Ricordate George Orwell e la «neolingua» che compare nel suo "1984"? Parole manipolate per soddisfare le «necessità ideologiche» del regime, per «rendere impossibili altre forme di pensiero». È esattamente quello che è accaduto ieri al Senato della Repubblica, che ha battezzato come «dichiarazioni anticipate di trattamento» il loro esatto contrario, cancellando ogni valore vincolante del documento con il quale una persona indica le sue volontà per il tempo in cui, essendo incapace, dovesse trovarsi in stato vegetativo permanente. Sarà inutile seguire un tortuoso iter burocratico, da ripetere ogni tre anni, perché con esso si approderà semplicemente al nulla. E la maggioranza dei senatori ha fatto la stessa operazione battezzando come sostegno vitale l’alimentazione e l’idratazione forzata contro l’opinione larghissima del mondo medico internazionale che le considera trattamenti. È lo stesso consenso informato, uno dei grandi risultati civili del tempo recente, perde il suo valore fondativo del diritto di costruire liberamente la propria personalità. Il sequestro di persona, di cui ha parlato ieri Adriano Sofri, ha trovato il suo compimento. Missione compiuta, potrà dire il presidente del Consiglio al cardinale Bagnasco a tre giorni appena dall’ingiunzione dei vescovi a chiudere senza indugi e senza aperture la discussione sul testamento biologico.
È con grande amarezza che scrivo queste parole. Non si sta parlando di una vicenda marginale, ma del modo in cui si stanno delineando i rapporti tra le persone ed uno Stato che, abituato da sempre a legiferare sul corpo della donna come «luogo pubblico», rende ora «pubblici» i corpi di tutti, li fa tornare sotto il dominio del potere politico e si serve abusivamente della mediazione dei medici, di cui viene restaurato un potere sul corpo del paziente che era stato cancellato proprio dalla «rivoluzione» del consenso informato. Ora non sarà più la persona a decidere per sé. Altri lo stanno facendo, e lo faranno, al suo posto. Dov’era un «soggetto morale», quello nato appunto dall’attribuzione a ciascuno del potere di accettare o rifiutare le cure, troviamo di nuovo un «oggetto».
Non è solo una questione di costituzionalità, allora, quella che si è ufficialmente aperta. È una questione di democrazia, perché stiamo parlando del modo in cui si esercita il potere. Sono in discussione il diritto all’autodeterminazione e i limiti all’uso della legge.
Torniamo così alla costituzionalità del testo appena approvato, di cui la maggioranza appare sicura probabilmente perché alla Costituzione e alla sue logiche si mostra sostanzialmente estranea, come provano molte vicende degli ultimi tempi, e dei tempi meno recenti. Ma la Costituzione e i suoi guardiani sono ancora lì. Alla maggioranza conviene far sapere che, mentre si arrabattava in tutta una serie di espedienti legali per impedire che avesse attuazione la sentenza della Corte di Cassazione sull’interruzione dei trattamenti a Eluana Englaro, la Corte Costituzionale (sentenza numero 438 del 23 dicembre 2008) scriveva le seguenti parole: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Da qui bisogna partire già in questi giorni, mentre il disegno di legge passa dal Senato alla Camera. Non è retorica dire che il punto forte è costituito dal sentire delle persone, testimoniato da tutti i sondaggi, da quelli appunto sulle decisioni relative al morire a quelli sull’uso del preservativo, che mostrano non solo una distanza netta dalle posizioni delle gerarchie vaticane, ma soprattutto una consapevolezza profonda della libertà e della responsabilità che devono accompagnare le scelte di vita. Ai deputati bisogna far sentire la voce di questo paese, che la maggioranza politica non ascolta, chiusa com’è nelle sue convenienze e nei suoi ideologismi, e che il Partito democratico rischia di non sentire, lasciando così senza avere rappresentanza parlamentare proprio un mondo che potrebbe essergli vicino.
E’ davvero singolare che chi s’indigna per la messa a nudo dei politici attraverso le intercettazioni, e addirittura parla di complicità dei giornali in turpi linciaggi, non trovi le parole per protestare contro l’uso che viene fatto dei volti di due romeni, Alexandru Isztoika Loyos e Karol Racz, arrestati il 17 febbraio per lo stupro di una minorenne nel parco della Caffarella. Quei volti ci si accampano davanti a ogni telegiornale, e hanno qualcosa di cocciuto, invasivo, conturbante: da ormai un mese ci fissano incessanti, nonostante il Tribunale del Riesame abbia invalidato l’accusa dal 10 marzo, e le analisi del Dna abbiano scagionato i loro proprietari già il 5 marzo. Se ne son viste tante, di gogne: questa è gogna di due scagionati.
Parliamo di proprietari di due volti perché la faccia ci appartiene, è parte del nostro corpo inalienabile. Così come esiste dal Medioevo un habeas corpus, che è il divieto di sequestrare il corpo in assenza di imputazioni chiare, esiste in molti codici quello che potremmo chiamare l’habeas vultus, l’habeas facies: il diritto alla tua immagine anche se sei indagato (articolo 10, codice civile). L’abuso in genere non avviene per gli italiani sospetti di violenza sessuale. Per i romeni è diventata norma, anche se non ce ne accorgiamo più.
Il loro viso è sequestrato, strappato con violenza inaudita, e consegnato senza pudore ai circhi che amano le messe a morte del reietto.
Habeas facies è un diritto che non ha statuto ma è in fondo anteriore all’habeas corpus. In alcune religioni (ebraismo, islam) il volto è sacro al punto da non dover essere ritratto. Vale per esso, ancor più, quello che Giorgio Agamben scrisse anni fa sulle impronte digitali: «Ciò che qui è in questione è la nuova relazione biopolitica “normale” fra i cittadini e lo Stato. Questa non riguarda più la partecipazione libera e attiva alla dimensione pubblica, ma l’iscrizione e la schedatura dell’elemento più privato e incomunicabile: la vita biologica dei corpi. Ai dispositivi mediatici che controllano e manipolano la parola pubblica, corrispondono i dispositivi tecnologici che iscrivono e identificano la nuda vita: tra questi due estremi - una parola senza corpo e un corpo senza parola - lo spazio di quella che un tempo si chiamava politica è sempre più esiguo e ristretto» (Repubblica, 8 gennaio 2004). Agamben aggiunge: «L’esperienza insegna che pratiche riservate inizialmente agli stranieri vengono poi estese a tutti».
Il pericolo dunque riguarda tutti. Quando si comincia a denudare lo straniero, ricorrendo al verbo o all’occhio del video, è il cruento rito del linciaggio che s’installa, si banalizza, e l’abitudine inevitabilmente colpirà ciascuno di noi. Lo ha scritto Riccardo Barenghi il 3 marzo su questo giornale («Alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione?») quasi parafrasando le parole del pastore antinazista Martin Niemöller: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari - e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici . Poi un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
Il linciaggio ha inizio con una svolta linguistica, cui ci si abbandona non senza voluttà perché il linciaggio presuppone la muta ardente e la muta non parla ma scaraventa slogan, non dà nomi all’uomo ma lo copre con sopra-nomi, epiteti che per sempre inchiodano l’individuo a quel che esso ha presumibilmente compiuto di mirabile o criminoso. Racz diventa «faccia da pugile». Isztoika riceve un diminutivo - «biondino» - che s’accosta, feroce, al diminutivo che assillante evoca le vittime (i «Fidanzatini»). Sono predati non solo i volti e i nomi ma quel che i sospetti, ignorando telecamere, dicono in commissariato. Bruno Vespa sostiene che le intercettazioni «sono una schifezza» e rovinano la persona, ma non esita a esibire una, due, tre volte il video dell’interrogatorio in cui il romeno confessa quel che ritratterà, trasformando la stanza del commissariato in sacrificale teatro circense come per inoculare nello spettatore la domanda: possibile mai che Isztoika sia innocente? Lo stesso fa l’Ansa, che più di altri dovrebbe dominarsi e tuttavia magnifica gli investigatori perché hanno condotto «un’indagine all’antica: decine di interrogatori di persone che corrispondevano alle caratteristiche fisiche delle belve» (il corsivo è mio).
Avvenuta la svolta linguistica il danno è fatto, quale che sia il risultato delle indagini, e i sospettati girano con quel bagaglio di nomignoli, slogan. Rita Bernardini, deputato radicale del Pd, evoca il bieco caso di Gino Girolimoni, il fotografo che negli Anni 20 fu accusato di omicidi di bambine e poi scagionato («Il fascismo dell’epoca trovò il capro espiatorio per rasserenare la cittadinanza di allora e dimostrare che lo Stato era più che efficiente e presente»). Ancor oggi, c’è chi associa Girolimoni all’epiteto di mostro. Damiano Damiani nel ’72 ne fece un film, Girolimoni - Il mostro di Roma, con Nino Manfredi nella parte della belva. Non riuscendo più trovare un posto, Girolimoni perse il patrimonio che aveva e cercò di sopravvivere aggiustando scarpe e biciclette a San Lorenzo e al Testaccio. Morì nel ’61, poverissimo. Ai funerali, nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura, vennero rari amici. Tra questi il commissario Giuseppe Dosi, che aveva smontato le prove contro l’accusato: azione avversata da tutti i colleghi, e che Dosi pagò con la reclusione a Regina Coeli e l’internamento per 17 mesi in manicomio criminale. Fu reintegrato nella polizia solo dopo la caduta del fascismo.
Anche se scagionata, infatti, la belva resta tale: più che mai impura, impaura. La sua vita è spezzata. Così come spezzati sono tanti romeni immigrati che l’evento contamina. Guido Ruotolo, su questo quotidiano, fa parlare la giornalista Alina Harhya, che lavora per Realitatea Tv: «Ma da voi non vale la presunzione d’innocenza? Le forze di polizia non dovrebbero garantire il diritto? E invece viene organizzata una conferenza stampa in questura e si distribuiscono le foto, i dati personali, dei presunti colpevoli. Non ce l’ho con la stampa italiana, sia chiaro. Però questo è un fatto. Qui da voi si fa la rivoluzione se un politico viene ripreso in manette e invece nessuno protesta quando si sbatte il mostro romeno in prima pagina» (La Stampa, 3 marzo). Ancora non sappiamo di cosa siano responsabili Isztoika e Racz, ma i motivi per cui restano in carcere appaiono oggi insussistenti e, se i romeni saranno scagionati del tutto, le loro sciagure s’estenderanno ulteriormente: proprio come accadde a Girolimoni, mai risarcito dallo Stato che l’aveva devastato.
La polizia di Stato può sbagliare: è umano. Ma se sbagliando demolisce una vita e un volto, non bastano le parole. Se la comunità intera s’assiepa affamata attorno al capro espiatorio, occorre risarcire molto concretamente. Iniziative cittadine dovrebbero reclamare che i falsi colpevoli non siano scaricati come spazzatura per strada. Nessun privato darà loro un lavoro: solo l’amministrazione pubblica può. Occorre che sia lei a riparare il danno che gli organi dello Stato hanno arrecato.
Se non si fa qualcosa per riparare avrà ragione Niemöller: non avendo difeso romeni e zingari, verrà il nostro turno. Tutti ci tramuteremo in ronde - politici, giornalisti, cittadini comuni - per infine soccombere noi stessi. Le trasmissioni di Vespa sono già una prova di ronda. Le parole di Alessandra Mussolini (deputato Pdl) già nobilitano e banalizzano slogan razzisti («Certo, non è che possono andare in galera se non sono stati loro, ma non cambia niente: i veri colpevoli sono sempre romeni»). Saremo stati falsamente vigili sulla sicurezza: perché vigilare è il contrario dell’indifferenza, del sospetto, e dei pogrom.
La grande finanza, con la sua ingordigia, ha corroso l'economia reale e la vita delle persone. Ma la crisi di oggi non è partita nel 2007: risale almeno agli anni Novanta, allo scoppio delle prime «bolle». Rendendo evidente l'esigenza di un controllo, che deve essere politico e sovranazionale
«Ha presente gli animal spirits imprenditoriali di cui ci parla John Maynard Keynes nella sua Teoria Generale? L'economista di Cambridge si riferiva allo spirito libero che avrebbe dovuto ispirare l'azione dell'attività imprenditoriale. Oggi quell'immagine suggestiva di Keynes fa venire i brividi se si pensa alla sua metamorfosi. A cosa mi riferisco? Non vorrei essere troppo crudele ma oggi se devo pensare agli animal spirits della nostra epoca mi vengono in mente i banchieri. Purtroppo questi moderni animal spirits, senza alcun controllo, hanno spinto l'economia mondiale sull'orlo del più grande disastro degli ultimi decenni. Le fornisco soltanto un dato piuttosto impressionante di questo disastro: a causa dell'azione combinata dei nostri animal spirits, dal giugno 2007 alla fine del 2008 la perdita degli asset dei fondi pensione negli Usa è di 1,3 trilioni di dollari. Un dato devastante che dimostra quanto la finanza abbia corroso l'economia reale e la vita delle persone».
Il professor Guido Rossi, come al solito, non bada a spese quando si tratta di essere severi, affila le parole come fossero sciabole, e lancia fendenti dolorosissimi. Prima di proseguire nella sua requisitoria sulle ragioni della crisi che sta mutando l'economia del pianeta, si fa spazio tra le decine di libri che occupano il tavolino del salotto di casa e estrae il suo ultimo lavoro pubblicato dall'Adelphi. Il titolo di copertina è duplice: sopra c'è John Maynard Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti, e sotto c'è il suo saggio. Il titolo è identico ma è accompagnato da un angoscioso punto di domanda: «Possibilità economiche per i nostri nipoti?». L'occhio cade sull'ultima pagina del libro: «La Fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto e dai suoi derivati, come il supercapitalismo evocato da Reich».
Sono parole che non hanno bisogno di tanti commenti: mi pare che lei pensi a una crisi di sistema, o sbaglio?
Non c'è dubbio. Siamo di fronte a una crisi epocale e di sistema. Una crisi che ha dei punti di non ritorno. Le difficoltà economiche di oggi non possono essere risolte come in passato ma richiedono nuovi assetti istituzionali, nuovi equilibri, un diverso rapporto tra Stato ed economia. Dobbiamo renderci conto che è arrivato il momento di mettere a nudo i limiti dell'economia di mercato globalizzata. D'altronde lo stesso Adam Smith aveva capito che il mercato andava inserito in un sistema di controlli. I liberisti? Nel 2000 e ancor prima credevano di aver conquistato il mondo. «E' finita l'deologia è iniziata la libertà», gridavano ai quattro venti. In realtà la vera ideologia era la loro ed è quella ideologia che ha registrato un clamoroso fallimento.
C'è chi ha fatto dei paragoni con la grande crisi del '29. Lei che ne pensa?
Attenzione, la crisi del 1929 fu molto diversa. Fu una crisi strisciante che durò anni. La caduta iniziale delle Borse non fu così drammatica ma i ribassi dei valori dei titoli continuarono fino al 1933 quando ci si rese conto che il valore di Borsa si era ridotto di tre quarti rispetto al 1929. Il New Deal di Roosevelt nacque proprio per gestire la grande depressione e ancora nella seconda metà degli anni 30 negli Stati Uniti si assisteva al crollo del Pil e a una caduta dei profitti. Io credo che la la crisi del '29 fu purtroppo risolta dalla seconda guerra mondiale. Solo allora si uscì dalla grande depressione.
E la crisi attuale?
La crisi attuale non è partita nel 2007. Le basi di quello che sta accadendo ora vengono poste alla fine del millennio passato con la bolla della new economy. Si scopre che il sistema economico e finanziario mondiale è un insieme di grandi bolle speculative che prima o poi esplodono con effetti drammatici. Nel 2000 poi scoppia l'altro fenomeno che caratterizza la nostra epoca: il debito pubblico. E proprio all'inizio di questo millennio che torna l'nstabilità dei mercati di keynesiana memoria. E con l'instabilità si fa sempre più gigantesco il deficit degli Stati Uniti. Un deficit, si badi bene, che viene finanziato in gran parte dai paesi asiatici e in particolare dalla Cina. Ecco l'intreccio tra est e ovest che molti osservatori hanno sottovalutato. Ma all'inizio del 2000 si verifica il fenomeno più grave della storia economica recente: inizia una totale, forsennata e irresponsabile deregolamentazione. Anche in questo caso gli effetti sono gravidi di conseguenze: gli animal spirits dei banchieri prendono il sopravvento e sul mercato vengono messi prodotti ad alto rischio. Come ha detto Warren Buffett le banche e i banchieri hanno inventato prodotti e strumenti finanziari che si sono rivelati armi di distruzione di massa. C'è una grave responsabilità in tutto ciò e non sappiamo se mai qualcuno pagherà per i guasti che sono stati fatti al sistema.
Mi pare che il guaio vero sia che gli animali della finanza abbiano infettato anche l'economia reale. Non è così?
Certo che è così. L'esempio dei fondi pensione è drammatico da questo punto di vista. Lì non si tratta semplicemente di un crollo di titoli azionari, in quel caso dietro la caduta di corsi di Borsa ci sono le liquidazioni di milioni di persone messe a rischio dalle belve selvagge. Chi sono le belve selvagge? E' una definizione efficace con la quale Martin Wolf definisce la finanza moderna: una giungla abitata da belve selvagge. Ora io credo che per il futuro non sarà più possibile immaginare un sistema economico interamente dominato dalla finanza. Lei mi chiede come mai malgrado le iniezioni di liquidità immesse nel sistema dai governi la crisi persiste e si aggrava. Io le rispondo che oggi il problema non è più quello della liquidità ma quello dell'insolvenza delle grandi imprese industriali e bancarie. Il virus è ormai insediato nell'economia reale. Oggi paghiamo i costi dell'illusione liberista. L'illusione che nel mercato del lavoro, ad esempio, si potesse risolvere la crisi con un equilibrio spontaneo del mercato. Keynes l'aveva già capito: la disoccupazione è uno dei sintomi dell'instabilità permanente del capitalismo.
Come si esce dal questa crisi?
Intanto dobbiamo sapere che il centro di gravità del mondo è cambiato, si è spostato dagli Stati Uniti alla Cina. Gli Stati Uniti hanno dominato per anni ma ora hanno soltanto il primato del deficit puublico, mentre la Cina è il paese che possiede assieme ai paesi asiatici la maggior parte dei titoli del debito pubblico americano. Io credo che un'utopia possibile sia una sorta di Commonwealth composto da Cina Europa e Stati Uniti in grado di ricucire il sistema finanziario mondiale. Io penso ad esempio a un authority internazionale sui mercati finanziari. Per far ciò è assolutamente necessario che ci sia un ritorno del ruolo degli Stati e dunque del primato della politica sull'economia, altrimenti sarà un disastro. Non possiamo permetterci la memoria corta. La crisi del '29 ebbe come sbocco drammatico gli Stati totalitari in Italia e Germania e poi la seconda guerra mondiale. Se vogliamo evitare catastrofi di quelle dimensioni dobbiamo immaginare un nuovo multilateralismo in grado di controllare e gestire la crisi.
C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.
Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.
Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.
Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.
I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II - con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista - sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».
I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione - o trasvalutazione - dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi - pur discordando - deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti. Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.
La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il "puro rendiconto".(...) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».
Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti
Vedi anche Valori e principi secondo Gustavo Zagrebelsky
Dall’ambiente al fisco. Dal lavoro alla criminalità Come un paese, fra violazioni e inadempienze, scende molti gradini nella scala della civiltà. Da vent’anni è noto che il 17 per cento del Pil è prodotto dall’economia sommersa Il triplo di ciò che accade nelle società sviluppate. Le strade che escono da Roma o da altre grandi città sono affiancate per chilometri da case costruite senza licenza
Si possono utilizzare diverse immagini allo scopo di definire il nocciolo del caso Italia. Tra le tante ho scelto l’immagine d’una società che con i suoi comportamenti collettivi si pone molto al di sotto della lex, la Legge con la maiuscola, quel sistema di rapporti tra individui e collettività che è considerato un elemento essenziale della condizione civile nell’età moderna ed ha il suo sommo nella Costituzione. Nella lunga scala che porta a una condizione civile la società italiana ha salito molti gradini, ma altri ne ha discesi. Al presente si colloca forse a uno dei livelli più bassi della sua storia, non foss’altro perché i rapporti che la legge dovrebbe regolare onde far procedere la società verso una ideale condizione civile diventano sempre più complessi.
Vi sono vari modi per restare al di sotto della lex, la legge in generale. Il primo consiste nella violazione in massa delle particolari leggi in vigore. Un secondo va visto nell’evitare di elaborare leggi che da generazioni sono pubblicamente riconosciute come indispensabili. Un terzo si materializza nella elaborazione di leggi incivili, nel senso che ostacolano, piuttosto che favorire, la salita della scala che porta una società a una condizione civile. Un ultimo modo consiste nel non attuare le leggi che ove lo fossero porterebbero espressamente in tale direzione, a partire da vari articoli della Costituzione concernenti il lavoro. Tratterò in breve dei primi tre, per soffermarmi poi più ampiamente sull’ultimo.
La violazione di leggi vigenti compiuta in massa dai cittadini abbraccia diversi capitoli. Tra i principali vanno collocati il controllo del territorio esercitato dalla criminalità organizzata; la devastazione del territorio stesso ad opera di comuni cittadini mediante costruzioni abusive; l’evasione fiscale, e la corruzione. Il monopolio dell’uso della forza spetta soltanto allo Stato, ricorda dottamente qualche ministro dopo ogni fatto di sangue. Tuttavia chiunque svolga una qualsiasi attività economica nel territorio a sud del 41° parallelo, si tratti d’un piccolo negozio o d’una grande impresa, d’un cantiere minimo per riparare un muro o di lavori autostradali, sa benissimo che si tratta come minimo di un duopolio, e che il secondo polo è assai più pervasivo, minaccioso e rapido nell’agire punitivamente che non il primo. Ora, la presenza d’un potere territoriale che si contrappone collocandosi, in termini di forza, quasi sullo stesso piano allo Stato era nota, discussa in Parlamento e oggetto di leggi, un buon secolo addietro. Domanda: la società, lo Stato, la politica non sanno, oppure bisogna concludere che non vogliono, riappropriarsi di un terzo del territorio nazionale?
Quanto all’evasione fiscale come pratica collettiva: da vent’anni è noto che circa il 17 per cento del Pil italiano è prodotto dall’economia sommersa. Che esiste anche in altri paesi, ma la quota ad essa imputabile da noi è almeno tripla tra le società sviluppate. Nell’economia sommersa lavorano circa due milioni di persone fisiche in posizione totalmente irregolare, più un milione di "unità di lavoro" statistiche formate da tre milioni di persone che svolgono un secondo lavoro non dichiarato. Il 17 per cento del Pil vale oggi 270-280 miliardi. L’evasione fiscale e contributiva è stimabile in circa 90 miliardi sottratti ogni anno a scuola, sanità, previdenza, infrastrutture. In realtà l’ammontare dell’evasione è assai superiore, perché ad essa andrebbe aggiunta la quota dovuta al 50 per cento delle società di capitali che ogni anno dichiara di non avere avuto utili; alle banche e alle imprese che hanno centinaia di sussidiarie in paradisi fiscali create per sfuggire al fisco; alla manipolazione da parte delle medesime dei cosiddetti prezzi di trasferimento tra società facenti capo alla stessa holding; alle legioni di professionisti, commercianti e artigiani che dichiarano per intero il fatturato della loro microimpresa, e però redditi personali trascurabili. In qualunque altro paese dell’eurozona, per non parlare degli Stati Uniti, forse la metà dei contribuenti italiani sarebbe sotto processo per frode fiscale. (...)
La devastazione economica e civile operata sul territorio dalla criminalità organizzata è visibile - stragi a parte - soltanto a chi deve a piegarsi ad essa. È invece visibile a tutti la devastazione fisica e paesaggistica del territorio operata dall’abusivismo edilizio, cui collaborano efficacemente milioni di cittadini e migliaia di imprese. Non v’è quasi regione, tratto di costa, o valle alpina che siano stati risparmiati. Le strade che escono da Roma come da altre grandi città sono affiancate per decine di chilometri, in ogni direzione, da case abusive. Sul totale Italia, si presume siano centinaia di migliaia le costruzioni fuori legge che sono state condonate; altre sono in paziente attesa. Tutto ciò ad onta del fatto che i pubblici poteri non abbiano mancato di far sentire la loro forza: negli ultimi anni, infatti, circa l’1 per cento delle costruzioni abusive è stato demolito.
La devastazione compiuta dagli abusi del costruire è stata accentuata ed estesa dall’assenza di leggi ad hoc: ossia leggi sulla pianificazione territoriale e sulla la gestione idrogeologica del territorio. Chiunque percorra la penisola non può che giungere ad una conclusione: gli italiani hanno collettivamente fatto del loro paese il più brutto d’Europa. Lo hanno anche reso il più pericoloso per quanto riguarda inondazioni, allagamenti, incendi, frane e ogni genere di crolli. (...)
Tra i dispositivi di legge che, ove fossero attuati, farebbero invece salire la società italiana verso una condizione più civile vi sono gli articoli della Costituzione compresi nel Titolo III. Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni li ha ignorati, se non anzi formalmente violati. La sola proliferazione dei contratti atipici, ormai una quarantina, appare in contrasto con ciascun articolo del predetto titolo. Si prenda l’art. 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». La riduzione del reddito conseguente all’alternanza di periodi di occupazione e disoccupazione nel corso dell’anno, propria dei lavori atipici, e fatta drammaticamente risaltare dalla crisi in corso, contrasta con il primo comma di detto articolo, così come la direttiva della Commissione Europea, recepita dai governi italiani, la quale non stabilisce, ma lascia intendere che la giornata lavorativa possa essere allungata sino a 13 ore. Oppure si veda l’art. 41: «L’iniziativa economica privata� non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; il sistematico venir meno delle sicurezze dell’occupazione, del reddito, della previdenza e delle altre, connaturato alla diffusione delle occupazioni precarie, è in palese conflitto con tale articolo. O si legga ancora l’art. 46: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Tale forma di collaborazione dei lavoratori alla gestione delle aziende è in realtà oggi resa impossibile, in forme pur minime, dalla frammentazione dei processi produttivi, e dalla concomitante moltiplicazione delle tipologie di contratto e di categoria d’appartenenza che si oggi ritrova in ogni azienda. Resta da chiedersi quando mai l’attuazione delle indicazioni programmatiche del titolo III della Costituzione troverà posto nell’agenda della politica italiana.
Quella che si sta consumando sotto i nostri occhi è la crisi della democrazia parlamentare. La crisi di quella originale e unica forma di democrazia che i moderni hanno con fatica e anche tragiche interruzioni costruito mettendo insieme istituzioni e meccanismi politici che non sono di per sé democratici: le elezioni, la rappresentanza, la costituzione, le carte dei diritti, la divisione dei poteri. A questi strumenti istituzionali si sono aggiunti i partiti politici, istituzioni ibride che vivono e crescono fuori dello Stato pur consentendo alle istituzioni dello Stato di funzionare e, soprattutto, di essere rappresentative. I partiti sono forse l’aspetto più moderno e anche più controverso del governo dei moderni.
Identificati fin dal Settecento con le fazioni, come a sottolineare la loro tendenza a subordinare il bene comune a interessi di parte, i partiti hanno tradizionalmente destato diffidenza e ostilità. Non è un caso se i padri fondatori del parlamentarismo liberale ottocentesco, del quale ci parlava Carlo Galli su queste pagine, idealizzassero un parlamento composto di personalità rappresentative perché ottime e capaci, ma non di rappresentanti politici. E’ nota la durissima critica di J. S. Mill al partito politico (benché egli poi preconizzasse l´articolazione della politica nazionale in un campo conservatore e un campo progressista, anticipando suo malgrado la divisione ideologica tra destra e sinistra); la sua convinzione che occorresse un sistema elettorale capace di selezionare i migliori, proprio perché tali, non perché espressioni di interessi di parte. Rielaborando da Edmund Burke, Mill pensava che i migliori sapessero che cosa fosse il bene generale senza bisogno di piegarsi alle pressioni dei cittadini. Non stupisca questa diffidenza verso i partiti: i parlamenti liberali ottocenteschi erano eletti da una piccolissima minoranza di elettori simili e anzi identici negli interessi, al punto di potersi permettere il lusso di pensare di usare il parlamento come un simposio platonico, dove solo le buone ragioni, il libero scambio delle idee e l’indipendenza di giudizio avrebbero dovuto operare. Il mito del parlamento come luogo di discussione disinteressata e oggettiva tra individui eccellenti è figlio di un sistema politico non democratico.
Il parlamento liberale ottocentesco non ha pressoché nulla a che fare con il parlamento democratico. E la ragione principale sta nel fatto che contrariamente a questo, esso poteva sopravvivere senza i partiti (proprio perché espressione di un corpo elettorale socialmente e culturalmente omogeneo). Ma quando il suffragio cessò di essere un privilegio di pochi e diventò un diritto egualmente distribuito tra tutti, le differenze sociali e di opinione si resero immediatamente visibili e spesso non superabili con la libera discussione razionale. Il parlamento cominciò a popolarsi di "avvocati" di interessi spesso contrapposti, a volte nobili (per il suffragio femminile o per la conquista dei diritti sociali) a volte meno nobili (a favore di interessi corporativi) a volte terribili (a favore di ideologie totalitarie). La fine del parlamentarismo liberale si è consumata al principio del Novecento, allorché appunto i partiti dimostrarono di essere loro, non gli individui rappresentativi idealizzati da Mill, i dominatori dell’agone politico, dentro e fuori il parlamento. La democrazia parlamentare fu l’esito del difficile ma necessario accomodamento dei partiti alla politica costituzionale e dei diritti.
Pensatori politici autorevoli si scagliarono contro i partiti nel nome dell’unità plebiscitaria del corpo politico (come fu il caso di Carl Schmitt), oppure li accettarono pragmaticamente ma con la prospettiva di vederli liberi da ideologie o identità ideali forti e quindi disposti a fare compromessi e mutare di posizione (come fu il caso di Hans Kelsen e, per una parte della sua militanza intellettuale, di Norberto Bobbio). Dunque, anche quando se ne comprese l’importanza o ci si arrese alla loro utilità pratica, i partiti non vennero per questo emancipati dalla pessima reputazione che li aveva per secoli dannati e rimasero, ha scritto di recente Nancy Rosenblum, "orfani di teoria", sopportati ma mai ritenuti una forma nobile di politica.
Pochi compresero appieno la loro centralità nella democrazia parlamentate. Tra questi Lelio Basso (uno dei nostri rari pensatori democratici) il quale si impegnò con tenacia a mostrare come, quando il sovrano democratico perde lo scettro (perché non vota più le leggi direttamente) deve poter contare su forme di partecipazione che, benché informali e non esenti da rischi oligarchici, sappiano incidere sulle istituzioni: proponendo leggi, organizzando l’opposizione, esercitando il controllo sui parlamentari, tendendo viva la presenza simbolica dei cittadini. Per contro, la crisi della democrazia parlamentare è un riflesso di quella dei partiti.
E’ questa la crisi nella quale versa oggi la nostra democrazia. Senza partiti: o perché quelli che governano sono proprietà o emanazione di un potentato economico; o perché quelli che sono all’opposizione si stanno sbriciolando nei mille rivoli dei notabilati, lacerati da lotte intestine di carrieristi e oligarchie. In nessuno dei due casi possono svolgere quella funzione di sorveglianza e rappresentanza preconizzata da Basso. Nel primo caso perché il partito è qui un fatto essenzialmente proprietario, quindi un’anomalia vera e propria che spiega, tra le altre cose, la ragione per la quale l’esecutivo ha acquistato tanto prevaricante potere in Italia (e perché il capo del governo può togliere voce al parlamento e rendere la sua maggioranza un megafono senza autonoma personalità).
Nel secondo caso (che riguarda il partito di opposizione) perché il partito soffre di una debolezza di identità ideale e di autorevolezza politica con la conseguenza di svilire la partecipazione e la stessa vita parlamentare, di alimentare anziché arginare i diffusi sentimenti anti-politici.
Senza i partiti, il parlamento democratico cessa di essere rappresentativo della società e i parlamentari diventano rappresentanti di se stessi e di gruppi di amici e clienti, mentre viene meno ogni forma di controllo sugli eletti (la deprecata disciplina di partito è stata una forma tutt’altro che perversa di realizzare il mandato politico contenendo il potere degli eletti, la sua scomparsa spiega il caso Villari o i casi regionali che ben conosciamo). I nemici dei partiti sono tanto coloro che invocano il partito del capo (plebiscitarismo) tanto coloro che idealizzano parlamenti senza partiti. In entrambi i casi è il parlamento democratico (la democrazia rappresentativa) a perdere di autorità e di valore, a languire per l’aria mefitica provocata da partiti che non sono più tali.
Francesco Raparelli e Augusto Illuminati sono stati prodighi di elogi per il numero speciale di MicroMega «Un'onda vi seppellirà», ma hanno trovato del tutto sbagliato, e perfino contraddittorio con il resto del volume, il mio editoriale di apertura «Rivolta o ideologia» (il manifesto del 31 Dicembre 2008). Spero che il loro apprezzamento per il numero (della cui realizzazione il merito va in primo luogo a Emilio Carnevali e Cinzia Sciuto), così caldo e motivato, ne aiuti la circolazione tra gli studenti e sia il nostro piccolo contributo alle tenuta, al rilancio, alla crescita del movimento.
Quanto al merito dei nostri dissensi, che non vanno diplomaticamente ridimensionati ma certamente chiariti: la questione principale è l'analisi della figura sociale dello studente nell'ambito di una più generale analisi delle nuove figure produttive - e sfruttate - (il «general intellect»), del capitalismo postfordista.
Ora: l'università è anche il luogo di formazione di tutte le forme di lavoro precario che caratterizzano il capitalismo attuale, e lo studente è dunque anche il precario delle nuove forme di sfruttamento e dominio (per usare il linguaggio standard).Anche, ma non solo. Perché l'università è anche il luogo di riproduzione di tutte le figure sociali dominanti e collaterali e domestiche dello sfruttamento. È insomma anche (e magari soprattutto) il luogo di riproduzione dell'establishment. Dei «padroni» e manager e di tutti gli apparati di repressione, controllo, mediazione, consenso, che mantengono in vita il sistema. Non riconoscere come essenziale questa funzione dell'università significa rovesciare ogni materialismo e immergersi nel più puro idealismo sociologico (una contraddizione in termini). Significa immaginare uno sfruttamento senza sfruttatori, un dominio senza dominanti, o far discendere l'establishment dal cielo.
Se dunque l'università è il luogo in cui si riproducono tutte le figure sociali, contraddittorie e antagoniste, e non solo quelle multiformi del precariato «general intellect», la figura sociale dello studente risulterà strutturalmente ambivalente. E in più sensi.
Tra precariato e establishment
Socialmente ci saranno studenti che (per semplificare) diventeranno establishment e studenti che diventeranno «general intellect», secondo linee che in larga misura replicheranno i ruoli delle famiglie di origine, ma in misura significativa segneranno invece mobilità da una classe all'altra (sempre per usare un linguaggio standard: e quasi sempre dalla sfruttata all'establishment), mentre la cultura che verrà trasmessa, sia per i contenuti che per i metodi, sarà un intreccio di addestramento a questi ruoli e di sapere critico capace di metterli in discussione, e si potrebbe continuare. Tutte queste ambiguità e ambivalenze passano anche, potenzialmente, all'interno di ogni singolo studente, diviso tra prospettive di integrazione/carriera nell'establishment, forme diverse di sfruttamento, ecc.
Ecco perché una analisi meramente «produttivistica» della figura sociale dello studente mi sembra quanto di più idealistico vi sia, e mi sembra ripeta, quasi alla lettera, mutatis mutandis, lo stesso errore che veniva fatto dalle componenti «operaiste» del movimento studentesco del '68. Dell'altro ideologismo, di matrice più classicamente marxista-leninista, che Raparelli stesso critica, non mi sono occupato perché non mi sembra abbia possibilità di effettiva influenza, dato il carattere francamente arcaico delle analisi.
Se dunque lo studente è una figura sociale ambivalente, perché transitoria, la scelta etico-politica di ciascuno, e del movimento nel suo complesso, diventa elemento cruciale per la sua tenuta e il suo futuro (l'elemento di «soggettivismo», sempre per usare il linguaggio standard: rivoluzionario o riformatore che tale «soggettivismo» sia,). Del resto, non si capirebbe altrimenti perché settori consistenti del mondo studentesco non partecipino alle lotte, e anzi le combattano, e si schierino politicamente a destra. Per dirla brutalmente, «sfruttato» e «sfruttatore» nello studente potenzialmente convivono, poiché convivono possibili futuri (benché le chance per ciascuno singolarmente preso siano tutt'altro che eguali, come è ovvio).
Le asimettrie di potere
Se si guarda perciò materialisticamente allo studente e alla sua ambivalenza, e all'ambivalenza del sapere che nelle università viene trasmesso, ne scaturiscono conseguenze (problematiche) sia per i rapporti con altre opposizioni repubblicane nella società sia per la questione della «autoriforma» dell'università dal basso.
Della «autoriforma» parte essenziale dovrebbe già essere la «autoformazione», che Augusto Illuminati considera diversa in linea di principio dai controcorsi del '68 (imputando a Carnevali e Sciuto di aver invece evidenziato la continuità tra i due fenomeni).Ora, «autoformazione» non può essere una sorta di parola magica, un abracadabra che al momento di realizzarsi tecnicamente o fallisce o si riempie di modalità e procedure che ne vanificano gli intenti. Ma la formazione contiene sempre un elemento irriducibile e ineludibile di trasmissione del sapere. Potrà avvenire in forme pedagogiche e di «potere» ex-cathedra radicalmente diverse dalle attuali (esistono elaborazioni sull'argomento affascinanti, soprattutto di matrice anarchica, dagli asili di infanzia all'università), ma l'elemento di trasmissione, e relativa asimmetria tra docente e discente, sussisterà, quali che siano le forme nuovissime inventate. Ma sono proprio queste forme che mi sembra non vengano analizzate affatto, per la difficoltà di affrontare la pietra di inciampo dell'asimmetria del sapere. E del significato diverso che nei vari rami tale asimmetria può avere (in fisica delle particelle e in etruscologia è diversa che in «Storia del reality», che prima o poi diventerà un corso).
La formazione, insomma, potrà essere più o meno critica, più o meno partecipata e seminariale, più o meno «cattedratica», ma non potrà mai essere «auto», pienamente democratica, come una grande repubblicana, Hannah Arendt, ha spiegato infinite volte. Chiarire in che modo ciò si differenzi davvero dai controcorsi, in che modo implichi pedagogie nuove della trasmissione del sapere, in che modo debba cambiare il ruolo del docente, che strutturalmente non sarà mai eguale allo studente se non in una retorica che si accontenta di parole, è quanto il movimento ancora non ha fatto (semmai lo ha cominciato, ma soprattutto tra i ricercatori e i dottorandi di alcune facoltà scientifiche).Vedo insomma il rischio, micidiale per il movimento, che «riconquistare democraticamente le grandi istituzione del welfare» rimanga una formula suggestiva, un appagamento emotivo, non uno strumento materialistico di lotta.
I fronti di lotta
Del resto, realizzare una riforma non è neppure il compito essenziale di un movimento di studenti. Se non si trasformano assetti cruciali della società, e in essi della ricerca, dell'informazione, del diritto, ecc., il destino dello studente sarà sempre di diventare in larga misura un precario, in altra misura (anch'essa assai larga) un membro dell'establishment nei suoi vari settori e livelli gerarchici, e solo in casi privilegiati, e socialmente poco rilevanti (epperciò tollerati dal sistema), un lavoratore che nella sua stessa attività lavorativa non si troverà scisso dai suoi «diritti del cittadino» e dall'esercizio della sua porzione di «sovranità popolare», solennemente ricamati nella Costituzione ma calpestati e vilipesi nella sfera della vita reale (e sempre più anche in quella «astratta» della politica).
Ecco perché io ritengo essenziale, per il futuro del movimento, che sappia collegarsi-a, ri-animare, suscitare, iniziative di lotta in altri settori e ambiti tematici (altromondisti, girotondi, piazzenavone, ecc., senza dimenticare la laicità, che il nuovo invito del rettore al Papa rende di stringente attualità).Sono solo accenni, che si prestano ad essere equivocati, e per approfondire i quali «MicroMega» ha avanzato al movimento la proposta, proprio tramite uno degli autori degli articoli, Francesco Raparelli, di una discussione pubblica all'Università. Che mi auguro avvenga nel vivo di una lotta di nuovo in corso.