Un’Italia che frana e si sbriciola non appena piove per due giorni di fila, ecco l’immagine che subito ci propone il 1973, quasi a imporre alla nostra attenzione il problema di fondo e il più trascurato della politica italiana: la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica.
I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato: e tutti dovremmo aver capito che ben poco essi hanno di “naturale” poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti.
I “miracoli economici”, i boom edilizi, industriali e autostradali, sono avvenuti tutti al di fuori di qualsiasi programmazione di autentico e lungimirante interesse generale: abbiamo sistematicamente trascurato di realizzare tutta l’armatura dei servizi pubblici e delle attrezzature collettive (dalle scuole agli impianti di depurazione, dalle riserve naturali ai piani di bacino idrografico, dal verde pubblico ai trasporti collettivi, dal rimboschimento alla difesa dei litorali ecc.), indispensabili alle esigenze di vita della popolazione in un’epoca di sempre più veloci trasformazioni economiche e sociali. Gli eventi franosi sono due-tremila l’anno, con un morto ogni otto giorni: i geologi del Servizio di stato sono cinque, uno ogni dieci milioni di abitanti (mentre nel Ghana sono uno ogni settantamila). Sarebbe davvero strano che l’Italia non andasse periodicamente sott’acqua. Gli interventi pubblici sono saltuari, sono frammentari, non coordinati (nulla di decisivo è stato ancora fatto per il bacino dell’Arno, a sei anni di distanza dall’alluvione). Nel 1970 la commissione interministeriale De Marchi ha calcolato che per la difesa idraulica del suolo italiano occorrono 5300 miliardi nel prossimo trentennio. Ecco il costo dell’imprevidenza, i conti sbagliati della nostra economia, che ha puntato tutto sul tornaconto immediato e sul profitto.
Fino a che la difesa della natura e del suolo non diventerà la base della pianificazione del territorio, fino a che questo non sarà considerato patrimonio comune (anziché res nullius, come è stato finora), continueremo a contare le morti e le distruzioni. Ma intanto questa Italia, sempre pronta a invocare la propria “povertà” per non fare le cose indispensabili, ha stanziato la settimana scorsa altri cinquecento miliardi di lire per costruire nuove autostrade.
Gennaio 1973
Nell’87 il Sevizio geologico è passato alle dipendenze del Ministero dell’Ambiente e successivamente alle dipendenze del Consiglio dei Ministri. Trentatré miliardi sono stati finanziati dalla legge finanziaria ’88, l’organico è stato portato a 128 unità, un nuovo impulso è stato impresso alla redazione della carta geologica in scala al 50.000. E’ pronto il progetto per il consolidamento e la ristrutturazione della sede di Largo Susanna. Tra gli anni settanta e ottanta l’edificio rappresentò un autentico pericolo per l’incolumità di chi ci lavorava, a causa di gravi dissesti statici: minacciava di crollare la sede che ospitava il servizio preposto alla prevenzione del collasso idrogeologico nazionale. (A.C.1991)
Per gentile concessione dell'Archivio Cederna www.archiviocederna.it
(il testo è oggi ripubblicato anche in Brandelli d’Italia. Come distruggere il bel paese, Roma, Newton Compton editori, 1991, pp. 183-85)
La guerra agli alberi che fiancheggiano le strade italiane non si farà più, o almeno sarà condotta con criteri meno micidiali di quelli impiegati finora. Una circolare firmata dal ministro dei Lavori Pubblici e inviata all’ANAS, alle province ai comuni, alle prefetture e ai vari ministeri interessati mette un freno agli indiscriminati abbattimenti e prescrive le norme per garantire la “salvaguardia del patrimonio arboreo in rapporto alla sicurezza della circolazione”: non solo, ma per la prima volta in un documento ufficiale si parla della necessità di realizzare, anche nelle strade di nuova costruzione, un vero e proprio “paesaggio stradale”.
La condanna degli alberi era stata annunciata alla conferenza di Stresa del 1959, e la strage segnò la massima punta tra il 1962 e l’inizio del 1965: più di centomila alberi tagliati di cui oltre 23.000 solo negli ultimi mesi del ’64. La strage avrebbe dovuto estendersi ai settecentomila alberi esistenti lungo i trentaseimila chilometri di strade statali a partire dall’agosto del ’64, quando l’ANAS decise di eliminare quelli che sorgevano a meno di 150 metri dalle curve e ameno di 80 centimetri dal ciglio della carreggiata, per il resto risparmiando un albero ogni trenta metri. Fu quello il momento in cui l’ANAS mostrò tutta la sua arretratezza tecnica: da un lato pretendeva di adeguare la rete stradale italiana al traffico crescente rubacchiando qualche centimetro a destra e a sinistra a spese degli alberi; dall’altro mostrava di ignorare completamente sia i dati sulla minima responsabilità degli alberi negli incidenti, sia il parere di paesaggisti, naturalisti ed esperti in comportamento stradale circa l’utile funzione degli alberi proprio agli effetti della sicurezza di guida.
Fin dal 1959, infatti, il presidente dell’Automobile Club aveva dichiarato che, in base a un’indagine su settemila chilometri di strade statali, “solo in pochissimi casi si era potuto identificare nell’albero la causa vera e propria dell’incidente”. Nel 1961 “Medicina sociale” riportava una statistica in base alla quale gli urti contro ostacolo fisso (tra cui gli alberi) risultavano pari all’1,8 per cento del totale degli incidenti. Alla conferenza di Stresa del 1964 veniva reso noto che, su settemila incidenti del 1960, gli urti contro ostacolo fisso erano apri ad appena lo 0,8 del totale. L’anno dopo “Italia Nostra” calcolava che nel 1963 gli urti contro ostacolo fisso non avevano superato il 4 per cento degli incidenti: infine, da una statistica della polizia stradale risultava che nel 1964 gli urti contro alberi erano pari al 2,13 per cento del totale degli incidenti.
L’albero appariva dunque come l’ultimo elemento da prendere in considerazione nella casistica degli incidenti le cui cause vere, come è ovvio, risiedono nell’incoscienza dei guidatori e nell’imperfezione tecnica delle nostre strade. Ci si domandava infatti che senso avesse prendersela con gli alberi, quando si tollerava la presenza, ai lati delle strade, di paracarri, pali, muri di cinta, fossati, cunette e l’assenza di fasce di rispetto, di aree di parcheggio e riposo, di corsie pedonali, e via dicendo; quando nessuna norma urbanistica vieta ancora il sorgere di costruzioni a tre metri dal ciglio, così che le strade statali si trasformano in strade urbane, moltiplicando all’infinito le possibilità di incidenti. E ancora: quale diritto aveva l’ANAS di prendersela con gli alberi lungo le vecchie strade, quando sulle stesse autostrade di nuova costruzione si era incapaci di adottare efficaci misure di sicurezza, come dimostrano le scarpate dei rilevati, la collocazione dei pilastri dei viadotti, la minima misura dello spartitraffico, il più stretto d’Europa, causa di continue, mortali fuoriuscite a sinistra?
D’altra parte si sottolineava la funzione positiva delle alberature: esse sono un invito alla moderazione della velocità, stimolano l’attenzione contro la sonnolenza, favoriscono la “guida ottica” (mostrano cioè a distanza e in anticipo l’andamento e il tracciato della strada), formano un ambiente vario e riposante, evitano i “colpi di luce”, causa di disturbi di vario genere.
Indifferente alle statistiche e al parere degli esperti, l’ANAS tirava diritto. Organizzò anche, nel corso delle periodiche rilevazioni del traffico nazionale, uno strano referendum fra gli automobilisti, distribuendo una scheda con tre domande: gli alberi sono un elemento di pericolo? costituiscono un elemento paesaggistico essenziale? desiderate che siano eliminati? E fece gran caso del fatto che il 56 per cento aveva risposto affermativamente alla prima, il 51 per cento negativamente alla seconda, e il 54 per cento affermativamente alla terza. Si trattava però di un referendum senza senso: il problema era stato posto in maniera rozza, presentato senza alternative e in modo da sollecitare la risposta desiderata; né poteva essere altrimenti, dal momento che era stato indetto da chi era interessato a una determinata soluzione, anziché da un ente neutrale e specializzato in sondaggi di pubblica opinione. Restava dunque ancora da dimostrare quale fosse l’atteggiamento degli automobilisti nei confronti degli alberi: l’unico referendum attendibile era stato promosso dalla rivista “L’Automobile” nel 1962, e si era risolto, tra la sorpresa generale, con la maggioranza di risposte favorevoli alla conservazione degli alberi; e così un successivo sondaggio fra i soci del Touring Club. Come dire che la gente comune, in certi casi, è assai meglio di tanti persuasori occulti e palesi.
Finalmente, preoccupato delle dimensioni che il fenomeno andava assumendo e delle proteste sempre più energiche degli enti di cultura, alla fine del 1964 il ministro Mancini nominava una commissione, della quale facevano parte anche urbanisti e paesaggisti, col compito di studiare il problema con argomenti che non fossero soltanto le seghe a motore dell’ANAS. Si dovette arrivare al marzo del 1965 perché venisse preso l’ovvio provvedimento della sospensione di tutti i tagli in attesa che la commissione concludesse i suoi lavori: le vecchie abitudini contratte dall’ANAS negli anni facili costituivano un serio ostacolo, e la fissazione di tagliare gli alberi ebbe la sua parte nei motivi che portarono, nel novembre di quell’anno, all’allontanamento del direttore generale Giuseppe Rinaldi.
I lavori di quella commissione hanno portato alla circolare cui abbiamo accennato in principio. In essa si parla, come di cosa essenziale, del rispetto per “le alberature, i boschi, la flora esistenti”, e si mette in rilievo la necessità di “assumere un più sensibile atteggiamento” di fronte ai problemi del paesaggio. Il taglio degli alberi viene considerato come un’eccezione, da limitare “ai soli casi strettamente necessari” (per lavori di sistemazione e adeguamento di “tratti” stradali, per ragioni di visibilità presso gli incroci, curve, passaggi a livello ecc.), mentre si riconosce, “per altrettanto validi motivi”, cioè per il loro “interesse culturale”, l’esigenza di salvaguardare i complessi arborei esistenti. Il taglio, in quei “casi strettamente necessari”, viene sottoposto a una serie di controlli per cui l’ente proprietario è tenuto a chiedere il parere della Soprintendenza, dell’Ispettorato forestale, dell’Ente provinciale del turismo, dell’osservatorio fitopatologico, ecc. Si raccomanda il trapianto degli alberi rimossi, si accenna a servitù ed espropri di terreni in fregio alle strade, si raccomanda alle amministrazioni di prevedere nei bilanci stanziamenti per “sostituzione, reintegro o impianto di piantagioni”. Per le strade di nuova costruzione, si esigono progetti dettagliati e si danno le norme per le distanze minime, a seconda del tipo di strada e delle piantagioni da sistemare.
È, in sostanza, la prima volta che l’autonomia dell’ANAS viene sottoposta a una serie di controlli; e che la creazione del paesaggio stradale viene considerata un elemento integrante della progettazione, come da gran tempo avviene in tutti i paesi civili. C’è tuttavia da rammaricarsi di tre lacune: primo, manca una disposizione che, in caso di necessario allargamento della strada, obblighi, in linea di principio, alla conservazione dei filari e alla creazione di una carreggiata interamente nuova; secondo, la scelta dei casi “strettamente necessari” è ancora lasciata all’ANAS e quindi soggetta agli umori dei suoi funzionari, anziché a un organismo permanente, culturalmente e tecnicamente preparato; terzo, non si fa cenno alla funzione che le vecchie strade devono svolgere nel quadro della viabilità nazionale: è chiaro che nell’età delle superstrade e delle autostrade, le vecchie vie alberate non sono più fatte per le grandi velocità e le lunghissime percorrenze, ma devono servire ai traffici locali, o trasformarsi gradatamente in strade turistiche; di qui, ancora una volta, l’inutilità, anzi il danno, dell’abbattimento degli alberi. Comunque sia, siamo lontani dai tempi in cui l’ANAS annunziava “la sistematica abolizione delle alberature poste ai margini delle strade” e pensava di importare dalla Malesia alberi “elastici”.
Nota: su eddyburg a proposito della sentenza 2011 sul Codice della Strada che imporrebbe di eliminare gran parte delle alberature stradali italiane si vedano anche l'articolo di Fabrizio Bottini e quello di Alberto Cudstodero dal Corriere della Sera
23 marzo 1986
La minaccia allo Stelvio arriva da Bolzano
Gravi minacce all’integrità del nostro più grande parco nazionale, quello dello Stelvio. 134 mila ettari: splendido scenario di natura alpina tra i 700 e i 3.900 metri d’altezza intorno al massiccio dell’Ortles-Cevedale, 40 mila ettari di conifere e un ingente patrimonio faunistico che si estende parte in Lombardia, parte in Trentino-Alto Adige.
L’insidia viene dalla Provincia autonoma di Bolzano, che da sempre considera il parco un’imposizione centralistica (anzi fascista: fu istituito nel 1935) e non ha mai tenuto conto delle norme di tutela dell’ente che lo gestisce (l’ex azienda delle foreste demaniali del ministero Agricoltura e Foreste), autorizzando la caccia e tollerando il bracconaggio.
Ora la giunta provinciale ha deciso di varare un disegno di legge che in pratica disintegra il parco nazionale: dei 55 mila ettari della parte altoatesina solo 23.500, nella fascia montana più bassa, verrebbero declassati a “preparco” con ammessa la caccia: i restanti 8 mila ettari di fondovalle verrebbero liberati da qualsiasi tutela. In pratica il parco nazionale sarebbe ridotto ai nevai, ai ghiacciai, ai prati alpini, alle pietraie.
Questa è una prospettiva rovinosa, basata su un’interpretazione arbitraria delle norme di attuazione dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige, che subordina l’eventuale modifica dei confini del parco ad accordi con lo Stato, nel rispetto delle “effettive esigenze di tutela”: ma all’oltranzismo altoatesino ha sempre fatto riscontro l’inerzia del governo. Eppure la Provincia di Bolzano ha qualche merito nell’utilizzazione del territorio. Dimostra una maggior cura per il paesaggio e per i centri storici, ha abolito la pubblicità stradale, eccetera: ma al rispetto per il paesaggio dal punto di vista estetico corrisponde l’incomprensione per l’ambiente e la complessità dei suoi aspetti naturalistici.
3 settembre 1989
Sotto tiro il parco dello Stelvio
Alta nel cielo l’aquila si fa portare dalle correnti, nei canaloni si muove pigramente lo stambecco, più in basso il cervo bruca tra gli abeti: la contemplazione delle meraviglie della natura corrobora spirito e corpo.
Ma al silenzio solenne e alla pace della montagna fa riscontro la guerriglia degli uomini e delle istituzioni che rischia di frantumare l’integrità di quello straordinario ambiente alpino che è il parco nazionale dello Stelvio. Contro di esso si batte da anni la Provincia autonoma di Bolzano, nei cui confini rientrano 55 mila ettari, che non riconosce la gestione statale e considera il parco un’imposizione centralistica, romana, a dir poco fascista (fu infatti istituito nel 1935). In base a un’interpretazione arbitraria dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige e assistita da compiacenti rappresentanti dell’Unione internazionale per la protezione della natura (Uicn), la provincia ha predisposto un disegno di legge che disintegra il governo del parco, elimina da qualsiasi tutela 8 mila ettari di fondivalle, e divide il parco in due zone: la zona A, dai 2000 metri in su, vero e proprio parco nazionale, e la zona B dove sarebbero consentite le tradizionali attività, tra cui il taglio dei boschi, e ammessa la caccia.
Il parco vero e proprio verrebbe dunque realizzato al di sopra del limite della vegetazione, in pratico ridotto quasi esclusivamente ai pascoli alti, alle petraie, al deserto nivale. Contro questa rovinosa prospettiva si battono le associazioni e la direzione del parco che ha sede a Bormio: ma un’altra gravissima minaccia viene dalla provincia di Sondrio.
La lobby dello sci e dell’indiscriminato sfruttamento turistico vuole realizzare una smisurata “ski-area” tra santa Caterina di Valfurfa e Bormio, undici impianti di risalita e un centinaio di chilometri di piste, meccanizzando, degradando, disboscando anche questo versante del parco. I grossi interessi in gioco rischiano di aver ragione del parere negativo della direzione del parco e del ministero dell’Ambiente.
"HO SEMPRE sentito il peso terribile dell’espressione era imprevedibile, impiegata da uomini la cui ignoranza è imperdonabile, che cercano solo di coprire le proprie responsabilità: perché, se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto: e ben pochi sono i disastri di fronte ai quali non resta che chinarsi a piangere i morti". Questo scriveva anni fa il grande geologo francese Marcel Roubault, e questo si adatta più che mai all’Italia.
Un’Italia vittima da quarant’anni, a intervalli regolari, di alluvioni frane straripamenti, per l’ignavia dei politici e l’arretratezza dei pubblici amministratori: ai ricorrenti sussulti dell’opinione pubblica ha fatto riscontro la quasi totale indifferenza del mondo della cultura. E di fronte a tante rovine e a tanti lutti, chi torna a riflettere e a scrivere su questa tragica costante dell’Italia moderna prova pena e imbarazzo. La tragedia di Piemonte, Liguria e Lombardia viene ad aggiungersi a un elenco infinito, che è stato mirabilmente descritto, qualche anno fa dal Servizio geologico nazionale, pubblicato nel volume "Il dissesto idrogeologico e geoambientale in Italia nel dopoguerra", che andrebbe diffuso nelle scuole. Sicilia e Calabria nel ‘51; Polesine, novembre dello stesso anno; Calabria nel ‘53; Salernitano nel ‘54; Vajont nel ‘63; un terzo dell’Italia sott’acqua nel ‘66; Val d’Ossola nel ‘78; Val di Stava nell’85; Valtellina, luglio ‘63 e luglio ‘87; Genova e provincia, ‘76, ‘86, ‘87. Eccetera, e sono solo gli eventi più disastrosi. In totale quasi 4.000 morti (quasi 7 al mese), un costo di 35.000 miliardi per lo Stato: impiegati per lo più in opere di regimazione cementizia dei fiumi (che saranno causa di nuove sciagure), e per rabberciare alla meglio e per un’infima parte del territorio, i guasti maggiori. C’è un fatto emblematico che illustra la nostra incuria, ed è questo.
Il Servizio geologico nazionale che dovrebbe provvedere alla sicurezza di suolo e sottosuolo, esercitare prevenzione e consulenza, è stato per decenni composto da una trentina di persone (venti volte meno che in Francia e Gran Bretagna), e solo da poco è passato alle dipendenze della Presidenza del Consiglio: il piano per il suo potenziamento rimane sulla carta, e per di più è ospitato, insieme ai suoi preziosi laboratori, in un edificio del centro di Roma che da anni rischia di franare. Quanto costerebbe assicurare un minimo di sicurezza fisica all’Italia? Nel 1970 la Commissione De Marchi stimava necessario investire 10.000 miliardi in trent’anni, cifra che oggi i geologi ritengono debba essere almeno decuplicata. Quanto all’attuale governo non è particolarmente interessato al problema. La legge finanziaria in discussione stanzia 330 miliardi (dal Tesoro alle Regioni), più 304 miliardi dai Lavori Pubblici (in gran parte per il magistrato del Po), più 150 milioni (sic) per informazione studi ricerche. In tutto 634 miliardi, l’equivalente del costo di una ventina di inutili autostrade: per le quali l’Anas (oggi Enas) dispone di migliaia di miliardi di residui, una parte dei quali, come giustamente verdi e progressisti propongono, deve ad ogni costo essere trasferita alla difesa del suolo. E la difesa del suolo, per i lavori che comporta, dalla capillare manutenzione al rimboschimento, dalla pulizia degli alvei al monitoraggio eccetera, è una straordinaria fonte di occupazione: migliaia di posti di lavoro che costano un terzo di quelli dell’industria.
Se la colpa dello stato comatoso del nostro suolo ricade su tutti i governi che si sono succeduti nei decenni, quello che fin qui ha fatto il governo Berlusconi ci prepara al peggio. Condono edilizio, con presumibile sanatoria anche di quanto è stato costruito sul greto dei fiumi e sui versanti instabili; depenalizzazione della legge Merli, condono a buon mercato per gli inquinatori, blande sanzioni penali solo ai criminali, quelli che scaricano nelle acque rifiuti tossici e persistenti; attacco ai parchi nazionali (si è distinto il ministro Matteoli) presidio della salute territoriale, a cominciare dal parco d’Abruzzo, che è un modello di buon funzionamento; sospensione della legge Merloni, nata per assicurare trasparenza agli appalti, dopo Tangentopoli; protrazione dei termini della legge per la difesa dell’ozono; riduzione dei controlli sulle aziende a rischio; blocco dell’"Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente", con paralisi dei controlli e della valutazione di impatto ambientale. E c’è anche il condono per le dighe abusive, che sono 700 (!).
Con questi orientamenti, continueremo nella strada senza ritorno. Proseguirà l’urbanizzazione selvaggia che ha sommerso sotto cemento e asfalto il venti per cento (6 milioni di ettari) dell’Italia, riducendo del trenta per cento la capacità di assorbimento delle piogge. Continueremo a trasformare i fiumi in canali e a costruire nelle aree golenali (e chi si oppone, dicono vaneggiando quelli di Forza Italia, è affetto da "demagogia ecologica"). E invece che gestione e manutenzione, avremo appalti truccati e ruspe. Come ha scritto ieri Giorgio Bocca, c’è davvero qualcosa che non funziona "in questo sviluppo senza limiti del capitalismo e del consumismo, incuranti del bene comune".
Descrizione della rovina - Palazzi, conventi, palazzine, ville, villini, pagode e piscine - I pezzi dei ruderi usati come materiale da costruzione - Un principio estetico originale: l'ambientamento garantito dalle vecchie tegole - Iniziative gentili della Società Generale Immobíliare.
Sulla via Appia Antica, fuori Porta San Sebastiano, c'è una «stazione di servizio» per automobili, mal situata, brutta, ridicola. Mal situata, perché appena cinquanta metri prima del Domine quo vadis?, cioè al bivio con la via Ardeatina, dove l'Appia si restringe e l'incrocio è pericoloso. Brutta, perché arieggia a portico di vecchia fattoria con le sue tre arcate, la tettoia coperta da tegole e qualche sparuta pianta verde in vasi di terracotta, nella pretesa di non stonare con «l'ambiente círcostante». Ridicola, perché nel suo muro, a edificazione del turista, sono incastrati frammenti antichi di marmo, di iscrizioni greche e latine, sarcofagi, cornici architettoniche: altri frammenti antichi di marmo e terracotta sono esposti in una vetrina tra i bidoni dell'olio, e ancora marmi, terrecotte, pezzi di stemmi medioevali, unti e macchiati, sono collocati sopra ai distributori di benzina. Tutte queste «antichità», in parte false, in parte comprate in via del Babuino, in parte rubate sulla via stessa, oltre a costituire un degno prologo per chi si accinge a visitare in macchina i restí di quella che fu la «regina delle vie», hanno un grande valore simbolíco: oggi l'antico è tollerato solo se, fatto a pezzi insignificanti, può essere ridotto a ornamento, a fronzolo, a servo sciocco delle «esigenze della vita moderna», del «traffico», del «dinamísmo del nostro tempo», insomma di quello che dicono «progresso». È quello che sta succedendo a tutta la via Appia, destinata entro pochissimi anni a scomparire, per diventare un rigagnolo in mezzo alla nuova città che sta sorgendo sopra e intorno ad essa, grazie a una banda di speculatori, alla previdenza dei tecnici del Comune di Roma, all'inerzia degli organi ministeriali, teoricamente prepostí alla tutela del nostro patrimonio archeologico, paesistico, monumentale.
Ammírato il distributore di benzina, voltiamo a destra per un sentiero in salita: fatta qualche decina di metri, restiamo esterrefatti. Abbiamo davanti a noi tutta la zona tra le vie Appia e Ardeatina da una parte e la via Cristoforo Colombo dall'altra, quasi un grande rettangolo di un chilometro per seicento metri: quello che l'anno scorso era ancora un pezzo di campagna romana, un dolce irregolare avvallamento a prati, alberi, orti, con qualche vecchio casale, è oggi un deserto d'inferno, ad altipiani e abissi, sconvolto dalle macchine scavatrici, che hanno distrutto alberi, prati e orti, che mangiano la terra intorno ai vecchi casali, lasciandoli sospesi in cima ad assurdi pinnacoli. Si sta sistemando il terreno, si stanno scavando le fondamenta di un nuovo quartiere di Roma extra moenia, esteso quanto villa Borghese.
In prossimità della via Appia e dell'Ardeatina sorgerà una fascia di «villini» e di «villini signorili» a quattro piani, quindi una fascia di «palazzine» a cinque e sei piani, quindi verso la via Crístoforo Colombo un ampio agglomerato a costruzione intensiva, con edifici di almeno otto piani, per un'altezza massima di ventotto metri. A parte i consueti abusi, come l'aumento dei piani grazie ai finti seminterrati, gli attici «arretrati», ecc., il nuovo quartiere incomberà ad altezze scalate sulla via Appia, divenuta misero budello ai suoi piedi, tanto più che essa in quel tratto è a quota 16-18, mentre il terreno del nuovo quartiere arriva a quota 30-40. Qualche esigua e frammentaria zona di rispetto «assoluto» (un centinaio di metri sulla carta) e di rispetto «con particolarilimitazioni», servirà soltanto ad attestare l'ipocrisia dei progettisti.
Il nuovo quartiere sarà naturalmente attraversato da strade. Una strada larga venti metri, partita dalla piazza dei Navigatori sulla via Cristoforo Colombo, dove sta la truce mole dell'ex «albergo di massa», oggi casa-prigione popolare, attraverserà il nuovo quartiere in diagonale, scavalcherà la via Appía quasi all'altezza del Domine quo vadis? e andrà a finire al quartiere Appio-Latino. Una seconda strada, di circonvallazione, larga cinquanta metri, partita dalla via Ostiense, scavalcherà la via Appia quasi all'altezza del Domine quo vadis? e arriverà all'Appia Nuova. Una terza strada, proveniente presumibilmente dall'E 42, scavalcherà la via Appia quasi all'altezza del Domine quo vadis?, dove si unirà alle prime due. Altre strade minori taglieranno il nuovo quartiere recando nuova congestione al Domine quo vadis?: la scelta dell'illustre chiesina come centro di confluenza di tanto traffico è davvero una trovata ammirevole. Infine, un'altra strada di circonvallazione lungo la ferrovia Roma-Pisa, di cui già esiste un tratto (via Cilicia), ma che si è dovuta arrestare di fronte alla scoperta dei ragguardevoli resti di un mausoleo, scavalcherà la via Appia a metà strada tra il Domine quo vadis? e la Porta San Sebastíano. Chi arriverà a Roma dalla via Appia si meraviglierà di entrare in galleria.
Guardiamoci attorno: Roma col suo più bel tratto di mura è ancora, per il momento, davanti a noi. Ma già sulla via Cristoforo Colombo si alzano i sinistri scheletri di due smisurati casamenti a 10-11 piani (cooperative villa Madama e Montecitorio), destinati a case economiche per deputati, senatori e funzionari del Senato e del Parlamento: tutta la larghissima via, in origine destinata ad essere strada-parco, diventerà una strada-corridoio, costruita intensivamente con edifici colossali su entrambi i lati, anzi, un'apposita commissione ne garantirà il «carattere monumentale» (!). Più lontano, tutta la zona ai piedi del Bastione del Sangallo rigurgita di villini di freschissima data costruiti, ad opera di varie cooperative edilizie, per abitazione di funzionari delle Belle Arti, che si sono auto-autorízzati a infischiarsi delle zone di rispetto: il «via» alle costruzioni abusive appena sotto alle Mura fu dato, poco prima della guerra, dalla villa di Eugenio Gualdi, presidente della Società Generale Immobíliare. Guardiamo infine al di là dell'Appia, al di là della valle dell'Acquataccio e della Caffarella: grotteschi edifici sono sorti in via Cilicia, la via Latina è scomparsa sotto un mucchio confuso di nuove costruzioni: tutta la zona tra la ferrovia RomaPisa e la via Latina sarà costruita intensivamente, e gran parte della bella conca della Caffarella costruita a «villini» (o come altro saranno chiamati), per oltre mezzo chilometro.
Nella relazione che il 21 ottobre 1951 la Giunta romana tenne al Consiglio comunale, intorno al nuovo piano regolatore, si diceva, in tono saggio e mellifluo, che Roma deve espandersi verso i Colli e verso il mare: tra queste due direttrici, sarebbe rimasto intatto «il grande cuneo della zona archeologica (che), a cavallo dell'Appia Antica, si spinge fino al cuore della città, al Campidoglio, come una riposante fascia di verde, dalla quale emergeranno, testimonianza perenne di storia e civiltà, i resti dei gloriosi monumenti», ecc. ecc. Farebbe un'opera buona chi volesse spiegarci perché mai, in meno di due anni, il cuneo archeologico e la riposante fascia di verde si sono trasformati in cuneo, fascia e baluardo di cemento armato.
Pochi metri oltre la basilica di San Sebastiano, sulla nostra destra, il muro della via è abbattuto: un centinaio di metri in là, nella bella campagna, ecco il primo esempio della nuova edilizia che distruggerà per sempre l'integrità monumentale e paesistica di tutta la via Appia. Sei villini son già pronti, arancione, gialli e rossi, strani nella pianta e nell'alzato, a mezzo tra la piccola stazione ferroviaria, la vecchia fattoria e la casina della bambola; tetti, terrazze, verande, scale esterne si accostano, si susseguono, si incastrano ad angoli retti, ottusi, acuti: vediamo finti comignoli di forma indescrivibile, torrette cilindriche, loggiati ad arcate, balconcini a tettoia sorrettida travi di legno, pensiline sorrette da pilastri di tufo, finestre lunghe e corte, alte e basse, strette e larghe, rettangolari e quadrate, barbacani ed oblò. Retrocediamo in fretta, e superiamo la tomba di Cecilia Metella.
Comincia il tratto più splendido e più famoso della via Appia. Al quarto chilometro, di fronte alla casa in cui Pio IX nel 1853 si fermò a sperimentare il telegrafo (elettrico relatori experi-undo), entriamo nei campi alla nostra sinistra. Ecco, a un centinaio di metri, un altro gruppo di ville (tutto il vasto terreno è già lottizzato, tra la via Appia e la via dell'Acquasanta), giallognole, dal tetto a spioventi, con alti comignoli: nonostante che portici e finestre siano «moderni», queste ville hanno qualcosa di vecchio, di cui non sappiamo per ora renderci ragione. Ci inoltriamo ancora nella campagna, fin che arriviamo sul ciglio di una vecchia cava di selce, e per poco non vi precipitiamo dalla meraviglia: una decina di metri sotto ai nostri piedi ci appare una vasta macchia di un azzurro accecante, una grande piscina privata con fondo in mosaico di vetro, orlo ondulato di cemento come le fosse degli orsi, toboga, trampolino, ombrelloni gialli, rossi e blu.
Tornati sulla via e fatto un centinaio di passi, pieghiamo a sinistra in una nuova strada asfaltata: eccoci di fronte a un grande edificio in costruzione, arrivato al primo piano. A terra vediamo un mucchio di tegole, e comprendiamo quanto prima ci aveva sorpreso: l'aria di «antico» delle case, che a decine e a centinaia vanno sorgendo sulla via Appia, deriva in gran parte dall'impiego di tegole usate; un muratore che sta lavandosi i piedi in una vasca dove sono a bagno i mattoni ci spiega che ciò avviene per legge. Con simili espedienti i responsabili si mettono a posto la coscienza.
Guardiamo meglio l'edificio in costruzione, un'altra grande sorpresa ci aspetta: per un paio di metri di altezza il muro esterno è rustico, fatto di pietre chiare e scure, ma tutte, di nuovo, hanno qualcosa di «antico», molte addirittura sono già coperte di muschio. C'era da aspettarselo: per tutta la sua ampiezza il muro è composto di pietre antiche, rubate alla viaAppia e ai suoi monumenti. Giriamo intorno all'edificio, tra cataste di mattoni e pozzi di calce, e contiamo, sull'erba, una dozzina di grossi mucchi (carico di altrettanti camion) di pietre antiche rubate alla via Appia e ai suoi monumenti: sono blocchi di selce del pavimento antico della via, inconfondibili perla forma e l'impronta delle carreggiate, sono grossi pezzi di marmo lunense e di pietra albana tolti al rivestimento dei sepolcri, sono (chi non ci crede vada a verificare) grossi frammenti di statue.
Non basta: tutti i muretti e relativi pilastri d'ingresso, che sono stati costruiti per centinaia di metri lungo la via Appia, a delimitazione delle nuove proprietà, sono tutti fatti con pietre antiche rubate alla via Appia e ai suoi monumentí; tra le pietre antiche vediamo ancora iscrizioni, frammenti di sarcofagi, di ornati architettonici, di colonne, basi e capitelli, frantumi di selce dell'antico pavimento. Un secolo fa l'archeologo Luigi Canina eresse lungo la via delle piccole pareti in cotto e con gusto eccellente vi murò i frammenti antichi che man mano veniva scoprendo: da anni, un giorno dopo l'altro, questi frammenti vengono smurati, trafugati, venduti, usati come materiale di costruzione.
Torniamo sull'Appia: un cartello ci informa che «42.000 metri quadrati di terreno, eventualmente divisibili» sono in vendita; passiamo davanti a una nuova villa (n. 201, «Sola beatitudo»: vedremo tra un paio d'anni dove sarà andata a finire la beata solitudo), e arriviamo al n. 203: ci balza innanzi la massa informe, orrenda della Pia Casa Santa Rosa, ormai famosa per lo scandalo che suscitò un paio di anni fa. Se non ricordiamo male, l'edificio, progettato a tre piani, venne autorizzato dal Consiglio Superiore del Ministero della Pubblica Istruzione «per deferenza alla benefica istituzione» (bel principio urbanistico). Nell'entusiasmo dei lavori l'architetto (Spina Alberto) pensò bene di aggiungere un quarto piano: contro il quarto piano insorsero la Commissione provinciale per le bellezze naturali, panoramiche e paesístiche, insorse la Soprintendenza ai Monumenti, insorse lo stesso ConsiglioSuperiore, che ne ordinò «l'immediata demolizione». L'ordine rimase naturalmente lettera morta, capitò invece che i fondi stanziati venissero anzitempo esauriti, tanto che si sperò vivamente che la Pia Casa rimanesse incompiuta: ma intervenne la Provvidenza, e oggi la Pia Casa è in funzione, con tutti i suoi quattro piani e il suo macabro intonaco violetto. È psicologicamente interessante ricordare che l'architetto Spina si difese dalle critiche, non solo paragonando il suo capolavoro alle badie di Farfa, Casamari e Subiaco e al monastero di Montecassino, ma sostenendo che la via Appia, lungi dall'esserne danneggiata, ci guadagnava.
Andiamo avanti ancora, osservando i monumenti a testa bassa, per non scoprire altri scempi. Ma i monumenti stessi sono ridotti a letamai, sommersi da immondizie di ogni genere: sembra che per il bilancio del Comune di Roma (o della Soprintendenza alle Antichità? o di quella ai Monumenti?) un paio di spazzini per la via Appia siano un carico eccessivo. Gíungiamo all'altezza di Tor Carbone: qui sulla destra dell'Appia dovrebbe sorgere, grazie alla Società Immobiliare, un grande quartiere di villini di lusso, collegato con una strada all'E 42. Prendiamo a sinistra la via Erode Attico che porta all'Appía Pignatelli: fatti pochi metri, riceviamo un altro tremendo colpo nello stomaco.
Nel vasto angolo formato dalla via Erode Attico con la via Appia, ci feriscono la vista una dozzina di «víllini signorili», di varia foggia e dimensione. Tra i colori predominano il víola e l'arancione: le case hanno forma assai complessa, con avancorpi, sporgenze e rientranze, i tetti hanno i soliti comignoli e le solite tegole; vediamo portici ad arco pieno, ad arco ribassato, ad architrave, finestre a feritoia, arcuate, quadrate, finte colombaie, lampioni di ferro battuto: ogni casa è recintata da un muro di tufo giallo, talvolta con pilastri copertí a tettuccio. Il bel quartierino ha la solita aria finto paesana da città dei balocchi, come fosse costruito da uno scenografo incerto tra Italia centrale, Tirolo e Svizzera, con qualche reminiscenza classica. Tra le curiosità principali notiamouna casa con grondaia in su anziché in giù, e una specie di pagoda cinese a due piani, il primo ad arcate di mattoni, il secondo a vetrate continue.
Gíriamo intorno gli occhi: verso nord, dietro al bel quartierino, si innalza in tutta la sua profondità lo spettro della Pia Casa; verso sud, cioè sempre sulla sinistra della via Appia, ci appaiono adesso altre ville e villini; verso oriente, in basso, ecco distendersi un nuovo e maggiore quartiere, dall'aspetto meno «signorile» del primo; scendiamo nella stessa direzione e passiamo in mezzo alla vasta e miserabile nuova Borgata di Santa Maria Nuova. Quanto all'Appia Pignatelli, la bella via solitaria a valle dell'Appia Antica, sappiamo che verrà allargata per essere trasformata in grande strada di traffici (naturalmente con costruzioni ai lati, anche attorno al Circo di Massenzio), che sarà prolungata fino a Roma con un tronco parallelo all'Appia Antica, portando nuova rovina nella valle della Caffarella, fino a Porta Latina: sarà quindi la quinta grande nuova strada che cancellerà dalla faccia della terra la campagna a sud di Roma.
Ríentrati a Roma, fermatici davanti alla stupida e spropositata mole del palazzo della Fao, rovina della Passeggiata Archeologica, cioè del primo tratto della via Appia, nel riporre una vecchia guida, rileggiamo la frase di Goethe, dell'11 novembre 1786, messa a epigrafe del primo capitolo: «Questi uomini lavoravano per l'eternità; tutto essi hanno preveduto tranne la demenza dei devastatori, cui tutto ha dovuto cedere».
La demenza dei devastatori ha raggiunto oggi vette inimmaginabili: un ultimo esempio corona per il momento il nostro triste e parzialissimo elenco. Al sesto chilometro della via Appía, sulla sinistra, isolate nella campagna, sorgono le rovine famose, vaste, imponenti della villa dei Quintili, del secondo secolo dopo Cristo, avanzi di un ninfeo, di un acquedotto, di un criptoportico, di terme, di cisterne, di sale grandiose, ecc., con una vista stupenda sui Colli e i Castelli. Ebbene, anche qui i nuovi vandali dementi stanno tramando un colpo inaudito: un «nucleo residenziale» (grazie alla SocietàGenerale Immobiliare) sorgerà immediatamente a ridosso delle rovine, per una profondità di circa trecento metri nella campagna; la lottizzazione si estenderà in uguale misura, complessivamente per una cinquantina di lotti, anche sulla destra della via Appia: questa, chiusa in mezzo, sarà affiancata da due strade parallele, una a destra, l'altra a sinistra. Lottizzare il Foro Romano o la villa Adriana non sarebbe misfatto peggiore.
Ingenuo chiedersi come avvenga tutto ciò. Esistono articoli di leggi (legge 1939 sulla tutela delle cose d'interesse artistico e storico, legge 1939 sulla protezione delle bellezze naturali e panoramiche, regolamento 1940 per l'applicazione della precedente), intesi a salvaguardare «l'integrità», le condizioni di «prospettiva», «luce», «ambiente», «decoro», dei monumenti, la «bellezza panoramica», la «spontanea concordanza e fusione fra la espressione della natura e quella del lavoro umano», e via dicendo. Esiste un vincolo di rispetto per un centinaio di metri da una parte e dall'altra della via Appia, esiste un altro vincolo di poco più esteso, proposto il gennaio scorso dalla Commissione provinciale per le bellezze naturali, ecc., ma che non comporta l'inedificabilità delle aree, limitandosi solo a imporre generici riguardi ai costruttori. Esistono organi di tutela, statali, comunali, provinciali, cui manca spesso la cultura e l'intelligenza, cui manca sempre l'iniziativa e la forza di intervenire.
Da un paio d'anni lo scempio della via Appia è entrato nella sua fase definitiva. Le lottizzazioni da sporadiche si vanno facendo organizzate, stringendosi a soffocare tutta la via in un abbraccio mortale, la campagna assume un aspetto da stazione climatica, gli edifici cui abbiamo accennato (ipocrisia delle sottili strisce di rispetto) sono e saranno tutti visibili dalla via: il gioco degli interessi stronca in partenza qualsiasi iniziativa sensata.
Per tutta la sua lunghezza, per un chilometro e più da una parte e dall'altra, la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sueleggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti. Perfino per la cattiva letteratura che nel nostro secolo vi era sorta intorno. Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l'avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un'opera d'arte di una opera d'arte: la via Appia era intoccabile, come l'Acropoli di Atene. Ma che importa ai funzionari, agli architetti, agli speculatori? Il loro ideale estetico sono gli obelischi di via della Conciliazione, e i baracconí di gesso dell'E 42, nati per ospitare le «Olimpiadi della Civiltà» e scaduti, com'era giusto, a fiera campionaria e parco dei divertimenti, e poi malauguratamente diventati massimo centro d'attrazione per lo sviluppo di Roma.
«Il Mondo», 8 settembre 1953
La renitenza delle regioni (salvo rare eccezioni) ad applicare la legge Galasso invita a riflettere ancora una volta sui perché della radicata avversione tutta italiana verso ambiente paesaggio natura. Amministrazioni affette da un attivismo senza qualità e senza scopo sostengono che quella legge (ci sono voluti quarantatré governi della Repubblica) costituisce una remora, un impedimento, un “blocco” (è la parola più usata) allo sviluppo dell’edilizia, delle infrastrutture, delle opere pubbliche: quando invece altro non è che uno stimolo a una pianificazione finalmente appena un poco riguardosa di quei valori che una recente sentenza della Corte Costituzionale ha definito primari, prioritari, prevalenti.
Tra le spiegazioni che si sono date di quell’avversione ci sarebbe il fatto che in Italia la natura si è spesso identificata con un territorio avaro, fonte di povertà e fatica; oppure, d’altro lato, la mitezza del clima (da noi come negli altri paesi mediterranei) avrebbe favorito un’equivoca familiarità, e quindi una generale sottovalutazione, che ha annullato quel carattere sacro che gli antichi attribuivano alle selve, alle sorgenti, ai corsi d’acqua: cosa per cui solo i paesi che hanno avuto a che fare con una natura più ingrata (l’“orrore” delle foreste, il clima rigido eccetera) hanno imparato a rispettarla e ad usarla nel migliore dei modi. Un esempio fra tutti l’Olanda, che prosciuga il mare, realizzando insediamenti modello, ricreando agricoltura, vegetazione, biotopi.
Tutto vero, questo e altro: ciò che accomuna la maggioranza degli italiani, uomini di cultura e gente semplice, proletari e borghesi, chierici e laici è una profonda malformazione mentale che ci ha portato a una vera e propria rimozione del territorio: anziché una risorsa scarsa, preziosa e irriproducibile per definizione, esso viene degradato a terra di nessuno ovvero a semplice vuoto da riempire, a tutto vantaggio del parimenti radicato culto funesto per la crescita illimitata scambiata per progresso, per l’aumento, quale che sia, di costruzioni, strade, industrie: causa di un’urbanizzazione indiscriminata e selvaggia, per decenni condivisa dalle stesse forze della sinistra che, in cambio di pochi posti di lavoro, hanno sostenuto e incoraggiato la costruzione degli impianti industriali più inquinanti, più energivori e più costosi. La devastazione delle coste, nei varchi lasciati liberi dalla speculazione edilizia, ne è l’esempio peggiore.
La società industriale ha così fatto propria quell’altra malformazione propria della vecchia tradizione giudaico-cristiana che ha reso l’uomo despota di ambiente e natura: e San Francesco (fatto patrono dell’ecologia e d’Italia) che ha predicato la fratellanza con ogni altro essere vivente, uccellacci dei cimiteri compresi, appare un santo immeritato ed estraneo, passato come una meteora nella nostra cultura, tutta basata sull’uomo sfruttatore rapinoso della natura. Non a caso abbiamo il maggior esercito d’Europa di cacciatori e sfoghiamo a bastonate il nostro odio contro gli animali domestici: abbiamo avuto un papa, Pio XII, che benedisse i tiratori di piccione, e Bertrand Russell ricorda che Pio IX si rifiutò di ricevere quelli della protezione animali, considerando eretico credere che verso di essi l’uomo avesse qualche dovere.
C’è anche chi sostiene che la natura è femmina e come tale va trattata. Conservazione, tutela, salvaguardia sono tutti sostantivi femminili: le metafore con cui viene qualificata l’opera dell’uomo-padrone sono esplicite. La terra va “fecondata”, il viadotto (immancabilmente ardito) “cavalca” la valle, il tunnel “perfora” il monte, la strada “si insinua” tra le colline. Se il territorio è terra di nessuno, diventa proprietà di chi lo arraffa per primo, spazio aperto alle manovre di chi fonda le sue fortune sul suo saccheggio. Gli speculatori sono abili nel diffondere demagogici luoghi comuni che fanno presa sulla gente: “prima l’uomo e poi il camoscio”, “prima l’uomo e poi il muflone” sono gli slogan che negli anni passati hanno paralizzato i parchi nazionali esistenti e impedito la creazione di nuovi (ricordiamo l’ultrasinistra di Orgosolo che sparava a zero contro il parco del Gennargentu).
Di qui le alienazioni di terreni comunali, la privatizzazione del territorio naturale, le lottizzazioni per qualche posto di lavoro temporaneo nell’edilizia. Tutti i calcoli sono stati sbagliati: perché lavoro, occupazione diretta e indotta e benessere duraturo possono, al contrario, essere garantiti proprio dalla tutela dell’ambiente naturale, purché le aree protette siano messe in grado di funzionare; cosa che nel parco d’Abruzzo hanno cominciato a capire in molti, come mostra il caso esemplare del piccolo comune di Civitella Alfedena, la cui Cassa Rurale ha stampato sui propri assegni l’orsetto del parco. Sbagliare i calcoli economici e i conti ecologici è tipico di una società stravolta. La conservazione della natura sarebbe “antieconomica” dice un altro luogo comune: vorrà allora dire che è “economico” lo spreco edilizio e stradale (100 milioni di stanze per 56 milioni di abitanti; tre milioni di ettari, cioè un decimo dell’Italia, distrutti in un quarto di secolo sotto cemento e asfalto; e che è segno magnifico di benessere il costo spaventoso del dissesto idrogeologico causato dal disprezzo per il territorio e l’ambiente (circa tremila miliardi l’anno).
L’Italia si avvia così ad essere un paese a termine, che può essere consumato, finito entro poco più di un secolo. È una prospettiva che non allarma i nostri uomini di cultura, tutti lettere e arti belle, che tutt’al più si mobilitano per Capri o Portofino; né tanto meno preoccupa gli architetti, nella gran maggioranza smaniosi di lasciare la loro “impronta”. Come i fautori del nucleare (fautori dello spreco energetico) accusano gli ambientalisti di voler “tornare al lume di candela”, così gli architetti li accusano, senza vergognarsi, di voler tornare all’arcadia, di “imbalsamare” la natura ovvero di metterla sotto una “campana di vetro” e via spropositando. Ed esultano per i quattro milioni di metri cubi che l’operazione Fiat-Fondiaria vorrebbe scaricare sulla piana di Sesto presso Firenze e sono convinti che la natura proprio non esiste se non è corredata dalle loro opere.
A stento anni fa si riuscì a impedire che venissero lottizzati la campagna e i ruderi della Via Appia Antica, che qualche superstite macchia-pineta costiera (come S. Rossore-Migliarino) venisse cementificata; c’era un illustre professore romano che invitava gli studenti a progettare edifici al posto dei giardini pubblici, perché – diceva – il verde in città “fa giungla”. (A titolo di merito, va ricordato l’architetto Giancarlo De Carlo che rinunciò a lottizzare una fascia litoranea toscana, per la buona ragione, che la qualità dell’architettura non può mai riscattare l’errore ambientale e urbanistico). Assai diffusa è la protesta contro i vincoli di tutela: sarebbe ora che capissero che i vincoli di tutela (paesistici, naturalistici, forestali, idrogeologici eccetera) sono un servizio pubblico, a difesa del nostro spazio di vita, della nostra cultura e della nostra stessa incolumità.
La pianificazione dei vuoti, l’individuazione delle “aree irrinunciabili” alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni ipotesi di trasformazione e sviluppo, la creazione di riserve, aree protette, parchi naturali, costieri, fluviali, urbani, territoriali, la gelosa salvaguardia del terreno agricolo: questo è il compito dell’urbanistica moderna.
È l’esempio dei paesi avanzati, anche nelle zone più densamente abitate, dalle new towns inglesi alla Grande Stoccolma alle villes nouvelles francesi: ad Amsterdam non esistono le Appie antiche, ma se le sono create nelle maglie dell’espansione edilizia.
Sono paesi che applicano da decenni una politica che abbatte la rendita fondiaria: altra conquista civile a noi sconosciuta. Ma anche da noi sono sempre più evidenti i segni di una presa di coscienza, sempre più numerose le iniziative, le denunce, le battaglie delle associazioni, dei verdi, dei sodalizi sparsi per l’Italia. Quanto agli irriducibili occorrerà rispondere come rispose il naturalista alla signora impellicciata che gli chiedeva a cosa servono i castori vivi: “a niente, signora, come Mozart”.
Da: Cederna A.- Santucci A.- Scolaro G., Il "rovescio"della città, Introduzione di Emiliani A., Bologna, Labanti e Nanni, 1987
Perché in Italia è così difficile proteggere l’ambiente e la natura, e utilizzare in modo ragionevole il territorio?
Chi oggi intraprendesse il grand tour potrebbe alla fine scrivere quella “guida dell’Italia alla rovescia” di cui da gran tempo si sente la mancanza, in cui illustrare i maggiori scempi e disastri: pinete litoranee lottizzate, aree archeologiche insidiate dall’edilizia, mare in gabbia e coste trasformate in congestionati suburbi, fiumi ridotti a cloaca, colline e corsi d’acqua devastati dalle cave, case e industrie costruite in zone franose, preziose zone umide trasformate in campi di patate, monumenti famosi incastonati fra i casamenti della periferia, boschi abbandonati, montagne scorticate e ricoperte da fili e tralicci, pendici di vulcani urbanizzate, parchi nazionali occupati da condominii e tagliati da strade rovinose, scarichi fumanti di rifiuti, la macchia mediterranea privatizzata dal reticolo edilizio, e via dicendo. Un insensato sparpagliamento del costruito elimina ogni distinzione tra città e campagna, annulla ogni identità fisica e storica, un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto va man mano sostituendosi alla crosta terrestre.
E il lettore verrebbe a sapere che in vent’anni ben tre milioni di ettari di terreno agricolo (un decimo dell’Italia) sono stati fatti sparire, e che se non si pone rimedio si può prevedere che tra cent’anni tutta l’Italia verde sarà scomparsa. Che da questo saccheggio (ispirato alla più completa ignoranza delle caratteristiche di paesaggio, territorio, suolo) deriva in gran parte il dissesto idro-geologico che ci affligge, le alluvioni bi-trimestrali, le tremila e più frane all’anno (un morto ogni dieci giorni). Che da anni imperversa il più folle spreco edilizio, per cui abbiamo ottanta milioni di stanze per 56 milioni di italiani, mentre sempre più acuta è la crisi degli alloggi (ma ben quattro milioni sono gli alloggi vuoti), senza parlare del flagello dell’abusivismo, per cui nel Mezzogiorno due case su tre sono fuori legge.
Che l’Italia è alla coda della graduatoria universale per quanto riguarda aree protette (solo l’1,5 per cento del territorio, contro medie del 10 per cento negli altri paesi, terzo mondo compreso).
Che non un solo parco pubblico degno del nome è stato realizzato nelle città, per il riposo, la ricreazione, il tempo libero di giovani e adulti, mentre grandiose realizzazioni sono in corso in tutta Europa, da Vienna a Parigi a Monaco, eccetera.
Le radici di questa arretratezza sono profonde e diffuse. Troppi politici e amministratori considerano anche il territorio come merce da barattare, terra di nessuno ovvero proprietà di chi riesce ad arraffarlo. Il mondo accademico (che pomposamente si definisce “comunità scientifica”) è assorto nei propri pensieri, ossequioso verso il potere, incapace salvo eccezioni di azioni coraggiose. Gli uomini di cultura sono da sempre indifferenti ai problemi della vita associata, e considerano “anime belle” chi si batte per la difesa dell’ambiente. Gli addetti ai lavori, architetti e urbanisti, salvo una valorosa minoranza, disprezzano la cultura della conservazione e smaniano di lasciare ovunque la propria “impronta”, spropositando che senza architettura la natura non varrebbe niente. La stampa, per quanto più attenta di una volta, è vittima del culto demenziale della notizia, e “notizia” significa fatto clamoroso, catastrofe, incendio, alluvione, eccetera, per cui troppo spesso si riduce a semplice registrazione tardiva di fatti compiti, con tanti saluti all’altro culto sbandierato, quello dell’attualità. Quanto alla scuola sappiamo il poco che si fa per educare i giovani al rispetto, alla conoscenza, al giusto comportamento.
Al fondo di tutto ciò ci dev’essere una qualche radicata malformazione culturale. Semplificando si può dire che le principali componenti della nostra cultura non hanno dato buoni frutti. L’idealismo ci ha insegnato che la natura non esiste, che il paesaggio è uno stato d’animo, cioè un’apparenza soggettiva e inafferrabile. Il cattolicesimo (ovvero, la tradizione giudaico-cristiana) ha dissacrato il concetto che della natura aveva il mondo classico, e ne ha fatto despota l’uomo. Il marxismo ha per troppo tempo sottovalutato i problemi del territorio, considerandoli sovrastrutturali, e rimandandone la soluzione alla palingenesi universale. Il risultato è la convinzione, fatta propria dalla moderna società industriale, che il progresso si identifichi con l’urbanizzazione a qualunque costo, il benessere con la crescita continua della produzione, e quindi con il cieco consumo delle risorse, spazio, suolo, territorio, ritenuti pressoché illimitati.
Se le cose stanno così, c’è spesso da chiedersi come sia possibile prendersela troppo con la maleducazione della gente qualunque, che sporca, getta la cicca accesa, strappa i fiori, malmena gli animali domestici e stermina quelli selvatici, sega gli alberi davanti alla casa per “vedere il panorama” (che nei giochi di parole crociate è definito “soggetto per cartoline”); o prendersela troppo con gli amministratori del villaggio, ultimi esponenti di un’incultura generalizzata, tutta intrisa di disprezzo per l’ambiente naturale, considerato oggetto di violenza. Chi mai direbbe che siamo il paese di San Francesco, il santo più immeritato e meno italiano, che ha detronizzato l’uomo dal suo dominio sulla natura e ha predicato la tenerezza, la fratellanza con ogni altra cosa animata e inanimata, che predicava agli uccelli rapaci, raccoglieva da terra le lumache perché non venissero calpestate e raccomandava di lasciare in ogni orto un pezzo di terra non coltivata perché potessero liberamente crescere le erbacce.
Non tutto è nero, certo. Cresce la “domanda di natura”, si organizzano gruppi di pressione su singoli problemi, fervida è l’attività delle associazioni protezionistiche, la magistratura interviene più frequentemente, una legge recente ha esteso il vincolo ambientale a intere categorie di beni (coste marine, fiumi e laghi, boschi e foreste, montagne al di sopra di una certa quota eccetera): ma è necessario intensificare l’azione per immunizzare la gente contro i perniciosi demagogici luoghi comuni diffusi da tutti coloro che dal saccheggio del territorio traggono le loro fortune.
Dicono ad esempio che la difesa dell’ambiente naturale costi troppo: quando la verità è esattamente il contrario, perché è la mancata opera di prevenzione o tutela che rovescia sulla collettività ingenti costi sociali: basta pensare ai tremila miliardi di danni che ogni anno ci procura il dissesto idrogeologico, o a quel che costa, per ricordare un disastro recente, l’inquinamento dell’Adriatico, che annienta la pesca e scaccia i turisti.
In realtà, la difesa della natura rende molte volte di più di quello che costa. Il turismo di soggiorno ed escursionistico promosso dalle aree protette e dai parchi arreca benefici economici duraturi alle popolazioni: il milione di visitatori del parco d’Abruzzo mette in giro quaranta-sessanta miliardi l’anno; e si è calcolato che, qualora venissero istituiti i parchi nazionali da tempo annunciati, sarebbero trentamila i posti di lavoro, diretti o indotti, che verrebbero creati (ma ancora si aspetta l’altra legge fondamentale, quella in difesa della natura e per l’istituzione di parchi e riserve). Senza dire dei benefici non monetizzabili, il valore infinito delle risorse e degli equilibri naturali più segreti e complessi, essenziali sia alla sicurezza del suolo sia all’elevazione culturale: perché a tutti sia concessa quell’esperienza liberatoria che è la contemplazione, la comprensione, lo studio dell’ambiente incontaminato. Gli sciocchi dicono che “non si deve mummificare la natura”, come si trattasse di un cadavere: mentre la natura è un laboratorio formicolante di vita che solo la conservazione può garantire: una vita, quella dei pesci, degli aironi, degli stambecchi, delle farfalle, dei lombrichi eccetera, dalla quale dipende per direttissima la vita degli uomini.
Dobbiamo dunque impegnarci per favorire una drastica riconversione culturale, basata su alcuni principî elementari. Suolo, territorio, ambiente sono una risorsa scarsa, limitata per eccellenza, da utilizzare con estrema parsimonia e rigore scientifico.
Non è possibile un autentico progresso economico e sociale senza una preventiva, lungimirante costante politica ecologica che metta fine agli sprechi e quindi ai costi della degradazione ambientale e dell’inquinamento: continuare a consumare le risorse col criterio dell’“usa e getta” è semplicemente suicida.
D’altra parte, la risorsa scarsa, limitata, irriproducibile per eccellenza è il suolo, il territorio: ogni sforzo dunque va fatto per porre fine al consumo irresponsabile che ne è stato fatto in decenni di sprechi, leggerezze e saccheggi.
Se si continuasse col passo attuale della cieca espansione edilizia, stradale, industriale eccetera, tra poco più di un secolo tutta l’Italia sarebbe ricoperta di una continua, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto, tale da distruggere ogni produttività agricola e cancellare la stessa fisionomia paesistica, naturale, culturale di quello che fu chiamato il Bel Paese. Bisogna dunque che coll’aiuto di urbanisti ambientalisti ecologi, le pubbliche amministrazioni (comuni, provincie, comunità montane, regioni eccetera) si decidano a fare sistematicamente i conti, a fornire cifre relative al consumo di suolo e territorio perché tutti possano rendersi conto del disastroso traguardo che ci sta davanti se non si cambia rotta: un’Italia a termine, destinata ad essere consumata e finita nelle prossime tre o quattro generazioni.
Gli amministratori sono restii a fare calcoli e a fornire le cifre, perché sono un essenziale strumento di conoscenza che può mettere in crisi il partito dei saccheggiatori: ma qualcuno ha cominciato a informare la pubblica opinione. I dati sono ancora parziali: ma come le “proiezioni” fatte alla televisione dopo la chiusura dei seggi elettorali esaminando un numero assai limitato di schede, già possono dare attendibili indicazioni su quello che sarà il risultato finale. Dunque, dai calcoli del CENSIS coi dati dell’ISTAT, risulta quanto segue.
Il suolo agricolo utilizzabile nell’ultimo decennio è diminuito del 9,4 per cento, perché distrutto dall’avanzare dell’urbanizzazione o perché abbandonato.
Regione per regione, è diminuito dell’8 per cento nel Veneto e in Lombardia, dell’11 per cento in Calabria, del 12 per cento in Liguria, Piemonte e Sicilia, del 16 per cento in Sardegna, del 17 per cento nel Friuli-Venezia Giulia. Nell’ultimo trentennio le aree non più classificabili come utilizzabili a fini produttivi hanno raggiunto la dimensione di circa 5 milioni di ettari (una superficie pari a Piemonte più Lombardia): il consumo è proceduto a un ritmo medio di 150.000 ettari all’anno.
In particolare, le aree metropolitane, cioè urbanizzate, sono raddoppiate: l’espansione delle città ha divorato la campagna al ritmo di 25-35.000 ettari all’anno. In sintesi, come ha calcolato Giuliano Cannata della Lega Ambiente, dal ’70 all’81 i terreni perduti, perché abbandonati o occupati da edifici, strade, industrie, cave, discariche eccetera, sono passati dal 12,5 al 20,6 per cento del totale, pari a consumo medio dello 0,7-0,5 per cento all’anno: nell’ultimo ventennio circa 3 milioni di ettari di terreni agricoli sono andati distrutti (e sono un decimo dell’Italia). Come dire che se si continuasse ad andare avanti così, “tutto il territorio italiano, dal Cervino a Capo Passero, sarebbe finito in poco più di cento anni”.
Questa prospettiva suicida è il risultato di quella distorsione mentale che il CENSIS chiama “rimozione del territorio”. Con incoscienza l’abbiamo considerato come un vuoto da riempire, una res nullius, un oggetto di baratto e una fonte di lucro: i comuni hanno confezionato strumenti urbanistici grottescamente sovradimensionati, senza alcun rapporto coi reali fabbisogni, praticamente considerando tutto edificabile. Qualcuno ha calcolato che se si sommassero le cubature previste dai piani regolatori e programmi di fabbricazione, l’Italia risulterebbe capace di ospitare, sulla carta, una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica.
Il deprimente spettacolo che offre il nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. Un inverecondo sparpagliamento edilizio sommerge pianure e colline, abolendo ogni distinzione fra città e campagna, e sommerge le aree agricole, nel disprezzo per gli aspetti paesistici, per l’ambiente naturale. L’edilizia dilaga a nastro lungo le strade, a ragnatela nelle periferie urbane: al costruito si accompagna l’asfalto, le discariche di rifiuti, i terreni vaghi, degradati, l’abbandono (a ogni ettaro costruito ne corrisponde mediamente un altro in attesa di essere liquidato).
È il “deserto abitato” che avanza nel disordine totale, rendendo a poco a poco irriconoscibile l’Italia: una clamorosa smentita alle regole elementari del vivere associato, un’incolta irrisione a ogni norma elementare di pianificazione urbanistica, un crescita dissennata che aumenta paradossalmente proprio mentre cala l’incremento demografico.
Due sono le indagini recenti che danno un’idea drammatica della situazione: una riguarda l’area metropolitana milanese e la Lombardia in generale, l’altra la provincia di Roma. Come è stato documentato recentemente dal “Centro documentazione e ricerche” della regione Lombardia, nell’area metropolitana milanese (oltre un centinaio di comuni, 180.000 ettari) il consumo di territorio ha ormai raggiunto il 33 per cento, in nove anni (1963-1972) ne è stato distrutto più che nel secolo precedente, e si procede al ritmo dell’1 per cento all’anno, anche se è finita la grande espansione economica e demografica. Il piano territoriale comprensoriale ha posto dei limiti alle previsioni comunali, e si propone di contenere l’espansione complessiva entro il 50 per cento, entro il duemila, che è già una “soglia di allarme”: se invece le cose continuassero ad andare per il verso sbagliato, osserva Gianni Beltrame, direttore del comprensorio, tutto il suolo verde e agricolo dell’area metropolitana milanese sarebbe finito entro 67 anni.
Al consumo di territorio per incontrollato avanzare di urbanizzazione, si aggiunge quello dovuto al degrado (brutta parola diventata ormai di uso comune), cioè a quell’insieme di interventi in vario modo offensivi e distruttivi, che vanno dall’attività selvaggia delle cave alle discariche di rifiuti all’isterilimento del suolo nelle sudicie frange periurbane. Come ha osservato l’economista Mercedes Bresso al convegno, in Lombardia le cave, “vera e propria industria del dissesto”, compromettono circa 20.000 ettari, pari al 2 per cento della superficie regionale. Ad essi va aggiunto un 1-2 per cento di discariche e di depositi di rifiuti, più un 8 per cento di “degrado diffuso” (spazi compromessi da utilizzazioni precarie, fasce di rispetto stradale, variamente occupate, depositi di materiali industriali, fabbricati in stato di abbandono eccetera): si arriva così all’11-12 per cento di territorio degradato, pari a circa 100.000 ettari, quasi il 10 per cento del suolo utile lombardo. Disordine, spreco, inquinamento delle falde idriche, erosione del suolo, distruzione di terreno agricolo: quanto costa il risanamento, il ripristino, il recupero di un terreno così devastato? Si valuta che il costo sarebbe di 35-40 milioni ad ettaro: quindi, in Lombardia occorrerebbe spendere 3.500-4.000 miliardi, che diventano almeno 10.000 se l’operazione venisse estesa ai casi che richiedono interventi complessi (sgomberi, abbattimenti, eccetera). Ecco quali sono i costi sociali scaricati sulla collettività dal saccheggio del territorio.
Altri dati allarmanti vengono forniti dall’indagine condotta dall’Assessorato al bilancio e alla programmazione della Provincia di Roma, circa le destinazioni d’uso previste dagli strumenti urbanistici dei 118 comuni che la compongono. Il risultato è che, senza contare Roma, è prevista l’edificazione (tra zone di espansione, di completamento e turistiche) di 2.300.000 stanze per altrettanti abitanti: se si aggiungono i 7-800.000 vani residui previsti dal piano regolatore di Roma (tra edilizia privata e pubblica) si arriva a più di 3 milioni di stanze: come costruire ex novo un’altra Roma accanto all’esistente. A tanto più giungere il sonno della ragione, l’allegra incoscienza urbanistica (intanto, da anni, il territorio della provincia romana viene consumato al ritmo di tre ettari al giorno).
La prospettiva è dunque certamente catastrofica: il “giardino d’Europa” corre alla rovina, e rischia di essere tutto consumato entro poco più di un secolo, a meno che mentalità, cultura e politica non cambino radicalmente. Che fare? Occorre mettere finalmente da parte il mito anacronistico, folle e rovinoso della crescita illimitata fatta solo di sprechi, e decidersi a considerare il territorio come il bene più prezioso perché scarso e limitato, quindi come bene collettivo da conservare gelosamente. Non si salva ciò che non si conosce: è urgente impegnarsi alla conoscenza scientifica del territorio e del suolo nei loro aspetti produttivi, fisici, geo-morfologici, ambientali, paesistici, naturalistici (uno studio del genere è stato fatto dal comune di Padova), e imparare a rispettarli.
Dobbiamo rovesciare il nostro modo di agire: non più urbanizzare alla cieca risparmiando eccezionalmente (quando pure a fatica ci si riesca) qualche area eminente, ma trattare tutto il territorio come un parco in linea di principio inedificabile, alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni eventuale intervento. Altrimenti assisteremo alla distruzione del nostro stesso spazio di vita, e a poco a poco la terra ci sarà strappata di sotto i piedi.
La degradazione delle città e del territorio può essere combattuta solo rifondando il piano, ciò che impone un radicale ripensamento nella sinistra. Alcune idee per il risanamento conservativo dei centri storici e per impedire l’ennesimo sacco di Roma
Gli anni Ottanta sono stati i peggiori per le nostre città, per il territorio e l’urbanistica in generale. Sono stati gli anni in cui si è smantellato quel tanto di strumentazione urbanistica che ci aveva dato il periodo della solidarietà nazionale (legge Bucalossi sul regime dei suoli, legge 457 sul piano decennale per la casa, equo canone): gli anni dell’abusivismo condonato, delle leggi per emergenze artificiose (mondiali di calcio) e per cementificare alla cieca le regioni colpite da calamità naturali, terremoti e alluvioni; gli anni della rinuncia a pianificare, della deregulation, dell’urbanistica «contrattata», quella cioè imposta dai privati ai comuni in nome della mappa catastale e della rendita fondiaria. Il caso più clamoroso è stato la variante Fiat-Fondiaria a Firenze, dove i due colossi pretendevano di costruire, a dispetto del piano regolatore, quattro milioni di metri cubi (tre volte la piramide di Cheope) nella piana a nord-ovest della città: operazione fortunatamente fallita per l’intervento della segreteria nazionale del Pci, con grave imbarazzo per la giunta comunale di sinistra che l’aveva approvata. Anni, infine, in cui è continuato il consumo del suolo e, nonostante l’arresto della crescita demografica, lo spreco edilizio, che ha ormai raggiunto dimensioni paradossali. Ci sono in Italia circa 100 milioni di stanze per 57 milioni di abitanti, per una media teorica di quasi 2 stanze per abitante, la più alta d’Europa: uno stock edilizio che si è triplicato nell’ultimo mezzo secolo (nel ‘36 le stanze erano 34 milioni per 42 milioni di abitanti). Solo che si è costruito per lo più l’inutile e il superfluo, seconde e terze case invece della prima per chi ne aveva bisogno: tra i censimenti del 1971 e del 1981 le stanze sono aumentate di 22 milioni mentre gli italiani sono aumentati solo di due (dal 1951 a oggi le seconde e terze case sono aumentate di sette volte, da 655 mila a 4 milioni e 750 mila). E questo, insieme al proliferare di strade e autostrade, zone industriali eccetera, ha contribuito in modo determinante a quell’altro fenomeno rovinoso che è lo spreco di territorio: nell’ultimo trentennio più di tre milioni di ettari (un decimo cioè dell’Italia) sono andati distrutti, da far temere che entro poche generazioni tutta l’Italia sarà consumata e finita, ricoperta da un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto.
Perché la degradazione di città e territorio non diventi irreversibile è dunque necessaria, in quest’ultimo decennio del secolo, un’autentica rifondazione della pianificazione: che metta fine alla crescita quantitativa e punti invece sulla riqualificazione-trasformazione delle città, sul ricupero-risanamento dei centri storici, sulla ristrutturazione delle periferie e sulla rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato (e tutto questo presuppone, da parte della sinistra, un radicale ripensamento delle proprie posizioni).
Anni di esperienze, riflessioni e studi ci hanno insegnato che i centri storici (forse 15 milioni di stanze) sono un patrimonio che va conservato nella sua integrità e nel suo assetto unitario, e che ogni intervento basato su giudizi discrezionali va bandito: “Uno dei presupposti della modernità è appunto quello di sapersi adeguare alle scelte urbanistiche e quindi di rinunciare, ove occorra, a costruire”, questo era scritto in un documento pubblicato sul primo numero del bollettino di Italia Nostra, dell’aprile 1957, a firma di una ventina di architetti (assai giovani allora), tra cui Leonardo Benevolo, Italo Insolera, Vittoria Calzolari, Carlo Melograni eccetera, che poi da illustri studiosi ed urbanisti si sarebbero sempre battuti per le giuste ragioni della pianificazione. L’unico trattamento legittimo per i centri storici è dunque il recupero, il restauro, il risanamento, basato sulla conoscenza scientifica delle antiche compagini edilizie.
Risanamento conservativo significa rigoroso rispetto del tessuto edilizio, mantenimento della residenza e delle attività tradizionali, allontanamento delle funzioni intollerabili. L’esempio nei primi anni Settanta fu Bologna (assessore Pier Luigi Cervellati), che nel 1974 ebbe il diploma del Consiglio d’Europa per il risanamento di alcuni complessi edilizi degradati usando i fondi di solito impiegati per la costruzione di quartieri-ghetto periferici: ma poi la stessa amministrazione rossa, spaventata dal dover attuare i necessari espropri, come racconta Vezio De Lucia nel suo lucido compendio del quarantennale fallimento urbanistico italiano (V. De Lucia, 1989), fece marcia indietro. E da allora quello che era il vero contributo italiano alla cultura urbanistica europea ha segnato il passo, anche se qualche altra operazione è stata poi avviata (centro storico di Taranto, inizio dopo decenni di contrasti del risanamento dei Sassi di Matera). Ma intanto a Napoli sono tornati alla carica gli sventratori di sempre: un progetto redatto dai costruttori prevede infatti di radere al suolo un terzo del centro storico (unico fatto positivo il piano particolareggiato del centro storico di Palermo redatto, per incarico della giunta “anomala” di Palermo, da Leonardo Benevolo, Pier Luigi Cervellati, Italo Insolera).
Risanare i centri storici significa rimuovere le cause della loro inabitabilità, soffocamento e congestione, mettendo fine alla terziarizzazione selvaggia che elimina le residenze e le sostituisce con uffici pubblici e privati. Per questo a Roma (dove gli abitanti del centro storico negli ultimi decenni sono stati ridotti da 420 mila a 130 mila), si impone la realizzazione del Sistema direzionale orientale – il famoso Sdo – quella complessa struttura viaria, edilizia e di servizi nel settore est, dove trasferire alcuni milioni di metri cubi di attività direzionali e terziarie, a cominciare dai ministeri: allo scopo di decongestionare il centro, nel quale ogni giorno entrano, per ragioni di lavoro, più persone di quante ancora ci abitano, e insieme arricchire di attività e quindi riqualificare la derelitta periferia.
Al recupero del centro storico deve accompagnarsi la ristrutturazione delle periferie, la trasformazione qualitativa di tutto quanto è stato edificato dal dopoguerra in poi, e che non ha il minimo interesse storico. L’intervento di ristrutturazione riguarderà quanto è stato edificato negli anni Cinquanta e Sessanta dall’edilizia legale di tipo speculativo col massimo sfruttamento dei suoli; l’edilizia economica e popolare costruita su aree pubbliche, dove verde e attrezzature sono rimaste in gran parte solo sulla carta; e nel Centro-Sud quanto è stato costruito dall’abusivismo (Roma in testa, con le sue ottanta borgate fuori legge e condonate). Essenziale, nelle periferie come nei centri storici, il rispetto rigoroso dei vuoti superstiti, e l’utilizzazione a fini pubblici degli impianti militari e industriali che non servono più e vengono dismessi. Terzo impegno della rinnovata politica di pianificazione dovrà essere l’arresto della crescita urbana indiscriminata, e la rigorosa salvaguardia del territorio non ancora urbanizzato: che corre il rischio di essere occupato e privatizzato da una disseminazione edilizia a bassa densità, trasformato in un sistema urbanizzato continuo, quello che viene detto “rur-urbanesimo”. A Roma negli ultimi vent’anni, oltre 20 mila ettari sono così andati perduti (circa 2-3 ettari al giorno), con l’irreparabile compromissione di territorio agricolo, oltre che di grande valore paesistico, storico, archeologico. Ora si tratta di creare sistemi e cinture di verde, indispensabili per impedire l’ulteriore soffocamento della città, per la salvaguardia dei valori culturali della campagna, per la pubblica ricreazione e quindi per la stessa salute pubblica: Roma è ancora ricca (ancora è l’avverbio su cui si regge la provvisoria topografia dell’Italia) di comprensori verdi che penetrano nelle maglie del costruito (campagne di Veio, Appia Antica, Litorale eccetera). Se venisse attuata la legge 431 del 1985, detta legge Galasso (unica legge di pianificazione in quarant’anni di Repubblica), potrebbe essere salvaguardata l’integrità fisica e l’identità culturale del nostro territorio.
Se questi sono, in breve, i criteri che dovrebbero ispirare nell’ultimo decennio del secolo la rinnovata urbanistica italiana, di tutt’altro genere è la strada su cui il nostro governo intende marciare: in direzione, ora e sempre, dell'ulteriore cementificazione delle città, dell’ulteriore violazione dei vincoli di piano regolatore, paesístici e culturali, della crescita insensata, della deroga da ogni principio ragionevole che assicuri un minimo di qualità abitativa. Il ministro dei Lavori pubblici Prandini ha presentato un disegno di legge che stanzia 8 mila miliardi per la costruzione di 53 mila alloggi nelle aree “ad alta tensione abítativa”: case nuove, dunque, e niente recupero né risanamento del patrimonio esistente degradato e sottoutilizzato, e niente riqualificazione, ma case nuove da immettere sul mercato in massima parte in vendita, quando l’Italia ha già la più alta percentuale di case in proprietà (oltre il 70 per cento rispetto alla media europea del 50 per cento).
Non pago di questo, il ministro ha presentato un altro provvedimento, uno schema dì disegno di legge, un “pacchetto” per 1’edilizia residenzìale ancora peggiore. Riduce gli spazi pubblici previsti dai piani regolatori, aumenta le cubature, “liberalizza” le destinazioni d’uso per cui ad esempio, senza bisogno di autorizzazioni o concessione, un convento può essere trasformato in albergo, un quartiere residenziale in un quartiere di uffici eccetera. Nelle zone vincolate, se le soprintendenze non si pronunciano entro quaranta giorni, il progetto è approvato (si sancisce così il deleterio principio del silenzio-assenso), e comunque ogni decisione finale è demandata al presidente della giunta regionale e al ministro dei Lavori pubblici. Si opera così (osserva Edoardo Salzano, presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica) il definitivo scardinamento della pianificazione: il potere passa dal pubblico al privato e si riporta in onore l’urbanistica “contrattata”.
Altro siluro contro le città italiane è il disegno di legge n. 1897 del governo che prevede l’alienazione, ossia la svendita al miglior offerente, delle proprietà demaniali dello Stato. Può anche darsi che, quando questo articolo sarà pubblicato, questo insano provvedimento, collegato alla legge finanziaria, sia stato accantonato, viste le proteste che ha suscitato. Ma, in fatto di provvedimenti che riguardano il territorio, quel che conta sono le intenzioni, e ad esse va fatto il processo: perché sono l’espressione di propensioni viziose ben radicate, pronte a rifarsi vive alla prossima occasione.
Questo disegno di legge dice che tutto il demanio e il patrimonio pubblico può essere alienato, ad eccezione (meno male) del demanio idrico (lido e spiaggia, rade e porti, laghi, fiumi e torrenti): per il resto, lo Stato è autorizzato a dìsfarsì di terreni e immobili, foreste demaniali, miniere e cave, beni del demanio militare, immobili destinati a pubblico servizio, e persino (poiché non è detto niente in contrario) dei beni culturali: se non del Colosseo o della Torre di Pisa, certo di ampie porzioni di musei e collezioni archeologiche, come da anni vanno proponendo le teste fine che giudicano esorbitante il patrimonio storico-artistico che la storia ha avuto il torto di lasciarci in eredità.
Una commissione istituita dal governo Craxi nel 1984 ha perfino calcolato quanto renderebbe allo Stato la svendita di quelli che con allegra metafora vengono chiamati “i gioielli di famiglia”. Comprendendo tutto, beni di Stato, comuni e regioni, l’introito sarebbe di 600 mila-2 milioni di miliardi, coi quali ridurre il debito pubblico. La mala intenzione è ricorrente: nel 1972 un altro governo Andreotti (ministro del Tesoro era Malagodi) propose di mettere all’asta 351 immobili del demanio militare, e poi sono seguite altre proposte di legge, anch’esse felicemente naufragate. Oggi il governo ci riprova, sempre in vista dell’ulteriore cementificazione e soffocamento delle città.
I primi ad essere sacrificati alla speculazione sarebbero gli immobili militari (circa 4 mila ettari), caserme, vecchi aeroporti, batterie, forti, magazzini, depositi, poligoni di tiro, terreni eccetera: immobili che spesso (come i forti e le batterie costiere) sorgono in zone di grande valore paesistico, oppure, come le caserme, sono situati nei centri urbani, il tutto finora scampato alla distruzione-ricostruzione speculativa proprio in virtù della loro appartenenza al demanio. Ebbene, sono proprio questi immobili che, quando vengono dismessi, non devono essere alienati, ma ceduti ai poteri locali per essere destinati a usi di esclusivo interesse pubblico.
Un’analoga destinazione va riservata agli impianti industriali che vengono abbandonati, che vanno strappati ai privati che vorrebbero trarne il massimo profitto utilizzandoli per destinazioni lucrose: si tratta di milioni e milioni di metri quadrati (3 milioni a Genova, 3,3 a Torino, 700 mila a La Spezia, 4 milioni a Milano, pari a 170 piazze del Duomo). Le nostre città congestionate hanno un disperato bisogno di spazi pubblici, quindi gli impianti militari e industriali devono essere trasformati in centri sociali e culturali, piazze, attrezzature, servizi collettivi, giardini, scuole, musei e via dicendo, e così gli spazi ancora esistenti. Perché la difesa dei vuoti, delle pause urbane, l’utilizzazione nell’interesse generale di quanto non serve più agli scopi per cui fu costruito dev’essere l’impegno di fondo di una pianificazione urbanistica che renda meno invivibili le nostre città.
Perché l’urbanistica possa essere rifondata nell’interesse generale, una cosa soprattutto è necessaria: che finalmente sia varata la legge sul regime dei suoli e degli immobili di cui l’Italia, unico paese in Europa, è ancora vergognosamente priva; la legge che consenta ai comuni di espropriare, senza svenarsi, terreni e immobili per fini di pubblica utilità. Ne siamo ancora privi per l'opposizione delle forze politiche reazionarie, per un esasperato culto della proprietà privata di cui si è fatta interprete anche la Corte costituzionale, che ha così contribuito in modo decisivo all'affondamento della pianificazione. “Un giorno maledirete la Corte costituzionale”, esclamò una volta (sarebbe bene sapere quando e dove) Francesco Saverio Nitti.
Delle sue numerose, micidiali sentenze ricordiamo la n. 55 del 1968, che ha definito illegittimi i vincoli espropriativi a tempo indeterminato(facendo quindi un passo indietro rispetto alla legge urbanistica fascista del 1942), e ha sostenuto che il diritto di edificare è “connaturale”, ovvero insito, inerente, connaturato col diritto di proprietà (come se la terra, fu osservato, producesse “naturalmente” cemento armato, oltre a ortaggi e piante); la sentenza n. 5 del 1980, che negava che la legge Bucalossi del 1977 avesse separato (com’era giusto) il diritto di proprietà dal diritto di edificare, e considerava illegittimo il criterio dell’esproprio che quella legge aveva basato sul prezzo agricolo aumentato di determinati coefficienti; la sentenza n. 223 del 1983, la quale annullava un’altra legge varata nel frattempo dal parlamento, che dava ai proprietari espropriati un acconto da assoggettare in seguito a conguaglio. Il risultato è che oggi tutti i vincoli espropriativi di destinazione pubblica sono decaduti, e le aree destinate a esproprio dai piani regolatori sono relegate in una specie di limbo, da considerarsi prive di qualunque destinazione urbanistica. Di qui la completa paralisi dei comuni e un inestricabile contenzioso che si risolve di regola a vantaggio dei privati. Va ricordato il caso di Modena, che aveva pagato un esproprio 90 milioni e, dopo anni di contenzioso, ha dovuto liquidare, per scandalosa sentenza della Cassazione, un prezzo quattordici volte superiore a quello richiesto dall’espropriato.
Il nostro paese non è dunque in grado di praticare la via maestra dell'urbanistica moderna, quella politica fondiaria che consiste nell’acquisizione pubblica preventiva dei terreni da destinare sia ai nuovi insediamenti sia alla realizzazione di parchi, e degli immobili da destinare ad attrezzature e usi pubblici: ponendosi così fuori del consorzio civile. La politica fondiaria è infatti pratica costante di ogni altra nazione avanzata. La Gran Bretagna nel ‘46, subito all’indomani della guerra, demanializzò oltre centomila ettari per la costruzione di una trentina di new towns, e quella che allora venne giudicata una socialist madnessè oggi una splendida realtà (due milioni di abitanti insediati, 400 mila alloggi costruiti, 3.500 industrie, 700 scuole). Il costo dei terreni (un sesto dell'investimento pubblico globale), nonostante inflazione eccetera, è stato mediamente di 2-300 lire al metro quadrato. I fondi prestati dallo Stato sono stati tutti rimborsati, le nuove città si sono autofinanziate, il loro bilancio è in pareggio.
In Olanda, Rotterdam rinasce dalle ceneri della guerra grazie agli espropri decisi dai suoi amministratori riuniti nelle cantine mentre cadono le bombe tedesche. Sono demaniali le terre prosciugate dell’ex Zuidersee, ad Amsterdam l’ottanta per cento del territorio comunale è demanio pubblico, in parte concesso in diritto di superficie ai costruttori, in parte trasformato in parco. L’esproprio avviene a valore di mercato, ma agricolo.
Stupefacente il caso della Svezia: a Stoccolma (che è grande come Milano, 18.000 ettari) oltre diecimila ettari sono di proprietà comunale. La lungimiranza è stata tale che si è man mano provveduto all’acquisizione di estensioni di terreno nei comuni vicini, così che oggi Stoccolma possiede un demanio di 55 mila ettari: il prezzo di acquisizione è stato mediamente di poche centinaia di lire al metro quadrato. E la politica fondiaria cominciò nel 1904 quando la maggioranza al comune era dei conservatori (!).
L’esempio più recente è la Francia dove, nel quarto di secolo tra de Gaulle e Mitterrand, sono stati espropriati o acquisiti 30 mila ettari, di cui 20 mila nella regione di Parigi (a un costo medio di cinque-dieci franchi il metro quadrato), dove sono state costruite cinque villes nouvelles, grazie a un ammirevole meccanismo amministrativo. Protagonisti gli Etablissements publiques d’aménagement (Epa), composti pariteticamente di rappresentanti dello Stato e dei comuni, che hanno provveduto all’urbanizzazione dei terreni e alla dotazione dei servizi essenziali: e hanno poi riceduto i terreni così urbanizzati agli operatori a prezzi maggiorati delle spese sostenute, e differenziati a seconda delle destinazioni urbanistiche. Così, il plusvalore creato dagli investimenti pubblici torna alle casse pubbliche anziché, come da noi, finire nelle tasche dei privati. E sono città completamente funzionanti (già costruiti 200 mila alloggi, aree industriali per 1.800 ettari, 170 mila i posti di lavoro): superfluo, qui, come negli esempi inglesi, olandesi, scandinavi, dilungarsi sull’eccelsa qualità urbanistica e ambientale (aree pedonali, dotazione di centri culturali, biblioteche, teatri all’aperto, impianti sportivi, parchi e verde in generale eccetera). La proprietà pubblica del suolo ha consentito una pianificazione ispirata finalmente ed esclusivamente alla cultura urbanistica e quindi all'interesse pubblico. E se errori sono stati fatti saranno quelli inseparabili dall’agire umano, non certo quelli imposti dalla taglia della rendita fondiaria. Qualcosa va pur detto, anche sommariamente, sull’aspetto che più colpisce chi visita queste realizzazioni straniere, la dotazione, la qualità, la distribuzione del verde pubblico e poi fa un confronto con i quartieri costruiti nelle nostre città, che sono, come è noto, le più povere di verde pubblico d’Europa. Nonostante i servizi giardini calcolino anche le aiole spartitraffico, Roma e Milano non superano, ad essere generosi, i 5-6 metri quadrati per abitante, con Palermo e Napoli si precipita a 1-2: mentre, ad esempio, Monaco di Baviera supera i 40, Amsterdam i 50, Stoccolma i 100. Ma quel che più conta è che il verde a Roma, essendo composto in buona parte da ville storiche, decresce man mano che si procede verso la periferia, costruita negli ultimi decenni con particolare sadismo urbanistico, dove il verde pubblico pro capiteassume spesso le dimensioni di una foglia d’insalata o di prezzemolo: al contrario di quanto succede ad Amsterdam o a Stoccolma o dovunque gli sviluppi urbani sono stati preceduti dall’acquisizione pubblica del suolo.
A Roma, non un solo metro quadrato di campagna dell’Appia Antica è stato ancora espropriato, nonostante che per 2.500 ettari sia vincolato da un quarto di secolo a verde pubblico (quanto alle aree archeologiche del resto d'Italia, solo un terzo dell’antica Paestum è demaniale, mentre l’abusivismo invade la Valle dei Templi di Agrigento). E nei quartieri romani di edilizia popolare, pur costruiti su terreno pubblico, gli spazi destinati a verde superano gli 800 ettari, ma solo un decimo è sistemato dal comune, il resto è sterpaglia abbandonata: a dimostrazione dell’inettitudine, dell’incapacità, da noi, anche semplicemente di gestire l’ordinario.
Ma a Roma capita anche dell’altro, che cioè un privato si comperi pezzi di parco pubblico. È successo con Villa Ada ex Savoia, lo splendido parco di 150 ettari di cui solo una parte (64 ettari) sono passati allo Stato e quindi al comune: il resto è andato agli eredi di Vittorio Emanuele III, che due anni fa l'hanno venduto a un intraprendente imprenditore, per quanto Villa Ada sia vincolata a parco fin dal piano regolatore del 1962. Chi si compra per svariati miliardi un pezzo di parco pubblico, non lo fa certo per destinarlo alla ricreazione all'aria aperta di bambini, ragazzi e anziani: lo fa sperando in qualche variante di piano a proprio favore o per ottenere dal comune lucrose contropartite, sempre in danno dell’interesse generale. E per quel che riguarda i beni culturali è pure capitato che un privato, Alessandro Torlonia, abbia trasformato in novantatre miniappartamenti le settantasette sale del museo che i suoi avi avevano costruito un secolo fa, accatastando 600 sculture greche e romane, ossia la più importante collezione privata d'arte antica del mondo, negli scantinati, come rifiuti di magazzino (e amnistia e prescrizione lo hanno benignamente mandato assolto).
Questi i misteri, gli scandali di Roma. Eppure, un apporto decisivo alla sua riqualificazione può venire proprio dalla valorizzazione del suo più illustre patrimonio storico e paesistico. Una proposta di legge (n. 3858) della Sinistra indipendente prevede la realizzazione del parco storico-archeologico dei Fori Imperiali e dell’Appia Antica: smantellamento graduale dell’ex via dell'Impero per riportare integralmente in luce le antiche piazze di Cesare, Traiano, Augusto, Nerva (ricavando così il maggior vantaggio possibile dagli sciagurati sventramenti degli anni Trenta) e quindi creazione di un parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano; riassetto ambientale e pedonalizzazione di gran parte della zona prestigiosa tra il Colosseo e le Mura (Celio, Circo Massimo, Terme di Caracalla eccetera, zona salvata con l’esproprio di una quarantina di ettari dall'Italia giolittiana); fino alla realizzazione extra moenia del gran parco della campagna romana lungo la via Appia Antica. Questa la grande prospettiva urbanistica per il Duemila: il patrimonio storico, culturale, paesistico, che diventa la struttura portante (complementare allo Sdo) della nuova Roma, da piazza Venezia ai piedi dei Castelli. Il progetto è stato commissionato a un’équipe di esperti coordinata da Leonardo Benevolo dalla Soprintendenza archeologica di Roma, ed è stato pubblicato (cfr. L. Benevolo e F. Scoppola, a cura di, 1988).
Sia per le aree del Sistema direzionale orientale che per una buona parte del parco dell’Appia Antica si impone ovviamente l’esproprio (e testi di legge sul regime dei suoli e l’indennità di espropriazione sono stati predisposti dal governo e dal Senato), cioè quella politica fondiaria che è stata finora ignorata. Ignorata a tal punto che solo ora, grazie a un’accurata indagine di tre giovani architetti, conosciamo chi sono i proprietari del più grande comune d'Italia (R. Persieri, G. De Vito, G. L. Goletta, 1989). Due o tre cifre sono sufficienti: dei 120 mila ettari esaminati, circa 93 mila sono di proprietà privata, persone fisiche e giuridiche, e di questi 63 mila sono in mano al 2,9 per cento dei proprietari; mentre il comune possiede solo 4 mila ettari. Un abisso dunque ci separa dai paesi stranieri che abbiamo citato. E quel che è peggio, da qualche anno i terreni e gli immobili di Roma sono oggetto di uno spietato accaparramento da parte dei più noti speculatori d’Italia e dei più grossi gruppi finanziari pubblici e privati, coi prezzi che vanno alle stelle (l’Italstat si è comprata terreni della periferia sud-orientale a circa 200 mila lire il metro quadrato!). Se le cose non cambiano radicalmente, e tutto sta a dimostrare che non cambieranno, un nuovo Sacco è in vista, e sulla Roma del Duemila cala la tela.
OPERE CITATE:
L. Benevolo e F. Scoppola (a cura di), (1988), Roma, l’area archeologica centrale e la città moderna, Roma: De Luca.
V. De Lucia, (1989), Se questa è una città, Roma, Editori Riuniti.
R. Persieri, G. De Vito, G. L. Coletta, (1989), La proprietaria fondiaria a Roma, “Urbanistica informazioni”, n. 106.
Tra i maggiori fenomeni che si vanno affermando, possiamo indicare i seguenti. L'enorme aumento della motorizzazione privata che, mentre crea una mobilità sconosciuta in passato, fa sorgere complessi problemi nelle aree urbane, dall'intasamento del traffico all'inquinamento, ed esige programmi ad ampio respiro. La creazione di grandi infrastrutture (superstrade, autostrade, eccetera), mentre accorcia le distanze, rende raggiungibile e quindi anche tendenzialmente edificabile ogni angolo del paese, creando nuovi problemi economici, sociali, urbanistici. Le migrazioni interne portano all'abbandono delle campagne e aggravano la situazione delle città che, in mancanza di adeguati controlli urbanistici, si dilatano confusamente ad abbracciare grandi "aree metropolitane", congestionate e insufficientemente dotate di servizi.
La ripresa economica porta alla realizzazione di impianti industriali, la cui localizzazione deve essere accuratamente programmata per evitare i peggiori effetti negativi, dall'inquinamento dell'aria e dell'acqua alla distruzione delle risorse naturali. La riduzione degli orari di lavoro, l'aumentato benessere, la disponibilità del mezzo privato consentono a masse sempre più numerose l'impiego del tempo libero, portando allo sfruttamento turistico delle zone più interessanti dal lato paesistico e naturale: le coste dei mari e dei laghi, colline, foreste e montagne vengono investite dall'edilizia; col pericolo che venga distrutta proprio la materia prima del turismo, cioè l'integrità del paesaggio, il prestigio della natura, il verde, la purezza dell'aria e dell'acqua.
Sono alcuni aspetti, coi loro vantaggi e i loro rischi, della seconda rivoluzione industriale. Termina il ciclo della città tradizionale, statica e chiusa: e l'occasione per il sorgere della città contemporanea, dinamica e aperta sulla natura circostante, il cui elemento essenziale è la mobilità. Vengono meno alcuni dei vincoli che hanno condizionato la città della prima rivoluzione industriale (con conseguente concentrazione delle industrie presso le fonti di energia, sviluppo indifferenziato lungo le principali arterie destinate al trasporto dei prodotti, loro saldatura in interminabili suburbi, crescita abnorme, eccetera): ha inizio una fase nuova e diversa, caratterizzata dalla libertà geografica degli insediamenti, dalla dispersione territoriale delle fonti di energia e della rete dei trasporti, da una più facile e rapida distribuzione dei prodotti, dall'attenuazione dei contrasti tra città e campagna, grazie alla disponibilità sempre più ramificata dell'energia e alla diffusione della motorizzazione e delle telecomunicazioni.
All'età precedente, di concentrazione e congestione, subentra l'età che può essere del decentramento e della decongestione: l'urbanistica cambia di scala, acquista la sua dimensione moderna, estesa a tutto il territorio. Essa si presenta necessariamente come il risultato di una programmazione economica che coordini tutti gli interventi, per garantire un massimo di benefici e un minimo di errori e di costi sociali. Due soprattutto sono i pericoli opposti da evitare: l'elefantiasi, il crescere incontrollato e continuo dei maggiori agglomerati urbani e, dall'altro lato, soprattutto nelle zone turistiche, l'indiscriminata disseminazione edilizia, che porta alla privatizzazione del suolo; alla costosa moltiplicazione di strade e servizi, col pericolo di ricoprire l'Italia di una coltre uniforme di cemento e di asfalto, cancellandone la fisionomia. Si tratta dunque, nel quadro di una pianificazione generale, di garantire l'equilibrata utilizzazione, cioè il miglior uso possibile di quella risorsa preziosa, limitata e non recuperabile che è il territorio, identificando quella che vien detta la "vocazione" delle sue varie zone, al fine di evitare il disordine, la degradazione, il caos: evitare ad esempio, come poi è abbondantemente capitato, di costruire impianti industriali sopra aree archeologiche, di inquinare irrimediabilmente spiagge e mare costruendo raffinerie sulle coste, di lottizzare pinete e persino parchi nazionali (e tutte quelle altre aree che devono invece servire alla ricreazione e alla cultura, in un ambiente naturale intatto), di "bonificare" ovvero trasformare insensatamente in campi di grano le superstiti paludi, essenziali valvole di sfogo per i corsi d'acqua, garanzia contro alluvioni ed altri disastri di cui il nostro paese è vittima a intervalli regolari.
Per raggiungere l'obbiettivo e ridurre al minimo gli errori occorreva dunque anche in Italia considerate e praticare più urbanistica come espressione di scelte civili e progredite. Scelte politiche, intese a riformare il nostro arcaico ordinamento, giuridico e combattere la rendita fondiaria; scelte economiche, e sociali, intese ad assicurare operazioni vantaggiose alla comunità e ad esaltare la qualità degli insediamenti; scelte culturali, perchè venissero risparmiati e riqualificati i valori della storia, del paesaggio, della natura. Ma è proprio questo che non si è voluto fare.
L'occasione migliore per riflettere su un periodo di storia patria che ha portato alla degradazione fisica, culturale e ambientale del nostro paese, ci è stata offerta dal settimo congresso nazionale di "Italia Nostra" che si chiude oggi a Torino, nel trentennale della sua fondazione: l'associazione che è stata per anni l'unico baluardo contro la speculazione e l'insipienza pubblica e privata, e che fu fondata il 29 ottobre del 1955 da Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Giorgio Bassani, Luigi Magnani, Pietro Paolo Trompeo, Hubert Howard, Desideria Pasolini. Erano gli anni di furente "ricostruzione" poi seguita dal cosiddetto "miracolo economico" che avrebbe travolto sotto un'urbanizzazione selvaggia quel "patrimonio storico, artistico e naturale della nazione", a tutela del quale Italia Nostra era nata, dopo che sul "Mondo" di Mario Pannunzio, erano apparse le prime isolate denunce. In quel tempo le cento città d' Italia venivano sottoposte a uno stillicidio di demolizioni-ricostruzioni, che rischiavano di disintegrare i centri storici. Le idee di Italia Nostra furono subito chiare. Sul primo numero del bollettino (oggi arrivato al numero 234) fu pubblicato un documento firmato da una ventina di (allora giovani) architetti in cui si affermava che "l'architettura moderna deve adeguarsi alle scelte urbanistiche" le quali "impongono la conservazione dei centri storici e la rinuncia a costruire in essi". Si ponevano così le basi per quella politica di recupero e risanamento conservativo del patrimonio edilizio antico che, almeno in linea di principio, si può considerare ormai acquisita, salvo periodici ritorni di fiamma di qualche architetto o amministratore sbandato. Contemporaneamente, la crescita edilizia indiscriminata distruggeva il verde di città e campagne: caso insigne l'assalto cui veniva sottoposta la campagna dell' Appia Antica. Si deve all'assidua, martellante azione di Italia Nostra se nel '65, il ministro dei lavori pubblici Giacomo Mancini, approvando il piano regolatore di Roma, vincolava finalmente quegli storici duemilacinquecento ettari a parco pubblico (che l'Spqr non abbia ancora espropriato un metro quadrato è un altro discorso). Man mano l'impegno dell'associazione si allargava all' intero territorio. Del '64 sono gli studi sulla tutela dei litorali (Gallura, Gargano, Taranto, Roma-Gaeta), del '66 le prime proposte legislative per l'istituzione e gestione di parchi nazionali e aree protette, e poi per la salvaguardia delle zone umide contro le nefaste "bonifiche", per l'istituzione dei parchi marini (previsti, almeno sulla carta, nella recente legge per la difesa del mare); e contro la mania dei porti turistici che cementificano le superstiti insenature della penisola. Quali i successi ottenuti? Semplificando a memoria, possiamo ricordare, a Roma, la conquista del parco di Villa Pamphili e la bocciatura della lottizzazione dei mille ettari di Capocotta (che un recente disegno di legge espropria per annetterla alla dotazione della presidenza della Repubblica); a Milano, la sospensione dello sventramento del centro storico; a Venezia l'abolizione delle micidiali strade translagunari; le drastiche modifiche del piano regolatore di Napoli per il centro storico, le zone verdi, lo spostamento delle industrie inquinanti; il ridimensionamento delle folli previsioni edilizie dell' Aga Khan sulla Costa Smeralda, eccetera. Quanto agli ambienti naturali è probabile che se non ci fosse stata Italia Nostra, centro e periferia (le sezioni locali sono più di centocinquanta), non sarebbero state bloccate le lottizzazioni del parco d'Abruzzo, il parco S. Rossore-Migliarino sarebbe stato lottizzato, quello della Maremma non ci sarebbe ancora: e non si parlerebbe di parco del Delta del Po, oggetto di studi approfonditi (e timidamente avviato in provincia di Ferrara). Incessante è stata l'azione dell'associazione sul fronte del patrimonio storico-artistico. Risalgono agli anni sessanta le proposte per la nuova legge di tutela; sono seguiti i saggi sulla disciplina dei beni ecclesiastici, sul restauro architettonico e urbanistico, le proposte per le agevolazioni fiscali ai privati meritevoli: memorabili le battaglie contro la devastazione dei Campi Flegrei (è stata salvata la Via Campana antica, che avrebbe dovuto diventare un diverticolo autostradale), le azioni per Agrigento e Selinunte, per il centro storico di Palermo. Determinanti sono stati gli interventi, a Roma, per l'acquisizione da parte dello Stato del complesso del San Michele: mentre proseguirà l'azione per il parco dei Fori Imperiali. E si deve all' associazione lo studio e il progetto di massima per il restauro dell'imponente cinta muraria di Ferrara. Convegni, tavole rotonde, seminari, corsi residenziali, quaderni, memoriali, numeri speciali del bollettino: l' enorme massa di documenti di Italia Nostra costituisce l'archivio dell' Italia distrutta, minacciata, da salvare, salvata. Non c'è argomento sul quale i governi non vengano incalzati (spesso in stretta collaborazione con le altre più giovani associazioni, Wwf e Lega Ambiente): dall'abusivismo alla difesa del suolo, dalla piaga delle cave che triturano l' Italia (ma il colossale cementificio di Acquasparta è stato sventato) al regime dei suoli, ai problemi dell'energia (risparmio e uso delle fonti rinnovabili). Decisiva l'azione a sostegno del decreto, poi legge, Galasso. Ma, nonostante una sempre più diffusa coscienza ambientale, si assiste oggi in Italia a una nuova, massiccia violenza contro il territorio. Si vogliono stanziare decine di migliaia di miliardi per nuove autostrade, si invocano nuovi grandi porti turistici, i piani edilizi sono sovradimensionati senza rapporto coi reali fabbisogni: e questo nel Paese dello spreco, che vanta una trentina di milioni di stanze in più degli abitanti e un chilometro e mezzo di strade ogni chilometro quadrato, e consuma 150.000 ettari di terreno agricolo all'anno. Occorre convincersi che il territorio è una risorsa scarsa e irriproducibile, ha detto il presidente di Italia Nostra Giorgio Luciani, e che ogni sforzo va fatto per subordinare ogni ipotesi di "sviluppo" alla rigorosa salvaguardia delle aree verdi, ambientali, naturali, agricole, che devono diventare i capisaldi irrinunciabili della pianificazione. Cemento e asfalto sono palliativi per la stessa occupazione: la quale può trovare impieghi duraturi in interventi di tutt'altro genere, quali il risanamento del suolo, il rimboschimento, la gestione delle aree protette, il restauro dell'edilizia antica. Questa è l'unica prospettiva realistica per l' avvenire.
Un passo avanti e due indietro, questo l’andamento della politica italiana, già tanto precaria, in materia di tutela paesistica e territoriale. Non avevamo fatto in tempo a rallegrarci per la legge urbanistica approvata ai primi d’aprile dal consiglio regionale sardo, ed ecco che sabato scorso il Consiglio dei ministri la boccia con motivazioni inconsistenti e la restituisce al mittente: a una regione che finalmente e dopo gravi ritardi predispone efficaci misure contro il dilagare del cemento, lo Stato risponde con cavilli cedendo, è ovvio supporre, alle pressioni delle forze che traggono le loro fortune dal saccheggio di quella risorsa scarsa e irriproducibile che è il territorio. La legge sarda bloccava infatti l’assalto edilizio alle coste: in sostanza, e per semplificare, prescriveva la loro inedificabilità temporanea (per due anni), in attesa della predisposizione dei piani paesistici. Una prescrizione del tutto ragionevole e da gran tempo auspicata, se appena consideriamo lo stato di fatto e di progetto. Pensiamo che 20 milioni di metri cubi sono già stati costruiti, e altri 50 circa sono previsti dagli sgangherati strumenti urbanistici dei sessantotto comuni costieri: se questa folle previsione venisse realizzata, i 1.569 chilometri delle coste sarde verrebbero sommersi, devastati, privatizzati, sconciati, distrutti sotto un ininterrotto tavoliere di cemento e asfalto, per ospitare oltre un milione e mezzo di turisti, (in pratica raddoppiando in un sol colpo la popolazione dell’isola). Con la legge che blocca l’edificabilità per due anni la Regione Sardegna ha voluto sventare questa autentica soluzione finale delle più belle coste del Mediterraneo, prendere il tempo necessario a riesaminare piani, lottizzazioni e convenzioni per sottoporli a elementari principi di pianificazione: insomma, opporsi al dilagare dell’urbanizzazione selvaggia dettata solo dal capriccio della speculazione e disastrosa, oltre che per territorio ambiente paesaggio, anche per l’economia in generale, perché fatta per tre quarti di seconde case, perché crea pochissimi posti di lavoro (un addetto ogni quaranta posti letto) e perché scarica sulla collettività i costi di servizi e infrastrutture. Bocciando la legge, il governo torna a rendere possibile quella sinistra prospettiva. E lo fa con proterva insipienza, come ha osservato il presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Edoardo Salzano: infatti, quello che più colpisce è l’improprietà delle motivazioni addotte. Dice il governo che la legge sarda è in contrasto con l’ordinamento giuridico dello Stato, in particolare con gli articoli 41 e 42 della Costituzione. Sono gli articoli che regolano i modi di acquisto e di godimento e i limiti eccetera della proprietà privata: e quindi non hanno nulla a che fare con la legge in questione, la quale, anziché in contrasto con l'ordinamento giuridico dello Stato, non fa che attuare una legge dello Stato, in vigore da quattro anni, la legge Galasso. Una legge che ha vincolato intere categorie di beni territoriali (parchi, foreste, montagne, coste di mare fiumi laghi) in quanto irrinunciabile patrimonio di bellezze naturali; e ha sottoposto vasti territori a inedificabilità temporanea, in attesa dei piani paesistici regionali (che poi ben poche regioni, in testa l’Emilia-Romagna, abbiano provveduto, è un altro discorso). Non solo: la legge regionale sarda è perfettamente conforme a una famosa sentenza della Corte Costituzionale, la n. 56 del 1968, che ha sancito la piena validità dei vincoli ambientali in quanto tutelano territori che sono di per sé, originariamente, di interesse pubblico; e ha affermato a tutte lettere che la pubblica amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare, e in tal caso non comprime alcun diritto sull’area, perché quel diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive. Un principio che è stato ribadito in un’altra sentenza di tre anni fa, quando la Corte ha affermato che l’attività urbanistica deve essere piegata a realizzare il valore estetico-culturale del paesaggio, la cui tutela è uno dei principi fondamentali della Costituzione (articolo 9): perché il paesaggio costituisce un interesse primario e prioritario al quale vanno subordinati tutti gli altri interessi, compresi quelli economici. Tutto ciò viene negato dal governo, che dopo essere stato per anni incapace di esercitare le sue funzioni di indirizzo e coordinamento in materia di assetto del territorio, mette ora i bastoni tra le ruote di una regione che ha fatto una buona legge. E la Sardegna resta senza legge urbanistica, il tempo dei piani paesistici si allontana (intanto sarebbe bene che la regione rinunciasse a iniziative deleterie, come il porto turistico a San Teodoro e ai campi da golf che spianano la macchia mediterranea). Si vede che a Roma si sono rifatte vive le forze economiche che in consiglio regionale erano state battute (contro la legge avevano votato democristiani, missini e qualche cane sciolto franco tiratore): adesso torneranno alla carica le immobiliari, il Consorzio Costa Smeralda tornerà a pretendere qualche milione di metri cubi in più in comune di Arzachena, e così pure farà la Fininvest per il villaggio Costa Turchese a Olbia (un investimento di mille miliardi) con tanto di premi di cubatura. E di com'erano le coste sarde ci resteranno solo le vecchie cartoline.
C*** non è Troia: se Schliemann poté buttare addosso a sua moglie i gioielli di Elena, qui bisogna accontentarsi, dopo una giornata di scavo, di una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, e di un paio di braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nel secolo di Pirro e di Annibale.
Il melo accanto al quale, appena scesi dal treno, cominciammo a scavare, aveva superato i cinquant'anni e doveva la sua vita a un fatto inconsueto: proprio nel punto dove ora affondavano le sue radici screpolate, il proprietario del terreno aveva scoperto per caso durante certi lavori agricoli, sul finire del secolo scorso, un buon numero di teste stravaganti, e forse molto antiche, di terracotta che lo avevano lasciato interdetto e sorpreso; infine aveva deciso, con notevole senso di equità, di tenersene alcune, di regalarne altre agli amici e di vendere il resto allo Stato. Queste ultime, come capitava e capita spesso, furono di nuovo seppellite e dimenticate nei sotterranei di qualche museo; le prime invece, diventate presto un ottimo bersaglio per sassate e tiri a segno, sempre meno rispettate col passare degli anni, relegate nelle soffitte, nelle stalle e nei granai, scomparvero definitivamente dalla circolazione con l'ultima guerra, che ha distrutto tutto quanto poteva del paese di C***. Restava soltanto il melo, che il vecchio contadino con molta accortezza aveva voluto piantare a ricordo della sua fortunata scoperta.
Il primo sentimento che si prova, quando si comincia a scavare, è molto vicino alla vergogna. Per un paio d'ore i quattro operai ebbero da fare col prato: il piccone dava un suono sordo, le zolle d'erba rotolavano via molli, districandosi a stento, e non si vedevano che vermi. Faceva male pensare che quella terra dove per tanti secoli si era onestamente arato, zappato e falciato, venisse ora sconvolta per uno scopo tanto diverso e di esito così incerto, come era la nostra pretesa che essa producesse, oltre al grano, alle fave e alle patate, qualche testimonianza della civiltà degli Equi dopo la conquista romana. I movimenti degli operai sembravano goffi, quasi una caricatura del normale lavoro dei campi, la loro fatica eccessiva e assurda come la nostra impresa archeologica: per buona fortuna nessuna curiosità mostravano i carrettieri seduti sui loro carri di letame, mentre sulla strada provinciale salivano verso il paese (ne vedevamo solo le teste, sul pelo del prato), né gli scarsi passeggeri ai finestrini dei treni quando, ogni due ore, al di là della rete metallica, ci passavano accanto. Qua e là nell'erba qualche bossolo di mitragliatrice: a valle, oltre il cimitero con la sua chiesa romanica sconsacrata, scorreva in silenzio un magro torrente nel suo letto troppo ampio.
Ma viene sempre il momento che il terreno fertile finisce e la musica cambia; la punta del piccone diede a un tratto un suono più nitido e il lavoro divenne più risoluto: a sessanta centimetri di profondità era comparsa una fascia di argilla molto chiara, dura e compressa e gli operai cominciarono a sudare, a rizzarsi spesso sulle reni, a bere l'acqua dalla bottiglia e a parlare. Uno di essi si mise a rievocare, come un paradiso perduto, gli anni di prigionia in Inghilterra, quando si rifiutava di lavorare, quando faceva a pugni con i sorveglianti, quando godeva della compiacenza delle donne e approfittava della loro delicatezza, per cui «ci mettevano in tasca tre scellini, prima di entrare al cinema, perché fossimo noi a pagare anche per loro». Intanto, ai lati della fossa ormai ampia e regolare e profonda più di un metro, i mucchi della terra buttata andavano acquistando proporzioni rassicuranti.
La prima giornata di lavoro era vicino alla fine e non restava che rimandare all'indomani la voglia di sapere cosa c'era sotto a quell'argilla così dura e compressa, e noi stavamo guardando accendersi le prime luci nelle case raggrumate in cima ai colli più lontani già abbandonati dal sole, quando l'ex-prigioniero degli inglesi si mise ad urlare: «è maschio, è maschio», e intanto brandiva in alto con la mano sinistra qualcosa di molto piccolo: un giovinetto di bronzo, nudo, alto dieci centimetri, liscio e lucente, con un braccio alzato come per arringare la folla e imporle di tacere. Quel grido ne aveva salutato la rinascita al mondo dopo due dozzine di secoli: insieme, una moneta romana del terzo secolo a.C., con il pingue profilo di Mercurio sul dritto e una prua di nave sul rovescio, era un indizio molto eloquente di storia politica e militare. Ormai sotto l'argilla chiara, alla profondità di un metro e mezzo, era affiorato lo strato antico, fatto di terriccio scuro e friabile misto a detriti di carbone, ossa di animali, frammenti di terracotta e pezzetti di ceramica nera: sotto ad esso si sarebbe trovato, in seguito, il terreno vergine, bello e compatto. I quattro strati (terreno fertile, argilla sterile, strato antico, terreno vergine) si sovrapponevano nell'ordine con regolarità elementare.
Lo strato antico, trovato nel campo di C***, giace a un metro e mezzo o due di profondità e si estende per parecchie decine di metri quadrati come una grossa coltre, regolare nello spessore (trenta-cinquanta centimetri) e nella distribuzione degli elementi che lo compongono: è un deposito del terzo secolo prima di Cristo, formato da oggetti votivi di bronzo, ferro, ceramica e terracotta, mescolati insieme. Questi oggetti votivi erano stati esposti probabilmente in un edificio sacro non lontano che non ha lasciato traccia di sé fino a quando, a un dato momento, forse per ragioni di guerra, la località dovette essere abbandonata da un giorno all'altro: allora, per salvarli dalla dispersione, si pensò di nasconderli e di seppellirli, e bronzo, ferro, ceramica, terracotta, tutto venne ammucchiato alla rinfusa in gran fretta, senza badare all'integrità dei pezzi più fragili, portato via, scaricato e livellato con una certa cura, in modo da formare appunto lo strato in questione, nel luogo dove è stato scoperto: da quel momento a tutto il Mille nessuno più era andato ad abitare a C***.
Questo strato si lascia staccare a grossi blocchi: da ognuno di essi che l'operaio solleva come un neonato e poi rompe, frantuma e fruga con grande attenzione (un vero concentrato di vita antica, e gli operai, chiamandolo tenacemente «estratto», peccano appena contro il vocabolario, non contro la realtà delle cose), saltano fuori le sorprese: un dito, tre occhi, un pezzo di piede, un frammento di testa coi capelli a riccioli, un paio di monete di bronzo di Roma o della Campania, il manico di una minuscola anfora, una punta di ferro, una testina femminile grande come una noce, un chicco di collana di pasta vitrea blu striata di giallo: tutte cose che rivelano sinteticamente, anche a C***, la pietà popolare degli antichi italíci. È l'aspetto più caratteristico di una civiltà singolarmente uniforme, diffusa negli ultimi tre o quattro secoli della repubblica romana nell'Etruria meridionale, nel Lazio, nella Campania, quale ci è stata resa nota dai vecchi scavi, per lo più non sistematici, di Veio, Cerveteri, Civita Castellana, Conca, Nemi, Palestrina, Roma stessa, ecc.: si tratta sempre di grosse quantità di ex voto, che i fedeli offrivano nei luoghi sacri, e che consistevano in oggetti di uso comune (monete, armi di bronzo e di ferro, ornamenti personali, vasi di ceramica ecc.) oppure in riproduzioni intere o parziali o soltanto allusive, generalmente di terracotta, del devoto stesso o delle cose che gli premeva fossero protette dalla divinità.
Soddisfatto di una somiglianza del tutto simbolica, il devoto comprava dal fabbricante di terracotte, che in ogni paese aveva la sua bottega vicino ai luoghi di culto, una statua sommariamente lavorata, che lo potesse rappresentare davanti agli occhi della divinità, oppure, caso più frequente, si accontentava della sola testa grande al naturale o di una quasi-testa con solo la faccia modellata, di una mezza testa di profilo, di una testa minore del vero, di una mezza faccia (come una mascherina), secondo quanto gli suggerivano le sue possibilità e il fervore della sua fede: l'artigiano aveva le forme pronte e ne cavava quante teste voleva e, secondo il prezzo, decideva se valeva la pena di eseguire ritocchi, di variare una ciocca di capelli, di incidere l'iride o la pupilla (nella maggioranza dei casi lo giudicava superfluo). Ma la bottega del fabbricante di terrecotte era un campionario di pezzi anatomici: dita, mani, piedi, gambe, braccia, bustí con i visceri in mostra, mammelle, uteri, genitali maschili e femminili, orecchi, soprattutto occhi: singoli a forma di mandorla o rotondi con tutta l'orbita, oppure a coppie, come quelli d'argento che ancora oggi si vedono in Sicilia nelle cappelle di S. Lucia; e c'erano pure piccole statue di buoi, cavalli e maiali per chi aveva avuto il bestiame salvo da infezioni, e c'erano le imitazioni delle «tanagre» greche, che potevano rappresentare sia la divinità sia la pia donna che le dedicava: molti infine se la cavavano offrendo un semplice peso da telaio. Tutte queste antiche sacre terrecotte, una volta appese ai chiodi o collocate per terra o su mensole nei santuari, e poi seppellite quando erano diventate ingombranti o quando si era dovuto sgombrare per ragioni urgenti, oggi sono nel migliore dei casi esposte negli scaffali più bassi e peggio illuminati delle vetrine dei musei, dove, se il visitatore non è abbastanza giovane per permettersi ripetuti piegamenti, nessuno le guarda più. Va da sé che esse, quando venivano trovate, scomparivano regolarmente a centinaia e a centinaia regolarmente ricomparivano nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, da Madrid a Copenaghen.
Scavare stanca. La punta del piccone (o la penna, a seconda che vuole il lavoro) non va persa di vista per un solo momento: occorre spiegare agli operai il pregio e il significato dei pezzi che trovano, e, poiché lo capiscano subito, frenare la loro impazienza, convincerli che non devono tirare apppena spunta un'unghia, ma indurli a lavorarci intorno adagio perché, dietro l’unghia, può seguire tutta la mano, abituarli a moderare il loro entusiasmo; a non disprezzare le terrecotte per le monete, il ferro per l'argento, la ceramica per qualche bella statuina di bronzo.
Occorre aver sempre sottomano un quaderno per scrivere e descrivere tutto quanto merita, disegnare e misurare quote e livelli, occorre fare fotografie, anche perché si sa che alla sera, dopo otto ore di lavoro, nello stato di leggera demenza in cui ci si trova, tutto si confonde nella memoria. Ogni frammento va ricordato e tenuto d'occhio perché può attaccare, a distanza di ore, con un altro: bisogna, appena è il caso, procedere a difficili e provvisori tentativi di ricomposizione dei pezzi peggio conservati (in questi interventi eccelle il mio amico Lucos, che molto precocemente, a cinque anni, si con; all'archeologia trangugiando un cucchiaio di polvere di mattone delle mura di Aureliano).
Bisogna subito dividere e ordinare gli oggetti secondo quello che sono o la provenienza, riempire buste, cartocci, scatole, casse e cassette (non si ha l'idea dello smisurato numero di recipienti necessari a chi scava e che non si trovano mai). Bisogna spiegare con garbo alla gente che viene a vedere, e rispondere alle sue domande: che non si può dire esattamente cosa si comprava con quelle monete, che «a quei tempi l'oro lo conoscevano», che non si trovano «ossa di cristiani», che prima di Cristo gli anni non crescono ma calano, che non è come a Pompei, che Nerone non c'entra: ascoltare Ie sue meraviglie («però ci sapevano fare» oppure indifferentemente «quelli si che ci sapevano fare») e le storie più strampalate di terremoti che scoprono «mausolei», di statue che parlano, di tesori ingenti nascosti dai galeotti nel cavo degli alberi; persuaderla infine che, anche se non si trovano «anfore piene di marenghi», lo scavo può essere ugualmente interessante.
Le fatiche di chi scava sono però alleggerite da alcune occupazioni tranquille. Dà un gusto speciale prendere in mano una testa di terracotta, dopo averla un poco lasciata seccare al sole, e cominciare a pulirla con uno stecchino dalle incrostazioni: la terra indurita, se la si forza nel senso giusto, schizza via lasciando apparire a poco a poco le palpebre, le labbra, il lobo dell'orecchio coi loro bei contorni netti, alle volte si scopre una piccola fossa nel mento o due rughe sulla fronte o addirittura le impronte digitali dell'artefice antico: la testa ci guarda indifferente a occhi sbarrati, e l'archeologo partecipa un poco del compiacimento dell'artista di fronte alla sua opera. Mai adoperare, per lavori del genere, punte di metallo (temperini o spilli): si finirebbe per sfregiare irrimediabilmente tante piccole fanciulle d'argilla, sfigurando l'ammirevole fluire delle pieghe dei loro mantelli, le ghirlande di foglie d'edera o di vite che portano in testa, i loro minutissimi e patetici lineamenti, i loro graziosi cappelli: è necessario farsi le mani delicate come quelle della regina di Brobdingnag, quando sollevava sorridendo Gulliver e conversava con lui. Gli operai le chiamano immancabilmente pupazze, e anche qui dicono giusto: in Grecia esse erano spesso delle vere bambole che venivano chiuse, quando ormai non servivano più, nelle tombe delle ragazze morte nel fiore degli anni. Se invece sfreghiamo col pollice i fondi sbrecciati delle coppe che una volta avevano versato vino o latte sugli altari, scopriamo impressi i marchi di fabbrica, la palmetta, la stella, la foglia, il fiore a otto petali, il delfino, il granchio, il pentagono, limpidi come segni dello zodiaco. Sfreghiamo tra pollice e indice le monete che ci allunga l'operaio dopo essersele passate sui calzoni e averle osservate in silenzio, e scommettiamo quello che apparirà: se il profilo di Mercurio o quello di Minerva, sulle monete di Roma; se il leone che si strappa la freccia conficcata nelle fauci o il pegaso galoppante, su quelle romano-campane; se il toro con la barba che incede dignitoso mentre una vittoria gli svolazza sopra la testa o il gallo impettito, sulle monete di Napoli, di Teano, di Suessa.
Ma bisogna vigilare, perché son lavori pieni di tentazioni. Potrebbe capitare di lasciarsi andare al gioco o di restarsene li trasognati a ricamare con lo stecchino tra i riccioli di una testa o a rigirarsi oziosamente tra le dita il dignitoso toro barbuto, come vecchi cinesi al tramonto sull'uscio di casa, se non ci rendesse vigili, al momento giusto, una corta bestemmia di meraviglia: segno che l'operaio, interrompendo la descrizione dei suoi traffici al tempo dei tedeschi o l'elogio delle belle del paese, ha incontrato qualcosa di particolarmente degno della sua ammirazione, per esempio una figurina di bronzo. Ora è una antica donna di C***, che ha comprato dal fonditore la propria immagine da offrire alla dea preferita: indossa una lunga tunica con la cintura alta sotto il seno, in testa ha il diadema, con la mano destra regge la patera mentre l'altra è portata fiduciosamente al fianco; ora è un timido devoto contadino con la frangia sugli occhi che si è coperto il capo col mantello; ora è un piccolo Marte nudo con il pennacchio dell'elmo che gli scende in mezzo alle spalle; ora è un Ercole baldanzoso che avanza a grandì passi agitando la clava e proteggendosi col braccio sinistro, da cui pende la pelle del leone nemeo. É bene allora, col fiasco che sta in bilico sull'orlo della fossa, fargli una doccia di vino bianco, e il giovane dio infaticabile risplende sotto il sole d'ottobre, col suo corpo agile e snodato, rifinito con precisione nei capelli, nel volto, nelle mani, verde come una lucertola, lucido e guizzante come un pesce che rimbalza sulla rete; l'attacco di un braccio un poco tirato via, la superficie troppo appiattita di una gamba, mostrano l'opera di artigiani indigeni, che lavorano in margine alla grande tradizione greca, ma con gli occhi ben attenti e un mestiere istintivamente felice. («Cosa resterà di noi fra mille anni?» chiede la gente: non più di una poltiglia di sacri cuori di gesso, pezzi di lapidi informi e sgrammaticate, la carta stagnola dei moccoli, qualche sgorbìo ìnfantile dipinto per scampato pericolo.)
C*** non è Troia: se Schliemann poté, cacciati via gli operai turchi, buttare addosso a sua moglie i gioielli dì Elena, qui bisogna accontentarsi, alla fine dì una giornata di scavo, di trovarsi alle dita una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, senza castone e ai polsi un paio di smilzi braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nei secoli di Pìrro e di Annibale. Ma da tutta la complessa natura morta allineata davanti a noi, attorno ai margini della fossa, spira un'antica miseria. Sono i mucchi di occhi, dì teste, dì mani, di pìedì, dì animali domestìci frantumati; ì mucchi di coccì di piccolissime anfore, brocche, coppe, di minuscoli boccali, la ceramica di allora nelle sue più economiche varietà: verniciata di nero, stampigliata, per lo più grezza, con pochissimi pezzi dipinti; sono ì più grossi mucchi di ferro, puntali di lance e di frecce, rinforzi di ruote, collari, chiodi, ganci, uncini; sono i cartocci delle monete fuse e coniate (su cento di bronzo una è d'argento), degli oggettini dì bronzo, fibbie, fermagli, pendagli di collana, piccoli manici di vasi e di specchi, piedini di candelabro, frammenti di grattugie; sono i pezzetti di carbone, e le ossa degli animali sacrificati. E quando gli operai hanno smesso il lavoro, si perde la capacità di vedere e tutta questa roba si fa grigia e indistinta e verrebbe voglia di scegliere e scartare, se il primo comandamento dell'archeologo non fosse quello di non scegliere mai: lo aspettano mesi di laboratorio, in cui dovrà passare tutto alla lente, distinguere, classificare, confrontare, ricomporre, disegnare (potrà allora avere la sorpresa, grattando un coccio insignificante, di scoprirvi dipinta una dedica a Minerva, a Vesta, a Esculapio). Solo lo opprime il fatto che il «laboratorio» sarà inevitabilmente lo scuro scantinato di qualche museo, senza tavoli, senza seggiole, senza finestre. L'opprime anche per un istante lo spettro del dotto olandese, che ha scritto nella sua lingua centosettantacinque pagine assolutamente inevitabili intorno a certi vasetti neri in parte simili a quelli trovati a C***. Ma sono momenti di debolezza passeggera: il bello dell'archeologia è che la scoperta di un oggetto antico (qualora non si sia dei rètori crepuscolari in cerca di assurde evasioni) è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perché dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d'aver perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria.
aprile 1951
Lo scavo fu eseguito a Carsòli lungo la Via Tiburtina (a una trentina di chilometri da Tivoli) insieme all'amico archeologo romano Lucos Cozza (oggi professore di topografia antica all'Università di Perugia). Il materiale scoperto è stato in parte pubblicato su «Notizie degli scavi di antichità», dell'Accademia dei Lincei, ed è conservato al museo
Marzo 1958
[…] Al convegno indetto dalla rivista democristiana «Battaglie Politiche », ai primi di marzo, abbiamo riascoltato la condanna della distruzione di Villa Chigi, l'approvazione al nuovo piano regolatore e quindi implicito l'atto d'accusa contro i rappresentanti democristiani responsabili d'aver fatto di tutto per silurarlo. Di particolare rilievo è stata la relazione letta dall'architetto Leonardo Benevolo, uno dei nostri più preparati studiosi di problemi urbanistici. Lo stesso istituto giuridico - il diritto di fabbricazione considerato come parte integrante della proprietà privata dei terreni, cioè il diritto del privato di intascare il plus-valore d'un terreno divenuto fabbricabile – è stato definito come incompatibile con la società moderna: e con molta chiarezza è stato descritto il meccanismo della speculazione. La speculazione è responsabile della paradossale situazione della doppia crisi attuale, edilizia e degli alloggi, in quanto essa, mantenendo i prezzi dei terreni più alti del dovuto, costringe i costruttori a costruire solo case medie e di lusso, per contenere entro limiti ammissibili la percentuale del prezzo degli alloggi dovuta al terreno. «Un settore della domanda viene così saturato, molti appartamenti restano invenduti o sfitti, mentre la domanda di appartamenti popolari cresce, ma il prezzo dei terreni non consente al costruttore di soddisfarla; così si realizza lo scopo della speculazione, cioè lo sganciamento dell'offerta dalla domanda, a svantaggio dei costruttori e dei consumatori, e nell'interesse esclusivo di poche decine di proprietari terrieri ».
In particolare, c'è da aggiungere che i piccoli proprietari di terreni che il piano regolatore ha destinato a scarso o nullo sfruttamento edilizio, non potendo sperare di modificare a loro vantaggio le decisioni del piano, si sono indotti a vendere i loro terreni ai proprietari maggiori, i quali, effettuata l'operazione di acquisto, e non prima, fanno uso della loro influenza per far modificare il piano, e valorizzare i terreni acquistati: si capisce quindi perchè le opposizioni alle direttive generali del piano non si siano manifestate tre anni fa quando furono rese note per la prima volta, ma arrivino adesso, al momento di renderle esecutive e di trasformarle in vincoli effettivi di piano regolatore. In queste condizioni - ha continuato il Benevolo - sarebbe perfino inutile dar retta ai suggerimenti delle forze economiche che vorrebbero un diverso sviluppo di Roma, per esempio ad ovest del Tevere, sulla via Cassia.
«La dinamica inevitabile della speculazione tenderebbe subito dopo ad agire in senso opposto, per consentire un nuovo gioco al rialzo, e il risultato sarebbe un moto pendolare alternato della città, ben noto agli storici dell'urbanistica, fino alla completa paralisi dell'organismo urbano (e della speculazione stessa che, lasciata a se stessa, tenderebbe ad autodistruggersi, come il tumore che finisce per far morire l'organismo che lo nutre: altra prova, se occorresse, della natura patologica della speculazione sui terreni) ». Il piano regolatore come garanzia democratica per lo sviluppo razionale della città, l'arretratezza della casta dei funzionari quali sono emerse dal processo Immobiliare -«L'Espresso », le deficienze dell'industria edilizia per la mancanza di una norma urbanistica generale, il piano regolatore ridotto a «merce di scambio tra democristiani e fascisti »., la necessità di considerare punti fermi e acquisiti le premesse generali e le soluzioni tecniche del progetto di nuovo piano regolatore, eccetera, sono stati altrettanti temi trattati dal relatore, davanti all'uditorio democristiano. Un uditorio un po' scarso, in verità, forse perchè l'opinione ufficiale del maggior partito non ha simpatia per l'atteggiamento, per le sollecitazioni, i fermenti delle minoranze: non possiamo che augurarci che queste minoranze qualificate riescano a condurre avanti la loro opera di chiarificazione e a illuminare anche tenuemente l'orgogliosa insipienza della maggioranza. Solo centosettanta giorni ci separano dalla data in cui il Comune di Roma, al termine di un iter complicato, dovrà aver adottato il nuovo piano regolatore.
Roma antica, e lo sconfinato campo delle sue rovine, ha funzionato nei secoli da stimolo etico sulla cultura europea. Partecipazione commossa della memoria, sgomento di una tragedia universale, sospensione di ogni interesse pratico , lacrimae rerum: la rievocazione della grandezza passata nasceva direttamente dal disfacimento presente, quel gran «cadavere» era l'ammonimento, il freno contro ogni esaltazione viziosa.
Con l'affacciarsi dell'Italia al mondo moderno e l'unificazione nazionale, è invece l'interpretazione deteriore della romanità, ricorrente nella cultura italiana, che diventa sentimento e letteratura comune: la romanità diventa oggetto di nostalgia reazionaria e incentivo a velleità di potenza, viene degradata a eccitante di avventura e di boria nazionalistica. Giunta tardi e senza tradizioni alla dignità nazionale, la borghesia italiana si specchia impotente nella gloria passata, tenta di trarne gli auspici, comincia a sognare ritorni impossibili: Roma, ovvero l'immagine stravolta di essa, diventa la Medusa che pietrifica chi si volta a guardarla, remora ad ogni progresso civile. E’ in nome di Roma che Mussolini annienta lo Stato.
Mentre il progresso del mondo imponeva di riguardare al passato con la nuova prospettiva e il distacco offerto dalla cultura critica e storica, e mentre occorreva concentrare gli sforzi per affrontare con strumenti adeguati i grandi problemi posti alle nazioni moderne dalle trasformazioni economiche, sociali, territoriali, da noi si instaurava una mitologica continuità tra il presente e i fantasmi di una civiltà sepolta. La sorte patita da Roma sotto il fascismo è esemplare. Nell'ignoranza di tutti i mutamenti intervenuti nella storia delle città con la rivoluzione industriale, si pretese di «adeguare» semplicisticamente, meccanicamente la città vecchia alla vita moderna, per via di sventramenti e di addizioni successive, fino a cancellarla dalla faccia della terra: come sarebbe accaduto se si fosse realizzato interamente il piano regolatore del 1931, in cui si era espressa tutta la cultura ufficiale del tempo.
Così facendo il fascismo, mentre esaudiva i voti di una generazione di retori, di archeologi e di decadenti, manifestava la sua incultura e il suo carattere anacronistico: Roma veniva considerata un immenso deposito alluvionale da setacciare, alla ricerca dei ruderi più antichi, facendo piazza pulita di tutto quanto si era venuto frapponendo tra essi e noi, cioè della storia stessa. Al rito negromantico della «risurrezione» di Roma (« e Roma rinascerà più bella e più superba che pria », dirà il Nerone di Petrolini), alla ricostituzione di colossali «denti cariati», di scheletri monumentali entro uno spazio metafisico, poi subito sommersi dal traffico e dagli edifici di speculazione, tutti, italiani e stranieri, applaudirono: ci si dimenticò soltanto di costruire la Roma nuova, la Roma moderna, la città per gli uomini e per le loro esigenze di vita.
La montatura romanistica degli anni trenta è stata la manifestazione vistosa di un atteggiamento congenito di gran parte della classe dirigente italiana: la sordità ai problemi del progresso, il ripiegamento su un assetto politico-economico arcaico, il rifiuto della cultura e della tecnica, di ogni pianificazione nell'interesse pubblico. L'esaltazione isterica della romanità, a fini retorici e di propaganda politica, non è stata che il diversivo sentimentale dell'unico culto autentico praticato dalla società italiana, il culto del lotto e delle aree fabbricabili, nel sostanziale disprezzo per l'uomo. Roma divenne oggetto di mercato, fu abbandonata come una carogna al sole al saccheggio privato. Ai fantasmi melodrammatici dei ruderi raschiati corrisposero immediatamente le borgate e i ghetti, gli spaventosi concentramenti della periferia, la congestione e il sovraffollamento, lo sgangherato espandersi della città, in esclusivo omaggio alla furente speculazione edilizia: via via fino ai nostri giorni, fino a quella sinistra bancarotta dell'urbanistica romana degli anni cinquanta, che non ha riscontro nella storia di nessun'altra città del mondo, e che ha avuto effetti peggiori di una qualsiasi calamità naturale.
Roma presenta oggi un centro storico degradato e impraticabile, incrostato in mezzo a un'immensa, informe agglomerazione, squallida e sterminata periferia, sorta nel segno della violenza privata e della complicità pubblica, che tutto si può chiamare fuor che città. La stessa configurazione fisica di Roma è stata distrutta: un unico tavoliere di cemento, uno stomachevole, soffocante magma di «palazzine» e «intensivo », colma le valli, ricopre le colline, sommerge la campagna, grazie allo sfruttamento dell'ultimo metro quadrato disponibile, quasi ci si fosse proposti di impedire a chiunque di dire: questa era Roma.
Roma ripercorre a ritroso la storia delle città straniere, e ogni decennio segna un'ulteriore fase di decadenza: gli stessi problemi elementari posti dal traffico motorizzato sono stati semplicemente ignorati a vantaggio dei padroni del suolo. II risultato piuttosto di un'ormai secolare insipienza, ed esperienza quotidiana per tutti, è il caos e il disagio della circolazione nei nuovi quartieri, più inadatti alla vita moderna di quelli di età barocca, con una rete stradale che sembra tracciata da un branco di deficienti, in un'inconcepibile confusione di attività e di funzioni. Quanto si costruisce oggi - ha scritto un giornalista straniero - sono gli slums di domani: ai baraccati e ai segregati delle bidonvilles non resta che la prospettiva del carcere a vita nelle inumane concentrazioni dell'intensivo destinate, queste sì, a durare nei secoli.
La grande invenzione dell'urbanistica moderna, vanto delle città dei paesi civili, gli spazi naturali liberi e attrezzati per la ricreazione e lo sport, il verde pubblico non entrano nelle previsioni, sono stati sadicamente eliminati: lo spettacolo quotidiano, l'indice maggiore della criminalità della politica seguita fin qui, sono bambini, ragazzi e giovani costretti a trascinarsi nelle strade, tra l'immondizia e il traffico, a giocare nella polvere o nella sterpaglia dei lotti non ancora fabbricati. In nome degli eterni valori, anzi del plusvalore delle aree, la generazione nata e cresciuta col «miracolo» e il boom edilizio è stata con- dannata alla nevrosi, alla menomazione psichica e fisica.
Roma non è altro oggi che l'espressione topografica della distribuzione della proprietà fondiaria, il suo paesaggio urbano la proiezione dell'abuso e dell'illegalità, traduzione puntuale dei voleri delle società immobiliari, di una banda di imprenditori improvvisati e ladri. Ogni piano regolatore ha finito con l'essere la sanatoria di fatti comunque compiuti,. il rifiuto degli strumenti messi a disposizione dalla scienza, il disprezzo per le norme elementari dell'urbanistica moderna, l'ignoranza dei problemi sociali ed economici di una città in espansione, il perseguimento del vantaggio privato a scapito dell'interesse comune: questi e non altri sono i criteri adottati dalle forze politiche dominanti, che hanno basato le loro fortune sulla rapina del suolo, e quindi provocato, sempre in nome dei sacri principi dell'appropriazione indebita, il colossale fallimento delle finanze pubbliche.
E’ dunque lo spettacolo della nuova Roma che si impone oggi alla meditazione del visitatore esterrefatto. Alle rovine create in passato dall'Invidia del Tempo abbiamo sostituito le macerie della nostra ignoranza: all' antico lamento sulla Varietà delta Fortuna dobbiamo oggi opporre l’azione politica contro una società irresponsabile e nemica del pubblico bene. Quella che ci sta davanti e che, come è stato ben detto, continuiamo a chiamare Roma per una pietosa convenzione fonetica, è un'orrenda contraffazione di città: e in essa, inconsapevoli dei loro diritti e condizionati da decenni di propaganda corruttrice, vivono due milioni e mezzo di uomini e donne, di bambini e di ragazzi, di adulti e di vecchi, di sani e di malati.
L'interesse delle persone sensate muta ormai di oggetto e dimensione. I nomi prestigiosi che sono stati un riferimento della cultura del mondo non hanno quasi più senso, se non per le esercitazioni sentimentali o erudite: altri nomi fatidici, altri itinerari, un'altra topografia si offre a chi vuole capire la situazione presente. Sono i nomi delle scandalose decisioni municipali, i nomi del vandalismo organizzato, del sudiciume e dello sfarzo, i nomi delle concentrazioni edilizie omicide, della sofferenza e dell'umiliazione quotidiana. Quartiere Trionfale, Monte Mario, Albergo Hilton, Monti della Farnesina, Vigna Clara, quartiere Africano, Aniene e Conca d'oro, Tufello, Pietralata, San Basilio, Prenestino, borgata Gordiani, Centocelle, Acqua Bullicante, Tor Pignattara, Tuscolano - Don Bosco, Appia Antica e Caffarella, Cristoforo Colombo, Torvaianica, Fiumicino, Viale Marconi, Donna Olimpia e Monteverde Nuovo, via Olimpica, eccetera eccetera: tanto per illustrare la varia casistica delle malversazioni, lungo tutto l'arco dell'orizzonte.
Questi i nuovi Mirabilia Urbis: questo il nuovo tour di Roma che occorre intraprendere, per misurare l'entità del disastro e riconoscerlo finalmente intollerabile per una nazione civile.
La situazione romana, nella sua particolare atrocità riproduce e riassume ovviamente la situazione nazionale: di un paese cioè che quasi tutti coloro che hanno una qualche responsabilità, politici, architetti, intellettuali, artisti, uomini di legge, «operatori economici» e via dicendo, concordano nel massacrare e nel trasformare nel repellente ritratto di un volgo disperso e senza nome: per cattiva cultura, distrazione, frivolezza o diretto interesse. E’ una realtà che va finalmente conosciuta, studiata e divulgata perchè si possa cominciare a sperare in qualche cosa di diverso: una realtà che, mentre ci distanzia sempre più dai paesi civili, dovrebbe servire almeno ad aprire gli occhi della gente sulla necessità di rinnovare radicalmente il nostro preistorico assetto giuridico in materia urbanistica e di proprietà del suolo. La nuova legge urbanistica è la riforma di fondo che andava fatta prima di ogni altra, e che non va in porto, e contro cui si è scatenata la indegna cagnara di tutta la destra politica ed economica: di tutti coloro cioè che, mentre si arricchiscono in danno della salute e delle finanze pubbliche e mentre impuniti devastano il territorio nazionale, usano invocare ogni momento il mito e il primato di Roma e d’Italia. Un mito e un primato che tra poco non significheranno altro che smentita alla civiltà, utopia alla rovescia, scandalo permanente di fronte al mondo. […]
Quando finisce l'Italia? E’ questa la domanda solo apparentemente paradossale che cominciano a porsi urbanisti, ambientalisti, statistici eccetera, quando riflettono sul ritmo accelerato con cui, nella confusione delle leggi e nell'incapacità di pianificare, andiamo consumando quel bene prezioso, limitato e irriproducibile che è il territorio.
Già sono disponibili, per dir così, le prime proiezioni. In un trentennio abbiamo distrutto più di un milione di ettari di pianure produttive (un sesto del totale, 20-30 mila ettari l'anno); nell'ultimo decennio la superficie agraria complessiva è diminuita di tre milioni di ettari e di altrettanto sono aumentati gli incolti, i terreni asfaltati e urbanizzati (un'erosione del 5 per cento ogni dieci anni): oltre duemila chilometri di litorali pianeggianti (la metà del totale) sono scomparsi sotto turpi agglomerati edilizi; 40-50 mila ettari di boschi vanno a fuoco ogni anno, mentre a fatica si riesce a rimboschire una superficie pari alla metà (i boschi italiani non superano i sei milioni di ettari).
La prospettiva, come calcolano gli esperti della Lega Ambiente che stanno redigendo un rapporto sullo stato dell' ambiente in Italia, è questa: tra poco più di 150-200 anni (diciamo entro l'anno 2200) andando avanti di questo passo, tutta quanta l’Italia naturale, agricola, paesistica, forestale sarà ridotta a un deserto di cemento, asfalto, immondizia e cenere. Se poi aggiungiamo l'attività selvaggia delle cave che asportano ogni anno da colli e corsi d'acqua 300 milioni di tonnellate di ghiaia, sabbia, e altri materiali, aggravando il generale dissesto del suolo, ci rendiamo conto che ci verrà a mancare letteralmente la terra sotto i piedi.
Un sintetico campione di questa minacciata soluzione finale ci è stato offerto giorni fa al convegno internazionale di Bologna sulla salvaguardia dei centri storici. In una bellissima mostra (che dovrebbe andare in giro per l’Italia) sono state messe a confronto le foto aeree eseguite dalla RAF negli anni Quaranta con le altre eseguite negli anni Settanta: un confronto impressionante che mette in evidenza il cieco dilagare dell'edilizia a ondate successive, la ragnatela, a macchia d'olio tutt'intorno a villaggi e città, col risultato che in un trentennio nella sola Emilia-Romagna sono stati fatti sparire 18.000 ettari di terreno agricolo e, lungo i litorali, 4.000 ettari di dune, boschi, arenili.
Il merito dell'indagine va all'Istituto per i beni artistici, culturali e ambientali dell’Emilia-Romagna e, se altre regioni ne seguissero l'esempio, avremmo un quadro eloquente della sorte che attende l'Italia fisica: quella di essere ricoperta da un capo all'altro da un'ininterrotta, uniforme, repellente crosta edilizia. (E già sappiamo, per fare un esempio, che nel maggiore comune agricolo italiano, Roma, sono stati distrutti nell'ultimo decennio ben 16.000 ettari di terreno produttivo).
Parallelo e speculare al riempimento-cementificazione della campagna è il vuoto che si viene creando per abbandono, snaturamento, incuria e speculazione nel patrimonio edilizio delle città e dei loro centri storici: i quali comprendono circa dodici milioni di stanze costruite prima della metà del secolo scorso. La sbornia edilizia dei due ultimi decenni ha infatti portato quasi esclusivamente alla costruzione del nuovo anziché al riuso ragionato dell'esistente, costruendo per lo più l'inutile e il superfluo: così che (è bene sempre ripeterlo) abbiamo il primato europeo dello spreco edilizio, 86 milioni di stanze per 56 milioni di italiani, e quattro milioni di alloggi (pari a circa 15 milioni di stanze) «non occupati», sfitti e invenduti, seconde e terze case, eccetera (350.000 stanze non occupate a Roma). Qui sta il problema capitale, l'impegno che deve affrontare l'urbanistica italiana. Si tratta di mettere un argine all'espansione delle città, che aggrava il gigantismo urbano con tutti i suoi disastrosi effetti: distruzione di terreno agricolo, congestione e ingovernabilità; e di concentrare mezzi ed energie nel recupero dell'antico patrimonio edilizio. Il che vuol dire riutilizzare, risanare, restaurare i centri storici sotto controllo pubblico per consentire alla gente di continuare ad abitarci a canoni ragionevoli, evitandone l'espulsione nei ghetti periferici, e quindi preservando la funzione residenziale degli antichi quartieri dalla degradazione e dall'attacco delle attività terziarie. (Nei centri storici minori gli alloggi abbandonati sono 6-800.000; negli anni Settanta nei centri storici delle maggiori città sono state eliminate, buttate via oltre tre milioni di stanze residenziali per far posta ad uffici). E’ questo, il risanamento conservativo per la salvaguardia del tessuto edilizio e insieme sociale dei centri storici, il maggiore (l'unico) contributo italiano alla cultura urbanistica europea: che ha avuto una prima realizzazione a Bologna una decina di anni fa quando, assessore Pierluigi Cervellati, i fondi dell' edilizia economica e popolare, anziché nella costruzione di nuovi quartieri in periferia, vennero investiti nel risanamento di alcuni comparti del vecchio centro. Per questo Bologna ebbe il diploma del Consiglio d 'Europa, e il suo esempio fu seguito da altre città (ricordiamo soprattutto Modena e Brescia). Poi, come sempre, la tensione cadde, e oggi in tutta Italia gli alloggi risanati sotto controllo pubblico e a fini sociali non superano il paio di migliaia: mentre sono aumentati i «restauri» di pura facciata (l'antico rifatto rende molto in termini di prestigio a studi privati, banche e assicurazioni), e quelli abusivi, che si contano a decine di migliaia ogni anno.
Così, l'iniziativa pubblica segna il passo a Venezia e a Roma, così si aggrava irreparabilmente la degradazione di centri storici insigni come Palermo e Napoli; mentre allo sgombero del centro storico di Pozzuoli per bradisismo (1970,1983) non è estraneo il sospetto di qualche manovra per una sua «valorizzazione» speculativa. Per avviare una seria politica di risanamento conservativo è ovviamente necessario un forte impegno politico per la riforma degli attuali strumenti e procedure anche al fine di coinvolgere Ie risorse private: ma quello che più allarma è il fatto che nella nostra cultura architettonica (postmoderni aiutando) riprendono fiato coloro che pretendono ancora di lasciare la loro «impronta» negli antichi tessuti urbani (a Roma si vuole addirittura incastrare un «museo della scienza» nella rinascimentale via Giulia). E, cosa ancora più grave, si va assistendo alla riabilitazione degli sventramenti, come nel caso dei Fori Imperiali, dove alcuni hanno inopinatamente scoperto che anche l'asfalto dello stradone littorio è un bene culturale da conservare.
Il convegno internazionale di Bologna, organizzato dal citato Istituto per i beni culturali col patrocinio della Comunità Europea, è stato importante perchè ha sollevato la cortina di silenzio caduta negli ultimi anni sul problema delle antiche città e della loro salvaguardia (un nuovo convegno è in corso in questi giorni, quello dell' Associazione nazionale centri storico-artistici, a Lucca), col contributo di una cinquantina di studiosi italiani e stranieri, in presenza di un pubblico foltissimo. Guido Fanti, membro della commissione cultura del Parlamento europeo, ha annunciato che la Comunità intende istituire un «fondo europeo» per la concessione di prestiti per interventi di conservazione e restauro, augurandosi tra l'altro che il finanziamento comunitario del settore culturale sia portato almeno all'uno per cento del bilancio generale (ora pari allo 0,00749 per cento). Ed è stata messa in evidenza la convenienza economica del risanamento del patrimonio esistente, perchè un centro storico già dispone di tutte quelle infrastrutture e di quei servizi che invece vanno realizzati ex novo in un quartiere di nuova costruzione: inoltre, è stato accertato che risanamento e restauro consentono di creare due posti e mezzo di lavoro con l'investimento necessario alla creazione di un solo posto medio di altro genere.
Recupero dei centri storici significa dunque anche rilancio dell'occupazione e di tutte le attività economiche legate agli infiniti aspetti del restauro delle forme e dei materiali antichi: una grande occasione per la riqualificazione professionale e la formazione di manodopera specializzata. Si tratta di far riemergere dal naufragio l'antica sapienza pratica, la creatività, la manualità, il mestiere artigiano, quelle antiche arti «meccaniche» che hanno creato nei secoli le nostre città: perchè si possa cominciare a por mano a quell'opera di manutenzione continua che è la premessa essenziale per la loro sopravvivenza.
In conclusione, conservare l'antico deve essere la parola d' ordine della cultura urbanistica moderna: altrimenti, per completare il quadro dell'Italia che finisce, mettiamoci anche a calcolare i metri cubi di antichi edifici che anno dopo anno vengono ridotti in polvere.