LE LEGGI
Da Galli a Ronchi, la gestione for profit
di Ugo Mattei
Nelle scorse settimane si è sviluppata una polemica fra quanti tramite il referendum intendono difendere l'acqua come bene comune e chi invece ritiene sufficiente la sua attuale collocazione come bene pubblico, facente parte del cosiddetto demanio idrico. Infatti l'attuale normativa sullo stato giuridico dell'acqua contenuta nel Codice Civile e nella legge Galli del 1994 prevede che l'acqua sia un bene pubblico di natura demaniale. Ai sensi di quest'ultima, «tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà». La stessa legge inoltre stabilisce che «qualsiasi uso delle acque è effettuato salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale. Gli usi delle acque sono indirizzati al risparmio e al rinnovo delle risorse per non pregiudicare il patrimonio idrico». Tale enfasi testuale è mantenuta dal decreto Ronchi che prevede (art. 15): «Piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche». Secondo questa posizione, ripetuta da Ronchi anche al manifesto il 28 aprile, il decreto, approvato senza discussione parlamentare lo scorso novembre, non riguarda il bene acqua ma solo la gestione del servizio idrico. Che vogliono i referendari? L'acqua è e resta pubblica, il governo rende obbligatoria soltanto la gestione privata del servizio idrico, sostiene il ministro che ci accusa di menzogna e mistificazione mediatica.
Di fronte ad un tale scenario, il giurista incontra diversi interessanti spunti di riflessione. Innanzitutto, la legge Galli sopra citata costituisce un esempio quasi di scuola di quel conflitto fra declamazioni e regole operazionali che i giuristi più avvertiti hanno da tempo imparato a smascherare soprattutto grazie all' insegnamento del maestro torinese Rodolfo Sacco. Infatti è proprio la stessa legge Galli, in contraddizione con la retorica solidaristica ed ecologista dei suoi articoli di apertura, che inaugura nel nostro paese (in pieno periodo di privatizzazioni per «entrare in Europa»), tramite i suoi successivi articoli (oggetto a loro volta del prossimo referendum) la gestione privata for profit dell'acqua. Così facendo essa ha reso possibile, per la prima volta in Italia, assegnare in gestione ai privati un monopolio naturale, quel servizio idrico tramite il quale l'acqua arriva ai nostri rubinetti. Il giurista osserverà ancora (e lo ha fatto Rodotà proprio martedì 27 sulla prima del manifesto ) come a partire da un famoso libro di Berle e Means, la proprietà formale conta assai poco, mentre sono i manager, ossia i gestori, ad avere il pieno potere. Poco importa che l'acqua resti parte del demanio pubblico quando sarà la logica del profitto a fissarne i prezzi e a decidere sul se e sul come degli investimenti necessari per la sua gestione. Se deve farsi spazio per una certa percentuale di profitto dalla gestione del monopolio sulla rete idrica (addirittura garantito al 7% da un'altra disposizione oggetto di referendum) è logicamente impossibile che questi soldi non vengano reperiti o risparmiando sugli investimenti o aumentando le tariffe. E la storia della gestione privata dell'acqua, da Cochabamba (dove da poco si è festeggiato, con un meeting internazionale, il decennale della storica vittoria contro la multinazionale Bechtel che costò la presidenza a Sanchez de Lozada) a Parigi (dove a partire dal gennaio 2010 si è ripubblicizzato il servizio idrico) passando da Aprilia (dove la ripubblicizzazione è stata decisa proprio la scorsa settimana, anche se Acqualatina non vuole riconsegnare le chiavi dell'acquedotto al comune), realtà nelle quali, dopo molte lotte, gli utenti vessati sono riusciti a far invertire la rotta della privatizzazione, dà una conferma storica alla logica di cui sopra.
Del resto anche le sorgenti da cui sgorga l'acqua minerale sono demaniali e la loro acqua resta formalmente pubblica. Tuttavia esse vengono date in concessione a prezzi irrisori a società private, spesso multinazionali, che con enormi profitti (testimoniati fra l'altro dalla pubblicità arrembante) imbottigliano e distribuiscono l'acqua minerale privatizzando di fatto il prodotto della sorgente e scaricando sulla collettività i costi del riciclaggio della plastica e quelli dell'inquinamento dei camion che trasportano le bottiglie.
Queste considerazioni di buon senso stanno spingendo la cultura giuridica internazionale verso l'elaborazione della categoria del «bene comune» diverso tanto dal bene oggetto di proprietà privata quanto da quello oggetto di proprietà pubblica. Secondo la sua più autorevole concettualizzazione, elaborata dalla Commissione Rodotà a seguito di un lungo lavoro condotto all'Accademia Nazionale dei Lincei, e ora oggetto di proposta di legge delega presentata in Senato, i beni comuni «esprimono utilità funzionali all' esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall'ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future e ne deve essere garantita in ogni caso la fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge... essi sono collocati fuori commercio. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque». L'ampio coinvolgimento che sta derivando dalla campagna di raccolta delle firme iniziata a tambur battente nel weekend del 25 aprile potrebbe rendere finalmente oggetto di discussione pubblica questioni che dietro all'apparenza tecnica celano scelte politiche drammaticamente urgenti. Come vogliamo usare le nostre ricchezze comuni superando sia la logica del profitto privato che quella, altrettanto obsoleta, della demanialità (poco importa se statale o federale)?
L'EUROPA
La leggenda dell'obbligo di privatizzare
Alberto Lucarelli
Adifferenza da quanto afferma la legge Ronchi, il processo di privatizzazione in Italia è indotto da una ben determinata strategia economico-finanziaria e non è imposto da vincoli europei giuridico-economici. Stati membri ed enti locali sono liberi di individuare servizi di interesse generale e servizi di interesse economico generale che intendano gestire direttamente, ovvero non in forza ai principi di competitività e concorrenza. In particolare va chiarito che è compatibile con il diritto comunitario che la gestione dei servizi di interesse economico generale e servizi di interesse generale avvenga attraverso un soggetto di diritto pubblico, estranei alle regole del diritto societario. Il diritto comunitario non obbliga alla gara e pertanto un comune può liberamente decidere di esercitare, attraverso un soggetto di diritto pubblico - e non una società pubblica- tali servizi sulla base dei principi costituzionali (artt. 5, 43, 114, 117), dei propri statuti e del proprio potere regolamentare. Come sta avvenendo diffusamente in molte realtà locali francesi, fra queste Parigi, i comuni stanno affidando, direttamente senza gara, la gestione dei servizi idrici ad imprese di diritto pubblico. I comuni, in base a specifiche disposizioni del trattato, possono decidere di non procedere con gara.
L'orientamento complessivo della Corte di Giustizia tende a conservare il principio dell'affidamento diretto senza gara a soggetti di diritto pubblico, a condizione che ciò sia legittimato da esigenze precise e riferibili al perseguimento dell'interesse generale, alla salvaguardia di beni sociali, alla tutela di obiettivi extra-economici, di carattere sociale, ambientale e culturale. Per procedere in tal senso è sufficiente che la scelta politica dell'affidamento diretto, senza gara, sia proporzionale al raggiungimento delle esigenze di carattere generale e che si dimostri che ricorrano i presupposti per il ricorso a tale scelta. La dimensione politica dei comuni, riconosciuta dalla Costituzione, attribuisce loro il potere di affermare e dimostrare che la gara e la concorrenza impediscono di raggiungere la missione loro affidata. In tal senso, va ricordato che con l'attuale art. 14 del trattato europeo si riconosce l'importanza dei servizi di interesse economico generale nell'ambito dei valori comuni dell'Unione europea e si stabilisce che gli Stati membri debbano provvedere affinché tale servizi funzionino in base a principi e condizioni che consentano loro di assolvere i relativi compiti. In sostanza, la regola della concorrenza, anche per i servizi di interesse economico generale non avrebbe valore assoluto, ma risulterebbe limitata dal raggiungimento dei fini sociali e dal rispetto dei valori fondanti l'Unione quali sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, solidarietà, elevato livello dell'occupazione e protezione dell'ambiente, della salute e dei consumatori. Il diritto comunitario, delinea uno Stato non soltanto regolatore, ma altresì in grado di gestire l'attività produttiva, in particolare negli ambiti in cui è alto l'impatto sociale. L'obiettivo e la garanzia di raggiungere livelli specifici di servizi, che tengano conto di una variegata dimensione sociale, consentono legittimamente di derogare alla regola della concorrenza e quindi alla gara, attribuendo poteri esclusivi ad un determinato soggetto di diritto pubblico. In questo senso all'utente destinatario del servizio tende a sostituirsi la figura del cittadino, titolare di diritti fondamentali (diritti universali di cittadinanza).
Si tratta di settori che possono essere individuati in autonomia dagli Stati membri e dagli enti locali e che, come affermato dalla commissione europea, si differenziano dai servizi ordinari per il fatto che le autorità pubbliche possono ritenere che debbano essere garantiti al di fuori delle regole del mercato. La nozione di «coesione sociale» in ambito europeo, applicata ai servizi di interesse economico generale, non solo costituisce un limite ed un freno al partito bipartisan dei privatizzatori, ma impone altresì una rivalutazione dell'art. 43 della Costituzione. Questo favorevole quadro normativo europeo consente ed incentiva deroghe alla gara ed alla regola della concorrenza, ogni qualvolta si ritenga che siano messi in discussione i principi fondanti dello Stato sociale. Inoltre, l'art. 43 della Costituzione riacquista tutta la sua forza, in particolare come modello e fondamento di gestione alternativa dei servizi pubblici essenziali. Un modello che dovrà essere studiato, definito ed enfatizzato nei prossimi anni: il governo pubblico partecipato dei beni comuni, fondato sull'universalità dei diritti e sul principio di eguaglianza sostanziale, e su quella solidarietà sociale che non può prescindere dall'azione dei pubblici poteri. In conclusione è possibile affermare che l'impresa pubblica, soggetto di diritto pubblico, al di fuori di qualsivoglia forma di competizione e gara, è compatibile con il diritto comunitario e ha pieno titolo di cittadinanza nel nostro ordinamento. La legge Ronchi che obbliga i comuni a scegliere attraverso gara il proprio gestore, snaturandone autorità, ruolo e funzioni, va ritenuta in contrasto con l'assetto normativo comunitario e costituzionale. La gara non è né un principio comunitario, né un principio costituzionale, ma una semplice regola, e come tale, ogni qualvolta si ritenga che rappresenti soltanto la base per una manovra speculativa e finanziaria e non sia invece in armonia con gli obiettivi economico-sociali di un territorio e di una comunità, essa è legittimamente derogabile da parte degli enti locali attraverso un affidamento diretto ad un soggetto di diritto pubblico.
PER ORIENTARSI
Si firma per tre quesiti. Il primo ha lo scopo di fermare la privatizzazione dell'acqua , impedendo che venga mercificata. Molti comuni italiani hanno già scelto la strada della privatizzazione e questo ha significato un aumento del costo dell'acqua senza un miglioramento del servizio. Il secondo quesito è consequenziale: favorire la ripubblicizzazione del servizio idrico . Se il referendum passasse si impedirebbe il ricorso alle gare e all'affidamento della gestione dell'acqua a società di capitali. Si sosterrebbe così la gestione dell'acqua attraverso enti di diritto pubblico con la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Il terzo intende eliminare la possibilità di fare profitti sull'acqua. SUL WEB Per sapere dove si può firmare basta cliccare su www.acquabenecomune.org. Basta cliccare sulla regione di appartenenza per vedere nella propria città dove si possono trovare i banchetti. Ovviamente si può firmare anche negli uffici comunali. Sul sito del manifesto www.ilmanifesto.it) c'è una sezione dedicata all'acqua bene comune, con articoli di archivio, documenti e un video «ad acqua armata». Il sito ufficiale del comitato referendario è www.siacquapubblica.it. Un altro sito di riferimento è quello del Contratto mondiale dell'acqua www.contrattoacqua.it). Fondamentale, se ci si appassiona all'argomento, una visita al sito del comitato di Aprilia, primo comune d'Italia a ripubblicizzare l'acqua grazie alla battaglia dei cittadini (www.acquaprilia.altervista.org.
LA PROPRIETÀ
Forma pubblica e sostanza di mercato
Gaetano Azzariti
Strana l'accusa di ideologismo rivolta dal ministro Ronchi al Forum italiano dei movimenti per l'acqua che ha promosso i referendum sulla questione quanto mai pragmatica della gestione delle risorse idriche. Si può ovviamente dissentire nel merito, ma negare che esso riguardi le modalità concrete di usare le risorse essenziali per la vita delle persone con immediate ripercussioni sulla qualità del vivere quotidiano appare francamente curioso. Tanto più se a contrastare la battaglia per un uso diverso dei beni comuni (l'acqua, ma non solo) si contrappone un'interpretazione del diritto quanto mai datata, trincerandosi dietro un nominalismo ormai del tutto privo di ogni riscontro con la realtà dei fatti. Nessun giurista, infatti, crede più alla leggenda della sufficienza dell'imputazione formale della proprietà. Il fatto che il decreto Ronchi conservi la proprietà delle risorse idriche in capo alle istituzioni pubbliche, ma assegni in via ordinaria la gestione del servizio di erogazione a imprenditori o società in qualunque forma costituite, incluse le società a partecipazione mista, individuati mediante procedure competitive, ha un effetto giuridico immediato e non mascherabile: il passaggio della cura del bene materiale oggetto della gestione (del suo sfruttamento economico e delle conseguenti decisioni strategiche relative al servizio) dal soggetto formalmente proprietario a quello materialmente in grado di utilizzarlo. D'altronde, il fatto che si pensi ad un'Autorità di controllo nazionale dimostra della necessità di istituire un ente che, non potendo certo sostituirsi ai privati nelle decisioni in merito allo sfruttamento economico e all'amministrazione generale del servizio, almeno impedisca possibili comportamenti speculativi. Dunque, com'è per la borsa e i titoli azionari, o per il mercato e le merci in genere, si assegna ad autorità amministrative il compito di sovrintendere la libera attività dei soggetti privati che operano nella finanza o nel commercio, senza perciò che nessuno ponga in dubbio che le logiche siano quelle economiche e di profitto, senza che nessuno avanzi la pretesa che siano i controllori a decidere sui controllati. Questa è oggi la regola per la «gestione» dei beni privati, dove è frequente la scissione tra proprietà formale e controllo della risorsa. Può essere questa la regola anche per i beni comuni, per quei beni essenziali alla sopravvivenza del genere umano, che si pongono a fondamento del suo possibile sviluppo? È questa semplicemente e concretamente la domanda che il Forum italiano dei movimenti per l'acqua pone.
Nulla di ideologico, solo una scelta di civiltà. È ben vero - come sottolinea con vigore il ministro Ronchi - che la gestione pubblica può dare luogo a sprechi, inefficienze, lotte di potere e occupazione abusiva di poltrone; sebbene, a non voler essere «ideologici», bisognerebbe riconoscere che simmetriche distorsioni sono riscontrabili anche nel privato, le cui commistioni perverse con il sistema dei poteri sono purtroppo sempre più frequenti e particolarmente intense nel settore dei servizi essenziali per la comunità. E allora la soluzione va ricercata altrove: non nella semplice contrapposizione tra la formale pubblicizzazione del bene e la sostanziale privatizzazione del servizio, bensì nella sfida a pensare un nuovo statuto disciplinare dei beni comuni al servizio dei diritti fondamentali delle persone. Una questione strategica, dunque, che certamente non può esaurirsi nella richiesta di abrogare alcune norme di legge mediante referendum, ma che propone di tornare a riflettere sul modello di sviluppo, sull'uso delle risorse, sull'idea che i beni comuni si debbano porre al servizio dei diritti fondamentali e non invece diventare strumento per produrre ricchezza privata. La questione che si pone va ben oltre la stessa vicenda specifica - pur fondamentale - della gestione dell'acqua, riguarda la richiesta di individuare alcuni settori del vivere civile da sottrarre alle regole del mercato. I beni comuni materiali (l'acqua, i servizi pubblici in generale), quelli immateriali (la ricerca, il sapere, l'università), insomma tutti quei beni necessari alle esigenze primarie della persona e al suo sviluppo, non possono essere trattati come semplici merci, poiché essi devono garantire i diritti inviolabili dell'uomo, e dunque sul loro valore di scambio deve prevalere il loro valore d'uso. Questo è il punto essenziale.
D'altronde, è la nostra Costituzione ad imporre un limite allo sfruttamento economico delle risorse se queste rischiano di ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Spetta a noi ribadirlo nei concreti ambiti di vita sociale, l'acqua è certamente uno di questi. Partendo da un'esigenza primaria per la vita di ciascuno, com'è il diritto all'acqua, possono allora superarsi vecchie concezioni che oggi vanno per la maggiore e che vinceranno fin tanto che continueremo a credere che siano il contrario di ciò che sono: mascheramenti di visioni conservatrici prodotti da falsa coscienza. È ora che la cultura di sinistra convinca se stessa di non essere il vecchio, ma di poter rappresentare un nuovo mondo possibile. Riflettere sui beni comuni può essere un inizio.
L’AUTHORITY
Perché si tratterebbe di un ente inutile
Luca Nivarra
Sostiene Ronchi: «La chiave del dibattito è piuttosto quella di individuare controllori efficienti con poteri reali. In questo senso sarebbe quanto mai opportuna un'Autorità di controllo a livello nazionale». Frutto stantio del neoliberismo in salsa italiana, il mantra «pubblico o privato per me pari sono», recitato dal ministro Ronchi sul manifesto del 28 aprile, esprime un punto di vista ideologico almeno quanto quello che egli imputa ai suoi interlocutori. Dietro la riproposizione di un autentico luogo comune, si nasconde, infatti, un occultamento tutto ideologico, appunto, della realtà. Va osservato, intanto, che l'equivalenza tra «pubblico» e «privato» ha, nell'ambito in cui essa viene elettivamente praticata, cioè nel diritto dell'Unione Europea, una netta impronta pragmatica. Infatti, il legislatore comunitario, dettando regole destinate a trovare ingresso in ordinamenti giuridici tra loro eterogenei, privilegia un approccio che guarda alla sostanza economica piuttosto che alla forma giuridica. In altri termini, nella prospettiva dell'Ue, non è importante che un'impresa sia pubblica o privata: ciò che conta è che essa sia assoggettata al medesimo trattamento normativo e, in particolare, alla disciplina antitrust (salvo talune eccezioni), posto che la promozione della concorrenza rappresenta uno degli obiettivi primari della stessa Unione. L'equivalenza tra «pubblico» e «privato» di matrice comunitaria dunque è, sotto il profilo politico, del tutto neutra, lasciando i singoli Stati membri liberi di scegliere l' uno o l'altro modello purché vengano rispettate le condizioni proprie di un mercato concorrenziale.
Sicché, trincerarsi dietro l'Europa per giustificare una scelta che la stessa Europa non ci impone affatto, è, a dir poco, arbitrario. Proseguendo nel ragionamento, dobbiamo ricordare che, storicamente, l'osservanza delle regole antitrust , oltre che ai giudici ordinari, è stata affidata ad agenzie pubbliche che costituiscono il prototipo delle Autorità indipendenti (per es., nel diritto statunitense, la Ftc, nel diritto italiano, l'Agcm). L'istituzione di un'Autorità indipendente, poi, può aver luogo anche in presenza di monopoli naturali, là dove, quindi, non potendosi dispiegare una competizione tra imprese, l'unico operatore del settore va sottoposto a controllo per evitare abusi a danno di utenti e consumatori (questo, per es., è quanto avvenuto nel settore del gas e dell'energia elettrica con l n. 481/95 che, appunto, nel dettare norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità, ha previsto un'apposita Autorità). È chiaro che, quando auspica l'istituzione di un'Autorità di controllo per il settore idrico, il Ministro Ronchi ha in mente il modello dell'agenzia regolatoria sulla falsariga di quella già operante negli ambiti disciplinati dalla l. n.481/1995.
Si consideri allora che l'acqua è un bene sui generis , finalizzato al soddisfacimento di bisogni più che fondamentali. Non a caso, in base all'art. 144 co. 2 del Codice dell'Ambiente, essa «va tutelata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà ; qualsiasi suo uso è effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale»: e disposizioni di tenore analogo si ritrovano in molte dichiarazioni internazionali. Dunque, l'acqua è un «bene comune», nel significato introdotto dalla Commissione Rodotà e, in quanto tale, sottratta ad un'istanza come il profitto. Se è così (ed è così, sebbene l'art. 23 bis della legge 133/08 oggetto del primo quesito referendario, includa quello idrico tra i servizi pubblici locali di rilevanza economica), l'istituzione dell'ennesima Autorithy sarebbe o inutile o ingannevole. Inutile perché, se si vuole preservare la destinazione dell'acqua al soddisfacimento di bisogni irriducibili al mercato e al profitto, i compiti di un'ipotetica Autorità andrebbero oltre l'ambito puramente regolatorio entro il quale si muovono le tradizionali agenzie di controllo: in altri termini, essa finirebbe, a causa della inevitabile invasività della sua azione, per indossare i panni del vero gestore del servizio, sicché di gran lunga preferibile appare la soluzione, preconizzata dal referendum, che affida il servizio medesimo ad un'azienda di diritto speciale. Ovvero, come è realistico attendersi, del tutto ingannevole perché, in ragione della particolare natura del bene acqua e della qualità degli interessi coinvolti, il gestore del servizio, mosso da un intento lucrativo, finirebbe per sottoporre il regolatore ad una pressione così forte da renderlo innocuo. Insomma, è venuto il momento di voltare pagina e liberarsi dell'effetto di incantamento delle tante formule magiche che il neoliberismo (e le sue varianti «riformiste») ha profuso a piene mani. E, tuttavia, deve esser chiaro che il «pubblico» al quale restituire la gestione di beni e servizi fondamentali per la collettività non può essere quello opaco e, a sua volta, «privatizzato» che ormai sperimentiamo da molti anni: ma questo è il grande tema della rinascita della democrazia italiana.
Gli autori degli articoli
Gaetano Azzariti È ordinario di Diritto Costituzionale alla Sapienza di Roma. Luca Nivarra È ordinario di Diritto civile all'Università di Palermo. Ugo Mattei È professore di Diritto civile all'università di Torino e di diritto comparato all'università della California. È coordinatore dell'International University College di Torino. Alberto Lucarelli È ordinario di Diritto pubblico all'Università Federico II di Napoli.
Perché le ragazze italiane di oggi rifiutano l’eredità del femminismo? La domanda ce la facciamo in molte da un bel pezzo. Ma è la prima volta che ascoltiamo una risposta esauriente come questa che ci dà Marisa Rodano. Primo, osserva, perché si sentono libere, da un lato, e, dall’altro, non sanno che la parità acquisita non è «naturale» ma ha richiesto battaglie durate decenni; secondo, perché condividono «paritariamente» coi coetanei maschi il grande dramma di questi anni, la precarietà; terzo, perché vivono, come tutti noi, in un’epoca segnata da un feroce individualismo. Marisa Rodano, 89 anni da poco compiuti, può dirlo perché prima «c’era». Memorie di unache c’era s’intitola il saggio in cui ricostruisce la storia dell’associazione di cui è stata nel ‘44-45 tra le fondatrici, l’Udi, e che ha presieduto dal ‘56 al ’60. Sono, i secondi Quaranta e soprattutto i Cinquanta e i primi Sessanta, gli anni, sotto questo aspetto, cruciali, ma anche più opachi e di cui si ha meno memoria. E sono quelli appunto che metteremo a fuoco in questo colloquio. Perché l’idea su cui si reggono le appassionanti 276 pagine di questo libro è che in Italia la lotta per la libertà femminile non sia esplosa ex-novo alla fine degli anni ‘60, quando il «personale» diventò «politico», come opinione comune oggi vuole, ma sia corsa lungo l’intera storia repubblicana, E che essa subisca oggi una totale rimozione.
Oggi, le chiediamo, le trentenni non avrebbero un tema enorme per cui lottare, la maternità impossibile? «È come se non l’avvertissero. Forse perché il modello televisivo impone un’altra idea di sessualità, dove la molteplicità dei rapporti è preferibile a una relazione duratura. E in un quadro così la maternità perde importanza» replica. Pensando a queste stagioni viene in mente la parola «beffa». Non è come se certe parole d’ordine di un tempo, per esempio «autodeterminazione», ci tornassero indietro capovolte? «Io ho l’impressione che siamo sotto un contrattacco grave. Gran parte delle conquiste legislative oggi sono diventate diritti inesigibili. Se c’è il precariato, quanto vale il divieto di licenziamento per matrimonio? E se non hai copertura previdenziale, cosa significa tutela della maternità?» ribatte.
Memorie di una che c’eraci rinfresca la memoria. L’Udi nasce nel 1945, a Firenze, col primo congresso. Dietro c’erano i Gdd, Gruppi di difesa della donna nell’Italia occupata e, al meridione, l’impegno di migliaia di donne nei circoli sorti dopo la liberazione di Roma ad opera del Comitato di Iniziativa fondato dalle donne dei partiti del Cln [Comitato di liberazione nazionale].
Nel ‘44 -‘46 quali furono i primi obiettivi?«Il diritto di votare e di essere elette, conseguenza dell’impegno femminile nella Resistenza: le donne erano state catapultate nella sfera pubblica. Chiedevamo il seguito».
Non era successo qualcosa di simile già nell’altra guerra, con le donne in fabbrica?«Allora erano state precettate. La partecipazione alla Resistenza invece era stata volontaria. E di massa. Dopo la prima guerra mondiale si era creato un movimento di femministe cattoliche e laiche, per chiedere il voto, ma era un’avanguardia minoritaria. Poi si insediò il regime fascista, che operò una totale cancellazione di quella esperienza».
Nel ‘45-46 qualcuno ancora si azzardava a dire che le italiane non dovevano votare?«I favorevoli erano i partiti nuovi, azionisti, Pci, Psi, Dc. Altrove allignava un’ostilità appena mascherata. Non osavano dire “no”, ma rimandavano alla Costituente. Ma un’Assemblea tutta di maschi cosa avrebbe deciso? Nel ’45, 13 milioni di italiane erano casalinghe, il 10% firmava con la croce. Nel codice erano sanciti debito coniugale e delitto d’onore, il marito poteva vietare alla moglie di lavorare. C’erano donne nelle professioni. Ma era una cosa per ricchi. Io ho imparato allora, per diretta esperienza, che quando i diritti dell’uomo si affermano, lì comincia la battaglia per i diritti delle donne».
La Chiesa?«Era per il sì. Pio XII nel discorso del 21 ottobre ‘45 dice chiaro, “Tua res agitur”. Perché pensava che le donne, praticanti, mentre gli uomini si erano distaccati dalla Chiesa, potessero operare a difesa della religione».
Nel libro riporti, con lo stupore incantato di allora, ragazza da poco iscritta al partito, il discorso di Togliatti l’8 settembre ‘46. Denunciava la «mentalità arretrata» della base e dei quadri. Quanto maschilismo c’era, nel Pci?«Non è che aver fondato il Pci cambiasse dall’oggi al domani la testa della gente».
Iotti, Merlin, Noce, Federici, Montagnana... Ventuno donne su 556, cinque di loro nella Commissione dei 75. Nella Costituente erano abbastanza per scrivere una Carta all’altezza?«Le formulazioni su famiglia, parità, diritto al lavoro, furono praticamente scritte da loro. Oggi, scriveremmo diversamente l’articolo 3, lì dove il sesso è accomunato a razza, lingua, religione, opinioni politiche. Ma la nostra Costituzione è straordinaria. Pur se largamente inapplicata».
Tra il ‘45 e il ‘47 l’Udi era impegnata su cose praticissime: i prezzi del cibo e la casa. E, prima su tutte, per i bambini. Era naturale, allora, questo «maternage» politico di massa? Che parlando di donne si parlasse in primis di figli?«Nello statuto, adottato al I ̊ Congresso, l’Udi aveva come obiettivi l’”elevazione” delle donne, la tutela dei loro diritti nel lavoro, la difesa delle famiglie e i problemi dell’infanzia. Dai bambini proprio non potevi prescindere. Ricordo che ce n’erano dappertutto, ai comizi, alle manifestazioni. E, per avere rapporto con le donne più semplici, un’organizzazione di massa doveva occuparsene, la richiesta veniva da loro».
Tra il ‘47 e il ‘53 avviene una strana eclissi: scompare la parola «diritti». E il suo posto viene preso dalla parola «pace». La Guerra Fredda cancella la specificità femminile?«Sì, e fu un errore. Al congresso del ‘47, con la rottura del fronte antifascista, e la minaccia della bomba atomica, l’Udi cambia linea e si schiera col Fronte Democratico Popolare. Hanno il sopravvento i cosiddetti temi generali. Si butta tutto nella battaglia elettorale. Per vincere. Invece perdiamo».
Nel ‘56, al congresso in cui diventi presidente dell’Udi, nella tua relazione la parola «emancipazione» torna. S’accompagna a una proposta scioccante: le donne devono unirsi sulla base “esclusiva” dei loro interessi. Addio ai partiti?«Merito, molto, fu di Nilde Iotti, all’Udi da tre anni. Ma dopo anni di scontro frontale far digerire l’idea che l’appartenenza fosse al genere e non al partito non era facile. Non ci aiutò il contesto: crisi di Suez, Ungheria. Il documento non potè essere adeguatamente discusso. Aiutò invece l’VIII ̊ Congresso del Pci».
«Emancipazione» è stata una parola messa a processo poi dal femminismo. Per voi cosa significava? Le donne dovevano emanciparsi come avevano fatto gli schiavi?«Significava conquistare il diritto a lavoro, indipendenza economica, autodeterminazione. Uscire dalla schiavitù del destino servile, secondario, segnato per nascita».
Dopo il Sessantotto che aveva messo in discussione tutto lo status quo, famiglia e scuola, partiti e sindacato, le «figlie» le neofemministe si ribellarono appunto a queste «madri». E nell’81 l’Udi, in quanto organizzazione di massa, si scioglie. «Noi abbiamo tardato a capire la novità del femminismo. Ma il femminismo ha sbagliato a ridurre la nostra battaglia per i diritti a una lotta per l’omologazione» commenta oggi Marisa Rodano. La storia continua così: i semi della Carta germinano, tutela della maternità, parità salariale, accesso alle carriere, tutela del lavoro a domicilio, lotta alle discriminazioni indirette, servizi sociali, standard urbanistici, diritto di famiglia, divorzio, aborto, violenza sessuale...
C’è una parola che lega il movimento delle donne nel corso di tutto il Novecento, chiediamo? « Forse non solo una: libertà, ma anche diritti, parità, autodeterminazione».
Il libro
«Memorie di una che c’era» storia dell’Udi. Ma non solo. Marisa Rodano (Roma, 1921), nella Resistenza romana e nel Partito della Sinistra Cristiana, poi nel Pci, è stata tra le fondatrici dell’Udi e sua presidente dal ‘56 al ‘60. Nel ‘63 è la prima donna vicepresidente della Camera. È stata senatrice e parlamentare europea. Ha raccontato la sua vita in «Del mutare dei tempi» (due volumi, Memori 2008). «Memorie di una che c’era. Una storia dell’Udi» (Il Saggiatore, pp. 284, euro 19) è il suo nuovo libro appena pubblicato.
Sottovalutando o minimizzando, in queste prime ore, il significato del voto il Partito democratico non sembra comprendere davvero quel che è successo.
Eppure, non c´è molto da discutere. Al solidissimo blocco lombardo-veneto del centrodestra si era già unito due anni fa il Friuli-Venezia Giulia e si aggiunge ora il Piemonte: se si considera che entrambe le regioni erano state ben governate, in sostanza, dal centrosinistra, l´inquietudine aumenta.
Restano le regioni rosse, ma in Emilia il centrosinistra perde quasi l´11% rispetto al 2005 e la Lega, che aveva allora poco più del 4%, giunge a sfiorare il 14%. Per non parlare del 6% conquistato ancora in Emilia dal movimento di Beppe Grillo o, per altri versi, del generale rafforzarsi di Antonio Di Pietro.
C´è poi il Mezzogiorno. Qualcuno dovrebbe spiegare come si è passati dalla nuova stagione annunciata nel 1993 dall´elezione di Bassolino a sindaco di Napoli al disastro di ieri e di oggi, mentre appare più facilmente comprensibile il crollo calabrese: un "suicidio annunciato" cui il gruppo dirigente del Partito democratico ha assistito con una inerzia sorprendente. Inerzia compensata dal grande impegno profuso per perdere anche in Puglia, contrastando con tutte le forze la candidatura del governatore uscente.
Sarebbe un errore, però, attribuire il panorama di oggi solo alla inadeguatezza dei dirigenti del centrosinistra. Occorre invece riflettere sulle cause più lontane di questo esito, guardando sia ai processi che hanno attraversato la società sia alle responsabilità della politica e dello stesso mondo intellettuale. Lo richiede, del resto, l´ingigantirsi stesso dell´astensionismo. Dal 1948 in poi la percentuale dei votanti oscillò per più di trent´anni fra il 92% e il 94%, scendendo sotto il 90% solo nelle regionali del 1980. Fu l´annuncio di un processo che negli anni successivi mescolò l´astensione e il voto di protesta, catalizzato allora dal tumultuoso emergere delle Leghe. Domenica scorsa un italiano su tre non è andato a votare, e rispetto al 2005 il calo è dell´8%.
Il precipitare della crisi degli anni ottanta portò al crollo della "repubblica dei partiti": quasi vent´anni dopo dobbiamo fare i conti con una crisi forse più profonda nel rapporto fra cittadini e istituzioni. Dobbiamo fare i conti, anche, con la sostanziale assenza di una credibile alternativa politica e con il dichiarato progetto del premier di stravolgere il quadro costituzionale e l´equilibrio fra i poteri dello stato. Progetto che esce dal voto rafforzato, oltre che appesantito dalle ipoteche della Lega. Dobbiamo fare i conti, infine, con il consolidarsi di settori sempre più corposi di "società incivile", la cui incubazione prese corpo negli anni ottanta e che poterono confluire nella "idea di Italia" di cui Berlusconi è stato alfiere. Sembrarono però aperte molte vie, nella crisi di Tangentopoli, sino all´"abbaglio" favorito dalle elezioni amministrative del 1993: la voragine che si era aperta allora al centro permise infatti una larga vittoria della sinistra. Il quadro fu radicalmente modificato da due fattori, non da uno solo: dalla scesa in campo di Berlusconi, naturalmente, ma anche dalla incapacità della sinistra di offrire al paese prospettive ed esempi convincenti di buona politica. Prospettiva ed esempi assolutamente necessari in un Paese in cui la critica ai partiti era dilagata, alimentata sia da buone che da cattive ragioni.
Tutto questo avveniva quasi vent´anni fa, e in quest´arco di tempo sono fortemente cresciuti processi di decadimento sia della società civile che della politica, segnati dall´ulteriore deperire dell´etica pubblica e della cultura delle regole. Più ancora, dal nostro orizzonte sembra scomparso il futuro. Sembra scomparsa cioè la capacità di mettere al centro i grandi temi, le grandi sfide.
In un paese sempre più ripiegato su se stesso sono mancati in realtà alla prova quasi tutti gli attori, e il mondo intellettuale è largamente fra essi. In altri momenti della storia della repubblica riviste, gruppi e voci differenti hanno aperto o rafforzato la riflessione sui nodi di fondo. Hanno messo talora in discussione vulgate consolidate, rimescolato schieramenti, aperto frontiere. E´ impietoso il confronto fra la ricchezza del dibattito culturale e politico che precedette il primo governo di centrosinistra, all´alba degli anni sessanta, e la povertà del panorama in cui trent´anni dopo ha preso corpo – o meglio, avrebbe dovuto prender corpo – una rinnovata ipotesi riformatrice: una ipotesi capace di avviare una nuova ripresa dell´Italia e di sgomberare il campo da corpose macerie. Così non fu, e furono lasciate vaste praterie al discutibile "nuovo" variamente rappresentato da Forza Italia e dalla Lega.
Tutto questo rende oggi molto più difficile, e al tempo stesso indifferibile, una radicale inversione di tendenza del centrosinistra e di quelle forze intellettuali e sociali che a quell´area guardano. Esaurite da tempo – o in via di esaurimento – le rendite di posizione, il centrosinistra non può pensare di vincere, e neppure di sopravvivere, senza mettere in campo un "valore aggiunto" capace di parlare alla accresciuta area di cittadini segnati dalla sfiducia, e anche a quelli spesso al confine fra rassegnazione e adeguamento. Capace di scuotere coscienze e intelligenze, rimettendo realmente nell´agenda politica il profilo del nostro domani. Al tempo stesso, se non vuole solo vegliare sul proprio declino, il Partito democratico deve dare segnali robusti e chiarissimi di rinnovamento. Non sembra tempo di ricambi al vertice: un vertice insediato da pochi mesi e privo di alternative credibili, almeno nell´immediato. È però tempo di mutare radicalmente – a tutti i livelli e in tutte le sedi – il volto, la fisionomia, il modo di essere del partito. Anche da questo dipende la sua credibilità residua.
Se un "valore aggiunto" è richiesto al ceto politico del centrosinistra, altrettanto è richiesto alla società civile, o a quel che resta di essa. Negli anni di Tangentopoli Antonio Gambino osservava, su questo giornale: il quadro è fosco non perché da noi i disonesti siano più numerosi che in altre società occidentali ma perché da noi «manca una "cultura dell´onestà". Manca cioè un numero di persone attivamente oneste, capaci di fornire quel "punto di appoggio" senza il quale appare irrealizzabile ogni tentativo di sollevare il paese dal pantano in cui si è infilato». Anche da qui occorre ripartire: nelle professioni, nella società, nelle istituzioni. Sarebbe stato necessario allora ma è ancor più necessario oggi, in un momento importante della "costruzione dei nuovi italiani". Ci si interroga spesso sui mutamenti che i flussi dell´immigrazione possono indurre nel nostro modo di essere: ci si dovrebbe interrogare al tempo stesso su quanto la società italiana – con il suo calante senso delle regole e delle istituzioni – influirà sul modellarsi di questi flussi. Su quanto rafforzerà al loro interno le tendenze negative o quelle positive. La sfida che abbiamo di fronte si gioca anche su questo terreno.
Manuel Castells è uno studioso tanto rigoroso, quanto riottoso a concedere interviste. Preferisce che le sue analisi e riflessioni possono essere ponderate da chi le legge e che vengano misurate sulla «lunga durata» dei fenomeni che studia. La sua trilogia sull'Era dell'informazione (Università Bocconi editore) ha avuto una lunga gestazione - dieci anni - e Castells si è sempre sottratto a chi gli chiedeva se fosse una analisi sul capitalismo digitale, perché ritiene che il «cambio di paradigma» che ha cercato di delineare non riguardava un tipo particolare di società, bensì la concezione stessa di società. Al punto che il terzo volume era interamente dedicato a quelle realtà - la Russia postsovietica e la Cina postmaoista - che lo studioso catalano ha sempre considerato né socialiste, né capitaliste. E anche quando ha analizzato a fondo la struttura tecnosociale alla base del cosiddetto «informazionalismo», cioè Internet, ha sempre messo in guardia sia dai facili entusiasmi che giudicano la Rete una sorta di terra promessa del libero mercato, o all'opposto di una società non mercantile, che quella visione apocalittica che vede il web una bomba lanciata contro il concetto di società, e perché alimenta un individualismo così radicale da sfiorare l'autismo sociale. Ma è sicuramente nel suo ultimo volume, quello dedicato a Comunicazione e potere, che Manuel Castells ha provato a definire un quadro di come la Rete abbia modificato nel profondo le strutture di potere nelle società contemporanee, al punto da costituire una lettura obbligata per mettere a fuoco il legame, contradditorio, tra azione politica, media e comunicazione digitale.
Nel suo libro «Internet Galaxy» nella Rete è molto forte un'etica hacker che ha lo stesso ruolo di quella protestante agli albori del capitalismo, cioè è propedeutica allo sviluppo di un nuovo tipo di società, da lei definita come informazionale. Può spiegare da cosa è caratterizzata l'etica hacker?
Il concetto di etica hacker è stato sviluppato dallo studioso finlandese Pekka Himanen. In primo luogo, il termine hacker non va confuso con quello di crackers, che sono solo dei criminali cybernetici. L'etica hacker è appropriata per comprendere una delle caratteristiche del sistema tecnosociale che chiamo «informazionale», e questo non coincide necessariamente con il capitalismo. L'informazionalismo è infatti una realtà economica, sociale, politica, tecnica basata sulla costante innovazione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e può svilupparsi in una realtà capitalista, come in realtà non capitaliste. Ciò che abbiamo visto manifestarsi in questi ultimi decenni è l'affermarsi di un settore produttivo, chiamato spesso tecnologie dell'informazione, che è diventato nel tempo centrale nella produzione della ricchezza e del potere nelle nostre società.
L'informazionalismo ha sì la sua base nelle macchine digitali, ma è molto più che un network di computer perché considera l'innovazione l'obiettivo prioritario. L'etica hacker è quindi quel sistema di valori che premia la creatività dei singoli e che costituisce l'elemento discriminante per giudicare il proprio lavoro soddisfacente. In altri termini, l'etica hacker ritiene l'espressione della creatività come un fattore fondamentale per la vita dei singoli e ha lo stesso ruolo che ha avuto il «fare i soldi» nel capitalismo. Un hacker valuta la creazione tecnologica o in altri campi come la fonte della proprio piacere e del prestigio nel proprio gruppo di riferimento, cioè gli altri hackers.
Nella ricerca dedicata alla comunicazione mobile lei sottolinea il ruolo sempre più pervasivo dei telefoni cellulari. Siamo cioè totalmente immersi in un habitat tecnologico che cambia i processi di formazione delle identità collettive. Nel libro sul «Potere delle identità» lei infatti afferma che le identità sono diventate un affaire politico molto serio. Come spiega il fatto che Internet provoca sia una uniformità di comportamenti e, al tempo stesso, una proliferazione di identità parziali?
Non credo che Internet produca uniformità dei comportamenti. Sono infatti i mass media tradizionali che producono uniformità dei comportamenti e delle identità sociali. Ma Internet non è un media verticale dove il messaggio si diffonde dall'alto (la radio, la televisione, i quotidiani) al basso, cioè verso il pubblico. La Rete è organizzata in modo diverso. È un media orizzontale, consente cioè la comunicazione da molti a molti. Inoltre, il web consente di poter organizzare la propria presenza on-line come meglio si crede. Internet permette cioè la manifestazione della diversità. Il nodo da scegliere è perché in rete possono essere presenti sia atteggiamenti virtuosi che comportamenti pessimi.
Lei usa più volte il concetto di flusso, quasi che il moderno capitalismo non contempli una «solidificazione» di assetti istituzionali, relazioni di potere, identità collettiva. Ma un flusso è però quasi sempre governato, controllato, per evitare che diventi distruttivo. Come sono dunque governati i flussi - di informazione, di merci, di capitali, di uomini -. In altri termini come funzionano gli stati e gli organismi internazionali nella società in rete?
Gli stati nazionali sono le macchine maggiormente distruttive che la storia umana ha prodotto. Opprimono e manipolano i loro sudditi, ingaggiano feroci guerre con altri stati, confiscano la ricchezza prodotta dal lavoro. Le organizzazioni internazionali non sono altro che estensioni del potere degli stati. Ma il potere statale è messo in discussione e ridimensionato dai flussi - di informazioni, uomini, merci e capitali - che gli stati-nazione non riescono davvero a controllare. Accade che talvolta gli stati cercano, per conservare e riprendersi, laddove lo hanno perso, il potere di regolamentarli, di incanalarli, ma quando ci provano assistiamo quasi sempre a un fallimento. Per questo c'è sempre tensione, tra il rimanente potere esercitato dallo stato e l'incontenibile dinamismo dei flussi di informazione e di capitale nelle reti di comunicazione globale.
Lei ha scritto che, per contrastare il potere costituito i movimenti sociali usano media alternativi a quelli dominanti. Ma a un certo punto scrive di «politica insorgente». Può spiegare cosa intende?
I movimenti sociali ccercano, a volte riuscendoci, altre volte no, a trasformare i valori della società. È però all'interno del sistema politico che possono essere cambiati i rapporti di potere nella società. La politica insorgente è sì una azione politica, ma che si sviluppa alla periferia del sistema politico, riuscendo a sopraffare le dinamiche consolidate al suo interno e a imporre nuove idee e nuovi leaders politici. Prendiamo la elezione di Barack Obama alla Casa Bianca. È indubbio che Obama abbia vinto grazie alla campagna di mobilitazione dei giovani e delle minoranze che normalmente non partecipavano al sistema politico. In questo caso ci siamo trovati di fronte a una politica insorgente basata sulla forte speranza di cambiamento. Lo slogan «Yes, we can» illustra bene come si è manifestata questa speranza di cambiamento, che ha mantenuto la sua indipendenza dal leader eletto presidente. Obama potrà anche deludere i «politici insorgenti», ma il cambiamento desiderato e che li ha portati a mobilitarsi non scompare. E quindi quegli stessi attivisti possono riprendere la mobilitazione contro il nuovo leader che non ha mantenuto le sue promesse di cambiamento.
Alcuni studiosi equiparano i movimenti sociali agli sciami. Si costituiscono, ma poi, una volta raggiunto il loro obiettivo, si dissolvono. E come se la politica insorgente sia sempre legata a una contingenza politica e che non possa avere una stabilità e possa durare nel tempo. È d'accordo con questa lettura?
Da sempre i movimenti sociali non sono una forma stabile di azione collettiva. Possono cambiare i valori della nostra società, oppure imporre un tema finora assente nella vita sociale. E quando questo accade si dissolvono con la stessa intensità in cui si sono formati. Il Maggio francese, ad esempio, non ha certo conquistato il potere, né credo che fosse proprio quello il suo obiettivo. In ogni caso ha introdotto nuovi valori e temi nella società, come l'ambientalismo, la solidarietà, i diritti delle donne, la necessità dei cittadini di controllare l'operato dello stato. Temi e valori che sono ormai accettati da milioni di uomini e donne. Prendiamo l'ambientalismo e il femminismo. Non ci sono mai stati, per quanto ne so io, movimenti femministi stabili. E tuttavia le lotte condotte dalle femministe hanno cambiato profondamente la vita delle donne, modificato i loro rapporti con i maschi, il modo di vivere la sessualità. Ha ridisegnato la divisione del lavoro familiare. Sotto molti aspetti sono i movimenti femministi hanno cambiato anche i maschi. Cambiamenti e trasformazioni che non sono certo venuti per decreto emesso da qualche governo. I governi, i parlamenti, insomma il sistema politico ha poi dovuto istituzionalizzarli. L'istituzionalizzazione avviene quando i valori e le tematiche portate avanti dai movimenti si sono già diffuse nella società.
La politica insorgente può conquistare il potere statale. In questo caso però assistiamo a una istituzionalizzazione della politica insorgente. Ma è questo punto che prende avvio un nuovo ciclo che vede il nuovo potere confrontarsi con una nuova politica insorgente. Non è quindi contemplata nessuna stabilità, perché lo stare in società e l'azione politica contemplano sempre il conflitto, il dominio e la resistenza ad esso. La stabilità esiste solo nella testa di chi è al potere e vuole fermare l'inarrestabile e incontenibile movimento della società. E quando cercano di fermare o bloccare il movimento della società falliscono sempre.
Ma ormai le università sfornano equazioni per ogni cosa: per l’amore, per l’eros, per la dieta perfetta e ovviamente per vincere nei giochi d’azzardo. In realtà l’algoritmo disegna le modalità di funzionamento di larghe aree delle nostre organizzazioni sociali, e così redistribuisce poteri. Incarna anzi le nuove forme del potere e ne modifica la qualità. E tutto questo suscita diverse domande. Saremo sempre più intensamente alla mercè delle macchine? Quali sono gli effetti su libertà e diritti, quali le conseguenze sullo stesso funzionamento democratico di una società?
Alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, è stata attribuita una virtù, quella di rendere la società più trasparente proprio per quanto riguarda la possibilità di controlli diffusi sul potere, su qualsiasi potere. Ma quando l’algoritmo diviene il fondamento stesso del potere esercitato da un soggetto, com’è nel caso assai enfatizzato di Google, e tutto ciò che lo riguarda è avvolto dalla massima segretezza, allora siamo davvero di fronte alla nuova versione degli arcana imperii, che non tutelano soltanto l’attività d’impresa, ma si impadroniscono, direttamente o indirettamente, della vita stessa delle persone.
Come convivere, allora, con l’algoritmo, anzi con le molteplici forme che questa tecnica assume, e con le reti neurali, con l’"autonomic computing", con tutto ciò che affida alla tecnologia la costruzione della nostra identità e così produce nuove, spesso invisibili, gerarchie sociali e insedia "l’algoritmo al potere" (è il titolo di un libro di Francesco Antinucci)? Non lo sappiamo, ma è possibile che, quando telefoniamo a un call center e ci sentiamo rispondere di "rimanere in linea per non perdere la priorità acquisita", siamo già nelle mani di un algoritmo che ci ha classificati come clienti poco interessanti e ci fa attendere all’infinito, mentre è fulminea la risposta per il "buon" cliente. Nella vita quotidiana s’insinua il germe di nuove discriminazioni, nasce il cittadino non più libero, ma "profilato", prigioniero di meccanismi che non sa o non può controllare, ben descritti in un libro curato da Mireille Hildebrandt e Serge Gurvitch e intitolato appunto "Profiling the European Citizen".
Nella società dell’algoritmo svaniscono garanzie che avrebbero dovuto mettere le persona al riparo dal potere tecnologico, dall’espropriazione della loro individualità da parte delle macchine. Una direttiva europea e molte leggi nazionali prevedono che tutti abbiano il diritto di conoscere la "logica applicata nei trattamenti automatizzati dei dati" e vietano ogni decisione "fondata esclusivamente su un trattamento automatizzato di dati destinati a valutare taluni aspetti della sua personalità". Queste norme ci dicono che il mondo dei trattamenti automatizzati delle informazioni non può essere senza regole e che il ricorso all’algoritmo non può divenire una forma di deresponsabilizzazione dei soggetti che lo adoperano.
Sono state messe sotto accusa le "macchine", che non possono difendersi e così diventano un comodo capro espiatorio. Ma l’imputazione impersonale del potere ad una entità esterna non può divenire la via per esercitare un potere senza responsabilità. Certo, l’algoritmo è uno strumento per razionalizzare procedure, calcolare variabili altrimenti difficili da governare, sottrarre decisioni importanti a pressioni improprie. E tuttavia porta con sé anche una difficoltà riguardante l’ampiezza delle variabili da considerare, i caratteri imprevedibili degli accadimenti, quella variabilità storica che ha indotto a dire che "un cavallo non corre mai due volte" per sottolineare i rischi delle scommesse sul futuro. E se questo è vero per il sistema finanziario internazionale, lo è ancora di più quando le decisioni riguardano le persone, diverse l’una dall’altra, collocate in contesti diversi, irriducibili a schemi.
Questa consapevolezza ormai diffusa dovrebbe indurre ad adottare almeno il "principio di precauzione" e a costruire un adeguato contesto istituzionale, oggi assai debole anche perché le norme ricordate sono aggirate o ignorate, per evitare che il rapporto sempre più importante tra l’uomo e la macchina venga governato solo dalla logica economica. Quando la relazione tra i poteri pubblici e privati e le persone viene basata su di un ininterrotto "data mining", sulla raccolta senza limiti di qualsiasi informazione che le riguardi, e affidato poi all’algoritmo, le persone sono trasformate in astrazioni, la costruzione della loro identità viene sottratta alla loro consapevolezza, il loro futuro affidato al determinismo tecnologico. Tutto questo incide sui diritti fondamentali, mette in discussione la libera costruzione della personalità e l’autodeterminazione, imponendo così di chiedersi se e come la società dell’algoritmo possa essere democratica.
Tra tutti i regimi politici, la democrazia è quello che più si presta a generare e mimetizzare oligarchie. Oggi, questa tematica è trattata parlando di caste. Nessuno, credo, pensa alle caste indiane o ai mandarini cinesi. Ogni sistema castale comporta stratificazioni sociali per piani orizzontali paralleli, sovra- e sotto-ordinati, più o meno impermeabili. A ciascuno di questi piani corrispondono stili di vita, gusti, culture, letteratura, musica, teatro, talora lingue, abitudini alimentari, leggi particolari. Oggi, nulla di tutto ciò. Le oligarchie odierne, in società di individui sciolti da appartenenze e liberi di fare di sé quel che vogliono e di legarsi a chi vogliono, si costruiscono, si modificano e si distruggono su moti circolari ascendenti e discendenti dove tutti si confondono. Per comprendere la differenza, occorre partire da un po’ più lontano, dal conflitto tra chi appartiene e chi non appartiene a un qualche «giro» o cerchia di potere. Intendo con questa espressione – il giro – esattamente ciò che vogliamo dire quando, di fronte a sconosciuti dalla storia, dalle competenze e dai meriti incerti, o dai demeriti certi, i quali occupano posti inconcepibili per loro, ci domandiamo: a che giro appartengono? I giri sono la nostra costituzione materiale. Ci si scambia protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di "materia".
Occorre disporre di risorse da distribuire come favori; per esempio: danaro e impieghi, carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall’altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto «di scambio»), all’organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, corruzione e criminalità, fino alle prestazioni personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L’asettico «giro» in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta.
Qual è la forza che lo muove? Poiché la protezione e i favori stanno su e la fedeltà e i servizi giù, dietro le apparenze di allegre comunelle e della combutta innocente, si annidano sopraffazione e violenza. Distribuendo favori, può sembrare un sistema benefico, una forma di democrazia come potere per il popolo. Ma non è così. Ognuno vede nell’altro solo risorse da sfruttare. Ogni giro è un crogiolo di rivalità e ferocia e di gradini, da pestare per salire più in alto. Sul più alto e su quello più basso troviamo solo arroganza e solo servilismo. Sugli intermedi si è arroganti con i sottoposti e servili con i sovrapposti e mano a mano che si sale o si scende cambia il rapporto tra arroganza e servilismo. Padroni e servi, a tutti i livelli del giro, sono legati da patti, ma patti tra complici. La fedeltà ai patti è garantita da favori e minacce, blandizie e intimidazioni e ricatti. Quando nello scambio entrano anche organizzazioni criminali, non è esclusa la violenza. Non pochi delitti politici nel nostro violento Paese si spiegano così.
Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella disuguaglianza e nell’illegalità. Essi, i giri, tanto più si diffondono quanto maggiore è il malessere sociale e quanto meno le leggi valgono ugualmente per tutti. Tanta più insicurezza e ingiustizia, tanto più richiesta di «patronato»; tanto più patronato, tante più violazioni della legge uguale per tutti. La democrazia, mancando uguaglianza e legalità, diventa una dissimulazione di sistemi di potere gerarchici, basati sullo scambio ineguale di favori tra potenti e impotenti, e sulla generalizzata illegalità a favore di chi appartiene a oligarchie. Una violazione che può essere la semplice, e apparentemente innocente, raccomandazione o diventare associazione a delinquere secondo il codice penale.
Questa struttura mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva. Se solo per un momento potessimo sollevare il velo ed avere una veduta d’insieme, resteremmo probabilmente sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia e della finanza, dell’università, della cultura, dello spettacolo, dell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni, eccetera, che, secondo i propri principi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e invece sono attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.
Realisticamente, si deve tuttavia constatare che non tutto è così, se non sempre per virtù almeno per necessità. Innanzitutto, non tutti nelle numerose categorie di soggetti ora indicati, si prestano alla logica dei giri. Ma, soprattutto il sistema del patronato e dello scambio di fedeltà non può essere universale. Ci sarà sempre chi non può o non riesce a entrarci. Innanzitutto, per ragioni pratiche. Le risorse di cui esso deve disporre (posti, finanziamenti, favori) non sono illimitate. Per quanto si tenda a estenderle e ramificarle (ad es. con la moltiplicazione dei posti in enti inutili), vi sono limiti di sostenibilità, dettati dalla limitatezza delle risorse, dall’impoverimento della società e dalla rapacità di chi sta (più in alto) nella gerarchia. Ma c’è anche una ragione di principio. Le oligarchie dei giri non potrebbero esistere se tutti godessero dei loro privilegi. La generalizzazione dei privilegi è concettualmente la contraddizione delle oligarchie. Esse, per esistere, hanno bisogno che vi sia chi ne sta fuori. Le oligarchie portano dunque nel loro seno la contraddizione.
È questo il momento in cui lo scontro assumerà l’aspetto di un conflitto tra interessi (di parte) e valori (universali), o tra «interessi» e «ragioni». Chi non partecipa, in una misura anche minima, al sistema dei privilegi, che cosa può fare se non contrapporre idee generali (valori e ragioni, per l’appunto) agli interessi dai quali è escluso? Per chi è inserito in un sistema di scambi, il suo utile potenziale è proprio solo il suo, e tutto il resto può andare a ramengo; per chi non vi è inserito, invece, quello che, per i primi, è quel "resto" è invece l’essenziale.
La divisione è perfino antropologica. L’homo hierachicus è stato studiato con riguardo alle società castali. Potrebbe essere studiato con riguardo alle oligarchie «di giro». Ne risulterebbero tratti antropologici tipici. Coloro che hanno passato la propria esistenza, o si accingono a passarla, non come uomini liberi ma come scalatori di luoghi dove vige servilismo e opportunismo verso i potenti e arroganza travestita da paternalismo verso i deboli, non possono non portarne i segni sul loro modo d’essere, di mostrarsi e di fare. Il loro è un habitus caratteristico, che li distingue e che difficilmente possono dismettere o nascondere.
Norberto Bobbio ha parlato una volta di «promesse non mantenute» della democrazia e, tra queste, ha messo la scomparsa delle oligarchie. Poteva, questa promessa, essere mantenuta e non lo è stata, oppure non poteva proprio essere mantenuta ed era quindi una falsa promessa?
Non è detto che ci si debba accodare a quelli che chiamerei gli «snobisti» della democrazia, una categoria in crescita di persone, un tempo di destra, oggi anche di sinistra, anzi prevalentemente di sinistra (una novità) molto intelligenti, i quali hanno vita facile nel mostrarne limiti, contraddizioni e ipocrisie e nel considerare «anime belle» coloro che fanno professione di fede democratica. È vero: la democrazia come autogoverno del popolo è tanto più irrealizzabile quanto più è idealizzata. Ma non è la stessa cosa se, per combattere le oligarchie, occorre creare «momenti eroici», con le violenze e le distruzioni che li accompagnano, o se basta fare appello, contro l’illegalità di cui esse si nutrono e la segretezza con cui si proteggono, alla forza della legge applicata in modo uguale per tutti e alla libera circolazione delle informazioni: in una parola, alle precondizioni che permettono oneste misurazioni del consenso e del dissenso. La democrazia è dunque forse solo questo: la possibilità di creare «momenti non eroici» di distruzione delle oligarchie.
Vediamo così che occorre tenersi stretti ai capisaldi del liberalismo: la sovranità della legge e la libertà dell’opinione; le magistrature e l’informazione. Non ci voleva molto, per arrivare qui, a questa conclusione. Non ci voleva molto, ma questo non vuol dire che sia superfluo ribadirla, ora che sembra a qualcuno, non senza trovare seguito, che questi capisaldi, piuttosto che rinforzare, ostacolino e indeboliscano la democrazia.
Il testo è parte della «Lettura Cesare Alfieri» dal titolo "La democrazia difficile", che si terrà a Firenze, Aula Magna del Polo delle Scienze sociali, oggi alle 11.
L’8 marzo scorso, forse per rassicurare gli italiani, il Presidente della Repubblica ha fatto alcune considerazioni singolari, sul coraggio e la politica. Ha detto che «in un contesto degradato, di diffusa illegalità, essere ragazzi e ragazze perbene richiede talvolta sacrifici e coraggio»: in questi casi estremi sì, «è bello che ci sia» questa virtù. Ma in una democrazia rispettabile come la nostra, «per essere buoni cittadini non si deve esercitare nessun atto di coraggio». Profonda è infatti negli italiani «la condivisione di quel patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione». Legge e senso dello Stato sono nostre doti naturali: il che esclude il degrado della legalità. I toni bassi sono lo spartito di sì armoniosa disposizione.
Il fatto è che non siamo in una democrazia rispettabile, e forse il Presidente pecca di ottimismo non solo sull’Italia ma in genere sullo stato di salute delle democrazie. Certo, non s’erge un totalitarismo sterminatore. Ma Napolitano avrà forse visto il terribile esperimento mostrato alla televisione francese, qualche giorno fa. Il documentario si intitola Il Gioco della morte, e mette in scena un gioco a premi in cui i candidati, per vincere, ricevono l’ingiunzione di infliggere all’avversario che sbaglia i quiz una scarica elettrica sempre più intensa, fino al massimo voltaggio che uccide.
La vittima è un attore che grida per finta, ma i candidati non lo sanno. Il risultato è impaurente: l’81 per cento obbedisce, spostando la manopola sui 460 volt che danno la morte. Solo nove persone si fermano, udendo i primi gemiti del colpito. Sette rinunciano, poi svengono.
Difficile dopo aver visto il Gioco dire che siamo democrazie rispettabili, dove legge e Costituzioni sono interiorizzate. Quel che nell’uomo è connaturato, in dittatura come in democrazia, non è la legge ma l’abitudine a «non pensarci», l’istinto di gregge, e in primis il conformismo. Il «contesto degradato» è nostro orizzonte permanente. È quello che Camus chiama l’assurdo: il mondo non solo non ha senso ma neppure sente bisogno di senso, ricorda Paolo Flores d’Arcais in un saggio sullo scrittore della rivolta (Albert Camus filosofo del futuro, Codice ed., 2010).
Coraggioso è chi invece «si dà pensiero», chi s’interroga sul male e per ciò stesso diventa, in patria, spaesato. Flores conclude: «Venire al mondo equivale a far nascere un dover essere». In effetti sono tanti e giornalieri, gli atti di coraggio di cui si può dire: vale la pena.
È coraggioso chi in gran parte d’Italia non paga pizzi alle mafie. Sono coraggiosi il poliziotto o il giudice che resistono alle pressioni della malavita o della politica. Soprattutto il servitore dello Stato è chiamato al coraggio, in un’Italia unificata dalla lingua ma non dal senso dello Stato. Coraggioso è chiunque sia classe dirigente, e con il proprio agire, scrivere, fare informazione, influenza l’opinione con la verità. Non so se sia bello, dire no. È comunque necessario, specie in Italia dove paure e conformismo hanno radici possenti. Il coraggio, siamo avvezzi a vederlo come gesto di eccezionale purezza mentre è gesto di chi - fu Borsellino a dirlo - in cuor suo lo sa: «È normale che esista la paura. In ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio». Così come c’è un male banale, esiste la banalità quotidiana del coraggio.
Forse bisogna tornare alle fonti antiche, per ritrovare questa virtù.
Nella Repubblica, Platone spiega come il coraggio (andreia) sia necessario in ogni evenienza, estrema e non. Esso consiste nella capacità (dell’individuo, della città) di farsi un’opinione su ciò che è temibile o non lo è, e di «salvare tale opinione». L’opinione da preservare, sulla natura delle cose temibili, «è la legge e impiantarla in noi attraverso l’educazione», e il coraggio la conserva «in ogni circostanza: nel dolore, nel piacere, nel desiderio, nel timore» (429,c-d). La metafora usata da Platone è quella del colore. Immaginate una stoffa, dice: per darle un indelebile colore rosso dovrete partire dal bianco, e sapere che il colore più resistente si stinge, se viene a contatto con i detersivi delle passioni.
Il colore della democrazia è la resistenza a questo svanire di tinte, a questo loro espianto dal cuore (il cuore è la sede del coraggio). Compito dei cittadini e dei custodi della repubblica è «assorbire in sé, come una tintura, le leggi, affinché grazie all’educazione ricevuta e alla propria natura essi mantengano indelebile l’opinione sulle cose pericolose, senza permettere che la tintura sia cancellata da quei saponi così efficaci a cancellare: dal piacere, più efficace di qualsiasi soda; dal dolore, dal timore e dal desiderio, più forti di qualsiasi sapone» (430,a-b).
In Italia la democrazia è stinta più efficacemente perché le leggi e i custodi ci sono, ma l’innesto è meno scontato di quanto si creda. Berlusconi lavora a tale espianto da anni, e ora lo ammette senza più remore: alla legalità contrappone la legittimità che le urne conferiscono al capo. I custodi delle leggi li giudica usurpatori oltre che infidi. Legittimo è solo il capo, e questo gli consente di dire: «La legge è ciò che decido io». I contropoteri cesseranno di insidiarlo solo quando pesi e contrappesi si fonderanno: quando, eletto dal popolo, conquisterà il Quirinale.
Se la democrazia fosse rispettabile non ci sarebbe un capo che s’indigna perché scopre d’esser stato intercettato mentre ordina di censurare programmi televisivi sgraditi, e i cittadini, forti di indelebili tinture, gli direbbero: le tue telefonate non sono private come le nostre, le intercettazioni sono a volte eccessive ma chiamare l’autorità garante dell’informazione o il direttore di un telegiornale Rai, per imprimere loro una linea, è radicalmente diverso. Ognuno ha diritto alla privacy, e anche noi abbiamo criticato gli eccessi delle intercettazioni. Ma l’abuso di potere che esse rivelano è in genere ben più impaurente del cannocchiale che lo smaschera. Schifani dice: «È preoccupante la fuga di notizie» e di fatto lo riconosce: sono le notizie a inquietarlo. Anche dire questa semplice verità è coraggio quotidiano.
L’intervento sui programmi televisivi si fa specialmente sinistro alla luce di show come Il Gioco della morte. Non dimentichiamo che un esperimento simile si fece nel luglio 1961 all’università di Yale, guidato dallo psicologo Stanley Milgram. A ordinare gli elettroshock, allora, c’erano autorevoli biologi in camice grigio. Oggi l’autorità si fa giocosa, è una bella valletta a intimare, suadente: «Alzi il voltaggio!». Il pubblico applaude, ride. A opporsi è stato un misero 20 per cento, mentre il 35 s’oppose nel caso Milgram. Ne consegue che la televisione ha più potere di scienziati in camice, sulle menti: il coraggio diminuisce, il conformismo aumenta. Philip Zimbardo, organizzatore di test analoghi a Stanford nel 1971, racconta come nessuno di coloro che rifiutarono di infliggere i 460 volt chiese a Milgram di fermare l’esperimento, o di visitare l’urlante vittima degli elettroshock.
Questo significa che la televisione non è più solo una caja tonta, una scatola tonta, come dicono in Spagna. È una cassa da morto, che trasforma lo studio televisivo in Colosseo di sangue: lugubri, le risate sono le stesse.
Ci sono sere a RaiUno in cui prima viene un notiziario menzognero (che dà per assolto Mills, che presenta il giurista Hans Kelsen come critico ante litteram della legalità), poi seguono programmi dai nomi ominosi: Affari Tuoi, I Raccomandati, in un crescendo di catodiche manipolazioni. Presto vedremo, in Tv, la morte in diretta sotto forma di varietà. Kierkegaard dice in Aut-Aut che l’ultimo ad apparire, alla fine del mondo, sarà il Buffone: «Accadde in un teatro, che le quinte presero fuoco. Il Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo».
Sindaci che cantano «Bella ciao», i No Tav e i No Dal Molin con striscioni e cartelli per l'acqua pubblica, decine di comitati arrivati a Roma da tutta Italia per portare in piazza le loro battaglie ambientali. E poi associazioni e movimenti. In fondo al corteo i partiti della sinistra, il Pd quasi assente. Attorno al tema dei beni comuni la sinistra si ritrova compatta. E il Forum ora pensa al referendum
«Qui un popolo di soggetti là di spettatori, da una parte un corteo libero dall'altra una specie di piazza oppressa dal palco». C'è «un aspetto autoritario» della piazza berlusconiana di ieri che colpisce nel profondo il professore Stefano Rodotà, oggi presidente della commissione per la riforma dei beni pubblici, un aspetto che poi marca nel profondo la distanza dall'altra piazza, «perché il corteo sull'acqua è una rivendicazione dei diritti fondamentali e dei loro strumenti».
Perché allora, professore, il Partito democratico continua a rifugiarsi dietro la foglia di fico di una separatezza tra proprietà e gestione? Anche sull'acqua il concetto è: si privatizza il servizio, non il bene.
C'è in generale un'arretratezza culturale su questi temi che deriva da due fattori. Primo: si può distinguere tra proprietà e gestione, ma quando la gestione viene caricata di tanti poteri e soprattutto legata al profitto come nelle norme in questione, la proprietà, anche se formalmente resta «pubblica» sostanzialmente diventa «privata»: è la distinzione, che i giuristi hanno attuato da tempo, tra proprietà formale e proprietà sostanziale. Secondo: il bilancio delle esperienze di privatizzazione, anche nel settore dell'acqua, non è certo ottimale. Non ci si può sempre rifugiare dietro la strutturale inefficienza del pubblico per dire che l'unica via d'uscita è, formalmente o sostanzialmente, la privatizzazione. Sul Pd, ci sono due piccoli fatti istituzionali, di cui ha parlato ieri sul manifesto Roberto Placido, che vorrei sottolineare. Uno è l'iniziativa della regione Piemonte che ha approvato all'unanimità la presentazione in parlamento del testo della commissione da me presieduta. In senato poi quel testo, con qualche aggiustamento, è stato recepito in proposta di legge dall'intero gruppo del Pd. Va considerato un atto politico formale che impegna il Pd.
Sta per partire la campagna referendaria. Non c'è il rischio di un boomerang?
La legge di iniziativa popolare per l'acqua pubblica ha raccolto 400 mila firme, quindi è realistico pensare che non dovrebbe essere così difficile raggiungere le 500 mila firme necessarie. Naturalmente il rischio c'è sempre, soprattutto perché lo strumento referendario è stato abusato e logorato. Trattandosi però di un tema che riguarda la vita delle persone e l'organizzazione sociale non solo nazionale mi auguro che, anche dopo la prima fase di raccolta firme, ci sia un'assunzione di responsabilità con una marcata e deliberata presenza di partiti e movimenti in questa direzione.
Dopo le partecipazioni statali, e dopo la sbornia delle privatizzazioni, la questione dei beni comuni e della proprietà pubblica può segnare una ripartenza per la sinistra?
Deve farlo, perché i limiti delle privatizzazioni sono evidenti. Parlare di beni comuni oggi è un punto di partenza per ridiscutere il modo in cui affrontare il tema dei beni pubblici. E non a caso nei lavori della commissione si parla di beni comuni, ossia di una proprietà nè tradizionalmente pubblica nè tradizionalmente privata, che metta in evidenza gli interessi generali di una collettività, non necessariamente una comunità nazionale. È uno dei grandi temi che ridefiniscono, a livello nazionale e globale, l'organizzazione sociale.
Nei lavori della commissione l'acqua è «bene comune» e non «pubblico». Qual è lo statuto giuridico che sorregge la «proprietà comune»?
I beni comuni sono beni funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali e anche alla salvaguardia intergenerazionale. Bisogna andare oltre la storica distinzione tra proprietà pubblica e proprietà privata perché a fronte di due grandi categorie d'interessi - i diritti di chi c'è e quelli di chi verrà - il problema è l'individuazione di forme di gestione che rispondano a questi obiettivi. L'idea non è quella di far gestire l'acqua dalle solite società a capitale pubblico che hanno una componente privatistica, e dunque di profitto, ineliminabile. Pensiamo a delle «aziende speciali», con una loro autonomia e rilevanza pubblica. Naturalmente in queste «aziende speciali» il coinvolgimento non dovrebbe essere solo quello dei soggetti istituzionali tradizionali - regioni, province e comuni - ma ci dovrebbe essere un'articolazione ulteriore sfruttando anche gli spunti della Costituzione. Penso all'articolo 43 dove si dice che, ai fini dell'utilità generale, la legge può trasferire a comunità di lavoratori o di utenti imprese che si riferiscono a servizi pubblici o che abbiano carattere di preminente di interesse generale. Insomma, la discussione è aperta su questo punto, ma già nella costituzione lo schema tradizionale delle due forme di proprietà viene arricchito. Bisogna cambiare il codice civile, questo movimento dal basso obbliga a fare questo passo: avere pronti tutti gli strumenti affinché queste nuove forme di proprietà siano gestite conformemente alle finalità proclamate.
Una nuova rivista di storia? Ebbene, sì. Osiamo presentarci sul “mercato” delle idee, forti di un principio banale, ma, ci risulta, non dichiarato né rivendicato prima della nascita dell’Associazione, di cui questa testata si presenta come strumento. Questo principio è, in realtà, un diritto. Noi rivendichiamo il diritto alla storia, come uno dei diritti fondamentali degli esseri umani. Diritto essenziale, ma mai riconosciuto esplicitamente, meno che meno esplicitamente rivendicato. Historia Magistra, l’Associazione, e, ora, la rivista, non esita a iscrivere sulle sue bandiere questo diritto, a costo di apparire retorici. Non insistiamo su questo, rinviando al documento programmatico che pubblichiamo in questo numero e ripubblicheremo nei numeri successivi.
Dunque, perché una nuova rivista? Sono numerose, le testate storiche, spesso di grande valore, con alcune delle quali molti di noi hanno rapporti di collaborazione. Rispetto ad esse – alle quali non abbiamo la velleitaria ambizione di paragonarci, né tanto meno di sostituirci – noi siamo piccola cosa in questo nostro esordio.
D’altronde, «Historia Magistra» vuole seguire un asse privilegiato nel lavoro che da questo n. 1 pone in essere: l’attenzione agli usi (e abusi) politici della storia. E vuole anche essere, in modo programmatico, un luogo d’incontro fra le tre generazioni di studiosi e studiose oggi sul campo: quella del suo fondatore (che nell’anno 2000 diede vita con un gruppo di allievi e allieve all’Associazione Historia Magistra, e ha sempre lavorato con giovani, oltre che con colleghi); la generazione immediatamente precedente, e quella successiva. Sia il Comitato Scientifico, sia le Redazioni – a cominciare da quella centrale, nata dentro l’Ateneo di Torino – sia i collaboratori, ne danno testimonianza, fin da questo numero d’esordio.
Sebbene nata in ambito accademico, la rivista, generata dalla presa d’atto della forte domanda di Storia presente nel dibattito pubblico (e noi non ci scandalizziamo dell’uso pubblico della Storia), tenterà di essere, in primo luogo, una testata di battaglia (vorremo usare, se non suscitasse scandalo, il termine “guerriglia”) culturale, e, quindi, di informazione storica e storiografica, di discussione critica, che coniughi serietà di impostazione, nei limiti del possibile, con piacevolezza di esposizione, che non sacrifichi il rigore scientifico, alla dichiarata volontà di divulgazione (alta), cercando di parlare a un pubblico anche di non specialisti.
Altra scelta caratterizzante di «Historia Magistra» è di non essere soltanto, in senso tecnico, una rivista storica, o storiografica; ma, seguendo il principio che la storia sia una strada obbligatoria per ogni disciplina, il binario su cui tutte si debbono muovere, vuole essere aperta a contributi tecnicamente collocabili in ambiti disciplinari diversi, tutti, comunque, sensibili alla dimensione storica. Potremmo spingerci a parlare, con rischiosa civetteria, di storicismo… In ogni caso, il nostro primo “comandamento” è che la storia è il mezzo irrinunciabile e necessario di ogni conoscenza: pas d’histoire, pas de connaissance, diremo, parafrasando i nostri classici storiografici: e aggiungendo, subito, a scanso di equivoci, il canonico, ma nient’affatto rituale: pas de documents, pas d’histoire.
Sì, perché oggi è invalsa una pratica, anzi una praticaccia, per cui tutti possono improvvisarsi “storici”, prescindendo da qualsiasi, pur minima, avvertenza metodologica, da ogni contatto diretto con quel materiale che invano i grandi storiografi del XIX secolo ci hanno insegnato a distinguere, a catalogare, e a organizzare, e a trattare secondo tecniche opportune: i documenti, per l’appunto. Codesti improvvisati “storici”, i quali, sostenuti da grandi gruppi editoriali, godendo del favore dei media, non paghi di sbandierare le decine (o centinaia) di migliaia di copie vendute dei loro libri (e dietro quelle cifre affiorano le verità più significative, per loro: le sonanti royalties) sono accreditati quali maîtres à penser, e presto ce li troveremo – e non stiamo parlando della sola Italia, naturalmente – sulla tolda di comando, assiepati intorno a qualche duce o ducetto, che ci guidano verso le magnifiche sorti e progressive della postdemocrazia.
Si aggiunga che quei sullodati sedicenti storici (anche part time, ma non è questo il punto, ovviamente) polemizzano volentieri con la “casta” degli accademici, accusandoli di pretendere di avere il “monopolio” della ricerca e del racconto storico. E anche questa polemica grottesca avviene nel generale consenso dei media, che contribuiscono a costruire e diffondere un pernicioso senso comune, ossia che la storia sia un campo libero, nel quale tutti possono dire o scrivere qualsiasi sciocchezza: insomma, la ricerca storica, il cui compito è produrre conoscenza del passato, viene revocata in dubbio, e nel modo più radicale e volgare. L’epistème viene trasformata in doxa, il sapere in opinione, la scienza in dibattito. E il modello è quello televisivo: il talk show è diventato, nella splendente era della comunicazione globale, la misura e il mezzo, lo scopo e il prezzo di ogni cosa. E dunque se la storia è un’opinione, la narrazione storica diventa confronto delle opinioni, e tra esse vincono quelle meglio sponsorizzate. Apparati mediatici, centri finanziari, e, direttamente, forze politiche si adoperano per far vincere un’“opinione” su di un’altra. E i governi stessi, direttamente o attraverso parlamenti privi di autonomia e spesso di indipendenza, intervengono per sostenere una loro “visione del passato”, promovendo o riprovando, anche con pesanti misure legislative, a cui corrispondono o corrisponderanno azioni giudiziarie, oltre che amministrative, le “opinioni” sgradite, o giudicate “politicamente scorrette” a date maggioranze, a determinati climi e ambienti.
Quel che è più grave, in realtà, non è il venir meno del significato stesso del fare storia come attività scientificamente fondata, libera e autonoma da ogni condizionamento, Quello che è più grave è il senso politico dell’operazione, volta a cancellare le certezze relative agli eventi del passato, che vengono opportunamente “revisionati”, secondo un’ottica estranea al sapere storico, che non procede mai per salti e per rivoluzioni epistemologiche, per ribaltamenti e rovesciamenti. Gli eventi vengono opportunamente aggiustati, arrangiati e adattati, in armonia con il clima generale del tempo. Ma il revisionismo, che si può definire l’ideologia e la pratica della revisione programmatica – con fini esclusivamente politici (oltre che bassamente commerciali),e nient’affatto conoscitivi – con il trascorrere dei decenni non si è più accontentato di tali procedure. E ha compiuto una formidabile accelerazione, sentendo che i tempi erano favorevoli. Si è trasformato così in rovescismo, la sua «fase suprema». Historia non facit saltus, si potrebbe dire, cambiando il soggetto a un celebre motto. La revisione è proprio quel lento, costante lavorio che aggiorna, corregge, aggiunge, e soprattutto pone nuove domande: la Storia che noi intendiamo praticare, o di cui comunque ci dichiariamo sostenitori, è l’Histoire-Problème, che abbiamo appreso, senza feticismi, dai maestri delle «Annales». La revisione nasce – sarà il caso di precisarlo per chi lo ignori o a chi non vi abbia riflettuto a sufficienza – non soltanto, com’è ovvio, dall’accesso a nuove fonti, dal perfezionamento di tecniche di indagine (anche con l’ausilio di mezzi informatici, fotografici, chimici e quant’altro), ma forse soprattutto dalle domande nuove che lo studioso pone ai documenti.
Del resto, la grande tradizione positivistica non ci ricorda che la Storia nasce da una domanda? Die Frage… Quella domanda che Croce, asciuttamente, distingue in «filologica», o meramente accertativa dei fatti, e in «storiografica», ossia problematica: fare storia significa sempre, innanzi tutto, raccontare «che cosa è veramente accaduto»; ma lo storico autentico non si limita a questo; lo storico autentico è chi sa interpretare i fatti, in un tessuto coerente, collocarli nei contesti, micro e macro, individuali e collettivi; lo storico autentico è chi sa porre domande nuove a documenti “vecchi”, ossia già utilizzati anche mille volte. Proprio quest’ultimo è il senso vero, e più profondo, della «revisione». Che è lontana e difforme dal revisionismo. Lavorano in ambiti e con finalità divergenti, non soltanto diverse. Questo deve essere chiaro a noi, senza esitazioni, perché noi dobbiamo essere in grado di farlo comprendere a chi vive al di fuori delle mura protette dalla musa Clio. O a chi le oltrepassa, con la complicità attiva o passiva, e penetrato nella cittadella della conoscenza storica, ritiene di avere titolo a “dire la sua”, orientato da finalità che sono estranee ad essa, e che sono palesemente sorrette da interessi di tutt’altro genere. E grazie a quegli interessi, costoro vengono accreditati mediaticamente. E diventano gli storici “di grido”: dalla Spagna all’Italia, dalla Francia alla Germania…
Contro tutto ciò Historia Magistra – l’Associazione, e ora la rivista – intende combattere. Non saremo una centrale di opinionismo. Non saremo equidistanti. Non seguiremo il modello «Porta a Porta». Saremo, se vi riusciremo, rigorosi e chiari, per poter accampare il diritto di lottare per diffondere un altro, ben più alto diritto: quello alla Storia. Ma, in ciò, noi saremo intransigenti ed aspri. Saremo irritanti e fastidiosi. Saremo ora aggressivi, ora ironici. Ci ispireremo, per quanto sapremo, ad alcune grandi figure, prima fra tutte Antonio Gramsci, al suo insegnamento etico, civile, intellettuale e, osiamo dirlo, politico. Ci ispireremo al suo «sarcasmo appassionato», tentando di fornire a noi stessi e a chi ci vorrà accompagnare nel nostro cammino, strumenti di conoscenza del «mondo grande e terribile». Saremo pronti a lottare, con la modestia delle nostre capacità e la pochezza dei nostri mezzi, per un obiettivo che semplicemente, senza timore di dire una parola sacra, si chiama verità. Perché questo è il compito dello storico. E questo, più in generale, è il dovere dell’intellettuale, che ci piace pensare (alla Benda) nei termini di sacerdos veritatis, non dimenticando, gramscianamente, che la verità è rivoluzionaria, e che la verità che ci sta a cuore è anche la verità che occorre svelare dietro l’ipocrisia, la menzogna, e, soprattutto, l’oppressione sociale. All’intellettuale – segnatamente allo storico – assegniamo il compito primario di costruttore di verità, soltanto nel significato negativo. Ossia, il disvelamento della menzogna.
Oggi la menzogna ha molti volti: noi scegliamo di svolgere il nostro compito usando i nostri strumenti, quelli della ricerca scientifica, del metodo storico, dell’acribia filologica, della scepsi critica. E, con un pizzico di superbia, decidiamo di affrontare un compito che è scientifico ma è anche politico: come crediamo debba essere la figura dell’intellettuale, ossia di chi, per dirla con Sartre, «abbraccia interamente la sua epoca». Noi non abbiamo nel nostro ideale la figura dello studioso rinchiuso nel suo studio, ma quella dello studioso che si cimenta con i problemi del suo tempo, che si “sporca le mani”, per citare ancora Sartre; che parteggia. «Odio gli indifferenti»: il grido di battaglia lanciato dal giovane Gramsci sulle pagine del numero unico «La Città Futura», nel febbraio 1917, è per noi non solo attualissimo, ma indispensabile. La lotta per la verità è sempre politica, e la verità giova a tutti: o meglio, a tutti coloro che non traggono vantaggio dal suo occultamento o dal suo rovesciamento: in primo luogo, quei ceti subalterni a cui il Gramsci maturo, andando oltre il concetto canonico di proletariato, guardò con attenzione, aprendo così un filone di studio (e di lotta) su cui oggi molte scuole si sono indirizzate.
La lotta contro le menzogne, contro le false verità, contro le imposizioni di impossibili «memorie condivise», contro i vuoti di memoria, contro le facili tendenze all’oblio, contro mistificazioni e rovesciamenti, contro invenzioni di tradizioni, contro il ricorso alla storia come un grande magazzino ove a basso costo si prendono merci da usare a fini di auto legittimazione politica o di delegittimazione dei propri avversari o nemici…
Contro tutto ciò, con tutte le nostre forze, ci batteremo, determinati a rompere un silenzio che ci opprime, e un rumore che ci assorda: mezzi di cui il potere tenta di sedare ogni spirito critico, ogni istanza, appunto, di verità. Saremo pochi? Saremo deboli? Non importa, Quello che crediamo importi, è contarsi. E cominciare la lotta. La nostra può anche definirsi (lo diciamo prima che ce lo si dica in modo sardonico), un’adunata dei refrattari. Refrattari alle pseudostorie, refrattari alle teorie e alle pratiche di cui abbiamo fornito qui un sintetico campionario. Refrattari allo svuotamento della democrazia che passa anche, e forse prima di tutto, attraverso questa manomissione della Storia. Che precede e accompagna, magari, la manomissione delle istituzioni: le modifiche costituzionali, gli indirizzi politici populisti e plebiscitari, il leaderismo spinto a livelli mai visti in età contemporanea nei regimi liberali, l’attacco all’indipendenza della Magistratura come potere terzo, la riduzione progressiva del pluralismo dell’informazione e della comunicazione, la privatizzazione delle risorse naturali primarie, il controllo privatistico del sapere, il conformismo culturale, la televisione come un vero e proprio potere a sé stante; e, in una situazione di crescente, irresistibile finanziarizzazione dell’economia (che peraltro ora si dibatte in una crisi dagli sviluppi imprevedibili), la guerra a far da sfondo, continuo e permanente, in un processo che rischia di travolgerci tutti. Lo scenario che si sta prefigurando, nell’autunno della democrazia, è inquietante. E dobbiamo reagire.
Fare storia, farla seriamente e appassionatamente, con scienza e con volontà di verità (ossia di giustizia), crediamo sia alzare una buona barricata. Lavoreremo sui tempi lunghi della guerra di posizione, ma senza escludere i tempi brevi della guerra di movimento; cominciando subito, prima che sia troppo tardi, prima di dover lanciare il grido d’allarme: Hannibal ad portas.
Insomma, concludendo e parafrasando un celebre, disperato, motto di lanciato da un gruppo di marxisti “eterodossi”, poco più di sei decenni or sono (e che esattamente sessant’anni fa diede vita a una rivista omonima: «Socialisme ou Barbarie»), diremo: Histoire ou Barbarie.
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Carlo Galli , Forma e sostanza.. La controversia sulle elezioni regionali porta alla luce due concezioni opposte della politica e del diritto
Filippo Ceccarelli , Un regime privatizzato. Per sua natura e vocazione la monarchia carismatica, aziendale, populista e spettacolare appare poco compatibile con la complessità degli assetti giuridici e istituzionali
Nadia Urbinati , Il potere alla prova. Lo "stato di opinione". La formula "stato di opinione" che si usa per alcuni sistemi sudamericani sta prendendo il sopravvento sullo "stato di diritto". Soprattutto quando il governo compie atti in contrasto con le norme
Norberto Bobbio , Democrazia. Sillabario
Perché le regole sono la democrazia
di Carlo Galli
Un triste destino ha colpito le due categorie centrali della metafisica occidentale, sostanza e forma. Dal loro significato originario – elaborato da Platone e Aristotele – , che indicava rispettivamente il fondamento di tutto ciò che è, e gli schemi razionali del suo configurarsi, sono giunte a essere sinonimo, nell´attuale discorso pubblico italiano, di "contenuto reale" e di "apparenza superficiale". Un impoverimento che ha anche un forte valore polemico, e che riprende, semplificandola e distorcendola, una dialettica autentica che si è storicamente manifestata – con altri nomi e altri concetti – all´interno della teoria politica. Infatti, la politica non si esaurisce certo nelle forme giuridiche, nella norma, nella procedura, nelle istituzioni. E soprattutto la democrazia è anche sostanza: implica infatti, alla radice, la pienezza del popolo, la sua presenza sulla scena politica come identità, come fonte della sovranità, come origine e fondamento del potere.
C´è, nella teoria democratica moderna l´esigenza che il popolo sia una unità politica originaria, immanente, autonoma e autosufficiente, che precede ogni forma istituzionale e giuridica: questa democrazia sostanziale si presenta come potenza della moltitudine in Spinoza, come rinnovamento morale dell´uomo e della società in Rousseau, come emergere di una forte conflittualità in Sorel, e come radicale avversione per le istituzioni nel marxismo rivoluzionario: in questi casi, pur così lontani tra di loro, la forza del popolo non conosce se non quei limiti e quelle forme che pone da sé, in via provvisoria e transitoria, sempre pronta superarli, a travolgerli. Il popolo, qui, è potere costituente, energia che non si neutralizza mai del tutto; è legittimità, sempre in grado di forzare la legalità; è un Bene che si impone assolutamente, un Valore che si afferma, con una voce corale e collettiva.
Questo modo sostanziale e radicale di pensare la democrazia è in concorrenza per tutto il corso della modernità – e nel XX secolo alimentò il confronto fra due giuristi come Schmitt e Kelsen – con la democrazia liberale e costituzionale, che differisce dalla prima su due punti. Innanzi tutto, è intrinsecamente limitata, poiché valuta come Bene fondamentale i diritti dei singoli, in regime di uguaglianza; e al fine di salvarli e promuoverli incanala il potere entro le forme e le procedure delle istituzioni repubblicane. Inoltre, questa democrazia riconosce sì al popolo la titolarità originaria della sovranità, ma non gliene consente l´esercizio diretto. La democrazia liberale è quindi rappresentativa, non identitaria, e prevede che la voce del popolo si articoli in una pluralità di opinioni, all´interno di un´istituzione che nel dialogo trova la propria ragion d´essere: il parlamento – contro il quale si rivolgono le polemiche di Rousseau, di Sorel, di Marx e di Lenin – . In questa democrazia il potere del popolo, la sostanza, non si dà senza la forma, e soprattutto non può mai trascenderla. Il che significa che la legittimità deve farsi legalità, che il potere costituente non può non istituzionalizzarsi in potere costituito. Non esiste alcun potere assoluto, neppure quello del popolo – meno che mai quello dei suoi rappresentanti, o del governo – .
Il liberalismo seicentesco di Locke e quello ottocentesco di Mill, oltre alla tradizione del costituzionalismo inglese e nord-americano, stanno alla base di questa accezione della democrazia, che ispira anche le costituzioni contemporanee. Ma non è una democrazia inerte, apatica e relativistica, non persegue la piena giuridificazione tecnica, formalistica e procedurale della politica, non esclude passioni e sentimenti, valori e speranze; vive anzi della dialettica tra le dimensioni del diritto e del potere, tra forma e sostanza, fra legalità e legittimità. E nel nostro tempo la sostanza della democrazia, del potere del popolo, sono i valori dell´umanesimo laico e cristiano, liberale e socialista, incorporati nella Costituzione. Sono lo sforzo all´inclusione, alla partecipazione (anche in senso elettorale), all´uguaglianza reale. Sono gli interessi legittimi e i loro conflitti, la dignità del lavoro e delle professioni, le fatiche e le speranze dei cittadini. Ma tutto ciò può valere e essere difeso nelle forme del diritto, che sono ormai pienamente democratiche.
La contrapposizione tra sostanza e forma, infatti, è stata risolta in quell´autentico caso d´eccezione che fu l´instaurazione dell´attuale ordinamento giuridico-politico, fra il 1943 e il 1948; lì c´è stata la decisione sovrana del popolo, che ha affermato come legittimo il proprio potere e gli ha dato la forma costituzionale attuale. Quindi mettere oggi in contrapposizione forma e sostanza – come se la prima fosse nulla, senza capire che è invece il modo d´essere della sostanza – è usare il caso d´eccezione non per creare ma per distruggere: nessuna sostanza politica, oggi, può affermarsi contro la forma costituzionale, o fuori di essa; neppure il diritto di voto può essere contrapposto all´ordinamento (come si è tentato di fare, poiché non si sono volute perseguire altre vie). La democrazia della sostanza, oggi, è una democrazia informe e illegale; non potere del popolo ma conato di populismo; non ordine, ma la solita emergenza quotidiana.
Un regime privatizzato
di Filippo Ceccarelli
Residenze private fatte pubbliche, da villa La Certosa a Palazzo Grazioli, con tanto di tricolore al balcone e seratine «simpatiche»come dice il premier. Picchetto d´onore a Palazzo Chigi per accogliere il socio d´affari, principe Al Walid. Istituzionalizzazione di casa Letta, del salotto Angiolillo e dello studio di Bruno Vespa per la firma del Contratto con gli italiani e la sua verifica annuale, sulla medesima scrivania in ciliegio.
Cosa è più, ormai, la distinzione tra forma e sostanza in tarda epoca berlusconiana? I miscugli di cui sopra si riferiscono al quinquennio 2001-2006, due legislature orsono. Per dirne l´evoluzione o regressione che sia, per far capire quanto poco al Cavaliere stia a cuore di salvare la forma, appunto, oltre che la sostanza, basterà qui far presente che dopo aver presentato il suo quarto governo alle Camere, nel maggio del 2008, non è più intervenuto né a Montecitorio né a Palazzo Madama.
Del resto lì ha messo gente anch´essa molto poco portata a soffermarsi sulle antiche distinzioni, tanto formali quanto sostanziali, che regolano i rapporti fra le istituzioni. Uno di questi testimonial del berlusconismo trans-istituzionale, anche lui segnalatosi per un´impegnativa e temeraria valutazione su forma e sostanza, è il presidente del Senato Schifani, a suo tempo (2002) innalzato dal suo ex compagno di partito Filippo Mancuso a «Principe del foro del recupero crediti».
Mancuso era quell´ex alto magistrato piccoletto, già Guardasigilli ribellatosi al governo Dini, che parlava una strana lingua aulica e assai espressiva, ma il senso giuridico della separazione senza dubbio lo possedeva. La sua turbinosa uscita da Forza Italia, dove era stato accolto come una sorta di coscienza della continuità, segna un punto di non ritorno nel processo di alterazione della norma e delle regole e quindi dei comportamenti. Con il che lo stesso giorno in cui Schifani ascese alla terza carica dello Stato pensò bene di andare a ringraziare a Palazzo Grazioli.
Fossero solo le liste elettorali, infatti, i decreti legge interpretativi o le pantomime in Consiglio dei Ministri quando c´è da legiferare sulla televisione e allora Berlusconi e Letta si alzano e fanno finta di astenersi. Tutto questo non dipende da innata cattiveria o conveniente ipocrisia. Solo quel tanto che attiene alla natura umana. È che per sua natura e vocazione, la monarchia carismatica, aziendale, populista e spettacolare appare del tutto incompatibile con la complessità degli assetti giuridici; né mai riuscirà a comprendere i vincoli posti da tradizioni lontanissime dalle logiche del potere personale, del mercato e dello show-business.
A proposito del suo governo ha detto il presidente Berlusconi nell´autunno del 2008: «Per la prima volta ne ho uno che fila come un orologio, sembra un consiglio d´amministrazione». Che l´ingranaggio si sia con il tempo un po´ rallentato non toglie nulla a un paradigma, a un modello, a una condizione del tutto inedita secondo cui il Cavaliere tiene moltissimo sia alla forma che alla sostanza: ma a patto che sia lui non solo a ridefinirne i confini, ma a stabilire cosa siano l´una e l´altra.
E poiché tale processo, che poi coincide con la definitiva presa del potere, non si è ancora compiuto, ecco che tra commistioni, contaminazioni, superamenti, scavalcamenti e altre poco simpatiche forzature, dal continuo miscuglione di forma & sostanza ha finito per generarsi una specie di "formanza". Mostruosa ibridazione, enigmatico incrocio che in fondo ha già cominciato a mettere a dura prova politici, giuristi, filosofi, sociologi e addirittura giornalisti rotti a qualsiasi invecchiatissima novità.
Il potere alla prova
di Nadia Urbinati
"The law is the law is the law" – a molti nostri connazionali questa massima deve apparire come un´insopportabile tirannia del formalismo. Forse si sentono piú a loro agio con quest´altra formula: "estado de opinión", usata nei regimi demo-autoritari sudamericani per sottolineare il contrasto con lo "estado de derecho", la tensione tra il governo dell´opinione di chi governa e il governo della legge. Forma e sostanza non sono due opposte dimensioni della democrazia perché senza procedure che limitano l´azione politica non c´è sostanza democratica in quanto a contare non sarà l´opinione generale ma un´opinione di parte, non importa quanto grande. In altre parole, violare le norme che mettono in pratica il principio di eguaglianza si traduce in una violazione della sostanza democratica che è appunto l´eguaglianza. Ecco perché mentre la legge è sempre al nostro servizio, l´opinione di chi governa non lo è necessariamente. Questo vale soprattutto quando si ha a che fare con un diritto politico fondamentale come quello elettorale.
Perciò, in casi estremi, quando ci sono dubbi o evidenti scorrettezze è al potere giudiziario che la democrazia si rivolge (un potere che, vale ricordarlo, è anch´esso democratico). Perché è possibile che nell´espletamento del diritto elettorale si verifichino negligenze ed errori. Ad essere rivelatore della solidità democratica è in questo caso il comportamento della classe politica. Nelle contestatissime elezioni americane del 2000, quando per risolvere la diatriba sul conteggio dei voti in Florida intervenne la Corte Suprema, Al Gore, il candidato che risultò perdente (benché forse i voti gli avevano dato la vittoria) non si sognò neppure di attaccare i giudici e gridare che è la sostanza politica a fare la democrazia. Nel caso da noi in discussione in questi giorni, invece, si assiste a questo ribaltamento delle parti: se l´esclusione di una lista elettorale avviene perché qualcuno non ha rispettato le regole, allora si invoca la sostanza contro la forma e si dice che l´esclusione è stata provocata dalla legge, non dal suo mancato rispetto. Qui l´intervento della giustizia è dichiarato un attentato alla democrazia. L´esito politico di questo ragionamento assurdo è inquietante.
Il paradosso è il seguente: fino a quando esiste un accordo tra l´opinione politica e la legge allora vale la massima "the law is the law is the law". Quando invece c´è disaccordo tra opinione e legge ad avere la precedenza è la sostanza che consiste appunto nella preferenza di una parte – la massima diventa allora "estado de opinión" contro "estado de derecho". Il fatto è che, siccome a decretare l´una o l´altra soluzione è comunque la preferenza politica, anche quando pare che a vincere sia la legge in realtà a vincere è sempre l´opinione. Ecco perché le interruzioni della regola nel nome della sostanza sono ben più di un incidente di percorso o di una soluzione di emergenza per sanare una situazione eccezionale. Esse si traducono in una vera e propria sostituzione dello "estado de opinión" allo "estado de derecho". E questo puó scardinare la democrazia.
Ma allora, perché alcuni stati democratici sono piú inclini di altri a rispettare le regole che si sono dati? La spiegazione non è univoca perché la domanda mette in campo dimensioni diverse, come quella legale e quella etico-culturale; tuttavia è possibile formulare questa massima generale: perché una società democratica resista nel tempo è fondamentale non solo che abbia buone leggi ma anche che il suo personale politico sia disposto ad autolimitarsi per rispettarle.
Sillabario: Democrazia
di Norberto Bobbio
Per regime democratico s´intende primariamente un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati. So bene che una simile definizione procedurale, o formale, o in senso peggiorativo formalistica, appare troppo povera ai movimenti che si proclamano di sinistra. Ma, a parte il fatto che un´altra definizione altrettanto chiara non esiste, questa è l´unica che ci offra un criterio infallibile per distinguere tra due tipi ideali opposti di forme di governo. Altrettanto opportuno è precisare che la democrazia come metodo è, sì, aperta a tutti i possibili contenuti, ma è nello stesso tempo molto esigente nel richiedere il rispetto delle istituzioni, perché proprio in questo rispetto sono riposti tutti i vantaggi del metodo.
«La donna è l'altro rispetto all'uomo. L'uomo è l'altro rispetto alla donna. L'uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli». «Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell'uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell'esistenza». «La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un'altra cosa». «Per uguaglianza delle donne si intende il suo diritto a partecipare alla gestione del potere nella società mediante il riconoscimento che essa possiede capacità uguali a quelle dell'uomo. Ma...ci siamo accorte che sul piano della gestione del potere non occorrono delle capacità, ma una particolare forma di alienazione. Il porsi della donna non implica una partecipazione al potere maschile, ma una messa in questione del concetto di potere. E' per sventare questo possibile attentato della donna che oggi ci viene riconosciuto l'inserimento a titolo di uguaglianza». Sono solo alcune citazioni delle molte possibili dal Manifesto di Rivolta Femminile e da Sputiamo su Hegell, il testo forse più famoso di Carla Lonzi, entrambi datati 1970, ed entrambi al centro, con tutto il resto della sua opera, del partecipatissimo convegno della Casa internazionale delle donne di Roma che in questi giorni (cfr. Maria Luisa Boccia sul manifesto di giovedì scorso) ne ha ripercorso la figura di militante e teorica femminista nonché critica d'arte. Non una commemorazione né una monumentalizzazione, ma una riattualizzazione della radicalità della figura di Lonzi e della radicalità da lei impressa al femminismo italiano degli anni Settanta e seguenti, sul piano del pensiero e della pratica, nel modo di concepire la politica e la libertà femminile, la trasformazione di sé e del mondo, la relazione con le altre e il conflitto con l'altro. Una riattualizzazione tanto più tempistica dopo un anno come questo e in un momento come questo, in cui il discorso sulle donne sembra sequestrato dall'immaginario berlusconiano (e non solo berlusconiano) al potere, e il discorso delle donne rischia una risposta speculare e subalterna.
Quale? Quella, già in voga sui media nei mesi scorsi, che scambia la fiction berlusconiana per la realtà («siamo un paese di veline»), vede passività dove c'è stata reattività (la reiterata denuncia del «silenzio delle donne», che copre e svalorizza la parola delle donne che hanno denudato il re), prescrive ricette del tutto inadatte alla malattia (quote rosa quando è chiaro l'uso che ne fa Berlusconi e non solo lui, parità e diritti quando è chiaro che il conflitto è sulla sessualità e sull'immaginario). Non ne è esente il quadro desolato e desolante delle donne italiane che Caterina Soffici traccia nel suo Ma le donne no, sottotitolo (buono per le vendite in libreria) «Come si vive nel paese più maschilista d'Europa» (Feltrinelli, 210 pagine, 14 Euro, prefazione di Nadia Urbinati), un'inchiesta peraltro ricca di storie e testimonianze femminili interessanti che si presterebbero a un'interpretazione più complessa di quella che l'autrice ne trae: in sostanza, una generalizzata regressione, una generalizzata sottomissione a canoni etico-estetici imposti e lesivi della dignità femminile, una generalizzata incapacità di lottare e di avvalersi dei diritti. E' davvero così? La rappresentazione commercial-televisiva del gentil sesso nell'era berlusconiana coincide davvero con la realtà delle donne? L'eccellenza femminile di cui parlano tutti i dati sulla scolarizzazione e sul mondo del lavoro è davvero annullata dalle discriminazioni salariali e dal carico del lavoro familiare non condiviso con i mariti? Davvero dopo gli anni 70 ci siamo tutte «ritirate ordinatamente e in silenzio», ciascuna per sé e il mercato o l'uomo potente per tutte? E qual è la memoria - o meglio l'immaginario, o il fantasma - degli anni 70 che sostiene questa catena interpretativa?
Scrive Soffici che la sua inchiesta parte da un disagio: «Eravamo cresciute in una bolla felice, nella certezza di essere libere, di poter vivere la vita che volevamo. Ma era solo un'illusione. Non era vero. Il cammino verso la parità dei diritti iniziato negli anni 70 si era interrotto». Una osservazione analoga si ritrova in un altro libro-inchiesta appena uscito, Pensare l'impossibile di Anais Ginori (Fandango, 160 pagine, 14 Euro, prefazione di Concita De Gregorio, vignette di Pat CArra), che però esplicita nel sottotitolo, «Donne che non si arrendono», un'intenzione di segno contrario, ed è esplicitamente attraversato in più d'una pagina dalla domanda su quale sia, se c'è, il rapporto fra la generazione del femminismo storico e quella delle trentenni di oggi, scosse dal torpore dai noti fatti di quest'ultimo anno che Ginori definisce «l'Anno Zero delle donne italiane». Anche lei scrive: «Le ragazze che ho incontrato per scrivere questo libro non sono tutte veline. Molte però provano un senso di disillusione. Sono cresciute pensando che i diritti erano tutti già conquistati, che la parità fosse un dato acquisito. Hanno scoperto che non è così». Viene da rispondere che se è così non tutti i mali, il sexgate berlusconiano compreso, vengono per nuocere.
Ma forse è più chiaro a questo punto il senso delle citazioni di Carla Lonzi all'inizio di questo articolo: servono a ricordare due cose. Primo, che non siamo all'Anno Zero. Secondo, che il femminismo degli anni 70 ha messo al mondo una pratica di libertà che non si fida della parità e non si affida ai diritti, che si conquista e si riconquista ogni giorno e in ogni contesto di vita pubblica e personale, e che non si cristallizza in leggi e garanzie. Ricordarlo non serve, spero che sia chiaro, a prescriverla ad altre donne e a un altro tempo, cui magari si addicono tutt'altre pratiche. Serve però a smontare la riduzione - tutta costruita dalla vulgata mediatica di trent'anni - del femminismo come lotta lineare e progressiva per la parità e i diritti. E a ricordare che, come si evince da questi stessi due libri, «l'illusione» dei diritti può avere una conseguenza spoliticizzante per chi ci si affida come a delle garanzie che rendono superflue le battaglie di libertà.
Pensare l'impossibile ha comunque il merito di rendere evidente un'agenda di questioni su cui «lo scontento delle più giovani» preme con maggiore urgenza. Si apre, intanto, con una inchiesta sulla tratta delle nigeriane: meritoria, perché quello del mercato internazionale del sesso, conseguenza tutt'altro che secondaria della globalizzazione, è uno dei tasselli che mancano alla chiacchiera infinita sul sexgate di casa nostra e sull'immaginario sessuale dei tempi nostri. E prosegue indagando sull'uso del corpo femminile nell'industria della pubblicità e della televisione, rendendo evidenti due stacchi cruciali rispetto agli anni 70: lo spostamento del fuoco dal corpo all'immagine del corpo, e lo spostamento della cornice dalla politica al mercato. Che cosa diventa o può diventare, la politica della libertà femminile, quando non si tratta del corpo ma dell'immagine, e si combatte non dentro e contro un contesto segnato dalla politica diffusa com'era nei 70, ma dentro e contro la dittatura del mercato, e quando la politica diventa mero esercizio del potere?
Sono domande che varrebbe la pena di approfondire. Alain Touraine, nel libro che senza ombra di dubbio si può considerare l'unico testo maschile che abbia afferrato e registrato la qualità specifica della rivoluzione femminile novecentesca e il «cambiamento di prospettiva» sul mutamento sociale da essa indotto (Il mondo è delle donne, il Saggiatore, già recensito su queste pagine), aiuta a darsi alcune risposte. Interrogandosi sui cambiamenti generazionali nella storia delle donne degli ultimi decenni, Touraine registra uno degli spostamenti che questi libri segnalano, dalla capacità di lotta della generazione dei 70 all'idea oggi predominante «che le donne siano completamente dominante e manipolate, private di parole e di immagini proprie, e si trovino così ridotte a mera creazione del potere maschile», soprattutto il potere dei professionisti della comunicazione e della pubblicità. Una «immagine caricaturale», scrive Touraine, che rischia di diventare un'ideologia al servizio dello stesso potere maschile; per smontarla, aggiunge, è bene «cercare le attrici dietro le vittime», ovvero, con un gioco di parole, non cadere vittime della (auto)vittimizzazione e aprire gli occhi sulle strategie attive di vita, resistenza, creatività, costruzione di sé e trasformazione del mondo che sono maggioritarie nelle vite femminili di oggi successive alla «grande rivoluzione» dei 70.
Occorre anche capire, scrive Touraine, che la sessualità è diventata, nelle società contemporanee, il terreno su cui per le donne si gioca una aspra battaglia sul confine fra costruzione consapevole di sé e mercificazione. La mappatura di questa battaglia comporta strumenti fini, che non possono esaurirsi nella denuncia estemporanea della galleria degli orrori che ci è passata davanti nell'ultimo anno. Sandra Puccini, nel suo prezioso Nude e crudi. Femminile e maschile nell'Italia di oggi (Donzelli, 200 pagine, 18 Euro), si mette e ci mette sulle tracce di un cambiamento dell'antropologia italiana che ruota attorno al cambiamento dei ruoli sessuali, che oggi esplode ma che è cominciato nei primi anni 80 (con Drive In), e lo storicizza proprio in rapporto alla rivoluzione femminista dei 70: «Contro le femministe sembravano prendere corpo immagini femminili costruite pescando nelle più arcaiche fantasie maschili: con l'antica scissione fra le donne tentatrici e peccaminose dell'immaginario erotico e le altre, quelle da sposare e con cui mettere su famiglia». Da allora a oggi non ci sono state solo la tv spazzatura e la pubblicità a fare la loro parte, ma un fascio di linguaggi che vanno dalla letteratura alla fiction alla fotografia sui settimanali di moda. E non hanno operato univocamente a svilire il corpo femminile, ma più sottilmente a costruire una «tirannia della bellezza» basata su messaggi ambivalenti e su una «molteplicità di rappresentazioni» che dava anche risposte, per quanto illusorie, a un desiderio di libertà e di autonomia, o dava corpo - anoressico - ai nuovi sintomi del disagio, il narcisismo in primo luogo, di quella che altri chiamano «società del godimento»: una società in cui erotismo, sessualità, pornografia tendono a sovrapporsi, e «fare sesso» si sostituisce a «fare l'amore». Crucialmente, scrive Puccini, non si è trattato solo di una manipolazione del femminile, bensì di una riscrittura del femminile e del maschile, dominata per un verso dalla tendenza alla confusività e all'omologazione androgina, per l'altro da un ripristino di maschere sessuali tradizionali - uomini violenti, donne docili - utili a placare l'ansia dovuta alla sparizione reali dei ruoli tradizionali. Una ottima pista, che ha tra l'altro il merito di porci di fronte alla cruciale domanda: e degli uomini, che ne è stato nel frattempo?
ROMA - Non critica Napolitano, dissente da Di Pietro, benedice le proteste, boccia un decreto inconcepibile in uno Stato di diritto. Gustavo Zagrebelsky inizia citando un episodio che, «nel suo piccolo», indica lo stravolgimento dell´informazione. Al Tg1 di venerdì sera va in onda la foto di Hans Kelsen, uno dei massimi giuristi del secolo scorso. «Gli fanno dire che la sostanza deve prevalere sulla forma: a lui, che ha sempre sostenuto che, in democrazia, le forme sono sostanza. Una disonestà, tra tante. Gli uomini di cultura dovrebbero protestare per l´arroganza di chi crede di potersi permettere di tutto».
Professore, che succede?
«Apparentemente, un conflitto tra forma e sostanza».
Apparentemente?
«Se guardiamo più a fondo, è un abuso, una corruzione della forza della legge per violare insieme uguaglianza e imparzialità».
Perché? Non si trattava invece proprio di permettere a tutti di partecipare alle elezioni?
«Il diritto di tutti è perfettamente garantito dalla legge. Naturalmente, chi intende partecipare all´elezione deve sottostare ad alcuni ovvi adempimenti circa la presentazione delle candidature. Qualcuno non ha rispettato le regole. L´esclusione non è dovuta alla legge ma al suo mancato rispetto. È ovvio che la più ampia "offerta elettorale" è un bene per la democrazia. Ma se qualcuno, per colpa sua, non ne approfitta, con chi bisogna prendersela: con la legge o con chi ha sbagliato? Ora, il decreto del governo dice: dobbiamo prendercela con la legge e non con chi ha sbagliato».
E con ciò?
«Con ciò si violano l´uguaglianza e l´imparzialità, importanti sempre, importantissime in materia elettorale. L´uguaglianza. In passato, quante sono state le esclusioni dalle elezioni di candidati e liste, per gli stessi motivi di oggi? Chi ha protestato? Tantomeno: chi ha mai pensato che si dovessero rivedere le regole per ammetterle? La legge garantiva l´uguaglianza nella partecipazione. Si dice: ma qui è questione del "principale contendente". Il tarlo sta proprio in quel "principale". Nelle elezioni non ci sono "principali" a priori. Come devono sentirsi i "secondari"? L´argomento del principale contendente è preoccupante. Il fatto che sia stato preso per buono mostra il virus che è entrato nelle nostre coscienze: il numero, la forza del numero determina un plusvalore in tema di diritti».
E l´imparzialità?
«Il "principale contendente" è il beneficiario del decreto ch´esso stesso si è fatto. Le pare imparzialità? Forse, penseremmo diversamente se il beneficiario fosse una forza d´opposizione. Ma la politica non è il terreno dell´altruismo. Ci accontenteremmo allora dell´imparzialità».
Anche lei, come l´ex presidente Onida, considera il dl una legge ad personam?
«Questa vicenda è il degno risultato di un atteggiamento sbagliato che per anni è stato tollerato. Abbiamo perso il significato della legge. Vorrei dire: della Legge con la maiuscola. Le leggi sono state piegate a interessi partigiani perché chi dispone della forza dei numeri ritiene di poter piegare a fini propri, anche privati, il più pubblico di tutti gli atti: la legge, appunto. Si è troppo tollerato e la somma degli abusi ha quasi creato una mentalità: che la legge possa rendere lecito ciò che più ci piace».
Torniamo al decreto. Si poteva fare?
«La legge 400 dell´88 regola la decretazione d´urgenza. L´articolo 15, al comma 2, fa divieto di usare il decreto "in materia elettorale". C´è stata innanzitutto la violazione di questa norma, dettata non per capriccio, ma per ragioni sostanziali: la materia elettorale è delicatissima, è la più refrattaria agli interventi d´urgenza e, soprattutto, non è materia del governo in carica, cioè del primo potenziale interessato a modificarla a suo vantaggio. Mi pare ovvio».
Quindi, nel merito, il decreto viola la Costituzione?
«Se fosse stato adottato indipendentemente dalla tornata elettorale e non dal governo, le valutazioni sarebbero del tutto diverse. Dire che il termine utile è quello non della "presentazione" delle liste, ma quello della "presenza dei presentatori" nei locali a ciò adibiti, può essere addirittura ragionevole. Non è questo il punto. È che la modifica non è fatta nell´interesse di tutti, ma nell´interesse di alcuni, ben noti, e, per di più, a partita in corso. È un intervento fintamente generale, è una "norma fotografia"».
Siamo di fronte a una semplice norma interpretativa?
«Quando si sostituisce la presentazione delle liste con la presenza dei presentatori non possiamo parlare di interpretazione. È un´innovazione bella e buona».
E la soluzione trovata per Milano?
«Qui si trattava dell´autenticazione. Le formule usate per risolvere il problema milanese sono talmente generiche da permettere ai giudici, in caso di difetti nella certificazione, di fare quello che vogliono. Così, li si espone a tutte le possibili pressioni. Nell´attuale clima di tensione, questa pessima legislazione è un pericolo per tutti; è la via aperta alle intimidazioni».
Lei boccia del tutto il decreto?
«Primo: un decreto in questa materia non si poteva fare. Secondo: soggetti politici interessati modificano unilateralmente la legislazione elettorale a proprio favore. Terzo: si finge che sia un interpretazione, laddove è evidente l´innovazione. Quarto: l´innovazione avviene con formule del tutto generiche che espongono l´autorità giudiziaria, quale che sia la sua decisione, all´accusa di partigianeria».
Di Pietro e Napolitano. È giusta la critica dell´ex pm al Colle?
«Le reazioni di Di Pietro, quando accusa il Capo dello Stato di essere venuto meno ai suoi doveri, mi sembrano del tutto fuori luogo. Ciascuno di noi è libero di preferire un comportamento a un altro. Ma è facile, da fuori, pronunciare sentenze. La politica è l´arte di agire per i giusti principi nelle condizioni politiche date. Queste condizioni non sempre consentono ciò che ci aspetteremmo. Quali sono le condizioni cui alludo? Sono una sorta di violenza latente che talora viene anche minacciata. La violenza è la fine della democrazia. Il Capo dello Stato fa benissimo a operare affinché non abbia mai a scoppiare».
Ma Di Pietro, nella firma del Presidente, vede un attentato.
«La vita politica non si svolge nel vuoto delle tensioni, ma nel campo del possibile. Il presidente ha agito usando l´etica della responsabilità, mentre evocare iniziative come l´impeachment significa agire secondo l´etica dell´irresponsabilità».
Lei è preoccupato da tutto questo?
«Sì, è anche molto. Perché vedo il tentativo di far prevalere le ragioni della forza sul quelle del diritto. Bisogna dire basta alla prepotenza dei numeri e chiamare tutte le persone responsabili a riflettere sulla violenza che la mera logica dei numeri porta in sé».
L´opposizione è in rivolta. Le prossime manifestazioni e le centinaia di messaggi sul web non rischiano di produrre una spirale inarrestabile?
«Ogni forma di mobilitazione contro gli abusi del potere è da approvare. L´unica cautela è far sì che l´obiettivo sia difendere la Costituzione e non alimentare solo la rissa. C´è chi cerca di provocare lo scontro. Per evitarlo non si può rinunciare a difendere i principi fondamentali. Speriamo che ci si riesca. La mobilitazione dell´opposizione responsabile e di quella che si chiama la società civile può servire proprio a far aprire gli occhi ai molti che finora non vedono».
Appena un mese fa si erano largamente imposti i peana alla modernizzazione degli anni Ottanta e ai suoi profeti ma alcuni nodi di fondo sono presto riemersi in tutta la loro profondità e gravità. La fragilità di una rimozione non è stata infranta solo da qualche scellerata esultanza mentre L’Aquila crollava o dalle mazzette nascoste in un pacchetto di sigarette: è stata infranta, molto di più, dalla "illegalità ordinaria" che intercettazioni e indagini hanno portato alla luce.
È stata infranta dall’evidenza di un "sistema", per dirla con Denis Verdini: un "sistema" che ha riproposto ad un Paese molto distratto e quasi immemore alcune domande di fondo. Più di un elemento aggiunge ragioni di riflessione, e il confronto con Tangentopoli è talora illuminante. In quegli anni, ad esempio, non pochi indagati sostennero che "rubare per il partito" era un male minore, e la tesi improntò di sé frettolose proposte di amnistia e teoremi assai discutibili. Era un vero e proprio rovesciamento della realtà – la corruzione politica è un attentato alle istituzioni, molto più devastante di un furto privato – ma segnalava talora un disagio profondo: senza di esso non capiremmo appieno neppure i terribili suicidi di quei mesi. Si intrecciarono (e in qualche modo si nascosero a vicenda) la lacerante sensazione di un trauma e quella forte volontà di autoassoluzione di cui Craxi fu l’alfiere più lucido.
È stata quest’ultima a prevalere e a improntare di sé larga parte della memoria pubblica: appena un mese fa, appunto, la "riabilitazione" del leader socialista ha segnalato che un lungo percorso è stato compiuto in un breve volger di anni. Era un approdo preparato da tempo: in una narrazione diffusa le responsabilità di quel tracollo si erano progressivamente e sensibilmente spostate da Tangentopoli a Mani Pulite, dai corrotti ai giudici.
Ora quella narrazione mostra tutte le sue crepe e tornano di stringente attualità alcune delle questioni emerse fra anni ottanta e anni novanta, segnalate dall’impetuoso ed "estremo" imporsi della Lega Nord ben prima che dalle indagini giudiziarie. Si scorrano libri e riviste di quel torno di tempo (Se cessiamo di essere una nazione; La grande slavina; A che serve l’Italia?, e così via): li attraversa un sofferto interrogarsi sul modo di essere del Paese, non solo sui processi di corruzione che attraversavano il ceto politico. Naturalmente questi ultimi apparivano in piena evidenza, e gli anni Ottanta avevano segnato un rilevante salto di qualità. Vi era stato compiutamente in essi quell’affermarsi della tangente come metodo che lo scandalo petrolifero del 1974 aveva fatto emergere: la cultura della tangente – per citare un titolo di Giorgio Bocca – aveva ormai invaso o stava invadendo in modo irreversibile l’industria di stato e un numero crescente di amministrazioni pubbliche. Ed appunto Bocca, seguendo un processo milanese di metà decennio, coglieva «un profondo convincimento del ceto politico: le tangenti sono necessarie all’amministrazione come il lievito alla panificazione». Dal canto suo il Censis segnalava ed elogiava le energie che si sprigionavano dalla società ma avvertiva anche al loro interno un «annerirsi nel profondo della dimensione collettiva». Avvertiva l’affermarsi di una «dislocazione selvaggia e particolaristica in cui tutto c’è tranne moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni».
Queste e altre riflessioni furono rapidamente rimosse e accantonate da gran parte dell’opinione pubblica nell’euforia che accompagnò il crollo del vecchio sistema politico. Ci si illuse che potesse trovare voce e spazio una robusta società civile e avesse così avvio una salvifica "seconda Repubblica": si scoprì presto che non era così. Si scoprì presto quanto pesassero ormai le tendenze e i valori che si erano corposamente affermati nel decennio precedente: la rivincita privatistica, le varie forme di deregulation legislativa ed etica, lo sprezzo per le regole e i vincoli collettivi, il trionfo di un "individualismo protetto" che chiede allo Stato il minimo di interferenze e al tempo stesso il massimo di "protezione". Tendenze libere ormai di affermarsi senza gli anticorpi solidaristici, politici e morali che le avevano contrastate sin lì: anche per questo poté largamente prevalere la proposta che si era confusamente delineata attorno al composito polo del centrodestra. Si affermarono e trovarono espressione politica, in altri termini, tendenze che si erano consolidate in un lungo percorso, nel progressivo indebolirsi di altri e differenti modelli che pure erano stati presenti nella storia della Repubblica.
Che cosa è successo in questi anni? Perché quelle tendenze sono state così labilmente contrastate e appaiono oggi molto più solide e pervasive di allora? Quali sono state le responsabilità dirette e indirette della politica? Un’analisi sommaria di alcune leggi volute dal centrodestra, e della cultura sottesa ad esse, fa comprendere bene quanto i messaggi della politica abbiano consolidato in modo prepotente quei processi. Si aggiunga la visione del mondo variamente esposta in più occasioni dal premier o la molteplicità dei segnali che sono andati nella stessa direzione, ma non ci si fermi qui. Si ripensi ancora, su un altro versante, alla crisi dei primi anni Novanta. In quel trauma il centrosinistra non seppe contrapporre alla trionfante antipolitica di Berlusconi e di Bossi le modalità limpide di una "buona politica", radicalmente diversa da quella – pessima – che aveva segnato l’agonia della Repubblica. Mancò l’occasione, forse irripetibile, di proporre una riconoscibile e netta inversione di tendenza, caratterizzata in primo luogo dalla trasparenza delle scelte e degli orientamenti, dal privilegiamento del merito e delle competenze, e così via. Dalla capacità cioè di proporre un modo diverso di "essere italiani", su tutti i terreni. "L’Italia che noi vogliamo" o "rifare l’Italia" sono rimasti slogan vuoti e disattesi. Immediatamente dimenticati dopo le campagne elettorali, e incapaci persino di caratterizzarle in profondità. Si sono logorate e consumate così in larga misura anche le potenzialità che il centrosinistra è stato pur capace di mettere in campo, dall’esperienza dei sindaci a quella delle "primarie". Ed è doveroso ricordare, infine, che non poche indagini giudiziarie lo coinvolgono ora direttamente.
Per questo una reale inversione di tendenza appare oggi molto più difficile di prima, e collocata più di prima nel lungo periodo. Per questo essa esigerebbe una radicalità intellettuale e politica di cui non si scorgono le tracce. Per questo sarebbe così necessaria.
«C'era una volta la Repubblica, la Costituzione, lo Stato: era l'epoca della politica moderna. Poi venne il Cavaliere postmoderno e cominciò l'opera di smontaggio»: così ha scritto Ida Dominijanni («Il Medioevo prossimo venturo») sul manifesto del 26 febbraio scorso. C'è molto di vero, ma manca l'essenziale. Facendo carico a Berlusconi dello smontaggio dell'immaginario e del linguaggio istituzionale del moderno si rischia infatti di scambiare l'effetto con la causa: esattamente come la storiografia ispirata dal «culto della personalità» ha finito per imputare alla malvagità di un despota le convulsioni dell'Urss all'epoca della collettivizzazione e del Grande Terrore.
Qualche mese fa, commentando il film di Erik Gandini «Videocracy», perfino Enrico Franceschini si accorse che il film raccontava di un sovvertimento trentennale nella gerarchia dei valori.. «La società in cui viviamo - diceva - ha sposato totalmente i principi del libero mercato e predica competizione a tutti i costi. Ma non è una competizione in cui vince il migliore. Vince il più spregiudicato. E questo non è soltanto un disastro morale e culturale. È un danno economico», perché «viene trasmessa l'idea che studiare e sacrificarsi sia inutile. Anziché puntare su studio e lavoro, molti cercano la scorciatoia di un mondo dello spettacolo dove non vale più la regola del talento ma quella della spregiudicatezza. Oppure si affidano alle reti di protezione sindacali, familiari, politiche».
Ora, è certo difficile sottrarsi all'idea che il «grande Altro» di questo mondo si sia «soggettivato» in Silvio Berlusconi, come Franceschini avrebbe aggiunto se solo conoscesse Jacques Lacan. Ma il punto è proprio questo: esattamente come gli oppositori di Stalin, gli oppositori di Berlusconi condividono le premesse del suo discorso. Condividono, cioè, che non la politica ma il mercato debba provvedere all'allocazione delle risorse. Che l'individuo debba essere lasciato libero di «partire da sé» e da sé fabbricarsi la propria strada, in una libera competizione con gli altri. Che la costrizione delle regole possa arrecar danno alle potenzialità espressive di una soggettività che si vuole libera «per natura». Che rispetto alla crisi lo Stato non sia la soluzione ma - come disse Reagan - il problema.
Si tratta di un ordine simbolico che può essere racchiuso nella più celebre delle parole d'ordine che trionfarono nella rivoluzione mondiale del '68: «Vietato vietare!». E di cui Berlusconi mostra l'unica possibilità d'inveramento in un'economia periferica quanto alla struttura produttiva, in cui le tanto glorificate «piccole imprese» possono campare solo grazie all'evasione fiscale e contributiva. In cui i lavoratori, divisi fra precari e garantiti, cercano di spuntare salario con tutti i mezzi possibili. E in cui le rendite prosperano grazie alla speculazione edilizia e finanziaria, mentre lo Stato ha cessato ogni velleità di pianificazione o programmazione per farsi distributore di sussidi e prebende.
Esagero? Ma via, chi mai oggi all'opposizione vorrebbe proporre il ritorno dello Stato nell'economia e nella società? Siamo sinceri: a offuscare le velleità normative e pianificatrici dello Stato i movimenti degli anni '70 hanno concorso non meno di Friedman e Hayek. Berlusconi si limita a trarre le logiche conseguenze da premesse che costituiscono un patrimonio comune a tutta la generazione del baby boom e ad applicarle in una società in cui abbiamo la metà dei laureati rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna, in cui metà della popolazione non legge nemmeno un libro all'anno e perfino i lettori di un «quotidiano comunista» si adombrano se non gli parli facile facile o se un articolo è troppo lungo (come questo). E per questo gli oppositori di Berlusconi sono di fatto impotenti: esattamente come gli avversari di Stalin, essi sono presi in trappola da un «odio» che non è riuscito a spegnere l'«amore» per l'ordine del discorso del «grande Altro» che in lui s'impersonifica, ma l'ha solo respinto nell'inconscio, dove di fatto continua a vivere e ad accrescersi.
Si capisce allora che la riesumazione «del vocabolario della Morale alla testa del Bene contro il Male e dell'Amore contro l'Odio», che Dominijanni giustamente individua come un portato non secondario dello smontaggio della modernità, non è affatto casuale: quel vocabolario è anzi l'unico che possa realmente raccontare i termini dell'impasse odierna, perché attinge alle pulsioni più profonde della nostra società - quelle stricto sensu «indicibili». E si capisce come mai il «pensiero» di organizzare un'opposizione capace di scalzare il Cavaliere ha finito per tener luogo di un'azione politicamente idonea allo scopo: la verità è che nessun'altra azione è possibile sulla scorta di quelle premesse. Chi ne dubitasse, può andarsi a rileggere il comma 1198 dell'art. 1 della finanziaria Prodi del 2006, poco dopo il rogo della Thyssen: non solo previde un condono per le imprese scoperte a evadere i contributi, ma promise a quelle che aderivano che per 6 mesi non avrebbero avuto visite dagli ispettori per la sicurezza del lavoro.
Ma si capisce pure perché nell'immaginario berlusconiano i magistrati siano indefettibilmente «comunisti». Il comunismo novecentesco non è scindibile dallo Stato, e Stato significa «piano», «norma», «divieto», «vincolo»: cose che appunto fanno a pugni con un immaginario che ormai traduce correntemente «vietato vietare» nel francese «laissez faire». E i magistrati, custodi di una legalità che tutti ormai avvertono come inadeguata rispetto alle pretese liberalizzatici dell'economia e della società da «lacci e lacciuoli», non possono che apparire come gli alfieri di un ordine vecchio e condannato dalla Storia. Un ordine ormai ipocrita, visto che vale solo per quei pochi sfortunati che non riescono a farla franca, ma di cui ancora si percepisce viva la minaccia: non si spiega altrimenti il consenso popolare verso tutte le iniziative legislative che si propongono di ostacolare o impedire la celebrazione dei processi. Chi le chiama «leggi ad personam» non capisce che non è il popolo ad essere ottenebrato dal Principe, ma questi a rispecchiare nel profondo le più intime pulsioni della sua gente.
Questa, piaccia o meno, è la situazione. Pensare di eluderla immaginando che la società civile sia migliore della società politica non porta a nulla. Nemmeno a vendere una copia in più di questo pessimo ma amatissimo giornale.
Ida Dominijanni
Ringrazio Luigi Cavallaro della sua attenzione e gli replico volentieri, perché il suo intervento esplicita un'idea che circola, spesso in modo meno esplicito, a destra e a sinistra, e sulla quale vale la pena a mio avviso di tentare di fare chiarezza. L'idea è questa, che la concezione individual-liberista della libertà berlusconiana affondi le sue radici nella rivoluzione libertaria del Sessantotto e seguenti, e che dunque la rivoluzione libertaria del Sessantotto bebba farsi - colpevolmente - carico di questo suo nefasto esito, con - immagino - conseguente abiura. Cavallaro stabilisce questo nesso sul terreno della concezione del mercato e dello Stato, altri l'hanno fatto nei mesi scorsi sul terreno della sessualità: da opposte sponde - «Il Foglio» e «Gli Altri», tanto per non fare nomi - c'è chi ha interpretato il «libertinismo» sessuale di Berlusconi come l'inveramento - uso lo stesso termine di Cavallaro - della libertà sessuale predicata e praticata da sessantottini e femministe (i baby boomers di Cavallaro). E se è così, perché e da quale pulpito contestarlo? Chi di libertà ferisce, di libertà perisce.
A me pare un ragionamento sbagliato, sul piano concettuale e sul piano storico. Sul piano concettuale, perché si sa che la libertà è uno dei termini del lessico politico che più si piega a significati diversi e perfino opposti, e infatti, sul piano storico, la libertà e il «vietato vietare» del '68 non possono essere messi in continuità con il liberismo economico, la libera competizione e il laissez-faire berlusconiani: là c'era libertà politica, individualità in relazione con la dimensione collettiva, lotta contro la repressione, liberazione del desiderio, critica della merce e ricerca del comune; qua c'è libertà di mercato e di consumo, individualismo competitivo, affrancamento dalla legge dei forti e uso della legge contro i deboli, mercificazione del desiderio, religione della proprietà. Si tratta dunque non di inveramento, ma di rovesciamento del Sessantotto. Naturalmente, e in questo sono d'accordo con Cavallaro, su un terreno disegnato anche dal Sessantotto: il che però dovrebbe indurre non ad attribuire a quella stagione gli esiti di questa, ma viceversa a ragionare su quali possano essere i rovesciamenti reazionari cui possono andare incontro le rivoluzioni lasciate senza risposta e senza sbocco. Fra le cose lasciate senza risposta io ci metto, a differenza di Cavallaro, anche un'idea di comunismo senza stato, e forse perfino un'idea di stato (sociale) non riducibile solo a funzioni repressive, normative o di veto.
Per il resto, concordo del tutto con Cavallaro sulla necessità di non scambiare l'effetto per la causa, o, per dirlo in altri termini, di leggere Berlusconi più come sintomo che come attore di un ordine simbolico che lo travalica e che impronta largamente anche il discorso, le azioni (o non-azioni) e l'inconscio dei suoi oppositori, nonché della società che lui rispecchia e che in lui si rispecchia. Con l'avvertenza però che in questo ordine simbolico precipitano processi storici complessi, che il discorso lacaniano sul «Grande Altro» talvolta illumina, talvolta semplifica. Fra i quali, detto per inciso, il tramonto dell'autorità paterna e del patriarcato, che sulle vicende della legge e del «vietato vietare» spiega forse più del tramonto dello stato sovietico. Ci sarà certo modo di riparlarne.
«Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?» chiede l´Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. «Un dio, ospite, un Dio! – così come è perfettamente giusto». Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi – perché si dovrebbe obbedire alle leggi – è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre. Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c´è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l´intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l´ubbidienza in dovere. Ma dov´anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l´amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest´adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l´invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa – sia permesso il banale gioco di parole – sulla legge della forza, si basa sull´interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell´uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all´altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d´esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all´altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l´ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge – basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi – e che proprio dall´esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c´è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d´un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L´ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell´autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell´Areopago che l´aveva condannato a morte, è l´incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d´avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l´inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell´interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l´iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi – l´abbiamo visto all´inizio – erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l´esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l´arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest´arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L´illegalità, anche se all´inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell´interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un´eccezione, ma significa farne l´inizio di un´infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky al Teatro della Corte di Genova, nel corso del primo incontro del ciclo «Fare gli italiani – Grandi Parole alla ricerca dell´identità nazionale»
Ci eravamo forse illusi che la grande crisi dell' autunno 2008 potesse cambiare le coordinate culturali in cui si muove l'Occidente. Così non è stato. L' impressionante opera ideologica di costruzione delle virtù del privato sembra aver tenuto. Non siamo arrivati in tempo. Il pubblico non ha saputo rifondarsi culturalmente, non ha saputo creare un argine di consenso capace di difenderlo dall' espropriazione e dal saccheggio. E il pensiero liberale non è stato chiamato a render conto del proprio ruolo nella devastazione produttivistica del nostro pianeta. Molti, anche a sinistra, continuano a proclamarsi liberali senza vergogna, anzi con orgoglio. Ma a bene vedere privilegio di nascita (in Occidente) e cupidigia infinita nell'accumulo di ricchezze sono le coordinate di quel pensiero. Sviluppo e crescita sono le ossessive parole d'ordine dello stesso sindacato....
Concorrenza e competizione fra individui hanno soppiantato qualsiasi disegno di cooperazione e comunità. Il consumatore ha sostituito il cittadino. Non c'è area del pubblico in cui una privatizzazione (spuria) non sia stata realizzata o non sia quantomeno minacciata. Iri, Eni, banche, Alitalia, ferrovie, università, acqua, Tirrenia, beni culturali, sanità, demanio, manutenzione stradale, televisione, carceri, difesa, protezione civile... Prima era lo Stato imprenditore a essere sotto assalto; adesso si sostiene la logica del profitto perfino per quelle funzioni primarie (giustizia e difesa) che lo stesso pensiero liberale considerava riservate allo Stato, e da gestirsi perciò nella logica politica dell'interesse comune e non secondo quella della «mano invisibile».
Intendiamoci, gran parte del settore pubblico funziona male, l' Università baronale è indifendibile, i pendolari sono trattati come il bestiame... Il paradosso non è nell'analisi ma nella ricetta. A causa di un dito rotto uso male una mano per mangiare: amputiamola e svolgiamo la stessa funzione con i piedi!
Il pubblico che funziona male viene smantellato piuttosto che rafforzato, reso più debole piuttosto che ristrutturato. L'assunto di fede è che il privato funzionerà meglio, come se non avessimo abbastanza esempi di imprenditoria privata (certo non solo nel nostro paese) corrotta, miope e parassitaria, a cominciare dalla Fiat. Eppure piuttosto che far funzionare il pubblico, motivandone i lavoratori (riconoscendo per esempio che saranno pure fannulloni ma sono gli unici a pagare le tasse sul loro intero reddito), preferiamo mangiare con i piedi. Basterebbero i dati sull' evasione fiscale, che riguarda interamente il settore privato per capire come qui ci sia qualcosa che non va. Per capire che l'ideologia predatoria del capitalismo ha inventato la virtù del privato che è e resta ricerca materialista del profitto e dell'avere.
Un'onesta fenomenologia comparata deve confrontare il pubblico virtuoso col privato virtuoso e il pubblico patologico col privato patologico. La ricerca del modello misto deve partire da qui. Il privato, pur se virtuoso, persegue il profitto. Il pubblico l'«interesse pubblico» sotto forma di sostenibilità economica del servizio accompagnata alla distribuzione dei benefici a tutti coloro che, contribuendo alla fiscalità generale, ne sono i proprietari. L'esclusione del profitto privato tipica del pubblico virtuoso inserisce un delta a suo favore nella gestione di qualsiasi attività economica sotto forma del quantum di profitto che, invece di essere assorbito dal capitale privato, viene ridistribuito fra tutti i consociati. La presenza di questo delta dovrebbe inserire una presunzione a favore del pubblico per ogni attività economica di pubblico interesse (includendo in quest'ambito la piena occupazione). Non più quindi pubblico soltanto laddove il privato fallisce, ma, al contrario, privato soltanto laddove il pubblico fallisce. Per esempio, la salvaguardia occupazionale di una realtà come Termini Imerese dovrebbe passare attraverso l'allestimento di impresa pubblica senza scopo di lucro volta a operare in settori virtuosi dal punto di vista della sostenibilità ecologica: nuovi trasferimenti di denaro pubblico a operatori privati motivati dal profitto e dalla crescita è un paradosso frutto di un modello culturale che assume un ruolo meramente sussidiario del pubblico, quando sussidiario (ai sensi anche degli art. 41, 42 e 43 della Costituzione) dovrebbe essere quello del privato.
Negli anni della «fine della storia» il Nobel ultraconservatore James Buchanan ha indicato nella massimizzazione delle possibilità di essere rieletti la principale motivazione dei politici. Mentre un tempo dire a un politico: «Vuoi solo essere rieletto!» conteneva una nota di biasimo, oggi il pensiero dominante giustifica i continui tradimenti delle promesse di cambiamento (Obama docet), considerandoli passi necessari per la rielezione in un contesto dominato dalle corporations. Mi pare emerga così la natura del modello spurio fondato sul «contagio» politico e culturale fra pubblico e privato, in cui quest'ultimo apporta le sue motivazioni individualistiche, mentre il primo conferisce l'assicurazione contro il rischio d'impresa (too big to fail).
Possiamo osservare un rapporto inverso fra la dimensione di un'istituzione e la qualità del suo output. Grandi istituzioni, pubbliche o private che siano, tendono a risultati qualitativamente peggiori rispetto a piccole istituzioni. Il settore privato tende a crescere, per aumentare i profitti. Il settore pubblico viceversa presenta limiti di crescita strutturalmente collegati alla sua giurisdizione. In altre parole, mentre nel primo caso la fisiologia vuole una crescita quantitativa accompagnata da un declino qualitativo, nel secondo caso i limiti giurisdizionali possono essere tracciati e modificati al fine di governare il rapporto quantità/qualità. È cioè possibile ripartire da una organizzazione del pubblico che punti alla dimensione ideale valutata dal punto di vista della qualità dell'output, cosa strutturalmente impossibile per il privato. Un privato che gestisce l'acqua vorrà che se ne consumi di più e uno che gestisce prigioni vorrà che ci siano più prigionieri. Per questo il settore pubblico va salvaguardato dal contagio con la logica del profitto.
È in questo ambito che sono da valutarsi le diverse ipotesi di federalismo più o meno accentuato rese possibili dalla riforma dell' art. 117 della Costituzione. La valorizzazione del comune, con potestà fiscale autonoma in riferimento al governo del territorio, è desiderabile perché l'azione politica, più vicina ai cittadini, può essere maggiormente oggetto di valutazione qualitativa. La fiscalità comunale potrebbe retribuire adeguatamente funzionari locali capaci e meritevoli, innescando così un circolo virtuoso dal punto di vista del capitale sociale. D'altra parte i comuni, per dimensioni, tendono a essere deboli nei confronti di interessi privati anche di dimensioni relativamente modeste, il che comporta la necessità di rafforzare il livello politico-istituzionale sovraordinato. Amministrazioni regionali e soprattutto statali vanno a loro volta ri-armate a supporto dell'azione politica comunale e a tutela di quegli interessi «sovrani» la cui difesa deve essere rafforzata in quanto particolarmente appetibili per il grande capitale in virtù delle potenzialità di profitto monopolistico.
Un fiume di fango corre per l'Italia. Le sue acque sono alimentate soprattutto dal corpaccio immenso e immensamente ramificato dal centrodestra; ma il suo corso è talmente possente e impetuoso che, come suole, ha rotto gli argini e invaso i territori circostanti, quelli del centrosinistra, dai quali, a loro volta, provengono al fiume principale rivoli, ruscelli, scarichi obbrobriosi e maleodoranti (Bologna, Firenze, Abruzzo, Roma, Napoli....). Altro che Tangentopoli! Quello era - o sembrava - un fenomeno circostanziato e dunque particolare di corruzione di una frazione del ceto politico, fronteggiato da un forte schieramento delle forze politiche e della società civile. Oggi il fenomeno tende a generalizzarsi, abbatte i confini fra società politica e società civile, non incontra ostacoli altrettanto significativi di allora, si configura dunque come un carattere speciale, peculiare, della società nazionale italiana in questa fase storica.
La corruzione, a dir la verità, è sempre stata un connotato molto peculiare del modo d'essere nazionale italiano. Un paese dalle strutture politiche e civili estremamente fragili e dall'arrendevole senso etico-politico non poteva non coltivare la corruzione come un indispensabile e insostituibile strumento di sopravvivenza. La dominante cattolica ha fatto il resto: nulla è impossibile o illecito in un paese in cui qualsiasi colpa, qualsiasi peccato, purché confessati a chi di dovere, diventano redimibili (lo spiega benissimo non un qualsiasi miscredente arrabbiato ma Alessandro Manzoni ne I promessi sposi, nei quali, beninteso, contrappone la sua ricetta, fatta, oltre che di fede in Dio, di rigore e di osservanza dei principi, più protestante, a dir la verità, che cattolica, ma tant'è). In certi momenti speciali la corruzione esplode (perché la corruzione esplode, esplode sempre; bisogna vedere quel che succede poi). Ricordate Pirandello, le pagine impressionanti de I vecchi e i giovani, che a distanza più o meno d'un secolo sembrano scritte esattamente per il nostro oggi? «Dai cieli d'Italia in questi giorni piove fango, ecco, e a palle di fango si gioca; e il fango s'appiastra da per tutto, su le facce pallide e violente sia degli assaliti sia degli assalitori... Diluvia il fango; e pare che tutte le cloache della città si siano scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma debba affogare in questa torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia» (Pirandello dimostra fra l'altro che, per disegno e deprecazione della corruzione d'impronta democratica, in certe condizioni storiche si poteva anche diventare fascisti). Poi, scaricata provvisoriamente l'incontenibile soppurazione, l'infezione lenta e inesorabile riprende.
Perché Lui è popolare
Di nuovo oggi c'è che, forse per la prima volta nella nostra storia, si sono verificate una mirabile saldatura e una prodigiosa coerenza tra le forme, lo spirito e l'etica del potere e le forme, lo spirito e l'etica della società circostante. Anzi, alla domanda che spesso ci è stata burbanzosamente rivolta, com'è possibile che quest'Uomo riscuota tanto consenso, considerando la gravità e il numero delle colpe di cui viene accusato, forse una risposta sul piano storico comincia a delinearsi. Quest'Uomo è così popolare non nonostante le sue colpe ma in virtù di quelle. Una parte non piccola del popolo lo ama perché Lui lo interpreta, ne lusinga tutte le tentazioni di corruttibilità e di un radicato, anzi congenito indifferentismo morale, gli spiega che le leggi esistono per essere aggirate, contraddette, ignorate, nega oltraggiosamente il potere della giustizia, attacca i magistrati, fa capire che se ne potrebbe senza difficoltà fare a meno, mostra con l'esempio lampante della propria vita e del proprio cursus honorum che bisogna sempre e senza eccezioni farsi gli affari propri, evidenzia coram populo e senza alcuna vergogna che esistono una coerenza rigorosa e un'inarrestabile osmosi fra vizi privati e pubbliche nefandezze. Insomma, a capo corrotto nazione infetta, e, ovviamente, viceversa. Tutte queste cose, poi, in un paese come l'Italia, dove esistono tre fra le più potenti organizzazioni criminali al mondo (camorra, 'ndrangheta, mafia) - le quali a loro volta, com'è ovvio, traggono alimento anch'esse sia da quel diffuso bisogno di sopravvivenza sia dalla risposta corrotta intorno dominante - piacciono almeno a una parte abbastanza consistente dei cittadini da garantirgli una sicura maggioranza in Parlamento: quella maggioranza che a sua volta assicura che l'impunità continui e anzi si rafforzi, in un perfetto circolo vizioso che effettivamente ha pochi eguali al mondo, e che proprio perciò qualcuno altrove potrebbe essere tentato d'imitare.
Il ceto politico corrotto
E intorno? Intorno, a cerchi concentrici s'allarga la serie variegata delle risposte. La corruzione, come sistema di potere e forma di vita, stinge solo poco a poco, molto lentamente. Nei cerchi più vicini, sebbene formalmente non suoi, l'esempio e l'insegnamento dell'Uomo hanno attecchito e continuano a essere ben presenti. Voglio precisare una cosa: è della politica che parlo, non delle stravaganti esibizioni da parte di qualche transessuale brasiliano (fango, certo, sempre fango, ma della specie più miserabile e bassa). Da questo punto di vista è corrotta in nuce ogni politica che agisca sulla base d'interessi personali o di gruppo: è corruzione, nel suo senso più alto e significativo, l'autoreferenzialità spinta della politica, il suo preoccuparsi pressoché esclusivamente della preservazione e perpetuazione del ceto politico (di destra o di sinistra, non importa), che la rappresenta e gestisce. Questo è il varco, apparentemente innocuo, da cui penetra ogni ulteriore nefandezza, bisognerebbe tenerne più conto.
Da questo punto di vista (continuo il ragionamento), si salva davvero poco oggi in Italia. Dopo la recente, peraltro prevedibilissima, virata dell'astuto Tonino, il quadro si è ulteriormente semplificato. La galassia della sinistra radicale si sforza più o meno di sopravvivere indenne sul filo dell'onda fangosa che tutto travolge: anche lei, in fondo, pensa soprattutto a non sparire. Si riorganizza unitariamente, magari con ambiziosi programmi di rinnovamento, solo là dove viene spinta a calcinculo fuori dalla rappresentanza che conta: altrove s'adatta o collude.
Ma c'è chi resiste
E allora? In questa sommaria ricostruzione storica sarebbe sbagliato - e ingiusto - non rammentare che alcune istituzioni costruite nei decenni precedenti resistono. Resiste la magistratura. Resistono le forze dell'ordine: polizia, carabinieri, guardia di finanza. Basta pensarci un momento: se non ci fossero né l'una né le altre, saremmo in piena dittatura sudamericana. Resiste una parte del sindacato. Resistono, come ho avuto modo di dire più volte, meritandomene in cambio sberleffi e dileggio, la scuola. E resistono milioni di italiani, che stanno fuori di ogni sistema della corruzione e ragionano e operano sulla base di principi e valori e non d'interessi e affermazioni personali, ma non sono politicamente rappresentati, oppure, se lo sono o credono di esserlo, avvertono con disagio crescente di esserlo in forma imperfetta e sempre più compromissoria.
In Italia le grandi crisi, anche quelle indotte da un eccesso intollerabile di corruzione, sono sempre state affrontate e risolte dall'esterno. Anche la prima Tangentopoli è stata affrontata e risolta dall'esterno, anche se era un esterno che veniva dall'interno, la magistratura italiana: la politica già allora non ci sarebbe mai riuscita da sé. Oggi al contrario è la magistratura che da sola non può farcela, perché il sistema della corruzione è troppo coeso e potente, va dall'alto in basso e dal basso in alto, senza smagliatura alcuna (le dimissioni in questo paese non esistono più neanche di fronte all'evidenza più disgustosa: infatti, se una sola fosse data o una sola accettata, tutto il castello di carte verrebbe giù d'un colpo solo). Siccome è lecito dubitare che le armate anglo-americane siano in procinto di scendere nella penisola per aiutare i resistenti indigeni a restituire al paese libertà, verità, onestà e giustizia, l'ipotesi più probabile è che i cerchi meno compromessi con il sistema della corruzione si mettano d'accordo fra loro per salvare il salvabile, affidandone il compito a uno di questi uomini slavati e impenetrabili, privi di ogni carattere ma passabilmente astuti, abituati da una vita a danzare sul filo, e che precisamente il sistema della corruzione ha consentito salissero così in alto nonostante la loro mediocrità così palese.
Si cercherà cioè di affrontare il male maggiore con il male minore, in attesa che il giro ricominci. Desolante. Ma anche molto, molto italiano.
Martin Decu, operaio romeno di 47 anni, il 26 giugno del 2008 è stato ucciso dall'esplosione di un capannone a Scarlino, nel grossetano. Lavorava allo smaltimento di rifiuti, bombolette spray esauste. Smaltimento illecito, dicono le cronache giudiziarie. Martin, probabilmente, neanche lo sapeva e anche avesse saputo che quell'operazione era illecita avrebbe comunque obbedito al padrone, la Agrideco, che quel lavoro gli aveva affidato. Certamente l'operaio non sapeva che quei rifiuti e tanti altri smaltiti illecitamente da quelle parti venivano dal sito contaminato di Bagnoli, né sapeva che la porcheria che stava trattando aveva firme prestigiose, come Marcegaglia e Lucchini, né che il materiale che l'ha ucciso era targato Ferriere di Trieste e area portuale di Ravenna. Il saperlo, del resto, non avrebbe dato un senso alla sua morte. Forse, se l'origine di quello smaltimento fosse stata conosciuta, avrebbe avuto qualcosa di più di una notizia sulle pagine toscane del manifesto. Ma ormai, in era globalizzazione liberista, nessun lavoratore è in grado di ricostruire la filiera produttiva di cui è un anello, a Termini Imerese come a Scarlino.
Una quindicina di arresti e 61 indagati. Nell'elenco c'è il fior fiore del capitalismo italiano, a partire da da Steno Marcegaglia, presidente dell'onorata ditta omonima e padre della presidente di Confindustria. Un suo laboratorio avrebbe taroccato le analisi sui prodotti tossici da smaltire, per altro illecitamente. Poi c'è di mezzo Lucchini, altro nome importante della storia industriale prima bresciana poi italiana. E altri ancora.
Scarlino, Trieste, Bagnoli. E poi Ravenna, Piombino, e via producendo, inquinando, smaltendo lungo tutto il Belpaese. In una nota il gruppo Marcegaglia precisa che «i dirigenti interessati dalle indagini non ricoprono più da tempo gli incarichi originariamente loro conferiti». Questo sì che ci tranquillizza.
Quando Martin fu ucciso dall'esplosione nel capannone della Agrideco, la locale Rifondazione comunista aveva denunciato «l'avidità di guadagno» della ditta che costringeva i dipendenti a lavori illegali e pericolosi. Reagì indignato un gruppo di questi dipendenti, in difesa del padrone. Morale: quando viene meno il conflitto sociale e il capitale la fa da padrone, perdono - anche la vita - gli operai. E perde l'ambiente, cioè perdiamo tutti noi.
È bene chiamare le cose con il loro nome: stiamo vivendo una crisi di regime. Dalla quale si esce con una rifondazione della Repubblica secondo una lettura dinamica dei principi della Costituzione o, al contrario, abbandonando quei principi, con una rottura che porta, appunto, a un mutamento di regime. Negli ultimi tempi, infatti, si sono moltiplicate le dichiarazioni di chi esplicitamente sostiene la necessità di mutare i fondamenti della Costituzione, a cominciare dal suo articolo 1. Non bisogna sottovalutare questi atteggiamenti, considerandoli esuberanze personali: si commetterebbe lo stesso errore fatto quando si è derubricato il linguaggio razzista di molti politici a folklore.
Ma vi sono anche prese di posizioni apparentemente più moderate, che prospettano aggiramenti dei principi costituzionali che possono rivelarsi ancor più insidiosi degli attacchi diretti. Molti continuano a dire che la prima parte della Costituzione non si tocca, che principi e diritti fondamentali non sono in discussione. Ma la Costituzione affida la garanzia dei diritti alla libera valutazione del Parlamento e al controllo di una magistratura indipendente. Nel momento in cui la voce del Parlamento viene spenta (lo abbiamo visto con il processo breve) e si prospettano radicali riforme costituzionali della magistratura, ecco che l´apparenza è quella di un rispetto della prima parte della Costituzione, la sostanza è quella di una sua erosione. La riforma costituzionale è già in atto, nel modo più inquietante.
Parlando di modifiche costituzionali, bisogna partire da alcuni punti fermi. Il primo dei quali riguarda il fatto che la Costituzione non è tutta "disponibile" per qualsiasi scorreria di interessati riformatori. Nel 1988 la Corte costituzionale lo ha detto esplicitamente: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», perché «appartengono all´essenza dei valori sui quali si fonda la Costituzione». Siamo di fronte all´indecidibile, a un limite che non può essere superato «neanche dalla maggioranza e neanche dall´unanimità dei consociati». Una considerazione, questa, da tenere ben presente in un tempo in cui l´appello alla maggioranza viene continuamente adoperato per legittimare qualsiasi iniziativa. E si deve aggiungere che tutto questo trova il suo fondamento profondo nell´articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Questo non vuol solo dire, banalmente, che non si ammette il ritorno ad un regime monarchico. Poiché la forma repubblicana del nostro Stato risulta dall´insieme dei principi contenuti nella Costituzione, tutto quel che altera questo quadro porta con sé una violazione radicale della Costituzione, e un conseguente passaggio da regime politico ad un altro.
Intraprendendo un cammino di riforma in un clima culturale e politico degradato com´è quello attuale, bisogna anzitutto individuare gli ambiti legittimi di una eventuale revisione. Gli studiosi sottolineano proprio questa necessità, ricordando ad esempio che la riforma del Parlamento non può trasformare la nostra Repubblica da parlamentare in presidenziale o negare l´effettiva rappresentatività della democrazia italiana (lo ha fatto Gianni Ferrara). Allo stesso modo, e più radicalmente, non si può mettere in discussione «il valore del lavoro come base della Repubblica democratica» (sono parole del Presidente della Repubblica), perché questa non è una affermazione a sé stante, ma individua un principio sul quale s´innesta una tutela forte della persona, per quanto riguarda la sua «esistenza libera e dignitosa» (articolo 36) e l´inviolabilità della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Queste sono parole dell´articolo 41, che in questi fondamentali principi individua un limite all´iniziativa economica privata, limite da tempo ritenuto inaccettabile da una critica che vuole sovvertire la gerarchia costituzionale, mettendo mercato e concorrenza al posto del lavoro. Ma proprio le drammatiche vicende di Rosarno dovrebbero dimostrare la straordinaria attualità della linea indicata da quell´articolo. Infatti siamo di fronte a una impressionante storia di sfruttamento e di negazione dell´umano, che conferma la necessità di mantenere, e eventualmente di rafforzare, il principio che fa prevalere sulle ragioni del mercato il rispetto della persona del lavoratore, della sua libertà, dignità, sicurezza.
Continue, poi, sono le prese di posizione che, alterando la gerarchia costituzionale, negano il fondamentale principio di eguaglianza. Di nuovo la questione degli immigrati è un buon terreno di verifica. Molti giudici hanno sollevato la questione di legittimità delle nuove norme sull´immigrazione clandestina. Reagendo a questa iniziativa, si è sostenuto che, qualora la Corte le dichiarasse incostituzionali, si avrebbe una sorte di estinzione della Repubblica italiana come Stato, poiché essa perderebbe una prerogativa fondante della statualità, cioè il diritto di regolare quel che avviene sul proprio territorio. Questo atteggiamento è rappresentativo della revisione "strisciante" della Costituzione. Ricordiamo, allora, che il Presidente della Repubblica, in una lettera a Maroni e Alfano nello stesso giorno in cui emanava la legge sulla sicurezza, esprimeva «perplessità e preoccupazione» per alcune norme di «dubbia coerenza con i principi dell´ordinamento», riferendosi specificamente anche alle norme sull´immigrazione clandestina. Le eccezioni di costituzionalità avanzate dai magistrati riguardano la ragionevolezza di quelle norme e il loro rispetto del principio di eguaglianza. La cittadinanza, infatti, è ormai vista come l´insieme dei diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, superando proprio le angustie del criterio della territorialità. Non si può ammettere quindi, che una repubblica democratica neghi il principio di eguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali in relazione al modo in cui si è entrati sul suo territorio.
Esplicite o striscianti, dunque, sono molte le mosse che incitano a revisioni costituzionali che incidono sui principi, fornendo così la testimonianza di un cambiamento di regime che si vuole imporre, o almeno secondare. Quanto, poi, al presunto invecchiamento d´una Costituzione votata sessant´anni fa, vorrei ricordare una recentissima sentenza del Conseil Constitutionnel francese, che ha dichiarato incostituzionale una legge per la sua scarsa comprensibilità (quante leggi italiane reggerebbero a un simile controllo?) richiamando gli articoli 4, 5, 6 e 16 della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789.
L´obbligo di una esplicita riflessione culturale e politica sugli intoccabili fondamenti costituzionali è oggi ancor più ineludibile perché siamo di fronte a quello che si può definire un vero "risveglio costituzionale". Molti cittadini cercano e realizzano forme di organizzazione e di azione partendo appunto dalla Costituzione. Questo riconoscimento ci parla di vitalità della Costituzione, quella che ha nel sentire dei cittadini il suo più solido fondamento. Qui può radicarsi una vera opposizione al mutamento di regime. Vogliamo tenerne conto?
Su Repubblica di alcuni giorni fa, Roberto Saviano ha detto che gli immigrati di Rosarno sono stati coraggiosi contro i clan,«più coraggiosi di noi» (italiani). Coraggiosi lo devono essere perché non hanno nulla da perdere se non quel poco che riescono a mettere insieme per spedire a casa e per sopravvivere in qualche modo qui. Perché abituati a essere sempre a rischio, senza reti protettive alcune: non le autorità del governo dal quale fuggono (e che spesso li perseguita), non la legge del paese dove lavorano che gli è spesso nemica come troppe volte gli sono nemici gli abitanti del paese straniero, per i quali lavorano per un pugno di centesimi e dai quali sono visti come a metà tra il bestiale e l´umano. Gli immigrati sono clandestini anche quando formalmente non lo sono perché la loro clandestinità è rispetto alla società e alla cultura del Paese dove lavorano, non solo rispetto alla legge. Clandestini in senso totale: per la legge sono non esistenti e la loro invisibilità dà agli italiani una sorta di visto per impunemente sfruttarli, ingiuriarli, maltrattarli; essendo fuori della norma sono alla mercé di tutti, «nuda vita» come direbbe Giorgio Agamben.
Questa radicalità li mette, che lo vogliano o no, naturalmente faccia a faccia con i loro equivalenti nostrani di clandestinità: quegli italiani di ´ndrangheta, mafia e camorra che prosperano anche grazie alla clandestinitá formale e civile degli stranieri. Forza contro forza, benché, come abbiamo visto a Rosarno in questi giorni di ferro e fuoco, a perdere sono i clandestini non i fuorilegge nostrani; a perdere sono i piú deboli e piú esposti in assoluto, coloro che la legge dichiara perseguitati e verso i quali non resta indifferente né si fa tollerante.
Eppure, quando alzano la testa, quando rivendicano nelle forme della forza –poiché non ne hanno altre visto che la legge non consente loro voce e visibilità civile – il poco salario in nero e di fame che gli é stato promesso, quando sfidano i prepotenti dell´illecito lo fanno a viso aperto, ignari delle pratiche omertose: la loro violenza, certamente ingiustificata come deve esserlo sempre in una societá che è civile, è un grido di accusa alla nostra democratica Italia. Poiché la loro condizione di radicale e totale sfruttamento ingrassa i nemici della legge e della societá civile. Quegli immigrati dovrebbero essere visti come amici della democrazia, se non altro perché mostrano con tremenda efficacia quanto grave sia l´affare dell´illecito nel nostro paese – un affare che trasmigra dalle terre d´origine e giunge come abbiamo visto in questi giorni nella Pianura Padana, in Emilia-Romagna. L´illecito travolge gli argini. È questo il pericolo che ci deve fortemente preoccupare e che la disperata reazione degli immigrati mette in luce.
Le vicende di Rosarno riportano alla mente le lotte di Giuseppe Di Vittorio contro il caporalato, la tratta dei bambini e delle donne nelle campagne del Tavoliere. Anche allora la sfida era tra legalitá e illegalitá. Di Vittorio era pugliese e a sette anni e mezzo giá bracciante; a dodici si trovó coinvolto in una sparatoria della polizia nella quale morí un suo coetaneo, Ambrogio, durante una dimostrazione di braccianti che chiedevano un salario, non un pugno di soldi. Di Vittorio non combatteva per eliminare gli avversari ed era contro la violenza; combatteva per cambiare le relazioni sociali e le regole. I suoi avversari erano gli affaristi dell´illecito, coloro che non si facevano scupoli di ricorrere alla violenza per contrastare l´unione sindacale dei braccianti, ovvero la trasformazione del conflitto da ribellione violenta (che giustificava la repressione) a contestazione civile: poiché, allora come oggi, operare sotto la legge implicava rendere pubblico ciò che per profitto dei clan doveva restare sommerso e invisibile.
I braccianti che organizzò Di Vittorio vivevano come topi in tuguri malsani e scioperavano per una razione extra di «acqua salsa» con la quale bagnare il pane secco. Erano gli antenati naturali dei clandestini di oggi. Con una differenza che rende l´emergenza di oggi piú grave e preoccupante: poiché se a caricare e a sparare sui braccianti erano allora la "guardia regia" o i carabinieri della repubblica, oggi sono i cittadini stessi, manipolati spesso da una propaganda che ha avuto addirittura ispiratori in partiti che governano il Paese; una propaganda che come un vento pestilenziale è capace di generare terribili cose dove la via della legge è giá di per sé molto impervia e spesso collassata. Di Vittorio aveva compreso che la lotta contro il caporalato e l´illecito era imprescindibile non solo o tanto per i cafoni del Sud, ma per la democrazia italiana; poiché il sistema che sostiene il caporalato è nemico totale del governo della legge, senza possibilità di compromessi, e perché alimenta un sistema affaristico che non conosce frontiere regionali.
Qui una biografia di Giuseppe Di Vittorio
Dicono che ci faranno una piazza, al posto del campo di Rognetta raso al suolo da una ruspa. Dovrebbero intitolarla all'umanità perduta. Dicono che qualcuno degli africani di Rosarno, prima di salire sull'autobus diretto a Crotone o a Bari o chissà dove, abbia lasciato scritto «We'll be remembered, we'll not forget» nel campo in cui viveva. Nemmeno noi dimenticheremo. La sopravvivenza sotto la soglia dell'umano in quei campi. La rabbia violenta che sola dà voce all'umano quando tutto gliela toglie. Il marchio disumano, per chi la fa prima che per chi la subisce, della caccia al negro, e poi della deportazione, e poi delle colonne in attesa di ricovero nei campi di accoglienza. E quella ruspa a siglare la fine: l'ordine è stato ristabilito.
Non è vero. Non c'è ordine dopo queste immagini. Il caso non è chiuso, la vergogna non è consumata, il territorio non è riconquistato, il debito non è saldato. Tutto invece si spalanca, quando la posta in gioco è l'umano, e tutto ci interroga. E niente, ma proprio niente, può ricominciare come prima. Farebbe bene a pensarci, il Senato della Repubblica, prima di ascoltare, oggi, il Ministro degli Interni riferire sul caso Rosarno. Perché non è solo Maroni ad aver travalicato il segno della decenza prendendo per intollerabile non le condizioni dei migranti ma la loro accoglienza. È tutta la classe politica italiana, l'opposizione in primo luogo, a giocarsi la faccia se su quelle immagini manderà a sua volta le ruspe. Ci sono le regionali, c'è il dialogo sulla giustizia, the show must go on: questo sì che sarebbe intollerabile.
Nemmeno provino, maggioranza e opposizione, ad alimentare la gara già in corso su svariate testate a chi si scopre più razzista, se il Nord leghista o - sorpresa! - il Sud pronto a diventarlo. I fatti di Rosarno, innescati dai rampolli della 'ndrangheta, preceduti da una lunga prova di convivenza e circondati da esperienze esemplari di accoglienza, hanno una dinamica che poco lo consente. Provino piuttosto a pensare, se ci riescono, a questo. Mentre per vent'anni la classe politica italiana si è dilettata di questione settentrionale, facendo dell'area più ricca del paese la vittima della globalizzazione, dell'immigrazione, della società del rischio e dell'ansia, nel Sud la globalizzazione penetrava con la sua faccia più feroce, quella della nuova schiavitù e dell'illegalità criminale organizzata. Si chiama capitalismo postnazionale, attizza focolai di guerra civile globale a Rosarno come a Calais come a Dubai e nessuna ruspa viene mai mandata né a raderlo al suolo né a civilizzarlo. La ruspa che rade al suolo la Rognetta, invece, racconta una storia lunga mezzo secolo: di industrializzazione promessa e mancata, di emigrazione dolorosa ieri e di immigrazione dolorosa oggi, di territori lasciati alla speculazione, al cinismo mafioso e ai compromessi col cinismo mafioso. Ferite dell'umano, mentre lo show andava avanti.
C'è la cronaca dei fatti, e ci sono fatti che interrompono la cronaca, la sospendono, domandano un salto, segnano un prima e un dopo. Dopo Rosarno, lo show non può andare avanti come prima. Può però tragicamente precipitare, se quella ruspa, quella caccia al negro e quelle deportazioni venissero riconosciute anche per un solo momento come precedenti attendibili della via italiana all'ordine. Occorre urgentemente fare disordine. Lo sciopero degli immigrati è la prima occasione che ci attende. Non per aiutarli, ma per farci aiutare da loro a dire no.