recinzioni della striscia di Gaza e ai vari dispositivi per ingabbiare i palestinesi, ha realizzato anche le barriere lungo le frontiere con l’Egitto e la Giordania che impediscono il passaggio di profughi e migranti africani.
I dirigenti di Magal sottolineano che la società non si occupa di filo spinato, ma crea e realizza “smart fences”, cioè barriere che richiedono l’impiego di sofisticati sistemi tecnologici (sensori e dispositivi mobili e satellitari) ed è una delle “punte di eccellenza nel mercato della sicurezza”.
Magal Security Systems built the walls around Gaza |
“Stiamo sempre più concentrandoci sul mercato internazionale”, dicono i portavoce della società che, in Europa ha già fornito i sistemi di video sorveglianza dell’aeroporto di Monaco ed in Africa sta cercando di aggiudicarsi la costruzione dei 682 chilometri di confine tra il Kenya e la Somalia. Nel corso di una recente visita a Nairobi, insieme al primo ministro israeliano Netanyahu, i suoi rappresentanti si sono dichiarati fiduciosi di ottenere la commessa, perché “chiunque può mostrare un powerpoint, ma solo noi abbiamo realizzato un progetto complesso e costantemente testato come Gaza!”. A dimostrazione che Gaza è un laboratorio dove il blocco militare, industriale e accademico, che ha trasformato Israele in un efficiente e feroce cane da guardia, sperimenta su cavie umane i suoi prodotti e poi li vende ai governi dei paesi democratici.
Non a caso, Saar Koursh, l’amministratore delegato di Magal, è molto soddisfatto della situazione mondiale. ”Il business dei confini sembrava aver toccato il fondo”, ha detto, “ma poi è arrivato lo stato islamico e il conflitto siriano … il mondo sta cambiando e le frontiere stanno tornando. E’ un grande momento”. E in effetti, grandi momenti si profilano all’orizzonte, se Trump manterrà la promessa fatta durante la campagna elettorale di affidare alla ditta, che è già impegnata in Arizona nella costruzione di barriere anti immigranti, la fortificazione del confine con il Messico.
Ma non è solo Trump a scegliere il marchio Magal. Delle sue tecnologie d’avanguardia messe a punto in decenni di occupazione dei Territori Palestinesi, si è discusso la settimana scorsa alla conferenza HLS & Cyber 2016 (Tel Al Aviv 14-17 novembre) dedicata alla “Homeland security”, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di alcuni governi europei, nonché di Frontex e Interpol. L’Italia ha inviato una “delegazione imprenditoriale e istituzionale di primo piano” (da Enav a Eni a Finmeccanica-Leonardo) e due italiani sono stati inclusi tra gli speaker internazionali: il capo della polizia Franco Gabrielli, che ha espresso la sua ammirazione per la tecnologia israeliana e Alfio Rapisarda “senior vice president security” di Eni, le cui buone azioni in giro per il mondo necessitano protezione e sicurezza
Nel corso dell’anno ci sono tantissime ”giornate” ecologiche, quella della Terra, quella dell’ambiente, dell’acqua, degli oceani, eccetera. E passa quasi inosservata una giornata mondiale … dei gabinetti, che pure cade ogni anno il 19 novembre, organizzata dalle Nazioni Unite. Quest’anno il tema è “Gabinetti e occasioni di lavoro”.
Nei paesi industrializzati, giustamente, si combattono battaglie per ridurre i milligrammi di metalli o il numero di batteri come Escherichia coli che possono essere tollerati nelle acque di fogna, ma nel nostro pianeta 2400 milioni di persone non hanno fognature, e 700 milioni, il 10 percento della popolazione totale, non hanno neanche acqua corrente e gabinetti nelle loro case, che talvolta sono soltanto baracche. Gli escrementi finiscono nei campi e da li, con il loro carico di batteri e di sostanze nocive, sono trascinati dalle piogge nei fiumi e nel sottosuolo e finiscono nei pozzi e contaminano le acque usate poi nelle case: un ciclo perverso dell’acqua che diffonde malattie, epidemie e morte, soprattutto infantile.
Esiste una organizzazione mondiale per la diffusione dei gabinetti, la World Toilet Organization, che ha tenuto, proprio nei giorni scorsi, la propria 15a riunione annuale a Kuching, in Malaysia. In quella occasione è stato reso noto il rapporto annuale che ha descritto lo stato dei servizi igienici nel mondo. Ogni anno oltre 300 milioni di bambini in tenera età, una strage degli innocenti, muoiono per malattie associate alla mancanza di pur elementari servizi igienici.
Le iniziative per assicurare servizi igienici per i paesi sottosviluppati non sono motivate soltanto da considerazioni etiche o dall’amore per il prossimo; la diffusione di apparecchiature igieniche per chi ne è privo rappresenta un grandissimo affare industriale e finanziario; al fianco della conferenza di Kuching c’era una grande esposizione di gabinetti e fognature in cui centinaia di imprese hanno presentato le proprie proposte di sistemi igienici, possibilmente a basso costo e efficienti, da esportare nei paesi arretrati.
Il “mercato” è sterminato: in paesi come il Sud Sudan, Madagascar, Congo e Ghana, oltre l’80 percento della popolazione non ha gabinetti. La situazione non è migliore neanche nelle abitazioni delle megalopoli di molti paesi emergenti nei quali la rapidità della crescita delle città non tiene il passo con il dovere di assicurare adeguati servizi igienici di gabinetti, fognature, depuratori.
La cui mancanza “costa” anche in soldi per l’economia di ciascun paese se si considerano le spese che la collettività deve affrontare per curare dissenteria, malaria, epidemie e malattie provocate dal contatto con acqua sporca nelle case e nei villaggi.
Le Nazioni Unite si sono poste un obiettivo globale di assicurare servizi igienici minimi per tutti nel 2030 e mancano appena 17 anni. E’ quindi evidente che le autorità sanitarie dei vari paesi chiederanno, a chi li sa produrre, apparecchiature igieniche, contando anche su finanziamenti internazionali.
La dimensione del problema appare se si considera che ogni persona, sia essa ricca e potente o povera e poverissima, ogni anno introduce, direttamente o con gli alimenti, circa 1000 chili di acqua che vengono eliminati con gli escrementi sotto forma di urina e di feci. Se una persona può utilizzare un gabinetto ad acqua corrente, “consuma”, per lo smaltimento di questi rifiuti, ogni anno da 10 a 20 mila litri di acqua che viene così sporcata e contaminata; se i gabinetti sono collegati ad una fognatura e a qualche depuratore, una parte dei rifiuti organici viene trattata o trasformata; altrimenti le acque sporche vanno a finire nei fiumi o nel mare e sono fonti di inquinamento microbiologico e di diffusione di virus. In molti paesi non ci sono gabinetti e neanche acqua sufficiente.
E’ una nuova corsa a inventare, perfezionare e fabbricare strumenti per migliorare le condizioni igieniche del mondo, specialmente dei paesi più poveri: occasioni per affari e attività industriali. Nei paesi industriali ci sono investimenti e pubblicità per servizi igienici sempre più sofisticati per una popolazione che pure ha già risolto i suoi principali problemi igienici e non c’è attenzione per un “mercato” che pure comprende centinaia di milioni di persone.
Il fatto è che nelle Università può sembrare ridicolo lavorare su problemi così “volgari” come la progettazione di “gabinetti di villaggio” e di tecniche di depurazione delle acque di fogna, benché la loro soluzione richieda spesso avanzate competenze tecnico-scientifiche.
Da noi per i paesi arretrati lavorano soltanto le associazioni di volontariato e le Famiglie missionarie, con mezzi limitati e nel disinteresse generale della politica e anche delle imprese. Alla progettazione e costruzione di gabinetti e sistemi igienici per i paesi arretrati lavorano invece intensamente proprio i paesi di nuova industrializzazione, come Cina e India; a Singapore e in India esistono dei Toilet Colleges per la ricerca tecnica e per l’educazione e l’informazione degli abitanti. Eppure queste tecnologie, umili e considerate “povere”, potrebbero dar vita anche in Europa a nuove imprese, a nuovi posti di lavoro, con prospettive di una vastissima richiesta futura. Prospettive per una ingegneria dell’amore per il prossimo e per l’ambiente.
Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto sconvolse la Calabria meridionale. L’epicentro fu individuato nel territorio di Seminara, nella Piana di Gioia Tauro, ma l’onda d’urto investì con diversa intensità l’intera regione e la Sicilia, seguita da altre potenti scosse nei giorni e mesi successivi, lasciando dietro di sé uno sciame sismico che durò anni. Fu uno dei più catastrofici terremoti della nostra storia, reso particolarmente distruttivo nei paesi della Piana dagli effetti del moto ondulatorio e sussultorio, che sollevarono il suolo alluvionale poggiante sulla roccia madre e lo scaraventarono altrove. Non pochi vigneti e uliveti furono lanciati su proprietà altrui, creando problemi ardui di ricognizione ai tecnici della ricostruzione.
Il recente terremoto rischia di rendere irreversibile il più grave problema demografico-territoriale del nostro Paese, ignorato sovranamente dalle nostre classi dirigenti. Non si tratta di “mettere in sicurezza il territorio”, come si usa dire, quasi che tutto si esaurisse in un’opera di ingegneria civile. Si dimentica la drammatica situazione della Penisola: ormai quasi il 70% della sua popolazione si addensa lungo le aree costiere e la Valle padana, mentre il centro si svuota. Se dovessero verificarsi terremoti violenti o altri eventi catastrofici in queste aree, a parte il numero dei morti, l’intera economia nazionale e le infrastrutture civili subirebbero danni che metterebbero in ginocchio per anni la nostra comunità.
Dunque, nelle terre da ricostruire non bisogna solo portare dei cantieri momentanei, ma popolazione ed economie. Le aree interne, quelle oggi abbandonate e quelle colpite dal sisma, devono rinascere non con una gigantesca opera pubblica, ma con un progetto che affidi alle popolazioni l’opera di creare o ricreare il tessuto produttivo, nuove relazioni sociali, servizi, oltre a nuovi modelli abitativi da affiancare alle ristrutturazioni. Non è un nuovo gravame che si aggiunge al nostro debito, ma un investimento per il nostro futuro: si tratta infatti di far rifiorire la nostra agricoltura montano-collinare, riprendere l’economia dei nostri boschi, estendere gli allevamenti, dare nuove opportunità all’artigianato, ai saperi alimentari, al turismo, ecc.
Sono arrivate le ruspe al Gezi Park. Tre colossi gialli dotati di leve e cucchiai dentati da qualche giorno hanno fatto la loro sinistra apparizione ai giardini che affacciano su Taksim, la piazza centrale di Istanbul.
Questo fu il teatro della rivolta del maggio 2013, repressa nel sangue dopo che migliaia di dimostranti si ribellarono alla decisione del governo conservatore islamico di abbattere gli alberi secolari per far posto a un centro commerciale. Il ministro della Cultura ha annunciato anche che il Centro culturale Ataturk, l’edificio simbolo della Turchia laica in quei giorni, a fianco del parco, sarà demolito.
Cadono in un colpo solo due emblemi di una reazione di popolo spontanea. Furono in molti a scendere in piazza per difendere l’unico polmone verde nel centro della metropoli. Donne col velo e giovani appartenenti al partito di governo, anziane armate di fionda e tifosi delle tre squadre avversarie di Istanbul uniti a braccetto. Orhan Pamuk, il Nobel per la Letteratura in quei giorni a Firenze, raccontò l’importanza del luogo e di quando la sua famiglia una notte si unì a proteggere un albero di noce perché non fosse abbattuto.
Ora, può anche darsi che tronchi e radici vengano salvati e trasferiti, dato che nel pomeriggio i giardinieri si davano da fare a dissodare il terreno. Ma i lastroni di cemento appoggiati accanto alle ruspe non promettono certo respiri ecologisti.
Il Leader ha ribadito di recente la volontà di procedere, anche se il centro commerciale non si farà più: “Una caserma militare – ha spiegato il presidente Tayyip Erdogan – verrà costruita, che lo vogliano o meno, e ospiterà un museo storico”. Quindi sarà la volta di una moschea. E poi, ha aggiunto il capo dello Stato, verrà innalzato "il primo palazzo dell'Opera della Turchia".
Il ministro della Cultura, Nabi Avci, ha giurato alla stampa che il progetto “non ha alcun approccio politico: se non lo demoliamo, il centro culturale Ataturk cadrà sulla testa di qualcuno, ormai ha completato la sua vita”.
Era l’edificio davanti al quale il coreografo Erdem Gunduz, ribattezzato l’Uomo in piedi, attuò nella sua semplicità una protesta clamorosa. Mentre le autorità erano già intervenute a sedare i disordini, proibendo assembramenti non autorizzati, Gunduz si piazzò davanti all’edificio dal quale nel frattempo era stato srotolato un enorme ritratto di Mustafa Kemal, Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, e per ore si mise a guardarlo negli occhi, in silenzio.
In breve fu imitato da centinaia di persone, e poi da decine di migliaia che in tutte le città, in ogni centro del Paese, elevavano così il loro dissenso.
Venti giorni dopo, i blindati bianchi della polizia avevano facile gioco delle barriere di cartone erette al Gezi Park, dove la gente si era organizzata con librerie e ristorantini, rivendite e ospedali da campo, a mo’ di presidio del verde pubblico. Un’immagine ora destinata al ricordo, soffocata dal nuovo cemento.
postilla
A mo' di postilla, un testo di Mathias Enard:
La città è il luogo dell'innovazione, ma qualcuno da sempre cerca di darne una interpretazione piuttosto stravagante ... (segue)
La città è il luogo dell'innovazione, ma qualcuno da sempre cerca di darne una interpretazione piuttosto stravagante, che suona più o meno: la città è il luogo dove sperimentare le innovazioni, tanto le cavie stanno lì gratis e a volte lo fanno quasi volentieri. Avviene da sempre, certo, questa forma di esperimento, forse è uno dei caratteri peculiari dell'urbanità, l'essere sempre piuttosto disponibili e ricettivi a modi, tempi, stili di vita anche radicalmente diversi da quelli praticati tradizionalmente. Ma sembra essersi fatto particolarmente insidioso dall'epoca industriale in poi, con risvolti a dir poco subdoli in questa nostra epoca attuale detta (molto spesso ideologicamente) post-industriale, con le trasformazioni cosiddette immateriali, invece materialissime, al limite della violenza, nel manifestare i propri effetti sul territorio e la società.
Si parla e straparla di smart city, dove intangibili flussi dovrebbero cullare l'umanità urbana in una felicità senza fine, ma quel che si vede in realtà è al massimo il pullulare di iniziative a volte interessanti ma piuttosto limitate (come le auto o le biciclette in condivisione, per ora poco più di un giocattolo), a volte onestamente destabilizzanti, come nel caso di UBER, quel servizio che attraverso la gestione di applicazioni per smartphone ha letteralmente sconvolto il mercato del lavoro, nei trasporti e non solo.
E ora, dall'ambito più noto e famigerato dei taxi e analoghi, la disinvolta impresa digitale vuole balzare direttamente nell'aria fresca, gestendo con le sue app nientepopodimeno che il «trasporto aereo urbano». In un corposo rapporto pubblicato pochissimi giorni fa, dal titolo Fast-Forwarding to a Future of On-Demand Urban Air Transportation, delinea anche tecnicamente a cosa si riferisce, con quello che chiama «Veicolo a Decollo e Atterraggio Verticale»: un oggetto a motore elettrico, pochissimo rumoroso e a basso impatto, prodotto in grande serie, facile da gestire e pilotare, e che trasformi il cielo delle città in una specie di nuova frontiera della mobilità infinita, relativamente a buon mercato.
L'aspetto più surreale di tutta la faccenda è che non solo questo veicolo non esiste al momento, ma mancano anche moltissimi dei presupposti tecnologici e organizzativi che ne consentirebbero l'esistenza, e che il rapporto elenca dettagliatamente. Nondimeno, UBER abituata a maneggiare flussi immateriali per spremere materialissimi profitti, non si scoraggia certo per una bazzecola del genere, e si dilunga addirittura a spiegare quali debbano essere le trasformazioni urbane e infrastrutturali necessarie per lo sviluppo di questo nuovo futuribile servizio. Col più classico atteggiamento degli innovatori a senso unico, che ben conosciamo dopo un secolo di adattamento unilaterale delle città all'automobilismo solo per fare l'esempio più macroscopico, il concetto base è che tutto va benissimo, tutto si tiene, tutto ci farà felici, MA soltanto SE .... Basta seguire passivi il flusso degli eventi e avere fede nel trionfo dell'Idea, insomma. Ma cosa dovranno fare, esattamente, le città per eseguire gli ordini?
Innanzitutto partire da quel che già è disponibile, in una sorta di post-dismissione e riuso degli attuali eliporti per macchine tradizionali, ivi compresi quelli dichiarati inagibili proprio per i motivi di rumori e altri impatti che la nuova, virtuale tecnologia dà per superati. Ed ecco già apparire sui radar la nuova griglia della «rete eliportuale urbana», che redistribuisce gerarchie, e magari valori immobiliari relativi (certo, in attesa che la solita burocrazia municipale allenti i soliti lacci e lacciuoli, prima che il mercato faccia da sé). E a questo proposito esiste già addirittura una gerarchia interna, via di mezzo tra la logica degli aeroporti e quella delle normali infrastrutture automobilistiche, a distinguere i grandi nodi, detti Vertiport, da quelli di scala intermedia chiamati invece Vertistop, un po' analoghi a capolinea e/o incrocio di interscambio o fermata intermedia nella mobilità collettiva terrestre da comuni mortali. Magari, solo nei Vertiport potrebbero collocarsi gli impianti di ricarica rapida delle (tuttora inesistenti, si badi bene) batterie elettriche dei motori (pure di là da venire) delle trottole volanti immaginate pur nei minimi dettagli da UBER.
Un capitolo assai importante, se non altro per il portafoglio degli interessati, riguarda ad esempio il trasporto aereo «urbano» door to door e naturalmente svela in fondo quello che tutti già potevamo intendere, ovvero che i nostri operatori della fantascienza mescolata all'impresa postmoderna, hanno un'idea di ambiente urbano del tutto analoga a quella di certi economisti conservatori: città è il posto dove ci sono valori monetari in qualche modo legati a trasformazioni edilizie. Perché pensare, immaginare, elicotteri per quanto di dimensioni contenute e impatti evanescenti, che facciano servizio sullo zerbino di casa in stile cartone dei Pronipoti, significa far riferimento a un sistema di quartieri a dir poco a bassa densità, del tutto controcorrente rispetto ad ogni indirizzo ambientale e sociale emerso negli ultimi anni.
E analogo invece al primissimo comparire del vero, individuabile antenato ideologico di questi elicotterini fantasiosi di UBER: la Broadacre di Frank Lloyd Wright degli anni '30, dove di macchine del genere se ne vedono sia svolazzanti che parcheggiate, nell'utopia autostradale. Insomma, in definitiva e senza voler esaurire qui l'incredibilmente intricata questione, vale davvero la pena di tenere sott'occhio quel che stanno escogitando, i sedicenti profeti tecnologici del terzo millennio, per evitare di doverne subire troppo passivamente le pensate. E soprattutto, non rischiare di sentire, quando certi effetti si manifesteranno concretamente, il solito «ma noi a quell'epoca non potevamo certo sapere». Basta informarsi, e lo sappiamo.
Su La Città Conquistatrice qualche considerazione generale in più su questa Invasione delle Trottole Volanti, e il link a cui scaricare il documento tecnico integrale di oltre cento pagine, coi particolari dettagliatamente immaginati da Uber
Saskia Sassen ha spiegato che cos'è e come funziona la "infrastruttura globale", l'Economist ci racconta del Sesto continente. Stiamo parlando di un altro mondo; che cosa rimane di quella che ancora oggi chiamiamo città? Il Sole 24Ore, 28 ottobre 2016
Il sesto continente. Cosi l’Economist definisce ormai da qualche anno l’insieme degli aeroporti del mondo e delle persone in perenne transito che li abitano, se pur a intermittenza. I numeri dati dieci giorni fa dalla Iata (International air transport association) confermano: nel 2016 i passeggeri sono stati 3,8 miliardi, numero superiore agli abitanti dell’Asia, il più popoloso dei nostri cinque continenti.
La Iata prevede inoltre che per il 2035 i passeggeri raddoppino a 7,2 miliardi, mentre entro il 2024 la Cina supererà gli Stati Uniti come primo mercato aereo e l’India supererà il Regno Unito com terzo.Le previsioni Iata canno di pari passo a quello sullo sviluppo degli aeroporti (i progetti più grandi sono in Asia) e quelli sul travel retail. Al contrario della popolazione di un continente reale, quella del sesto continente è in stragrande maggioranza adulta, ovvero “in età di shopping”.
Secondo la svedese Generation Research, tra le più autorevoli società di analisi del travel retail, nel 2015 il giro d’affari mondiale è stato di 62 miliardi di dollari (circa 57 miliardi di euro), in calo del 2,7% sul 2014 e nel 2016 la cifra dovrebbe essere la stessa: gli attentati e le crisi geopolitiche continuano a incidere negativamente sui flussi turistici e quindi sul travel retail.Se si guarda però agli acquisti di lusso negli aeroporti, il dato è positivo anche per il 2016: secondo l’Altagamma Worldwide Market Monitor curato da Bain&Company, negli aeroporti c’è stata una crescita del 6% a 14 miliardi, a fronte di un calo dell’1% a 249 miliardi del mercato del lusso nel suo complesso.
Tornando alle statistiche generali di Generation Research, si scopre che l’unica categoria a crescere è “Cosmesi e profumi”, con un +2,7% a 18,3 miliardi di euro, con una quota di mercato del 31,4%, quasi il doppio della seconda categoria, Wines&Spirits, che assorbe il 16,4% degli acquisti, in calo del 2,7% a 9,3 miliardi. In calo anche Tabacco, Enogastronomia, Orologi e gioielli, Elettronica e, last but not least, Moda e accessori, terza categoria per quota di mercato con il 14,5%, che ha perso il 3% e vale 8,3 miliardi di euro.Come detto all’inizio, l’Asia-Pacifico è già oggi leader nel travel retail, con una quota del 46,3%, quasi il doppio delle Americhe (seconde in classifica con il 26,7%) e più del doppio dell’Europa, terza con il 23,3%. Secondo la rivista di Singapore The Peak (che nel 2015 ha vinto il premio come Luxury Magazine of the Year), il primo aeroporto al mondo per acquisti è l’Incheon di Seul, con 7,3 miliardi e in Asia-Pacifico ci sono 5 scali con vendite superiori al miliardo. In Europa spicca il più grande degli aeroporti londinesi, Heathrow, il cui Terminal 5 assomiglia a un department store del lusso di ultima generazione, con tanto di servizio di personal shopper, prenotabile nelle lounge riservate a chi viaggia in business o in prima classe.
Le incognite maggiori per le vendite di lusso negli aeroporti (e non solo) sono i flussi turistici, fa notare Fflur Roberts, Head of luxury research di Euromonitor International: «Gli sbalzi valutari, l’incertezza economica e quella politica rendono il futuro del turismo di lusso altrettanto incerto. Basti pensare a Hong Kong: a causa dei disordini e del caos politico, dal 2013 gli acquisti di lusso di turisti stranieri sono scesi dal 15%. Un campanello d’allarme per l’intera regione asiatica e il suo travel retail».
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Il 27 ottobre scorso nella prima commissione dell’assemblea delle Nazioni Unite è stata votata la risoluzione L.41 che chiede che nel 2017 siano avviate trattative per arrivare ad un divieto delle armi nucleari con l’obiettivo della loro totale eliminazione, prevista fin dal 1970 dall’articolo VI del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (NPT), approvato dalla quasi totalità dei paesi della Terra, compresi quelli che possiedono armi nucleari.
La risoluzione è stata approvata con 123 voti a favore, 38 voti contrari e 16 astensioni. L’Italia ha votato contro. E’ questa, a mio parere, la vergogna, ed è il risultato dell’aver lasciato nelle mani del governo le decisioni importanti, senza consultazione del popolo che si esprime attraverso il Parlamento.
Una ulteriore riprova delle conseguenze negative dell’eventuale approvazione di una riforma costituzionale che, per “velocizzare” le decisioni, giuste o sbagliate, del governo, riduce ulteriormente il potere del Parlamento e il suo controllo sul governo che è chiamato ad “eseguire” quanto il Parlamento decide.
La risoluzione L.41 sarò oggetto di ulteriore votazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine di autunno. Come elettore di questo Parlamento chiedo che esso dia mandato al suo potere esecutivo di votare a favore dell’inizio di un cammino che porti al divieto totale delle armi nucleari auspicato da cittadini, studiosi, intellettuali, dal Papa Francesco e dai suoi predecessori, e che è un obbligo giuridico preso anche dall’Italia firmando il Trattato di non proliferazione NPT.
Nel mondo esistono ancora più di 15.000 bombe nucleari sufficienti per diffondere morte, malattie e danni all’ambiente nell’intero pianeta; per il loro ammodernamento e perfezionamento si spende nel mondo ogni anno l’equivalente di migliaia di miliardi di euro. Siamo ancora in tempo a eliminare le armi nucleari: chiediamolo ad alta voce.
La quantità di notizie, comunicati, diffide, appelli a favore o contro la costruzione a Roma di un nuovo stadio, sul terreno dove sorgeva l’ippodromo di Tor di Valle, rischia ... (segue)
La quantità di notizie, comunicati, diffide, appelli a favore o contro la costruzione a Roma di un nuovo stadio, sul terreno dove sorgeva l’ippodromo di Tor di Valle, rischia di far percepire una vicenda di grande rilievo, per quanto concerne i rapporti tra cittadini, pubbliche istituzioni e privati investitori, come una faida locale tra sindaci e assessori di diversi gruppi politici. Purtroppo, la questione è molto più seria e, a mio avviso, andrebbe esaminata tenendo conto di una serie di fenomeni tra loro collegati.
Il primo è la trasformazione, sancita con legge del 1996, delle società calcistiche da associazioni che avevano come scopi quelli connessi all’esercizio della pratica sportiva a imprese a fini di lucro, con la possibilità di quotarsi in borsa. Molte società di calcio, che in precedenza appartenevano a imprenditori locali, sono state acquistate da investitori finanziari. Oggi, ad esempio, il 78% della Roma è di due società del Delaware, paradiso fiscale degli USA; il Bologna è del canadese Joey Saputo, uno dei 300 uomini più ricchi al mondo; il Venezia è di una cordata rappresentata dall’americano Joe Tacopina. Ovviamente, l’obiettivo primario di queste società è quello di generare profitti da distribuire agli azionisti, un obiettivo che non si raggiunge certo con la vendita dei biglietti, ma in parte con le sponsorizzazioni e la cessione dei diritti televisivi, e sempre di più con investimenti finanziari e immobiliari.
Tra i molteplici effetti della finanza speculativa sul calcio, ben raccontati da Marco Bellinazzo in Goal economy. Come la finanza globale ha trasformato il calcio (Baldini &Castoldi, 2015), figura anche la questione della proprietà degli stadi (al momento solo la Juventus, l’Udinese e il Sassuolo hanno un loro stadio) e dei rapporti tra le società di calcio ed i comuni proprietari degli impianti e dei terreni su cui sorgono.
Su questo tema, già nel 2013, in un articolo intitolato “Cosa spinge i magnati stranieri a investire nel calcio italiano?” apparso sulla rivista Sport Business Management (19- 06-2013) si spiegava, con riferimento a Roma e a Venezia, che un elemento comune alle due cordate è che “appena si sono insediate, hanno indicato nello stadio di proprietà un elemento da realizzare il prima possibile… entrambe sanno che tali strutture rappresentano un elemento imprescindibile per generare ricavi, perché, una volta ultimati, tali stadi, considerando l’afflusso di turisti che hanno Roma e Venezia, diventeranno dei veri e propri monumenti cittadini da visitare, permettendo alle città un ulteriore sviluppo dal punto di vista turistico e di conseguenza economico”.
In secondo luogo, decisiva si sta dimostrando la determinazione del governo centrale di favorire gli speculatori immobiliari locali e internazionali, bypassando gli enti locali, che ha aumentato, anche grazie all’impoverimento programmato dei comuni, il potere negoziale e/o ricattatorio degli investitori privati, nel caso specifico dei padroni delle società calcistiche. Tale tendenza ha subito un’accelerazione con il governo Letta che, nel dicembre 2013, ha adottato un provvedimento per favorire non solo la costruzione o il rifacimento degli stadi, ma l’edificazione al loro intorno, se non al loro interno. Secondo Assoimmobiliare, tale legge ha introdotto “un adeguato e rivoluzionario impianto normativo.. determinando anche il concetto di impianto polifunzionale e rendendo molto più snelle le relative procedure”.
Non è un caso che, nello stesso periodo, sia stata avviata a Torino la cosiddetta operazione Cantinassa “un area che rappresenta l'ideale prosecuzione dell'investimento che la Juventus ha condotto sullo stadio e ha trovato nel comune una sponda molto disponibile al confronto, approvando in tempi brevi la variante urbanistica, indispensabile per portare avanti il progetto".
L’operazione Cantinassa è stata così vantaggiosa che, nel 2015, insieme a Accademia SGR, UbiBanca e Unicredit, la società ha creato J Village Juventus, il primo fondo immobiliare del calcio, che promuoverà lo “sviluppo di molteplici attività, direttamente o indirettamente collegate allo stadio di proprietà di Juventus… e la trasformazione e la valorizzazione di spazi urbani non centralissimi mediante un’opera di riqualificazione… oltre a eventi sportivi, il Village offrirà anche servizi culturali, di intrattenimento, gastronomici, di edutainment e di hospitality”.
Il cosiddetto ammodernamento degli stadi, quindi, ha poco a che vedere con esigenze di messa in sicurezza di strutture vetuste; è piuttosto l’avvio di un radicale ridisegno delle città italiane a vantaggio di chi ha individuato negli stadi degli enormi involucri pieni di rendita di cui impadronirsi. E’ chiaro, infatti, che se gli stadi e le aree di loro pertinenza diventano di proprietà dei club, i quali appartengono a cordate di capitali e ai relativi fondi immobiliari, intere parti di città italiane vengono sottratte ai loro cittadini, anche dal punto di vista giuridico.
Tale scenario ha suscitato l’unanime entusiasmo del mondo accademico, immobiliare e delle costruzioni. Nel 2015, ad esempio la Luiss ha organizzato un master dal titolo “ Stadi e impianti sportivi: le nuove frontiere della valorizzazione immobiliare” con la partecipazione di Assoimmobiliare, che ha costituito una delegazione ad hoc per il settore degli stadi, e Sportium, “una nuova realtà professionale, un vero e proprio consorzio di professionisti e società, che si propone come primo riferimento specializzato esistente in Italia.
Il governo Renzi non solo aderisce totalmente al progetto, ma ne ha allargato l’ambito alle squadre di serie B. Il 27 settembre 2016 è stato sottoscritto un protocollo di intesa tra Invimit (Investimenti Immobiliari Italiani), B Futura (società di scopo interamente partecipata dalla Lega B) e l’Istituto che attraverso lo strumento del Fondo Immobiliare, l’Istituto per il Credito Sportivo per la promozione di operazioni di valorizzazione di stadi e impianti sportivi attraverso lo strumento del fondo immobiliare.“Grazie a questa iniziativa, ha detto il presidente di Invimit Massimo Ferrarese, potranno nascere appositi Fondi Obiettivo gestiti da Sgr di mercato e promossi dagli enti territoriali proprietari degli impianti oggetto di valorizzazione”. In altri termini, i comuni dovranno cedere gli stadi.
Infine, a questo piano di spoliazione, si aggiunge la beffa che di fatto i comuni sono obbligati a dichiarare “di interesse pubblico” i progetti dei privati, dopo di che, se non li approvano rapidamente, devono pagare enormi penali. Una sorta di TTIP a livello locale a garanzia del rendimento del capitale degli investitori al quale i comuni hanno cominciato ad adeguarsi.
Pochi mesi fa, ad esempio, il consiglio comunale di Cagliari ha dichiarato il pubblico interesse della proposta per la realizzazione e gestione del nuovo stadio, un progetto di “rigenerazione urbana il cui concept è stato elaborato dalla società olandese, specializzata in impianti sportivi, The Stadium Consultancy, che si è avvalsa di alcuni professionisti polacchi coinvolti nella realizzazione degli impianti per gli ultimi europei”.
E i cittadini? A loro pensa la società crowdre:crowdfunding innovative real estate che sul suo sito ci scrive: “Ti piacerebbe che il tuo Comune potesse ospitare uno o due spettacoli al giorno di grande livello?Venerdì sera pallavolo, sabato pomeriggio tennis, sabato sera concerto, domenica pomeriggio calcio e domenica sera teatro, ecc … Il Comune non ha denaro per potersi permettere tutto questo? Voi trovateci un’area ben collegata ad aeroporti, treni ed autostrade ed al resto penseremo tutto noi. Non vi costeremo alcunché se ci chiamerete alla presenza di almeno due presidenti delle principali squadre del vostro comune e dell’intera giunta.”
Se la situazione è questa, l’unica informazione che sindaci e assessori, in carica e ex, di Roma dovrebbero darci è quale è “l’offerta che non si può rifiutare” alla quale soggiacciono, poi, vinca il migliore.
Mentre le stazioni ferroviarie diventano sempre più scomode per i pendolari e inaccessibili per i senzacasa, l'aumento dei passeggeri ricchi ne deforma l'uso e le trasforma in grandi magazzini cattura-portafogli. E' il Mercato, baby. Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2016
De Spirit ha parlato delle prospettive dell’acquisto di Grandi Stazioni Retail, la società che gestisce gli spazi commerciali delle 14 maggiori stazioni ferroviarie italiane, realizzato per quasi un miliardo di euro in cordata insieme ai due fondi francesi Antin e Icamap.
“Ogni anni almeno 760 milioni di persone transitano nelle stazioni ferroviarie, persone che hanno una capacità di spesa in aumento - dice De Spirit -. Non solo. Il trend aumenterà grazie all’Alta velocità. Rimane comunque tanto da fare. Di sicuro nel medio termine si possono raddoppiare i metri quadrati di Gla, per medio termine intendo un periodo di 5-7 anni. Bisogna lavorare sul tema di fare diventare un’esperienza il passaggio in stazione, oggi vissuto come un passaggio rapido durante il quale prestare attenzione ai borseggiatori. In futuro dovrà diventare invece un’esperienza shopping, così come sta avvenendo a Roma con il mercato centrale - merito della gestione precedente -, un posto di attrazione per il food con moltissima scelta di offerta che è aperto dalle 7 del mattino alla una di notte e attira oltre ai viaggiatori anche i romani”.L’obiettivo è concentrarsi ora su questa sfida. “Anche se come gruppo Borletti stiamo per aprire un outlet di 25mila metri quadrati” dice ancora. Ma De Spirit sottolinea come la cordata che ha messo le mani su Grandi Stazioni retail sia eterogenea e con orizzonti temporali diversi nelle scelte di investimento. “Siamo tre azionisti molto diversi - commenta - , degli altri due soci il fondo Antin è focalizzato sulle infrastrutture mentre il fondo immobiliare Icamap investe in centri commerciali e fa capo a Guillaume Poitrinal, già amministratore delegato del colosso Unibail Rodamco. Hanno quindi altre necessità di uscita dall’investimento. Noi possiamo restare a lungo termine”.
Il libro di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano, La città non è solo un affare, è stato edito da Æmilia University Press, 2012. Pubblichiamo in chiaro la premessa e l'indice; in calce il link per scaricare il testo integrale in formato .pdf
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Con la nuova legislatura e il licenziamento dell’assessore all’urbanistica Anna Marson, il PD, incarnato in amministratori e consiglieri regionali ex di tutto e ora renziani, ha iniziato l’opera demolitoria di quanto era stato fatto nella breve “primavera toscana”. Si procede in modo erosivo, cambiando alcuni articoli e commi della LR 65/14 (legge di governo del territorio), aggiungendovi codicilli derogatori ed eccezioni alle regole. Lo stesso vale per il Pit con valenza di Piano Paesaggistico; in questo caso il lavoro di demolizione non riguarda il testo ma la sua applicazione: un combinato - modifiche alla legge ed elusione del piano - che procede verso una definitiva normalizzazione delle politiche territoriali, asservite a una strategia che privilegia sempre e comunque le grandi opere, le infrastrutture impattanti, l’incenerimento, le messe in sicurezza fasulle, lo sfruttamento geotermico ubiquitario e a stretto contatto con oasi naturalistiche; che procede a testa bassa e a orecchie tappate, anche quando tutto ciò è contro il volere di Comuni e cittadini. Un paradigma di questo percorso è il Piano Strutturale di Lucca, adottato nel maggio 2016, e ora in fase di controdeduzione alle numerose osservazioni avanzate da associazioni ambientaliste, comitati e anche (flebilmente e strabicamente) dalla Regione Toscana.
Il piano di Lucca è esemplare di come in quattro semplici mosse si eludano leggi e Piano Paesaggistico; si propone quindi come modello per enti locali e professionisti che ne vogliano seguire la strada. Vediamo come. Prima mossa: allentare ed estendere il confine del territorio urbanizzato al cui esterno, per legge non sono permessi insediamenti residenziali, mentre qualsiasi previsione di nuovo consumo di suolo deve essere sottoposta a una conferenza di copianificazione che veda coinvolti Comuni limitrofi, eventuale Città metropolitana o Provincia, e Regione. Il nuovo PS include all’interno della “linea rossa” del confine circa cento ettari di suolo che nel piano precedente avevano una destinazione rurale o agricola; ora privi, perciò, anche della tutela offerta dalla classificazione di “area agricola interclusa” prevista dalla Legge 65/2014.
Terza mossa: sterilizzare le prescrizioni formulate come “indicazioni per le politiche” per ciascuna delle quattro invarianti nel Piano Paesaggistico adottato e poi conglobate in quello approvato in un'unica voce, come “obiettivi di qualità e direttive”. L’idea è stata di ripetere nella disciplina delle quattro invarianti (i caratteri idro-geomorfologici, i caratteri ecologici, il sistema insediativo e i sistemi agro-ambientali) letteralmente, non una virgola in più o in meno, quanto contenuto nel Piano Paesaggistico. Nessun approfondimento, nessuna indicazione più specifica, nonostante il salto dalla scala 1:50.000 a quella 1:10.000. La preoccupazione degli estensori del piano di Lucca è il rispetto formale delle leggi e l’adeguamento elusivo alle direttive del Piano paesaggistico, rimandando eventuali dettagli al Piano Operativo, di competenza esclusiva del Comune e di fatto incontrollabile.
Ma in realtà il PS di Lucca non si adegua neanche formalmente alle leggi regionali. Infatti, la Vas, obbligatoria per i piani strutturali, è soltanto una raccolta di dati provenienti da varie fonti e il relativo rapporto ambientale non contiene le informazioni richieste dalla LR 10/2010 sugli impatti ambientali del piano (sulla biodiversità, la popolazione, la salute umana, la flora e la fauna, il suolo, l’acqua, l’aria, i fattori climatici, i beni materiali, il patrimonio culturale, ecc.), di nuovo rimandando politiche e azioni al Piano Operativo.
E la Regione Toscana? Ha osservato le pagliuzze, ma non le travi del Piano Strutturale; e anche in questi casi si limita a consigliare, usando prevalentemente condizionali e frasi ipotetiche (il PS “potrebbe” “è opportuno effettuare ulteriori verifiche”, ecc.). Quanto alla rispondenza del PS al Pit con valenza del Piano Paesaggistico, la Regione si limita a ricordare al Comune di Lucca che il Piano è stato approvato e che il Comune di Lucca ricade nell’ambito di paesaggio Lucchesia. Se il Comune di Lucca sembra credere poco al Piano Paesaggistico, la Regione, a quanto pare, non lo tiene in nessun conto.
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E invece non bisogna solo sbarrare la strada a una cattiva riforma della Costituzione e al disegno neopresidenzialista della legge elettorale. Occorre sconfiggere Renzi per ragioni drammaticamente più serie. La presente riflessione è indirizzata ai tanti democratici, intellettuali, giornalisti e varie altre personalità pubbliche che considerano Renzi, nella presente situazione italiana, il male minore. E invece anche una sommaria considerazione ci consente di vedere e prevedere, fuori da ogni ragionevole dubbio, che egli è il male peggiore.
«Dal Trentino alla Sicilia, la lunghezza dei muri dei terrazzamenti delle colline è di 170mila chilometri, venti volte più della Muraglia cinese. Boom dei comitati per fermare il degrado: corsa per salvarli» Ma se non ci fossero i migranti.... La Repubblica, 9 ottobre 2016 (c.m.c.)
Sul versante montano del Canale di Brenta, nel Vicentino, sono una decina i richiedenti asilo che lavorano per fare manutenzione o ripristinare l’imponente serie di terrazzamenti che salgono su fino a 500 metri d’altezza. Vengono da Nigeria, Mali, Togo, Ghana, li ha coinvolti il comitato Adotta un terrazzamento, che da tempo si prende cura di un patrimonio costruito a partire dal Seicento. Troppa era la pendenza per coltivare il tabacco, per trattenere l’acqua e dunque, usando pietra a secco e niente calce, si sono realizzati nei secoli terrazzi che chiamano masiere e che svettano per sette, otto metri.
Dalla seconda metà del Novecento è iniziato l’abbandono, le colture sono sparite, il bosco ha preso il sopravvento, il paesaggio si è banalizzato, è venuta meno una preziosa fonte di reddito e anche la vita comunitaria che lì prosperava si è spenta. Dei 230 chilometri di pietra a secco, ne è sopravvissuto sì e no il 40 per cento. Finché, promosso dal comune di Valstagna, dal gruppo Terre alte del Club alpino italiano e dal dipartimento di Geografia dell’università di Padova, non è arrivato il comitato Adotta un terrazzamento.
Quella vicentina è una delle buone pratiche raccontate dal 6 al 15 ottobre a un convegno internazionale che si svolge fra Venezia, Padova e in dieci luoghi segnati dai terrazzamenti: dalla costiera amalfitana alle Cinque Terre, dal Trentino a Pantelleria, dalla Valpolicella all’alto Canavese, da Trieste alla Val d’Ossola. Partecipano circa 250 relatori provenienti da 20 diversi Paesi. È l’occasione per misurare lo stato di salute di questi paesaggi in Italia.
È una salute precaria fotografata dalla prima mappatura mai realizzata (il progetto si chiama Mapter, ed è curato dall’università di Padova). In totale sono 170mila gli ettari censiti attrezzati a terrazzi, un’estensione pari a quella del Veneto. E sono 170mila i chilometri di muri a secco che li reggono, pari a circa venti volte la muraglia cinese.
«È una misura per difetto, realizzata con un sistema, il Corine Land Cover, al quale sfuggono le piccole dimensioni», spiega Mauro Varotto, geografo dell’università di Padova e fra i coordinatori della decina di università coinvolte nella mappatura, autore insieme a Luca Bonardi di Paesaggi terrazzati d’Italia, uno studio in uscita in questi giorni (Franco Angeli editore).
«L’estensione è ben maggiore, ma difficilmente individuabile perché buona parte di questo patrimonio è abbandonato », aggiunge Varotto. Ed è questa la preoccupazione: si sta perdendo un paesaggio attrezzato nei secoli e deperisce un presidio contro i dissesti e le frane. Com’è dimostrato dalla tragica esperienza delle Cinque Terre. Fra le minacce viene indicata anche la meccanizzazione dell’agricoltura. Muretti e terrazzi sono di ostacolo ai trattori che hanno bisogno di salire e scendere lungo i pendii, rendendo prevalente il sistema del “rittochino” che spesso agevola il dilavamento.
Oltre il 30 per cento dei terrazzamenti censiti è diventato preda del bosco, di vegetazione spontanea, e dunque è sottratto alle coltivazioni. Il 6 per cento si è perduto a causa dell’urbanizzazione. Un altro 30, invece, è utilizzato a seminativo, il 19 a uliveto, il 3 a vigneto, un altro 3 a frutteto, limoneto o castagneto.
La regione più terrazzata in proporzione alla superficie complessiva è la Liguria, con il 7,8 per cento del suo territorio così attrezzato (oltre 42mila ettari). Seguono la Sicilia, con il 2,4% (63 mila ettari), e la Toscana con lo 0,99% (22 mila ettari). La Campania vanta 11mila ettari a terrazzi, il Lazio 5 mila. I primi quattro Comuni sono tutti siciliani: Pantelleria, Modica, Ragusa, Lipari. Al quinto posto c’è Genova.
Laddove fioriscono, i terrazzamenti sono rigogliosi di vigneti, come in Trentino, di limoneti, come in costiera amalfitana, o di ulivi e capperi, come a Pantelleria. «Svolgono una funzione sociale fondamentale, perché conservano un bene prezioso e irrinunciabile, la fertilità dei suoli», dice da Trieste Livio Poldini, professore emerito di Botanica. «I terrazzamenti sono l’esito di una conquista di terreni all’agricoltura che ha dell’eroico », insiste Varotto. «È un processo che viaggia in parallelo con l’incremento demografico avvenuto fra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento ». Le pietre conservano il calore quando fa freddo e il fresco quando fa caldo. E negli interstizi, che assomigliano a corridoi ecologici, ospitano una varietà infinita di flora e di fauna.
Esistono norme, anche europee, che preservano i paesaggi rurali storici. Ma il conflitto fra chi vuole tutelarli e chi predilige un’agricoltura meccanizzata permane. In Trentino, per esempio, o in Veneto. Dove però spicca l’esperienza del Canale di Brenta, con i militanti di Adotta un terrazzamento, i quali riescono a convincere i proprietari a concedere loro di liberare da rovi e sterpaglie i preziosi terrazzi abbandonati.
La lunghezza dei muri è di 170mila chilometri, venti volte più della Muraglia cinese Boom dei comitati per fermare il degrado
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Matteo Renzi l’ha detto apertamente, anzi l’ha ripetuto in diverse occasioni: la miglior legge elettorale sarebbe quella a doppio turno con ballottaggio finale fra i due candidati presidenti meglio piazzati, a meno che qualcuno non abbia ottenuto la maggioranza al primo turno. Si voterebbe, dunque, per scegliere direttamente il primo ministro. Il modello, noto e applicato più volte, è quello dell’elezione del sindaco nei comuni con più di 15.000 residenti. Di più: la lista o il gruppo di liste collegate al sindaco eletto si prendono il 60% dei seggi col 40% dei voti (a meno che il 60 non l’abbiano già ottenuto al primo colpo).
Aggiungiamo le impressionanti regole sui poteri che permettono a sindaci e giunte di surclassare qualsiasi richiesta “democratica” dei Consigli comunali (si intende, delle minoranze) per render giustizia alle rare proteste, al momento di quelle novità, di chi aveva vissuto l’esperienza delle vicende consiliari quando sindaco, giunta, consiglieri dovevano confrontarsi rispettando almeno due principi basilari: l’obbligo, per sindaco e giunta, di “portare” nel Consiglio tutte le “pratiche”, relative sia alla risoluzione dei più complessi problemi urbani sia alla risposta a domande di minimo rilievo locale, di metterle in discussione assicurando a tutti la pari dignità di funzione con la votazione. E sopra il Comune, indipendente in teoria, sorvegliava come un cerbero il prefetto a capo di una autoritaria commissione provinciale di controllo, messa lì apposta per rendere grama la vita democratica delle amministrazioni pubbliche d’ogni colore, per principio, ma nei fatti con prevalenza al 100% del colore rosso.
Vecchi quadri ammuffiti, questi, ignoti alle nuove generazioni ma dimenticati persino da protagonisti politici d’allora. Per noi, invece, una chiarezza fissata come un palo nella memoria, conficcata ben dentro al durame del ricordo.
Tutti, poi, erano stati eletti, mentre oggi il sindaco è una specie di principe che nomina gli assessori cortigiani pescando dove vuole, anche fuori della logica elettorale principalmente per i ruoli più alti: ricorrendo al topos del “grande tecnico” da reperire sul mercato più ampio e ben frequentato delle professioni (credono, anche in tempi di mafia legalizzata?) e quasi sempre sconosciuto al popolo elettore. Del resto, Renzi è stato eletto? No, è (era) un giovane borghigiano fiorentino di Rignano sull' Arno nominato da un presidente della repubblica detto, guarda caso, re Giorgio. A sua volta il rignanese s’è procacciato i ministri, i suoi ministri, forse mai come questa volta esonerati da attendibili apprezzamenti magari coram populo.
Ma torniamo a sindaci, giunte e Consigli, materia che sentiamo più nostra rispetto a certa estraneità dei giochi di sfere ministeriali e governative, che girano, cozzano, si respingono e si attraggono; benché una città come Milano, se è per questo, non sempre perda il confronto. Sono passati mesi dalle elezioni del nuovo sindaco Giuseppe Sala e nulla è accaduto dal punto di vista di un sano svolgimento delle relazioni politiche e amministrative (ovvia dimostrazione…). L’enorme problema del riutilizzo degli scali ferroviari dismessi richiama l’interessamento in diversi ambienti culturali; ma non in Consiglio comunale che sembra in disarmo (senza essersi armato), proprio come una vecchio vagone delle ferrovie. Parla qualche assessore qua e là, pareri personali e superficiali[i].
Finalmente, sotto la cappa di silenzio istituzionale in una città sventrata da rumorosi lavori (vecchia amministrazione) per l’ultima linea metropolitana[ii], il teleriscaldamento, la sostituzione di tubature del gas, nuovi (inconcepibili!) parcheggi sotterranei nel cuore della città, si è svegliato l’unico consigliere eletto con l’unica lista di opposizione da sinistra “Milano in Comune”[iii], Basiglio Rizzo, presidente del Consiglio comunale prima delle elezioni. Ha dichiarato, protestando signorilmente, che niente passa attraverso il Consiglio; sindaco o giunta decidono deliberano decretano fuor d’ogni dovere di instaurare la discussione nell’assemblea, o, per i provvedimenti di bassa ordinarietà, di informarla. «In questo modo fanno passare di tutto», scriveva sessantacinque anni fa il viennese Heimito von Doderer[iv]. Si rivolga, l’ingenuo, all’albo pretorio. Così leggerà almeno un elenco completo, si suppone.
Sala, che prima delle elezioni si era autodefinito (alla pari col rivale del centrodestra Parisi) un manager, si è mosso e si muove ben al di là dei presumibili compiti coerenti al titolo qualificante, giacché la versione italiana direbbe solo dirigente. Un comportamento da capo indiscusso, il suo: disinvoltura e spregiudicatezza siano il mio motto, sfruttamento della fama di eroe di Expo sia il mio daffare. Così l’abbiamo visto sbrigativamente noncurante di certi brutti inceppi nella gestione personale del potere. Notati e descritti da rari giornalisti non ossequienti[v]. Ora, passate e ripassate di un buon cancellino hanno ripulito a fondo la lavagna con le «note», come quelle che la maestra o il maestro segnavano per le mancanze più gravi degli scolari. Noi però conserviamo i ritagli degli articoli di quei giornalisti. Allora, promemoria minimo:
assegnazione senza gara a Eataly (alias Farinetti sostenitore di Renzi) dell’intera ristorazione nell’Expo; triplice dimenticanza nelle dichiarazioni obbligatorie: una casa in Svizzera, due società (in Italia e in Romania); disinteresse e supponente distacco di fronte agli allarmi e inchieste della magistratura milanese su corruzione negli affari all’Expo e resistibile larga partecipazione mafiosa; dolente svarione nell’affrettata prima nomina del segretario generale del Comune, la prescelta era stata rinviata a giudizio per turbativa d’asta a Como (ricordate lo scandalo delle famose paratie - muraglie di cemento - davanti al lungolago?).
Permane infine il mistero sulla sorte delle aree Expo. Chi ne ha vantato il successo grazie soprattutto a sé medesimo, non potrà defilarsi di faccia sia all’eredità negativa che comprende l’abolizione di un’area agricola acquistata peraltro a prezzo eccessivo e i debiti bancari di Comune e Regione, sia alla prospettiva del riutilizzo che esigerà un mucchio di investimenti pubblici (forse irragionevoli), intanto che ammetterebbe una gigantesca speculazione edilizia a Città Studi se una delle destinazioni fosse il trasferimento dell’università.
[i] Cfr. il mio articolo Meno “rito ambrosiano” ma nuovi ritualismi, eddyburg 21 settembre 2016.
[ii] La numero 4, successiva alla 5 già in funzione.
[iii] La lista “Sinistra X Milano”, sinistra del cavolo, embedded nel gruppone pro Giuseppe Sala.
[iv] Trascrivo il passo che introduce la sconfortante locuzione: «…solenni invenzioni di gente interessata, di politici di professione, di generali, di palloni gonfiati, di storici, o esalazioni di persone alle quali il linguaggio dei giornali guazza nel cervello, come lo sciacquone nel vaso del w. c.», in Die Strudlhofstiege oder Melzer und die Tiefe der Jahre, Biederstein, Monaco 1951; edizione italiana di un capolavoro della letteratura austro-tedesca: La scalinata, traduzione di Ervinio Pocar, Einaudi, Torino 1965, p. 375.
[v] Come Gianni Barbacetto, autore di un’inchiesta su Milano e Sala, Il fatto quotidiano, alcuni numeri dell’estate 2016.
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«Se l’Europa non ci dà ascolto, faremo da soli» ha sbruffato Renzi di fronte alle crescenti chiusure dei governi dell’Unione, che non vogliono farsi carico dei migranti in fuga da guerre e miseria. Ma come faremo da soli, noi, abitanti di una penisola in mezzo al Mediterraneo, che non ha frontiere se non tra le valli delle Alpi? Eppure in questa espressione di sfida si può limpidamente scorgere la differenza che corre tra uno statista, figura quasi scomparsa, che guida il proprio paese con lungimiranza strategica e un qualunque rappresentante del ceto politico. Vale a dire quella figura oggi prevalente di professionista, perennemente in campagna elettorale, che usa le leve del potere pubblico per affermare e conservare il proprio. Uno sguardo ai membri dei governi europei ci offre un campionario desolatamente esaustivo. Il moto di Renzi, naturalmente, è un abbaiare dei cani alla luna. Ed è noto che quella solitaria protesta non ha mai cambiato la sorte dei cani sulla Terrai, né il corso dei moti lunari.
Il passo che un vero statista dovrebbe compiere è uscire dalla Nato. Oggi esistono buone ragioni per disfare la struttura dell’Alleanza atlantica. Essa non aveva più ragioni di esistere dopo il tracollo del Patto di Varsavia. Eppure sotto il dominio americano essa ha continuato la sua opera, provocando danni immensi e incalcolabili all’umanità intera. Rammentiamo qui brevemente, tralasciando le guerre balcaniche, che sotto lo scudo statunitense, almeno una parte di paesi Nato ha invaso l’Afganistan, intrapreso la rovinosa guerra in Iraq (dalle cui macerie è sorta l’Isis, il più sanguinario fenomeno di terrorismo internazionale dei nostri tempi), ha invaso e devastato la Libia. Ma anche in Europa, la politica americana della Nato è fonte di tensioni crescenti e di conflitti armati (Ucraina) .Rinfocolando i risentimenti antirussi di molti paesi dell’Est, ha fatto rinascere antichi nazionalismi e spinto la Russia verso un irrigidimento sempre più autoritario, favorendo platealmente il potere personale di Putin.
L’uscita dalla Nato potrebbe favorire il processo di unificazione dell’Europa. Dopo la Brexit sarebbe più agevole la costituzione di una difesa europea comune, una difesa leggera, assai meno dispendiosa di quella affidata ai singoli stati, non soggetta agli interessi commerciali USA. L’Italia, insieme alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia potrebbe mettersi alla testa di questa coraggiosa svolta politica, in grado di trascinare anche la Francia, se il senso del bene comune tornasse a brillare tra i socialisti di quel paese. Noi ne abbiamo necessità vitale. Il modo in cui evolverà il continente africano nei prossimi anni deciderà molte cose dell’avvenire del nostro Paese. Occorre una grande politica verso i paesi del Mediterraneo e non la si può realizzare con i dogmi fallimentari dell’ordoliberalismo tedesco. Mentre su questo blocco di paesi si potrebbe progettare un euro.2, una moneta euromediterranea, che segni una via d’uscita dal più grave errore fondativo dell’Unione Europea.
«Le città? Devono stare zitte a cuccia e non chiedere più soldi». Così si esprimeva con una terminologia diventata leggendaria ... (segue)
Certo le grandi città erano tutt'altro che morte e sepolte, come dimostra ancora oggi quello straordinario filmato sulla «Vita sociale nei piccoli spazi urbani» composto dal sociologo William Whyte, ma la narrazione corrente, comprese certe strampalate teorie accademiche sulla cosiddetta «Integrazione spaziale», vendeva come ineluttabile quella dispersione territoriale suburbana delineata negli anni '30 dalla Broadacre autostradale di F.L. Wright, col suo vago sogno intellettuale di ritorno alla nuova frontiera, l'automobile invece del cavallo, il centro commerciale invece del saloon di qualche film di serie B. Curioso che proprio in quel periodo il padre di Donald Trump guadagnasse magnificamente lucrando proprio su quella narrazione di degrado e abbandono, accaparrandosi terreni nelle zone classificate hic sunt leones dall'immaginario collettivo, e poi gestendo la loro trasformazione in qualche palazzo per uffici o altro.
La suburbanizzazione era, come detto, un progetto economico, con tutto il suo strascico di consumi privati coatti, di ciò che la tradizione urbana considerava collettivo: dall'auto individuale, alla piscina, allo stesso verde del giardino alternativo a quello di quartiere, ai riti del fine settimana e via dicendo. Ma era anche un progetto politico, di natura sottilmente conservatrice per non dire peggio, con quel puntare tutto sul nucleo familiare, sullo slogan «I migliori vicini sono quelli separati da una solida recinzione», sulla trasformazione della casa e tutto ciò che conteneva nel cosiddetto castello del capofamiglia. Non a caso, le rilevazioni dei flussi elettorali appena qualcuno iniziò a porsi il problema, cominciarono a confermare l'ipotesi: le concentrazioni urbane erano più progressiste, la dispersione suburbana votava a destra. Vuoi per i partiti che tradizionalmente si presentano con quell'etichetta, vuoi su istanze specifiche, locali, referendarie o altro. Certo, difficile stabilire qualche tipo di scientifica corrispondenza fra cose come la densità edilizia, o le superfici a parcheggio pro capite, o la distanza di commercio e servizi dalle residenze, o i km di autostrada per abitante, e quel voto orientato in un senso o nell'altro. Ma agli studiosi il trend appariva e appare evidente.
E adesso arriva, se necessario, la conferma del discorso ufficiale di accettazione della candidatura di Donald Trump alla presidenza per i Repubblicani. Di quello stesso Trump che ereditato denaro e mestiere dal padre è diventato un simbolo di tante cose, che con quel dualismo territoriale e politico hanno a che fare: dalle «riqualificazioni» nelle zone centrali, a quel genere di lottizzazioni surreali progettate in aperta campagna da campioni di golf, e rivendute proprio come percorsi sportivi nel verde, quando altro non sono se non gated communities della peggiore e più esclusiva specie. Cos'ha detto, Trump, nel suo discorso alla Convention? Certo, lui parlava di questioni di ordine pubblico e sicurezza del cittadino, ma mettiamo in fila: caos e violenza per le strade; incremento degli omicidi soprattutto nei grandi centri ad esempio «nella Chicago da cui viene il nostro attuale presidente». E poi le infrastrutture che vanno a pezzi, vetuste, autostrade e aeroporti da terzo mondo (sic). Il che evoca e ribadisce, quasi esattamente, i medesimi scenari di quarant'anni fa, in cui Gerald Ford diceva, alle città che votavano in prevalenza Democratico e progressista: «a cuccia, niente soldi», e implicitamente «ci sono quelli degli investitori privati».
Foto F. Bottini |
I barbari...«non occorre essere abili architetti paesaggisti per comprendere che queste operazioni sono proprio quelle che - se non controllate puntualmente - alterano in modo spesso irrimediabile l’aspetto dei nuclei urbani e rurali, come possono insegnare infiniti esempi». Patrimoniosos.it, 30 settembre 2016
In parole povere, a seguito di un articolo del cosiddetto Sblocca-Italia, si tratta di un lungo elenco, con norme di attuazione, di interventi edilizi nelle zone soggette a vincoli paesaggistici che non dovranno più essere autorizzati in base al Codice dei beni culturali o, perché ritenuti poco rilevanti, potranno godere di procedura semplificata - una misura in parte analoga già esisteva, ma il nuovo Decreto ne prevede il superamento.
Gli interventi che non dovrebbero più essere autorizzati sono 31, quelli con procedura semplificata 42. Non è qui il caso di ricordare che le lentezze nelle autorizzazioni paesaggistiche (a volte reali, a volte strumentalmente esagerate) derivano quasi sempre da carenze di mezzi e personale degli uffici, dalla mancata adozione dei piani paesistici e dalla farraginosità della normativa - senza volere ovviamente tacere casi di specifiche responsabilità di funzionari e dirigenti.
Il Decreto, per cui sono previsti pareri parlamentari e del Consiglio di Stato - quest’ultimo, formulato in modo ampiamente favorevole, è stato pubblicato da patrimoniosos il 22 settembre - che però raramente incidono in modo significativo sui testi, si inserisce di fatto nella logica di un progressivo svuotamento della tutela territoriale prevista dal Codice beni culturali.
In linea di principio non vi è nulla da obiettare a che interventi di minore rilevanza possano essere autorizzati sulla base di procedure più snelle, e ve ne sono senza dubbio di così modesta portata che ben si può ammettere vengano considerati irrilevanti (negli elenchi non mancano precisazioni abbastanza superflue, come l’esclusione dall’autorizzazione delle opere interne che non alterano l’aspetto esterno degli edifici - per le quali mai è stata necessaria), né il Decreto è privo di norme sensate, ad esempio la prescrizione che laddove gli interventi riguardino edifici sottoposti a vincoli sia paesaggistici sia monumentali la procedura venga unificata. Tuttavia esaminando gli elenchi degli interventi sorgono forti perplessità.
Per quanto riguarda quelli con procedura semplificata - e autorizzazione da rilasciarsi entro 60 giorni, perché “di lieve entità” - vi sono “alterazione dell’aspetto esteriore degli edifici mediante modifica delle caratteristiche architettoniche”, “ascensori esterni che alterino la sagoma dell’edificio”, “caldaie, parabole, antenne su prospetti prospicienti la pubblica via”, “interventi sistematici di arredo urbano”, “autorimesse comprese le eventuali rampe”, “taglio senza sostituzione di alberi”, “strutture e manufatti per spettacoli o per esposizione di merci per un periodo non superiore a 180 giorni”, “verande e dehors”, “cartelli pubblicitari di dimensioni inferiori a 18 mq”, “demolizione e ricostruzione di edifici con volumetria e sagoma corrispondenti alle preesistenti” ecc.
Quanto agli interventi neppure sottoposti ad autorizzazione, oltre a opere in effetti di scarso rilievo, ne troviamo altre che incidono in maniera significativa sull’aspetto del territorio e dei centri urbani - ancora una volta sembra mancare quell’attenzione alle singole operazioni edilizie che invece hanno una fondamentale importanza nella salvaguardia paesaggistica.
Vengono dichiarati irrilevanti gli interventi “sulla vegetazione arborea” lungo i corsi d’acqua (previsti per ragioni di sicurezza, ma ci sono molti casi tutt’altro che esemplari), l’installazione di tende parasole e insegne commerciali (sia pure con qualche cautela), anche qui strutture e manufatti per manifestazioni e attività commerciali (per non oltre 120 giorni). Soprattutto colpisce che non siano soggetti ad autorizzazione le tinteggiature e il rifacimento di intonaci e infissi: certo si fa rimando ai piani del colore comunali e al rispetto delle caratteristiche e dei materiali esistenti, ma non basterebbe molto spazio per elencare le tante alterazioni soprattutto nell’edilizia rurale e nei centri minori per capire quanto sia necessaria un’opera di controllo (questa sì, magari con procedura semplificata). Su quest’ultimo punto, per fortuna, le nome di attuazione del Decreto escludono in parte gli interventi laddove i piani paesistici o le previsioni dei vincoli non dettino norme specifiche, ma in ogni caso c’è da chiedersi quanto ci si dovrà affidare alla buona volontà dei proprietari o ai tecnici di piccoli Comuni per essere certi che le prescrizioni siano rispettate.
Ma non è finita. Gli elenchi sono preceduti da un testo normativo che contiene alcune disposizioni davvero pesanti. Si prevede che laddove siano vigenti accordi tra Regioni e Mibact, altri interventi - e non dei meno impattanti - siano esclusi dall’obbligo di autorizzazione. Si ammette la possibilità che i piani paesistici introducano disposizioni per facilitare “corrette metodologie” per le opere per le quali non si richiede autorizzazione - sarebbe invece necessario uno specifico obbligo! - ma nel contempo si stabilisce che eventuali disposizioni più rigorose, previste appunto nei (pochi) piani paesistici approvati debbano essere superate da quelle meno rigide del nuovo Decreto. Come dire: se volete fare qualche sforzo, fate pure, ma non cercate di stringere le maglie della rete.
Si può sperare che si riesca almeno di limitare gli aspetti più discutibili del provvedimento? forse se ci sarà pressione qualcosa si potrebbe ottenere
(segue)
Come ben sanno le persone colte d’Europa e dei vari paesi del mondo, l’Italia eredita, con poco merito dei contemporanei, un patrimonio di inestimabile valore: il suo paesaggio. E forse occorrerebbe aggiungere che questo, subito dopo la tradizione culinaria, costituisce il connotato identitario più spiccato del nostro Paese, quello che ne fa appunto il Bel paese e che nell’immaginario internazionale fa dell’Italia, l’Italia. Eppure quanta fatica per le ristrette avanguardie nazionali, che sono consapevoli di questa eredità unica al mondo, di tutelarlo, di sottrarlo ai miopi appetiti della classe dirigente della nostra epoca, priva di progetti e cultura, che vorrebbe ricavarne soldi e legna da bruciare nel misero focolare della crescita.
Su questi temi e soprattutto sulle strategie che hanno ispirato l’elaborazione del piano paesaggistico della Toscana, ritorna ora un prezioso volume, destinato a costituire un punto di riferimento imprescindibile per tutti i futuri interventi sul paesaggio, in Italia come negli altri paesi. Si tratta del testo, a cura di Anna Marson, che è stata assessore all’Urbanistica e pianificazione territoriale nella precedente giunta della regione Toscana, e ha avuto un ruolo fondamentale per la sua approvazione: La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il piano della Toscana, Prefazione di Enrico Rossi, Laterza, 2016, €34.