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Gli stereotipi sulla deriva narcisistica di quella esperienza sono vecchi di trent'anni. E scambiano un movimento enorme con la parabola di pochi Nessuna esperienza storica è stata più pronta a recepire la cultura del limite elaborata dai teorici ambientalisti. Contro lo sviluppo a ogni costo

I trent'anni che la pubblicistica ha definito «gloriosi» erano stati caratterizzati in Occidente dall'egemonia del fordismo: la concentrazione dei lavoratori in grandi stabilimenti integrati, l'omogeneizzazione delle loro condizioni, la parcellizzazione e il degrado del loro lavoro, l'impiego a tempo indeterminato, la localizzazione degli stabilimenti nei paesi "sviluppati". Parallelamente all'organizzazione del lavoro fordista, la scolarizzazione di massa era stata proposta e vissuta come un "ascensore sociale" in grado di trasformare, nell'avvicendarsi delle generazioni, i contadini in lavoratori dell'industria, gli operai in impiegati e gli impiegati in quadri, manager o in o liberi i professionisti: per alcuni decenni era stata questa la risposta del sistema alle aspettative di emancipazione sociale delle classi sfruttate. Fabbrica, scuola e welfare avevano costruito nei paesi dell'Occidente un contesto di relativa stabilità e sicurezza per tutti. Ma i costi del welfare, la crescita dei salari e, soprattutto, la modificazione, "concertata" o conflittuale, dei rapporti di forza nelle fabbriche avevano finito per erodere i profitti delle imprese, mentre la saturazione dei posti qualificati offerti dall'organizzazione del lavoro aveva messo in crisi il mito della scuola come ascensore sociale, aprendo le porte a una conflittualità studentesca che dalla Cina agli Stati Uniti, dall'Europa all'America latina, aveva contrassegnato tutta la seconda metà degli anni Sessanta.

I trenta e più anni successivi hanno visto il sistematico frazionamento delle grandi unità produttive, la progressiva differenziazione dei rapporti di lavoro, la delocalizzazione di attività sia manifatturiere che terziarie, la precarizzazione non solo dell'impiego, ma di tutti gli aspetti dell'esistenza nel quadro di una crescente finanziarizzazione del capitale. Il meccanismo della concorrenza si è così progressivamente esteso dalle imprese, soggetto ormai unico della scena e dell'attenzione sociale, ai lavoratori, sia autonomi che dipendenti, in una lotta darwiniana di tutti contro tutti che ha trasformato i problemi creati dalla società in vicende biografiche da risolvere individualmente. Questa trasformazione è stata accompagnata da un processo di sostanziale descolarizzazione, pur salvaguardando in alcuni paesi - non nel nostro - i contenuti tecnici e professionali della formazione; ma sempre nel quadro di una svalutazione dei contenuti culturali, sociali e civili dell'educazione. Così l'organizzazione della produzione ha smantellato una delle conquiste più importanti del periodo precedente, la sicurezza del lavoro, del reddito e dell'esistenza, instaurando nel mondo un clima di paura di tutti per tutti e di tutto.

Un approccio materialistico a quella inversione di rotta non può evitare di vedervi una reazione del capitale e dei governi alle conquiste delle lotte operaie, studentesche, e di molte altre categorie sociali, che avevano sconvolto tutta la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Ma anche, e soprattutto, l'avvento di una nuova tecnologia, quella della "Rete", che ha avuto e ha sulla storia del mondo un'influenza non inferiore a quella della macchina a vapore nel promuovere la rivoluzione industriale. Oggi la rete ha un ruolo decisivo nel promuovere collegamenti, organizzazione e rivolta in molti dei processi sociali che attraversano l'alba del nuovo secolo. Ma ha avuto - e da tempo - un'influenza assai più profonda nel disegnare i caratteri della globalizzazione degli ultimi decenni del secolo scorso e del primo decennio di questo; che non è concepibile senza la Rete, come mera estensione a gran parte del mondo di rapporti di produzione fondati sul lavoro salariato. Internet ha da tempo immesso ogni unità produttiva del pianeta all'interno di linee di fornitura (supply chain) che ne plasmano e riplasmano in continuazione dimensioni, posizione gerarchica, localizzazione e struttura organizzativa. Se Detroit, Mirafiori o Volksburg sono state l'emblema del fordismo, Walmart, Auchan e - perché no? - le Coop, con la loro rete di fornitori, lo sono dell'odierna organizzazione della produzione.

Per questa incapacità di guardare ai processi materiali, e per quanto prevedibile, lascia sconcertati l'ultimo intervento di Luigi Cavallaro su questo giornale (13.5.2011) che riprende stereotipi vecchi di almeno trent'anni (le tesi di Christopher Lash sulla deriva narcisistica della cultura del Sessantotto), peraltro largamente saccheggiate nel corso del tempo da chi, dalle posizioni più diverse e anche contrapposte, imputa a quegli anni il degrado - anche questo inteso in modi diametralmente opposti - del tempo presente. Il meccanismo di questa operazione è sempre lo stesso. Assume le vicende biografiche di alcuni personaggi vistosamente presenti sulla scena mediatica a emblema del percorso esistenziale di decine o centinaia di migliaia di persone, che nei conflitti di quegli anni si erano impegnate e formate; dimenticando migliaia e migliaia di insegnanti che in tutti questi anni hanno tenuto insieme la scuola; di impiegati pubblici che hanno cercato di far funzionare i servizi; di cooperanti impegnati nel welfare a diretto contatto con gli utenti; di operatori che, soprattutto in provincia, hanno costruito e tenuto in piedi i pochi spazi di confronto culturale esistenti; di operai migrati in po' dappertutto, perché cacciati dalle fabbriche dove avevano sovvertito i rapporti di forza aziendali. Tutti quelli che hanno scelto o sono stati costretti a operare nell'ombra, e che Cavallaro, come molti come lui, non riescono a scorgere. Per completare l'opera, tutte queste vicende esistenziali, differenziate e complesse, Cavallaro le proietta sull'intera generazione dei baby boomer, per attribuire alla cultura del Sessantotto fatti e misfatti di politici e manager privati e di stato, di giornalisti e opinionisti che dalle vicende del Sessantotto si erano tenuti ben lontani; e che proprio per questo hanno potuto percorrere con facilità carriere rese sgombre, soprattutto in Italia, dalla loro criminalizzazione: una resa dei conti che, come si è visto, si protrae e ripropone fino a giorni nostri.

Quello che non riescono capire tanti nemici del Sessantotto come, da opposti versanti, sia Luigi Cavallaro che Mariastella Gelmini (un buon esempio di mediocrità quanto a studi, esami, rapporti personali e cariche politiche in cui acquiescenza e servilismo hanno sostituito il merito) è la differenza tra la ricerca di una autonomia personale, e anche di una propria individualità che ne esalti le differenze, perseguita all'interno di un processo condiviso, nel rapporto con un collettivo e un movimento aperto a ogni nuovo apporto - che è stato in tutto il mondo il tratto comune dei movimenti antiautoritari e antidisciplinari di quegli anni, nelle fabbriche come all'università e un po' in tutte le istituzioni - da un lato; e, dall'altro, invece, l'inseguimento di un'affermazione personale a scapito del prossimo, perseguita nel contesto di una competizione di tutti contro tutti; che è la strada maestra del servilismo: dell'asservirsi per fare carriera o anche solo per non essere retrocesso.

Se un elemento di connessione tra la cultura del Sessantotto, qualunque cosa si intenda con questo termine, e il presente c'è (e in varie sedi mi sono sforzato di individuarla) non è l'individualismo narcisistico o l'assenza di una cultura del limite, come sostiene Cavallaro: nessun movimento storico è stato forse meno individualista del Sessantotto; e nessuna esperienza storica è stata più pronta a recepire la cultura del limite, elaborata dai teorici dell'ambientalismo in aperta contrapposizione con la logica dello «sviluppo delle forze produttive» a ogni costo, che accomuna invece Cavallaro ai più tetragoni economisti borghesi. A spianare la strada al passaggio dalla ricerca di una realizzazione personale all'interno di una prassi collettiva alla scelta - o all'obbligo - di cercare un'affermazione in una competizione darwiniana ha contribuito sicuramente l'insufficienza dei presidi culturali messi in campo dai movimenti del Sessantotto: cioè l'incapacità di sviluppare saperi pratici in grado di individuare dei punti di applicazione a quel desiderio di cambiare il mondo che ne costituiva l'afflato comune.

Oggi quei saperi in parte ci sono: per alcuni versi sono il frutto di un impegno pionieristico e a volte solitario di studiosi e organizzatori di buone pratiche che hanno perseguito con pertinacia una strada controcorrente; in parte sono il frutto di un'elaborazione collettiva di movimenti ed esperienze che nel corso degli anni più recenti hanno animato la scena sociale; senza peraltro alcun riscontro a livello di establishment, sia politico che culturale e mediatico e, meno che mai, economico. Per questo la prospettiva di un'alternativa può ritrovare le gambe su cui marciare e il desiderio di un mondo diverso - che il servilismo non ha soffocato, soprattutto in persone che il limite lo vivono ogni ora della loro vita nella condizione della precarietà - può tornare a orientare un agire condiviso.

Nel suo mezzo secolo di vita l´Europa ha cercato di diventare un modello di nuova cittadinanza. Teorici e giuristi hanno parlato addirittura di un nuovo paradigma di libertà politica capace di dissociare la cittadinanza dall´appartenza nazionale, una rivoluzione non meno radicale di quella del 1789. Ma messo alla prova del flusso di migranti, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, le diplomazie bilaterali prendono il sopravvento, le frontiere tornano a chiudersi, le scaramucce di certificati e rimpatri si susseguono. Di fronte agli sbarchi dei profughi del mondo, l´Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza. E forse, la recentissima decisione della Corte di Giustizia della Ue di bocciare la norma italiana che prevede il reato di clandestinità va letta come un invito dell´Europa dei diritti all´Europa della politica di rivedere la sua strategia sull´immigrazione.

Ma a dispetto di ciò che l´Europa vuole o non vuole, in un modo o nell´altro i migranti sono ormai parte della sua identità, di quello che è e sarà. Sono il banco di prova del mito europeo e della civiltà democratica. Soprattutto i migranti senza-Stato (stateless), un fenomeno globale relativo a persone senza una nazionalità comprovata. Per ragioni diverse: o perché lo Stato dal quale provengono ha cessato di esistere a causa di guerre civili, o perché chi scappa ha dovuto tenere segreta l´identità per non subire repressione a causa della propria fede religiosa. Nel ventesimo secolo, la pulizia etnica venne realizzata riducendo ebrei e membri di alcune minoranze nazionali europee allo stato di non-cittadini nei paesi dove erano nati, con l´esito ben noto di poterli così deportare ed eliminare in massa. Senza Stato ovvero alla mercé del potente di turno.

Nel 1954 le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione sugli stateless tesa a prevenire che persone fossero o restasse senza uno Stato. Nel 1961 molti paesi, tra i quali il nostro, hanno sottoscritto la convenzione impegnandosi a garantire la nazionalità a persone apolidi nate nel loro territorio. La guerra in Iraq e in Afghanistan, le guerre civili nell´Africa sub-sahariana, le rivoluzioni anti-autoritarie nei paesi arabi hanno comportato un aumento prevedibile dei migranti, rifugiati che scappano la fame e la violenza, che chiedono asilo. Migliaia di uomini, donne e bambini, per piccoli scaglioni o uno ad uno, a piedi o con mezzi di fortuna pagati a prezzi di strozzinaggio, sono da anni in movimento, scappando spesso dalle guerre che i paesi verso i quali vanno sono impegnati a combattere. Un fatto di grande interesse è che tra questa umanitá di senza-Stato sembra configurarsi una nuova identità politica, nata negli interstizi della legge: di quella oppressiva degli stati di provenienza e di quella che incontrano negli stati d´approdo, dove sono dichiarati subito illegali. Senza-Stato e senza legge: è in questa identità paranomica che sta prendendo forma una nuova espressione di identità politica, di cittadinanza senza-Stato, ovvero non come appartenenza istituzionalizzata ma come azione di auto-determinazione alla libertà; cittadinanza come forma di democrazia nascente in quanto denuncia radicale di una condizione di assoluto assoggettamento, di rivendicazione non di diritti umani semplicemente, ma di diritti civili e politici.

I migranti hanno per convenzioni internazionali i diritti umani fondamentali: diritto al soccorso umanitario e medico. Vita minima: questo significa avere diritti umani. Come ha scritto Hannah Arendt in pagine esemplari, ai migranti non è riconosciuto uno spazio legale-politico, ma solo uno spazio naturale; non è riconosciuto il diritto di organizzarsi ma solo di sopravvivere. Chi fa parte della categoria umana semplicemente è caduto nella natura, se così si può dire, fuori della famiglia delle nazioni e dello stato. Persone senza protezione da parte di un governo, nate nella «razza sbagliata», perseguitate non perché hanno fatto qualcosa ma perché sono ciò che sono. La non esistenza legale –poiché senza documenti – costringe i migranti a farsi politicamente attivi fuori della legge.

Ancora da Arendt: il paradosso per gli umani protetti dai diritti umani è che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione. Violando le leggi si guadagnano l´ingresso nel sistema della legge e acquistano diritti civili – quello alla difesa nei processi o a un trattamento che esclude violenza e tortura – che da ‘liberi´ non avrebbero, perché non-cittadini. La novità di questi ultimi anni, a partire dalla rivolta in Grecia nel dicembre 2008, è che i migranti hanno mostrato di voler usare anche una lingua politica, di volere esercitare una qualche forma di cittadinanza, mettendo in pratica quello che il mito europeo ha predicato soltanto. È successo a Rosarno all´inizio del 2010, quando i lavoratori africani stagionali si sono organizzati per reagire alla loro semi-schiavitù. è successo recentemente in Australia, dove in un campo di detenzione più di trecento migranti hanno deciso di fare lo sciopero della fame per parlare con persone autorizzate del governo Australiano e ottenere di non essere rimpatriati in Afghanistan, da dove erano scappati; hanno chiesto interlocutori con autorità di trattativa, proprio come facciamo noi cittadini quando vogliamo fare sentire la nostra voce. Ma a noi quella voce è concessa dalla costituzione. A loro è negata, nonostante i diritti umani. In questi casi recenti, pur nella differenza delle circostanze, i migranti hanno manifestato una chiara auto-proclamazione di soggettività politica, un passo importante perché un´ammissione esplicita che i diritti umani non danno il potere di contrastare ciò che dallo stato di rifugiati è lecito aspettarsi, ovvero il rimpatrio. Non essere rimpatriati è una richiesta che proviene dall´avere non i diritti umani semplicemente, ma una voce politica.

Ma quale cittadinanza è possibile fuori dallo spazio statale? L´ordine giuridico, anche quello europeo che pure ha l´ambizione di essere sovranazionale, non contempla un´identità politica al di fuori dello Stato. Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini, e così facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita). È questa l´importante novità che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell´Europa poiché indubbiamente le esigenze ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto che riconosca una dignità di cittadinanza ai migranti, come capacità riconsciuta di proporre e contestare, di trattare e avere una rappresentanza, al di là e indipendentemente dall´appartenenza ad un corpo politico. Partire da una lettura non pregiudiziale di queste esperienze è la condizione minima per cercare di trovare soluzioni giuridiche e politiche che diano dignità ai migranti e nello stesso tempo facciano avanzare l´idea di una comunità politica europea che non sia solo un mito.

In nessun paese la piaga del servilismo è prospera come da noi. Grazie anche ai comportamenti di questo governo e alla cultura che passa attraverso dei media sempre più asserviti È il trionfo della sistematica rinuncia alla propria dignità. Ma la voglia di affermarla torna a farsi strada nelle lotte che animano la scena sociale

La piaga che affligge il paese è il servilismo. Non è una piaga esclusivamente nostrana; è diffusa in tutto il mondo, e per ragioni strutturali che poco hanno a che fare con i "valori" propugnati da chi lo pratica. Ma in nessun paese è così pervasiva, consolidata e ostentata come da noi. Non è un fenomeno esclusivo del nostro tempo; è vecchio come il mondo. Gli antichi Greci disprezzavano gli schiavi - prigionieri catturati in guerra o comprati e venduti - perché avevano preferito servire invece di morire. Il feudalesimo - un regime da non rimpiangere, per molti versi riproposto da alcuni tratti della nostra epoca - era fondato su un patto personale che implicava l'asservimento a tutti i livelli gerarchici. Ma quella fedeltà era regolata da un codice che impegnava tanto il signore che il vassallo. Oggi invece il servilismo è "nomade": si offre di volta in volta a seconda delle convenienze: la compravendita di deputati con cui l'Italia si governa e fa mostra di sé al resto del mondo ne è una delle manifestazioni più esplicite.

Ciò che caratterizza il servilismo del nostro tempo e del nostro paese è l'essere il meccanismo operativo della competitività: cioè di quella guerra di tutti contro tutti, per affermarsi a spese degli altri, che è la riproposizione - nei rapporti interpersonali, nei meccanismi di promozione sociale, negli avanzamenti in carriera, nella selezione delle classi dirigenti - della concorrenza tra imprese. Un meccanismo che costituisce il fondamento (indiscusso quanto sistematicamente disatteso) di quel "pensiero unico" che ha improntato di sé la nostra epoca fin nei più reconditi e inesplorati recessi del nostro pensiero; anche quando siamo convinti di esserne immuni.

Il servilismo è la ricerca di un'affermazione personale - anche minima, anche irrisoria; solo a volte ben remunerata - a spese della propria autonomia. Cioè, non in base a quello che siamo, o ci sforziamo di essere, o abbiamo acquisito col tempo e a fatica; bensì rinunciando a tutte queste cose; mettendoci "a disposizione" del padrone di turno. Pronti non a sviluppare un nuovo modo di pensare - benvenga!- ma solo a passare a un diverso padrone, che ci dirà lui che cosa possiamo e dobbiamo "pensare". Il servilismo è la rinuncia sistematica e volontaria alla propria dignità.

Al servilismo è strettamente legato il razzismo, anch'esso dispiegato, feroce e ostentato in tutte le sue sfaccettature oggi più mai. Il razzismo è la rivendicazione di un rango, anche infimo, legato alla nascita, al proprio territorio, alla propria lingua, alle proprie abitudini, alla propria appartenenza a un "corpo sociale": un simulacro di una "dignità" affidata a una dimensione fantastica proprio da chi si sente schiacciato e perdente in un contesto dominato dalla competizione; costretto a "farsi servo" per cercare di conservare il proprio status. Il razzismo alligna sempre, in qualche forma sopita, dentro ciascuno di noi, ma si sviluppa - ce lo ha mostrato Zigmund Bauman fin dai tempi di Modernità e Olocausto - solo quando è fomentato e coltivato dall'alto, come compensazione delle frustrazioni di un'esistenza precaria.

Ma che cosa ha reso il servilismo così prospero e diffuso nel nostro paese? Che cosa ci ha portato a cadere così in basso? Certamente, qui più che altrove, c'è stata una carenza di difese immunitarie; un deficit di presidi culturali (in senso antropologico e non elitario) che ha travolto tutta la società come una valanga che si ingrossa rotolando. Si tratta di un processo sicuramente promosso dall'alto: dai comportamenti di questo governo, dalla cultura che esprime attraverso mass media sempre più asserviti; da meccanismi di selezione di ministri, deputati, governatori, consiglieri, dirigenti politici, manager, banchieri, giornalisti e direttori di media e istituzioni, ai quali non sono stati e non sono certo estranei partiti, forze e culture della vera o presunta opposizione.

Ma quei presidi sono affondati, o - auspicabilmente - hanno imboccato un percorso carsico, anche per un processo che nasce "dal basso"; per responsabilità di molti di noi. Perché la rivendicazione della propria dignità, che quarant'anni fa aveva caratterizzato un intero decennio di lotte, di maturazione, di orgoglio di sentirsi protagonisti, di "presa di parola" da parte di persone che non l'avevano mai avuta, è stata per anni associata agli esiti fallimentari di quella stagione di cui molti di noi portano la responsabilità: un fardello che nessuno, o quasi, dei protagonisti di allora si è sentito di caricare sulle proprie spalle; o lo ha fatto in sordina, lasciando a pochi, e non certo ai più attrezzati, l'onere di rivendicare il carattere "formidabile" di quegli anni.

La dignità, la ricerca e la conquista di una propria autonomia personale all'interno di un processo condiviso, azzerando le disparità e le gerarchie che ne ostacolano la realizzazione, è il grande contenuto che aveva accomunato le rivolte studentesche del '68 contro l'autoritarismo nelle scuole, nell'università, nelle istituzioni e nella società, con l'insubordinazione e la presa di parola degli operai nelle fabbriche, contro le discriminazioni, le gerarchie e i meccanismi di imposizione del servilismo propri dell'organizzazione - allora "fordista" - del lavoro. Un contenuto che si era andato via via diffondendo in tutti i gangli della società: carceri, magistratura, esercito, polizia, quartieri, redazioni; per spianare poi la strada al femminismo degli anni '70, che in qualche modo aveva coronato, e anche concluso, quel processo.

Ed à proprio quel contenuto di fondo - premessa di ogni altra rivendicazione sostanziale, o di ogni progetto condiviso di trasformazione dei rapporti personali e sociali - quello che, a quarant'anni di distanza, i vari detrattori del "sessantotto" (ultimo in ordine di tempo, dopo Tremonti, Brunetta, Gelmini, Giovanardi & Co, si è ora aggiunto il ministro Sacconi) non riescono ancora e non riusciranno mai a capire; perché è del tutto estraneo al loro modo di vivere e pensare; e, per dirla tutta, al modo in cui hanno fatto carriera. Ma è anche un contenuto che molti di noi, se sufficientemente anziani, hanno dimenticato, o fatto o lasciato dimenticare; e, se più giovani, non hanno mai o quasi mai avuto l'occasione di sperimentare all'interno di un processo condiviso.

Oggi la voglia di affermare la propria dignità, la legittimità dei propri desideri, delle proprie aspirazioni, dei propri sforzi, ritorna con forza a farsi strada all'interno di molti dei processi di lotta o di resistenza che animano la scena sociale: e non solo da noi, ma anche, e molto di più, in paesi vicini da cui da troppo tempo avevamo colpevolmente distolto lo sguardo. In tutti i casi - i movimenti nostrani come le rivolte di altri popoli - si tratta di un fenomeno che va salutato con rispetto e accolto con gioia.

Si discute molto in questi mesi, soprattutto a proposito delle nuove generazioni, di una "scomparsa del desiderio" legata alla dissoluzione della figura del padre e del senso del limite che essa impone. Chi ha avuto occasione per motivi professionali di osservare da vicino questo fenomeno è certo attrezzato a parlarne con cognizione di causa. Ma visto dall'esterno, e con diversità lessicali in cui si rispecchiano approcci tra loro distanti, l'impressione che si ricava da questo dibattito è quella di una distorsione ottica. Più che prodotto dalla ricerca di un godimento illimitato indotta dal consumismo, la "scomparsa del desiderio" sembra manifestarsi, per lo più, come uno stato di depressione provocato da un mondo senza sbocchi diversi dal servilismo. È difficile, infatti, desiderare di farsi servi; anche se molti lo fanno: soprattutto per mettersi in grado di poter a loro volta asservire altri. Ma nella rivendicazione della dignità che torna a fare capolino come evento dirompente nei movimenti di questo periodo c'è la potenzialità di una reazione e di una "cura" della depressione. propria di un mondo senza sbocchi.

«Il manifesto? Ci scrivevo perché mi era simpatico Pintor. Oggi rappresenta una forma di resistenza nel tracollo generale della sinistra. Volete un consiglio? Diventate un settimanale quotidiano» Parla lo scrittore che nel 1971 si firmava Dedalus. «Berlusconi è un abile, geniale piazzista, ha capito gli umori del mercato e la natura profonda degli italiani, che non si sono mai identificati con lo Stato»

Raccontami come è cominciata, già il 28 aprile del 1971, la tua collaborazione al manifesto.

La mia prima risposta è molto banale: è venuto Pintor a casa mia e me l'ha chiesto e poiché era tanto simpatico gli ho detto di sì. Ma c'era un'altra ragione. C'era una situazione tipica di una certa sinistra di allora, anche di quella di antiche origini cattoliche come la mia, che non riusciva a identificarsi col Partito comunista italiano. Specie noi della cosiddetta neoavanguardia del Gruppo 63, se eravamo certamente orientati a sinistra, stavamo per così dire sulle scatole alla cultura ufficiale del Pci, ancora guttusiana, pratoliniana, con la sua idea di intellettuale organico che non era compatibile, tanto per fare un esempio, con gli eretici come Vittorini, diffidente verso tante nuove tendenze culturali emergenti, quasi sempre bollate come trucchi insidiosi del neocapitalismo. Una volta il buon Mario Spinella mi chiese di scrivere un lungo articolo su Rinascita per indicare quali erano i problemi che una cultura di sinistra doveva affrontare. Io scrissi di sociologia delle comunicazioni di massa e dello strutturalismo: fui coperto di feci dall'intellighentia del Pci. Mi viene da citare l'attacco dell'allora marxista Massimo Pini, poi finito in An, e un personaggio francese che scrisse «ma cosa diavolo racconta questo Umberto Eco: da un punto di vista marxista lo strutturalismo è inaccettabile». Questo signore si chiamava Althusser e due anni dopo avrebbe tentato il suo celebre connubio tra marxismo e strutturalismo. C'era un clima molto difficile per chi volesse essere di sinistra, senza stare con il Pci. All'epoca l'unica alternativa possibile era con il giro di Lelio Basso e con il manifesto: l'unico modo di essere di sinistra senza venire irreggimentati nel Pci, anche se non era più quello togliattiano che accusava di decadentismo Visconti perché aveva girato Senso ma che tuttavia erano ancora accolte con diffidenza. Tanto per fare un esempio, nel 1962 Vittorini pubblicava il Menabò numero 5, quello dedicato a industria e letteratura, ma proponendo un nuovo modo di intendere l'espressione «letteratura e industria», focalizzando l'attenzione critica non sul tema industriale ma sulle nuove tendenze stilistiche in un mondo dominato dalla tecnologia. Era un coraggioso passaggio dal neorealismo (dove valevano i contenuti più che lo stile) a una ricerca sullo stile dei tempi nuovi, ed ecco che dopo un mio lungo saggio Sul modo di formare come impegno sulla realtà apparivano prove narrative molto 'sperimentali' di Edoardo Sanguineti, Nanni Filippini e Furio Colombo. Perciò accettai la proposta di Pintor; ma poiché avevo un contratto per la terza pagina del Corriere della sera non potevo mettere la stessa firma su due quotidiani e scelsi di firmare Dedalus.

Dedalus, una firma di grande prestigio, nel segno di Joyce.

Mi sono divertito come un pazzo a scrivere i pezzi di Dedalus. Ricordo che un po' di anni dopo Fanfani mi incontrò, agitando la mano e facendo, garbatamente, finta di volermi picchiare. La ragione? Qualche tempo prima sul manifesto avevo scritto: «L'onorevole Fanfani, passeggiando nervosamente sotto il letto...». Altra polemica con Montanelli quando, attaccando la Cederna, aveva scritto che «annusa l'afrore degli anarchici sotto le ascelle». Scrissi: «una volta i polemisti portavano la penna all'altezza del cuore; tu, Indro, sei sceso molto più in basso». Poi Montanelli mi mandò un suo libro con la dedica: «In memoria di un colpo basso». Era un uomo di spirito.

Ma in questi quarant'anni ci sono stati grossi cambiamenti. Quali?

Sono stati totali. Il crollo del muro di Berlino, la fine delle ideologie e, di seguito, la fine dei partiti e anche la crisi del manifesto che non ha più nessuno con cui confrontarsi alla sua sinistra.

Vuoi dire che quando facevamo polemica con il Pci avevamo un ascolto e adesso che il Pci non c'è più chi ci sente?

Il cambiamento è stato enorme. Alla fine della seconda guerra mondiale i partiti governavano. In Italia la Dc, il Pci e gli altri ancora. Con la crisi delle ideologie i partiti si sono dissolti in Italia come in Francia, ma paesi come la Francia, appunto, si sono salvati perché lì c'è uno stato, mentre in Italia lo stato è debolissimo. E quindi in Italia siamo senza governo, nelle mani di una anarchia o di minoranze paracriminali, non perché uccidono gente per strada, ma perché sono fuori da ogni legalità. Ma, tornando indietro, ricordo che un'altra ragione della mia collaborazione al manifesto stava nella polemica contro i gruppuscoli, che erano per l'astensionismo. Per quante simpatie si potessero avere con il cosiddetto movimento, la rinuncia al voto era inaccettabile. Ricordo che mi chiesero di dirigere Lotta continua: cercavano qualcuno che avesse in tasca la tessera dell'ordine dei giornalisti, disposto ad andare in galera. Risposi di no, perché collaboravo con il manifesto, e non potevo tenere il piede in due staffe. Il manifesto era ovviamente legato al clima del movimento, ma apparteneva pur sempre a una sinistra parlamentare. Certo il manifesto sembra aver perduto la sua funzione storica, come il Pci e tutti i gruppi di sinistra. Direi che non siete più un partito ma resistete ancora in questo generale tracollo come una coscienza culturale.

Io lo vorrei ancora.

Bisogna pensarci, nell'attuale carenza di proposte positive, nell'assenza della sinistra: tutto è possibile e tutto è più difficile. Discutevo ieri della bizzarra proposta del colpo di stato di Asor Rosa. Il problema non è cacciare Berlusconi con un colpo di stato, contro il 75 per cento degli italiani, al quale in fondo le cose vanno bene così.

Il 75%, esageri proprio.

Non dico quelli che votano direttamente Pdl, ma quella maggioranza naturalmente berlusconiana che non vuole pagare le tasse, ha voglia di andare a 150 chilometri all'ora sulle autostrade, vuole evitare carabinieri e giudici, trova giustissimo che uno se può se la spassi con Ruby, trova naturale che un deputato vada dove meglio gli conviene. Questa è la moralità dominante. Berlusconi è un abile e geniale piazzista, che ha capito la sostanza e gli umori dell'attuale mercato politico.

Mi torna in mente il famoso errore di Benedetto Croce, secondo il quale Mussolini era caduto dal cielo e non partorito da noi italiani.

Berlusconi è stato partorito dall'Italia di oggi e ha capito la natura profonda del nostro popolo che non si è mai identificato con lo Stato, che si è sempre massacrato nello scontro tra città e città. Non a caso abbiamo tra i nostri pensatori un Guicciardini. Quindi anche se domani facessi un colpo di stato (che in ogni caso è sempre una cosa cattiva - non ho mai visto colpi di stato «buoni») non cambieresti gli umori del paese. Per cambiarli ci vorrebbe un'azione più profonda, di persuasione ed educazione, e di vere proposte alternative. Ed ecco che tornerebbe buona, se ci fosse, la politica. Però mi pare che la presa di posizione polemica di Asor Rosa nasca dal sentimento (e dalla frustrazione) che il colpo di stato strisciante è già in atto (ma dalla parte opposta) con l'umiliazione del parlamento, la sua riduzione a un manipolo di yes-men, la delegittimazione della magistratura e quindi la distruzione dell'equilibrio dei poteri, l'occupazione progressiva di tutti i centri della comunicazione. Scrivevo negli anni Sessanta che ormai per fare un colpo di stato non era necessario muovere i carri armati: bastava occupare le televisioni. Lo si sapeva già negli anni Sessanta.

E la differenza tra apocalittici e integrati? Ti ricordi?

È una distinzione molto vecchia, del 1964, superata. Allora c'era una netta divisione tra i critici del sistema delle comunicazioni di massa (pensa a Adorno) e quelli che si identificavano con il nuovo sistema della comunicazione. Questa divisione si è enormemente modificata, pensa alla Pop art, un'arte d'avanguardia che si abbevera alla comunicazione di massa.

La Pop art? Spiegati meglio.

La Pop art ha usato i fumetti, e non per criticarli (come sarebbe accaduto agli apocalittici del decennio precedente). Quindi, ha fatto provocazione d'élite basandosi su materiali una volta considerati bassi. Oppure pensa ai Beatles che - come ha poi intuito Cathy Berberian - potevano essere ricantati come se fossero la musica di Purcell che in qualche modo li aveva ispirati. Musica di intrattenimento, ma coltissima. Pensa a Benigni: fa parte della cultura di massa o della cultura d'élite? Non hai risposta: riesce a fare passare Dante davanti a ventimila persone e cammina come un clown. Ai tempi di apocalittici e integrati non sarebbe potuto accadere. Pensa anche al romanzo poliziesco che ancora negli anni Cinquanta era roba da vendere nelle edicole, leggere e buttare, e oggi Camilleri fa romanzi accessibili alle grandi masse, ma mediante una forte sperimentazione linguistica.

Visto che ci siamo: confini tra cultura altra e cultura bassa?

Le differenze sono infinite e difficili da identificare. È quasi come in politica: potrebbe essere un gioco di società trovare personaggi di destra all'interno del Pd e di sinistra (ma è impossibile trovarne) all'interno del Pdl.

Quelli di sinistra è proprio difficile trovarli.

Sì, perché anche la nozione di sinistra si è disfatta. Qualcuno, non ricordo chi, ha scritto che la sinistra ufficiale sta facendo l'unica politica conservatrice possibile: difesa della Costituzione, difesa della magistratura, e così via. Difesa anche dei carabinieri, pensa tu se ce lo avessero detto al tempo del Piano Solo.

Ma dall'altra parte c'è di peggio.

Certo: c'è l'attacco alle istituzioni e dunque è naturale che a sinistra si diventi conservatori. I tempi cambiano, vuoi mica che ancora oggi esista la differenza tra cavouriani e mazziniani? La polizia di Scelba manganellava i lavoratori e quella di oggi cerca di salvare i neri dai naufragi.

Gli apocalittici cosa sono diventati?

Gli apocalittici, pian piano, son diventati meno rigidi nel loro rifiuto. Pensa solo a come è andata con il fumetto, che era una delle cose più popolari, diretto a persone di cultura bassa. Poi, proprio noi intellettuali lo abbiamo riscoperto e ne abbiamo fatto un mito. Erano le letture della nostra infanzia, ma anche l'unico modo nel quale abbiamo potuto capire qualcosa dell'America. Ormai il fumetto è diventato una forma di cultura alta, perfino difficile da leggere. Certo i bambini leggono ancora Topolino che resta, più o meno, come una volta. Ma tutte le nuove forme... il fumetto cartonato che si vende nelle librerie, certe volte faccio fatica a leggerlo tanto è raffinato. Quindi quelli che una volta erano i mezzi di massa, contro cui si scagliavano gli apocalittici, oggi possono essere interpretati solo da gente che ha letto Joyce.

Carta stampata e Internet. Un duello aperto.

Sono stufo di sentirmi rivolgere questa domanda. Due anni fa ho pubblicato un libro con Jean-Claude Carrière, Non sperate di sbarazzarvi dei libri. Ovviamente sono un utente di Internet, ho ben otto computer nelle varie case dove capito, ma difendo i diritti e il futuro del libro per una ragione semplicissima: abbiamo la prova scientifica che un libro può durare 550 anni. Prendi un incunabolo, lo apri, sembra stampato ieri e ti permette persino la previsione che forse, se lo lasci in un ambiente poco umido, può durare altri 500-1000 anni. Non abbiamo nessuna prova scientifica che un dischetto, una chiavetta possano durare più di dieci anni, non tanto perché si possono smagnetizzare, ma perché nel frattempo sarà cambiato il tipo di computer. I computer di oggi non leggono più i dischetti di quindici anni fa. Certo, per me è una grande comodità viaggiare con una chiavetta che contiene tutta la mia biblioteca, però l'unica garanzia del fatto che l'informazione si conservi sta ancora nel libro cartaceo. Detto questo, Internet è una cosa utilissima, pensa a cosa sta cambiando nell'Africa del nord: senza Internet non sarebbe successo niente.

Il manifesto attraversa una nuova crisi. Tu, dicevi, perché ha perduto la sponda del Pci. Ma non è più solo per questo.

Innanzitutto c'è una generale crisi politica. Poi sono in crisi tutti i quotidiani. I giovani non comprano più i quotidiani, preferiscono leggere il giornale gratuito che si prende alla stazione. È un fenomeno generale: se è in crisi anche il Corriere della Sera, che può pagare centinaia di inviati speciali in tutto il mondo, come può non essere in crisi il manifesto? Se è vero che i giovani sono più attenti ai contenuti culturali, l'unica possibilità del manifesto è quella di settimanalizzarsi, non nel senso di diventare settimanale ma in quello di fare continuamente azione di approfondimento. Ha poco senso che il manifesto esca oggi dicendo quel che è accaduto ieri, perché lo ha già detto la televisione. Insomma, ripeto: un quotidiano di approfondimento. A modo suo Il foglio lo è. Quindi il manifesto dovrebbe essere sempre più un quotidiano di commento, di proposte. È l'unica possibilità di sopravvivenza. Ripeto una mia vecchia polemica: il quotidiano di 64 pagine non mi dà più nessuna notizia perché non faccio in tempo a leggerlo. Nel 1990 mi trovavo nelle isole Fiji dove usciva - lo davano gratis negli hotel - il Fiji Journal, che aveva otto pagine di cui sei di pubblicità, due di notizie locali e una pagina di brevissime notizie. Con quella pagina il Fiji Journal mi ha tenuto perfettamente informato su quanto accadeva in Italia e nel mondo. Allora, o tu diventi il Fiji, quattro pagine al giorno a 20 centesimi, oppure fai 10-12 pagine di approfondimenti, discussioni critiche, polemiche. Non ce la fai a emulare il Corriere della Sera o Repubblica dando più notizie di loro, piuttosto fai una critica dei loro articoli.

Torneresti a collaborare al manifesto?

Non riesco più a tener testa a tutte le cose che devo fare e da quando sono andato in pensione lavoro tre volte tanto. Comunque, lasciami passare l'estate.

La mancanza di una coscienza critica danneggia anche l’attività economica - L’invettiva, tanto cara ai media, non consente di formarsi un’opinione - Solamente una formazione filosofica e storica può creare buoni cittadini - La pensatrice americana interviene in favore dell’educazione umanistica

Dove va oggi l’istruzione? Non si tratta di una domanda da poco. Una democrazia si regge o cade grazie al suo popolo e al suo atteggiamento mentale e l’istruzione è ciò che crea quell’atteggiamento mentale. Malgrado ciò, assistiamo a cambiamenti radicali nella pedagogia e nei programmi scolastici, sia nelle scuole che nelle università, cambiamenti sui quali non si è riflettuto a sufficienza.

La maggior parte dei Paesi moderni, ansiosi di crescere economicamente, hanno cominciato a pensare all’istruzione in termini grettamente strumentali, come ad una serie di utili competenze capaci di produrre un vantaggio a breve termine per l’industria. Ciò che nel fermento competitivo è stato perso di vista è il futuro dell’autogoverno democratico.

Come Socrate sapeva molti secoli fa, la democrazia è «un cavallo nobile ma indolente». Per tenerla sveglia occorre un pensiero vigile. Ciò significa che i cittadini devono coltivare la capacità per la quale Socrate diede la vita: quella di criticare la tradizione e l’autorità, di continuare ad analizzare se stessi e gli altri, di non accettare discorsi o proposte senza averli sottoposti al vaglio del proprio ragionamento.

Oggi la ricerca psicologica conferma la diagnosi di Socrate: la gente ha la preoccupante tendenza a sottomettersi all’autorità e alle pressioni sociali. La democrazia non può sopravvivere se non poniamo un limite a questi pericolosi atteggiamenti, coltivando l’attitudine a pensare in modo curioso e critico. Fin dal tempo in cui Socrate esortava gli ateniesi a non «vivere una vita senza indagine», sono soprattutto gli studi umanistici, e in particolare la filosofia, a permettere di coltivare tali capacità.

Coltivare l’argomentazione di Socrate favorisce inoltre un sano rapporto tra i cittadini nel momento in cui essi discutono di importanti questioni all’ordine del giorno. I mezzi di comunicazione moderni amano le frasi lapidarie e la sostituzione di un’autentica discussione con l’invettiva. Ciò crea una cultura politica degradata.

In un corso di filosofia, invece, gli studenti imparano a sviscerare l’argomentazione dell’avversario e a chiedere quali sono gli assunti sui quali essa si basa. Nel fare ciò, spesso gli studenti scoprono che le due parti, in realtà, hanno molto in comune e sorge in loro la curiosità di vedere in cosa realmente essi divergono, anziché considerare la discussione politica semplicemente un mezzo per segnare punti a favore della propria squadra e di umiliare l’avversario. La filosofia contribuisce così a creare uno spazio realmente deliberativo e questo è ciò di cui abbiamo bisogno, se vogliamo risolvere gli enormi problemi che affliggono tutte le democrazie moderne.

Ai cittadini occorre anche la conoscenza della storia, i fondamentali delle principali religioni e del modo in cui funziona l’economia globale. Ancora una volta, gli studi umanistici sono essenziali a questo sforzo di comprensione globale: lo studio della storia del mondo e delle principali religioni, lo studio comparato della cultura e la comprensione di almeno una lingua straniera, sono tutti elementi essenziali nel favorire una sana discussione circa i pressanti problemi del mondo. Inoltre, questo insegnamento storico deve includere un elemento socratico: gli studenti devono imparare a valutare l’evidenza, a pensare da soli sui diversi modo in cui essa può essere collocata e messa in atto nella realtà attuale. Perciò, per realizzare un’idea soddisfacente di cittadinanza globale, abbiamo bisogno anche della filosofia. Infine, i cittadini devono essere in grado di immaginare come appare il mondo agli occhi di coloro che si trovano in una situazione diversa dalla loro. Gli elettori che prendono in esame una proposta che interessa gruppi diversi (razziali, religiosi, ecc.) all’interno della loro società, devono essere in grado di immaginare le conseguenze che tali proposte hanno sulla vita delle persone reali e ciò richiede un’immaginazione coltivata. In che modo si coltiva l’immaginazione? Tutti noi veniamo al mondo muniti di una rudimentale capacità di positional thinking, di pensare dal punto di vista degli altri, ma tale capacità, solitamente, opera in un ambito limitato, nella sfera familiare, e richiede un ampliamento e un perfezionamento intenzionali. Questo significa che abbiamo bisogno della letteratura e dell’arte, attraverso le quali raffiniamo quello che il grande romanziere afro-americano Ralph Ellison definiva il nostro "occhio interiore", imparare a vedere coloro che sono diversi da noi non soltanto come un minaccioso "altro" ma come esseri umani totalmente eguali, con aspirazioni e obiettivi propri.

Ciononostante, in tutto il mondo, gli studi umanistici, l’arte e persino la storia vengono eliminati per lasciare spazio a competenze che producono profitti, che mirano a vantaggi a breve termine. Quando ciò avviene, le stesse attività economiche ne risentono, perché una sana cultura economica ha bisogno di creatività e di pensiero critico, come autorevoli economisti hanno sottolineato. Di recente, la Cina e Singapore, Paesi che certamente non hanno a cuore lo stato di salute della democrazia, vedendone l’importanza ai fini dell’innovazione e della creazione di un ambiente di lavoro non corrotto, hanno attuato vaste riforme dell’istruzione, tali da conferire maggiore centralità agli studi umanistici e all’arte, sia nei programmi scolastici che in quelli universitari. Dunque, nel lungo termine, la contrazione dell’istruzione in realtà nuoce al benessere economico.

Anche laddove ciò non accade, gli studi umanistici e l’arte sono essenziali per il genere di governo democratico che le nazioni hanno scelto e per il tipo di società che esse desiderano essere. Dobbiamo opporci con forza ai tagli agli studi umanistici, sia nell’istruzione scolastica che in quella superiore, affermando con fermezza che tali discipline apportano elementi senza i quali le democrazie moderne, come quella ateniese prima di Socrate, sarebbero ancora una volta dominate da una mentalità gregaria e dalla deferenza verso i capi carismatici. Questo sarebbe uno scenario terribile per il nostro futuro.

(Traduzione di Antonella Cesarini)

Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno Anticipazione dell’intervento che Zagrebelsky terrà giovedì 14 alla Biennale Democrazia

Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l’economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.

Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un’attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l’unica che dia un senso, un significato d’insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.

La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all’altro, all’altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell’"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d’una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l’economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d’altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l’economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.

Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un’epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d’interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L’influenza sul pubblico è poi assicurata dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.

La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all’omologazione vi sono, riguardano il folklore o l’arte d’avanguardia; l’uno a benefizio dei molto semplici, l’altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.

Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d’appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.

Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.

Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l’orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d’identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.

Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l’etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l’elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall’identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L’arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l’onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.

Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell’esaltazione del potere personificato, che è l’esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d’unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d’ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.

Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano sempre più i contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato, ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto 25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl

A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3) non possono essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le assicurazioni private negano la loro protezione - come nel caso dell’energia nucleare e della tecnologia genetica - viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo "razionale" si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale.

Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana, ma dal terremoto e dallo tsunami.

La categoria di "catastrofe naturale" segnala che essa non è stata causata dagli uomini e quindi la sua responsabilità non può essere attribuita agli uomini. Ma questo è il punto di vista di un secolo passato. Questo concetto è sbagliato già per il fatto che la natura non conosce catastrofi ma, semmai, drammatici processi di trasformazione. Questi cambiamenti, come uno tsunami o un terremoto, diventano catastrofi solo nell’orizzonte di riferimento della civiltà umana. La decisione di costruire centrali nucleari in zone a rischio sismico non è affatto un evento naturale, ma una scelta politica, che deve anche essere giustificata a livello politico di fronte alle pretese di sicurezza dei cittadini e deve essere attuata contro le opposizioni.

La risposta ai rischi moderni è l’idea dell’assicurazione come "tecnologia morale" (François Ewald). Non è più accettabile che ci si affidi alla divina provvidenza e si subiscano passivamente i colpi del destino. Il nostro rapporto con la natura, con il mondo e con Dio cambia in modo tale che diventiamo responsabili della nostra sventura, ma in linea di principio disponiamo dei mezzi per compensare le conseguenze da noi stessi innescate. Si tratta comunque del mito della "vita assicurata", che a partire dal 18° secolo ha trionfato in ogni ambito.

In effetti siamo riusciti a ottenere il consenso sui precedenti rischi dell’era industriale legandoli a una sorta di "prevenzione a posteriori" (vigili del fuoco, assicurazioni, assistenza psicologica e medica, ecc.). Lo shock che ha colpito la gente di fronte alle spaventose immagini provenienti dal Giappone consiste anche nel ridestarsi della consapevolezza che non c’è istituzione, né reale, né immaginabile, preparata al super-Gau, il "massimo incidente ipotizzabile in una centrale nucleare", e capace di garantire l’ordine sociale e le condizioni culturali e politiche anche nel caso di questo disastro dei disastri. Invece, ci sono molti attori specializzati nell’unica opzione che appare possibile: la negazione dei pericoli. Infatti, al posto della sicurezza offerta dalla prevenzione a posteriori subentra il tabù della impossibilità di errore. Ogni Paese - in particolare, naturalmente, la Francia, e l’esperto atomico Sarkozy lo sa bene - ha le centrali nucleari più sicure del mondo! Custodi del tabù diventano la scienza e l’economia dell’energia nucleare, colte in flagrante proprio dagli eventi catastrofici che hanno attirato sui loro errori i riflettori dell’opinione pubblica mondiale. Nel 1986 Franz-Joseph Strauß dichiarò che solo i reattori nucleari "comunisti" possono esplodere. Egli tentava così di circoscrivere eventi come Chernobyl, in base all’assunto che l’Occidente capitalistico superevoluto dispone di centrali nucleari sicure. Ora però siamo alle prese con l’avaria in Giappone, che viene considerato il Paese meglio attrezzato del mondo, quello dotato della tecnologia più sofisticata per garantire la sicurezza. La finzione per la quale in Occidente si può dormire tranquilli è svanita.

Che in Giappone le rimanenti speranze poggino proprio sull’intervento delle "forze di autodifesa" chiamate a sostituire con elicotteri antincendio gli impianti di raffreddamento in avaria, è qualcosa di più di un’ironia. Hiroshima fu terribile, l’orrore puro e semplice. Ma in quel caso fu il nemico a colpire. Cosa accade se un fatto così spaventoso avviene all’interno del sistema produttivo della società - non in un ambito militare? In questo caso, coloro che minacciano la nazione sono proprio i garanti del diritto, dell’ordine e della razionalità, della democrazia stessa. Quale politica industriale sarebbe più possibile se fosse negata anche la residua speranza del "vento" e Tokyo fosse contaminata? Quale crisi della tecnologia, della democrazia, della ragione, della società?

Molti deplorano che le impressionanti immagini provenienti dal Giappone incutano paure sbagliate e diano impulso ad una "pseudo-scienza" della compassione. In questo modo, però, essi disconoscono e sottovalutano ingenuamente la dinamica politica insita nel potenziale di autodistruzione del trionfante capitalismo industriale. Infatti, molti pericoli - un esempio da manuale: le radiazioni atomiche - sono invisibili, sfuggono alla percezione ordinaria. Ciò significa che la distruzione e la protesta son mediate simbolicamente. Solo constatando l’impercepibilità di molti pericoli grazie alle immagini televisive il cittadino culturalmente accecato può tornare a "vedere".

La questione di un soggetto rivoluzionario capace di rovesciare i rapporti di definizione della politica del rischio cade nel vuoto. Non sono - o non sono soltanto - i movimenti antinucleari, l’opinione pubblica critica, ecc. a poter dar luogo a un’inversione nella politica atomica. In ultima analisi, il contropotere rispetto all’energia nucleare non sono i manifestanti che bloccano il trasporto del materiale radioattivo. L’avversario più irriducibile dell’energia nucleare è… l’energia nucleare stessa!

Nelle immagini delle catastrofi categoricamente escluse dai manager si dissolve il mito della sicurezza. Quando ci si rende conto e si ha la prova che i custodi della razionalità e dell’ordine legalizzano e normalizzano i pericoli per la vita, si scatena il pandemonio nel milieu della sicurezza burocraticamente promessa. Perciò, non è sbagliato affermare che all’interrogativo sul soggetto politico della società di classe corrisponde l’interrogativo su questa "riflessività politica" nella società del rischio.

Tuttavia, sarebbe un errore trarre da ciò la conclusione che si sia aperta una nuova fase di illuminismo, beneficamente offertaci dalla storia. Al contrario, a qualcuno la prospettiva qui tracciata potrebbe suggerire il paragone con il tentativo di praticare un foro nello scafo di una nave per far uscire l’acqua del mare penetrata al suo interno.

Un aspetto problematico per chi considera Internet il paradigma del bene comune globale è dovuto al fatto che per suo tramite si è affermata ancor più profondamente l’egemonia del modello americano. Questa egemonia non preoccupa come problema di lingua. Sebbene l’inglese domini Internet, il pluralismo linguistico della Rete è oggi sotto gli occhi di tutti. Né preoccupa come problema culturale, derivante dall’individualismo e dalla competitività estrema che caratterizzano da sempre l’ideologia statunitense, collocandola tradizionalmente come antagonista di tutto quanto sia comune (la radice di communism e commons sono le stesse). Il vero problema di questa pratica egemonica sta nella governance di Internet che si presenta come profondamente antitetica rispetto a quel modello dell’«accesso» che dovrebbe caratterizzare il governo dei beni comuni (a questo propostio, vedere «il manifesto » del 2 Marzo).

Nonostante queste cautele non possiamo esimerci, nel percorrere i primi passi di un cammino volto all’elaborazione di strutture giuridiche nuove per il governo dei beni comuni, dall’affrontare i paralleli fra il mondo della Rete, che potremmo descrivere come una «nuovo mondo» virtuale, «scoperto » quasi esattamente mezzo millennio dopo la «scoperta» dell’ America. Profondi furono gli sconvolgimenti prodotti dai viaggi di Colombo, fino al punto che le immense possibilità di saccheggio che ne derivarono produssero l’accumulaziuone originaria e la nascita della modernità. Oggi è proprio internet a presentarsi come il fattore scatenante della trasformazione cognitiva del capitalismo globale, sicché forte è la tentazione di osservare un ricorso storico.

Fuorvianti analogie

Occorre però cautela nel tracciare affascinanti paragoni. La questione della traducibilità istituzionale dal mondo del materiale tangibile a quello dell’immateriale (e viceversa) non è infatti banale. Per risolverla i giuristi hanno dato vita ad un ambito disciplinare problematico autonomo, noto come diritto della proprietà intellettuale (talvolta come diritto industriale) frequentato da cultori diversi da coloro che si confrontano con i problemi della proprietà tangibile, in particolare di quella fondiaria. In effetti, al di là dei suggestivi paralleli teorici, per cui tanto la proprietà privata delle idee quanto quella di un terreno sarebbero caratterizzate dagli stessi aspetti di «esclusione » di chi non sia autorizzato dal titolare rispettivamente ad accedervi o a farne uso, le analogie sembrano fermarsi ad un livello di astrazione inadatto alla pratica del diritto.

Sebbene anche in ambito fondiario il processo di mercificazione abbia ottenuto i suoi effetti, la terra resta una risorsa strutturalmente limitata, non riproducibile e tendenzialmente unica. Questo aspetto fondamentale non è vero per i marchi, brevetti o diritti d’autore, i tre ambiti che rientrano nella nozione di proprietà intellettuale. Di fronte a risorse che in natura non sono limitate (e anche nel caso di quelle che, come l’acqua, si riproducono ciclicamente) il diritto di proprietà privata svolge la funzione di renderle artificialmente scarse (a fine di trarne profitto). Per quelle che sono viceversa limitate e già scarse la proprietà privata, regolandone l’accesso, potrebbe tutt’al più limitarne il consumo, almeno stando all’insegnamento (assai poco convincente) della tragedia dei comuni.

Non solo. Se è vero che occorrono sempre recinzioni per far nascere un mercato, quelle necessarie per l’informazione e la conoscenza (risorse strutturalmente illimitate) devono essere particolarmente pervasive. Infatti, il potenziale acquirente di un’informazione difficilmente potrà sapere il valore che essa avrà per lui senza prima conoscerla. Ovviamene il potenziale venditore non sarà disposto a far conoscere l’informazione prima di venderla, perché questo equivarrebbe a regalarla. Di qui i problemi particolarissimi che sorgono nell’utilizzare la logica della proprietà privata in materia di informazione e la particolare virulenza che i grandi latifondisti intellettuali (case discografiche e editrici, big pharma, proprietari dei grandi logo) utilizzano per difendere i propri recinti.

Questi problemi in realtà derivano dal fatto che informazioni e conoscenza crescono quantitativamente e qualitativamente con la condivisione (perché hanno natura di beni comuni relazionali) ma la condivisione non genera profitti (basta considerare Wikipedia che è sul lastrico). Proprio in materia di proprietà intellettuale si riproduce così, non a caso in modo particolarmente visibile nella presente fase del capitalismo cognitivo, quel legame indissolubile fra proprietà privata e apparati repressivi dello Stato (e oggi anche della globalizzazione si pensi agli accordi Trips dell’Organizzazione mondiale del commercio) che sempre si accompagna alle enclosures.

Ideologia della repressione

Queste osservazioni, che balzano agli occhi sol che si guardino le cose ponendo al centro la loro natura fenomenologica (terra, conoscenza) e non il loro regime giuridico (proprietà privata, brevetto), sono offuscate dagli ingenti investimenti che i grandi latifondisti intellettuali compiono nella costruzione di apparati ideologici loro favorevoli. Poiché in una società che condivide e mette in comune le proprie conoscenze, riconoscendo che queste sono sempre il prodotto di un determinato contesto sociale, copiare è un comportamento del tutto naturale. Per scoraggiare questi comportamenti sono necessari apparati repressivi che utilizzino anche l’ideologia come strumento di inibizione. Apparati che puntano a distruggere il comune a favore del privato. Così, nelle Università degli Stati Uniti i compiti scolastici vengono valutati comparativamente su una «curva» in cui soltanto alcuni possono ricevere un voto alto, creando un meccanismo di mors tua vita mea che distrugge la cooperazione attraverso la competizione: se faccio copiare l’amico danneggio me stesso. Similmente le maestre cercano di convincere le bambine più secchione che «non è giusto» aiutare i maschietti meno bravi incentivando in loro comportamenti da mostriciattoli egoisti (con la conseguenza che poi, escludendo, restano escluse).

Allo stesso modo i molti cultori-cantori della proprietà intellettuale, raccolti presso dipartimenti riccamente finanziati dalle corporation latifondiste intellettuali, diranno che la proprietà intellettuale «stimola l’innovazione e la creatività», utilizzando esattamente la stessa retorica che i fisiocrati (XVIII secolo) usavano nel celebrare le recinzioni, ossia che senza proprietà privata non c’è incentivo alla coltivazione e al lavoro.

Non è questa la sede per soffermarsi sulla discutibilità storica di quelle affermazioni di fronte all’uso comune della terra. Bisogna invece qui enfatizzare il risultato completamente controfattuale di queste affermazioni nel caso di risorse come la conoscenza che non sono scarse ma hanno viceversa natura collettiva e relazionale. Privatizzare l’informazione ne limita di fatto la diffusione, e limitarne la diffusione non può che rendere più difficile l’ulteriore innovazione.

Dovrebbe dunque essere evidente che il governo più coerente alla fenomenologia dei beni comuni si deve fondare su istituzioni capaci di coinvolgere coloro che sono disinteressati all’accumulo di proprietà privata e di potere politico ma che invece sono gratificati proprio dalla cura del comune. Istituzioni cooperative, fondazioni, associazioni, consorzi fra enti locali, comitati, insomma gruppi che pongano in essere autentiche dinamiche democratiche più o meno informali e conflittuali prive di fine di lucro costituiscono gli assetti istituzionali più adatti a governare i beni comuni. In simili ambiti la creatività fiorisce nella condivisione dei problemi sociali e non si trasforma in un mero esercizio narcisistico dell’individuo.

Individualisti e narcisisti

Tutto ciò colloca Internet, il grande common globale che tanti indicano come il modello per la gestione dei beni comuni, in una luce ai miei occhi tetra. La Rete, lungi dall’unire, in realtà mi pare divida, individualizzi ed illuda, sollecitando falsa comunità e vero narcisismo. Oggi ci si mandano mail da un ufficio all’altro e la comunicazione scade e si impoverisce. I caffè dei campus americani sono affollati di studenti, ognuno sul proprio computer, che non si guardano e non si parlano, ma che sono collegati via Facebook magari con qualcuno dall’altra parte del mondo o in un caffè poco lontano. La politica è tuttavia «fisicità» se vuole avere qualsiasi chance di emancipazione.

E i beni comuni si possono difendere e governare davvero soltanto con la fisicità di un movimento sociale disposto a battersi lungamente e generosamente per riprendere i propri spazi. Non sarà mai un solo giorno di piazza convocato via Facebook a fermare una guerra, a cacciare un tiranno o a scongiurare un saccheggio di beni comuni.

SCAFFALE

Piccola biblioteca attorno al «comune» e la Rete: «Il Saccheggio. Regime di Legalità e Trasformazioni Globali» di Ugo Mattei e Laura Nader (Bruno Mondadori); «L’acqua e i beni comuni raccontati a ragazze e ragazzi» di Ugo Mattei (Manifestolibri, con Illustrazioni di Luca Paulesu); «Il sapere come bene comune. Accesso alla conoscenza e logica di mercato » di Stefano Rodotà (Notizie Editrice); «Comune» di Toni Negri e Michael Hardt (Rizzoli); «Cultura Libera» (Apogeo) e «Il futuro delle idee» (Feltrinelli) di Lawrence Lessig; «I padroni di Internet. L’illusione di un mondo senza confini» di Jack Goldsmith e Tim Wu (Rgb Media); «La nascita delle società in Rete» (Università Bocconi Editore) e «Galassia Internet» (Feltrinelli) di Manuel Castells.

La tendenza ad applicare a Internet le norme che regolano la proprietà privata produce solo confusione. La conoscenza e le informazioni non sono infatti risorse scarse come la terra ma illimitate, perché crescono ogni volta che si condividono

CI SONO momenti così, nella storia degli uomini: dove si reagisce con l'emozione oltre che con la razionalità, perché l'emozione sveglia, incita a stare all'erta. Già in Eschilo, la passione e il patire sono fonti d'apprendimento. È il caso del Giappone da quando, venerdì, lo tsunami s'è aggiunto al terremoto e non solo ha spazzato case, vite, villaggi, ma ha causato l'esplosione di quattro reattori nucleari a Fukushima.

All'orrore spuntato dal sottosuolo e dal mare s'aggiunge ora una pioggia radioattiva che spinge chi abita presso le centrali a fuggire o barricarsi in casa. Ci sono momenti in cui si apre una fessura nel mondo, e non solo in quello fisico ma in quello mentale, sicché occorre ricorrere ai più diversi espedienti: all'intelligenza razionale, alla discussione pubblica, ma anche alla paura, questa passione giudicata troppo triste per servire da rimedio.

Non a caso, quando sollecita la responsabilità per il futuro della terra, il filosofo Hans Jonas parla di paura euristica: non la paura che paralizza l'azione o è usata dai dittatori, ma quella che cerca di capire, di scoprire (questo significa euristica ). Che è generatrice di curiosità, prevede il male con apprensione, fa domande, sprona a rettificare quanto pensato e fatto sinora. Jonas evoca addirittura il dovere della paura: «Diventa necessario il "fiuto" di un'euristica della paura che non si limiti a scoprire e raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto il particolare interesse etico che ne risulta»( Il principio di responsabilità, Einaudi '90).

Alla luce del principio di responsabilità appaiono completamente inani i governi - come l'italiano, il francese - che screditano questa paura, e in tal modo negano la gravità del momento e l'urgenza di correggere i piani nucleari.

Obama e Angela Merkel dicono ben altro: «Non si può fare come se nulla fosse». Non così il ministro dell'energia Eric Besson, o il ministro per lo sviluppo economico Paolo Romani.

Per Besson nulla cambia, neanche le centrali invecchiate come quelle giapponesi: nella conferenza stampa di sabato ha evitato il termine «catastrofe», preferendo il meno allarmante «incidente grave». Stesso atteggiamento in Romani, che ha invitato l'altro ieri a «non farsi prendere dalla paura», senza sapere di che parlava. Non sono i soli: anche i governanti giapponesi hanno a lungo minimizzato, prendendo per buone le assicurazioni dei gestori delle centrali (Tepco, Tokyo Electric Power Corporation). La stessa Tepco che più volte è stata indagata (specie nel 2002-3) per il non rispetto delle norme anti-sismiche.

Apocalisse è vocabolo che s'espande come un virus, dall'inizio del cataclisma. Ma apocalisse è altra cosa, ha legami con la religione: è rivelazione di un piano divino, è l'omega che si ricongiunge all'alfa, è il cerchio terrestre che chiudendosi si schiude all'oltrevita. I colpiti sono innocenti, ma per qualche motivo Dio vuole che la storia terrestre s'esaurisca così, stroncando il libero arbitrio d'ognuno. Per questo conviene dismettere questa parola molto scabrosa, che sigilla gli occhi a quel che accade qui, ora; in terra, in mare. Eventi simili non sono la fine del mondo, pur preludendo forse a essa. Sono piuttosto la fine di un mondo: di certezze, di assiomi cocciutamente coltivati.

In Giappone, per vie misteriose, suscitano ricordi funesti, che hanno radici profondissime nella sua cultura recente. Il collasso delle centrali nucleari rimanda al trauma mai sopito di Hiroshima e Nagasaki, quando Washington diede a Tokyo questa lezione di inaudita violenza. La terra che ti squassa, la solitudine dell'uomo in tanto scompiglio, la natura maligna, la morte nucleare che incombe: nelle teste nipponiche è incubo magari dissimulato ma è sempre lì, in agguato. Lo dicono i volti che ci fissano in queste ore: impietriti, più che impassibili. Lo vediamo nei corpi che d'un tratto s'immobilizzano, come morissero in piedi.

Non è vero che i giapponesi hanno paure più calme, controllate delle nostre. Il loro urlo non è quello di Munch ma è pur sempre urlo. Sappiamo dalla Bibbia quanto possa esser afono l'agnello, e il grido del Giappone è colmo di interrogativi atterriti: perché le autorità hanno permesso che centrali vecchie quarant'anni sopravvivessero? Perché non hanno previsto che anche dal mare poteva venire il mostro? Perché sono così evasive? Perché proprio Tokyo, che ha già vissuto la sventurae se la porta dentro come assillo, s'è fidata della tecnologia, nonè corsa in tempo ai ripari? Ci sono grandi disastri che hanno quest'effetto: di sconvolgere non solo le vite ma vasti castelli di teorie filosofiche ritenute sicure. L'Europa ha conosciuto ore analoghe: accadde nel terremoto di Lisbona, l'1 novembre 1755, e tutte le teorie si scardinarono. Anche quella fu fenditura d' un mondo: fondato sull'euforia tecnologica, sull'ottimismo, religioso o no.

La modernità iniziava, e già inciampava. Ventidue anni prima, Alexander Pope aveva scritto un poema intitolato Saggio sull'Uomo. Il verso ricorrente era: «What ever is, is right»: tutto quel che esiste è bene. Ma ecco che si apre la crepa di Lisbona, sulla liscia pelle del pensare positivo. Voltaire, Kleist, Kant sono turbati e scoprono che non è più possibile consolarsi con Pope e le teodicee di Leibniz. Non è più possibile dire a se stessi, come Pangloss nel Candide di Voltaire: avanziamo «nel migliore dei mondi possibili».

Cadde anche l'illusione, cara alle chiese, sul dolore salvifico: non esiste una felix culpa, ma un male che ti prende di sorpresa, ingiusto. In presenza del disastro o del crimine sono più opportuni la sapienza di Kleist, le ricerche di Kant sulle origini dei terremoti (Kant è il primo a scoprire la «rabbia del mare»), lo sguardo di Voltaire: «Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Occorre confessarlo: il male è sulla terra». Ansioso di conforto, Rousseau scrisse incongruenze, in una lettera a Voltaire del 1756: «Non sempre una morte prematura è un male reale (...). Di tanti uomini schiacciati sotto le rovine di Lisbona, parecchi senza dubbio hanno evitato disgrazie più grandi, e (...) non è detto che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, seguendo il corso naturale delle cose, avesse dovuto attendere in lunghe angosce la morte che lo ha colto invece di sorpresa».

Ma anch'egli pone domande che solo l'emozione accende: non è stata edificata male Lisbona, con le sue case alte 6-7 piani? Non è l'uomo il colpevole, più della natura? Candide soffre il terremoto e conclude: «Bisogna coltivare (meglio) il proprio giardino», dunque la terra, perché questo tocca all'uomo. All'uomo descritto da Kant dopo il 1755: «legno storto», «mai più grande dell'uomo». Il Giappone non ha alle spalle i settecenteschi ottimismi europei. Dopo Hiroshima si è risollevato con non poche rimozioni, ma con traumi indelebili. Cinema e letteratura narrano questi traumi, e una paura niente affatto calma. Su queste ramificazioni del pessimismo s'è rovesciato lo tsunami, e Jonas aiuta più di Voltaire. I giapponesi sapevano già che «il male è sulla terra», e quel che può soccorrerli è la paura che scoperchia, che scopre. La stessa paura che affiora da decenni, sotto forma di fantasmi, nel suo cinema, nella sua letteratura. In questi giorni guardi la tv, e sembra di vedere la città su cui s'abbatte l'indicibile cataclisma raccontato nel film Kairo, di Kiyoshi Kurosawa: strade e autobus vuoti, fughe verso il nulla, e in cielo, a distanza ravvicinata, un immenso aereoavvoltoio (nell'Apocalisse griderebbe: «guai! guai!») che vola verso lo schianto.

Rivedere Kairo fa capire lo squasso mentale nipponico e anche il nostro. Il Giappone ha dietro di sé un'epoca che è stata chiamata Decennio perduto, fra il 1991 e il 2000, e s'è poi prolungata in Decenni perduti. Il film di Kurosawa risale a quegli anni (2001) e non è cinema dell'orrore ma - all'ombra dello tsunami - visione iperrealistica. Kairo vuol dire circuito: ma è un cerchio senza alfa e omega. Il fenomeno narrato da Kurosawa è quello di intere generazioni che si barricano in casa fino a divenire ombre davanti ai computer (le statistiche parlano di almeno un milione di drop-out). Il fenomeno si chiama Hikikomori: è un ritrarsi, confinarsi nella solitudine. Nasce da insicurezze esasperate dalla crisi, dal futuro amputato. Sulle pareti delle case, nel film, si stagliano informi ombre color carbone. Gridano «Aiutami!», nel momento in cui i giovani morenti lasciano in eredità quest'effigie di sé.

È la silhouette annerita dell'uomo accanto alla scala che apparve impressa su un muro di Hiroshima nel '45. L'incubo si stende sull'uomo, spaventandolo incessantemente. Viene da lontano, va lontano. Solo spaventandoci unisce il passato al presente; e ci tiene svegli, forse.

Rompendo i confini

di Ida Dominijanni

Ci hanno messo pochissimo, le donne egiziane, a realizzare quanto sia abile il potere maschile a ricomporsi dopo le rotture rivoluzionarie. Loro sono state protagoniste decisive della lotta di piazza Tahrir e di tutto ciò che l'ha preparata e fatta crescere, eppure, dicono adesso, il governo militare che s'è insediato al posto di Mubarak se n'è già dimenticato: per questo oggi celebreranno l'8 marzo tornando in piazza. Non si creda che sia un problema solo laddove i militari subentrano ai despoti, o dove, come in Iran dove pure domani sarà una giornata di lotta femminile, sono andate al potere rivoluzioni islamiche con un segno, e con delle legislazioni, esplicitamente patriarcali. Accade anche nelle democrazie occidentali, ed è precisamente quello che è accaduto nell'Italia democratica degli ultimi decenni, dove una estenuante e infinita «transizione» ha potuto compiere tutte le sue giravolte, di centrodestra e di centrosinistra, berlusconiane e antiberlusconiane, nella pervicace sottovalutazione e dimenticanza della rivoluzione femminista. La contro-rivoluzione tentata dal sultanato di Arcore, giova ricordarlo, è stata possibile grazie a questa più vasta e generalizzata rimozione: e non va imputata, com'è diventato vezzo diffuso anche nella stampa di sinistra, al fallimento del femminismo degli anni Settanta, peraltro tutt'ora vivo e vegeto, ma al fallimento della classe politica (maschile) dagli anni Ottanta in poi, nonché alla cecità dell'informazione mainstream. E non ci sarà solidarietà credibile e non sospetta di strumentalità con noi donne oggi che non passi per un'autocritica severa e sincera, della classe politica e dell'informazione.

Le rivoluzioni però, come diceva quel tale, scavano nel tempo e in profondità, e approfittano delle ironie della storia. Per un'ironia della storia, grazie alla contro-rivoluzione del sultanato la rivoluzione femminista, che non ha mai smesso di essere all'ordine del giorno, torna anche al centro della scena. E il laboratorio italiano, volente o nolente, torna all'avanguardia della battaglia epocale che si gioca sul fronte del rapporto fra i sessi. Dove non c'è più la vecchia questione femminile, ma una nuova questione maschile, della quale finalmente si fa strada, fra uomini, una qualche consapevolezza. Mentre fra donne si riallacciano fili generazionali e culturali, messi alla prova da un ventennio che ha cambiato l'antropologia del paese tentando di rifare del «femminile» il giocattolo plastificato di un immaginario colonizzato. Senza dimenticare il negativo che lo macchia oggi come cento anni fa - le operaie asfissiate del 1911, le ragazze massacrate di oggi come Sara e Yara - facciamo di questo 8 marzo davvero un giorno di festa. Più di rimessa al mondo della libertà che di difesa della dignità, più di lotta contro il lavoro disumanizzato che di rivendicazione di un lavoro paritario, più di rilancio del desiderio sequestrato che di censura del sesso esibito, più di sconfinamento in altri mondi che di ricostruzione dei profili della nazione. Se oggi il Cairo è più vicino di quanto non fosse cento anni fa New York, lo si deve anche se non in primo luogo alla rivoluzione femminile.

Tutti i nomi della scintilla

di Alessandro Portelli

Oggi vorrei parlare di Francesca Caputo. Aveva diciassette anni. Morì cento anni fa, in un giorno di marzo del 1911, asfissiata o bruciata, insieme con altre 145 donne, nell'incendio di una fabbrica, la Triangle Shirtwaist Factory, a New York, Stati Uniti d'America. Donna, operaia, immigrata - tre volte senza diritti. Anzi, quattro: era anche minorenne.

Vorrei parlare di lei, ma questo è tutto quello che so: il nome, l'età, dove lavorava, dove abitava (81, Degraw Street, Brooklyn), dove e quando è morta. Ma basta a commuovere e a fare rabbia, perché ci dà i contorni di una vita, e così ci ricorda una cosa elementare che però dimentichiamo spesso di fronte alle tragedie di massa. Quel 25 marzo a New York, come il 24 marzo 1944 a Roma, come in qualunque bombardamento in Afghanistan o in Libia, non è accaduta una strage, un massacro - ma: centoquarantasei omicidi sul lavoro, trecentotrentacinque esecuzioni a sangue freddo, una per una.

C'è una struggente canzone di Utah Phillips, il grande folksinger anarchico scomparso pochi anni fa, che racconta un'altra strage, ventisei lavoratori migranti sepolti senza nome in una fossa comune a Yuba City, California, negli anni '60: «se avessi una lista, se solo li sapessi, vi canterei i loro nomi uno per uno, e arrivato alla fine li ricanterei di nuovo». I rituali e i monumenti più efficaci e struggenti della nostra epoca - dalla commemorazione dell'11 settembre a quella delle Ardeatine, fino al monumento di Washington ai caduti americani del Vietnam sono infine nude liste di nomi.

I nomi delle vittime dell'incendio della Triangle Shirtwaist Factory li conosciamo, e adesso una lista li mette finalmente insieme, con le età, persino gli indirizzi. Con Francesca Caputo morirono Vincenza Billota, che di anni ne aveva 16; e Michelina Cordiano, che ne aveva 25 e abitava a Bleecker Street, in quel Greenwich Villae allora ghetto di immigrati e futuro quartiere degli artisti dove in altri tempi sarebbe andato ad abitare Bob Dylan; e Annie L'Abate, sedici anni anche lei - la stessa età di Tillie Kupferschmidt. Morirono con loro Daisy Lopez Fitze, Nettie Leibowitz, Bettina e Frances Maiale (18 e 21 anni), Caterina, Lucia e Anna Maltese (39, 20, 14 anni: madre e figlie?), Rosie Makowski, Sadie Nussbaum (18 anni anche lei), Providenza Panno, che ne aveva 43, e Antonietta Pasqualicchio, sedicenne; e Golda Schpunt, Jenie Stiglitz, Clotilde Terranova, Frieda Velakovski... C'era anche qualche uomo: Theodore Rotten, Israel Rosen (17 anni). Nomi di italiane, qualche nome ispanico (Loped, Del Castillo), soprattutto nomi ebraici, ben 102: il 1 marzo (centesimo anniversario secondo l calendario ebraico), nel cimitero di Staten Island, davanti a una tomba dove sono ammucchiati 22 dei loro corpi (4 uomini, 18 donne), poche decine di persone si sono radunate in una giornata di vento ad ascoltare dalla voce del Rabbi Shmuel Plafker intonare i loro nomi ebraici: Leah bas Leib (Lizzie Adler), Chaya bas Eli ben Zion (Ida Brodsky), Sarah bas Mordechai (Sarah Brodsky), Aidel bas Asher (Ada Brook), Masha bas Meir (Molly Gerstein), Rashka Mirel bas Reb Moishe Leib (Mary Goldstein), Dina bas Dovid (Diana Greenberg), Perel bas Tzvi (Pauline Horowitz), Rivkah bas Yosef (Becky Kappelman)...

Erano addette alla macchine da cucire, facevano un nuovo tipo di camicette, con la fila di bottoni sul davanti come quelle degli uomini, molto alla moda. Lizzie Adler era arrivata in America solo tre mesi prima, e aveva già cominciato a mandare soldi alla famiglia in Romania; Sara Brodsky avrebbe dovuto sosarsi fra un mese, e il fidanzato riconobbe i corpo dall'anello di fidanzamento che aveva ancora al dito. Venivano dagli shtetl dell'Europa orientale e dai paesi dell'Italia del Sud, italiane ed ebree: le grandi ondate migratorie a cavallo del ventesimo secolo, le donne di cui era fatta l'industria di New York,- la Ladies' Garment Workers Union, la Amalgamated Clothing Workers' Union, sindacati un tempo militanti in una New York proletaria, migrante, femminile - sindacati di donne diretti sempre da uomini... La tragedia della Triangle Shirtwaist Factory fu la scintilla di una campagna per la sicurezza sul lavoro: morendo, queste donne hanno salvato molte vite future.

Per decenni ci hanno raccontato la favola degli Stati Uniti come un paese senza classi e senza lotta di classe. Eppure le due ricorrenze che tutto il mondo ricorda - il 1 maggio e l'8 marzo - vengono tutte da lì, dalla piazza di Haymarket a Chicago nel 1886 dalla Triangle Shirtwaist Factory a New York nel 1911. Soprattutto, la più ispirata delle rivendicazioni - vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose - l'hanno inventata altre donne migranti, le operaie tessili di Lawrence, Massachusetts, nel 1912. In questi giorni, in cui la lotta di classe si fa sempre più feroce, sotto forma di offensiva padronale, da Pomigliano d'Arco a Madison, Wisconsin, sono le facce delle maestre di scuola e delle impiegate statali in prima fila nella grande protesta contro le leggi antisindacali del Wisconsin a dire che si può ancora resistere.

E ce n'è bisogno. Uno degli eventi di commemorazione del disastro del 1911 ha preso la fiorma di un cerchio di donne che si sono riunite per cucire insieme, e per ricordare le 25 donne uccise non più tardi del dicembre scorso un incendio a Dacca, in Bangladesh, in una fabbrica tessile che produce indumenti distribuiti da marche come Gap e J.C. Penney. A questo serve la memoria, a ricordare non solo il passato, ma soprattutto il presente.

E allora, per resistere e non dimenticare, leggiamo e ascoltiamo ancora: ... Annie Ciminello, Rosina Cirrito, Anna Cohen, Annie Colletti, Sarah Cooper, Michelina Cordiano, Bessie Dashefsky, Josie Del Castillo, Clara Dockman, Kalman Donick, Celia Eisenberg, Dora Evans, Rebecca Feibisch, Yetta Fichtenholtz...

La piazza dei desideri

di Cinzia Gubbini

In decine di città la mobilitazione del comitato «Se non ora quando» e dei coordinamenti femministi. Le donne parlano di dignità e autodeterminazione. E pensano a un paese libero e liberato

In tante, e tanti. La giornata internazionale delle donne in Italia parla soprattutto dalla piazza, con iniziative ampie, ampissime e anche con qualcuno che, invece, mette i punti giusti sulle «i».

Ci sarà anche il cotè istituzionale, con Giorgio Napolitano che stamattina al Quirinale ospiterà l'iniziativa «Centocinquanta anni: donne per un'Italia migliore». Dalla poltrona che più maschile non si può un omaggio all'unità d'Italia, tema dell'anno più bipartisan dell'altro - gettonatissimo invece nelle piazze - che è sesso e potere, forse anche a causa della presenza di due ministre, Maristella Gelmini, Istruzione, e Mara Carfagna, Pari Opportunità. Le donne del governo Berlusconi, d'altronde, si sono mobilitate per esorcizzare ogni possibile riferimento al sex-gate: «Alla piazza che parla di dignità delle donne vorrei dire che si tratta di un concetto né di destra né di sinistra», ha detto la ministra all'Ambiente Stefania Prestigiacomo, sottolineando che non ha senso alludere oggi alla vicenda di Ruby, trattandosi «come tutti hanno capito» di un vero e proprio «accanimento giudiziario».

Il riferimento di Prestigiacomo è, ovviamente, all'iniziativa più larga in programma per oggi in decine di piazze italiane. Il «Se non ora quando» che dopo l'oceanica manifestazione del 13 febbraio si dà di nuovo appuntamento «nel rispetto della trasversalità e dell'autonomia che vogliamo mantenere e rafforzare». Davvero tanti e diversi i punti d'incontro, da Roma a Milano, da Reggio Calabria a Sidney (dove si manifesterà davanti al consolato italiano). Con qualche elemento in comune per riconoscere il filo di ragionamento nato dalla reazione indignata alla rappresentazione dell'Italia in mano ai desideri del padrone. Un fiocco rosa «benaugurante nel 150esimo dell'Unità d'Italia per una rinascita del nostro paese» da appuntare ognuno dove vuole, e lo slogan «Rimettiamo al mondo l'Italia» allusione sia al tema della maternità - libera, consapevole e possibile - che alla possibilità pure per questo paese di «stare al mondo», solidale con gli altri popoli, ma anche in linea con i movimenti per la democrazia che hanno rivoluzionato il Maghreb.

A Roma l'appuntamento principale, a piazza Vittorio alle 16. Dal palco si susseguiranno diversi interventi e dalle 19 sarà possibile assistere al teatro Ambra Jovinelli allo spettacolo di Cristina Comencini «Libere».

Ma ci sarà anche l'iniziativa messa in piedi dal coordinamento «Indecorose e Libere» (www.riprendiamociconsultori.noblog.org) che dà appuntamento alle 18 a piazza Bocca della Verità per un corteo notturno che raggiungerà Campo De' Fiori. Con «voce impetuosa» le donne del coordinamento rivendicano «diritti, welfare e autodeterminazione», rifiutando quella «logica familista» che mette al centro la maternità per negare, di fatto, la libertà di scelte e relazioni. Un ragionamento, questo, che parte da più lontano e non vuole perdere il collegamento con altre grandi manifestazioni che hanno messo al centro i diritti delle donne, come quella del 2007 contro la violenza maschile. Violenza che, come testimoniano gli ultimi eventi di cronaca romani, non finisce di esistere e di essere strumentalizzata. Proprio ieri sera mentre il sidnaco Gianni Alemanno insieme alla presidente della regione Lazio Renata Polverini proiettava sul Colosseo illuminato i «dieci punti» per rendere la città «più sicura». «Zone rosse: case, chiese, caserme, carceri, cie», lo striscione calato da «Indecorose e libere». Mentre in un blitz contemporaneo al Pincio, dove si svolgeva il «Carnevale della capitale», è stato esposto lo striscione «If the girls are united they will never walk alone!». «Indecorose e Libere» dà appuntamento anche a Milano a piazza Cordusio alle 17,30 dove verrà cantato l'inno «Sorelle di Tania» (invece che d'Italia), componimento scherzoso ma non troppo che non manca di tirare qualche stilettata alle organizzatrici della manifestazione del 13 febbraio (http://consultoriautogestita.wordpress.com/).

Che sulla democrazia – come su ogni altra forma di governo – incomba il pericolo del disfacimento, è un dato d´esperienza che non può essere negato. Le forme di governo sono vitali se sono animate da un principio, un ressort, secondo l´espressione di Montesquieu. Il ressort della democrazia è la virtù repubblicana. Quando la molla è totalmente dispiegata e dunque non ha più forza da sprigionare, quello è il momento d´inizio della decadenza. La questione, gravida di conseguenze pratiche, è se l´esito finale del processo corruttivo sia o non sia inevitabile. Se non è evitabile, tanto vale rassegnarsi e, se mai, lavorare per il dopo. Se è evitabile, la democrazia come ideale politico non perde di valore, pur in presenza di difficoltà. Possiamo dire la stessa cosa prendendo a prestito l´espressione di Norberto Bobbio, "le promesse non mantenute della democrazia", e chiederci: queste promesse possono o non possono essere mantenute? (...) Che cosa possiamo rispondere a questa cruciale domanda? È necessario prendere atto di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l´odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l´oggetto e, spesso, le vittime.

Per secoli, democrazia è stata la parola d´ordine degli esclusi dal potere per contestare l´autocrazia dei potenti; ora sembra diventare l´ostentazione di questi ultimi per rivestire la propria supremazia. Presso i cittadini comuni, non c´è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C´è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più trasmettono ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C´è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Quando si sente esclamare con fastidio: "tanto sono tutti uguali" (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l´occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una "teatrocrazia", è stato detto. L´esito potrà essere l´astensione o l´adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un distacco. Lo scetticismo a-democratico dal basso fa da pendant alla retorica democratica dall´alto.

Il paradosso sopra segnalato si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue spoglie ideologiche si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un´efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. Basta consultare la storia. Essa ci dice che la democrazia, come parola, può contenere l´anti-democrazia, come sostanza. Anzi, oggi il potere antidemocratico ha bisogno di passare per la porta rassicurante della democrazia (...) Realisticamente o, come si dice, "sperimentalmente", dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere in poche mani, nelle mani di élites. Gli studi in proposito sono numerosi; le loro teorizzazioni presentano diverse varianti e le conclusioni cui pervengono non sono necessariamente in opposizione alle esigenze minime della democrazia. Ma le cose cambiano quando dalle élites si passa alle oligarchie, anzi a quella che è stata definita la "ferrea legge delle oligarchie": una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili, sia della democrazia sia delle stesse élites. Questa tendenza è denunciata concordemente dai critici della democrazia, i critici sia di destra che di sinistra. Il che è quanto dire che la denuncia è corale e che coloro che proclamano l´ideale del governo del popolo sono o degli ingenui o degli impostori. La "ferrea legge" si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l´uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, per ragioni strutturali ha bisogno di piccoli numeri, di gruppi di potere ristretti. Non basta. L´oligarchia non è però l´élite. L´oligarchia - si potrebbe dire così - è l´élite che si fa corpo separato ed espropria i grandi numeri a proprio vantaggio. Trasforma la res publica, in res privatae. Poiché, poi, questa è una patente contraddizione rispetto ai principi della democrazia, occorre che queste oligarchie siano occulte e che esse, a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così il regime dell´illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il "principio maggioritario", che è l´essenza della democrazia, si rovescia infatti nel "principio minoritario", che è l´essenza dell´autocrazia: un´autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un´autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che possono sostenersi solo su se stesse.

(...) Le oligarchie nascoste di cui stiamo parlando, per il sol fatto d´essere tali, tendono naturalmente, anzi necessariamente, all´illegalità e alla corruzione. Poiché le oligarchie del nostro tempo sono costruite e finalizzate all´accaparramento di ricchezza - sempre questo: pecunia regina mundi - il potere di cui si parla oggi è il potere illegale e corruttivo del denaro di cui si occultano il possesso e la gestione per poter corrompere ogni altro ambito della vita sociale. È una tendenza "naturale", per l´ovvia, antropologica legge del potere che già Montesquieu ha chiarito, nella sua crudezza: chi detiene il potere, se non incontra limiti, è portato ad abusarne. Le oligarchie del nostro tempo non incontrano altri limiti se non quelli rappresentati da altre oligarchie. Ma l´abuso come limite all´abuso è semplicemente una complicazione dell´abuso. È anche una tendenza "necessaria", perché i regimi dei pochi sono incompatibili con la legalità uguale per tutti. Le oligarchie hanno bisogno di privilegi, cioè di leggi che valgono solo per loro, diverse da quelle che valgono per tutti gli altri. O, quanto meno, hanno bisogno che le leggi generali e astratte siano interpretate e applicate a loro in modo tale da non contraddire l´esistenza dell´oligarchia stessa. Ciò che occorre loro è una "giustizia dei pari", diversa da quella comune; un "foro speciale" non di giudici imparziali, ma di giudici amici. "Un´aristocrazia - ha scritto Tocqueville, e noi potremmo senz´altro dire: un´oligarchia - non potrebbe lasciarsi sfuggire i suoi privilegi senza cessare d´essere una aristocrazia". La legalità uguale per tutti - lo si comprende senza spiegazioni - è incompatibile con la divisione della società in appartenenti ed esclusi dal potere oligarchico. Quando, alla fine, nel senso comune si sommano due percezioni: l´estraneità al potere e la sua illegalità e corruzione, ecco la miscela esplosiva che può indurre a chiedere che la si faccia finita con la democrazia, se essa, in concreto, significa queste cose.

Che dire, allora? La democrazia è destinata a trasformarsi in oligarchia; l´oligarchia è in se stessa disuguaglianza di fronte alla legge; l´illegalità e la corruzione sono la conseguenza. Allora, dunque, alla domanda se le promesse della democrazia siano tali da non poter essere mantenute, la risposta sembra che debba essere: sì, non possono essere mantenute. Si fondano le democrazie e si mette in moto un processo destinato alla rovina delle società. Fermiamoci un momento, però, prima di questo passo fatale, del quale, se lo facessimo leggermente, ci dovremmo presto pentire, perché, abbandonata la democrazia, avremmo solo autocrazie e le autocrazie non sono un rimedio, sono anzi l´accentuazione dei mali.

(...) Potremmo forse dire così: la democrazia non è - nel senso che non può essere - l´autogoverno del popolo che si afferma durevolmente. È invece la possibilità istituzionalizzata, dunque resa stabile secondo procedure riconosciute e accettate, di combattere e distruggere sempre di nuovo le oligarchie ch´essa stessa nutre dentro di sé. Una definizione in negativo, dunque: qualcosa che si qualifica per essere contro un´altra. Da questo punto di vista, la democrazia è tutt´altro che un ideale impossibile. È invece una possibilità, cioè una serie di strumenti che spetta a noi di utilizzare, per tradurre in pratica l´avversione alle oligarchie. Se gli strumenti esistono e non sono utilizzati, non si può dire che non c´è democrazia, ma si deve dire che la democrazia (come possibilità) c´è e ciò che manca è la pratica della democrazia. Allora, la responsabilità dello scacco non deve essere addossata alla democrazia come tale, ma deve essere assunta da noi, incapaci di utilizzare le possibilità ch´essa ci offre. Se cediamo all´accidia della democrazia, è perché prevale sulla libertà morale il richiamo del gregge e la tendenza gregaria, che sono il lato biologico profondo degli esseri umani che l´avvicinano agli altri esseri viventi, come ha messo in luce Sigmund Freud nel suo studio sulla psicologia delle masse. Ma il gregge è una possibilità, non un destino.

(....) Diciamo così, a costo di cadere nell´enfasi: la democrazia vuole potenti gli inermi e inermi i potenti; vuole forti i giusti e giusti i forti. È per questo che i suoi nemici mortali sono le concentrazioni oligarchiche del potere. Contro le concezioni ireniche della democrazia, non possiamo pensare ch´essa sia il regime che definitivamente pone fine ai conflitti, eliminandone le cause. Il suo tempo non è quello in cui tutto è pacificato. Non è il regno dell´armonia, della giustizia e della concordia. È illusione che sia il luogo ove "il lupo dimorerà con l´agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera" (Isaia, 11, 1-9). Questo sarà, se mai sarà, il tempo messianico. Finché ci sarà politica, ci saranno conflitto, ingiustizia e discordia. La questione non è come eliminarli, ma come affrontarli.

Questo testo è un brano tratto dall´introduzione di Zagrebelsky al volume "L´interesse dei pochi, le ragioni dei molti. Le letture della Biennale Democrazia", a cura di Pier Paolo Portinaro, che esce l´8 marzo per Einaudi. La prossima edizione della Biennale Democrazia sarà dal 13 al 17 aprile

Se l’istruzione per tutti diventa un bersaglio

di Stefano Rodotà

In pubblico, con toni veementi (esagitati?), il Presidente del Consiglio è andato all’attacco della scuola pubblica come luogo di cattivi maestri, dalla quale a buon diritto genitori liberi e pensosi vogliono tenere lontani i figli. Non è una novità. Per raccattare voti, Berlusconi non va mai troppo per il sottile. Ma una scuola allo stremo avrebbe meritato ben altra attenzione da parte del Presidente del Consiglio e della sua sempre fedele ministra dell’Istruzione (così ne avrebbe scritto Damon Runyon). Se una parola doveva venire, questa doveva essere di riconoscenza e rispetto per chi, in condizioni personali e ambientali sempre più difficili, svolge l’essenziale funzione della trasmissione del sapere e della formazione dei giovani. E anche di rispetto per gli studenti, ridotti nelle sue parole ad oggetti docilmente manipolabili, e che invece hanno mostrato di essere tutt’altro che inclini all’indottrinamento, di possedere sapere critico. Ma è proprio il sapere critico che inquieta, che turba il disegno di una scuola tutta e solo votata alla "formazione al settore produttivo"(queste le larghe vedute del Governo).

La scuola pubblica è un’altra cosa. Le sue ragioni sono oggi persino più forti di quelle che indussero i costituenti ad attribuirle valore fondativo, a costruirla come una istituzione affidata alle cure e agli obblighi della Repubblica, come ben risulta dalla severa lezione di diritto costituzionale impartita da Salvatore Settis all’inconsapevole ministra (Repubblica, 1° marzo). Le nostre società sono divenute più complesse, plurali nella loro composizione, attraversate da conflitti. Hanno per ciò bisogno di spazi pubblici dove le persone diverse possano incontrarsi, dialogare. Di fronte all’altro, infatti, non è più sufficiente la tolleranza. Oggi servono soprattutto riconoscimento, accettazione, inclusione. E per questo non bastano le buone parole, peraltro rare, i propositi virtuosi. Sono indispensabili istituzioni capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento.

Di queste istituzioni, di questi spazi aperti, la scuola pubblica è la prima e la più importante. Il mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di "appartenenza" – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati – e avvia un tempo in cui non è la libertà di ciascuno ad essere esaltata, ma nel quale il riconoscimento reciproco è sostituito dall’esasperazione della propria identità, il confronto dalla distanza dall’altro. Chiuso ciascuno nel proprio ghetto, tutti preparati a contrapporsi ferocemente l’un l’altro. Si rischia così una società nella quale nessuno è educato alla conoscenza degli altri, ma solo dei propri simili. Dove, dunque, il dialogo tra diversi diviene impossibile o superfluo, dove non solo la soglia della tolleranza si abbassa drammaticamente, ma si perde pure la possibilità di essere educati alla ricerca di dati comuni, che sono poi quelli che consentono di superare gli egoismi e di individuare interessi generali. Solo una scuola pubblica può trasformare la molteplicità in ricchezza.

Con espressione felice, Piero Calamandrei aveva parlato della scuola pubblica come "organo costituzionale". Proprio queste parole ci aiutano a cogliere un altro aspetto sconcertante dell’intervento del Presidente del Consiglio. Un organo costituzionale delegittima un altro organo costituzionale. Pure questa non è una novità. Non v’è più nulla nelle istituzioni che Berlusconi pensi che meriti d’essere rispettato, fuori di se stesso. Nel momento in cui la scuola viene indicata al disprezzo dei cittadini come luogo dove si "inculca" qualcosa, ecco costruita la premessa per giustificare il suo abbandono materiale, il taglio delle risorse, la mortificazione di chi lavora lì dentro – docenti e studenti. E, al tempo stesso, si dà nuovo fondamento al "dirottamento" dei fondi pubblici verso le scuole private.

Uso questa parola non per riaprire qui, come pure sarebbe doveroso, la questione della legittimità del finanziamento pubblico alla scuola privata, ma per porre un altro problema. Essendo indiscutibile l’obbligo dello Stato di istituire "scuole statali per tutti gli ordini e gradi" (art. 33 della Costituzione), nel momento in cui le risorse disponibili si riducono, quella chiarissima prescrizione costituzionale deve essere almeno intesa come criterio per la distribuzione delle risorse disponibili, sì che ai privati si dovrebbe arrivare solo dopo aver soddisfatto le esigenze del pubblico.

Si perde, altrimenti, proprio la qualità di organo costituzionale della scuola pubblica, il suo essere luogo di produzione della conoscenza, dunque di una delle precondizioni della stessa democrazia. Ma l’innegabile natura costituzionale della scuola pubblica, improponibile per una scuola privata che può esserci o non esserci, è specificata dal fatto che di essa la Costituzione parla subito dopo aver detto che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se l’attenzione, invece, è sempre più rivolta al "settore produttivo", si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro.

Per chi suona la campanella

di Marco Lodoli

La scuola pubblica vacilla sotto le bastonate del governo, sotto le radiazioni mortali delle televisioni e dei nuovi valori dominanti, disprezzata e vilipesa dal primo che passa e dal primo ministro. I professori sono piuttosto vecchi e giovani non ne arrivano, graverebbero troppo sul deficit; anche gli edifici spesso sono malridotti, sistemarli sarebbe un altro costo impossibile; i programmi spesso sono astrusi, frutto di tanti anni di astrattismi furibondi; i ragazzi sono confusi, a volte addirittura maleducati, imparano poco, pensano ad altro o a niente.

Eppure se vogliamo che l´Italia abbia un futuro, dobbiamo tenerci stretta questa scuola così malridotta e cominciare ad amarla di nuovo e di più, dobbiamo investire denaro e energie nell´unico laboratorio culturale che il paese possiede. Certo, ci sono le scuole private, e sono tante: ma vogliamo vederle un po´ più da vicino, vogliamo entrarci? Appena laureato ho lavorato alcuni anni in diplomifici preoccupati di una sola cosa: la retta mensile. Non c´era problema didattico o disciplinare che non potesse venir spianato da un assegno. Ricordo anche il volto attonito del gestore della mia prima scuola quando si rese conto che avevo rimandato in storia il rampollo di una nobile famiglia: «Ma quelli pagano, pagano! Lo capisci o no? Quelli ci mantengono a tutti quanti, anche a te che vuoi fare l´eroe! I soldi nella tua busta paga ce li mettono loro, è chiaro?». E gli studenti questo lo sanno benissimo, questi principi vengono loro inculcati – per usare un verbo alla moda – concordemente dai genitori e dalla scuola. Sanno di andare avanti spinti dal soffio di una mazzetta frusciante di banconote: do ut des, pagare moneta vedere cammello, tanto dal ministero non arriva nessuno a controllare.

L´educazione si snoda attorno a un solo comandamento: i ricchi se la cavano sempre, anche quelli decerebrati. Poi ci sono le scuole private d´elite, e anche queste stanno aumentando perché fanno promesse importanti. Qui non si tratta più di salvare i mentecatti, qui si tratta di preparare il club dei migliori. "Non conta la conoscenza, contano le conoscenze" questo è lo slogan implicito delle nuove scuole private, quelle con gli stemmi, i nomi inglesi, le divise stirate e inamidate. Qui ci si iscrive in una loggia che durerà nel tempo: ci si scambiano indirizzi, visite, week-end, sorelle e fratelli, qui si cementa la nuova classe dirigente. A volte c´è una spolveratina di cattolicesimo, zucchero a velo, ma di sicuro in nessun luogo al mondo le parole di Gesù valgono meno che qui: amore, fratellanza, carità sono solo carta da parati. Qui i cammelli passano in fila e al trotto nella cruna dell´ago. Le rette si aggirano attorno ai mille euro al mese proprio per fare selezione, per tenere fuori i miserabili. Quali valori sociali vengono inculcati nelle tenere menti dei vari Jacopo e Coralla? Non perdete tempo nella commiserazione, fate finta che tutto vada bene e andate avanti, il mondo vi aspetta!

Per tenere insieme la società c´è solo la scuola pubblica. È commovente vedere come i ragazzi italiani e i ragazzi che in Italia sono arrivati da lontano riescono a stare bene insieme, a capirsi, a spiegarsi, quanta solidarietà c´è tra tutti quanti, quanti discorsi crescono insieme e si intrecciano al futuro. Bisogna solo rendere la nostra scuola più bella, perché sia il fondamento di una società giusta: bisogna credere in questi ragazzi, proteggerli, farli crescere bene, anche se non hanno mille euro al mese da spendere.

Così è cresciuto il nostro paese

di Miriam Mafai

Alla fine, a ripensarci adesso, non fu poi così male la nostra scuola ai tempi della cosidetta Prima Repubblica, quando al ministero di Viale Trastevere, comandarono quasi senza interruzione dal 1946 al 1997 uomini della Dc, da Gonella a Gui a Misasi fino a Rosa Russo Iervolino. Qualche battaglia, e non delle meno importanti, è stata vinta. Non fu poi così male la nostra scuola negli anni della Prima Repubblica se, grazie all´impegno dei nostri maestri e delle nostre maestre, si riuscì ad abbattere il tasso di analfabetismo che nel 1951 in Italia era ancora del 14% (con punte del 25% in Puglia e Sicilia e del 32% in Calabria) e si riuscì moltiplicare il numero degli studenti della scuola media che nel 1951 non arrivavano, in tutta Italia, a un milione e venti anni dopo sfioravano i tre milioni.

Non sarà stato merito dei vari ministri democristiani, ma grazie all´impegno dei suoi insegnanti, la nostra scuola pur nelle dure condizioni di quei tempi ha accompagnato e promosso, forse senza programmarla, la crescita del nostro paese. Eravamo allora un paese in movimento, nel quale erano possibili sogni e speranze. Penso alle centinaia di migliaia di contadini meridionali semianalfabeti che, emigrati a Milano o Torino, indicati spregiativamente come "marocchini", sognavano per i propri figli un futuro da operai. Ed erano migliaia gli operai di Torino o Milano che sognavano per i propri figli un futuro da tecnico o da ingegnere. Solo sogni? No, non furono solo sogni: quello che chiamiamo "ascensore sociale" bene o male per un certo periodo ha funzionato, anche grazie all´impegno ed alla fatica dei nostri insegnanti.

Una spinta decisiva in questo senso venne dalla prima vera riforma della scuola che, ereditata dal precedente regime, prevedeva dopo i cinque anni di elementare due percorsi alternativi: da una parte una scuola media con il latino per i ragazzi (e le ragazze) che si ripromettevano di proseguire gli studi fino all´Università. Gli altri potevano, volendo, frequentare un avviamento professionale o, ancora meglio, dare una mano a bottega o nei campi. Va ascritto a merito del primo centrosinistra, presieduto da Amintore Fanfani, avere cancellato per sempre quello che era stato definito un "marchio dei poveri al bivio dei dieci anni" istituendo una scuola media unica obbligatoria per tutti fino ai 14 anni. E senza il latino. Aspramente discussa e contestata la riforma avrebbe aperto a ceti che ne erano stati fino a quel momento esclusi le porte dell´istruzione superiore, fino, eventualmente, all´Università. Al ministero di Viale Trastevere c´era sempre un democristiano, naturalmente. Era Luigi Gui, un veneto personalmente assai poco proclive alle riforme, ma il clima politico era cambiato e la riforma, fortemente voluta e quasi imposta dai socialisti e dal loro uomo di punta, Tristano Codignola, alla fine nel dicembre del 1962 sarà approvata. Qualcuno definì quella riforma un miracolo.

Poi, nel corso degli anni fu la volta di altri provvedimenti, più o meno ambiziosi e condivisi, destinati a suscitare dibattiti e proteste. Nel corso dei quali mi vien fatto di pensare che bisognerebbe ascoltare di più le voci di coloro che nella scuola lavorano, gli eredi di quei maestri e quelle maestre che ai tempi della Prima Repubblica sconfissero l´analfabetismo e avviarono quell´ascensore sociale di cui oggi sentiamo la mancanza.

Strane e nuove cose stanno accadendo nei paesi arabi. Strane e nuove anche per quel che dicono di noi, democrazie assestate ma incapaci di ricordare come nacquero, di chiedersi se ancora sono all’altezza delle promesse d’origine. Tutti i paesi europei sono sconvolti dai turbini nordafricani, ma è in Italia che lo sgomento s’accoppia a quest’inettitudine, radicale, di interrogare se stessi. È come se ci fossimo abituati, lungo gli anni, a pensare la democrazia in maniera monistica: come se il dominio, anche da noi, fosse di uno solo. Come se una fosse la fonte della sovranità: il popolo elettore. Una la legge: quella del capo. Una l’opinione, anche quando essa coincide con il parere di una parte soltanto (la maggioranza) della collettività. Monismo e pensiero unico cadono a pezzi oltre il Mediterraneo, ma da noi hanno messo radici e vantano trionfi. Tocqueville spiega bene, nei libri sulla Rivoluzione francese, le insidie delle prese della Bastiglia. Il Re fu sostituito da un potere solitario, illimitato, più efficace della Corona.

Quello del Popolo, uno e indivisibile. Un solo valore venne eretto a valore supremo, non negoziabile: quello della Ragione. L’Uno è il fulcro del pensiero monistico, e surrettiziamente ci addestra a pensare contro la democrazia. Fino a due non riusciamo a contare. La stabilità è l’idolo cui sacrifichiamo le primordiali aspirazioni democratiche. Forse è il motivo per cui i governanti europei, e gli italiani in sommo grado, faticano a capire i paesi arabi o l’Iran. Stentano a osservarli, a parlarne: non ne hanno il vocabolario, pur essendo i padri dei dizionari democratici disseppelliti oltre il Mediterraneo anche per noi. Cantileniamo il ritornello della primavera dei popoli, e non sappiamo più quel che accade, quando un popolo s’appropria del proprio destino. Quel che urge costruire, una volta distrutto il trono. Eppure basta guardare: non si riducono a questo, per ora, le rivoluzioni arabe. Non è un Popolo che si solleva, monolitico grumo di passioni che conquista il potere. Quel che vediamo sono le molteplici aspirazioni, il proliferare e differenziarsi di progetti, il bisogno –inaugurale in democrazia– di un regime regolato in modo da favorire tale differenziazione. Non il dominio del popolo è la meta ma la possibilità della disputa, la concordia nutrita di discordia.

Due sono le caratteristiche delle rivoluzioni arabe, che possono finir male o bene ma sono comunque esperienze della democrazia ai suoi albori. In primo luogo la scoperta dell’altro, del diverso, non più sotto forma del nemico che si odia o cui ci si assoggetta: dunque la scoperta di sé, di quel che io posso fare per sortire dal marasma. È significativo che la prima scintilla delle rivolte sia stata il suicidio del tunisino Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante, il 4 gennaio. Il gesto ha annullato d’un colpo anni di suicidi-omicidi terroristi, e per la prima volta l’arabo insorge cominciando da sé. La seconda caratteristica è la scoperta di quanto sia prezioso, perché ci sia democrazia, lo spazio pubblico dove le varie idee s’incrociano, s’oppongono, sfociano in delibera. Nella Grecia antica si chiamava agorà: la piazza dove i privati s’incontrano, diventano cittadini che accudiscono la cosa pubblica oltre che la propria famiglia. Dove democraticamente decidono. Si decide votando a maggioranza, ma l’esistenza dell’agorà è il preambolo che dà spazio, dignità, legittimità al diverso.

Chi ha seguito su internet i tumulti arabi avrà visto le discussioni sterminate attorno a ogni articolo, appello. In assenza di un’agorà ufficiale (di una res publica), gli arabi scelgono internet e cellulari per parlarsi l’un l’altro come mai prima d’ora, per manifestare contro gli autocrati da cui erano manipolati, non governati. Il primo atto della democrazia è uscire di casa, contrariamente a quel che dice Berlusconi secondo cui la famiglia privata ti insegna tutto, e fuori s’aggirano scuri professori della scuola di Stato che inculcano nozioni devianti. Ha scritto Robert Malley sul Washington Post che Al-Jazeera è divenuta un attore politico di primo piano «perché riflette e articola il sentimento popolare. È diventata il nuovo Nasser. Il leader del mondo arabo è una rete televisiva».

Ma internet e Tv sono gli strumenti, non la stoffa delle democrazie nascenti. Altrimenti potremmo dire che anche da noi le Tv commerciali sono state levatrici di democrazia. Quel che le reti sociali arabe suscitano è la pluralità di opinioni e notizie, non l’emergere dell’etere privatizzato italiano; non la Tv a circuito chiuso di Milano 2 che s’estende alla nazione ed è emblema del quartiere sbarrato che gli americani chiamano gated community. Al-Jazeera e social network arabi abbattono i recinti, aprono finestre. Le aprono a quel che le nostre democrazie inventarono, quando nacquero anch’esse nel tumulto: la pluralità di idee, la separazione dei poteri, la convinzione che il potere tende a estendersi, se altri poteri non lo fermano e controbilanciano. Le apre infine alla laicità, tappa essenziale delle democrazie d’occidente. Naturalmente è possibile che i Fratelli musulmani, più organizzati dei manifestanti, abbiano il sopravvento. Ma gli ingredienti iniziali delle rivolte non sono in genere confessionali. Può darsi che le cerchie autocratiche si limitino a spostar pedine. Ma gli insorgenti, come si vede in Tunisia, sgamano presto e non tollerano gattopardi che fingono cambiamenti. Un esempio significativo è il documento pubblicato il 24 gennaio sul sito del giornale Yawm al-Sâbi’ ("Il settimo giorno"): un manifesto in 22 punti in cui si chiede la separazione tra religione e Stato, la dignità delle donne, il diritto di ogni cittadino (comprese donne, cristiani) di accedere alle massime cariche, tra cui la Presidenza. Il documento è firmato da una ventina di teologi e imam egiziani, ed è stato ripreso prima da Asia News e poi da più di 12.400 siti arabi. Ne parla da giorni Samir Khalil Samir, gesuita egiziano e professore in Libano e al Pontificio Istituto Orientale di Roma. Secondo Samir, i firmatari del proclama non sono soli: «Questo desiderio di operare una distinzione tra religione e Stato è un sentimento comune. La religione è una cosa buona in sé e non vogliamo ostacolarla, purché rimanga nel suo ambito, come una cosa piuttosto privata, che non entra nelle leggi dello Stato. Invece i diritti umani, questi sì! (...) E se la legge religiosa va contro i diritti umani, allora preferiamo i diritti umani anziché la sharia» (www.zenit.org). In Italia parole simili sono eresia, perché tutt’altro è lo spettacolo cui assistiamo: una regressione della laicità, della separazione dei poteri, della democrazia. Non stupisce che Berlusconi abbia difeso in principio i dittatori, temendo di disturbarli: non è la storia araba, ma la storia delle nostre democrazie che non arriva a interiorizzare. Metà del mondo entra in contatto con la democrazia, con le tesi di Montesquieu sul potere frenato da altri poteri, ma lui è fermo, a presidio dell’Uno e l’Indivisibile, in polemica costante con ogni potere di controllo (magistratura, Consulta, Quirinale). Mai come in queste settimane il suo esperimento è apparso superato: espressione di una democrazia impigrita, chiusa. Anche la sua idea di televisione non è agorà, inclusione del diverso. È un’opinione sola che grida dallo schermo della «scatola tonta» e ha l’impudicizia di presentarsi come Radio Londra armata contro tiranni. Non siamo certo gli unici ad arrancare dietro la primavera araba senza sapere perché arranchiamo: dimentichi dei patti coi tiranni, dei profughi respinti ai nostri confini e consegnati ai campi di concentramento libici, dell’Arabia tramutata in terra d’affari. Il ministro degli Esteri francese Michèle Alliot-Marie ha reagito all’inizio come Frattini, Berlusconi. Ma in Francia son bastati due mesi, e domenica il ministro ha dovuto dimettersi, spinto dal suo stesso partito.

Il discorso sui valori, caro al Premier quando inveisce contro la scuola pubblica, o contro l’adozione da parte di single o gay, o contro il diritto del morente a decidere se farsi o non farsi tenere in vita, è frutto di questo monismo non democratico. È una visione gradita alla Chiesa, che può ottenere potere (non in omaggio ai Vangeli ma a una sacralizzazione della stabilità degna del Grande Inquisitore) spartendolo alla maniera dell’Islam radicale: agli imam le moschee, i soldi, la signoria sulle anime; agli autocrati l’imperio politico inconfutato. L’orizzonte è quello dell’agorà negata: che trasforma l’inquilino della comunità protetta non in cittadino, ma in consumatore appeso alla scatola tonta, incapace di uscire e scoprire la Città.

La vera egemonia culturale degli ultimi anni ha avuto il segno del cinismo, ha scritto Michele Serra, ed è difficile dargli torto. Perché quell’orientamento si è imposto? Attraverso quali percorsi e opzioni, ma anche attraverso quali sconfitte, rinunce, rese? Come invertire la tendenza? O meglio, come consolidare i segnali di opposta natura che iniziamo a cogliere? Domande come queste possono apparire superflue se si rovescia ogni colpa su mali eterni e inguaribili degli italiani. Hanno molto senso, invece, se pensiamo che il prevalere del cinismo sia andato di pari passo con i processi di degenerazione della Repubblica e con l’incapacità di porvi argine. E che su questo crinale abbia messo radici profonde, con le quali dobbiamo fare i conti.

Quel prevalere ha trovato indubbiamente impulso - anche in questo ha ragione Serra - nel rifluire della tumultuosa stagione degli anni Sessanta e Settanta, e nelle macerie che essa ha lasciato. Lo ha trovato nel declino delle speranze e al tempo stesso nell’avanzare di processi profondi di corruzione e decadimento delle istituzioni: essi faranno la loro marcia trionfale negli anni Ottanta ma sono già evidenti nell’avvio del decennio. E’ nel 1980 che Italo Calvino scrive su queste pagine un Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti che ha un avvio fulminante: "c’era un Paese che si reggeva sull’illecito" [vedi anche in eddyburg, precisamente qui - n.d.r.].

In quegli stessi mesi Massimo Riva vedeva profilarsi fra i miasmi di una corruzione senza precedenti il "Fantasma della Seconda Repubblica" e osservava amaramente: ogni giorno che passa si attenua la speranza che l’alternativa possa essere rappresentata da "un politico sagace e democratico, cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli". Era, appunto, il 1980, e l’anno dopo Giuseppe Tamburrano scriveva un racconto fantapolitico ambientato nel 1984: prevedeva per le elezioni di quell’anno "una valanga di voti contro lo ‘Stato dei partiti’" (con il Pci "crollato al 21%", la Dc al 14%, il Psi al 7%) e "una maggioranza assoluta di uomini nuovi", eletti a furor di popolo per seppellire quel che restava della democrazia italiana.

Fantapolitica, come si vede, presto dimenticata nei ruggenti anni Ottanta. Un profondo corrompersi della politica (e la crescente disaffezione nei suoi confronti) andò allora di pari passo con processi che investivano per intero il modo di essere del Paese. Con il progressivo prevalere, appunto, della "società cinica" sulla "società civica", per dirla con il sociologo Carlo Carboni: un prevalere che portò con sé anche l’indifferenza crescente ai processi di corruzione, agli scandali, all’involgarirsi della comunicazione politica (cui il nuovo panorama televisivo offriva scenari e stimoli inediti). Il tutto favorito, naturalmente, dal deperire di alternative adeguate. Qualcuno osservò allora che con il "compromesso storico" la sinistra aveva smarrito il Progetto, e con Craxi il Candore: l’osservazione era un po’ impressionistica ma non del tutto infondata. Si giunse così al tracollo dei primi anni Novanta: improvviso e inatteso, ma non difficilissimo da spiegare. L’esplodere di Tangentopoli rivelò in realtà - lo sottolineava bene alcuni anni fa Barbara Spinelli - un vero disastro nazionale, che coinvolgeva la società e la politica. E fu un disastro, aggiungeva, anche per quel che non abbiamo imparato da esso. Per la lezione che non ne abbiamo tratto. Il mito di una società civile sana contrapposta a un ceto politico corrotto aiutò allora a rimuovere il deficit di moralità collettiva che si era accumulato. Favorì nuove illusioni, che trovarono in Bossi e in Berlusconi i loro araldi. Del resto, il favore popolare nei confronti di Mani Pulite cominciò a deperire quando l’estendersi delle indagini rivelò la fragilità e la labilità dei confini fra società civile e ceto politico: il primo ad avvertirlo fu un giudice, Gherardo Colombo. Il miracolo promesso dall’"uomo nuovo" di Arcore, inoltre, accoglieva pienamente al suo interno i modelli sociali e culturali che si erano delineati negli anni Ottanta. Permetteva ad essi di uscire rafforzati e non indeboliti dalla catastrofe etica che si era rivelata. E il Cavaliere non mancò mai di manifestare, coerentemente, la sua solidarietà a Craxi, sino alla beatificazione postuma (e sino ad ereditarne collaboratori e aedi). Altrettanto coerentemente - sia detto per inciso - l’articolo di Serra non è piaciuto a Giuliano Ferrara, che sul "Foglio" - dopo aver citato i "paradossali e moralistici elogi del malandrino" del suo giornale - ha dato una brillante dimostrazione di come si possano mescolare arbitrariamente fatti, categorie e concetti (in attesa della grande platea di Raiuno, in coda al Tg di Minzolini: evocando abusivamente, come negli anni Ottanta, una storica trasmissione di libertà, contrapposta al fascismo, di cui era proibitissimo l’ascolto).

La stagione berlusconiana ha consolidato potentemente, insomma, modelli formatisi in precedenza ma il suo volgere al termine mostra l’interna debolezza di essi. Li rivela impietosamente a se stessi. Non è forse casuale che nei giorni scorsi sia naufragato un maldestro tentativo di trasferire le scene finali del Caimano nella realtà, davanti al Palazzo di giustizia di Milano. Altri tentativi potranno certo esser fatti con maggior impegno ma la capacità di mobilitazione populista era stata alimentata negli anni scorsi dal permanere di una qualche fiducia nel "miracolo" promesso dal Cavaliere. Ed è destinata a deperire assieme ad essa. Assieme alla riscoperta - anche all’interno della "società cinica" - che le regole non sono un’ingiusta vessazione ma una difesa essenziale, per tutti. Irrinunciabile, in crisi profonde come quelle che viviamo. Ha qui radici il crescente appannarsi della credibilità del premier, che trova ormai puntelli solo nell’assenza di alternative. Di qui, anche, l’importanza degli inaspettati e straordinari pronunciamenti collettivi che hanno fatto irruzione sulla scena dopo moltissimo tempo. Sullo sfondo di essi vi è il riemergere di una consapevolezza che sembrava dimenticata, sepolta dalle delusioni e dalle disillusioni. Una consapevolezza cui dava voce ancora Italo Calvino nel lontanissimo 1977, in un’Italia minacciata dall’offensiva terroristica e aggredita dai processi di degenerazione delle istituzioni: "Lo Stato siamo noi proprio perché lo Stato dà sempre più di frequente prova di non esistere. L’insipienza dei governi ci ha portati al punto in cui i problemi, lasciati aggravare, esplodono l’uno dopo l’altro (…). Lo Stato oggi consiste soprattutto nei cittadini democratici che non si arrendono, che non lasciano andare tutto alla malora". E’ necessario ancora partire da qui, ma sarà difficile andare molto lontano e molto in profondità se dal centrosinistra non verranno quei segnali di rinnovamento radicale che sinora non sono venuti. Se una "partitocrazia senza partiti" e da tempo afasica, prigioniera dei temi e dei tempi del premier, non inverte la tendenza, non contribuisce a mettere realmente al centro i nodi del Paese e la speranza di futuro. Anche facendo un passo indietro, volto alla sua stessa rigenerazione e rivitalizzazione. Anche pensando realmente a mettere in campo, in un domani non lontano, una ipotesi di governo fondata su figure di altissima autorevolezza e competenza. Un’ipotesi che abbia la credibilità e la forza per alimentare i fermenti positivi della società e per offrirsi ad essi come riferimento sicuro e affidabile.

Dieci anni di memoria «ufficiale» della Shoah. Un decennio di dolorose celebrazioni: visite, convegni, pubblicazioni, nuovi spazi museali, dibattiti giornalistici, documentari tv. La liberazione di quei residui tenaci di umanità che l'efficiente barbarie nazista non era riuscita a eliminare in tempo nel «campo» di Auschwitz, da parte dell'Armata Rossa (un dato che, chissà perché, viene spesso tralasciato o sottaciuto), aveva aperto gli occhi al mondo su quello che Lord Russell avrebbe chiamato «il flagello della svastica». Da quel 27 gennaio 1945, nessuno poté più dire (spesso mentendo): «io non sapevo». Certo, a quel tipo di reazione, con l'apertura dei lager accadde un'altra reazione sbagliata, che ci è stata mostrata dai filmati angloamericani: i bravi borghesi tedeschi accompagnati in vista obbligata ai campi che davanti ai forni crematori, con le pile di cadaveri che la macchina dello sterminio non fece a tempo a bruciare, dopo che erano passati per le «docce» a base di Zyclon B, quegli onest'uomini e quelle distinte signore elegantemente vestiti, distoglievano lo sguardo. Quasi a negare quella evidenza sconvolgente. Voltavano la testa dall'altra parte.

Voltare la testa, o fingere di non sapere, o dimenticare volontariamente, segna un atteggiamento che, almeno in punto di teoria, l'istituzione della «giornata della memoria» dovrebbe contrastare. Ma è così? Davide Bidussa intervistato da Simonetta Fiori (su la Repubblica di ieri), ha espresso dubbi condivisibili, marcate perplessità e una certa insofferenza, specificamente sull'overdose di memoria. Io credo che l'overdose sia non della memoria, la pratica volta a far sì che una comunità conservi, nel la sua intelligenza collettiva come nelle sue viscere profonde, la consapevolezza dell'accaduto, bensì della commemorazione: specie quella a comando, quella codificata da leggi, normata da regolamenti, applicata da circolari ministeriali. Se un po' di sensibilità in più sull'universo concentrazionario e su quello che uno studioso (Wolfgang Sofsky) ha chiamato «l'ordine del terrore», si è diffusa, il Giorno della Memoria è buona cosa, da conservare e sviluppare. Tanto più che anche ieri la provocazione antisemita e neofascista, a Roma, nella città di Alemanno, ha imbrattato di scritte il quartiere Monti e il Museo della Resistenza di Via Tasso.

Ma come non badare all'effetto uguale e contrario? Il commemorazionismo, che diventa celebrazionismo, inevitabilmente stucchevole e ripetitivo, può suscitare stanchezza, e addirittura rigetto, quando diventa non solo di Stato, ma addirittura di governo; e, d'altro canto, non smettiamo di assistere a un disinvolto impiego della memoria dell'Olocausto per redigere incessanti peana allo Stato di Israele, assolvendolo non solo dal suo «peccato capitale» - la sua nascita violenta, con l'espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre e dalle loro case - ma altresì dalla sua perdurante politica di discriminazione e di apartheid.

Ciò detto, e ribadito che le persecuzioni subite non possono giustificare nuove persecuzioni, tanto meno ai danni di innocenti, forse il decennale della Giornata può essere l'occasione per passare, dalla Memoria alla Storia: se la prima comprende l'errore, l'oblio, la rimozione; alla seconda spetta il compito, insostituibile, di ricostruire e preservare la verità, contro le imposture negazioniste dell'Olocausto, contro i «rovescismi» interessati e ogni tipo di contraffazione. Ma a difendere il fortino della storia, non può ergersi un «Ministero della Verità Storica», che diventa ipso facto verità politica o giudiziaria. La concomitanza tra questo decennale e la (reiterata) richiesta di una legge «antinegazionista» è inquietante e reclama vigilanza da parte dell'unico «tribunale» cui si possa riconoscere un ruolo: quello rappresentato dalla comunità scientifica.

Insomma, la Memoria ricordi, con tutti gli umani errori che comprende; la Storia acclari i fatti, servendosi del metodo e delle tecniche appropriate; e la Politica? La Politica faccia il suo mestiere. Provi ad amministrare la polis - istituzioni e società -, che ne ha tanto bisogno, a cominciare dagli amministratori stessi, che avrebbero necessità di 365 giorni della memoria che ricordino loro doveri e princìpi, che, a quanto pare, essi tendono a dimenticare in allegria.

Invece di un progresso che vede crescere insieme sicurezza e libertà, abbiamo un movimento a pendolo che sacrifica uno dei due valori e previlegia l´altro

Che lo si voglia ammettere o no, e che la cosa piaccia o incuta timore, gli esseri umani sparsi tra le oltre duecento "unità sovrane", note come "Stati", sono in grado di vivere, da qualche tempo, senza un centro; anche se l´assenza di un centro globale ben definito, onnipotente, incontestato e di indiscutibile autorità costituisce, per i potenti e gli arroganti, una costante tentazione a riempire, o almeno a tentare di riempire, quel vuoto.

La "centralità" del "centro" si è disgregata e il legame tra sfere di autorità prima strettamente connesse e coordinate è stato (forse irreparabilmente) spezzato. I condensati locali di poteri e influenze a livello economico, militare, intellettuale o artistico non coincidono più (se mai hanno coinciso). Le mappe del mondo in cui le entità politiche sono contrassegnate da colori che indicano la loro importanza e quota relativa in termini – rispettivamente – di industria globale, commercio, investimenti, potenza militare, conquiste scientifiche o creazione artistica, non sono più sovrapponibili. E perché tali mappe siano utilizzabili per un qualsiasi arco temporale, i colori dovranno essere facilmente cancellabili, e applicati con parsimonia, visto che l´attuale gerarchia dei territori, ordinati per capacità di influenza e impatto, non offre alcuna garanzia di durata. E così, nel nostro disperato tentativo di cogliere la dinamica degli affari planetari, la vecchia abitudine, dura a morire, di mettere a punto un´immagine mentale dell´equilibrio di potere globale ricorrendo a strumenti concettuali come centro e periferia, gerarchia, superiorità e inferiorità, appare sempre più un handicap anziché, come in passato, una risorsa; i fari di un tempo sono diventati paraocchi. (...)

La "formazione delle identità", o più correttamente la loro "riformazione", diviene un compito che dura per tutta la vita, senza arrivare mai a conclusione; in nessun momento dell´esistenza l´identità può dirsi "finale". C´è sempre da svolgere un lavoro di riaggiustamento, poiché le condizioni di vita, il ventaglio delle opportunità e la natura delle minacce cambiano in continuazione. Questa "non finitezza" innata, l´irrimediabile inconclusività del compito di autoidentificazione, è causa di forte tensione e ansia. Un´ansia contro cui non esiste un rimedio istantaneo.

In ogni caso, non vi sono cure radicali, poiché gli sforzi di "formazione dell´identità" oscillano precariamente, com´è naturale, tra due valori umani parimenti centrali: la libertà e la sicurezza. Tali valori, altrettanto indispensabili per una vita umana decente, risultano difficili da conciliare, e l´equilibrio perfetto tra essi resta ancora da trovare. La libertà, dopo tutto, tende ad accompagnarsi all´insicurezza, mentre la sicurezza tende ad accompagnarsi alle limitazioni alla libertà. E se siamo insofferenti sia verso l´insicurezza sia verso la non-libertà, difficilmente saremo soddisfatti da qualsivoglia combinazione di libertà e sicurezza. Così, invece di un "progresso lineare" verso una maggiore libertà e una maggiore sicurezza, finora si è potuto osservare un movimento a pendolo, che molto probabilmente continuerà negli anni a venire: prima uno spostamento massiccio e deciso verso uno dei due valori, poi l´allontanamento in direzione dell´altro. Oggi, a quanto pare, in molti (forse la maggior parte) dei paesi del mondo, l´insofferenza rispetto all´insicurezza prevale sulla paura della mancanza di libertà (anche se nessuno può dire quanto a lungo durerà tale tendenza). (...) Lo smembramento e la disabilitazione dei centri tradizionali, sopraindividuali, saldamente strutturati e fortemente strutturanti, sembra correre in parallelo con la centralità emergente dell´Io reso orfano.

Nel vuoto lasciato da autorità politiche in ritirata o sempre più evanescenti, oggi è l´Io che si sforza o è costretto ad assumere la funzione di centro della Lebenswelt (l´interpretazione privatizzata/ individualizzata/ soggettivizzata dell´universo). È l´"Io" che riconfigura il resto del mondo come propria periferia, assegnando, definendo e attribuendo una rilevanza differenziata alle sue parti a seconda dei propri bisogni, desideri, ambizioni e apprensioni. Il compito di tenere insieme la società (qualunque cosa la nozione di "società" possa significare in condizioni di modernità liquida) viene "sussidiarizzato", "subappaltato" o ricade semplicemente nell´ambito della life politics individuale. Ed è lasciato sempre più all´iniziativa degli Io che "si mettono" in rete e "vengono messi" in rete e alle loro azioni e operazioni di connessione/ disconnessione.

La Repubblica

La riscoperta dell’indignazione

di Benedetta Tobagi

Trentadue pagine in cui articola l´imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all´emergenza ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal 2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi, hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l´immagine di broker, amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava ammirazione e invidia.

l piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere cinematografiche, letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein, il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni, denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l´economia occidentale reggeva - hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell´acquiescenza di larga parte dell´opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è morta l´illusione della crescita indefinita e dagli Usa all´Europa la cittadinanza comincia a fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente - l´Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato dall´affaire Ruby.

L´affiorare di sussulti d´indignazione popolare che rompono l´indifferenza compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L´indignazione viene invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un´etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell´indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?

L´indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall´ingiustizia, come l´odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l´indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.

Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino ( Il giusto, 1995): "il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È ingiusto!´?".

Nell´ indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto Saviano - che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga di Harry Potter. L´invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall´impatto distruttivo delle forze impersonali dell´economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell´indifferenza prima che sia troppo tardi. Dall´oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda "Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della giustizia nuoce all´intero corpo sociale, nel lungo periodo. L´indignazione marca il punto di rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile impulso verso l´agire politico.

Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell´indignazione" non basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso d´ingiustizia è il contrassegno universale dell´umanità: l´indignazione, spesso, è selettiva. Nel ´68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso determinante.

Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle esistenti. L´uomo indignato odia l´ingiustizia e l´argine che lo trattiene dal volgere quell´odio contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come l´unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon, 1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall´uso della violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria.

Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale, in cui può annidarsi un´"utopia dell´invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che l´indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un´"etica-anestetica". Lo sdegno monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all´ipocrisia: tutti si indignano davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia alla ricevuta fiscale.

Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L´indignazione, se non prosegue in un programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a lungo. C´è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall´etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l´economia dell´empatia, la radicale americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa.

La Repubblica

Vergognatevi, così nasce l´etica

Quelle riflessioni da Leopardi a Marx

di Nadia Urbinati

L´indignazione è un moto dell´animo nutrito dal senso di vergogna, un´emozione fondamentale nella fenomenologia dell´etica sociale. Come altre emozioni, la vergogna è "generativa di comportamento" in quanto mette in moto sentimenti, come l´indignazione e la colpa, che agiscono direttamente sulla volontà: per alleviarli si è portati a giustificare la proprie azioni e infine a reagire. Se l´emozione della vergogna è in se stessa non razionale, la serie di sentimenti e azioni che alimenta sono dunque di tipo strategico: le forme con le quali l´individuo che si vergogna agisce sono propositi razionali volti a rimediare il misfatto che ha generato vergogna. Per esempio Papa Benedetto XVI ha commentato i numerosi casi di pedofilia nel clero cattolico con queste parole: "Proviamo profonda vergogna e faremo tutto il possibile perché ciò non accada più in futuro".

Per questa sua capacità generativa di comportamento, l´emozione della vergogna è stata messa da Giambattista Vico alle origini della società: se "la natura di tutte le cose sta nel loro cominciamento", allora la natura della storia umana sta nella vergogna primaria, quella di Adamo ed Eva di fronte alla nudità che scoprirono di avere non appena violarono il patto di obbedienza con il loro creatore. Nella Genesi come nel Pentateuco, la vergogna e la colpa figurano alle origini della responsabilità morale. Il rossore che sale sulle guance di chi prova vergogna è il segno della socialità di questa emozione, del bisogno di riconoscimento da parte degli altri e nello stesso tempo del controllo che quel riconoscimento opera sulle nostre azioni: chi prova vergogna non riesce a sostenere lo sguardo altrui e abbassa gli occhi a terra. Questa dimostrazione di vergogna è correlata e complementare alla reazione di indignazione che la conoscenza di un comportamento vergognoso induce. Pertanto, la vergogna ha una fenomenologia doppia: la persona colpevole può provare il desiderio di nascondersi (così nasce il senso di umiliazione); chi assiste può reagire con sdegno. È per questa doppia valenza che poeti e filosofi hanno attribuito alla vergogna un ruolo liberatorio, non solo per l´individuo ma anche per la collettività.

Non provare vergogna, e per converso non provare indignazione, sono da questo punto di vista il segno di una realtà impermeabile all´ethos perché indifferente, e di un atteggiamento di apatico realismo. Una persona che non si vergogna non sente di dover reagire o cambiare comportamento. Per questo scrittori e filosofi si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l´emozione della vergogna. E quest´opera della cultura dimostra come la vergogna sia segno della civiltà. La forza di questa emozione è naturale ma la forma che prende dipende dall´ethos di una società. Per esempio, ciò che il comportamento sessuale prescrive o censura non è identico in tutte le società, gli "oggetti" della vergogna e quindi dell´indignazione sono contestuali e socialmente situati; ma il meccanismo che li governa è universale nella sua fenomenologia. Universale nel senso che, per riprendere la Bibbia e Vico, le radici della responsabilità morale (e quindi della punibilità) stanno nella capacità che gli individui hanno di sentire la vergogna e la colpa. Su questa base si sviluppa l´azione educativa e culturale.

Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: "Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi". Convinto della funzione attiva ovvero pratica del "vergognarsi", Leopardi aveva immortalato la deprimente condizione dell´Italia nel Canto Sopra il monumento diDante, come a voler muovere i lettori: "Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/quella schiera infinita d´immortali/E piangi e di te stessa ti disdegna/Che senza sdegno omai la doglia è stolta/Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti/E ti punga una volta/Pensier degli avi nostri e de´ nepoti (...)".

Provare vergogna sembra quindi essere di sprone, sembra indurre a reagire, come ha scritto Silvana Patriarca. Quante volte si sente ripetere (e si dice) "mi vergogno di essere italiano/a"? Innumerevoli volte, soprattutto negli ultimi anni. Dirlo, ripeterlo instancabilmente segnala la speranza che dalla capacità di sentire vergogna nasca l´indignazione, e di qui la decisione di reagire, di cambiare. Su questa catena di fenomeni lo stesso Marx - notoriamente contrario all´uso di emozioni e sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali - vergò parole straordinarie a proposito delle politiche illiberali del governo prussiano, commentando che, senza cadere in un vuoto patriottismo, sarebbe stato auspicabile che i tedeschi avessero provato vergogna, e aggiungeva: "Non è la vergogna che fa le rivoluzioni", tuttavia "la vergogna è già una rivoluzione in qualche modo... se un´intera nazione esperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto a balzare".

Il manifesto

E ora su la testa

di Rossana Rossanda

Non è piacevole essere oggi un'italiana all'estero. Tanto meno se si è stata una sia pur minuscola tessera di ceto politico, due volte consigliere comunale e una volta deputata, una cui l'antipolitica fa venire il nervoso. E perdipiù comunista libertaria, specie rarissima, orgogliosa di sé e di un paese che, fino agli anni Sessanta e con diverse code nei Settanta, pareva il laboratorio politico più interessante d'Europa.

Oggi gli amici che incontro non dicono più: ma che disgrazia quel vostro Berlusconi! Mi chiedono: Com'è che l'avete votato tre volte? Che è successo all'Italia? Una come me si trova a balbettare. Perché hanno ragione, non si può più fare del premier il caso personale di uno che ha fatto troppi soldi, che ha tre televisioni, che prende il paese per un'azienda di sua proprietà, che sa che molti sono acquistabili e li acquista, e adesso, gallo attempato, si vanta dei suoi exploits su un numero illimitato di pollastrine: «Vorreste tutti essere come me, eh??».

E' vero che l'Italia lo ha votato e rivotato. E' vero che non c'è traccia di una destra formalmente civile che di lui ne ha abbastanza, né di un sedicente centro deciso a liberarsene. E neanche di una sinistra capace di rischiare un «buttiamolo fuori con le elezioni». La destra tutta perché gli è ancora complice, il centro perché lo è stato, la sinistra perché il sistema elettorale bipolare le faceva comodo contro le sue ali meno docili. Metà dell'Italia è berlusconiana, l'altra metà è azzittita, e non c'è imputazione - ignoranza, prevaricazione, corruzione, soldi, attentato ai minori - mossa al personaggio che sia in grado di scuoterla. Anzi. C'è qualche verità nelle vanterie di costui, se più se ne sente più tutti si accucciano per calcoli loro. Perfino i media, che sarebbero di opposizione, sono diventati un buco della serratura per voyeurs intenti a sfogliare pagine su pagine o ad ascoltare minuti su minuti di dialoghi sul prezzo per un appalto o per togliersi le mutande.

Che ci è successo? Da quando? Perché? Sarebbe una discussione interessante. Si potrebbe sprofondare in una storia secolare di servaggi, Francia o Spagna pur che se magna. O di una unità nazionale sotto una monarchia codina, tardiva e ben epurata di ogni fermento rivoluzionario - i giacobini napoletani decapitati o appesi nel giubilo dei lazzari e sanfedisti, la repubblica romana repressa, e soltanto le tracce dell'ammodernamento giuridico di Napoleone al nord. Non sarà del tutto casuale che siamo stati noi a inventare il primo fascismo europeo. Ci deve essere qualcosa di guasto nella coscienza della penisola. Alcuni di noi pensano che soltanto la presenza di un partito comunista che non mollava sui diritti sociali ha costretto il paese alla democrazia, come un tessuto fragile ma fortemente intelaiato, che non si è lacerato finché i comunisti non si sono uccisi da soli.

Tutto da vedere, se se ne avesse voglia. Ma chi ne ha? Lo slogan nazionale è: fatti gli affari tuoi. Vota chi si fa i suoi. Non è una storia soltanto italiana, tutta l'Europa va a destra. Ma da noi si esagera. In Francia un vecchio ed elegante signore, Stephan Hessel, che non alza la voce ma non ha mai taciuto, ha scritto un opuscolo: Indignatevi! Ne sono sparite subito quasi un milione di copie. Una settimana fa voleva parlare della Palestina, glielo hanno impedito. E lui e i suoi lettori si sono trovati fuori, in migliaia, di notte, con un freddo polare, nella piazza del Pantheon, a gridare: Basta! Perché noi no? Si sta meglio con la testa alta, invece che fra le spalle e gli occhi a terra. Non so se lo farà Vendola. Non credo che lo farà Bersani. Ma chiudiamo con il cinismo del chi se ne frega. Indigniamoci!

In città si stanno moltiplicando i negozi con la vistosa insegna gialla «Compro oro». Erano pressoché sconosciuti fino a un paio di anni fa, ora crescono come funghi: appena un paio in centro, gli altri - decine - nelle ex barriere operaie, Borgo San Paolo, Barriera di Milano, Mirafiori sud... Acquistano tutto, anche le protesi dentarie. D'altra parte Torino ha fatto segnare nel 2010 il non invidiabile primato nella crescita dei pignoramenti di alloggi, con un +54,8% nei primi dieci mesi dell'anno rispetto al già duro 2009. E si calcola - sono dati impressionanti - che un 35-40% dei lavoratori metalmeccanici torinesi abbia fatto ricorso, nell'ultimo biennio, alla cessione del quinto dello stipendio, per pagare le rate in sospeso, o semplicemente per arrivare alla fine del mese.

È su questa Torino, su questo tessuto sociale allo stremo, che ha calato la scure del suo Diktat Sergio Marchionne, dall'alto del suo ponte di comando globale e dei suoi quattro milioni e mezzo di euro di stipendio annuo, quattrocentotrentacinque piani più sopra rispetto al reddito annuo di ognuno di quegli uomini e quelle donne che a Mirafiori - nel luogo in cui sono inchiodati per la vita o per la morte - dovranno domani votare se «arrendersi o perire». Più di novemila volte più in alto - una distanza stellare - se si considera anche il valore delle stock options accumulate, valutabili con un calcolo minimale intorno ai 100 milioni... Come faccia uno come Eugenio Scalfari a scrivere che non si tratta di ricatto ma di semplice «alternativa» è difficile da capire. Ma ancor più difficile da capire - loro non vivono come lui in un mondo rarefatto di letture e poteri - è come facciano a negarlo i sindacalisti che quell'accordo hanno siglato. E che non possono ignorare l'asimmetria abissale, il divario incolmabile che separa e distanzia le due parti contraenti segnando, appunto, la differenza tra un ricatto (a cui il destinatario non può sottrarsi senza rinunciare a una parte essenziale di sé), e un'alternativa, in cui in qualche modo la scelta è libera.

Ora è proprio in questo divario, in questa asimmetria assoluta che nella chiacchiera superficiale, politica e giornalistica, viene solitamente invocata per sostenere la necessità di accettare l'Accordo, la natura scandalosa dell'evento. Il fattore che rende quell'accettazione inaccettabile. E che sottrae la vicenda Fiat alla dimensione specifica di una «normale» vertenza sindacale per farne una questione etica e politica di rilevanza generale: un evento di natura «costituente». Perché quando in una società si crea un dislivello simile, quando le distanze tra parti sociali essenziali crescono a tal punto da costringerne una al silenzio e all'umiliazione, vengono meno le condizioni stesse di una normale vita democratica. Quando il principio di Uguaglianza viene a tal punto trasgredito, anche termini come Libertà e Giustizia perdono di significato, per assumere il volto tetro dell'arbitrio del più forte e dell'uso vessatorio delle regole.

Basta, d'altra parte, leggere le 78 cartelle in A4 della bozza di Accordo, diligentemente siglate pagina per pagina dalle parti contraenti, per rendersi conto della sproporzione tra le forze. Ognuna di esse trasuda, letteralmente, «asimmetria». A cominciare dalla «Clausola di responsabilità» che fa da preambolo, senza neppure uno straccio di accenno agli impegni assunti dall'Azienda per la realizzazione del «piano per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant», e invece minuziosamente precisa (direi minacciosa) nel sottolineare gli obblighi degli altri, con quelle due righe sul «carattere integrato dell'Accordo» per cui la trasgressione (collettiva o anche individuale) di uno solo degli impegni assunti costituirebbe un'infrazione grave, tale da fare decadere tutti i diritti acquisiti dalle organizzazioni sindacali contraenti... Per non parlare della procedura scelta dalla Fiat Group Automobiles per sfilarsi dall'accordo del '93 e dai vincoli del contratto nazionale dei metalmeccanici - per «far fuori» la Fiom! - con l'espediente della newco, in clamorosa violazione del dettato del nostro codice civile (art. 2112) in materia di «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda» ... Come se, appunto, l'onnipotenza aziendale potesse prevalere su ogni normativa pubblica, nella stessa misura in cui le regole stipulate a livello d'impresa devono servire a null'altro che a sancire la volontà di potenza del vincitore.

Oppure si consideri il primo punto della «Regolamentazione per la Joint Venture», sull'Orario di lavoro. Dice che la proprietà potrà scegliere tra un ampio ventaglio di opzioni - «schemi» li chiamano - con una sorta di menu à la carte nel quale vengono ricombinate le vite dei lavoratori: 15 turni (8 ore su tre turni, mattino, pomeriggio e notte, per cinque giorni la settimana); oppure 18 turni (8 ore su tre turni per sei giorni la settimana, quindi compreso il sabato); oppure, ancora, in via sperimentale, 12 turni (ognuno di 10 ore giornaliere, due turni al giorno per sei giorni la settimana). Nei casi in cui l'orario settimanale superi le 40 ore, è previsto un recupero giornaliero la settimana successiva, ma esso è puramente teorico dal momento che l'Accordo prevede anche 120 ore di straordinario obbligatorio (aumentabili fino a 200), a disposizione dell'azienda che le potrà utilizzare per saturare in periodi di picco nella produzione anche i periodi di riposo infrasettimanale. Le pause, a loro volta, saranno ridotte da 40 a 30 minuti, tre per turno, in ognuna delle quali il lavoratore dovrà scegliere se andare in bagno, sedersi un attimo per prendere fiato o tentare di addentare uno sneck (dal momento che la pausa mensa potrà essere spostata a fine turno e lavorare otto ore in piedi senza soste e senza mettere nulla in corpo non è sopportabile). In compenso la riduzione delle pause sarà compensata con un controvalore di 32 euro al mese, circa un euro al giorno (più o meno quanto si dà a un lavavetri al semaforo).

Dentro questa griglia ci sono le vite di alcune migliaia di uomini e di donne. Ci sono centinaia e centinaia di famiglie, con la loro organizzazione spaziale e temporale, con la loro rete di relazioni, con le loro concrete esistenze. Ci sono, appunto, delle «persone»: c'è il loro «tempo di vita», divenuto una sostanza spalmabile a piacere dall'impresa sulle proprie catene di montaggio, tra i pori del proprio «tempo di saturazione» (quello che divide l'ora in 100.000 unità di tempo micronizzato, secondo i dettami della nuova «metrica del lavoro»), a seconda di ciò che comanderà, momento per momento, il mercato. E dobbiamo chiederci, a questo punto, quale concezione del mondo stia dietro a questa visione. Quale idea di uomo (di «persona umana») e di società ispiri un tale progetto. E se l'argomento «definitivo» - quello con cui si taglia ogni discorso, si mette a tacere ogni obiezione - della «globalizzazione» e dei suoi impersonali dogmi sia sufficiente a giustificare una tale macelleria sociale ed esistenziale.

Ecco perché la «sfida» lanciata da Marchionne non è una «questione privata». Non può cioè essere limitata al rapporto tra la Fiat e il «suoi» operai (e non dovrebbe essere affidata solo al voto «con la pistola puntata alla tempia», di quegli operai che non devono essere abbandonati a se stessi), ma riguarda tutti noi, in quanto cittadini. Riguarda l'orizzonte in cui ci troveremo a vivere nei prossimi anni. Non è uno strappo contingente alle regole. È uno tzunami, che scardina le basi stesse del sistema di relazioni industriali e, più in generale, del nostro ordine sociale e produttivo. L'hanno sottolineato i più autorevoli osservatori non vincolati da obblighi di carattere servile, da Carlo Galli (in un lucidissimo articolo su Repubblica) a Ulrich Beck, uno che di «società globale» se ne intende. Farebbero bene ad accorgersene anche i nostri «re tentenna» del partito democratico (quanto filisteismo c'è nel Fassino che dice «se fossi un operaio voterei sì»), e quanti pretendono di esercitare funzioni di rappresentanza.

Se dovessimo accreditare l'idea della globalizzazione che da quel «fatto compiuto» si manifesta - se dovessimo davvero attribuire a quel sistema impersonale di vincoli carattere d'inderogabilità e alle sue ricadute sui territori natura di nuova «costituzione materiale» - allora dovremmo rivedere tutti i nostri concetti portanti: di cittadinanza, di democrazia, di legittimazione e di diritto. Così come se dovessimo ritenere inaggirabile quell'ukase - se ai lavoratori non dovesse più rimanere altra alternativa che quella tra la perdita del posto o l'accettazione di una condizione esplicitamente servile del proprio lavoro, se il lavoro conservato dovesse rivelarsi irrimediabilmente incompatibile con diritti e dignità -, allora non ci resterebbe davvero che organizzare un esodo di massa, fuori dalle mura dentate delle fabbriche, lontano dallo stato di «salariato». Oltre, davvero oltre, la modernità che abbiamo conosciuto e che non era fatta di asservimento e subalternità (come vorrebbero i nostri «modernizzatori» tardivi), ma di conflitto e di diritti faticosamente contesi.

Il dibattito odierno sul Risorgimento è surreale e strumentale. Si nega il valore storico dell’unità italiana, mirando alla frantumazione territoriale e corporativa. Oppure c’è indifferenza, nell’assenza di una religione civile all’altezza di un paese moderno ». Parla dell’oggi Giovanni De Luna, 67 anni, salernitano, storico contemporaneo a Torino, e studioso di Lega, antifascismo e Novecento di massa (Il corpo del nemico ucciso, Feltrinelli). La sua tesi suona: l’Ottocento è lontano. E l’ identità italiana va costruita su nuovi paradigmi di cittadinanza. Non più su quello classico dello «stato-popolo-nazione». Vediamo in che senso.

Professor De Luna, tra apatia istituzionale, boicottaggio della Lega e disinteresse, l’anniversario dell’Unità d’Italia non pare coinvolgere gli italiani. Come mai?

«Intanto c’è grande differenza con i precedenti anniversari. Nel 1911 ci si specchiava nello sviluppo industriale dell’era giolittiana, e nell’orgoglio dinastico dell’Italia sabauda assurta a potenza. Nel 1961 c’era il boom economico di un paese ricostruito dopo la guerra, e la fierezza di Torino divenuta metropoli.Due celebrazioni che alimentavano ottimismo e anche dibattiti storiografici molto accesi, sui limiti del Risorgimento dall’alto, etc. Stavolta, 150 anni dopo, c’è una crisi gravissima che travolge ogni possibile orgoglio. E poi c’è al governo la Lega che contesta l’Unità d’Italia in sé, una cosa senza precedenti ». Nonesiste piùunostraccio diborghesia nazionale con ambizioni europee e che tenga al «valore Italia»? «C’è stata una deriva mercantile totale del sentimento nazionale, visto al più come mero passaporto per il benessere, così come fu per i tedeschi dell’est dopo il crollo del Muro. Come se l’essere italiani fosse un logo, una tessera “spesa amica”, per accedere ai consumi. Il mercato ha strutturato e saturato ogni emozione, e se l’Italia non è una cosa che si mangia...».

Non è che nel Risorgimento non vi fosse il mercatismo, accusato anzi di travolgere il meridione...

«Certo, ma il dibattito sul Risorgimento riguarda solo uno spicchio della nostra storia. Ci sono stati il fascismo, le guerre, la prima repubblica e poi la cosiddetta seconda. Nessuno si interroga sullo straripante Novecento e ci si accapiglia sull’Unità d’Italia solo per demonizzarla, come fomite di tutti i mali successivi. Hanno inciso sul paese molto più il fascismo, peculiarità italiana, e la violenza di massa di due guerre mondiali».

Davvero il Risorgimento, censitario e classista, non anticipò nessuno dei mali a seguire?

«Sì, ma è come confrontare capre e cavoli. L’Ottocento non dice più nulla all’oggi. Salvo, ovviamente, prendere atto delle tante anime risorgimentali: neoguelfa, mazziniana, sabauda, repubblicana, monarchica. Come per la Resistenza: radicale, azionista, moderata, comunista. Discussione sacrosanta, che non revoca in dubbio il valore positivo dell’Unità d’Italia, che tutte quelle anime perseguivano e che tale resta ».

Cosa ci abbiamo guadagnato e ci guadagniamo con quel valore?

«Senza il Risorgimento saremmo restati un’espressione geografica, una congerie di staterelli tagliata fuori dalla competizione internazionale: politica, militare ed economica. Ci voleva uno stato per l’accumulazione industriale. Oggi il problema è un altro. È la religione civile che manca. E per colpa di una classe dirigente che negli ultimi venti anni non ha costruito nessuna etica civile».

Ha vinto la religione incivile del populismo privatistico?

«Appunto: tutti figli del benessere, la ricchezza come unico riferimento. Nutrito di rancore e aggressività. Competizione e maledizioni. Eccolo il fallimento. Con una eccezione: il Quirinale. Unico luogo coesivo di religione civile, con limiti e affanni. E senza partecipazione vera. In più, conun sistema politico privo di interesse al riguardo. Dall’aziendalismo di Berlusconi, all’etnicismo leghista, alla fragilità di una sinistra che ha smesso di avere un’idea di nazione, dopo aver buttato a mare il suo passato ingombrante».

Più che un vuoto, c’è stata una catastrofe identitaria?

«Crollato il patto della memoria, stabilito tramite l’antifascismo nel dopoguerra, nonè rimasto nulla. La politica non è stata capace di recintare alcuno spazio pubblico della memoria. Con l’eccezione della Presidenza della Repubblica, da Ciampi a Napolitano. Troppo poco».

Non c’è confronto con altri paesi. Ad esempio con gli Usa, che celebrano convinti il loro stato nazione...

«Negli Usa il valore della religione civile americana è persino sacrale, basta ascoltare il linguaggio di Obama».

Restando all’identità, lo storico Alberto Maria Banti ha contestato come criptorazzista la retorica risorgimentale. Basta dunque col popolo-nazione?

«Ripeto, l’Ottocento è lontanissimo e una certa eredità nazionale identitaria non è più spendibile. Lo stato- nazione è imploso, incapace di fare religione civile, e non solo in Italia. Anche Francia e Spagna non riescono più a governare unitariamente la memoria, tra querelle sul colonialismo e patti di pacificazione sul Franchismo che saltano. Occorre trovare altri valori per ricostruire un Pantheon repubblicano».

Da dove ricominciare, visto che Ciampi e Napolitano non bastano?

«Non credo alla memoria condivisa, maa una tavola di valori repubblicani universali. Purtroppo l’unico valore proposto al momento è la memoria delle vittime: della mafia, della Shoah, foibe, terrorismo, catastrofi naturali. Ma le vittime non pacificano. Gridano rancore, vendetta, sovrastandosi con la voce a vicenda. Qui il fallimento della nostra classe dirigente: l’incapacità di costruire un’alternativa».

Allora, se le cose stanno così, hanno ragione quelli che vogliono rottamare un’identità nazionale ormai inutile

e invisibile? «Inutile nella sua dimensione ottocentesca, non in quella post-novecentesca. Che deve confrontarsi con l’integrazione dei cittadini non italiani. Problema ignoto allo stato-nazione risorgimentale. Goffredo Mameli può rappresentare un valore per i cittadini extracomunitari? Semmai vanno recuperate le virtù positive di Mameli. L’eroe dolce e tollerante descritto da Garibaldi, non il guerriero nazionale».

Anche gli Usa includono nel nocciolo ideologico «wasp» il pluralismo etnico, non le pare?

«Loro hanno il giorno del Ringraziamento e la festa di San Patrizio per gli irlandesi...».

La Lega nella Provincia di Padova cancella 25 aprile e PrimoMaggio, e include la Festa di San Marco.

«Cancellano le date più inclusive e fanno capire bene chi vogliono includere: la loro gente».

In conclusione, si può vivere senza un’idea d’Italia pur nell’eclisse dello stato-nazione?

«No, ma ci vuole una nuova costellazione valoriale. Lontana dalla retorica nazionale ottocentesca e dalla temperie vittimaria delle catastrofi di massa novecentesche, che hanno inciso sulla nostra identità ben più degli anni risorgimentali. E in tal senso, penso alla virtù civile della “mitezza”, come la evocava l’ultimo Bobbio. Significa essere contro prepotenza e arroganza e per l’inclusione fraterna. Esempi? Tanti: Colorni, Willy Jervis, Pietro Chiodi, laici o valdesi, gente perseguitata ma non vittimista. Patrioti repubblicani e italiani davvero diversi».

Risorgimento e lotta fra storici:

quello che oggi c’è da leggere

La bibliografia sul Risorgimento è ovviamente sterminata. Ma molto schematicamente due sono state le interpretazioni chiave che si sono contese il campo. Quella liberale e quella marxista. La prima è incentrata sulla necessità e sulla virtù intrinseca del Risorgimento moderato e «dall’alto», inseparabile dal genio di Cavour e dalla volontà sabauda di procedere all’unificazione: usando la spinta democratica. La seconda, gramsciana soprattutto, è tesa a denunciare il «Risorgimento senza popolo» e senza riforma agraria, e il suo carattere «passivo» e indotto. Quanto alla prima segnaliamo il Cavour di Rosario Romeo (Laterza) e sempre diRomeoRisorgimento e Capitalismo (Laterza, 1961). Di Gramsci e su Gramsci, che svolge la sua riflessione nei Quaderni del carcere, si veda in chiave antologica L’essenziale di Antonio Gramsci. Il Risorgimento e l’unità di Italia (intr. di C. Donzelli, Donzelli, pp . 203, 2010, Euro 9,50). Tra i volumi più originali, di taglio «neorevisionista» ma non certo «negazionista », Lucy Riall (storica irlandese), Il Risorgimento. Storia e interpretazioni (Donzelli, pp. 137, 1997). Che dà rilievo alla non ineluttabilità del processo unitario, al brigantaggio e agli squilibri territoriali dei vecchi stati peninsulari. In una luce antiretorica e decostruttiva, due libri recenti, a cura e di Alberto Maria Banti: Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini. Laterza, pp. 424, 2010, Euro 24) e Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al Fascismo (Laterza, pp. 208, Euro 18, 2010). Sulla storia antecedente il Risorgimento, antica o più a ridosso, due libri importanti: Storia degli antichi stati italiani (Laterza, pp. 278, 1996), a cura di G. Greco e M. Rosa; Francesco Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea (Il Mulino, pp.550, Euro 35, 2010), fondamentale per la genesi e la trasmissione nei secoli dell’autopercezione nazionale. Dai primi abitanti della penisola alla fine dell’Antico regime. Su traumi e fratture dell’identità nazionale si veda infine Emilio Gentile,Né stato né nazione. Italiani senza meta (Laterza,pp. 112, Euro 9, 2010).

Difensore della laicità, della democrazia e del buon senso, Stefano Rodotà è uomo di squisita gentilezza. Maestro del diritto, schierato senza ambiguità ed erede dell’operosità di Pasolini, è forse il penultimo umanista europeo ed uno dei pochi intellettuali di razza che rimangono in questa Italia «triste e sfilacciata che si guarda l’ombelico e sembra sempre di più un’appendice del Vaticano mentre si avvicinano i 150 anni dell’unità del Paese.»

Professore emerito di diritto civile alla Sapienza di Roma, Rodotà nato a Cosenza 73 anni fa, scrive libri ed articoli, partecipa a congressi, dirige il Festival del Diritto a Piacenza, promuove manifesti e combatte battaglie per innumerevoli cause,dalla libertà di stampa all’etica pubblica, all’eutanasia.

Eletto deputato del PCI nel ’79, visse come parlamentare la convulsa decade finale della prima Repubblica e fu poi il primo presidente del PDS, fondato nel ’91 da Achille Occhetto dalle ceneri del PCI. Appena un anno dopo, forse prevedendo ciò che sarebbe successo, abbandonò la politica.

Oggi insegna in molte università del mondo e come specialista in filosofia del diritto e coautore della Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea, è un riferimento obbligato in tema di libertà individuali, nuovi diritti, qualità democratica e abusi di potere. Sono ormai dei classici i suoi lavori sulla relazione tra diritto e privacy, tecnologia, lavoro, informazione e religione.

È stato appena tradotto (in spagnolo, NdT) il suo libro La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, un saggio del 2006 ampliato nel 2009, nel quale Rodotà riesamina i limiti del diritto e ne rivendica una natura «più sobria e rispettosa delle molteplici e nuove forme che ha assunto la vita umana».

Il professore denuncia la tirannia che i nuovi chierici del diritto vogliono imporre ai cittadini: una «casta di notabili» costituita da giuristi e avvocati, dai grandi studi internazionali che «elaborano le regole del diritto globale su incarico delle multinazionali», gli «invisibili legislatori che sequestrano lo strumento giuridico, trasformando una mediazione tecnica in una procedura sacralizzata».

Il libro traccia una critica post-marxista della giungla dei vincoli legali che comprimono le libertà introdotte dalle innovazioni tecniche e scientifiche. Citando Montaigne («la vita è un movimento variabile, irregolare e multiforme») Rodotà spiega come il “vangelo del mercato”, il potere politico e la religione abbiano prodotto insieme «una mercantilizzazione del diritto che apre la strada alla mercificazione persino dei diritti fondamentali», come si rileva da questioni tanto diverse quali l’immigrazione, le tecniche di fecondazione artificiale, o le nuove frontiere della biologia.

A parere di Rodotà questa logica mercantilista e invasiva è «in totale contraddizione con la centralità della libertà e dignità» e la privatizzazione della legalità in un mondo globale crea enormi diseguaglianze, paradisi ed inferni, «luoghi dove si creano nuovi diritti e libertà e altri dove il legislatore pretende di impadronirsi della vita delle persone».

«Il paradosso è che questa disparità, che in teoria dovrebbe favorire la coscienza dell’eguaglianza nel mondo, rischia invece di consacrare una nuova cittadinanza basata sul censo», spiega. «Se si legifera sui geni, il corpo, il dolore, la vita, i privilegi o il lavoro applicando la repressione, l’arroganza e la tecnica d’impresa della delocalizzazione, le libertà diventano merci e solo chi può permettersi di pagare ne potrà fruire».

Rodotà cita come esempio il matrimonio omosessuale o la fecondazione assistita, «che in Italia producono un flusso di turisti del diritto verso paesi come la Spagna e altri meno sicuri come la Slovenia o l’Albania». E per converso, «i paradisi fiscali e i paesi meno rispettosi dei diritti di chi lavora o con una blanda legislazione ambientale che attraggono imprese e capitali».

La grande sfida, afferma Rodotà, è «uscire dal diritto e tornare alla vita». O come afferma nel prologo del libro il prof. Josè Luis Piñar Mañas «unire vita e diritto, diritto e persona, persona, libertà e dignità; mettere il diritto al servizio dell’uomo e non del potere».

D. Non è paradossale che un giurista metta in guardia dagli eccessi del diritto?

R. Il vero paradosso è che il diritto, che dev’essere solo una mediazione sobria e sensata, si trasformi in un’arma prepotente e pretenda di appropriarsi della vita umana; il che è collegato alle innovazioni scientifico-tecnologiche. Prima nascevamo in un solo modo, da quando Robert Edwards, premio Nobel, ha inventato il bebè in provetta, sono cambiate le regole del gioco e la legge naturale non è governata solo dalla procreazione naturale. Ci sono altre possibilità e nasce quindi il problema: deve intervenire il diritto? E fino a dove? Talvolta la sua pretesa è di mettere in gabbia la scienza, contrapporre il diritto ai diritti, usare il diritto per negare le libertà. Questo è lecito? Talora può sembrare che lo sia, ad esempio nella clonazione.

D. E in altri contesti?

R. A mio parere il diritto deve intervenire senza arroganza, senza abusare, lasciando le persone libere di decidere in coscienza. Il caso di Eluana Englaro è un esempio lampante dell’uso prepotente della legge e anche del ritardo culturale e politico che vive l’Italia. Il potere e la Chiesa hanno deciso, violando il dettato costituzionale sull’inalienabile diritto della persona alla dignità e alla salute, che era necessario intervenire per limitare la dignità di quella donna ormai senza vita cerebrale e il diritto di suo padre a decidere per lei. Il problema non è solo lo strappo autoritario del potere politico, ma l’insensata sfida alla norma suprema, la Costituzione, e l’attiva partecipazione della Chiesa a quell’attacco.

D. La proibizione della fecondazione assistita è stata confermata in Italia da un referendum popolare.

R. Alcune scoperte scientifiche pongono in dubbio l’antropologia profonda dell’essere umano come l’uso e il non utilizzo di diversi embrioni nelle tecniche di fecondazione assistita. Il diritto deve prevedere queste innovazioni, non bloccarle. Gli scienziati chiedono regole per sapere se le loro scoperte sono eticamente e socialmente accettabili. Un uso prepotente della legge limita le loro ricerche, nega il progresso umano e così si appropria delle nostre vite perché ci nega ogni diritto o peggio, lo nega solo ad alcuni. Gli italiani ricchi possono andare in Spagna a sottoporsi alle tecniche di fecondazione, ai poveri ciò è precluso. Si crea una cittadinanza fondata sul censo e si distrugge lo Stato sociale. La vita viene prima della politica e del diritto.

D. L’Italia attuale è sottomessa al fondamentalismo cattolico?

R. L’Italia è un laboratorio del totalitarismo moderno. Il potere, abusando del diritto, privatizzandolo e considerandolo una merce, crea le premesse per un fondamentalismo politico e religioso e questo mina la democrazia. I vescovi italiani si oppongono al testamento biologico; quelli tedeschi ne hanno proposto una regolamentazione che è più avanzata di quella elaborata dalla sinistra italiana. Ad un anno dalla morte di Eluana, Berlusconi ha scritto una lettera alle suore che l’assistettero comunicando loro il suo dolore per non averle potuto salvare la vita. Ha ammesso pubblicamente che il potere ha tentato di appropriarsi della vita di Eluana; adesso sta proponendo alla Chiesa un “piano per la vita”, come moneta di scambio perché lo appoggi e gli permetta così di continuare a governare. Cioè ha svenduto lo Stato di diritto al Vaticano per quattro soldi.

D. Gli omosessuali continuano a non avere diritti e i laici contano sempre meno.

R. La Corte costituzionale si è pronunciata nel senso che il Parlamento deve legiferare riconoscendo il matrimonio omosessuale; questo diritto è già garantito dalla Carta dei diritti dell’Unione europea. Abbiamo bisogno di un diritto sobrio, non negatore dei diritti; la religione non può condizionare la libertà. La Costituzione del 1948 all’art.32 afferma che la legge non può mai violare i limiti imposti dal rispetto della vita umana; detto articolo fu elaborato ricordando gli esperimenti nazisti e con la memoria rivolta ai processi contro i medici (nazisti NdT) a Norimberga. Fu un articolo voluto da Aldo Moro, un politico cattolico!

D. Ha mai pensato che avrebbe un giorno rimpianto la Democrazia Cristiana?

R. Quei politici avevano ben altro spessore culturale. La dialettica parlamentare tra la DC e il PCI era di un livello che oggi appare impensabile. Mentre la DC era al potere, si approvarono le leggi sul divorzio e sull’aborto; i democristiani sapevano che la società e il femminismo le volevano e capirono che opporsi li avrebbe danneggiati politicamente. Molti di loro erano dei veri laici,avevano il senso della misura e maggior rispetto verso gli avversari. Oggi siamo ridotti al turismo per poter nascere e morire, la gente si prenota negli ospedali svizzeri per poter morire con dignità. È mai possibile che uno Stato democratico obblighi i suoi cittadini a chiedere asilo politico per morire? Il diritto deve regolare questi conflitti, non acuirli.

D. Rosa Luxemburg diceva che dietro ogni dogma c’era un affare da difendere.

R. Certo, immagino che gli interessi della sanità privata influenzino le posizioni del Vaticano. Rispetto alle conclusioni del Concilio, le cose sono andate progressivamente peggiorando e oggi l’Italia è governata da movimenti come Comunione e Liberazione, che fanno affari favolosi con l’aiuto e il consenso del Governo. La cattiva politica è figlia della cattiva cultura; i problemi attuali nascono dal degrado culturale. Spero che il regime politico di Berlusconi finisca al più presto, ma ci vorranno decenni per superare gli effetti di questo deserto culturale. L’uso della televisione non solo come strumento di propaganda, ma come mezzo di abbruttimento; la degenerazione del linguaggio… tutto è peggiorato. Il degrado ha invaso un’area molto più ampia di quella del centro-destra e c’imbattiamo dovunque in comportamenti speculari a quelli di Berlusconi.

D. Vengono posti in discussione persino i diritti del lavoro.

R. Il pensiero giuridico si è molto impoverito. Negli anni settanta approvammo una riforma radicale del diritto di famiglia perché la cultura giuridica e la sua ispirazione democratica lo permisero. Si chiusero i manicomi, si approvò lo Statuto dei lavoratori… riforme che oggi sarebbero impensabili.

D. La sinistra non reagisce adeguatamente, perché?

R. Il recupero della cultura è la premessa per ridar fiato all’iniziativa della sinistra. Tutti dicono che si deve guardare al centro, io credo che si debba prima rianimare la sinistra. Craxi distrusse la socialdemocrazia, il PCI si è suicidato, un cataclisma di cui perdurano ancora gli effetti. Abbiamo perso il primato della libertà e oggi comanda l’uso privato e autoritario delle istituzioni. La società si è decomposta, il Paese rischia il disfacimento. La politica mostra i muscoli e il diritto si sbriciola.

D. L’Europa ci salverà?

R. L’Europa non vive un momento splendido. Aumentano xenofobia e razzismo; la debolezza culturale italiana si allarga a tutto il continente. Trono e altare sono di nuovo alleati, anche se in un’altra maniera rispetto al passato. Oggi assistiamo alla fusione di mercato, fede e politica che pretendono di organizzare le nostre vite manipolando il diritto. Il problema italiano non è l’insufficiente contrasto della corruzione, bensì che la si promuove ai sensi di legge, come emerge dallo scandalo della Protezione civile: si è derogato dalla trasparenza e dai controlli ordinari per poter rubare più facilmente. Negli anni settanta le tangenti erano ridicole e comunque c’era maggiore compostezza e rispetto della collettività. Craxi ebbe un ruolo devastante, rappresentò un cambio d’epoca. Adesso si è imposta la regola “Se lo fa Berlusconi, perché non lo posso fare io?”.

Il testo originale di El Paìs è qui

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